Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL COGLIONAVIRUS

 

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

IL VIRUS

 

NEL MONDO

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali.

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

Fase 2: finalmente!

 “Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

·        L’epidemia ed il numero verde.

Simone Pierini per leggo.it il 10 marzo 2020. Il professore Federico Ferro Luzzi è tornato a Roma il 5 marzo da un viaggio di lavoro a Milano, prima dell'entrata in vigore del decreto che ha bloccato tutti gli spostamenti dalla Lombardia. L'ordinanza della Regione Lazio, in vigore da domenica, indicava l'obbligo di telefonare al numero verde 800118800 e di «osservare la permanenza domiciliare, il divieto di spostamenti». Poi l'aggiornamento di ieri sera con un questionario scaricabile sul sito della Regione Lazio.

Lei ha fatto così?

«Ho seguito tutte le indicazioni alla lettera. Dal momento dell'uscita dell'ordinanza mi sono rinchiuso in casa e ho provato a telefonare».

Le hanno risposto?

«È sempre occupato, ho tentato 127 volte. Solo in un caso ha risposto un disco automatico, pochi secondi dopo è caduta la linea».

E il nuovo questionario da compilare?

«Sì, ho provato a riempirlo tre volte ma alla fine della procedura mi usciva errore. Riproverò».

Ha avuto sintomi?

«No, sto benissimo. Sono in casa, vorrei solo sapere se posso uscire».

Cosa farà adesso?

«Se non riceverò notizie attenderò 14 giorni e poi uscirò».

Attese infinite, jingle, silenzi: la giungla dei numeri regionali. Abbiamo chiamato i numeri per l'emergenza di Regioni e Ministero: sapere cosa fare in caso di sintomi è impossibile. Rosa Scognamiglio, Lunedì 09/11/2020 su Il Giornale. Il 27 febbraio 2020, il ministro della Salute Roberto Speranza ha istituito il numero unico nazionale per l'emergenza sanitaria 1500, quello che sul sito del dicastero viene indicato come "di pubblica utilità". Al fine di agevolare il monitoraggio dell'epidemia in maniera più capillare sull'intero territorio sono stati poi attivati dei call center regionali a cui il cittadino avrebbe potuto rivolgersi per richiedere informazioni, sia di carattere generale che sanitario, sul coronavirus. Un'iniziativa senza dubbio encomiabile quella promossa dai vertici di Lungotevere Ripa ma che, ad oggi, si rivela un mezzo flop. Se non fosse, infatti, per la disponibilità e cortesia degli operatori arruolati, tutto si potrebbe dire tranne che la trovata sia sta risolutiva nella risposta meramente assistenziale alla pandemia. Anzi, è un disastro su tutta linea. Pur concedendo ogni possibile beneficio del dubbio – e di ampio margine di errore – nella prima ondata, quando del virus non si aveva altro che una comprensione sommaria, adesso si fa davvero fatica a capire il motivo per cui questi numeri non siano più sponsorizzati come qualche mese fa, allorquando rimbalzavano sotto i nostri occhi tra spot alla tivù e annunci social a tutte le ore del giorno. Insomma, sono ancora attivi? Funzionano? A cosa possono essere utili? La redazione de IlGiornale.it ha provato ad andare a fondo della questione contattando uno ad uno i recapiti telefonici elencati sul portale ministeriale. Ecco il risultato dell'esperimento.

L'indagine. Una premessa è d'obbligo. L'indagine è durata 24 ore spalmando le telefonate in un arco temporale ampio, ovvero, dalle 8 fino alle 20 e in misura dell'orario medio di attività dei contact center. Agli operatori sono state chieste informazioni sul Covid e, nello specifico, sulla possibilità di mettersi in lista per un tampone presso l'Asl territoriale di riferimento. Detto questo, e al di là del dato evidenziato nella breve ricerca, è necessario precisare che abbiamo simulato il comportamento di un qualunque cittadino che, in presenza di sintomi sospetti e non riuscendo a contattare il proprio medico di base, attinge ai numeri indicati sul sito del ministero della Salute. Infine, va detto che le testimonianze raccolte non hanno la pretesa di verità assoluta ma sono da intendersi come "spie" indicative l'inadeguatezza della rete assistenziale in un momento critico come quello che stiamo attraversando.

Nessuna risposta. Nella categoria dei "non pervenuti all'appello" si collocano Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio, Toscana, Piemonte, Sicilia e Valle d'Aosta. A seguito di svariati tentativi è stato pressoché impossibile stabilire un contatto con l'operatore. Il numero per l'emergenza in Abruzzo è di sola voce registrata e, dopo poco più di un minuto, la telefonata si interrompe. Lo stesso accade in Basilicata dove, successivamente all'annuncio di rito, seguono dei minuti di inquietante silenzio. Di male in peggio in Campania: il nastro fa riferimento "alla nuova epidemia Coronavirus in Cina" poi, il telefono squilla a vuoto per 15 minuti finché non decidiamo di riagganciare. "Sovraccarico" perenne delle linee per la regione Lazio dove il senso di smarrimento è totale. Stesso andazzo per il Piemonte in cui i 10 minuti di attesa sono accompagnati da un motivetto di 3 note a ripetizione che finiscono in un nulla di fatto. In Toscana e Valle d'Aosta in numeri di emergenza sono attivi in modalità "part-time" visto che dopo le 15 non è più possibile parlare con un operatore. Chiude il cerchio la Sicilia dove per "non perdere la priorità acquisita" c'è il rischio che finisca la pandemia.

Il numero "fantasma" delle Marche. Nell'elenco fornito dal ministero, per le Marche non è presente alcun contatto di riferimento. A quel punto, abbiamo immaginato che ulteriori informazioni fossero presenti sul sito della Regione. Ed effettivamente sì, ci sono. Ma di un eventuale numero per l'emergenza Covid neanche l'ombra. Scorrendo al fondo della pagina, però, viene indicato quello della sede regionale: chiamiamo. L'operatrice che aggancia la telefonata, gentilissima e cortese, ci dice che "quel numero è stato disattivato a maggio". Straniti dalla risposta chiediamo le motivazioni del disservizio dal momento che la pandemia sembrerebbe ancora in corso. La signora, che colpa non ha se non quella farsi carico delle irresponsabilità altrui, ribadisce ancora una volta: "è stato disattivato a maggio". Un numero fantasma?

Il dilemma del Molise. Ci sono poi quelle Regioni che fanno caso a sé stante come il Molise. Sì, perché non è neanche chiaro se all'altro capo del telefono ci sia un operatore del call center o qualcuno messo lì a ricevere le chiamate. Dopo solo due squilli risponde una signora – la chiamata è stata fatta verso le 18,30 – che a gentile richiesta di informazioni sul Covid dice che "gli uffici sono chiusi" poi ci abbandona ad un interminabile jingle fino a quando non siamo noi a riagganciare. Di dubbi tanti, di certezze nessuna. Uno solo il dilemma: di che uffici parlava?

I numeri operativi. In tutto questo gran trambusto di canzonette e silenzi, però, quei casi in cui la risposta è stata più che soddisfacente. Tra le regioni "promosse" vi sono Liguria, Calabria, Emilia Romagna, Umbria, Puglia, Sardegna, Veneto e Provincia Autonoma di Bolzano. Oltre a fornire indicazioni sul comportamento da mantenere in caso di sintomi sospetti, gli operatori sono in grado di offrire valide alternative qualora si avesse la necessità di fare un tampone e nell'eventualità in cui non fosse possibilità di contattare il medico di base. Scongiurando all'unisono iniziative personali, quali recarsi autonomamente al pronto soccorso ad esempio, il suggerimento è quello di interfacciarsi con il Dipartimento di Prevenzione territoriale o rivolgersi al medico di guardia. Ovviamente i tempi di attesa sono piuttosto lunghi ma, in ogni caso, rincuora sapere che non si è abbandonati al proprio destino. Una buona notizia, no?

In Lombardia i "medici di base sono spariti". Nulla da eccepire sul servizio in Lombardia. La telefonata è stata accolta in non più di dieci secondi da quando la voce registrata ha smesso di elencare le misure da rispettare in caso di sintomi sospetti. Ma la criticità da evidenziare è un altra. Alla richiesta di poter eseguire un tampone, in considerazione dell'impossibilità a contattare il medico di base, l'operatore ci suggerisce di telefonare alla guardia medica. Fin qui, nulla di strano. Se non fosse che poco dopo rivela trattarsi di una circostanza molto diffusa. "Passo le giornate a rispondere a telefonate di questo tipo. - spiega - Ci sono molte persone che lamentano di non riuscire a contattare il proprio medico. Non capisco cosa stia succedendo, sembrano che siano spariti". Che i cosiddetti medici di famiglia fossero irreperibili, in realtà, non è una notizia dell'ultim'ora. La scorsa settimana, Mario Balzanelli, presidente Società italiana Sistema 118 aveva denunciato la falla nella rete di risposta territoriale all'emergenza. "Non filtrano i casi lievi" aveva dichiarato nel corso di una intervista a La Nazione. Dato per certo che una spiegazione ci sarà sicuramente, sarebbe interessante sapere qual è. Insomma, dove sono finiti?

Tamponi "impossibili" nella provincia Autonoma di Trento. La chiamata viene filtrata dalla Protezione Civile. Non appena l'operatore ci risponde esponiamo il problema. Veniamo prontamente informati del fatto che il Dipartimento di Prevenzione "fa fatica a rispondere" a tutte le richieste in quanto "oberatissimo di lavoro". I tempi di attesa stimati per la presa in carico della richiesta per un tampone supererebbero addirittura i 5 giorni. "Purtroppo è un problema diffuso qui in Friuli. - spiega l'operatrice - Il Dipartimento dà priorità ai sintomatici e ai casi urgenti. Riceviamo telefonate di persone che aspettano di essere ricontattate da più di 5 giorni". L'alternativa sarebbe quella di rivolgersi ad struttura privata ma i costi, si sa, "sono esosi".

Il 1500. È il numero unico per l'emergenza operativo dallo scorso 27 febbraio. Chi riceve la chiamata risponde per conto del Ministero della Salute (lavorano in smartworking e ci tengono a precisarlo). I tempi di attesa sono pressoché nulli e un operatore dal tono rassicurante ci tranquillizza subito: "Se non ci sono sintomi, se non ha avuto contatti con una persona positiva e ha seguito tutte le indicazioni, non c'è alcun motivo di richiedere un tampone". Gli manifestiamo il nostro stato di apprensione dal momento che il numero dei contagi sembra in rapida risalita. La risposta seda tutte le preoccupazioni: "Va bene preoccuparsi ma restiamo coi piedi per terra" dice. Insomma, una speranza c'è sempre. Forse.

·        Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Da ilmessaggero.it il 3 novembre 2020. Nei Paesi più poveri e dove in generale ci sono condizioni igieniche peggiori e problemi di accesso all'acqua potabile, il tasso di mortalità legata al Covid è più basso. Lo affermano due studi (ancora non pubblicati) riportati dalla Bbc secondo cui a giocare un ruolo chiave sarebbe il sistema immunitario rafforzato degli abitanti di questi Paesi. Entrambi gli studi mettono a confronto i dati disponibili sui casi e sulla mortalità da Covid nel mondo, mettendoli a confronto con quelli che si riscontrano in India. Il Paese asiatico, rileva una delle due ricerche del Council of Scientific and Industrial Research, ha un sesto della popolazione mondiale e un sesto dei casi riportati di Covid-19. Tuttavia le morti sono meno del 10% del totale mondiale, con una mortalità inferiore al 2% che è tra le più basse. «Le persone nei Paesi più poveri sembrano avere una risposta immunologica migliore rispetto a quelli più ricchi», afferma Shekhar Mande, l'autore principale. Una spiegazione, suggerisce il secondo studio, potrebbe essere nell'esposizione maggiore in questi Paesi a batteri di tipo "gram negativo". Questi batteri possono causare polmonite grave e infezioni del tratto urinario e della pelle, ma fanno sì che l'organismo produca citochine, molecole che aiutano a combattere i patogeni, che potrebbero difendere dal coronavirus. La cosiddetta «teoria dell'igiene», che ipotizza una connessione tra allergeni e batteri protettivi non è comunque una novità: anzi, secondo vari esperti, «siamo al livello delle ipotesi più che delle dimostrazioni basate su evidenze»; ma per la BBC l'interrogativo resta: «Come mai in India ci sono state così poche morti?».

Dal Giappone all’Australia: ecco perché i contagi sono al minimo. Federico Giuliani su Inside Over il 27 ottobre 2020. Dal Giappone alla Nuova Zelanda, dalla Corea del Sud all’Australia, passando per Taiwan e Thailandia. Senza dimenticarsi di Cina, Vietnam e Cambogia. In Estremo Oriente, a cavallo tra l’Asia e l’Oceania, il Sars-CoV-2 sembrerebbe aver rallentato la propria corsa. I Paesi elencati sono la dimostrazione lampante della frenata dei contagi a queste latitudini. A Pechino e dintorni, salvo qualche focolaio sporadico (l’ultimo è scoppiato ieri nello Xinjiang, con 137 asintomatici scovati in uno stabilimento che produce indumenti) e i casi importati dall’estero, da mesi si registrano poche manciate di positività interne quotidiane. A Seul, archiviato il picco rilevato ad agosto (441 casi il 27 agosto), l’ultimo bollettino sanitario parlava di 61 nuove infezioni. Discorso simile anche per il Giappone, dove si rilevano meno di mille casi giornalieri dallo scorso 23 agosto. Situazione ancora più calma anche in Thailandia, Vietnam e Cambogia, con picchi massimi di qualche decina di infetti quotidiani dalla scorsa primavera. La Nuova Zelanda aveva perfino annunciato la vittoria contro il virus, salvo attuare nuove restrizioni a fronte di una ventina di casi. L’Australia ha sofferto a luglio e settembre, dove pure la curva epidemiologica non ha mai sfondato il tetto dei 750 casi, ma adesso anche Canberra si gode la sua quiete. Una domanda sorge dunque spontanea: perché in tutte queste nazioni i contagi sono al minimo il numero di decessi pressoché irrisorio?

Qualche precisazione. No, il virus non sparito dall’Asia e neppure dall’Oceania (prova ne sono ad esempio le situazioni che stanno attraversando Malesia, Indonesia e Bangladesh). Continua a circolare, proprio come avviene in Europa e negli Stati Uniti. La differenza sta tutta nel modo con cui i governi dei Paesi elencati hanno affrontato l’emergenza sanitaria. Certo, poi è necessario fare qualche precisazione. La Nuova Zelanda è un’isola che conta circa 5 milioni di abitanti e una densità piuttosto limitata (18 per chilometro quadrato). Vietnam, Cambogia e Thailandia potrebbero non esser riusciti a scovare tutti i casi reali presenti nei rispettivi territori a causa di importanti limiti sanitari e di un numero minore di test effettuati rispetto ad altre nazioni. La Cina meriterebbe un discorso a sé, per via di un particolare sistema politico unito a un retroterra culturale nel quale il bene della comunità prevale sull’individuo. Tralasciando tali particolarità, è interessante approfondire il discorso relativo al Giappone.

Il “segreto” di Tokyo. Il Giappone è stato agevolato nella lotta al coronavirus dall’abitudine della popolazione di indossare le mascherine. Un’abitudine, questa, ben radicata ancor prima che la pandemia di Sars-CoV-2 travolgesse il mondo intero. Ma, come ha inoltre sottolineato il Corsera, che ha citato una nota riportata sul sito dell’ambasciata di Tokyo in Italia, la vera intuizione del governo giapponese è stata quella di imparare il significato di “cluster di trasmissione“. Detto altrimenti, è di fondamentale importanza intervenire chirurgicamente su quei pochi gruppi che determinano un’altissima contagiosità nella società. Una volta individuati, questi gruppi devono essere isolati così da stroncare la catena dei contagi. Per aiutare le autorità sanitarie nell’impresa non deve mancare il supporto di un criterio di mappatura e incrocio dei dati (lo stesso, tra l’altro, adottato dalla Corea del Sud). E qui appare evidente il ruolo giocato dalle nuove tecnologie, tra cui l’intelligenza artificiale. È grazie a questo che Tokyo ha attuato un tracciamento retrospettivo su tutti i pazienti positivi (che ha permesso di ricostruire gli spostamenti del paziente prima di essere contagiato) e cercato di prevenire situazioni ad alto rischio. L’ampio ricorso al telelavoro ha infine evitato l’affollamento sui trasporti pubblici, scongiurando ulteriori contagi.

Antonio Socci, il mistero coronavirus: "Perché Cina, Giappone e Africa hanno avuto meno morti dell'Italia". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2020. «Non si capisce dove stiamo andando» ha dichiarato domenica Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, dopo l'ennesimo Dpcm di Conte. È l'impressione generale. E i costi di questa deriva sono altissimi. Le sole cose certe, concrete e utili che si dovrebbero fare, non si fanno. Sono in particolare due. Primo: curare subito a casa (invece di abbandonarli alla sorte) coloro che hanno primi sintomi non gravi di Covid con i farmaci efficaci (che ci sono) sulla base di un protocollo nazionale: queste cure precoci - dicono gli specialisti - scongiurerebbero aggravamenti, ricoveri, collasso di ospedali e pure morti. Secondo: predisporre un numero di letti adeguato nelle terapie intensive e nuove strutture con nuovo personale (cosa che non è stata fatta in cinque mesi: se ne parla ora). Sul primo punto, in queste ore, è stato il governatore veneto Zaia a intervenire decisamente: «Chiedo che a livello nazionale si stabiliscano protocolli di cura efficienti per la terapia domiciliare nei primi giorni perché sono quelli che ci evitano i ricoveri. E non parlo solo di cortisone» ha aggiunto «ma di altri principi attivi che hanno funzionato e che sono stati messi in discussione». Anche l'onorevole Armando Siri (Lega) ha chiesto «urgentemente» al governo di «premere su Aifa per sbloccare i protocolli di cura domiciliare per il Covid» invece di «dare il colpo di grazia all'economia italiana con l'ennesimo Dpcm» che insiste con «misure liberticide e catastrofiche per il lavoro». Per tutti questi mesi il governo, invece di occuparsi di come curare i malati, è andato a caccia di ristoranti, bar, discoteche e falò sulla spiaggia, dopo essersi dedicato a monopattini e banchi a rotelle. Cioè ha inseguito il nulla.

Strategia errata - Anziché occuparsi dei malati, ha concentrato tutte le attenzioni sulla ricerca dei cosiddetti "positivi", ma «il 95% dei positivi», com'è stato autorevolmente spiegato dal professor Giorgio Palù, «non ha sintomi e quindi non si può definire malato». Inoltre «è certo che queste persone sono state "contagiate", cioè sono venuti a contatto con il virus, ma non è detto che siano "contagiose", cioè che possano trasmettere il virus ad altri». Oltretutto il test non dà un verdetto sicuro e ci sono pure i casi di persone con sintomi (anche gravi come la polmonite interstiziale) che non sono positivi. Addirittura c'è chi si domanda se sia stata dimostrata la relazione di causalità fra il nuovo virus e la malattia, dal momento che, a quanto pare, il famigerato agente patogeno, a tutt' oggi, non è stato isolato, come invece si sarebbe dovuto fare subito. Gli specialisti spiegano che alla base di ogni strategia contro un'epidemia c'è l'isolamento del nuovo virus, la purificazione da altro materiale biologico e lo studio che dimostri la correlazione di esso con la malattia. Ma tutto questo non c'è stato se non in modo parziale. Così i test cercano qualcosa che non ha volto, non si sa cos' è, com' è fatto e come si comporta. Per questo i test non possono dare risultati certi. Anche per questo la sola, ossessiva, corsa ai positivi (per di più sempre in ritardo) non è risolutiva. Oltretutto questo virus ha un comportamento anomalo. Una pandemia dovrebbe comportarsi allo stesso modo nelle zone omogenee e dovrebbe avere alta letalità. Invece non c'è l'alta letalità e il suo comportamento è imprevedibile. Tre esempi. Nessuno ha ancora spiegato cosa sia successo in Cina. Sembra che là tutto sia improvvisamente e totalmente passato. Arrivano immagini e reportage da Wuhan che oggi mostrano vie e locali pieni di gente senza mascherine. Il Covid sembra scomparso anche secondo i dati ufficiali. Perché? Possibile che nessuno se lo chieda e nessuno dia spiegazioni?

L'esempio - Altro caso: il Giappone. È a due passi dalla Cina, ha 126 milioni di abitanti (il doppio dell'Italia), ha un'età media della popolazione molto alta, non ha adottato un duro lockdown e ha avuto solo 1.700 morti (contro i nostri 36mila). È vero che in Giappone è attivo un sistema di cure a domicilio per i "poco sintomatici" (quello che avrebbe dovuto fare da tempo l'Italia e non fa). Tuttavia c'è molto di strano e incomprensibile nei suoi dati epidemici. Ancora più strano è il caso del continente africano che è l'opposto del Giappone come organizzazione, mezzi e ordine sociale. L'Oms lì aveva previsto una vera catastrofe umanitaria, ma dopo otto mesi risulta il continente meno colpito del pianeta: su 1 miliardo e 300 milioni di abitanti in Africa le vittime per Covid sono 28.800 (meno della sola Italia che ne ha 36mila), sebbene i governi abbiano potuto fare ben poco (e di certo mascherine, gel igienizzanti e distanziamenti non sono molto abituali in quelle megalopoli). L'Oms applaude quegli Stati, ma non è merito di nessuno. Si dovrebbero piuttosto cercare le ragioni di queste anomalie del Covid. Troppi sono i punti oscuri e i dati dubbi o ignoti (anzitutto quelli dei morti per solo Covid). Intanto da noi si mette in ginocchio un'intera economia senza fondamenti scientifici certi e non si fanno le sole cose concrete che sono indispensabili per i malati.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? Annalibera Di Martino il 6 maggio 2020 su Notizie.it. Il coronavirus si sviluppa di più in alcune zone rispetto ad altre. Gli scienziati americani provano a dare una spiegazione elencando 4 fattori. Il coronavirus ha colpito i Paesi di tutto il mondo ma la distribuzione dell’epidemia non è stata la stessa su tutto il pianeta. Da cosa dipende? Gli esperti hanno individuato 4 cause.

Coronavirus, aumenta in alcuni Paesi: perchè? Dalla Cina passando per l’America, tutta l’Europa fino alle foreste amazzoniche. Il coronavirus è davvero arrivato ovunque, ma non allo stesso modo. Nella Repubblica Dominicana, ad esempio, i casi positivi sono stati 8 mila mentre ad Haiti, sulla stessa isola, solo 85. L’Indonesia è stata duramente colpita dal Covid-19, eppure la confinante Malesia ha registrato solo pochi morti. La stessa discrepanza si nota anche nelle grandi metropoli come Parigi, Londra e New York, quest’ultime hanno registrato un’impennata di casi, rispetto a Bangkok e New Delhi che, nonostante siano superaffollate hanno registrato un minor numero di morti. E poi c’è l’Italia che continua a registrare casi positivi ma sullo stesso suolo italiano si notano differenze di distribuzione della malattia.

Lo studio del fenomeno. Gli scienziati, nonostante i dati che arrivano dai censimenti per una pandemia siano imprecisi, hanno iniziato a studiare il fenomeno per vedere se si può risalire ad una causa scatenante in un Paese rispetto ad un altro. In America decine di esperti di malattie infettive, tra cui epidemiologi, virologi di diverse aree del mondo hanno collaborato per trovare una spiegazione a questa distribuzione diversificata nelle aree geografiche. Dall’indagine sono emersi condizionamenti dovuti a 4 fattori in particolare: caratteristiche demografiche; abitudini culturali; ambiente; governi.

La distribuzione della popolazione. Le popolazioni meno colpite dal coronavirus sono le più giovani. I medici hanno notato che il coronavirus si presenta con sintomi lievi tra i più giovani. Il decorso, rispetto ad una persona anziana, è più veloce. Per esempio, in Africa sono stati contati 50mila casi di coronavirus. Nonostante il numero spaventi, è contenuto per una popolazione intorno all’1,3 miliardi di persone. L’Africa è il continente più giovane, con il 60% di abitanti sotto i 25 anni. C’è sempre l’eccezione che conferma la regola, come in Giappone, il paese più anziano del mondo ma con un tasso di mortalità tra i più bassi. Ovviamente il numero è variabile perché, i dati vengono aggiornati costantemente e quindi, nel tempo potrebbero aumentare i numeri.

La cultura: Un altro aspetto legato alla diffusione del coronavirus è quello che riguarda le abitudini sociali. Anche il saluto può condizionare il contagio. In Giappone e Corea del Sud ci si saluta già da lontano, come in India ma non in Medio Oriente, non a caso con un alto numero di contagi. Qui il saluto avviene con una stretta di mano. Lo stesso vale per i Paesi europei e gli Usa. A questo va aggiunto il fattore turismo, con un’interazione tra i popoli ed il commercio. Per i Paesi con meno turismo ed apertura verso gli altri Stati si sono registrati meno casi di Covid-19. È il caso di Venezuela, Libia, Libano, Iraq e Siria. Anche gli scarsi trasporti, i servizi pubblici, paradossalmente, hanno favorito la non diffusione dell’epidemia, in quanto riducono la possibilità di contatto tra le persone.

Ambiente: L’epidemia è iniziata nelle stagioni più fredde, sia in Italia e Stati Uniti mentre, nelle zone più calde, come Guyana e il Ciad è rimasto assente con le elevate temperature. Gli esperti non credono che con l’arrivo del caldo si ridurrà il virus, in quanto si tratta di un’epidemia estremamente contagiosa che non può allentarsi con le alte temperature così facilmente. Il contagio, però, può essere ridotto in estate perché si tendono a frequentare posti all’aperto, meno ambienti chiusi e si usano mezzi individuali come la bici.

Le scelte dei governi: Le misure prese dai governi sono un altro fattore che può condizionare il coronavirus. Le restrizioni più severe come in Grecia e Vietnam hanno fatto si che venissero ridotti i contagi. Sin da subito è stato adottato il distanziamento sociale.

Anche la Sierra Leone e l’Uganda hanno iniziato a tenere sotto controllo la temperatura dei passeggeri una volta arrivati in aeroporto, già prima degli Stati Uniti, imponendo anche l’uso delle mascherine. Ruanda e Senegal hanno chiuso i confini ed indetto un coprifuoco, riuscendo, proprio come i paesi già citati, a contenere i contagi. Nella diffusione del contagio le restrizioni e la chiusura delle attività commerciali hanno avuto un ruolo fondamentale, nonostante abbiano influito molto sull’economia. Anche in questo caso la risposta migliore arriva da quei paesi che hanno ammortizzatori sociali ed assistenza sanitaria universale. Per questo, gli esperti credono che un modo per affrontare la pandemia sia alternare periodi di lockdown ad aperture, per dare modo alle aziende di respirare. Questo almeno per un anno fino a che non sarà sviluppato un vaccino.

Il fattore a “sorpresa”: Oltre ai fattori elencati ne esiste anche un altro che ha permesso la diffusione maggiore in paesi europei come Spagna, Francia, ed anche oltre l’Europa, negli Stati Uniti. Si tratta di un elemento del tutto imprevedibile: il caso. Esistono centinaia di occasioni per cui un uomo, in un determinato contesto, ad esempio un concerto, riesce ad innescare una catena di contagi. Lo stesso potrebbe succedere con una nave da crociera ed una messa. Questo è successo nella Corea del Sud: una donna di 61 anni partecipò ad un evento religioso a Daegu senza sapere che fosse positiva al Covid-19. Se fosse rimasta a casa non avrebbe contagiato decine di persone che a loro volta hanno contagiato centinaia di altre persone.

Restano ancora molti punti interrogativi sul coronavirus che solo il tempo potrà svelare, grazie al lavoro degli scienziati che si stanno muovendo anche per studiare la presenza di ceppi più contagiosi in alcune zone del mondo. Ma non solo, il loro mira anche ad accertare quali siano, con certezza, i fattori scatenanti del coronavirus.

Dal “Financial Times” il 2 maggio 2020. Il Financial Times dedica un articolo sui dati, ancora parziali ma già piuttosto indicativi, che indicano come il Covid 19 non sia “democratico”. Quando gli esperti di salute pubblica norvegesi hanno iniziato a indagare sulle origini delle persone infettate dal coronavirus, hanno fatto una scoperta sorprendente: i nati in Somalia hanno tassi di infezione più di 10 volte superiori alla media nazionale. Il Paese scandinavo ha poco più di 7.500 casi di Covid-19, equivalenti a 140 ogni 100.000 abitanti, secondo gli ultimi dati. Ma 453 di questi casi sono stati tra la comunità relativamente piccola che vive in Norvegia e che è nata in Somalia, un tasso di 1.586 casi ogni 100.000 abitanti. La Norvegia non è certo l'unico paese in cui le persone di colore e i gruppi etnici minoritari (black and minority ethnic - Bame) sono stati colpiti in modo sproporzionato. Le persone di etnia Bame costituiscono circa il 13% della popolazione del Regno Unito, ma rappresentano un terzo dei pazienti affetti da virus ricoverati in unità di terapia intensiva. I neri americani rappresentano circa il 14% della popolazione statunitense, ma il 30% di coloro che hanno contratto il virus. Sono in corso indagini sul perché le minoranze razziali siano così fortemente sovrarappresentate tra i malati di Covid-19, anche se non ci si aspetta risposte semplici. "Quando abbiamo iniziato a dare l'allarme, circa quattro settimane fa, alcune persone hanno pensato che si trattasse di allarmismo", ha detto Kamlesh Khunti, professore di diabete di base e medicina vascolare all'Università di Leicester nel Regno Unito. "Ora vediamo che più del 70% dei professionisti della sanità che sono morti nel Regno Unito provengono da ambienti Bame". Modelli simili che mostrano un numero sproporzionato di vittime del virus appartenenti a minoranze etniche sono emersi negli Stati Uniti e in altri paesi europei con una cospicua componente di minoranze, anche se il Prof Khunti ha detto che nessuno aveva prove così forti come il Regno Unito sui modelli etnici complessivi di Covid-19. La Francia, un altro Paese con un'alta percentuale di Bame, proibisce la raccolta di statistiche basate sull'etnia. Negli Stati Uniti, i dati compilati dai Centers for Disease Control and Prevention sono incompleti. Ma mostrano che i bianchi rappresentano il 51% dei casi di Covid-19 di cui è stata specificata la razza, rispetto al 74% della popolazione statunitense. Un fattore oggetto di indagine è la comorbilità. Jerome Adams, il surgeon general statunitense di origine afroamericana, ha messo in guardia su come la comunità sia maggiormente a rischio a causa dei tassi più elevati di patologie di fondo come il diabete, le malattie cardiache e l'obesità che rendono le persone più vulnerabili al Covid-19. Gli afroamericani sono tendenzialmente più poveri e meno in grado di effettuare il distanziamento sociale a causa del tipo di lavoro che svolgono e del luogo in cui vivono. Le persone appartenenti a comunità minoritarie spesso vivono più strettamente insieme rispetto alla popolazione generale, con famiglie allargate che si mescolano. Sono anche più concentrate nei lavori pubblici, come i trasporti e le consegne, così come nell'assistenza sanitaria e sociale, dove rischiano una maggiore esposizione al virus. Molti degli stessi motivi spiegano probabilmente gli alti tassi di infezione nella comunità somala in Norvegia. Sono generalmente più poveri e vivono in stretti nuclei familiari. Molti lavorano come tassisti, e potrebbero aver guidato gli sciatori di ritorno dalle vacanze alpine, che è stata la fonte della maggior parte dei primi casi in Norvegia.

·        Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Tonia Mastrobuoni per repubblica.it  il 4 marzo 2020. La Germania ha eseguito 11mila test per il coronavirus soltanto nell'ultima settimana, quella in cui l'epidemia ha raggiunto per la seconda volta il Paese di Angela Merkel. Il dato è stato reso noto dall'Associazione federale delle casse sanitarie Kbv. Ed è un numero incontrovertibile che smentisce le bufale che continuano ad appestare il dibattito pubblico. Un numero, purtroppo, arrivato a settimane dalla prima ondata di casi scoperti in Germania, che risale all'inizio di febbraio. Il sistema sanitario è misto, pubblico e privato: è più difficile elaborare un dato complessivo dei tamponi. Lunedì anche il ministro della Sanità, Jens Spahn, aveva mostrato irritazione per il ritardo con cui i dati dei laboratori stavano arrivando all'Istituto Koch. Oggi, finalmente, sono arrivati, ma dalla Kbv. A Repubblica, l'Istituto Koch ha continuato a scrivere anche stamane che non erano ancora pronti. Ma già nei giorni scorsi i numeri resi noti da singoli Land come la Baviera, che sta eseguendo 1.200 tamponi al giorno, avrebbero potuto instillare qualche dubbio nei complottisti. La tesi che in Germania ci sarebbero pochi casi perché sarebbero stati pochi i test fatti finora impazza infatti da giorni sui social media, rimbalza nei talk show e alimenta i complottismi più pericolosi, nel momento in cui il continente europeo è colpito dalla peggiore epidemia da anni. E in Italia, il partito di governo M5S è riuscito oggi a scrivere, senza premurarsi di citare una fonte qualsiasi, che la Germania avrebbe eseguito "meno di mille" tamponi. Una tesi totalmente campata per aria e puntualmente smentita dai fatti. Intanto il numero complessivo degli infettati registrati in Germania è salito a 223. Un centinaio sono concentrati in Nordreno-Westfalia, dove una festa di carnevale a Heinsberg ha fatto da detonatore per la diffusione del virus. Sono 14, invece, le persone guarite, tutte concentrate in Baviera. Si tratta dei dipendenti della Webasto, i contagiati della prima ondata di coronavirus che aveva raggiunto la Germania un mese fa. Erano stati contagiati da una collega cinese venuta in Baviera per un seminario di aggiornamento.

 “IN GERMANIA E IN FRANCIA HANNO CONTINUATO A CHIAMARLA INFLUENZA”. LaPresse il 3 marzo 2020.  Il Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'IRCCS Ospedale San Raffaele, diretto dal professor Massimo Clementi, ha isolato il nuovo coronavirus da due pazienti con infezione respiratoria acuta ricoverati da sabato 29 febbraio presso l'ospedale. Altre cinque colture provenienti da altri pazienti sono al momento in corso e se avranno esito positivo costituiranno ulteriori campioni di virus isolato. "Si tratta della ulteriore evidenza che questo virus si trasmette molto efficientemente anche in vitro, oltre che in vivo" ha commentato il professor Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia presso l'Università Vita-Salute San Raffaele. "E' auspicabile che questi nostri virus isolati, come quelli che sono stati ottenuti all'Ospedale Spallanzani e all'Ospedale Sacco, siano gestiti in biobanche che possano fornire materiale per la ricerca, sia farmacologica sia immunologica, contribuendo cioe' allo sviluppo di nuovi farmaci antivirali e nuovi vaccini". Il Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale San Raffaele ha una lunga esperienza nello studio dei Coronavirus e nel 2003 ha isolato l'unico stipite italiano di SARS-Coronavirus.

Giovanni Rodriquez per “Quotidiano Sanità”, pubblicato da startmag.it  il 3 marzo 2020. La confusione sui dati, il conteggio dei morti e la questione controversa del ceppo italiano. del Coronavirus Estratto di un’intervista di Quotidiano Sanità a Walter Ricciardi, membro italiano del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità e consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza. Per lasciarci alle spalle il pericolo coronavirus sarà necessario attendere almeno maggio-giugno”, la previsione è del professor Walter Ricciardi, membro italiano del Consiglio Esecutivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità e consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza che in questa intervista esclusiva disegna quali potrebbe essere gli scenari prossimi futuri dell’epidemia in corso in Italia.

Professor Ricciardi, prima di tutto proviamo a far chiarezza sui numeri. Si continua a parlare di casi confermati, casi sospetti, casi ancora da confermare…Ma quali dovrebbero essere comunicati e da chi, per non fare confusione?

«Non ho dubbi in proposito, la fonte dei dati deve essere unica: il ministero della Salute. A lui e solo a lui dovrebbe spettare la comunicazione ufficiale dei casi confermati e per casi confermati dobbiamo intendere quelli già vistati dal secondo esame da parte dell’Iss».

Ma fino ad oggi in realtà i dati provengono da più fonti…

«È vero. Finora sono stati e sono tuttora comunicati dati sui contagi rilevati dalle Regioni che li comunicano autonomamente ancor prima di aspettare la convalida dall’Istituto superiore di sanità. Così non va: come ho già detto, dati di questa rilevanza andrebbero comunicati e gestiti da un unico interlocutore nazionale. Qual è l’organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale? È l’Istituto superiore di sanità. Dovrebbero essere loro a convalidare i dati ed il Ministero della Salute a comunicarli. Questa è la mia proposta che fa fatica ad imporsi per la difficoltà nel coordinare tante regioni».

Passiamo ora alla questione dei decessi. Anche ieri sera durante la conferenza stampa di aggiornamento della Protezione Civile è stato ribadito che sarà l’Iss a effettuare l’analisi. Potremmo scoprire che queste persone sono morte per cause diverse dal virus?

«Questo è molto probabile. Però è chiaro che in Italia dal punto di vista medico-legale l’accertamento di morte è di competenza del medico legale. Questo compito non spetta all’Istituto superiore di sanità. Dopo l’accertamento da parte del medico legale ci potrebbe però essere un parere dell’Istituto. Si tratterebbe quindi di un parere, non di una conferma. Ricordiamo che, ad esempio, nell’influenza sono 300 i casi di decesso diretti ed 8.000 gli indiretti. Sarebbe un modo per ‘vidimare’ le cause di morte diretta o indiretta».

Potrebbe così calare il numero dei morti o in epidemiologia si conteggiano comunque tutti i decessi come per influenza?

«Si conterebbero in ogni caso tutti i decessi, esattamente come avviene per l’influenza».

Nei giorni scorsi ha destato molto scalpore il dato dell’Oms che ha parlato di 24 casi di coronavirus esportati dall’Italia in 14 Paesi, è corretta l’affermazione? Si può parlare di esportazione italiana, legata quindi al ceppo del virus isolato dall’Ospedale Sacco oppure il virus è ormai già in circolazione globalmente indipendentemente da quanto sta accadendo in Italia?

«Io su questa storia del ceppo italiano sono estremamente scettico. Mi spiego… sappiamo che esiste questo nuovo coronavirus che sta già circolando a livello mondiale. Che poi questo possa avere delle piccole variazioni genetiche può essere una questione con una sua rilevanza solo in termini di ricerca, ma per quanto riguarda la sanità pubblica è un dato ininfluente. Si tratta comunque di un’unica catena di contagio, la circolazione sta diventando ormai pandemica non certo a causa di quello che sta avvenendo in Italia. Noi in questo momento sappiamo che dobbiamo continuare ad insistere sulle misure di contenimento per poi eventualmente passare ad una fase successiva di mitigazione».

Il professor Galli sosteneva che il virus possa aver circolato sotto traccia in Italia da qualche settimana, prima che venissero messe in atto le misure di limitazione dei voli dalla Cina. Conferma questa ipotesi?

«Sì, a mio parere questa è una tesi che ha una sua plausibilità».

Proviamo a mettere un punto sulla questione asintomatici e tamponi. Con le nuove indicazioni si rischia di sottovalutare il rischio di trasmissione del virus da parte di soggetti asintomatici?

«Non è epidemiologicamente plausibile che l’Italia abbia chiuso i voli dalla Cina e conti più di 1.000 casi mentre la Germania che non li ha chiusi, alla stessa data, ne conti 100. Se poi consideriamo che da noi sono stati effettuati più di 21.000 tamponi e in Germania meno di 1.000, quale differenza salta all’occhio? Che in Italia sono stati fatti più test per far emergere la malattia, mentre Germania e Francia si sono comportate diversamente. A tutto questo dobbiamo aggiungere che l’influenza da coronavirus presenta nell’80% dei casi gli stessi sintomi di un’infezione respiratoria acuta di grado lieve, ed ha anche lo stesso decorso. Dunque la differenza qual è?»

Ce la spieghi…

«La differenza è che qui abbiamo dato un nome ad oltre 1.000 casi di sindrome influenzale chiamandola Covid19 mentre in Germania e Francia hanno continuato a chiamarla influenza. Aggiungiamo poi che in quell’80% dei casi le misure intraprese sono le stesse, sia che si chiami Covid19 sia che si chiami influenza comune. Le uniche vere conseguenze della sovradiagnosi italiana, o più correttamente della sottodiagnosi francese e tedesca, sono che in quei posti le persone sono serene e stanno iniziando a preoccuparsi solo ora. Ma l’immagine di questi paesi a livello internazionale è ben salda e le economie reggono, mentre qui in Italia, agli occhi dell’Europa, siamo diventati degli untori».

Quindi possiamo dire che si è sbagliato qualcosa nella comunicazione istituzionale sovradimensionando da subito il fenomeno?

«Possiamo dire che abbiamo sovradimensionato il problema facendo tutti questi tamponi. Quando dico che abbiamo sovrastimato, non voglio far passare l’idea che abbiamo sbagliato le diagnosi, ma semplicemente che con un numero così alto di tamponi abbiamo fatto emergere prepotentemente il problema in maniera anticipata rispetto a Germania e Francia. Noi anticipando questa emergenza ci siamo esposti alla pubblica opinione mondiale. Ma in realtà penso che la situazione italiana sia del tutto analoga a quella francese e tedesca».

L’Italia non è l’anomalia d’Europa insomma.

«No. Se si fanno 21.000 tamponi da noi, mentre in Francia e Germania se ne fanno meno di mille, qual è la differenza tra questi paesi?»

Che a maggiori controlli in Italia è conseguito un maggior numero di casi riscontrati…

«Esattamente, e credo che molto probabilmente non abbiamo un numero di casi di coronavirus così maggiore rispetto a quello realmente esistente negli altri due paesi».

Scusi ed in UK? Qui sono stati eseguiti migliaia di tamponi ma il numero di positivi è rimasto contenuto.

«L’Inghilterra ha fatto circa 7.000 tamponi, è vero. Ma c’è anche qui una differenza importante rispetto a quanto fatto in Italia. Lì hanno deciso da subito di eseguirli esclusivamente su soggetti sintomatici ed hanno mantenuto in maniera coerente questa linea».

Non è che globalmente abbiamo esagerato nel dare tutta questa importanza ad un virus forse non più pericoloso di tanti altri? Fosse accaduto 20 anni fa, senza la diffusione dei social e questa infodemia, ci sarebbe stata la stessa reazione?

«Penso che la verità stia nel mezzo. Sicuramente questa è la prima epidemia del mondo globalizzato, con i social, e in cui la velocità della comunicazione è superiore anche a quella dei virus. Però non c’è dubbio sul fatto che questa non sia una malattia da poter sottovalutare. Parliamo di un virus che ha delle caratteristiche molto insidiose: è altamente contagioso, ha una letalità non alta ma neanche trascurabile, ed è abbastanza persistente. Colpisce soprattutto gli anziani, ma non è trascurabile anche l’effetto sui giovani. Quindi, in ogni caso, non va preso sottogamba».

Coronavirus, i contagiati sono meno di quelli comunicati? Le Iene News il 27 febbraio 2020. L'Istituto superiore di sanità ha il compito di convalidare i risultati dei tamponi positivi al coronavirus. E secondo una nostra fonte diversi tamponi supposti positivi sarebbero risultati invece negativi. "Il presidente ci ha detto che due terzi dei tamponi supposti positivi sono risultati da noi negativi". A parlare è un ricercatore dell'Istituto superiore di sanità, presente a una riunione interna che si sarebbe tenuta il 25 febbraio in cui il presidente Brusaferro avrebbe comunicato il risultato dei tamponi positivi al coronavirus e controllati successivamente a Roma. Dichiarazioni che abbiamo comunicato all'Istituto superiore di sanità per ottenere una conferma o una smentita, ma è da ieri sera che non abbiamo più ricevuto risposte. L’Istituto, infatti, è incaricato di confermare l’eventuale positività dei test condotti dai laboratori sul territorio. Come ha confermato lo stesso ministro della Salute Speranza pochi minuti fa: "l'ufficialità passa attraverso la certificazione dell'Iss". E' l'anticipazione dell'inchiesta su quanti siano effettivamente i contagiati in Italia. Il 25 febbraio, sempre secondo la fonte interna, il presidente avrebbe comunicato che i casi risultati positivi al coronavirus e successivamente confermati dall'Istituto sarebbero stati "poco più di ottanta", mentre i contagi comunicati pubblicamente fino a quel momento erano più di 250. Com'è possibile che ci siano due dati diversi sui contagi da coronavirus? I dati che conosciamo sono quelli che la Protezione civile comunica con due bollettini quotidiani. Questi dati li riceve direttamente dalle Regioni, e cioè dagli ospedali e dalle Asl, ma che solo in seguito vengono confermati dall'Istituto di Roma. Ma perché i dati delle regioni sono diversi da quelli dell'Iss? Un motivo è il tempo che impiegano i campioni ad arrivare a Roma, visto che  nel momento in cui un esame dà esito positivo il campione viene inviato fisicamente all’Istituto, portato in genere dai carabinieri del Nas. Inoltre però, come ci spiega la fonte interna all'Istituto, "rispetto agli ospedali e ai laboratori noi abbiamo l'esperienza e i macchinari più adatti". E quindi alcuni tamponi risultati positivi a livello locale sarebbero smentiti a Roma. Per questo i contagiati potrebbero essere meno di quanti risulterebbero ufficialmente. Nella giornata di ieri abbiamo provato più volte a ottenere una conferma o una smentita del numero dei tamponi confermati positivi al coronavirus dall'Istituto. Ma i dati della convalida dei tamponi non sono ancora stati resi pubblici, e alla domanda su quando lo saranno la capo ufficio stampa dell'Iss Anna Maria Taranto ha risposto: "Spero presto". E oggi sul Corriere della sera Walter Ricciardi, consigliere del ministro Speranza sull'emergenza, ha confermato che i casi positivi al coronavirus accertato dall'Istituto sono meno di quelli comunicati finora. "I casi verificati sono circa 190, confermati dall'Istituto superiore di sanità che ha il compito di validare l'eventuale positività dei test condotti nei laboratori locali", ha detto al quotidiano milanese. "Quindi meno dei 424 casi dichiarati che invece includono quelli in attesa di conferma". Ma è di pochi minuti fa la comunicazione di Angelo Borrelli, il capo della protezione civile, che va in un'altra direzione: "L'Istituto superiore di sanità dà la conferma dei contagiati: sono 282 casi su 282 campioni analizzati". A cui è seguita un'ulteriore comunicazione di Ricciardi: "I test strumentali fatti nei laboratori regionali hanno ancora margini di incertezza, ci possono essere falsi positivi e falsi negativi, per questo bisogna attenersi ai risultati dell'Iss". Chi ha ragione e chi torto? E' solo una questione di tempo, oppure ci sono dei tamponi risultati negativi? Difficile stabilirlo, finché l'Istituto superiore di sanità non renderà pubblici i dati. E la Regione Piemonte ha pubblicato ieri la notizia che sui tre casi di positività l’Istituto superiore di sanità ha confermato solo il caso del paziente torinese.

Dagospia il 27 febbraio 2020. Thread di Mauro Venier su Twitter: In Italia ci lascia andare all'isteria, ma io - se fossi in #Italia - mi sentirei più tranquillo di quanto sono qui in #Germania. Perché? Semplice le statistiche tedesche non quadrano. Io non ho competenze mediche, ma so di statistica, so leggere i numeri. La Germania è il paese può popoloso della #UE (e il secondo d'Europa dopo la Russia) e quello con i maggiori contatti, sia commerciali che turistici, con la #Cina. Praticamente ogni azienda tedesca media o grande ha almeno uno stabilimento in Cina. E ci sono solo 18 casi? No, non quadra. Per di più vorrei farvi notare altri numeri interessanti. Da ottobre a oggi sono stati segnalati in Germania 80000 casi di classica #influenza, 40000 dei quali solo nelle ultime due settimane. 40000. In due settimane. Siamo proprio sicuri che siano tutti influenza? Ho appena sentito in radio che nella cittadina di Prien (10000 abitanti) 18 persone sono state ricoverate in ospedale quasi contemporaneamente con sintomi influenzali. E le autorità, prima di fare i controlli, dichiarano già che non c'è motivo di credere sia il virus. Il focolaio più importante in Germania è a Monaco. E Prien è vicinissima a Monaco. Oltretutto non riesco a trovare su nessuna pagina istituzionale il dato sul numero di test effettuati. Né sul sito del ministero federale della salute. Né su quello del Robert Koch Institut (di fatto corrispettivo dell'italiano Istituto Superiore di Sanità). Cercherò ancora.

(LaPresse il 27 febbraio 2020) - "Siamo davanti a un'epidemia" che dobbiamo "affrontare al meglio". Lo ha dichiarato il presidente francese, Emmanuel Macron, in visita all'ospedale Pitié-Salpêtrière a Parigi, dove ha parlato con un'equipe di medici, riferendosi al coronavirus. Lo riporta Bfm Tv. Il presidente ha sottolineato l'importanza di avere "informazioni trasparenti" per fronteggiare l'epidemia. Nella struttura sanitaria, ieri, è morto un professore 60enne, risultato positivo al coronavirus. "Conto su di voi così come voi potete contare su di me", ha detto Macron rivolto agli operatori sanitari. Il presidente francese è atteso a Napoli in giornata per un incontro con il premier, Giuseppe Conte.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 27 febbraio 2020. «Lo ripeto anche stasera, non c' è un' epidemia di coronavirus in Francia». Nella conferenza stampa quotidiana delle 19, il ministro della Sanità francese Olivier Véran adotta ancora una volta il tono rassicurante e competente, da medico, con il quale si sta facendo conoscere dai francesi. L' epidemia per ora non c' è, ma, come ripete la portavoce del governo Sibeth Ndiaye, potrebbe arrivare presto: per questo la capacità di test diagnostici è stata portata a 1.500 al giorno (dai 400 al giorno iniziali) e il ministro Véran ha annunciato la distribuzione sul territorio nazionale di 15 milioni di mascherine finora custodite nei depositi del ministero, che saranno messe a disposizione di medici e possibili pazienti. Neurologo, 39 anni, Véran è arrivato al governo appena 10 giorni fa per una serie di circostanze imprevedibili: l' artista russo Piotr Pavlenski ha diffuso in rete i video intimi di Benjamin Griveaux; il 14 febbraio Griveaux ha rinunciato alla candidatura a sindaco di Parigi; per sostituirlo il partito di Macron ha scelto l'allora ministra della Sanità Agnès Buzyn; al posto di Buzyn è stato precipitosamente chiamato Olivier Véran, che si è trovato ad affrontare subito una delle più gravi crisi sanitarie degli ultimi anni. La continuità nel ministero è rappresentata dal direttore generale Jérôme Salomon, che difende le scelte fin qui adottate: test per il coronavirus solo sui casi «possibili», cioè quando vengono soddisfatti due criteri: paziente con sintomi di febbre e difficoltà respiratorie, e tornato da una zona a rischio. Anche per questo il numero dei test con tampone «naso-faringeo» effettuati dalla Francia è inferiore a quello dell' Italia: ieri alle 18 erano solo 762. Il bilancio francese per ora è di 18 casi: 12 guariti, quattro ricoverati e due morti. Il primo decesso è stato, all' inizio della crisi, quello di un turista cinese ottantenne. Il secondo è avvenuto nella notte tra martedì mercoledì all' ospedale della Pitié Salpêtrière di Parigi, dove era stato trasferito d' urgenza e purtroppo inutilmente un 60enne professore di scuola media di Crépy-en-Valois, nell' Oise, che era in malattia dal 12 febbraio. Questo è il caso che inquieta di più le autorità francesi: l' uomo aveva i sintomi dell' influenza ma non era tornato da nessuna delle regioni considerate a rischio (ovvero Cina, Corea del Sud, Singapore, Lombardia o Veneto), ed è stato ricoverato in un primo momento nell' Oise, venendo quindi a contatto con medici, infermieri e altri malati. La paura è che possa ripetersi un caso come quello dell' ospedale di Codogno, all' origine della crisi in Lombardia. Le autorità prendono decisioni valutando caso per caso, cercando un equilibrio tra accuse di allarmismo e di leggerezza: sì ai 3.000 tifosi italiani al seguito della Juventus a Lione, niente scuola per 14 giorni agli allievi che tornano dall' Italia. Oggi Macron sarà con 11 ministri a Napoli per incontrare Conte e Mattarella nel 35° vertice bilaterale. L' incontro previsto da tempo è stato confermato due giorni fa, e «sarà l' occasione per portare la nostra solidarietà al popolo italiano», dicono all' Eliseo.

Dagospia il 25 febbraio 2020. Da I Lunatici. Vincenzo D'Anna, presidente dell'ordine nazionale dei biologi, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha detto la sua sul Coronavirus: "Bisognerebbe parlare alla gente in maniera meno catastrofica e più pacatamente. Il panico è peggiore della malattia. E la borsa ieri ha bruciato circa quaranta miliardi di euro. Ricchezza che se ne va. E' tutto fermo, tutto paralizzato, per un virus che è poco più di un virus influenzale. Iniziamo a chiamare le cose col proprio nome. Lasciamo stare la Cina. Lasciamo stare le smanie di mettere in quarantena migliaia e migliaia di persone, bisogna mettere in quarantena solo quelli per i quali esista un fondato sospetto di contagio. Ma si tratta sempre del contagio di un virus influenzale. Un virus che ha una mortalità che se vogliamo è ancora più bassa di un virus influenzale". D'Anna ha proseguito: "Il coronavirus non è più grave o più mortale di una influenza. I nostri stessi morti, e dispiace sempre quando una persona decede, erano ottuagenari, o persone già malate, di cancro o con malattie croniche di tipo cardiorespiratorio. Avrebbe potuto ucciderle anche un virus influenzale. Questa è la verità. Non possiamo sparare alle mosche col cannone. Mi aspetto che gli scienziati comincino a parlare. Molti hanno paura di essere aggrediti, di essere tacciati come superficiali, perché le brutte notizie sono sempre più gradite delle buone notizie, le brutte notizie fanno i titoloni sui giornali. Ne abbiamo lette tante in questi giorni". Il presidente dell'ordine nazionale dei biologi ha concluso: "Diciamoci la verità, noi non abbiamo degli scienziati molto coraggiosi in Italia. Ognuno quando può si esime dal mettersi sotto i riflettori, mentre in pochi inseguono come una star la luce dei fari. Mi auguro e spero che questa frenesia finisca, che la gente si cominci a rendere conto che contrarre il coronavirus è come contrarre un virus influenzale. In Europa non ci sono molti contagiati perché molte nazioni il virus non lo cercano".

Test a tappeto e trasmissioni in ospedale. Perché siamo i più colpiti in Occidente. Ha contribuito anche il blocco dei voli diretti senza però intervenire sulle rotte secondarie. Daniela Minerva su La Repubblica il 25 febbraio 2020. Il conteggio degli italiani contagiati dal coronavirus Covid-19 cresce di ora in ora. Il terzo Paese più colpito al mondo, dopo Cina e Corea del Sud, (il quarto se al Giappone vengono sommati i casi della nave Diamond Princess); e di gran lunga il più colpito in Europa e in Occidente. Perché? Per tre ragioni. Innanzitutto, rispondono pressoché all'unisono gli esperti, perché noi cerchiamo i contagiati. I numeri sembrano dimostrarlo: in Francia sono stati eseguiti a oggi 300 test per cercare il coronavirus e le sue tracce sul nostro sistema immunitario, in Italia oltre 3000. E poi, come ha denunciato nei giorni scorsi Walter Ricciardi, esperto indiscusso e nominato ieri dal ministro Roberto Speranza consigliere per le relazioni dell'Italia con gli organismi sanitari internazionali: paghiamo oggi il fatto di aver chiuso le rotte con la Cina senza impedire che i passeggeri facessero scalo da qualche parte in Europa e poi venissero qui; Francia, Germania e Regno Unito hanno invece seguito le indicazioni dell'Oms, non hanno bloccato i voli così hanno potuto tracciare e mettere in quarantena i soggetti a rischio. Infine: molti contagi si sono registrati in ospedale dove la trasmissione avviene più rapidamente. Cominciamo dalla prima ragione: i test che noi facciamo a ruota libera e di cui, invece, gli altri Paesi Ue sono più parchi. Detta così sembrerebbe una nota di merito per le nostre strutture sanitarie, ma, invece, è l'inizio di un cortocircuito nel quale sembriamo esserci avvitati e che ha un'origine molto precisa: regioni e Asl che procedono in ordine sparso facendo ognuna quello che ritiene più opportuno. Seguendo il cuore, l'opportunità politica, le indicazioni di illustri quanto scoordinati professori locali. E questo è un guaio perché testare tutti "a casaccio", come ci ha detto un superesperto che non vuole essere citato, significa trovare tanti falsi positivi; significa intasare le strutture sanitarie seminando il panico e distraendo dall'unica cosa utile da fare in questo momento: tracciare i sospetti e limitarne i movimenti per evitare che vadano in giro ad infettare altri. Certo, il test è anche un business e, mentre Maria Elena Boschi e Vito De Filippo di Italia Viva chiedono di estendere anche ai laboratori privati la possibilità di eseguirlo, cresce la preoccupazione che diventi uno di quegli eccessi di atti medici che alimentano caos e ansia a carico del Sistema sanitario nazionale. Resta, però, che i contagi ci sono stati. Nonostante la misura draconiana di bloccare i voli dalla Cina. Appariscente ma bucata ogni giorno dai passeggeri che triangolavano su Londra, Zurigo, Parigi, Francoforte. Col risultato che nessuno sa chi e quando è arrivato in realtà dalla Cina. I contatti commerciali sono infiniti, i colletti bianchi che dalla Lombardia e dal Veneto vanno e vengono da Pechino, Shanghai, e anche Wuhan centinaia. E oggi è difficilissimo rintracciare i movimenti delle persone contagiate alla ricerca del cosiddetto paziente zero. La componente Cina, concordano gli esperti, non ha più impatto: i contagi sono avvenuti in Italia, per secondo, terzo o anche quarto contatto. Chissà quando, nelle settimane se non nei mesi scorsi, Covid 19 è entrato in Italia, molte persone si sono contagiate, ammalate e guarite, ma hanno sparso il virus... Dicono i virologi che era il tempo dell'influenza e i sintomi sono stati confusi. L'influenza ora ha fatto il suo decorso, ha colpito gli anziani e le persone a rischio come sempre fa. E oggi se ne sta andando lasciandoci in eredità Covid-19. Con una conseguenza grave: le persone immunodepresse, malate o anziane, che potrebbero guarire bene da un'influenza, di fronte a Covid-19 rischiano di soccombere. Ma tutti gli italiani sono esposti a un virus sconosciuto e quindi dalle conseguenze imprevedibili anche per una persona sana, come dimostra il paziente 1, il trentottenne del basso lodigiano ancora in rianimazione. Si poteva evitare? Ci si poteva almeno provare, rispettando alla lettera le indicazioni dell'Oms in tutto il Paese, senza fughe in avanti. Speranza ha nominato Ricciardi per coordinare la gestione italiana con le indicazioni delle autorità internazionali. Resta però, intangibile, la sovranità delle regioni in materia di sanità.

Test in blocco e stop dei voli: ecco perché l'Italia ha il record di contagi. L'esperto: "Più casi perché noi abbiamo cercato, gli altri no". Avrebbero contribuito a causare i contagi anche il blocco dei voli diretti, senza intervenire sugli scali, e la trasmissione in ospedale. Francesca Bernasconi, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. In Italia, il numero dei contagiati dal Covid-19 continua ad aumentare. Tanto che il nostro Paese è diventato il terzo più colpito al mondo, dopo Cina e Corea del Sud, e il primo in Europa.

Ma cosa ha determinato il record europeo di malati in Italia? Una prima ragione potrebbe essere ricercata nel fatto che noi "cerchiamo" i contagiati. Lo dimostra il numero di tamponi effettuati: "Finora sono stati effettuati oltre 3mila tamponi", aveva reso noto il commissario della protezione civile Angelo Borrelli, sottolineando "un livello altissimo di screening sanitario". Dello stesso avviso è anche Massimo Andreoni, direttore scientifico della società italiana di malattie infettive e tropicali Simit, che al Corriere della Sera ha rivelato: "La crescita improvvisa può essere dovuta a diverse cause. La prima è appunto la strategia di sottoporre al prelievo con tampone faringeo tutti i contatti delle persone malate. Questo ha permesso di individuare persone che non sarebbero mai state diagnosticate come positive. Noi abbiamo cercato, gli altri no". E infatti, in Francia sarebbero stati eseguiti solamente 300 test per cercare il nuovo coronavirus. Un'altra causa del grande numero di casi da Covid-19 in Italia potrebbe essere legata alla decisione di chiudere le rotte aeree con la Cina, senza impedire ai passeggieri di fare scalo in altre nazioni per poi arrivare in Italia. L'Organizzazione mondiale della sanità, invece, aveva consigliato "il monitoraggio attento di chi arriva e di chi parte", senza bloccare i voli dalla Cina, perché considerata una misura poco utile, proprio per la possibilità per i passeggeri di fare scalo in altri Paesi. Walter Ricciardi, il rappresentante dell'italia nell'Executive Board dell'Oms, aveva rivelato ad AdnKronos: "Serve monitorare attentamente chi entra ed esce e il blocco dei voli diretti, oltre a complicare gli spostamenti per chi dalla Cina vuole tornare in Italia, rischia di favorire ingressi da Paesi terzi". In questo modo, aveva avvisato, risulta più difficile "tracciare" chi entra e chi esce dal Paese. Inoltre, secondo quanto riporta Repubblica, i virologi concorderebbero su un punto: la confusione tra influenza e coronavirus, che non avrebbe permesso ai malati di accorgersi di aver contratto il virus. In questo modo "molte persone si sono contagiate, ammalate e guarite, ma hanno sparso il virus". Infine, avrebbe contribuito alla diffusione del virus anche il fatto che la trasmissione sia avvenuta in ospedale. Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all'Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell'ospedale Sacco di Milano aveva spiegato: "Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l'innescarsi di un'epidemia nel contesto di un ospedale", che si è trasformato "in uno spaventoso amplificatore del contagio". Dello stesso avviso è anche Massimo Andreoni che concorda con Galli: "L'ospedale ha fatto da cassa di risonanza. Negli ambienti sanitari esistono tutte le condizioni che favoriscono la moltiplicazione di batteri e virus in pazienti fragili, ricoverati per patologie debilitanti e, spesso, per altre malattie infettive".

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 26 febbraio 2020. «Chi cerca trova»: questa è la frase più popolare ogni volta che si parla con un epidemiologo o con un virologo, in Italia ma anche in altri paesi. Nessuno riesce a spiegarsi perché tra Lombardia e Veneto vi sia il triplo di casi di coronavirus di tutti gli altri paesi europei messi insieme. Qualcosa non torna. Ecco allora che alcuni dirigenti di grandi ospedali spagnoli, sentiti ieri da El Pais, dicono che ora cominceranno ad aumentare il numero di test eseguiti su chi è ricoverato con una polmonite e ammettono: «Il virus potrebbe essere circolato in Spagna da diversi giorni come in Italia. Se non l'abbiamo rilevato, è perché non l'abbiamo cercato e ora è necessario fare questo passo». In molti si chiedono come sia possibile che paesi così vicini e collegati all'Italia, con relazioni economiche con l'Asia e arrivo di turisti in massa dalla Cina, in cui sono stati svolti controlli perfino più blandi alle frontiere, abbiano circa il 90-95 cinque per cento in meno dei casi di positività del nostro paese. Alcuni numeri: Francia 14 casi, Spagna cinque, Germania 16. Giovanni Rezza, direttore delle Malattie infettive dell'Istituto superiore della Sanità: «L'Italia è un paese con molti anziani, si spiegano così i tassi di mortalità al 2-3 per cento». Ma anche su scala nazionale si osserva questa differenza tra le regioni che fanno i test a raffica e quelle che, non essendoci emergenze locali, non li fanno. Su 6.224 esami con i tamponi (dato di ieri mattina), 3.298 sono stati eseguiti in Lombardia, 2.200 nel Veneto, tutti negli ultimi giorni sull'onda dell'emergenza esplosa a Codogno e Vo' Euganeo. In Emilia-Romagna sono 148, in Piemonte 141, in Toscana 140, nel Lazio 124, in Friuli 86, in Liguria 35. In pratica, se si esclude tutto il nord più il Lazio, dalle altre parti i test sono stati pochissimi. Walter Ricciardi, componente italiano dell'esecutivo dell'Oms, sottolinea: «Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore. E tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute. L'Oms dice i tamponi vanno fatti solo ai soggetti sintomatici: chi ha tosse, febbre e altri sintomi, ed inoltre se sono stati in determinate zone a rischio. La Francia di questi tamponi ne ha fatti 300, noi molti di più». Spiega un docente universitario che preferisce non essere citato: «I controlli a tappeto, in Italia, sono cominciati quasi casualmente, per il finto paziente zero che si sospettava avesse contagiato il trentottenne di Codogno. Senza quell'evento casuale non ci sarebbero state le verifiche sistematiche su migliaia di persone. Bene, in Francia, Germania e Spagna questo non è avvenuto e forse è la spiegazione più plausibile di questa differenza, anche se ovviamente ci vorranno mesi per avere certezze». Alcuni dati fanno riflettere: i due paesi con più test eseguiti sono anche quelli con più casi, se si escludono la Cina e l'anomalia della nave Diamond Princess. Italia: 8.600 test e 322 positivi, Corea del Sud 13.000 test con 977. In particolare a Seul addirittura potrebbero fare i test a 200mila adepti di una setta religiosa da cui si è originato il contagio. Di riflesso, Francia 14 contagiati ma solo 531 test, Stati Uniti formalmente 57, ma in realtà 17 (perché 40 sono della Diamond Princess) su meno di 500 test. Certo si può anche pensare che Italia e Corea, travolte dal moltiplicarsi dei casi positivi abbiano semplicemente scoperto un contagio che ormai era dilagante, mentre in Francia e negli Usa non hanno questo tipo di emergenza e non hanno incrementato le verifiche. Però è arduo pensare che l'Italia sia diventata terra di conquista per il coronavirus, mentre altri paesi, che non hanno chiuso le frontiere, ne siano immuni. Discorso diverso per il Regno Unito, che ha reagito subito al primo super diffusore, un inglese tornato da Singapore, isolato il contagio e per ora su quasi 7.000 test ha 13 positivi. Restano due elementi: secondo Giovanni Rezza «quasi tutti i casi sono riconducibili all'epicentro dell'epidemia che si trova nel Lodigiano. Ci sono poi un paio di focolai più piccoli in Veneto». Questo vorrebbe dire che il contagio attorno a Codogno è iniziato da diverse settimane e con la presenza di pazienti asintomatici. Dice il virologo Francesco Broccolo (Università La Bicocca di Milano): «Noi che stiamo cercando il virus lo abbiamo trovato ed è questo il primo motivo dell'alta incidenza di nuovi casi. Proprio perché i contagi c'erano già in precedenza, quelli del Lodigiano possono essere la punta dell'iceberg». Vi sono altri iceberg in giro per l'Italia? E in Europa?

Infettivologo Andreoni: «Cercare i malati col tampone ha fatto aumentare i casi dell’Italia». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Corriere.it. Massimo Andreoni, segretario scientifico della società italiana di malattie infettive e tropicali Simit, professore all’università di Tor Vergata, non si illude: «Non pensiamo a un’Italia divisa in due. Molto probabilmente l’epidemia arriverà anche a Roma e nelle regioni del Sud, il rischio è oggettivamente molto alto. Però non bisogna aspettare questo momento con terrore. Anche se arriverà un po’ dappertutto, è un’infezione nella maggior parte delle volte banale». L’esperto risponde alle domande del Corriere a circa due mesi dal primo annuncio dell’emergenza coronavirus da parte dell’Organizzazione Mondiale di Sanità. Margherita De Bac il 24 febbraio 2020 su Il Corriere della Sera. I casi arriveranno anche a Roma. Massimo Andreoni, direttore scientifico della società italiana di malattie infettive e tropicali Simit, professore all’università di Tor Vergata, non si illude: «Non pensiamo a un’Italia divisa in due. Molto probabilmente l’epidemia arriverà anche a Roma e nelle regioni del Sud, il rischio è oggettivamente molto alto. Però non bisogna aspettare questo momento con terrore. Anche se arriverà un po’ dappertutto, è un’infezione nella maggior parte delle volte banale».

Cosa sappiamo di certo sul virus?

«Alcune certezze le possediamo, per fortuna, grazie agli articoli pubblicati sulle riviste internazionali. Innanzitutto è certa l’origine del virus. Quasi sicuramente viene dai pipistrelli con un possibile passaggio intermedio su un secondo animale. Quindi possiamo eliminare le ipotesi fantasiose sulla fuga di questo agente infettivo da un laboratorio in Cina. Il Sars-CoV2 è ufficialmente un virus animale che si è adattato all’uomo compiendo il cosiddetto salto di specie. È una buona notizia perché sappiamo come è nato».

E’ una malattia banale?

Le epidemie generate da virus che hanno compiuto il salto di specie sono le più complicate. Quando un microrganismo infetta l’uomo per la prima volta, lo trova completamente indifeso, mancante di immunità. Aumentano di conseguenza le possibilità che la malattia abbia un decorso più grave e che abbia una maggiore diffusione nella popolazione. Potenzialmente potrebbe contagiare tutti. Però non spaventiamoci. Otto volte su dieci si tratta di malattia banale, i casi gravi sono pochi e il nostro sistema sanitario ha una rete infettivologica di altissimo livello».

Si trasmette solo per naso e bocca?

«È in tutto e per tutto un virus respiratorio che passa da un individuo all’altro trasportato dalle goccioline emesse con tosse e starnuti. Si introduce nell’organismo utilizzando tre vie, bocca, naso e in misura minore occhi. Il contagio diretto attraverso le mani può avvenire solo se stringiamo la mano di una persona malata che ha appena starnutito e portiamo le mani al viso. È una sciocchezza che il virus sopravviva a lungo al di fuori delle cellule umane e resti aggressivo depositandosi sulle superfici. Quando è nell’ambiente perde la sua carica infettiva e diventa praticamente innocuo. Insomma se si trova su un oggetto, ad esempio una maniglia contaminata due giorni prima dalle goccioline, non è pericoloso. E poi spieghiamo che per essere contagiati il contatto con il malato deve essere ravvicinato e rapido, circa a un metro e mezzo di distanza, e non è detto che un contatto stretto equivalga all’aver preso il coronavirus. Se poi siamo all’aperto e vediamo un passante che tossisce non facciamoci prendere dal panico. È davvero difficile che le goccioline arrivino fino a noi. Dobbiamo dirlo chiaramente. Tanti comportamenti cui stiamo assistendo in questi giorni sono immotivati».

Gli alimenti sono un rischio?

«Il Sars-CoV2 è un virus respiratorio, la via alimentare non la sa percorrere, quindi non sa introdursi nell’organismo attraverso il sistema digestivo, usa solo naso e bocca e attraverso queste aperture può raggiungere i polmoni causando casi più gravi che possono finire in terapia intensiva. Il più delle volte, e lo ripeto, non produce sintomi oppure ne esprime di lievi come raffreddore, congiuntivite, tosse e pochi decimi di febbre».

Il tampone é utile?

«La crescita improvvisa può essere dovuta a diverse cause. La prima è appunto la strategia di sottoporre al prelievo con tampone faringeo tutti i contatti delle persone malate. Questo ha permesso di individuare persone che non sarebbero mai state diagnosticate come positive. Noi abbiamo cercato, gli altri no. Se ci si fosse limitati al controllo dei pazienti con i sintomi il numero delle infezioni sarebbe stato ridotto. Però ricordiamo che solo la metà delle persone sono state ospedalizzate, le altre sono in quarantena domiciliare, in osservazione, dunque in salute».

Esistono i super trasmettitori?

«Non escludo che all’origine dei focolai italiani possano esserci quelli che noi chiamiamo super trasmettitori. Solitamente il fattore di moltiplicazione di questo nuovo coronavirus è pari a 2.6, vale a dire ogni malato lo trasmette a circa due persone e mezzo. I super trasmettitori sono capaci di diffondere l’infezione a decine di soggetti perché eliminano il virus in alte quantità. Sospetto che nel lodigiano sia accaduto un fenomeno del genere. Sono inoltre d’accordo col collega infettivologo Massimo Galli e con l’intervista pubblicata dal Corriere della Sera: l’ospedale ha fatto da cassa di risonanza. Negli ambienti sanitari esistono tutte le condizioni che favoriscono la moltiplicazione di batteri e virus in pazienti fragili, ricoverati per patologie debilitanti e, spesso, per altre malattie infettive».

Bambini meno colpiti?

«La spiegazione non è semplice. Il sistema immunitario di bambini e adolescenti reagisce meglio a questo coronavirus. Possiamo immaginare che, se colpiti, non vadano incontro a un’evoluzione grave della malattia. Un’indagine con i tamponi faringei nella popolazione giovanile magari mostrerebbe una percentuale di casi anche tra loro. Però non si ammalano».

L’incubazione è 14 giorni?

«Confermo, l’incubazione oscilla tra 2 e 14 giorni. Ci teniamo larghi per precauzione. La media dei giorni reali è più bassa, da 7 a 9. Totalmente infondata l’ipotesi delle tre settimane? In medicina la certezza è una parola da non utilizzare, soprattutto a proposito dei virus, capaci di sorprenderci. Non ci sono evidenze per sospettare di andare oltre le due settimane».

Lavare le mani come?

«Un lavaggio energico con acqua e sapone resta il miglior intervento di pulizia. I gel studiati per disinfettare a fondo la pelle possono essere sostituiti da disinfettanti fai-da-te facili da preparare e portare in borsa. Diluire alcol in acqua rispettando la proporzione di 70% e 30%. Non diluire troppo. Per disinfettare le superfici va benissimo la comune varechina, l’ipoclorito di sodio. La mascherina è una protezione inutile, dovrebbe usarla solo chi ha sintomi influenzali per rispetto verso gli altri. Una buona abitudine che speriamo non venga dimenticata col passare del Covid-19. Quando finirà? La primavera potrebbe spegnerla ma con i virus mai dire mai, sono imprevedibili. In generale non amano il caldo e i raggi del sole».

E’ sicuro prendere l’aereo?

«Il rischio di prendere il coronavirus aumenta tanto più vicini e a lungo sostiamo accanto a un passeggero infetto ma la probabilità di incontrarlo è talmente bassa da non doverci preoccupare. Capisco che la chiusura di scuole, teatri e musei è un provvedimento che trasmette insicurezza. Però ragioniamo, prendiamo coscienza che parliamo di un rischio minimo».

Bloccare le città, misura opportuna?

«Nelle malattie a trasmissione respiratoria i blocchi sono interventi complicati ma servono a ridurre la possibilità di incontro tra i cittadini. Si tratta comunque di una misura di riduzione del rischio, serve a prendere tempo, a contenere. In attesa di agire con altre strategie».

Luigi Ripamonti per corriere.it il 25 febbraio 2020.

Perché proprio in Italia tanti casi di Covid-2019? Anche in altre nazioni europee ci sono stati casi ma non un contagio così esteso.

«Non è affatto detto che in altri Paesi non possa capitare la stessa cosa» risponde Massimo Galli, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano e primario del reparto di Malattie infettive III dell’Ospedale Sacco di Milano. «Da noi si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio se la malattia viene portata da un paziente per il quale non appare un rischio correlato: il contatto con altri pazienti con la medesima patologia oppure la provenienza da un Paese significativamente interessato dall’infezione. Chi è andato all’ospedale di Codogno non era stato in Cina e, fra l’altro, la persona proveniente da Shanghai che a posteriori si era ipotizzato potesse averla contagiata è stato appurato non aver contratto l’infezione. Non sappiamo quindi ancora chi ha portato nell’area di Codogno il coronavirus, però il primo caso clinicamente impegnativo di Covid-19 è stato trattato senza le precauzioni del caso perché interpretato come altra patologia».

Che cosa è accaduto dopo l’entrata del virus nell’ospedale di Codogno?

«L’epidemia ospedaliera implica una serie di casi secondari e terziari, e forse anche quaternari. Dobbiamo capire ora bene come si è diffusa l’infezione e come si diffonderà. Che poi la trasmissione sia avvenuta inizialmente davvero in un bar o in un altro luogo andrà verificato quando avremo a disposizione una catena epidemiologica corretta. Quello che si può dire di sicuro è che queste infezioni sono veicolate più facilmente nei locali chiusi e per contatti relativamente ravvicinati, sotto i due metri di distanza».

In che modo si può pensare sia penetrato il virus in Italia: quali «strade» ha percorso?

«È verosimile che qualcuno, arrivato in una fase ancora di incubazione, abbia sviluppato l’infezione quando era già nel nostro Paese con un quadro clinico senza sintomi o con sintomi molto lievi, che gli hanno consentito di condurre la sua vita più o meno normalmente e ha così potuto infettare del tutto inconsapevolmente una serie di persone. Se l’avessimo fermato alla frontiera avremmo anche potuto non renderci conto della sua situazione. D’altro canto in Francia un cittadino britannico proveniente da Singapore ha infettato diverse persone pur arrivando da una zona non considerata ad alto rischio».

Perché tutti questi casi proprio in Lombardia e in Veneto e non altrove?

«Probabilmente perché Lombardia e Veneto sono le regioni in cui sono più intensi gli scambi con la Cina per ragioni economiche e commerciale, e in cui c’è inoltre un’importante presenza di cittadini cinesi. Non è detto che il primo a portare il virus in Italia sia stato un cinese, potrebbe essere stato anche un uomo d’affari italiano di ritorno da quel Paese».

Stupisce che l’epidemia sia esplosa in una cittadina di provincia. Non era più logico che accadesse da subito in una grande città, dove gli scambi sono più numerosi?

«Tutto il territorio intorno a Milano costituisce una grande area metropolitana, che vive in modo simbiotico. Moltissimi sono coloro che si spostano da un capo all’altro di questa zona. Un’epidemia come quella di Codogno sarebbe stata possibile anche altrove. Possiamo sperare che, dopo quanto accaduto, in qualsiasi Pronto soccorso d’Italia chiunque arrivi con certi sintomi sia trattato con un’attenzione specifica».

Possiamo aspettarci che con l’arrivo della stagione calda i casi diminuiscano?

«Mi auguro di sì ma per un virus nuovo non ci possono essere certezze. In Cina, nel 2002-2003, la Sars è scomparsa verso giugno-luglio. È però difficile dire se sia accaduto per l’arrivo del caldo, per la riduzione delle aggregazioni in luoghi chiusi o per gli interventi messi in atto. Anche le analogie con le epidemie influenzali sono possibili soltanto fino a un certo punto perché alcune di esse non si sono attenute in modo rigoroso all’andamento stagionale».

Perché si insiste tanto sull’importanza della diffusione di un test per gli anticorpi? Non basta la ricerca diretta del virus?

«Il riscontro diretto del virus da un secreto corporeo è fondamentale per identificare le persone che hanno l’agente patogeno in quel momento e quindi possono diffonderlo e potrebbero aver bisogno di cure. La ricerca degli anticorpi serve invece a dirci se si è già venuti in contatto con il virus, ed è utile, per esempio, in casi come quelli dell’ipotetico “paziente zero” di Codogno per stabilire se poteva essere davvero tale, oppure per condurre studi epidemiologici a posteriori, che fanno capire quante persone si sono infettate e non ce ne siamo accorti, oppure per l’identificazione di ambiti di particolare rischio. Questo coronavirus è nuovo e quindi il kit per la determinazione degli anticorpi non poteva ovviamente essere trovato in commercio, il suo allestimento è stato possibile grazie all’isolamento del virus».

Qual è la reale letalità di questa infezione. Si parlava all’inizio del 2%. È confermata?

«Per adesso, se dobbiamo parlare in base ai dati relativi alla provincia di Hubei, in Cina, la letalità è del 3,8%, lievemente salita rispetto all’inizio perché tiene conto dei decessi avvenuti successivamente. La letalità è più bassa se si considerano i casi fuori della Cina perché ci sono stati meno morti. È comunque più alta fra gli ultrasessantacinquenni, perché hanno un fisico meno idoneo a combattere l’infezione».

Qual è il momento in cui un malato è più contagioso?

«Nella Sars la massima diffusione del virus si verificava svariati giorni dopo l’inizio dei sintomi respiratori. Speriamo che sia così anche per questo virus, ci sono elementi che ce lo possono far supporre».

Che armi abbiamo contro Covid-19?

«Per curare i malati abbiamo possibilità solo di tipo sperimentale in uso “compassionevole”, cioè non all’interno di uno studio controllato, bensì in utilizzo diretto per vedere se la cura funziona. In questo modo, però avremo poche informazioni sull’efficacia o meno della terapia perché se il decorso dovesse essere infausto non potremo dire in assoluto che il farmaco non funziona, se invece fosse buono non potremmo essere sicuri che sia per merito del farmaco. Allo stato attuale si ragiona sul ricorso all’associazione Lopinavir/Ritonavir a lungo utilizzato contro l’Hiv, però non abbiamo prove con studi in vivo che funzioni davvero anche su questo coronavirus. Un’altra opzione presa in considerazione è il Remdesivir. La prima soluzione è un inibitore delle proteasi, agisce cioè verso un enzima che assembla le proteine virali, una sorta di “sarto”. Il secondo farmaco agisce invece inserisce una “tesserina” sbagliata nella catena dell’Rna del virus in modo che non possa più replicarsi».

Ci sarà un vaccino? E se sì quando?

«Il precedente dell’Hiv, per il quale stiamo ancora aspettando il vaccino dovrebbe indurre a prudenza nelle previsioni. Tuttavia l’Hiv è un virus molto diverso da questo coronavirus, che ha invece caratteristiche tali da farci pensare che si potrebbe disporre di un vaccino in tempi non lunghissimi. Vale la pena fare due annotazioni per comprendere però in quale terreno ci si muove. La prima è che siamo ancora solo ai primi passi sperimentali per il vaccino contro la Mers, che pure circola dal 2012 in una nazione ricca come l’Arabia Saudita. Una seconda considerazione è che per la Sars l’interesse a realizzare un vaccino c’è stato ma è subito scemato perché la malattia è sparita in fretta. Nel caso di Covid -19 l’infezione sta interessando tutto il mondo e quindi lo sforzo della ricerca è molto più robusto e diffuso. Va infine ricordato che nella produzione di un vaccino entrano tante variabili che rendono difficile fare previsioni. Sarebbe più facile realizzare un vaccino per un virus pandemico influenzale perché le modalità di produzione per quel tipo di vaccino sono ampiamente sperimentate. Intanto sarebbe opportuno imparare a vaccinarci contro l’influenza. I dati di adesione, anche fra gli ultrasessantacinquenni sono ancora troppo bassi».

Che cosa fare ora, come comportarsi come singoli cittadini?

«Condurre la propria vita normalmente attendendo disposizioni da parte delle autorità preposte e rispettarle».

In relazione al titolo di questa intervista apparso sull’edizione cartacea e, in una prima edizione, sul sito, il professor Galli intende precisare che «l’epidemia si è chiaramente generata al di fuori dell’Ospedale di Codogno e che nell’Ospedale di Codogno ha trovato soltanto un ambito di amplificazione, colpendo colleghi che non erano in condizione di poter sospettare che il paziente giunto alla loro osservazione fosse portatore dell’infezione da Coronavirus».

Elisabetta Andreis per "corriere.it" il 23 febbraio 2020. Questa è la storia di un signore cinese di 83 anni che dorme dentro un supermarket. Mercoledì sera lo nota Lapo Elkann: il rampollo di casa Agnelli va al Carrefour di corso Lodi, aperto 24 ore su 24. Vede l’anziano sdraiato sulla panchina d’ingresso, con l’aria sperduta. Davanti a sé ha il parcheggio di Brenta, di fianco un trolley, una bottiglia d’acqua e una brioche, forse regalata da qualcuno. Per il resto è solo. I commessi del supermarket spiegano che vive lì da circa un mese. Lapo, scosso, esce e posta un tweet: «Sono venuto a conoscenza della storia di un anziano cinese malato (...) Lo aiutiamo?». Giovedì, molto presto, quando ancora il sole non è sorto, quel signore sta sulla sua panca. Una coppia di ragazzi cinesi, lì per caso, lo nota: sono Vanessa, studentessa della Naba, e Stefano, dell’artistico Brera. Se c’è da aiutarlo, sono disponibili. Fanno da traduttori improvvisati, visto che l’anziano parla solo mandarino e pochissimo inglese. In tasca ha la fotocopia lisa di un permesso di soggiorno svizzero. Fa capire che negli anni ha perso tutto — il passaporto, il bancomat e buona parte di memoria —. I giovani, generosi e intraprendenti, provano a indagare un po’. Si chiama Xie Ruowang e la sua foto compare in un sito cinese analogo a «Chi l’ha visto?». Iniziano a emergere tasselli di vita. Online chiedeva su di lui informazioni un pastore della comunità cristiana evangelica cinese di Roma che lo aveva appena conosciuto e voleva aiutarlo. Rispondeva fornendo «indizi», con tanto di documenti e foto, uno studioso dall’altra parte del globo: dalla Fudan university di Shanghai. Aveva incrociato Xie Ruowang a un grande evento che si era tenuto addirittura nel 2008. Il signore che dorme al Carrefour, all’epoca già anziano, era stato invitato come relatore esperto di filosofia e letteratura. Ricercatore di fama internazionale, ha lavorato per tutta la vita tra Shanghai e Zurigo. Formatosi all’università di Zhejiang, poi chiamato in Svizzera. Non ha figli né parenti. In Cina è stato per l’ultima volta nel 2008 e ha tentato di mettersi in contatto con i suoi grandi amici: l’ex vice preside dell’università di Zhejiang e Zhu Dongrun, professore e suo ex collega. Ma entrambi erano già morti e questa è una delle poche cose che l’anziano si ricorda bene: «Non ho potuto salutarli, e io non sono mai più tornato in Cina». Un anno fa è arrivato, chissà perché, a Roma. «Si è presentato un giorno alla messa con il suo enorme trolley nero e, finita l’omelia, rimaneva lì — racconta Gao, pastore della Chiesa cristiana evangelica cinese di via Principe Eugenio, nella Capitale —. Dovevo chiudere la chiesa ma non se ne andava, allora ho capito che non aveva dove stare». Per un anno quel pastore l’ha fatto mangiare, si è preoccupato per lui. È diventato punto di riferimento, tanto che l’anziano Xie, pur non possedendo un telefono, si tiene in tasca il suo numero. «Gli abbiamo offerto un posto in dormitorio ma preferiva stare qui, sulla panca della chiesa — sospira —. In un mondo ideale avrebbe supporto psicologico. O forse avrebbe solo bisogno di un figlio, che però non ha». A gennaio Gao è partito per un viaggio in Israele e il suo amico si è sentito perso. Ha caricato il suo trolley sul treno ed è arrivato a Milano. Dalla stazione Centrale, in metropolitana, fino a Brenta. È sceso ad una fermata casuale. Ha trovato il Carrefour, aperto anche di notte. Dalla panca della chiesa a quella del supermarket, ha affondato radici lì, come fosse una casa. I commessi fanno a gara per portargli qualcosa da mangiare «ma non voleva che avvertissimo nessuno», dice Paola, che si è affezionata. La catena di solidarietà finora non è servita a toglierlo dalla strada, da oggi chissà. Quando i due studenti gli chiedono, in mandarino, cosa vorrebbe fare, lui risponde: «Trovare degli amici, ritornare in Cina». Chissà poi se quella sarebbe la soluzione: andare da chi? È partita una colletta. Stanza d’hotel pagata, nel quartiere. Come si è appoggiato al letto, Xie si è addormentato.

Coronavirus, Franco Bechis sulla bugia del Fatto: "Più malati in Italia perché più bravi? Da camicia di forza". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. "Noi li cerchiamo, altri Paesi se ne infischiano": apre così il Fatto Quotidiano nell'edizione di martedì 25 febbraio per spiegare perché l'Italia detiene già il record di contagi in Europa ed è terza in tutto il mondo. Una spiegazione che non convince Franco Bechis, per il quale è "una bugia" sostenere che "l'Italia ha più casi di coronavirus perché ha fatto più test". "La Francia - scrive su Twitter il direttore de Il Tempo - dai primi di febbraio ne fa 400 al giorno, la Germania ne ha fatti migliaia. Dire che abbiamo più malati degli altri perché siamo più bravi è da camicia di forza". Una tesi, quella di Bechis, che è in controtendenza anche rispetto al parere della virologa Ilaria Capua, secondo cui "troviamo tutti questi malati perché semplicemente abbiamo cominciato a cercarli. Cioè abbiamo iniziato a porci il problema se certe gravi forme respiratorie simil-influenzali fossero o meno provocate dal coronavirus". Insomma, più test specifici si fanno e più è probabile individuare casi da Covid-19, ma la vera differenza tra l'Italia e gli altri paesi europei sta nel paziente zero. I francesi e i tedeschi lo hanno subito rintracciato ed è quindi stato più facile gestire l'emergenza, mentre in Lombardia e in Veneto il contagio è venuto alla luce quando ormai era quasi impossibile ricostruire tutti i contatti avuti dagli infetti. E infatti ormai il paziente zero non è più così necessario, a dispetto di un numero enorme di test sulla popolazione delle aree colpite dal coronavirus. 

·        Il Coronavirus in Italia.

Covid-19 - Situazione in Italia, da salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus. Nel nostro Paese è attiva fin dall'inizio della pandemia una rete di sorveglianza sul nuovo coronavirus. Il monitoraggio dell'epidemia dei casi di Covid-19 in Italia viene effettuato attraverso due flussi di dati giornalieri: il flusso dei dati aggregati inviati dalle Regioni coordinato da Ministero della Salute (prima con il solo supporto della Protezione Civile) e dal 25 giugno 2020 anche con il supporto di ISS, per raccogliere informazioni tempestive sul numero totale di test positivi, decessi, ricoveri in ospedale e ricoveri in terapia intensiva in ogni Provincia d’Italia. il flusso dei dati individuali inviati dalle Regioni all'Istituto Superiore di Sanità (Sorveglianza integrata Covid-19, ordinanza 640 della Protezione Civile del 27/2/2020), che comprende anche i dati demografici, le comorbidità, lo stato clinico e la sua evoluzione nel tempo, per un'analisi più accurata. Dal 25 giugno la scheda con l’aggiornamento quotidiano dei dati è stata integrata con i “casi identificati dal sospetto diagnostico” (casi positivi al tampone emersi da attività clinica) e “casi identificati da attività di screening” (indagini e test, pianificati a livello nazionale o regionale, che diagnosticano casi positivi al tampone). Tutti i dati sono consultabili anche sulla mappa interattiva (dashboard) del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile. 

N.B. La conferma che la causa del decesso sia attribuibile esclusivamente al SARS-CoV-2 verrà validata dall'Istituto Superiore di Sanità. Il numero dei positivi totali può subire variazioni in base ad eventuali ricalcoli da parte delle Regioni interessate.

Report monitoraggio fase 2. Per la gestione della Fase 2 della pandemia in Italia è stato attivato uno specifico sistema di monitoraggio  (Sorveglianza settimanale Regioni), disciplinato dal decreto del ministero della Salute del 30 aprile 2020, sui dati epidemiologici e sulla capacità di risposta dei servizi sanitari regionali. Il monitoraggio è elaborato dalla cabina di regia costituita da ministero della Salute, Istituto superiore di sanità e Regioni.

Caratteristiche dei pazienti deceduti COVID-19 positivi. Ecco le principali caratteristiche dei pazienti deceduti sulla base dei dati ISS (ultimo aggiornamento 25 giugno 2020):

Età media  80 anni

Età mediana 82 anni (più alta di quasi 20 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione e la cui età mediana è di 62 anni)

Sesso

uomini 58%

donne 42%%

Patologie pregresse al momento del ricovero

Pazienti con 0 patologie pre-esistenti 4,1%

Pazienti con 1 patologia pre-esistente 14,5%

Pazienti con 2 patologie pre-esistenti 21,3%

Pazienti con 3 o più patologie pre-esistenti 60,1%

Aree geografiche con la percentuale maggiore di deceduti

Lombardia con 49,5%

Emilia Romagna con il 12,7%

Piemonte con il 8,9%.

Veneto con il 6%

Sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nelle persone decedute

febbre 76%

dispnea 73%

tosse 39%

diarrea 6%

emottisi 1%

I primi casi in Italia. I primi due casi di Coronavirus in Italia, una coppia di turisti cinesi, sono stati confermati il 30 gennaio dall'Istituto Lazzaro Spallanzani di Roma, dove sono stati ricoverati in isolamento dal 29 gennaio e dichiarati guariti il 26 febbraio. Il primo caso di trasmissione secondaria si è verificato a Codogno, Comune della Lombardia in provincia di Lodi, il 18 febbraio 2020.

Misure di contenimento. L'Italia ha bloccato il 30 gennaio con un'Ordinanza del ministro della Salute tutti i voli da e per la Cina per 90 giorni, oltre a quelli provenienti da Wuhan, già sospesi dalle autorità cinesi.

Il Governo italiano ha dichiarato il 31 gennaio lo Stato di emergenza, stanziato i primi fondi e nominato Commissario straordinario per l'emergenza il Capo della protezione civile Angelo Borrelli.

Con il decreto del Capo del Dipartimento della protezione civile del 5 febbraio 2020 è stato istituito un Comitato tecnico-scientifico per fronteggiare emergenza, poi ampliato con ordinanza del 18 aprile 2020.

Come previsto dal Decreto legge 18 del 2020, il Presidente del Consiglio dei Ministri con decreto del 18 marzo 2020 ha nominato Domenico Arcuri Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Il Consiglio dei ministri ha varato un primo decreto legge  il 23 febbraio 2020 con misure per il divieto di accesso e allontanamento nei comuni dove erano presenti focolai e la sospensione di manifestazioni ed eventi.

Successivamente sono stati emanati i seguenti decreti attuativi: il Dpcm 25 febbraio 2020, il Dpcm 1° marzo 2020, il Dpcm 4 marzo 2020, il Dpcm 8 marzo 2020, il Dpcm 9 marzo 2020 #Iorestoacasa, il Dpcm 11 marzo 2020 che chiude le attività commerciali non di prima necessità.

Tra le misure adottate l'ordinanza 22 marzo 2020, firmata congiuntamente dal Ministro della Salute e dal Ministro dell'Interno, che vietava a tutte le persone fisiche di trasferirsi o spostarsi con mezzi di trasporto pubblici o privati un comune diverso da quello in cui si trovano, salvo che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza ovvero per motivi di salute.

Il Governo ha poi emanato con il Dpcm 22 marzo 2020 nuove ulteriori misure in materia di contenimento e gestione dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull'intero territorio nazionale. Il provvedimento prevedeva la chiusura delle attività produttive non essenziali o strategiche. Restano aperti alimentari, farmacie, negozi di generi di prima necessità e i servizi essenziali. Le stesse disposizioni si applicano, cumulativamente al Dpcm 11 marzo 2020 nonché a quelle previste dall’ordinanza del Ministro della salute del 20 marzo 2020 i cui termini di efficacia, già fissati al 25 marzo 2020, sono entrambi prorogati al 3 aprile 2020.

Con il DPCM 1 aprile 2020, tutte le misure per contrastare il diffondersi del contagio da coronavirus sono state prorogate fino al 13 aprile 2020. Il decreto entrato in vigore il 4 aprile sospende anche le sedute di allenamento degli atleti, professionisti e non professionisti, all’interno degli impianti sportivi di ogni tipo.

In seguito con il DPCM 10 aprile 2020 tutte le misure sono state prorogate fino al 3 maggio. Il Decreto ha permesso la riapertura dal 14 aprile dei negozi per neonati e bambini, librerie e cartolibrerie.

Con il DPCM 26 aprile 2020 sono specificate le misure per il contenimento dell'emergenza Covid-19 della cosiddetta "fase due” .

Le disposizioni del decreto si applicano a partire dal 4 maggio 2020 in sostituzione di quelle del DPCM 10 aprile 2020 e sono efficaci fino al 17 maggio 2020, a eccezione di quanto previsto per le attività di imprese, che si applicano dal 27 aprile 2020 cumulativamente.

Il Decreto legge 33 del 2020 disciplina la fine delle limitazioni agli spostamenti e la riapertura delle attività produttive, commerciali, sociali a partire dal 18 maggio e fino al 31 luglio.

Con il DPCM 17 maggio 2020 vengono definite le misure di prevenzione e contenimento per la convivenza con il coronavirus.

Infine, con il DPCM 11 giugno 2020 viene autorizzata la ripresa di ulteriori attività.

Coronavirus, i cinesi contagiati a Roma: "Cosa hanno fatto in hotel", la ricostruzione ad Agorà. Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Primi due casi di coronavirus in Italia. La notizia la hanno data nella serata di giovedì Giuseppe Conte e Roberto Speranza in conferenza stampa. Si tratta di due coniugi cinesi provenienti dalla zona di Wuhan che si trovavano in Italia per turismo. E gli ultimi aggiornamenti sulla vicenda sono arrivati da Agorà, il programma del mattino in onda su Rai 3, dall'inviato che si trovava fuori dall'hotel Palatino dove i due asiatici soggiornavano. "I due coniugi ora sono all'ospedale - premette -. La stanza dell'hotel Palatino è stata sigillata per consentire alla Asl le procedure di decontaminazione e chiaramente sono scattate le misure di sorveglianza sanitaria anche per le persone che erano entrate in contatto con i due coniugi, compreso il personale dell'albergo". L'inviato Rai poi sottolinea che "i due coniugi sono rimasti quasi sempre in stanza: si sono sentiti poco bene subito dopo essere arrivati. In albergo l'atmosfera ora è tranquilla e serena, non c'è allarmismo: dicono che è tutto sotto controllo", conclude. Niente allarmismo, insomma.

Coronavirus, tutti i luoghi in cui è stata la coppia cinese contagiata a Roma. In hotel, il cambio stanza. Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. I primi segnali mercoledì pomeriggio, con violenti attacchi di tosse, poi un velocissimo peggioramento delle condizioni di salute: si parla dei due cinesi contagiati dal coronavirus, primi due casi ufficiali in Italia confermati nella serata di giovedì. I due stavano all'hotel Palatino, in via Cavour a Roma, dove hanno alloggiato per due giorni. La coppia cinese, originaria di Wuhan, ora sono ricoverati in ospedale. I due viaggiavano soli, pur all'interno di una comitiva che è stata rintracciata dalla polizia vicino a Cassino, e dunque condotta al Lazzaro Spallanzani, il risultato dove i due contagiati sono ricoverati. In precedenza, la coppia era stata a Milano: era atterrata allo scalo di Malpensa il 23 gennaio. Il soggiorno nel capoluogo lombardo è durato soltanto un giorno. Quindi il tour a Parma e in altre città d'arte. A Roma sono arrivati lo scorso martedì: nella Capitale, hanno ricostruito gli inquirenti, si sono spostati per il centro storico, visitando i più famosi musei e i luoghi di interesse turistico. All'hotel Spallanzani sono sigillate le stanze all'interno delle quali sono stati. Già, perché i due - questo è un piccolo giallo - per ragioni ancora da chiarire, hanno chiesto il cambio della stanza. La coppia è composta da un uomo di 67 anni, mentre la moglie ne ha uno in meno. Nella Capitale, dopo il contagio confermato, è scattato il piano di Difesa civile, che viene coordinato dalla Prefettura (che tra le varie emergenze prende in considerazione anche le epidemie).

Quali città italiane hanno visitato i turisti cinesi colpiti da Coronavirus. Redazione de Il Riformista il 30 Gennaio 2020. Sono marito e moglie di 66 e 67 anni i due turisti cinesi colpiti da coronavirus a Roma. La coppia proviene dalla provincia di Wuhan, considerata il primo focolare del virus. Sono arrivati in Italia  una settimana fa, lo scorso 23 gennaio, all’aeroporto milanese di Malpensa. Da lì sarebbero partiti in tour nelle province italiane, tra cui la città di Parma, insieme a una comitiva di altri turisti cinesi. Quest’ultimi erano diretti oggi in pullman a Cassino per una gita ma, dopo il caso della coppia, sono stati scortati dalle forze dell’ordine all’ospedale Spallanzani di Roma per accertamenti. Marito e moglie, invece, sono stati soccorsi ieri sera, mercoledì 29 gennaio con sintomi riconducibili al coronavirus. Poi oggi la conferma e l’annuncio del premier Giuseppe Conte: “C’erano due casi sospetti, abbiamo avuto l’aggiornamento: questi due casi sono confermati. Anche in Italia abbiamo i primi due casi, due turisti cinesi da qualche giorno nel nostro paese”. Poi ha aggiunto: “Abbiamo già predisposto tutte le misure precauzionali per isolare questi due casi”. L’Italia, ha poi spiegato il premier, ha deciso di chiudere il traffico aereo da e per la Cina. “Non ci siamo fatti trovare impreparati, il ministro Speranza ha appena adottato un’ordinanza che chiude il traffico aereo da e per la Cina”. Domani, venerdì 31 gennaio, si terrà un Coniglio dei Ministri alle ore 10. Per l’emergenza è stato annullato un vertice sull’ILVA. La stanza dell’hotel di via Cavour dove la coppia alloggiava è stata sigillata dalla polizia. Gli agenti della questura della Capitale sono intervenuti dopo essere stati allertati dall’ospedale.  “E’ già stata attivata la sorveglianza sanitaria alle persone venute in contatto con la coppia ricoverata presso l’istituto nazionale malattie infettive “Spallanzani”. Sono scattate tutte le misure previste dai protocolli sia per quanto riguarda alcune persone dell’albergo, sia riguardo gli altri componenti del gruppo di turisti. Al momento sono tutti asintomatici e non destano preoccupazione”. Lo comunica in una nota l’Assessorato alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria della Regione Lazio.

L’Allied Pilots Association, un sindacato che rappresenta 15.000 piloti dell’American Airlines, ha chiesto a un giudice un’ordinanza restrittiva temporanea e immediata contro la compagnia per fermare il servizio del vettore USA-Cina, citando “gravi, e per molti versi ancora sconosciuti, minacce alla salute poste dal coronavirus”, lo scrive il sito della Cnn. “La sicurezza e il benessere dei nostri equipaggi e dei passeggeri devono essere sempre la nostra massima priorita’, prima, ultima e sempre”, ha detto il presidente dell’APA, il capitano Eric Ferguson. “Numerosi altri importanti vettori che servono la Cina, tra cui British Airways, Air Canada e Lufthansa, hanno scelto di sospendere il servizio verso quel Paese per eccesso di cautela”. Il consiglio dei ministri è convocato per domani alle ore 10. E’ quanto si apprende da fonti di governo.

Dall’aeroporto di Malpensa a Firenze: il viaggio in Italia della coppia ricoverata a Roma per il coronavirus. Pubblicato martedì, 04 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Si sono aggravate le condizioni della coppia di turisti cinesi ricoverata allo Spallanzani di Roma il 29 gennaio scorso. I due, 66 e 65 anni, hanno contratto il coronavirus in Cina prima del viaggio in Italia. Ecco le tappe del loro tour ricostruito nei giorni scorsi. Volo «Ca 949» partito da Pechino e atterrato a Milano Malpensa il 23 gennaio alle 5.35. È l’aereo che ha portato in Italia i due coniugi cinesi risultati positivi al test del coronavirus e ricoverati all’ospedale Spallanzani di Roma. Dovevano fare un tour nelle città più belle d’Italia, sono da giorni in isolamento nel reparto malattie infettive. Ma prima di arrivare nella Capitale hanno viaggiato prima a bordo di un pullman e poi hanno preso un’auto con conducente. Sono stati a Verona, a Parma, a Firenze. Hanno mangiato nei ristoranti e soggiornato in hotel, hanno fatto passeggiate e visitato monumenti. Ecco perché sono scattate le verifiche delle autorità sanitarie, ma anche di polizia e carabinieri, per rintracciare le persone che sono entrate in contatto con loro in modo da poter effettuare i controlli ed escludere il contagio. L.X.M.ha 66 anni, sua moglie, H.Y. ne ha 65. Vivono a Wuhan e con un gruppo di connazionali decidono di comprare un «pacchetto» della Kuoni per un tour in Italia. Prima tappa Pechino, poi volo diretto verso Milano. Quando atterrano, all’alba del 23 gennaio, il mondo è già in allarme per il coronavirus, ma negli scali italiani non è stato predisposto alcun controllo specifico. E dunque dopo aver compilato i moduli per chi proviene dai Paesi extra Ue e aver ritirato i bagagli, salgono sul pullman diretti a Verona. Arrivano nella città veneta e visitano alcuni tra i luoghi più suggestivi. Trascorrono alcune ore nel centro storico, passeggiano insieme agli altri turisti, si fermano per il pranzo. Nel pomeriggio si dirigono verso il grande hotel di una catena internazionale in zona Fiera. Arrivano alle 19,30. L’addetto alla reception registra i documenti, la coppia sale in camera così come il resto della comitiva. L’ispezione ordinata ieri dalla Asl impone il «congelamento» della stanza dove hanno dormito e la bonifica dei luoghi dove sono stati. Ma anche le analisi cliniche per tutte le persone che con loro hanno avuto contatti, sia pure in maniera sporadica. Sale da pranzo, luoghi comuni, ogni posto viene controllato. «Ma noi siamo tranquilli», assicurano dalla direzione dell’albergo». Alle 8 della mattina successiva il pullman riprende il cammino e si dirige verso l’Emilia-Romagna. Destinazione Parma. In realtà il viaggio della coppia prosegue con il resto della comitiva soltanto per poche ore. Il 25 gennaio tutto il gruppo va via perché il tour prevede altre tappe prima della costiera amalfitana. I coniugi decidono invece di rimanere nell’hotel di Parma. Non si sa se abbiano cominciato ad accusare i primi sintomi della malattia o se invece abbiano deciso di proseguire da soli perché scontenti dell’organizzazione. Scelgono di rimanere nello stesso hotel per una notte mentre il 26 gennaio cambiano albergo e si spostano più in centro. Le verifiche su dove siano andati e su che cosa abbiano fatto in quei giorni sono ancora in corso, soprattutto per scoprire se siano stati in bar o ristoranti. Certamente sono usciti e poi hanno deciso di proseguire il viaggio affittando una macchina con autista. L’uomo va a prenderli con la vettura a noleggio il 27 per portarli a Firenze, dove giungono dopo pranzo. Anche per lui scatta la procedura per la verifica di eventuali sintomi e dunque una sorta di quarantena visto che ha avuto con entrambi rapporti stretti e prolungati. Li accompagna in un piccolo hotel del centro storico, con loro fa anche un giro nei dintorni, qualcuno dice che siano stati sulle colline del Chianti. Evidentemente le condizioni di salute della coppia continuano però a peggiorare. Saltano tutte le tappe intermedie e si dirigono direttamente a Roma. Il 28 gennaio, quando arrivano nella capitale sono entrambi influenzati. Il cameriere di un ristorante cinese del centro storico racconta di averli riconosciuti tra i clienti entrati quella sera, loro dicono di aver fatto una passeggiata. Giurano di non aver preso mezzi pubblici. Certamente la mattina del 29 il marito comincia a stare davvero male, tanto che verso le 17 la donna si rivolge alla reception e chiede aiuto. È molto agitata, spiega che bisogna chiamare al più presto un medico. Il personale dell’hotel lancia l’allarme e dopo pochi minuti arriva l’ambulanza con gli infermieri in tuta bianca e mascherina. Scatta la procedura prevista per le malattie infettive. I due vengono ricoverati e venerdì sera arriva la conferma: hanno il coronavirus. Sono i pazienti «zero» italiani.

L’ingegnere biochimico  e la moglie in isolamento:  «Ci siamo ammalati a Roma e siamo stati solo in hotel». Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Cinque giovani traduttori dell’Istituto Confucio dell’università La Sapienza si alternano 24 ore su 24 nel centro di isolamento della IV divisione dell’ospedale Lazzaro Spallanzani. Sono loro a trasformare in parole gli sfoghi e le richieste di supporto, anche morale, dei turisti cinesi trattenuti in osservazione o attualmente in cura perché hanno contratto il virus. Questi ultimi per il momento sono solo due, marito e moglie, originari proprio di Wuhan, l’epicentro dell’epidemia che in Cina, secondo fonti ufficiali, ha già ucciso più di 200 persone e ne ha contagiate oltre 10 mila (per le Organizzazioni non governative, invece, sarebbero molte di più, addirittura 75 mila). I coniugi dormono in stanze separate, sigillate, come gli altri degenti sottoposti a controlli per il sospetto contagio da 2019-n-CoV. Con i medici che li visitano tre volte al giorno e un altissimo livello di attenzione alla minima mutazione del panorama clinico. L.X.M., 66 anni, è un ingegnere biochimico. È abituato a rapportarsi con i medici. Appare tranquillo — come lo era il pomeriggio del 29 gennaio scorso in via Cavour sull’ambulanza protetta del 118 che di lì a poco lo avrebbe portato via dall’Hotel Palatino —, ma lo è anche la moglie, H.Y., di un anno più giovane. È stata lei a dare l’allarme preoccupata dal fatto che da due giorni il marito stava male. Il clima con il personale sanitario del centro per la cura delle malattie infettive è tutto sommato buono. E le loro condizioni, secondo il direttore scientifico Giuseppe Ippolito, «sono discrete». «Siamo sereni — sottolineano i coniugi, secondo chi li assiste in ospedale — e vogliamo rassicurare tutti: ci siamo ammalati appena arrivati a Roma e non siamo usciti dall’albergo. Abbiamo cenato in camera, abbiamo sempre indossato le mascherine di protezione (le avevano anche la sera in cui sono stati soccorsi, come viene confermato in un video finito in Rete, ndr). Niente mezzi pubblici, niente visite ai musei. In pratica — dicono ancora — non siamo andati in giro. Ma vogliamo ringraziare tutti coloro che ci stanno aiutando qui a Roma, per i primi soccorsi, per l’accoglienza, le cure, la disponibilità». Parole che autorizzano un cauto ottimismo su quello che potrebbe accadere nei prossimi giorni, anche se si prosegue con i piedi di piombo. Oggi lo Spallanzani dovrebbe emettere un nuovo bollettino medico sulle condizioni della coppia di turisti, dopo il primo, nel pomeriggio di ieri, già abbastanza tranquillizzante. Lei — secondo i medici — «presenta un iniziale interessamento interstiziale polmonare, febbricola e congiuntivite bilaterale», lui invece «un interessamento polmonare più pronunciato, con febbre, tosse e astenia». L’umore sarebbe ottimale, sempre tenendo presente le condizioni in cui trascorrono queste giornate marito e moglie, che sono stati informati nei minimi particolari sul loro stato di salute. Il fatto che si siano premuniti da soli facendo ricorso alle mascherine è stato giudicato positivo e segno di responsabilità. D’altra parte i cittadini cinesi hanno già dovuto affrontare la Sars, e sono abituati a prendere precauzioni ormai da anni.
Non si esclude che nei prossimi giorni possano essere messi in contatto con rappresentanti dell’ambasciata cinese di via Bruxelles, come anche i connazionali tuttora trattenuti allo Spallanzani, dai compagni di viaggio fermati in pullman al casello autostradale di Cassino (tutti asintomatici, come anche i due autisti che li accompagnavano) ai cinesi — turisti e residenti a Roma — che si sono presentati spontaneamente al pronto soccorso (in nove, e sono stati dimessi), fino alla ragazza di 24 anni con febbre alta, da poco tornata dalla Cina e accompagnata ieri pomeriggio da Frosinone con un’ambulanza scortata fino all’ospedale al Portuense. A tutt’oggi, anche per ragioni di privacy, la delegazione diplomatica non ha potuto incontrare le persone assistite dai medici italiani, ma le cose potrebbero cambiare in fretta. Intanto, in mancanza almeno per il momento di una cura per debellare il Coronavirus — e tantomeno di un vaccino per bloccarlo —, la terapia per la coppia ricoverata consiste, come spiega Emanuele Nicastri, direttore della divisione Malattie infettive, in «reidratazione per via endovenosa, terapia antibiotica per il paziente maschio e una terapia locale per la congiuntivite per la moglie». Anche in questo caso si attendono gli sviluppi nei prossimi giorni per capire come proseguire nella cura dei pazienti, per il momento gli unici con il virus su tutto il territorio nazionale. E per questo motivo continuano nella Capitale gli accertamenti per ricostruire nei minimi dettagli cosa abbiano fatto i coniugi fra il 28 e il 29 gennaio, date in cui come aveva dichiarato la donna in un primo momento, erano usciti dall’hotel per fare una o due brevi passeggiate. Forse fra il rione Monti e il Colosseo.

Coronavirus, terzo caso sospetto all'hotel Palatino di Roma: si tratta di un operaio. Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Oltre ai due casi di Coronavirus già accertati, ce ne sarebbe un terzo. A Roma, all'Hotel Palatino di via Cavour, un operaio romeno di 42 anni sarebbe stato contagiato dalla coppia di turisti positivi alla malattia. L'uomo, secondo il Corriere della Sera, sarebbe quasi sicuramente venuto in contatto con la coppia che alloggiava nell'albergo della Capitale dove Marian C. (questo il suo nome) lavorava. Circostanza che dimostra quanto il virus sia aggressivo. Il paziente, con febbre alta e tosse, è arrivato al pronto soccorso dell'ospedale di Tivoli intorno alle 17 di giovedì, lamentando gli stessi sintomi imputati al virus proveniente da Wuhan. Ora - prosegue il quotidiano di via Solerino - l'uomo si trova in isolamento in una stanza dedicata. Immediata anche la comunicazione al 118 che ha inviato a Tivoli un'ambulanza ad alto biocontenimento della Cri per il trasferimento d'emergenza all'Istituto nazionale per le malattie infettiva Lazzaro Spallanzani di Roma.

Coronavirus, nuovo caso sospetto: è operaio dell’hotel dove soggiornavano i due contagiati. Redazione de Il Riformista il  31 Gennaio 2020. Nuovo caso sospetto di Coronavirus in Italia. Si tratterebbe di un uomo che ha lavorato nell’hotel della capitale in cui erano ospitati i due turisti cinesi ricoverati dalla scorsa sera all’Ospedale Spallanzani della capitale. L’uomo, un operaio di 42 anni, è stato messo in isolamento e ricoverato anche lui presso la stessa struttura ospedaliera e messo sotto osservazione. Il nuovo caso aumenta la psicosi che si sta diffondendo in Italia. L’uomo è sicuramente venuto in contatto con la coppia contagiata, direttamente o indirettamente, avendo frequentato gli stessi ambienti. Il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza per sei mesi in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili. Tra le misure prese anche lo stanziamento iniziale di 5 milioni di euro, diretta conseguenza della decisione dell’Oms di lanciare l’emergenza globale.

LA COPPIA CONTAGIATA – La notizia del contagio arrivato in Italia è stata fornita in una conferenza stampa convocata d’urgenza nella serata di giovedì dal premier Giuseppe Conte. Si tratta di due turisti cinesi arrivati nel nostro Paese a gennaio; la coppia è ricoverata da ieri in isolamento all’ospedale Spallanzani di Roma e sarebbe in buone condizioni. Sono scattate subito tutte le misure sanitarie per isolare i soggetti ed è stata già sigillata dalla polizia la stanza dell’hotel della Capitale in via Cavour dove alloggiavano. Un bus di turisti cinesi è stato scortato allo Spallanzani per i controlli. Secondo quanto si apprende dalla questura, le persone a bordo appartenevano allo stesso gruppo della coppia che ha contratto il virus.

STOP AEREO DA E PER LA CINA – Il governo ha varato una misura inedita: blocco del traffico aereo da e per la Cina. “Assicuro che non c’è nessun motivo di creare panico sociale”, ha spiegato il premier in conferenza stampa, aggiungendo come “la situazione è assolutamente sotto controllo. Questo, però, non significa che ci stiamo appagando delle prime misure”.

LE PAROLE DEL MINISTRO DELLA SALUTE – “La situazione internazionale va seguita con la massima attenzione perché seria, ma non bisogna fare allarmismo”, ha aggiunto il ministro della Salute Roberto Speranza. “I due pazienti sono in isolamento, in buone condizioni. La tempestività dell’intervento ci fa pensare che non ci sono persone esposte. Questo ci fa essere abbastanza tranquilli, non c’è il rischio di popolazione”, ha aggiunto il direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito. Anche il Servizio Sanitario del Lazio si è attivato, con la sorveglianza sanitaria alle persone venute in contatto con la coppia ricoverata presso l’istituto nazionale di malattie infettive.

SBARCANO I PASSEGGERI DI CIVITAVECCHIA – È iniziato lo sbarco dei quasi 6mila passeggeri della nave da crociera Costa ormeggiata al porto di Civitavecchia (Roma), che erano bloccati da ieri per controlli relativi al coronavirus. Le tv mostrano infatti lo sbarco e decine di pullman allontanarsi dalla banchina con a bordo i passeggeri scesi. Nella serata di ieri era arrivata infatti la negatività dei due casi sospetti sulla nave Costa Crociere a Civitavecchia dopo giorni di falsi allarmi.

Coronavirus, terzo caso sospetto in Puglia: 43enne di Lecce trasportata al Policlinico di Bari. La donna è tornata il 18 gennaio da Wuhan. La Gazzeta del mezzogiorno il 31 Gennaio 2020. Terzo caso sospetto di coronavirus in Puglia: si tratta di una donna 43enne, residente a Ruffano, in Salento. Lo conferma il capo dipartimento Salute della Regione Puglia, Vito Montanaro. La donna è rientrata lo scorso 18 gennaio da Wuhan, in Cina. Nel pomeriggio è andata all’ospedale Vito Fazzi di Lecce con febbre, tosse e difficoltà respiratorie. Scattato il protocollo di sicurezza, la donna è stata portata a bordo di un’ambulanza al Policlinico di Bari dove è stata messa in isolamento. Al policlinico la donna è stata sottoposta alle indagini del laboratorio di Epidemiologia molecolare e Sanità pubblica dell’unità di Igiene. Ulteriori prelievi sono stati inviati all’Istituto nazionale per le Malattie infettive Spallanzani di Roma. «La Regione Puglia ha insediato la task force per il coronavirus coordinata dal direttore del dipartimento Salute Vito Montanaro. La task force ha provveduto a varare ed inoltrate tempestivamente a tutte le direzioni strategiche un protocollo operativo - attivo dallo scorso lunedì - per la gestione di possibili casi sospetti di infezione da nuovo coronavirus». Lo comunica il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che oggi pomeriggio ha partecipato, in collegamento da Bari, alla riunione convocata dal capo dipartimento della Protezione civile Angelo Borrelli. «Anche l’Ordine dei medici - ha aggiunto Emiliano - ha ricevuto il protocollo. Perciò, per qualsiasi dubbio, tutti i cittadini possono rivolgersi ai propri medici di famiglia o pediatri».

Coronavirus, sono 32 i casi sotto osservazione all'ospedale Spallanzani: psicosi-contagio. Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Due casi confermati, uno sospetto: questo il bilancio del coronavirus in Italia. Almeno fino a quando, in conferenza stampa, ha parlato Emanuele Nicastri, medico dell'Ospedale Spallanzani di Roma, il centro di trasferimento nazionale per le malattie infettive in cui sono contratti i due cittadini cinesi che hanno contratto l'infezione. Ma non solo, allo Spallanzani sono stati trasferiti anche gli altri casi sospetti. E sono parecchi. "Sono ricoverati nel nostro istituto anche dodici pazienti provenienti da zone diverse della Cina interessati all’epidemia, con sintomi respiratori modesti, e sono sottoposti al test per il Coronavirus - ha rivelato Nicastri -. Altri nove sono stati isolati e già dimessi dopo risultato negativo. Altri venti soggetti asintomatici, che risultano essere stati contatti primari della coppia con l’infezione, sono attualmente in osservazione presso la nostra struttura". Insomma, cifre cospicue quelle snocciolate da Nicastri: un totale di 32 persone sotto osservazione. Sulla prima coppia che ha ufficialmente contratto il coronavirus, il medico ha spiegato che lei, 65 anni, è in condizioni cliniche discrete. "Il marito - ha sottolineato Nicastri -, di 66 anni, ha condizioni discrete con interessamento polmonare più pronunciato". E ancora, tornando ai primi due pazienti positivi, è stato spiegato che "da quanto emerso, durante il soggiorno la coppia di pazienti ha limitato gli spostamenti dentro l’hotel e indossato delle mascherine". Lo ha spiegato, nel corso della medesima conferenza stampa, l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato.

Stanze singole con pc e tv, tre visite mediche al giorno. Le regole della quarantena. Pubblicato giovedì, 30 gennaio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. Il protocollo per i 68 italiani dopo l’atterraggio da Wuha. Da lunedì cominceranno una nuova vita. Una vita nel bunker. Lunga appena 14 giorni, la durata massima d’incubazione del Coronavirus. Se non ci saranno brutte sorprese, passate due settimane cesserà anche l’allarme e loro potranno finalmente tornare a respirare. Sono 65 i nostri connazionali a Wuhan che hanno espresso la volontà di tornare in Italia e stanno solo aspettando di poter lasciare le proprie case o gli alberghi per dirigersi in aeroporto col servizio di pulmini a domicilio organizzato dall’ambasciata. Il giorno indicato è domenica. Ma in extremis potrebbero aggiungersi al gruppo altri tre connazionali, che stanno ancora valutando il da farsi. In tutto, così, sarebbero 68 persone. «Sta per scattare l’operazione rimpatrio», annuncia il senatore Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute, del Movimento Cinque Stelle. Sarà un Boeing KC-767A dell’Aeronautica Militare, con 99 posti previsti a bordo, a prenderli e riportarli in Italia. L’aereo è già pronto all’aeroporto di Pratica di Mare. Decollerà domani e tornerà domenica. E dove si trova il bunker a loro destinato? A Roma. Oggi sarà deciso il luogo dove inizierà la «quarantena», anzi la stretta sorveglianza sanitaria per gli italiani di Wuhan. Serviva un luogo protetto, dedicato esclusivamente a loro. La scelta, così, avverrà tra le due uniche opzioni ormai rimaste sul tavolo: una caserma isolata all’interno della cittadella militare della Cecchignola oppure un edificio presente nel parco dell’area militare di Pratica di Mare. Un posto non lontano dall’aeroporto e non distante neppure dall’ospedale Spallanzani, dove nella peggiore delle ipotesi, se cioè dopo lo sbarco dovesse manifestarsi il virus in uno dei nostri connazionali, l’ambulanza speciale per il bio-contenimento (già attrezzata) impiegherebbe solo pochi minuti per arrivare. Eppoi? Gl’italiani di Wuhan vivranno come in un college, ciascuno avrà la propria stanza («Di 16-20 metri quadrati come negli ospedali», chiosa il senatore Sileri, che è chirurgo) con un letto singolo, un tavolino, la tv, il computer, il telefono. Ogni stanza avrà il suo bagno. I medici del ministero, vestiti con tute spaziali, capo coperto, guanti e mascherina adesa al volto, andranno a visitarli in stanza 3 volte al giorno, misureranno la temperatura, i parametri vitali, ascolteranno loro il torace. Ad ogni visita, tutto nuovo: tuta, guanti e mascherina. «Potranno anche cucinarsi da soli se vorranno», aggiunge Stefano Verrecchia, il capo dell’Unità di crisi della Farnesina, l’organismo che insieme al Comando operativo interforze della Difesa e al ministero della Salute, sta gestendo l’«operazione rimpatrio». «Tutti gli italiani di Wuhan al momento risultano in ottima salute, tutti asintomatici», sottolinea il viceministro Sileri. Perciò, al loro arrivo in Italia, non saranno sottoposti a «una vera e propria quarantena», avverte il capo dell’Unità di crisi della Farnesina, Verrecchia: «Non li stiamo curando, ricordiamolo, li stiamo solo tenendo sotto controllo...». Così, «i nuclei familiari non saranno separati tra loro, perché ci sono anche dei minori tra gli italiani in partenza e l’unico accorgimento sarà quello di far indossare mascherine a tutti i componenti della famiglia quando saranno vicini. Le stanze in questo caso saranno comunicanti», continua Verrecchia. E per tutti gli altri? «Non è una quarantena vera, si potrà uscire perciò anche all’esterno dell’edificio, purché sempre con la mascherina. E si potranno ricevere le visite dei familiari purché anche loro tengano i volti protetti». Verrecchia spiega, inoltre, che il ritardo di un giorno rispetto alle previsioni di partenza è dipeso dalla necessità di ricevere le autorizzazioni al sorvolo del nostro aereo militare da parte di tutti quei Paesi che figurano sulla rotta Italia-Cina (Turchia, Kazakistan, ecc.). Si sarebbe potuti partire prima con un charter, è vero, ma l’equipaggio della compagnia privata interpellata avrebbe poi dovuto sottostare, al ritorno, alla stessa quarantena di 14 giorni prevista per i passeggeri. Una prospettiva poco allettante. Così, alla fine, si è deciso per il volo militare, operato dall’8° Gruppo del 14° Stormo. «Ci vorranno 12 ore per arrivare, poi i medici che partiranno da Roma faranno dei controlli su tutti i passeggeri, quindi l’aereo verrà rifornito di carburante e subito si riparte. Altre 12 ore ed ecco che domenica sera, infine, dovrebbero atterrare», sospira il capo dell’Unità di crisi della Farnesina al termine di un’altra lunga giornata sul fronte del Coronavirus. Un’ultima curiosità: anche i vestiti degli italiani saranno messi «in quarantena». Al passaggio dei fatidici 14 giorni verranno loro restituiti.

Coronavirus, primo italiano positivo ai test È uno dei 56 rimpatriati da Wuhan. Pubblicato giovedì, 06 febbraio 2020 su Corriere.it da Rinaldo Frignani. Si tratta di un ricercatore italiano che era tra i 56 rientrati da Wuhan. Adesso è ricoverato allo Spallanzani. L’Istituto superiore di sanità (Iss) ha appena comunicato alla task force del ministero della Salute l’esito positivo del test di conferma per il Coronavirus su uno dei rimpatriati italiani da Wuhan, messo in quarantena nella città militare della Cecchignola. Lo comunica lo stesso Iss precisando in una nota che il paziente è attualmente ricoverato all’istituto Spallanzani con «modesto rialzo termico ed iperemia congiuntivale». Nel pomeriggio proprio uno dei 56 italiani fatti rientrare nei giorni scorsi dalla Cina era stato ricoverato allo Spallanzani con i sintomi del male.

E' emiliano, di Luzzara, il primo italiano contagiato da coronavirus. Lo Spallanzani: "Inizierà oggi la terapia antivirale". Partiti anche all'aeroporto Marconi di Bologna i controlli su tutti i passeggeri. False le mail inviate dal "rector Ubertini" ai dipendenti Alma Mater. La Repubblica il 07 febbraio 2020. E' un ricercatore di 29 anni originario di Luzzara (Reggio Emilia), da anni residente all'estero, l'italiano contagiato da coronavirus e ricoverato allo Spallanzani di Roma. Ne dà conferma il sindaco, Andrea Costa, sulla sua pagina Facebook. "Confermo la notizia che il primo italiano contagiato dal  coronavirus è un ragazzo di Luzzara. Ho sentito il padre che mi ha dato, fortunatamente, notizie confortanti: il ragazzo sta bene", precisa Costa. "Era in Cina per motivi di svago", in compagnia della fidanzata cinese, "e da lì è stato direttamente rimpatriato con tutte le misure precauzionali del caso. Al momento si trova in isolamento allo Spallanzani di Roma. Un abbraccio grande a lui e a tutta la sua famiglia". Lo Spallanzani, nell'ultimo bollettino medico, conferma le "buone condizioni generali". Il giovane "presenta lieve febbricola e lieve iperemia congiuntivale. Il quadro clinico e quello radiologico polmonare sono negativi. Il paziente inizierà in giornata la terapia antivirale". "Anche se non si può escludere del tutto - dice il direttore del dipartimento di Malattie infettive dell'Istituto superiore di sanità (Iss), Gianni Rezza - è molto improbabile che l'italiano risultato positivo al coronavirus possa avere trasmesso l'infezione a qualcun altro dei 55 italiani rientrati, come lui, dalla città cinese di Wuhan". È partito anche all’aeroporto Marconi di Bologna il monitoraggio della temperatura corporea di tutti i passeggeri in arrivo da voli internazionali, come disposto dal ministero della Salute. A Bologna sono i volontari della Protezione civile regionale dell’Emilia-Romagna (Pubbliche assistenze e Associazioni delle varie città) a svolgere questo compito, con l’uso di termometri laser. "Se il passeggero controllato ha una temperatura uguale o superiore a 37,5 gradi", fa sapere una nota dello scalo, "proviene da zone a rischio e rientra nei casi sospetti previsti dalle linee guida del Ministero, scatteranno gli accertamenti medici".

Le finte mail del "rector Ubertini". Non sono state spedite dal rettore Francesco Ubertini le mail inviate a dipendenti dell'Alma Mater di Bologna che recano per oggetto "Lettera dal Rector Francesco Ubertini" e che conterrebbe suggerimenti per proteggersi dal contagio del coronavirus. "I passi che puoi adottare per proteggerti dall'infezione da 2019-nCoV sono allegati in questa e-mail e tutti i dipendenti, incluso l'impiego a tempo pieno o parziale, sono tenuti a passare attraverso l'allegato", si conclude la mail. Subito dall'Area aistemi e servizi informatici (Cesia) dell'Ateneo di Bologna è partito un contromessaggio, che mette in guardia tutti i dipendenti dell'Università: "Stanno arrivando delle email, come quella riportata di seguito, che sembrano provenire dalla casella del Magnifico Rettore- avvisano gli uffici- l'email non è stata inviata dal Rettore e deve essere cancellata, senza aprire l'allegato contenuto", anche perché non è escluso che possa contenere un virus, in questo caso informatico.

Coronavirus, sulla Diamond Princess 61 infetti. La nave con 35 italiani a bordo ancora bloccata. La Cina: "Italia pronta a riaprire i voli", ma la Farnesina e il ministro Speranza smentiscono la possibile ripresa dei collegamenti aerei. "Forte insoddisfazione" di Pechino per il blocco dei voli. Ieri 73 vittime ma rallentano i contagi. Filippo Santelli il 07 febbraio 2020 su La Repubblica. Si aggrava la situazione sulla Diamond Princess, la nave da crociera in quarantena nel porto di Yokohama con 35 italiani su 3700 passeggeri. Altri 41 passeggeri provenienti da sei Paesi diversi sono risultati positivi ai nuovi test fatti dalle autorità giapponesi, portando il totale dei contagiati a 61. Tra di loro, al momento, non risulta nessuno degli italiani presenti sulla nave, 25 membri dell'equipaggio, compreso il comandante della nave Gennaro Arma, e dieci turisti. Secondo la Cina l'Italia sarebbe pronta a riattivare alcuni voli di collegamento. Ma a smentire quanto riferito dopo un incontro tra il vice ministro degli Esteri e il nostro ambasciatore a Pechino, Luca Ferrari, è la Farnesina. "I collegamenti aerei diretti con la Cina sono e restano chiusi", ha scritto su Facebook il ministro della Salute Roberto Speranza. Nonostante la "grande irritazione" espressa dalla Cina, il nostro esecutivo non sembra disposto alla parziale marcia indietro sul blocco, l'unico adottato fra tutti gli Stati Ue. Ieri in Cina sono stati registrati 73 nuovi decessi legati al coronavirus, tra cui quello di Li Wenliang, il dottore che tra i primi aveva avvertito sulla pericolosità del contagio ed era stato messo a tacere dalla polizia.

Pechino: "Italia disposta a riaprire i voli". L'Italia sarebbe disposta a riaprire alcuni collegamenti aerei con la Cina, chiusi dal governo una settimana fa. A dirlo è il ministero degli Esteri di Pechino, dopo un incontro avvenuto ieri tra il vice ministro Qin Gang e il nostro ambasciatore Luca Ferrari. Repubblica aveva scritto dell'irritazione cinese per la decisione italiana, unico Paese in Europa e primo al mondo a introdurre un blocco completo degli aeroporti, andando oltre le raccomandazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità. La "grande insoddisfazione per la reazione eccessiva", messa in atto senza contattare la Cina e con "grossi inconvenienti" per i cittadini del Dragone è stata esplicitata durante l'incontro di ieri dal vice ministro Qin. Secondo quanto riporta la parte cinese l'ambasciatore Luca Ferrari avrebbe espresso la disponibilità dell'Italia a approvare alcune delle applicazioni presentate dalle compagnie cinesi per riattivare i voli. L'Italia conferma l'incontro, ma non ne dà al momento una sua versione. Quella di riattivare parte dei collegamenti si presenta come una marcia indietro politicamente difficile da motivare, se è vero che l'obiettivo del blocco era soprattutto tranquillizzare l'opinione pubblica. La decisione era stata presa direttamente da Palazzo Chigi, cogliendo di sorpresa, oltre alla Cina, anche la Farnesina. Erano stati fermati anche i voli cargo, un potenziale danno per le nostre imprese, poi riattivati. Nei giorni successivi è scattata un'operazione di ricucitura, con la vicinanza dimostrata da Sergio Mattarella e l'incontro di Luigi Di Maio con l'ambasciatore cinese a Roma. Al momento però la matassa pare ancora difficile da sbrogliare.

Diamond Princess, la nave bloccata in mezzo al mare. Intanto la situazione sulla Diamond Princess appare particolarmente grave: il continuo contatto tra le persone durante la crociera sembra aver favorito la trasmissione del virus. Per il momento le autorità giapponesi hanno sottoposto a test solo 273 passeggeri su 3700, quelli che presentavano sintomi come tosse o febbre, oppure che erano entrati a stretto contatto con loro, e ben 61 sono risultati infetti, uno è in condizioni critiche. Tutti gli altri, compresi gli italiani, restano in quarantena a bordo, in attesa di capire se svilupperanno sintomi. L'isolamento è stato deciso lunedì, quindi per esaurire le due settimane di incubazione mancano ancora dieci giorni, da passare chiusi dentro le cabine, alcune senza balcone, con un'ora d'aria a rotazione sul ponte. Le testimonianze che arrivano dalla nave sono le più diverse, tra noia e apprensione. "Siamo tutti un po' in ansia, ma sereni. Mi sento con mio marito", ha detto la moglie del comandante Marianna Arma. Il governo giapponese ha spiegato di essere pronto ad adottare nuove misure per prevenire la diffusione del coronavirus, attingendo anche ai fondi di emergenza.

Rallentano i nuovi contagi. Ancora una volta, la giornata di ieri è stata la più pesante per quanto riguarda il numero delle vittime: sono state 73, di cui 69 nella provincia dello Hubei, per un totale di 636. Tra di loro c'è anche Li Wenliang, l'oftalmologo di Wuhan (34 anni) che tra i primi aveva messo in guardia amici e colleghi sulla pericolosità nella nuova epidemia, salvo essere punito con l'accusa di diffondere il panico e silenziato dalla polizia.

La morte nascosta del medico che aveva segnalato il virus. La sua scomparsa, ieri notte, ha provocato una ondata di rabbia senza precedenti sui social network cinesi, con critiche molto esplicite verso le autorità che la censura non è riuscita a tenere a bada. La notizia incoraggiante invece è il leggero calo, per il secondo giorno consecutivo, del numero dei nuovi contagi rilevati: sono stati 3.143, per un totale di 31.161. È possibile sia l'indizio di un rallentamento dell'epidemia, ma solo i dati dei prossimi giorni lo potranno confermare. In una telefonata con Donald Trump, Xi Jinping ha ribadito "la piena fiducia e la capacità della Cina di superare l'epidemia".

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2020. Ventuno grandi navi da crociera hanno visitato la Cina da gennaio - secondo la rivista giapponese Nikkei Asian Review - e oggi alcune di loro «non hanno più un posto dove andare». Lussuose crociere finite nel caos, trasformate in «viaggi verso il nulla». La causa è il coronavirus. A queste fortezze del mare, infatti, molti porti tra Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine, Vietnam negano l' attracco, temendo quello che sta già succedendo a Yokohama, Giappone, dove la nave «Diamond Princess» - con 64 contagiati, secondo l' ultimo bollettino - si trova tuttora ancorata nella baia con i passeggeri e l' equipaggio (in tutto 3.700 persone) in quarantena fino al 19 febbraio. Gli elicotteri militari giapponesi ieri li hanno riforniti dall' alto di medicine e altri beni primari. Oggi la «Diamond» verrà fatta entrare in porto per consentire al personale di risistemare almeno le cabine. Ci sono, come noto, 35 italiani sulla nave, di cui 25 membri dell' equipaggio. Dicono di stare «tutti bene» e che il morale «è buono», ma quanto durerà? Le scorte di resistenza, fisica e morale, sono davvero agli sgoccioli. Così, ecco che c' è un' altra nave da crociera, la «Westerdam », attualmente alla disperata ricerca di un porto. La nave, della Holland America Line , era partita da Hong Kong il primo febbraio con a bordo più di 2.200 persone. Ma Taiwan ha negato l' attracco temendo l' infezione e anche il Giappone le ha impedito l' approdo a Okinawa. A nulla è valso il grido d' aiuto della compagnia: «La nave non è in quarantena» e «non c' è ragione per temere il coronavirus». Ma finora nessuno li ascolta. E così pure la nave «Ovation», della compagnia statunitense Seabourn Cruise Line , che ha lasciato Hong Kong domenica scorsa ma solo due giorni fa è riuscita a far scalo in Thailandia dopo aver ricevuto diversi dinieghi lungo la rotta. Quello che è certo è che il danno alla fine sarà enorme per tutti. La compagnia italiana Costa ha già sospeso le sue crociere in Asia dal 25 gennaio scorso fino a fine febbraio e i passeggeri saranno tutti rimborsati. Le sue quattro navi presenti nell' area, «Costa Serena», «Costa Venezia», «Costa Atlantica» e «Neoromantica», sono ormai lontane dalla Cina ma restano ferme nei porti di Giappone e Corea del Sud in attesa di notizie. Sono navi «congelate». A bordo ci sono solo gli equipaggi, da 500 a 1.000 uomini per nave, pagati lo stesso per lavorare perché i motori vanno tenuti in efficienza. La «Costa Serena» è a Nagasaki, Giappone, dopo essere passata per Busan in Corea del Sud. Nessuno, però, sa come andrà a finire. La Cruise Lines International Association , l' associazione mondiale delle compagnie di crociera, in rappresentanza di 270 navi, ha stretto ulteriormente le maglie degli imbarchi: Royal Caribbean e Norwegian Cruise Line si sono spinte oltre, vietando l' accesso sulle navi a tutti i passeggeri con passaporto cinese, di Hong Kong o di Macao. L' americana Royal Caribbean ha pure cancellato 8 crociere dalla Cina all' inizio di marzo. E il suo piano d' emergenza, se l' epidemia continuerà, potrebbe prevedere una ridistribuzione a livello regionale ma anche fuori dalla stessa regione asiatica. Identici dubbi nutrono le compagnie europee: ma ritirare le proprie navi da quell' area potrebbe rivelarsi «antieconomico», ragionano alla Costa , perché poi «una crociera in Europa non si vende in un giorno».

(ANSA-AFP il 16 febbraio 2020) - Altre 70 persone, per un totale di 355, risultano positive al coronavirus sulla nave da crociera Diamond Princess ferma in quarantena in Giappone. Lo rende noto oggi il ministero della Sanità nipponico. "Finora abbiamo condotto test su 1.219 persone: 355 sono risultate positive, tra cui 73 senza sintomi", ha detto il ministro Katsunobu Kato sull'emittente pubblica Nhk. La Diamond Princess è in quarantena dal 5 febbraio nel porto di Yokohama, vicino a Tokyo. "Sulla base dell'elevato numero di casi di COVID-19 identificati a bordo, il Dipartimento della sanità ha valutato che i passeggeri e i membri dell'equipaggio sono ad alto rischio d'esposizione", ha detto l'ambasciata americana in una lettera ai passeggeri.

Mauro Evangelisti per ''Il Messaggero'' il 16 febbraio 2020. Gli americani tornano a casa, tutti gli altri no. Gli Usa hanno previsto due voli charter da Tokyo, l' Italia sta ancora organizzando l' operazione e ci vorrà del tempo. C' è una nave da crociera, la Diamond Princess, al largo del Giappone, a Yokohama, divenuta dal 4 febbraio una prigione per una quarantena forzata a cui sono condannati 3.600 passeggeri (tra loro 35 italiani, di cui 25 membri dell' equipaggio) a causa del contagio del coronavirus. I casi di infettati sono già diventati 286, ma ogni giorno, in questa situazione di convivenza forzata, la cifra aumenta: ieri ne sono stati ufficializzati già altri 67. Non solo: lo sbarco ufficiale, inizialmente ipotizzato per mercoledì, slitta addirittura a venerdì, come ha annunciato la presidente di Princess Cruises, Jan Swartz, che in una lettera ai passeggeri ha spiegato che è impossibile esaurire tutti i test prima. Ma questa storia rischia di mostrare una clamorosa differenza di trattamento, perché da Tokyo i voli charter riporteranno a casa i cittadini americani che erano all' interno della nave. Secondo il Wall Street Journal «la svolta è legata alla preoccupazione montata negli Usa sulla vicenda. A circa 380 persone a bordo è stata offerta la possibilità di salire su due voli in partenza dal Giappone verso gli Stati Uniti, dove l' arrivo è atteso in queste ore, in base a quanto detto dal Centers for Disease Control and Prevention». E l' Italia? Ribadiamolo, sulla nave da crociera ci sono 286 contagiati; di fatto, se si esclude Wuhan, è il focolaio dell' epidemia più vasto che esista al mondo e la decisione delle autorità giapponesi di non lasciare sbarcare e isolare tutti i 3.600 passeggeri che stavano facendo una crociera tra Giappone e Cina, si è rivelata una scelta poco lungimirante, perché ha ovviamente moltiplicato le possibilità di trasmissione del virus in un luogo chiuso come una nave. A bordo ci sono 35 italiani, 25 membri dell' equipaggio, a partire dal comandante, il capitano Gennaro Arma, campano, e dieci passeggeri. Per l' equipaggio, che cerca di essere di aiuto ai viaggiatori, tra l' altro è assai complicato rispettare la quarantena. Ieri il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha annunciato: «L' Unità di crisi sta sentendo tutti gli italiani a bordo della Diamond Princess. Nessuno di loro presenta sintomi o fa sospettare che ci possa essere un sintomo legato al coronavirus. Valuteremo tutte le possibilità ed eventuali azioni da intraprendere per proteggere i nostri connazionali».

In sintesi: mentre gli Stati Uniti avevano fatto partire l' operazione per evacuare i connazionali, mentre il Giappone, secondo la Cnn, faceva sapere di «apprezzare la mossa degli americani», l' Italia era ancora in attesa di prendere una decisione. In serata, questa diversità di trattamento tra americani e resto del mondo rischiava di risultare troppo evidente e così dalla Farnesina è stato fatto trapelare: è allo studio la possibilità di realizzare un volo di rimpatrio per i 35 italiani bloccati sulla nave da crociera Diamond Princess in Giappone. Di questo hanno parlato al telefono Di Maio e il commissario straordinario per l' emergenza coronavirus, Borrelli. In realtà, l' operazione italiana è complicata perché 25, come detto, sono membri dell' equipaggio. Di certo, l' Unità di crisi della Farnesina è già al lavoro per organizzare il volo del 767 dell' Aeronautica militare (lo stesso usato per le due missioni a Wuhan), ma si ipotizza anche una soluzione differente insieme agli altri Paesi europei. Il parlamentare del Pd, Andrea Romano, membro della commissione Esteri, osserva: «Il ministro Di Maio si attivi con assoluta urgenza per riportare a casa gli italiani fermi sulla Diamond Princess, che da troppi giorni sono di fatto bloccati dall' indecisione delle autorità giapponesi, che sta assumendo contorni ormai intollerabili. Nessuno di loro presenta sintomi da infezione da coronavirus, eppure tutti sono costretti a permanere sulla nave in condizioni di crescente pericolosità. Chiediamo quindi che il Ministero degli Esteri attivi subito un' operazione simile a quella realizzata dagli Stati Uniti». L' emergenza del coronavirus sta colpendo duramente le crociere. Un' altra nave, la Westerdam, con 2.257 passeggeri a bordo, è stata respinta da cinque differenti nazioni asiatiche. Alla fine la Cambogia ha autorizzato l' attracco a Sihanoukville. Nessun passeggero era positivo, ma una donna americana di 83 anni è risultata contagiata una volta arrivata a Kuala Lumpur, in Malesia.

Coronavirus, stop ai voli, un caso nel governo: bloccati in Cina 600 italiani. Pubblicato sabato, 08 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Sono rimasti bloccati in Cina dopo la decisione del governo italiano di sospendere i collegamenti aerei diretti. E adesso si appellano al governo affinché li riporti a casa. Sono almeno 600 gli italiani in attesa di rimpatrio e tanto basta per creare tensioni all’interno del governo. Perché la scelta di «chiudere» — presa una settimana fa subito dopo la notizia di due coniugi cinesi ricoverati all’ospedale Spallanzani per aver contratto il coronavirus — sta ormai creando numerosi disagi. E soprattutto non fornisce alcuna garanzia ad impedire che persone contagiate varchino la frontiera. Anzi. Chi ha fretta di rientrare opta per i voli che fanno scalo in altri Paesi e di fatto sfugge ai controlli obbligatori soltanto per chi proviene dalla Cina. Ecco perché alla Farnesina si sta cercando di pianificare alcuni voli speciali che — seguendo cautele particolari — possano far tornare chi era partito per motivi di lavoro o per vacanza e mai avrebbe immaginato di essere costretto a rimanere. Ma ci si scontra con le resistenze del ministro della Salute Roberto Speranza che aveva sollecitato il premier Conte a dichiarare il blocco, convinto sin dall’inizio che fosse la misura più efficace. Già questa mattina potrebbe dunque essere convocata una nuova riunione tecnica per valutare una serie di deroghe allo stato di emergenza decretato il 31 gennaio e così avviare il rientro dei primi connazionali. Sono 11mila gli italiani iscritti all’Aire che vivono in Cina e almeno 600 quelli non registrati perché arrivati soltanto per periodi brevi. Un numero che potrebbe essere addirittura più elevato — arrivando fino a un migliaio — e per questo l’Unità di crisi della Farnesina diretta da Stefano Verrecchia sta effettuando una sorta di «censimento»: una volta rientrati tutti dovranno infatti essere sottoposti alla quarantena. Il rimpatrio è reso però impossibile dal divieto di volo imposto da Conte e condiviso con Speranza che sin da subito aveva provocato l’irritazione forte delle autorità cinesi, ma anche le perplessità degli altri ministri. Tanto che palazzo Chigi aveva fatto trapelare di aver «deciso con il pieno coinvolgimento dei capi delegazione di maggioranza e sentendo specificamente il ministro degli Esteri e il titolare dell’Economia che hanno dato pieno assenso». Versione non confermata dai diretti interessati e così nemmeno 24 ore dopo si è decisa una parziale marcia indietro concedendo il via libera per i cargo che trasportano merci: «Si tratta di materiale non contaminabile né contaminato, dunque fatti salvi i controlli sanitari per gli equipaggi non sembra sia necessario tenere ferme le merci», aveva chiarito il commissario per la gestione dell’emergenza Angelo Borrelli. E dal Quirinale era filtrato «l’auspicio a un ritorno alle normali relazioni tra Italia e Cina sollecitamente e sotto ogni profilo». Ora si lavora per trovare una soluzione rapida. Più passa il tempo più aumenta il pericolo che i 600 italiani possano essere contagiati. E dunque più forte è il rischio che decidano di tornare effettuando triangolazioni in altri Stati, anche tenendo conto che l’Italia — se si eccettua la Repubblica Ceca che farà scattare il divieto da domani — è l’unico Stato ad avere fermato i collegamenti diretti. Ecco perché ieri mattina dal ministero degli Esteri si è chiesto a quello della Salute di concordare una modifica al decreto per autorizzare almeno un volo. Fino a tarda sera non è arrivato alcun assenso, probabilmente nel timore di dover ammettere una sorta di avventatezza nelle prime decisioni. E questo nonostante i tecnici siano concordi nel ritenere che la scelta davvero indispensabile sia un’ulteriore stretta dei controlli negli aeroporti italiani proprio per evitare il rischio di non «visitare» chi è stato in Cina ma è rientrato passando da un altro Paese. Ieri l’ambasciata italiana a Pechino ha deciso di chiudere i centri per il rilascio dei visti fino al 16 febbraio. Una scelta che potrebbe creare ulteriori tensioni dopo le proteste dei giorni scorsi delle autorità cinesi proprio sui voli bloccati, ma anche degli imprenditori preoccupati per una situazione che sta causando gravi perdite economiche in numerosi settori.

Coronavirus: arrivati gli italiani evacuati da Wuhan. Due bambini in quarantena a Cecchignola portati allo Spallanzani. Di Maio: "Aereo militare riporterà Niccolò". I piccoli hanno alcune linee di febbre. In giornata il rientro in Italia. Sale il bilancio delle vittime del virus, che a livello globale supera quello della Sars. La Repubblica il 09 febbraio 2020. È atterrato intorno alle 14 all'aeroporto militare di Pratica di Mare l'aereo proveniente dalla base Raf di Brize Norton, nell'Oxfordshire, con a bordo il piccolo gruppo di 8 italiani provenienti da Wuhan, la regione focolaio del coronavirus. Dopo i primi controlli il trasferimento all'ospedale militare del Celio a Roma, per essere messi in quarantena. Gli italiani erano arrivati in mattinata in Inghilterra, alla base Raf di Brize Norton, nell'Oxfordshire, a bordo di un aereo proveniente da Wuhan con 200 persone. Gli italiani dovevano essere nove con Niccolò, lo studente 17enne di Grado, che invece è rimasto bloccato in Cina, dato che ha di nuovo la febbre (già il 3 febbraio scorso non ha potuto volare con gli altri 56 italiani rientrati). Lo studente rimasto in Cina è stato riportato in albergo e sta bene. Anche i suoi genitori non sono particolarmente preoccupati. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al termine della riunione con il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, e il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha dichiarato che è stato "deciso che un velivolo della aeronautica militare andrà in Cina e riporterà Niccolò in Italia. L'aereo partirà nelle prossime 24 ore". Il ministro ha aggiunto: "Per noi nessuno deve rimanere indietro. I nostri connazionali hanno la massima priorità per rientrare e faremo tutto il possibile per assicurare sia ai nostri connazionali che sono in Cina sia a quelli che vogliono rientrare in Italia la massima assistenza e vicinanza". Del gruppo dei 56 italiani rimpatriati i primi giorni di febbraio sono stati trasferiti a titolo puramente precauzionale all'Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma per ulteriori accertamenti due bambini di 4 e 8 anni, con solo alcune linee di febbre. Per il primo dei due, il tampone ha dato esito negativo al test di nuovo coronavirus 2019-nCoV. In corso l'esame sul secondo. Buone notizie, intanto dal nuovo bollettino medico diffuso dallo Spallanzani: "Tutti i test relativi ai casi sospetti per il nuovo coronavirus sono risultati negativi, compreso il test per la donna italiana inviataci, a puro scopo precauzionale, dalla Città Militare della Cecchignola e la coppia proveniente da un Pronto soccorso cittadino", è stato comunicato dall'ospedale. "Sono stati valutati, a oggi, presso la nostra accettazione 53 pazienti sottoposti al test per la ricerca del nuovo coronavirus. Di questi, 36 risultati negativi al test sono stati dimessi. Diciassette pazienti sono tuttora ricoverati". Così lo Spallanzani nel bollettino quotidiano. "Tre - è stato spiegato - sono casi confermati (la coppia cinese attualmente in terapia intensiva e il giovane proveniente dal sito della Cecchignola); 12 sono pazienti sottoposti a test per la ricerca del nuovo coronavirus in attesa di risultato; 2 sono pazienti che, risultati negativi al test per nuovo coronavirus, rimangono comunque ricoverati per altri motivi clinici".

La trasmissione, le cure, gli effetti. A Taiwan è risultato positivo al test del coronavirus un ragazzo di 20 anni che era stato in vacanza in Italia l'ultima settimana di gennaio con i genitori. Nonostante siano state attivate da parte delle autorità italiane tutte le procedure stabilite dal protocollo per verificare gli spostamenti della comitiva di cui i tre facevano parte, fonti del Ministero della Salute sono abbastanza tranquille nell'escludere contagi. Data la tempistica della permaneza dei turisti (hanno soggiornato in Italia dal 22 al 31 gennaio, spostandosi in varie città della Toscana) ed essendo l'incubazione del virus di 14 giorni, a distanza di 9 giorni dal loro rientro in patria non sono stati segnalati casi di contagio oltre ai tre accertati allo Spallanzani. 

Bilancio sempre più pesante. È salito a 813 morti, quasi tutti registrati in Cina, il nuovo bilancio dell'epidemia che, con quste cifre, supera a livello globale quello della Sars del 2002-2003 quando morirono 774 persone. Nelle ultime 24 ore sono morte altre 89 persone, segnando un nuovo record consecutivo per il numero di decessi quotidiani. L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha tuttavia stimato che il numero di casi di contagio rilevati quotidianamente in Cina si sta stabilizzando, anche se è troppo presto per concludere che l'epidemia ha superato il suo picco. "Stiamo registrando un periodo di stabilità di quattro giorni, in cui il numero di casi segnalati non è aumentato. Questa è una buona notizia e potrebbe riflettere l'impatto delle misure di controllo che sono state messe in atto", ha dichiarato il responsabile del programma di emergenza sanitaria dell'Oms, Michael Ryan. Nella Cina continentale, il numero di casi confermati domenica è di quasi 37.200, 2.600 casi in più rispetto alla precedente valutazione giornaliera. Una cifra significativamente inferiore alle quasi 3.900 nuove infezioni annunciate mercoledì dalle autorità cinesi. Anche il numero di casi sospetti è diminuito in modo significativo: sono state poco più di 3.900 nelle ultime 24 ore, contro oltre 5.300 nel rapporto pubblicato giovedì.

Coronavirus, atterrato a Pratica di Mare l'aereo con 56 italiani. Cecchignola in rivolta: "Non li vogliamo". Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. È arrivato intorno alle 10 del mattino il Boeing KC 767 dell'Aeronautica militare con a bordo gli italiani rimpatriati da Wuhan, la città cinese da cui si è diffuso il coronavirus. Atterrato a Pratica di Mare con 56 connazionali, uno in meno del previsto: un ragazzo di 20 anni infatti è stato costretto a rimanere a Wuhan a causa delle febbre. Il protocollo delle autorità locali, infatti, prevede che chi ha sintomi che potrebbero essere riconducibili al coronavirus non può lasciare il Paese. Altri dieci italiani hanno scelto di restare a Wuhan. Nel primo pomeriggio di lunedì si è appreso che nessuno degli sbarcati presenta i sintomi del coronavirus, che come è noto però può essere trasmesso anche tra soggetti asintomatici. Il volo, partito in piena notte, è arrivato con un poco di ritardo rispetto a quanto previsto inizialmente. Ora gli italiani verranno trasferiti alla cittadella militare della Cecchignola, a Roma sud, dove trascorreranno un periodo di isolamento lungo 14 giorni. Dopo l'atterraggio, verrà effettuato un nuovo screening sui 56 sbarcati: i casi sospetti verranno isolati. In caso di anomali verrà disposto l'immediato trasferimento allo Spallanzani. Per inciso, riferisce Il Giornale, i residenti dell'area della Cecchignola, dove andranno gli sbarcati, non ci stanno e fanno sentire la loro voce: hanno para del virus e del possibile contagio. "Non capiamo perché queste persone debbano essere ospitate negli appartamenti del Centro sportivo esercito - spiegano i residenti -. Ci è stato detto che possono circolare all'interno di quell'area militare. Sia chiaro che non ce l'abbiamo con loro, ma siamo preoccupati. Chi ci dice che il coronavirus non possa trasmettersi in maniera più semplice di quella che ci viene indicata?", concludono.

Coronavirus, 56 italiani in quarantena. Bloccato in Cina giovane studente: “Ha la febbre”. Redazione de Il Riformista il 3 Febbraio 2020. E’ risultato negativo al test del nuovo coronavirus il paziente irlandese ricoverato in rianimazione nella serata di domenica all’Istituto Spallanzani di Roma. L’esito degli esami “ci è stato appena comunicato dal Laboratorio di virologia” dichiara l’assessorato alla Sanità e l’Integrazione Sociosanitaria della Regione Lazio su comunicazione della Direzione Sanitaria dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive della Capitale.

LE CONDIZIONI DELLA COPPIA CINESE – La coppia cinese risultata positiva al coronavirus è invece ancora ricoverata: le condizioni dei coniugi trasferiti nel nosocomio il 30 gennaio scorso sono “stazionarie, ed entrambi presentano polmonite virale con interessamento alveolo interstiziale bilaterale”, si legge nel bollettino.

I 20 SOTTO OSSERVAZIONI – Nel bollettino dello Spallanzani si legge inoltre che “sono 20 i pazienti ancora sotto osservazione presso l’Istituto Spallanzani che hanno avuto contatto con la coppia cinese positiva all’infezione da nuovo coronavirus. Le loro condizioni di salute sono buone e resteranno in quarantena fino al termine del periodo previsto dalle procedure”.

GLI ITALIANI ATTERRATI DA WUHAN – E’ invece atterrato il Boeing KC 767 dell’aeronautica militare con a bordo i 56 italiani rimpatriati da Wuhan è atterrato nell’aeroporto militare di Pratica di Mare. I rimpatriati saranno trasferiti nella cittadella della Cecchignola per una quarantena di 14 giorni. Dieci italiani hanno invece scelto di restare in Cina, mentre uno è dovuto rimanere perché aveva la febbre.

Come testimoniato dal capo dell’Unità di crisi della Farnesina Stefano Verrecchia, i 56 italiani sono “Stanchi ma sollevati” per essere rientrati da Wuhan. A bordo dell’aereo c’erano anche sei bambini, mentre la persona con la febbre rimasta in Cina si trova in ospedale “con l’assistenza del personale dell’ambasciata italiana”, ha detto Verrecchia.

LO STUDENTE CHIUSO IN CAMERA – ”Tornerò presto in Cina” ha spiegato all’AdnKornos Lorenzo Di Berardino, studente 22enne di Pescara tra i 56 rimpatriati da Wuhan. Le parole del ragazzo erano rivolte ai suoi genitori, Giulio e Alessandra, che sono arrivati davanti al Centro Sportivo Olimpico Esercito alla Cecchignola per poter vedere l’arrivo dei pullman da Pratica di Mare. ”Lorenzo era a Wuhan dal primo settembre, ha frequentato l’università e per lui il periodo natalizio è stato un periodo di esami. In questi ultimi giorni erano chiusi con gli altri studenti in camera per precauzione” hanno raccontato i genitori. ”Non c’era un obbligo a rimanere in camera, ma hanno ritenuto prudente farlo – spiegano Giulio e Alessandra – l’Università ha messo a disposizione una mensa per gli studenti fuori sede rimasti nel campus”. 

17ENNE IN CINA CON FEBBRE – Non è riuscito a rientrare in Italia un ragazzo di circa 17 anni, in Cina nell’ambito di un programma di studio all’estero. Lo studente è rimasto a Wuhan perché al momento della partenza aveva la febbre. Ospite di una famiglia a 400 chilometri da Wuhan, nell’ambito di un progetto che prevede un anno scolastico all’estero, il 17enne ha raggiunto Wuhan per poter partire insieme al gruppo di italiani rimpatriati, ma poi non è potuto salire a bordo a causa della febbre. Grazie alle donne e agli uomini delle #ForzeArmate che come sempre si fanno trovare pronti. Atterrato a Pratica di Mare l'aereo militare che ha riportato a casa i nostri connazionali da #Wuhan. Ora riceveranno ogni assistenza nelle strutture allestite dalla Difesa per l'emergenza.

IL MONITORAGGIO DEI VOLI INDIRETTI – Dal capo dipartimento della Protezione civile e neo commissario per la gestione dell’emergenza del nuovo coronavirus, Angelo Borrelli, è arrivato invece l’annuncio durante una intervista a Radio24 che, dopo aver chiuso i voli diretti dalla Cina, “saranno monitorati negli aeroporti tutti i voli indiretti, anche quelli che arrivano dall’area Schengen, nel nostro Paese”. Il monitoraggio, ha spiegato Borrelli, consisterà in un controllo generalizzato negli aeroporti con apparecchiature termoscanner e, “laddove non fossero presenti queste apparecchiature”, in un aumento del personale medico e paramedico che misurerà la temperatura dei passeggeri in arrivo negli aeroporti.

Heather Parisi sul Coronavirus: “Sono stata la prima a dare l’allarme”. Alice su Notizie.it il 03/02/2020. Heather Parisi ha lanciato l'allarme per il Coronavirus e ha fornito dettagli sulla situazione a Hong Kong. Heather Parisi e la sua famiglia vivono a Hong Kong. La ballerina ha condiviso sui social diverse foto in cui lei e i suoi figli utilizzano le mascherine protettive e ha parlato della situazione dovuta al coronavirus. Da giorni circola l’allarme circa la diffusione del coronavirus in giro per il mondo e diversi vip residenti in Cina hanno segnalato l‘allarme. Heather Parisi, che da anni abita con la famiglia a Hong Kong, ci ha tenuto a dire la sua sull’argomento e ha condiviso alcuni scatti in cui lei e i suoi figli indossano le mascherine protettive. “Siamo pronti a tutto, o quasi tutto”, ha scritto la showgirl nel suo post. a hong Kong sarebbero stati riconosciuti 118 casi sospetti e la ballerina ha dichiarato che per lei la prudenza “non sarebbe mai troppa”. Insieme ad Heather Parisi a Hong Kong si trovano anche il suo compagno, l’imprenditore Umberto Maria Anzolin, e i due gemelli che la showgirl ha avuto a 50 anni Elizabeth Jaded e Dylan Maria. La showgirl ha avuto anche altre due figlie dalle sue precedenti unioni: Rebecca Jewel Manenti e Jacqueline Luna Parisi. Le due non avrebbero mantenuto i rapporti con la madre e sarebbero rimaste entrambe a vivere con i rispettivi padri. Proprio la figlia Jacqueline in passato si è scagliata pubblicamente contro la madre lasciando intendere che i loro rapporti non sarebbero affatto dei migliori. Heather Parisi non ha mai replicato.  

Da liberoquotidiano.it il 2 febbraio 2020. Scivolone clamoroso in diretta a Domenica In di Iva Zanicchi. Durante l'intervista con Mara Venier, la cantante ha parlato del coronavirus e ha confessato di essere preoccupata: "Io quando vedo un cinese sorrido ma me la do a gambe. Non viaggio con la mascherina per ora. Se uno ha paura, ha paura". Una frase che poco dopo ha corretto insieme alla conduttrice. "Sì, forse farei meglio a tacere", ha detto la Zanicchi rispondendo alla Venier che aveva sollevato il dubbio: "Non vorrei che qualche cinese si fosse offeso...". Allora la cantante, sempre con tanta ironia, ha chiuso la questione: "No ma guarda era solo una battutaccia. Io sono in un albergo a Rome e a colazione stamattina tra i tavoli c'erano trenta cinesi, io ero in un tavolino da sola eh... ma solo perché non li conoscevo".

Riccardo Fogli, la gaffe sul Coronavirus: “Hai la febbre, sei stato in Cina?” Linda su Notizie.it il 03/02/2020. Riccardo Fogli nella bufera: la gaffe del cantante sul Coronavirus non passa inosservata e il web insorge. Ospite di Rai Due nell’ultima puntata di Settimana Ventura è stato anche Riccardo Fogli. A distanza di qualche tempo dalla sua partecipazione all’Isola dei Famosi, l’ex frontman dei Pooh è dunque tornato in tv. Proprio sul piccolo schermo, tuttavia, il cantante toscano ha commesso una clamorosa gaffe, che ha dato il via a una serie di polemiche sui social e sul web in generale. L’ex naufrago ha infatti fatto della facile ironia sul Coronavirus, il tremendo virus che sta tenendo sotto scatto il mondo intero. L’argomento, come sappiamo molto delicato, sta di fatto creando una sorta di psicosi planetaria, al punto che al solo vedere una persona cinese molti cambiano strada o non entrano in negozi e ristoranti. Cos’ha dunque fatto Riccardo Fogli di così grave? Come detto poc’anzi, durante la messa in onda del programma di Simona Ventura a un certo punto c’è stato un collegamento telefonico di Stefano Bettarini, ex marito della padrona di casa. La stessa Simona ha dunque spiegato al pubblico che Stefano sarebbe dovuto essere presente in collegamento da Firenze, ma purtroppo gli è venuta la febbre. Ecco che allora ha preso la parola Riccardo Fogli, che ha pensato di ironizzare sulla situazione. “Non è che sei stato in Cina? Ti vogliamo bene lo stesso anche se hai preso il…”. Così ha dunque commentato il cantante dei Pooh, pur senza menzionare direttamente il Coronavirus. Il suo riferimento sottinteso non è però piaciuto affatto agli internauti, che hanno subito manifestato il proprio dissenso sui social network. 

GF VIP, il figlio di Fabio Testi bloccato in Cina per il Coronavirus. Linda su Notizie.it il 03/02/2020. Il figlio di Fabio Testi, al momento rinchiuso nella casa del Gf Vip, è bloccato in Cina a causa del Coronavirus. Come tutti sanno, Fabio Testi è uno degli attuali concorrente del Gf Vip 4. Tuttavia l’attore, al momento rinchiuso nella casa di Cinecittà, non sa che suo figlio Fabio Jr è bloccato in Cina proprio a causa del famigerato Coronavirus. Nella magione più spiata d’Italia non si ha infatti nessun contatto col mondo esterno. Gli inquilini non sanno quello che succede nel mondo durante la loro permanenza nel reality show. Pertanto anche il tremendo virus di Wuhan che ha colpito il paese asiatico non è stato loro annunciato. Il virus ha intanto provocato la morte di oltre 300 persone, tanto da spingere il governo italiano a bloccare tutti i voli da e per la Cina. Il figlio dell’attore, dunque, non sarebbe rientrato in Italia proprio a causa di tale stop forzato. Secondo quanto riportato dal paparazzo Alan Fiordelmondo, Fabio Testi jr per il momento sta bene. Il figlio del popolare attore sarebbe però bloccato per cause di forza maggiore in Cina, dove gestisce alcune attività con altri italiani. Sembra che Fabio Jr non riesca dunque a tornare in patria proprio a causa dell’epidemia che sta mettendo in ginocchio il mondo intero. Il giovane sarebbe per la precisione a Shanghai, dove insieme alla stilista spagnola Lola sta seguendo l’apertura del ristorante Funk A Deli. “Per gli italiani è stato subito casa, per gli stranieri un posto nuovo e di qualità. Per i cinesi è una curiosità, ma sta diventando anche un trend”. Così aveva raccontato qualche tempo fa il veronese, parlando del locale che da poco anima la movida della più grande metropoli cinese.

Il caso di Telese Terme. “Quella bimba è stata in Cina”, scuola semivuota per rischio contagio: “Controlli ok, è psicosi coronavirus”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. La compagna di classe dei loro figli è una bambina cinese da poco rientrata dal suo Paese d’origine. Psicosi coronavirus in un istituto comprensivo di Telese Terme, piccolo comune in provincia di Benevento, dove da qualche giorno le classi sono semivuote per “evitare il rischio contagio”. Ore ad alta tensione in Campania dopo la notizia delle coppia di coniugi di nazionalità cinese che a Roma è risultata positiva al virus diffusosi in oltre 18 nazioni. Prima il caso di Sorrento, con gli abitanti scossi dalla visita della comitiva cinese che nei giorni scorsi sarebbe entrata in contatto con la coppia di coniugi colpita da coronavirus e ricoverata allo Spallanzani di Roma. Poi la protesta delle mamme dell’istituto comprensivo statale Telese Terme che hanno anche inviato giovedì 30 gennaio una lettera alla dirigente scolastica Rosa Pellegrino per chiedere “le iniziative intraprese” di comune accordo con l’Asl, “e se quest’ultima ha attivato i protocolli del caso”.

LA VICENDA – La bambina in questione frequenta la quarta elementare ed è rientrata il 29 gennaio scorso in Italia dopo aver trascorso diverse settimane in Cina, dove era tornata con i genitori per festeggiare anche il Capodanno. Un rientro che ha allarmato i genitori della scuola sannita, molti dei quali ha ritenuto opportuno non far andare i figli a scuola. La stessa alunna cinese è a casa “per scelta dei genitori” fa sapere la preside che questa mattina ha risposto con una nota alle spiegazioni chieste dai genitori che chiedevano un periodo di incubazione di 15 giorni. “Con grande senso di responsabilità e sensibilità, i genitori stanno privando la figlia delle attività didattiche pur di non creare scompiglio tra le famiglie” sottolinea la dirigente che aggiunge: “Il Paese in cui si è recata la bambina, Wenzho, è un piccolo centro sulla costa a circa mille chilometri dalla provincia di Wuhan, focolaio del virus”. La bambina, così come i genitori, è stata sottoposta ad accertamenti sia durante il periodo trascorso in Cina che al rientro in Italia. “Hanno superato ben quattro controlli aeroportuali in entrata e in uscita e non presentano alcun sintomo influenzale” fa sapere la dirigente scolastica.
La dirigente sottolinea che non metterebbe mai a “rischio gli altri bambini” e che “la situazione è sotto stretto monitoraggio dell’Asl di Telese Terme, che ha confermato che non c’è necessità di quarantena per chi, pur rientrando dalla Cina, non presenta sintomi influenzali.  Sull’episodio il sindaco di Telese Terme Pasquale Carofano rassicura: “Il suo unico peccato è quello di essere andata in Cina per qualche settimana” spiega sottolineando che i suoi figli sono andati regolarmente a scuola. “La situazione è sotto controllo, la famiglia cinese quando è tornata in città il 29 gennaio scorso ha effettuato tutti i controlli del caso e non è emerso nulla di preoccupante”.

Coronavirus, l'italiano atterra a Roma da Wuhan: "I medici non mi hanno controllato, sono in auto-quarantena". Libero Quotidiano il 2 Febbraio 2020. C'è un italiano che si è messo in "quarantena volontaria" a Enna per non rischiare di contagiare di Coronavirus a qualcuno, visto che dalle autorità non pare esserci alcun interesse a valutare la sua condizione di salute. Domenico T., studente di 26 anni tornato dalla Cina lo scorso 30 gennaio, racconta la sua incredibile storia al Fatto quotidiano. Dopo aver lasciato Wuhan il 18 gennaio scorso, nel pieno dell'allarme virus, ha percorso un migliaio di chilometri in treno e il 29 gennaio si è imbarcato a Guiyang "per il volo che mi avrebbe dovuto portare a Roma, facendo scalo a Pechino e a Vienna".  Sia all'aeroporto di Guiyang che a quello di Pechino, a Domenico viene misurata la febbre. In Europa, però, nessuna precauzione anche se l'allarme globale è già scattato. "Una volta atterrati a Vienna - spiega lo studente al Fatto - siamo usciti dall'aereo come se niente fosse. A parte il controllo passaporti, nessuna visita. Come se non arrivassimo da Wuhan". L'Austria non ha ancora preso misure restrittive, l'Italia lo ha fatto solo dopo la comparsa dei primi "pazienti zero", i due turisti cinesi contagiati all'hotel Palatino di Roma. Anche a Fiumicino, spiega il giovane, nessun controllo: "Ero molto preoccupato per la mia famiglia, sono andato alla postazione della Guardia di Finanza dicendo che venivo da Wuhan e che volevo essere visitato. Mi hanno portato alla postazione di pronto soccorso dell' aeroporto, dove finalmente, su mia richiesta, mi hanno visitato. Mi hanno fatto qualche domanda, mi dicevano che dovevo stare tranquillo, sono giovane, non c'è nulla di cui preoccuparsi. Cercavo di dirgli che il quartiere vicino a quello dove abitavo a Wuhan era stato messo in quarantena, che non ho fatto alcuna profilassi, ma non mi facevano parlare". Anzi, i medici "hanno perfino litigato su chi mi doveva visitare". "Io non sono come quelli che non vanno al ristorante per paura - protesta lo studente -, io vengo dal posto dove è scoppiata l'epidemia!". A questo punto prende un alto aereo e torna in Sicilia, dai genitori. "Erano 5 mesi che non tornavo a casa - conclude - non ho potuto nemmeno riabbracciarli dopo tutti i timori che hanno passato in queste settimane". I genitori gli passano il cibo nella sua stanza, non hanno contatti fisici con lui e si sono messi pure loro in quarantena, rinunciando ad andare al lavoro. 

Coronavirus, termoscanner negli aeroporti italiani: perché sono inefficaci. Libero Quotidiano il 6 Febbraio 2020. In risposta all'allarme coronavirus, i termoscanner sono approdati negli aeroporti italiani di Roma Fiumicino, Milano Malpensa e Cagliari. Serviranno a rilevare la temperatura corporea dei passeggeri in arrivo, per individuare casi sospetti di contagi. Ma il London School of Hygiene and Tropical Medicine, centro di ricerca britannico, ha sollevato dubbi sulla reale utilità dei termoscanner. Lo studio, riportato dall'edizione cartacea de Il Fatto Quotidiano, ha dimostrato che su 100 casi di malati solo 8 verrebbero individuati dal termoscanner nell'area "arrivi"; 43 al momento della partenza e tutto il resto (49) passerebbero i controlli. La ragione? Presto detto. Il passeggero potrebbe aver già contratto il virus, ma non presentare sintomi. La febbre è, infatti, il primissimo sintomo del coronavirus, il cui periodo medio di incubazione è stimato in 5 giorni. "I soggetti potrebbero anche presentare un'infezione asintomatica, dunque vi sono forti dubbi sull'efficacia dei termoscanner", ha affermato Billy Quilty, ricercatore della London School. Tuttavia le modalità di utilizzo del termoscanner sono coerenti con le indicazioni dell'Oms, che ha escluso l'infettività dei soggetti che non presentano sintomi.

Coronavirus Italia, dagli scanner in aeroporto ai primi casi di contagio: tutto quello che è successo. Pubblicato lunedì, 03 febbraio 2020 da Corriere.it. È il 21 gennaio quando all’aeroporto di Fiumicino tornano gli scanner per misurare la febbre ai viaggiatori che arrivano da Wuhan, la città focolaio principale del coronavirus cinese. I primi a funzionare saranno quelli utilizzati per controllare i passeggeri del volo diretto dalla città. Questa è la prima concreta misura adottata in Italia da quando, il 31 dicembre 2019, le autorità cinesi hanno reso nota la presenza di un focolaio di sindrome febbrile nella città con 11 milioni di abitanti. Ad oggi invece i voli da e per la Cina sono tutti bloccati. Lo ha deciso il 30 gennaio il governo dopo aver annunciato lo stato di emergenza: «No agli allarmismi» ha precisato il ministro della Salute Roberta Speranza. Nella stessa occasione sono stati segnalati anche in Italia i primi due casi accertati di coronavirus. Si tratta di due cinesi, marito e moglie, arrivati a Malpensa il 23 gennaio per un viaggio di piacere che ha toccato città come Parma, Firenze, Roma. L’Italia ha il maggior numero di turisti cinesi presenti in Europa, 5 milioni nel corso del 2018 e le stime sul periodo attuale erano date in crescita. Cifre che tenderanno a diminuire invece nel corso dell’anno: gli analisti temono che le conseguenze dello stop brusco alle attività legate alla paura del contagio impatteranno sulla crescita di Pechino e dell’economia globale. Il prezzo del greggio è crollato a 56 dollari al barile, circa il 5% in meno rispetto a venerdì. Tanto che l’Iran — che esporta soprattutto in Cina — ha già chiesto interventi ai Paesi produttori per un taglio alla produzione. Ma impatti ci sono e ci saranno in tutti i settori: turismo, industria, moda, Morgan Stanley stima un impatto fino all’1% sulla crescita del Pil cinese nel primo trimestre 2020, con l’effetto di ridurre di 0,15-0,30 punti percentuali l’intero Pil globale nel primo trimestre. Diversi i casi di contagio segnalati in Italia, risultati poi dei falsi allarmi: dalla cantante lirica a Bari fino a Palermo, Potenza, Napoli. Ma per ora i casi accertati in Italia sono i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma in condizioni stabili. Proprio nell’istituto nazionale per le malattie infettive, il virus è stato isolato: l’isolamento, realizzato da un gruppo di tre ricercatrici, permette di verificare se il virus si sta modificando. I coronavirus sono diffusissimi fra gli uomini e gli animali. A volte sono pure responsabili di raffreddori, nell’uomo. Ma hanno una grande capacità di mutare e, nel caso di Wuhan, sono diventati capaci di provocare polmoniti. Quindi vanno «monitorati» nel tempo, passo fondamentale per sviluppare terapie e possibile vaccino. Nel frattempo la federazione internazionale delle compagnie di crociera (Clia) ha annunciato che non ammetteranno più sulle navi da crociera passeggeri che siano stati di recente in Cina. Il 30 gennaio a Civitavecchia ansia e disagio a bordo della nave da crociera Costa Smeralda, dove erano stati messi in isolamento un cittadino cinese e sua moglie mentre le altre 7 mila persone imbarcate (tra passeggeri e staff) erano rimaste bloccate sulla nave al porto. A seguito di controlli però nessuno è risultato positivo al test. Il 31 gennaio nel frattempo è stato nominato commissario per l’emergenza Angello Borrelli, attuale capo della protezione civile. Suo il compito di gestire i 5 milioni che il governo ha deciso di stanziare per affrontare la prima fase dell’emergenza. Le regole riguardano i controlli da effettuare negli aeroporti, l’allertamento per le Asl, l’eventuale potenziamento delle forze dell’ordine per le verifiche, le norme di comportamento in caso di malore. Il 3 febbraio, alle 10, è atterrato a Pratica di Mare l’aereo con i 56 cittadini italiani rimasti nella città da cui è partita l’epidemia, Wuhan. Un 57esimo non è stato imbarcato perché aveva la febbre: si tratta di un ragazzo di 17 anni. Tutti gli italiani del volo sono stati trasportati alla Cecchignola dove rimarranno 14 giorni per la quarantena. In totale per ora i morti a livello globale sono 362 (la mappa in aggiornamento): superati i decessi causati dalla Sars che nel 2002-2003 furono 349 (Dati Oms). Il totale delle persone ricoverate e dimesse in tutto il mondo dopo essere state colpite dal virus è salito a 530, più di cento in più nel giro di 24 ore, mentre i morti nello stesso arco di tempo sono aumentati di poco più di cinquanta unità. Un ritmo di crescita più che doppio che offre un segnale di ottimismo rispetto alla possibile evoluzione della malattia. La mappa della diffusione della malattia, che segna in rosso le zone colpite, disegna un enorme cerchio scarlatto sulla Cina, dove naturalmente si registra il maggior numero di malati: 17.306 su un totale globale arrivato a quota 17.489. Nel resto del mondo, una serie di pallini di dimensioni diverse, ma tutti molto più piccoli, marchiano un totale di 27 Paesi coinvolti (il conteggio di Hong Kong è considerato a parte rispetto alla terraferma cinese). Fuori dalla Cina, il più colpito resta il Giappone, con 20 casi confermati e nessun nuovo contagio nell’ultima giornata. Seguono la Thailandia, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud, Australia e Stati Uniti. Il primo Paese europeo nella classifica è la Germania, con 10 casi, seguita dalla Francia (6) e dall’Italia, con i suoi due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani. Da noi, i governatori di Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige hanno scritto una lettera comune al Ministero della Sanità chiedendo che il periodo di isolamento previsto per chi rientra dalla Cina sia applicato «anche ai bambini che frequentano le scuole». I governatori chiedono che sia rivista la circolare del dicastero della Salute (qui il documento ufficiale) che lo scorso 1° febbraio il ministero dell’Istruzione ha inoltrato agli Uffici scolastici regionali e alle scuole con quelle che chiama le «indicazioni per la gestione degli studenti e dei docenti di ritorno o in partenza verso aree affette della Cina». In tre pagine vengono proposti i «comportamenti caratteristici nelle diverse fasce d’età» per evitare l’eventuale contagio, ma senza prevedere le misure proposte dai presidenti delle regioni.

Mauro Evangelisti e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero”  il 2 febbraio 2020. Dopo la conferma dei primi due casi di contagiati dal coronavirus a Roma, giovedì è stato annunciato dal governo il blocco totale dei voli, ma domani ripartiranno gli aerei dalla Cina. In Italia, però, arriveranno vuoti, con l' unica eccezione dei posti riservati ai nostri connazionali che da Pechino e Shanghai se ne vogliono andare. E ieri sera la Farnesina ha già annacquato il blocco, visto che sono stati riattivati i voli cargo che trasportano le merci. Sospesa la concessione di nuovi visti ai cinesi e i tour operator sono stati convocati dal governo. Ma il nodo ora è quello dei cinesi bloccati in Italia. Ad alcuni sta scadendo il visto, altri non hanno più una stanza in hotel, molti devono tornare al lavoro in Cina e ora sono preoccupati perché magari hanno raggiunto il limite di spesa della carta di credito. E c' è anche chi è stato costretto a dormire nella brandine del terminal dell' aeroporto di Roma. All' improvviso, tra venerdì e ieri, hanno scoperto che tutti i voli di ritorno a Pechino, Shanghai e nelle altre città cinesi collegate con Fiumicino erano stati cancellati. L' obiettivo del governo era arginare il pericolo del contagio del coronavirus che si è sviluppato a Wuhan, ma l' effetto ottenuto è insidioso: abbiamo migliaia di cinesi che se ne vogliono andare, ma non possono. Vagano per Roma e magari rischiano di prendere una banale influenza e in questo modo fare scattare la dispendiosa macchina dell' emergenza coronoavirus, che impiega mezzi speciali e laboratori per le verifiche. Per questo Protezione civile e Farnesina, in collaborazione con Enac ed Enav, stanno organizzando una massiccia operazione per rimandare a casa almeno i primi 3.300 cinesi a cui sta scadendo il visto. Già domani a Malpensa e Fiumicino arriveranno i voli speciali a Pechino e Shanghai, almeno cinque. Di fatto, è come se le compagnie che normalmente volano sugli aeroporti italiani, riattivassero i collegamenti, ma senza la possibilità di vendere biglietti in partenza dalla Cina (con l' eccezione, come detto, dei 500 nostri connazionali che non si trovano nell' area di Wuhan, ma non possono rientrare per la sospensione delle rotte). Va precisato che non sarà una operazione a carico dello Stato italiano, in pratica i passeggeri devono pagarsi il biglietto. Tra l' altro, una parte dei cinesi bloccati a Fiumicino dall' improvvisa decisione di proibire i voli tra il colosso asiatico e il nostro Paese, ha risolto il problema autonomamente. Ha trovato voli di connessione verso il proprio Paese, passando da Bangkok, Doha, Dubai, Abu Dhabi, per fare alcuni esempi (ma non da Singapore, visto che anche la città-stato ha chiuso le frontiere per i cinesi). Ma davvero ci sono così tanti cinesi in attesa di tornare a casa? Sì. Le città collegate, solo da Fiumicino, con volo diretto - ovviamente prima del blocco - sono dieci: Guangzhou, Chengdu, Haikou, Hangzhou, Pechino, Shanghai, Shenzen, Wenzhou, Wuhan (in questo caso ovviamente lo stop rimane ed è iniziato prima) e Xian. Cinque le compagnie aeree interessate: Air China, China Eastern Airlines, China Southern Airlines, Hainan Airlens e Sichuan Airlines. Totale: 670mila passeggeri all' anno solo su Roma (anche se dal conto va sottratta la parte di italiani ed europei in uscita verso l' Asia). Non solo: a complicare tutta l' operazione-rientro c' è il fatto che il blocco dei voli interessa anche Taiwan (China Airlines) e Hong Kong (Cathay Pacific). Quanti aerei serviranno per rimpatriare tutti i cinesi bloccati in Italia? Limitandosi solo ai 3.300 a cui scade il visto nelle prossime ore, almeno dieci. Ma se si guarda alle settimane successive, il numero raddoppia, anche perché al grosso dei turisti, si aggiungono i tanti uomini di affari che sono nel nostro Paese. Altro tassello: il ban riguardava anche le merci, bloccati tutti i cargo. Su questo si stava cercando un compromesso, in primis per inviare in Cina materiale medico e test per il virus, quanto mai preziosi in questi giorni in cui ha superato quota 12mila il numero dei contagiati. Ma alla fine, anche per le possibili pesanti conseguenze sull' economia italiana, è stato eliminato il divieto per i voli cargo.

Coronavirus, Maria Teresa Meli accusa il governo: "Sono basita, fanno cose da pazzi". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. Picchia durissimo, Maria Teresa Meli, contro il governo. Un esecutivo a suo giudizio incapace di gestire l'emergenza coronavirus. O che, quanto meno, desta parecchie perplessità. Ospite a Coffee Break su La7, la firma del Corriere della Sera, punta il dito dopo i primi due casi di contagio confermati a Roma: "Un governo che non decide, che non si prende responsabilità. C'è bisogno di una conferenza stampa? C'è bisogno di convocare un consiglio dei ministri per dichiarare lo stato d'emergenza? È una cosa da pazzi - picchia duro la Meli -. Viene fatto per sgravarsi dalle responsabilità, sono basita per quello che stanno facendo", conclude. I riferimenti della Meli sono in primis alla conferenza stampa di giovedì sera, in cui Giuseppe Conte e Roberto Speranza hanno confermato i primi casi. Dunque, il secondo riferimento, è al CdM che nella mattinata di venerdì ha confermato l'emergenza sanitaria: atti formali che servono a ben poco, stando alla sua analisi.

Coronavirus in Italia, cos’è lo stato di emergenza dichiarato dal Governo. Redazione de Il Riformista il 31 Gennaio 2020. La reazione dell’esecutivo Conte ai due casi di contagio da coronavirus accertati nella serata di ieri a Roma è stata la dichiarazione dello stato di emergenza per sei mesi, formalizzato durante il Consiglio dei ministri tenutosi questa mattina a Roma.

COS’E’ LO STATO DI EMERGENZA – Ma cosa implica lo stato di emergenza? In Italia gli eventi calamitosi sono classificati in base ad estensione, intensità e capacità di risposta del sistema di protezione civile. Per le emergenze di rilievo nazionale che devono essere, con immediatezza d’intervento, fronteggiate con mezzi e poteri straordinari, il Consiglio dei Ministri delibera lo stato di emergenza, su proposta del Presidente del Consiglio, acquisita l’intesa della regione interessata. Lo stato di emergenza può essere dichiarato al verificarsi o nell’imminenza di calamità naturali o eventi connessi all’attività dell’uomo in Italia. Può essere dichiarato anche in caso di gravi eventi all’estero nei quali la protezione civile italiana partecipa direttamente. Il Codice della Protezione Civile aggiornato nel 2018 ridefinisce la durata dello stato di emergenza di rilievo nazionale, portandola a un massimo di 12 mesi prorogabile di ulteriori 12 mesi. La delibera dello stato di emergenza stanzia l’importo per realizzare i primi interventi. Ulteriori risorse possono essere assegnate, con successiva delibera, a seguito della ricognizione dei fabbisogni realizzata dai Commissari delegati. Nella delibera viene indicata anche l’amministrazione pubblica competente in via ordinaria che subentra nelle attività per superare definitivamente le criticità causate dall’emergenza. Agli interventi per affrontare l’emergenza si provvede con ordinanze in deroga alle disposizioni di legge ma nei limiti e secondo i criteri indicati con la dichiarazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico. Le ordinanze sono emanate dal Capo del Dipartimento della Protezione Civile, se non è diversamente stabilito con la deliberazione dello stato di emergenza. L’attuazione delle ordinanze è curata, in ogni caso, dal Capo del Dipartimento. Allo scadere dello stato di emergenza viene emanata un’ordinanza “di chiusura” che disciplina e regola il subentro dell’amministrazione competente in via ordinaria.

Coronavirus, Conte: “Non diffondere il panico, non serve cambiare stile di vita”. Laura Pellegrini l'01/02/2020 su Notizie.it. Di fronte alla psicosi italiana sul coronavirus, Giuseppe Conte è intervenuto lanciando un appello ai cittadini: evitare allarmismi. Giuseppe Conte e Roberto Speranza hanno tenuto una conferenza di fronte ai giornalisti e agli italiani nella serata del 30 gennaio per informare i cittadini sul caso coronavirus. Infatti, giovedì scorso sono stati confermati i primi due casi in Italia: sarebbero una coppia di coniugi cinesi atterrati a Malpensa e giunti a Roma. Per loro è scattata la quarantena presso lo Spallanzani della Capitale. L’arrivo della malattia nel nostro Paese, però, ha scatenato la paura negli italiani, generando talvolta alcune psicosi. L’appello del premier Conte, dunque, vuole rassicurare i cittadini. Intervistato dal Tg5, il premier Giuseppe Conte è intervenuto sul caso coronavirus invitando gli italiani alla responsabilità e a non diffondere allarmismi. Infatti, dopo i due casi registrati a Roma il Cdm ha dichiarato lo stato di emergenza e sono stati presi tutti i provvedimenti necessari per evitare epidemie. “Non c’è motivo di suscitare allarme o diffondere panico sociale – ha detto quindi il presidente del Consiglio -. Lo stato d’emergenza ci consente di poter disporre del tempestivo efficace intervento anche della Protezione civile“. L’invito e il “messaggio a tutti i cittadini che ci ascoltano e a tutti coloro che hanno una qualche responsabilità” è il seguente: “questo non è il tempo delle polemiche – ha sottolineato il premier -, non accetto assolutamente polemiche politiche. È il tempo della responsabilità“.

L’appello alla responsabilità. La responsabilità di cui si parla “riguarda in primis il governo e le autorità sanitarie, che deve riguardare le forze di maggioranza ma, se mi permettete, anche le forze di opposizione. Dobbiamo avere un solo unico obiettivo. Parlare chiaro ai cittadini, tutelare la loro salute e assumere comportamenti conseguenti e responsabili”. Per realizzare tutto ciò, però, occorre seguire un principio: “Non bisogna assolutamente cadere nel panico o seguire un allarme per cui non c’è motivo. Bisogna seguire le indicazioni delle autorità sanitarie che raccomandano di rispettare le prioritarie regole igienico sanitarie”. Inutile quindi cambiare stile di vita di fronte al virus cinese. “Io ai miei figli – ha concluso Conte riportando un esempio personale – raccomando di lavare sempre accuratamente le mani, questo sempre e quotidianamente”. Rispetto alla azioni dell’Italia per combattere e affrontare il coronavirus, infine, Conte sostiene che sia stata “adottata, da subito, fin dai giorni scorsi, la linea di precauzione più efficace, più tempestiva, più costante”.

Coronavirus, Angelo Borrelli è il commissario straordinario per l’emergenza. Laura Pellegrini l'01/02/2020 su Notizie.it. Angelo Borrelli è stato nominato Commissario straordinario per l'emergenza: a lui spetta definire un piano per contrastare il coronavirus. Il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli è stato nominato Commissario straordinario per l’emergenza coronavirus. Il premier Giuseppe Conte, infatti, ritiene possa definire un piano di contrasto efficace della malattia. Il Cdm, invece, ha emanato lo stato di emergenza nella riunione di venerdì 31 gennaio. Le prossime mosse di Borrelli andranno a definire la gestione dei 5 milioni di euro stanziati dal Consiglio dei Ministri.

Coronavirus, il piano Borrelli. Dopo l’annuncio dei due casi sospetti e confermati a Roma, il coronavirus ha fatto scattare lo stato di emergenza anche in Italia: Angelo Borrelli è il Commissario straordinario. Analogamente a quanto avvenuto per la Sars nel 2003 (quando Guido Bertolaso venne nominato commissario), infatti, occorrerà definire un piano di contrasto del virus. Un primo abbozzo è già stato delineato. Stando a quanto dichiarato, infatti, l’intenzione è quella di requisire hotel o strutture recettive per accogliere i cinesi che dovranno essere rimpatriati visto il blocco dei voli. Questo permetterebbe di far fronte al primo problema: quello dei rimpatri. In seguito sarà bene definire le modalità con cui fare i controlli in porti, stazioni ed aeroporti. Predisporre, inoltre, l’eventuale blocco di voli da altri Paesi, stabilire le regole da seguire all’arrivo di passeggeri dalla Cina e anche per chi fa scali intermedi. Nel piano, infine, verranno predisposti anche sistemi di protezione per tutti i lavoratori e gli operatori esposti all’emergenza. In primis le ferrovie, ma anche le poste e i trasporti pubblici locali, i vigili del fuoco e le forze di polizia. Inoltre, occorrerà definire gli ospedale adibiti al ricovero degli infetti, mentre lo Spallanzani rimarrà il riferimento centrale. I 5 milioni stanziati dal Cdm saranno utili per potenziare il sistema sanitario e il numero di medici e infermieri a disposizione dei pazienti.

Le parole di Borrelli. “Il nostro Paese – ha assicurato il Commissario – ha messo in piedi un sistema di prevenzione che ci consente di gestire in modo assolutamente adeguato a questa situazione. Nessuna paura e nessun allarmismo”. Il compito della protezione civile, aggiunge ancora, prevede “ogni attività necessaria di prevenzione” al fine di “evitare così la diffusione del virus”.

Coronavirus: aeroporti, ospedali, stanziamenti. Cosa prevede lo stato di emergenza sanitaria. Borrelli commissario. Pubblicato venerdì, 31 gennaio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Nomina di un commissario per l’utilizzo degli stanziamenti e la fissazione delle regole per affrontare tutti i problemi legati alla diffusione del Coronavirus. È quanto prevede lo stato di emergenza decretato dal governo che affida alla Protezione Civile la gestione della vicenda e che emanerà nelle prossime ore un’ordinanza. Nel ruolo di commissario è stato nominato Angelo Borrelli, attuale capo della Protezione Civile: suo il compito di gestire i 5 milioni che il governo ha deciso di stanziare per affrontare la prima fase dell’emergenza. Le regole riguardano i controlli da effettuare negli aeroporti , l’allertamento per le Asl, l’eventuale potenziamento delle forze dell’ordine per le verifiche, le norme di comportamento in caso di malore. L’ordinanza stabilisce la durata della chiusura dei voli da e per la Cina e gli eventuali altri divieti legati al traffico aereo. Stabilisce le regole da seguire all’arrivo dei passeggeri provenienti dalla Cina, ma anche il protocollo da seguire per chi fa scali intermedi. Vengono individuate aree all’interno dei terminal dove si farà il primo screening - misurazione della temperatura, visite in caso di sintomi influenzali - e poi la destinazione di chi presenta una situazione sospetta. L’ordinanza della protezione civile prevede un’allerta per tutte le Regioni e le Asl che dovranno individuare gli Ospedali che diventeranno presidio per eventuali situazioni critiche. Una sorta di «centro di raccolta» dove individuare reparti “dedicati” se la situazione attuale dovesse peggiorare. Con il picco di influenza previsto per i prossimi giorni è infatti possibile che aumenti il numero delle persone da ricoverare per accertamenti. Lo Spallanzani di Roma rimane il centro dove far confluire i malati e dove effettuare le analisi di verifica dei casi «sospetti». Lo stato di emergenza consente di snellire le procedure saltando una serie di passaggi per l’acquisto e l’approvvigionamento del materiale. E dunque - qualora ce ne fosse necessità - di rifornire con procedura d’urgenza tutte le strutture che avranno bisogno di mascherine, siringhe e tutto il resto del materiale necessario a gestire la situazione. Questo vale anche per le scorte dei farmaci che dovranno essere sempre al massimo livello. La gravità della situazione era stata messa in chiaro già da giovedì quando il ministro della salute Roberto Speranza aveva annunciato che l’emergenza coronavirus sarebbe stata trattata con misure «equivalenti a una epidemia di colera e peste».

Coronavirus, Giulietto Chiesa e l'errore della Russia: "Cinesi decuplicati prima della chiusura dei confini". Libero Quotidiano il 31 Gennaio 2020. La bomba Coronavirus nella pancia della Russia? Secondo Giulietto Chiesa la decisione del Cremlino di chiudere i confini con la Cina è avvenuta troppo tardi, visto che negli ultimi giorni la presenza di cinesi nel Paese è decuplicata per i festeggiamenti del Capodanno. "La Russia ha un rapporto con i cinesi molto vicino e stretto - ha spiegato il giornalista a Radio Cusano Campus -, il rapporto tra Cina e Russia è diventato molto importante soprattutto negli ultimi 5 anni. La quantità di cinesi che va a Mosca è più che decuplicata. È anche un grande affare per i russi. Decine di migliaia di cinesi sono in Russia, molti arrivati per i festeggiamenti del capodanno. Questa notte però è accaduto un fatto nuovo. La Russia ha chiuso la frontiera con la Cina, 2.700km divenuti di colpo impenetrabili".  "Se confrontiamo la situazione russa con quella italiana - continua Chiesa - ci sono alcuni grandi punti interrogativi. Quanti di questi cinesi sono entrati in Russia dopo l'esplosione del contagio? Quanti sono nello stato di incubazione? Per ora non abbiamo informazioni, sappiamo solo che in Russia ora si sta correndo ai ripari. L'Oms ha dichiarato l'emergenza mondiale, figuriamoci se la Russia può ignorare questo fattore. Sperano di fare un gigantesco censimento. È possibile che i russi abbiano sottovalutato la situazione. Noi in fondo siamo lontani dalla Cina. In Russia, dalla Cina, ci si arriva a piedi seppur in Siberia, nelle zone orientali. Sono circa 200 milioni i cinesi che hanno rapporti costanti con la Russia, possiamo immaginare cosa significhi stare lì. Il problema vero quindi è fare il censimento di chi ha attraversato la frontiera negli ultimi 20 giorni".

Igor Pellicciari per Dagospia il 28 Gennaio 2020. Non esiste città europea più asiatica di Mosca. Qui prima che altrove da sempre si respirano le tendenze dell’estremo oriente. E’ una familiarità culturale che negli anni recenti è diventata anche politica, dopo il riavvicinamento strategico Russo-cinese, contromossa alle sanzioni dell’Occidente contro Mosca, che ha sorpreso molti analisti soprattutto americani, convinti che un accordo del genere fosse improbabile in quanto contro natura (geo-politica). Ed invece negli ultimi anni la presenza cinese è aumentata a vista d’occhio nella quotidianità moscovita, a partire dai numerosissimi turisti alto/spendenti che, stimolati dal nuovo clima di amicizia tra i due paesi, vengono nella capitale Russa, attratti dal notevole lifestyle e shopping. Per chi vive in Russia ma legge le cronache nostrane, colpisce che in questi giorni, con l’arrivo di decine di migliaia di turisti cinesi festanti in occasione delle celebrazioni del loro anno nuovo, ad attenderli ci fosse una Mosca illuminata a festa (il sindaco  Sobjanin ha prolungato le luminarie natalizie fino ai primi di Febbraio e molti negozi espongono scritte ed auguri in lingua cinese) ma nessun segno della fobia crescente nel resto del mondo per il Corona virus. Nè, a quanto è dato sapere, le autorità Russe hanno previsto alcun tipo di precauzione al di fuori di quelle standard per i voli provenienti dalla Cina. Mosca, che date le sue dimensioni e il clima non mite in genere non sottovaluta le crisi meteorologiche e sanitarie che le si presentano, sembra dare questa volta poco peso al Corona virus il cui tasso di mortalità dei contagiati (sul 3 %), si dice in Russia, è in linea con quello di altri ceppi di influenza e molto lontano da quanto minacciava anni fa la terribile SARS. A sentire Mosca, la drammatizzazione del virus questa volta sarebbe riconducibile ad una chiara scelta in tal senso della leadership a Pechino, dove il Presidente Xi Jinping vuole evitarsi le critiche di debolezza rivolte al suo predecessore Hu Jintao in occasione della SARS. Questa prova di forza tornerebbe utile al Presidente Xi sia come segnale e deterrente da giocare sul piano della crisi di Hong Kong,  tutt’altro che sfiammata, sia come diversivo e giustificazione al rallentamento della economia cinese, molto più serio di quanto venga percepito da noi.

Coronavirus: media cinesi: "Trovati farmaci efficaci contro il virus". Ma l'Oms frena: "Niente di concreto". Due istituti cinesi hanno fatto sapere di avere due diverse combinazioni che fermano il patogeno. Galli: "Cure ancora lontane". Garattini: "Servono altri test". Individuati "i super diffusori" della patologia. La Repubblica il 05 febbraio 2020. Un doppio annuncio dalla Cina ha dato la notizia di due diverse combinazioni di farmaci che sarebbero efficaci contro  il nuovo coronavirus. Ma poco dopo l'Oms ha fatto sapere che non esiste ancora una cura contro il virus. I medicinali testati non possono essere definiti efficaci e non ci sarebbe nulla di concreto per combattere il virus.

Oms: "Non ci sono terapie note". "Non esistono ancora terapie efficaci contro il 2019-nCoV e l'Oms ricord che solo studi su larga scala possono essere efficaci e sicuri. E sviluppare terapie o vaccini contro patogeni come questo di solito prende anni. Prima bisogna affrontare lunghe sperimentazioni e passare attraverso anche qualche sconfitta", spiega il portavoce dell'Oms Tarik Jasarevic. A confermare che una terapia è ancora lontana anche Massimo Galli, docente dell' Università di Milano e primario dell'ospedale Sacco. "Si sta lavorando con farmaci già noti, ma i test in vitro non sono sufficienti per trarre alcuna conclusione. In una situazione così critica - ha detto Galli - si lavora con quello che si ha".

I media cinesi. Questa mattina i media cinesi avevano annunciato con entusiasmo le due scoperte. La prima notizia è arrivata dalla tv cinese Cgtn: un team di ricercatori, guidati dalla scienziata Li Lanjuan della Zhejiang University, ha spiegato di aver due farmaci efficaci contro il virus, specificando però che si tratta solo dei primi risultati di una ricerca. I test preliminari avrebbero dimostrato che Abidol e Darunavir possono effettivamente inibire il virus negli esperimenti con cellule in vitro. Un'altra combinazione di farmaci è stata annunciata sempre oggi come una possibile terapia per combattere il virus 2019-n-CoV. Sul suo sito il Wuhan Institute of Virology, che fa capo all'Accademia Cinese delle Scienze, i ricercatori hanno fatto sapere di aver individuato due medicinali, il Remdesivir e la clorochina, con effetti inibitori sul nuovo coronavirus. "I i risultati sono stati consegnati alle autorità pertinenti a livello nazionale e richiedono verifiche cliniche", si legge nel comunicato citato dal tabloid Global Times. La clorochina è utilizzata contro la malaria, già disponibile sul mercato interno cinese, mentre il Remdesivir GS-5734, prodotto dall'azienda Usa Gilead è in fase avanzata di ricerca clinica per la cura dell'Ebola in Congo. L'azienda farmaceutica ha già firmato un accordo con il China-Japan Friendship Hospital di Pechino per testare il farmaco. L'istituto di Wuhan ha fatto domanda per brevettare la scoperta anche in altri Paesi o regioni in base al trattato di cooperazione in materia di brevetti, e nella nota chiede alle industrie straniere di non mettere in atto i diritti legittimi sui brevetti per aiutare la Cina.

Farmaci ancora da testare. Per cercare certezze bisogna rifarsi a quanto detto dall'Oms. Non ci sono soluzioni contro il virus dalla Cina, come confermano anche gli esperti in Italia. "Lo studio sull'anti-malarico clorochina è molto interessante. Il problema è che occorrono degli studi sull'animale prima di passare dalle sperimentazioni in vitro alla pratica clinica", spiega il farmacologo, fondatore e presidente dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs, Silvio Garattini. "I ricercatori cinesi stanno esaminando una serie di molecole esistenti, dagli antiretrovirali all'anti-malari, e questa è la via logica da seguire per avere delle terapie in tempi brevi. Il fatto è che la sperimentazione sull'uomo non è proprio semplice, a meno di non farla su grandi numeri: per la maggior parte, infatti, i pazienti affetti dal nuovo coronavirus guarirebbero comunque. Dunque è complesso valutare la reale efficacia di potenziali terapie i studi su piccoli numeri di pazienti. E' molto importante, invece, la base di conoscenze che arrivano dalla sperimentazione animale, e certo in alcuni Paesi questo tipo di sperimentazione è più snella e permette di mettere in piedi ricerche in tempo brevi".

Identificati i primi "super diffusori". Intanto in Cina sono stati identificati i primi "super diffusori" dell'infezione da nuovo coronavirus, persone che possono trasmetterlo più velocemente e a più soggetti rispetto ad altri. Una notizia "per nulla confortante", afferma Nicasio Mancini, microbiologo medico all'ospedale San Raffaele di Milano, sul sito Medical Facts del virologo Roberto Burioni. "Sappiamo che il cosiddetto R0 di questa epidemia, ossia il numero di persone che un singolo paziente ammalato può infettare - spiega l'esperto - sembra essere compreso fra 2 e 3. In pratica, un paziente con il coronavirus può trasmettere l'infezione a 2 o 3 altri soggetti. In una città della provincia di Jiangsu della Cina orientale, Xuzhou, si è visto però che dieci pazienti infetti sono stati a stretto contatto con solo una persona infetta. Cioè, un singolo individuo ne ha infettati dieci". Inoltre, "nella città di Xinyu della provincia di Jiangxi, sembra che un solo operatore sanitario di 43 anni, ricoverato in condizioni critiche in ospedale, abbia da solo infettato 15 dei 17 nuovi casi verificatisi in città", prosegue spiegando che si tratta di un fenomeno già emerso ai tempi della Sars.

Marzio Bartoloni per ilsole24ore.com l'8 febbraio 2020. «Nelle prossime due settimane ci si gioca la possibilità di contenere l’epidemia in Cina e non farla arrivare fuori: si capirà infatti se si stabilizzano i casi o aumenteranno ancora». Questa la previsione di Walter Ricciardi, ex presidente dell'Istituto superiore di sanità e ordinario di Igiene dell'Università Cattolica di Roma che sottolinea anche come finora il coronavirus «sia meno pericoloso dell’attuale pandemia influenzale». Influenza ora arrivata al picco in Italia con 795mila casi su un totale di 4,266 milioni di pazienti colpiti.

Cosa dobbiamo aspettarci?

«Le prossime due settimane saranno cruciali per gestire e contenere l'epidemia di coronavirus in Cina la cosa importante però è prendere decisioni basate sulle evidenze scientifiche e la solidarietà. Finora il coronavirus si è diffuso più velocemente a esempio della Sars, ma è molto meno mortale e direi che lo è anche rispetto alla pandemia influenzale di quest’anno. Va comunque preso sul serio, come tutti i virus respiratori, ma senza esagerare facendosi prendere dal panico».

Sono corrette le misure prese finora dall’Italia?

«Le misure di controllo scattate nei porti e aeroporti con la misurazione della temperatura sono misure molto utili perché consentono di verificare subito eventuali casi sospetti. Il blocco dei voli aerei invece è inutile e sbagliato».

Perché?

«Perché questo non evita assolutamente che arrivino persone dalle aree a rischio. Per loro basta prendere voli con uno scalo. Invece era meglio mantenere i voli diretti e poi controllare le persone in arrivo dalle zone a rischio. Anche l’Oms ha caldamente sconsigliato di non bloccare i voli».

I governatori del nord hanno chiesto la quarantena per i bambini.

«È una richiesta coerente con le misure di prevenzione che sono state prese finora. Non si tratta di isolare i bambini cinesi. Bensì di prendere precauzioni con tutte le persone, comprese i bambini cinesi e non, che arrivano dalle zone a rischio».

Graziella Melina per “il Messaggero” il 10 febbraio 2020. Il coronavirus può resistere sulle superfici come metallo, vetro o plastica fino a 9 giorni. La scoperta di quattro ricercatori, Günter Kampf, Daniel Todt, Stephanie Pfaender, Eiker Steinmann, pubblicata quattro giorni fa sulla rivista scientifica The journal hospital infection, pone nuovi interrogativi sulle modalità di diffusione del virus. Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore di igiene dell'Università degli Studi di Milano, però, tranquillizza: «La carica virale si abbassa nell'arco delle ore e successivamente dei giorni».

Si tratta di uno studio che però può allarmare.

«In realtà, è stata pubblicata una revisione di 22 studi che sono realizzati sui coronavirus umani e animali, ossia la Mers (middle east respiratory syndrome), la Sars (severe acute respiratory syndrome) e l'Hcov (endemic human coronaviruses). Sostanzialmente si evidenzia, come già sapevamo, che i coronavirus possono resistere sino a 9 giorni, ma possono essere disinfettati con alcol, perossido di idrogeno, ipoclorito di sodio».

Ma in questi nove giorni possono infettare?

«Si tenga presente che la carica virale si abbassa nell'arco delle ore e successivamente dei giorni. Questi studi, inoltre, sono stati condotti in condizioni sperimentali. Noi sappiamo che la sopravvivenza dipende poi dall'umidità, se ce n'è di più resistono di più e dalle tipologie di substrato: se c'è del materiale organico questi virus si salvano; il materiale proteico infatti fa da schermo e li difende, come biofilm. La cosa certa è che con il lavaggio noi asportiamo questo materiale e conseguentemente i batteri e il virus».

La trasmissione avviene dunque esclusivamente attraverso le vie respiratorie?

«Per il coronavirus cinese l'occasione di contatto principale sono le goccioline più grosse di quelle che emettiamo, e devono essere assorbite in grande quantità. Per cui, per esempio, la piccola quantità che si può prendere attraverso il dito di una mano su una superficie che ha una ridottissima quantità di virus non determina una infezione efficace. Infatti, non tutte le infezioni ovvero i contatti avvenuti con il virus possono in qualche modo determinare la malattia. Per fare un paragone con altre patologie, si sa che addirittura i malati positivi per hiv hanno nella loro saliva una quantità così esigua di virus che l'efficacia di trasmissione non avviene. La cosa importante è che le prove mostrano che i più semplici e più disponibili disinfettanti agiscono in meno di un minuto».

E per quanto riguarda i cibi che potrebbero arrivare dalla Cina, si può stare tranquilli?

«Con i viaggi, con l'esposizione a temperature bassissime, come nei cargo dove non c'è riscaldamento, è assolutamente incongruo pensare che questa capacità di sopravvivere del virus possa determinare un rischio».

È comunque un aspetto che andrebbe approfondito?

«Finora non sono disponibili dati sulla trasmissione con la superficie contaminata. Dipenderà da ulteriori studi. A mio avviso, comunque, la principale via di trasmissione rimane quella del contatto. I due cinesi risultati infetti erano stati in giro per l'Italia, quindi se ci fosse stata una concreta possibilità di questa trasmissione forse avremmo avuto molti casi secondari».

Chi sono i «super diffusori» E quali caratteristiche possono avere? Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Daniela Natali. Fare un identikit è impossibile Si possono solo fare ipotesi. E le misure già prese dai Governi e dai singoli restano le stesse. La contagiosità dell’attuale coronavirus è misurata a R 2,2:un individuo può contagiarne 2,2 ; ma se ci fossero dei superdiffusori e cioè persone in grado di infettare un numero di persone molto più alto della media? «Dell’esistenza di superdiffusori nella storia delle epidemie siamo certi, per esempio nel caso della Sars ci furono -ricorda Massimo Galli, direttore e dell’Unità di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano - ma per fortuna la grande maggioranza dei colpiti disperdeva relativamente poco virus». Per la SARS in cui il rapporto malato -contagiato era circa 1 a 1, una commissione di scienziati ed epidemiologi stabilì che 8 era il numero di casi di trasmissione necessari per identificare un super diffusore. In Cina di superdiffusori 2019-nCoVdi ne sarebbero stati identificati due, come si è letto sul sito Medical Facts del virologo Roberto Burioni. In una città della provincia di Jiangsu, 10 pazienti infetti sarebbero stati a stretto contatto con una sola persona malata. E nella città di Xinyu, un solo operatore sanitario pare aver causato 15 dei 17 nuovi casi verificatisi in città. Anche un inglese sembra essere l’esempio perfetto, non solo dell’attuale globalizzazione, ma anche della possibilità di una superdiffusione del virus. Ha contratto il virus a Singapore a una conferenza; quando era ancora asintomatico, ha raggiunto la famiglia in una località sciistica sul Monte Bianco in Francia. Lì ha contagiato sei persone tra cui uno spagnolo. Tornato a Brighton, il nostro portatore sano (almeno fino ad allora) si è recato in un pub dove ha diffuso ancora di più la malattia. Questo senza contare le persone che ha potuto incontrare sui voli e si teme anche che altre novanta persone, presenti alla conferenza a Singapore, possano essere state infettate e aver così iniziato altre catene di contagio nei loro Paesi d’origine. Ma che caratteristiche ha un superdiffusore? Le ipotesi sono molte ma non ci sono certezze. Sembra logico pensare che si tratti di una persona con le difese immunitarie basse che viene pesantemente aggredito dalla malattia e diventa in pratica un “serbatoio” di virus. Al contrario, come scrive il giornale inglese The Guardian il superdiffusore “tipo” potrebbe essere qualcuno con sistema immunitario molto efficiente che ha sintomi lievi oppure praticamente non li sviluppa. O forse il superdiffusore, nel luogo in cui è stato infettato, è venuto in contatto con una dose di virus più alta della media o, ancora , è stato attaccato contemporaneamente da più agenti patogeni e questo ha indebolito il suo sistema immunitario. In ogni modo fare un “identikit” è impossibile . E le misure precauzionali già prese dai Governi e dai singoli ( lavarsi bene e spesso le mani, innanzitutto) restano le stesse. 

Coronavirus, il super-diffusore Steve Walsh: così ha contagiato decine di persone. Libero Quotidiano l'11 Febbraio 2020. Si chiama Steve Walsh, ha 53 anni e in poche ora la sua è diventata una fama mondiale. A suo discapito. Già, perché viene indicato come un "super-diffusore" del coronavirus. La ragione? Un rapido tour partito da Singapore, dove ha contratto il virus, per poi spostarsi in Francia e, infine, fare ritorno nel Regno Unito. Un uomo d'affari, un ricco produttore di sensori industriali, che ora - riporta Corriere.it - è sospettato di aver contagiato decine di persone. Ma procediamo con ordine. Dopo Singapore, quando in Francia era ancora asintomatico, mister Walsh ha infettato cinque concittadini che erano nel suo hotel, compreso un bimbo di 9 anni e uno spagnolo che si trovava in quella zona. Quando lui e la sua famiglia sono tornati a Brighton, sud dell'Inghilterra, Steve Walsh è entrato in un pub, dove avrebbe diffuso ancora di più la malattia. Il tutto non tiene in considerazioni i numerosi voli che ha preso per tornare nel Regno Unito. Si teme anche che altre 90 persone, presenti a una conferenza a Singapore a cui aveva preso parte, potrebbero essere state contagiate dal coronavirus, iniziando così altre catene di contagio nei loro Paesi natali. A definirlo super-diffusore, per la precisione "super-spreader" è stato lo stesso Oms. Per inciso, Welsh ora è guarito.

Il viaggio a Singapore, poi la vacanza sulle Alpi e la serata a Brighton: così un inglese  è diventato «super diffusore». Pubblicato martedì, 11 febbraio 2020 su Corriere.it da Monica Ricci Sargentini. Un signore britannico di mezza età in vacanza sulle Alpi francesi è diventato l’emblema di come i viaggi internazionali possano mettere a repentaglio gli sforzi del mondo per contenere l’epidemia di coronavirus. Mister x, come lo chiameremo, avrebbe contratto il virus mentre era Singapore per una conferenza internazionale sponsorizzata dalla sua azienda, la Servomex, una compagnia britannica che produce sensori industriali e li vende nel mondo. In seguito l’uomo, quando era ancora asintomatico, ha raggiunto la sua famiglia che era a sciare sul monte Bianco, in Francia. Lì ha infettato altri cinque concittadini che erano nel suo hotel, compreso un bambino di 9 anni, e uno spagnolo che era nell’area. Tornato in patria, a Brighton nel sud dell’Inghilterra, il nostro portatore sano (almeno fino ad allora) si è recato in un pub dove ha diffuso ancora di più la malattia. Questo senza contare le persone che ha potuto incontrare sui voli che ha preso per tornare nel Regno Unito. Si teme anche che altre novanta persone, presenti alla conferenza a Singapore, possano essere state infettate e aver così iniziato altre catene di contagio nei loro Paesi natali. Per l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Mister x è l’esempio perfetto di «super-spreader» (super diffusore), cioè qualcuno che infetta una grande quantità di persone. Non è la prima volta che accade. A gennaio una donna di Shanghai che si era recata in Germania per partecipare a una sessione di aggiornamento alla Webasto, un’azienda di componentistica automotive, nel quartiere generale di Stockdorf, a sud-est di Monaco. La signora, che era infetta ma non ancora malata, ha contagiato una dozzina di colleghi che poi hanno passato la malattia anche ai loro familiari.Questi casi mettono in luce l’importanza dello scambio di informazioni tra Paesi diversi per riuscire a trovare nel minor tempo possibile le persone che possono diffondere la malattia, loro malgrado. Non è ancora chiaro come si trasmette il coronavirus che ha già infettato più di 40mila persone e ne ha uccise più di 900. Secondo gli esperti è probabile che il contagio passi attraverso le gocce che si entrano nell’aria quando una persona tossisce o starnutisce. L’incubazione è di circa 14 giorni, all’inizio i sintomi possono essere leggeri, facilmente confondibili con un raffreddore o una febbriciattola. Secondo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il modo in cui il contagio è stato diffuso dall’uomo d’affari britannico che non ha mai messo piede in Cina è molto allarmante: «Questa potrebbe essere la scintilla che crea un incendio ancora più grande. Il nostro obiettivo è il contenimento. Rinnoviamo l’invito a tutti i Paesi perché evitino il diffondersi dell’epidemia». Durante l’esplosione della Sars, tra il 2002 e il 2003, fu un dottore cinese a portare la malattia all’estero quando si recò in un hotel di Hong Kong e infettò altri sei ospiti che poi tornarono in Canada, Taiwan, Thailandia e Singapore dove diffusero ulteriormente la malattia. Andando molto indietro nella Storia la più famosa «super spreader» è la cuoca irlandese Mary Mallon, soprannominata Mary la tifoidea per aver passato inconsapevolmente la malattia a decine e decine di persone. La donna, che ha vissuto tra il 1869 e il 1938, è stata costretta a vivere tanti anni in esilio all’estero proprio per la sua noema.

Coronavirus, il focolaio del Nord. Primi casi di contagio tra italiani: 15 malati. L'infezione partita a Codogno (Lodi) da un 38enne mai stato in Cina. Dieci paesi isolati. “Non uscite da casa". Giampaolo Visetti il 22 febbraio 2020 su La Repubblica. Tappati in casa davanti a social e tivù con l’incubo del virus. Al mattino ancora si aggrappavano alla speranza di un pessimo scherzo di carnevale. Con il passare delle ore e l’aumento dei contagiati, calma e battute si trasformano in panico e silenzi. «Sembra incredibile — dice a tarda sera Mariuccia, proprietaria del bar “La Tentazione” di Castiglione d’Adda, dove il morbo si sarebbe trasmesso la prima volta — nessuno sa come lottare contro un nemico invisibile». Cinquantamila persone, nel cuore dell’epidemia, adesso temono davvero che il Lodigiano si riveli la Wuhan d’Italia. Il coronavirus, dalla Cina centrale, ha ormai raggiunto una delle aree più globalizzate del Nord ed è, oltre che in Veneto, alle porte di Milano. Dieci i paesi chiusi attorno all’epicentro del contagio, tra Codogno, Castiglione e Casalpusterlengo. Stop a tempo indeterminato per asili, scuole, uffici, negozi e locali pubblici anche in altri sette paesi. Fermi anche i treni. A rischio-isolamento perfino Lodi. Invitato a restare in casa, per almeno una settimana, un terzo degli abitanti di una provincia che conta 230 mila residenti, snodo cruciale tra Lombardia ed Emilia Romagna. Il primo bilancio del contagio, oltre che fulmineo, è impressionante: 15 infettati, ricoverati tra l’ospedale di Codogno e il centro specialistico «Sacco» di Milano, alcuni in condizioni gravi. Altri due in Veneto, vittime di un altro focolaio. Oltre 250 i pazienti posti in quarantena: 70 medici e infermieri, 79 tra famigliari e amici entrati in contatto con i contagiati nei tre centri-focolaio. «Venerdì mio figlio è venuto a trovarmi — dice a Castiglione la mamma dell’uomo che ora lotta con la morte nel reparto di terapie intensive di Codogno — stava male e il medico ha accettato di visitarlo qui. È un omone, forte e sportivo. Pensavamo a una brutta influenza. Questa mattina me l’hanno lasciato vedere in ospedale: intubato, incosciente, molto grave. Quasi non l’ho riconosciuto». Francesca e il marito Moreno, chiusi in casa a due passi dall’ambulatorio di quel medico di base, pure colpito dalla polmonite, aspettano di fare il tampone ordinato dall’unità di crisi costituita in Regione. A diffondere il contagio, dopo essere stato infettato da un amico, sarebbe loro figlio Mattia, 38 anni, residente a Codogno, chimico nello stabilimento Unilever di Casalpusterlengo. Ai primi di febbraio ha frequentato più volte bar e ristoranti della zona assieme a un amico, dipendente della «Mae» di Fiorenzuola d’Adda, nel Piacentino. Tra i ricoverati, anche la cognata. «Era tornato dalla Cina il 21 gennaio — dice la proprietaria della farmacia Gandolfi di Castiglione — ed è venuto ad acquistare le solite medicine contro il raffreddore». L’intuizione si è accesa giovedì sera a Valentina, 36 anni, moglie di Mattia, insegnante, in congedo da settembre e al settimo mese di gravidanza. Si è ricordata delle uscite del marito e dell’amico che lavora in Cina, rientrato il per capodanno lunare. Il primo caso di coronavirus trasmesso tra italiani, è stato scoperto così. Lo ha detto subito agli infettivologi della cittadina, che da domenica non si spiegavano l’improvvisa febbre a 40 di Mattia, passato al pronto soccorso e in medicina interna, prima di aver preferito proseguire le cure a casa. Dietro le finestre ora sbarrate il mistero sulla positività al virus si è dissolto. «Il morbo a questo punto — dice il direttore dell’ospedale, Massimo Lombardo — può al massimo essere contenuto: nessuno può eliminarlo». Oltre 120 i colleghi di Mattia sottoposti al tampone all’Unilever, dove sono stati chiusi mensa e reparti da lui frequentati. Due le caserme, di esercito e aeronautica, attrezzate per la quarantena di quasi 200 persone tra Milano e Piacenza. Tra i contagiati, con Mattia «non trasportabile» ci sono sua moglie Valentina e l’amico rientrato dalla Cina, considerato il «paziente zero» in Italia. Negativo al test, avrebbe trasmesso il virus da asintomatico, o durante quella «influenza» poi superata. La valutazione sulla presenza degli anticorpi è in corso all’Istituto superiore di sanità. Con loro anche il medico di Castiglione e il compagno di corsa di Mattia, figlio della proprietaria del bar dove sembra esplosa l’epidemia. A Milano tre clienti abituali del locale, tutti settantenni, oltre a cinque medici e quattro pazienti dell’ospedale di Codogno, secondo incubatore ora chiuso alle visite dall’esterno. Chi avverte i sintomi di un’influenza viene invitato a restare in casa e a chiamare il 112. Deserte anche le strade dei paesi sigillati. Deviati da oggi pure i treni. Chi esce lo fa con le mascherine, esaurite, o coprendosi il volto con la sciarpa. «Siamo piccole comunità — dice sotto shock il sindaco di Castiglione, Costantino Pesatori — frequentiamo gli stessi posti: se si ammala uno rischiamo di ammalarci tutti». Mattia, in due settimane, ha incontrato centinaia di persone. Non solo in laboratorio all’Unilever. Anche correndo con gli amici del Circolo podistico «Codogno 82»: uscite quotidiane, più una mezza maratona il 2 febbraio a Santa Margherita Ligure e una corsa non competitiva il 9, a Sant’Angelo Lodigiano. Sabato scorso era andato a giocare a calcio: campionato amatori, lui centrocampista del bar «Picchio» di Soragna, contro il «Sabbioni» di Crema. «Aveva qualche linea di febbre — dice l’allenatore — sembrava niente». Invece era già tutto. «A mezza mattina — dice Cecilia Cugini, preside delle medie a Codogno — i genitori sono venuti a riprendersi i bambini. Piangevano perché qui la vita non sarà più quella prima». Nulla di visibile, nella notte che sconvolge la pianura delle cascine e delle industrie. Proprio questo, come l’esplosione di una centrale atomica, paralizza anche i pensieri.

Virus, primo caso a Torino: ha avuto contatti con alcuni dei contagiati della Lombardia. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Lorenza Castagneri e Massimo Massenzio. Il coronavirus arriva in Piemonte. Un caso di contagio è stato registrato oggi, sabato 22, all’ospedale Amedeo di Savoia di Torino. Si tratta di un uomo di 40 anni che ha avuto contatti con alcune delle persone contagiate in Lombardia. Il 40enne al momento, ha un po’ di febbre, ma non sarebbe grave. La famiglia è monitorata. Il 40enne è di Torino e lavora in una ditta di Cesano Boscone, nel Milanese, dove è entrato in contatto con due persone contagiate, padre e figlio, ricoverati all’ospedale Sacco di Milano in buone condizioni. Ha iniziato a stare male giovedì sera. Il 40enne ha moglie e due figli, di 8 e 10 anni, che al momento sono monitorati assieme al personale dell’ambulanza e alla squadra di pallacanestro con cui ha giocato a basket mercoledì sera. La conferma del contagio è arrivata dalla Regione Piemonte nel corso di una conferenza stampa organizzata nella sede della protezione civile di Torino, in corso Marche. L’uomo ha contattato l’ospedale Amedeo di Savoia facendo i nomi di due delle persone ricoverate in Lombardia e da lì è iniziata la procedura di controllo. Fino all’esito del tampone: positivo. Altri 15 casi sospetti in Piemonte. Tra questi una donna di Asti che ha partecipato alla stessa gara in cui ha corso l’uomo di Codogno, in Lombardia, contagiato dal Coronavirus. E un uomo di Biella con polmonite da 15 giorni. Il Piemonte è la quinta regione italiana toccata da casi accertati di coronavirus. «Oggi emergenze non ce ne sono, oggi c’è una situazione per cui 15 casi in Piemonte sono in corso di accertamento, riguardano diverse province, quindi non sono localizzate in un’unica città», ha detto il presidente del Piemonte, Alberto Cirio. «C’è un caso accertato di coronavirus che è ricoverato attualmente all’Amedeo di Savoia, è un cittadino italiano 40enne di Torino che ha contratto il virus per contratto il virus per rapporti con il ceppo lombardo che già conosciamo», ha aggiunto. «Quello che abbiamo fatto e stiamo facendo con il Servizio di igiene pubblica — continua — è isolare i rapporti personali, familiari e lavorativi che questo soggetto ha avuto in modo da restringere il cerchio in modo che la situazione sia controllata». «Alle 18 avremo un confronto con il governo. Da ieri, venerdì 21 febbraio, abbiamo una situazione che stiamo gestendo, il livello di attenzione è altissimo e ora di contenimento. Con prefetto e sindaca abbiamo ritenuto opportuno riunire l’Unità di crisi permanente». «Per un caso accertato - ha concluso Cirio - abbiamo tanti casi negativi. I nostri servizi di igiene stanno facendo tutte le verifiche necessarie anche a domicilio. Il tampone si potrà fare a casa con il 118». L’assessore alla Sanità Icardi invita a contattare il numero verde 1500, il proprio medico o il 118, senza uscire, mentre il prefetto sta predisponendo dei percorsi diversi negli ospedali. «È bene che tutti i soggetti con i sintomi e che si sentano affetti non vadano al pronto soccorso — l’appello di Icardi — ma si rivolgano al medico di medicina generale o chiamino il 118, a cui forniremo le protezioni necessarie». Inoltre «l’Assessorato alla sanità del Piemonte ha predisposto un servizio per fare il tampone a domicilio, affollare i pronto soccorso degli ospedali sarebbe deleterio».

Coronavirus, chi è il primo contagiato a Milano. Due morti in Italia. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni. Alla lista di contagi di Coronavirus (Covid-19) in Italia si aggiunge un primo caso positivo a Milano. Si tratta di un residente di Sesto San Giovanni ricoverato all’ospedale San Raffaele da una settimana. Allo studio le misure di emergenza da fare scattare nel capoluogo lombardo. Adesso vanno ricostruiti tutti i contatti che l’uomo ha avuto nella settimana di degenza al San Raffaele tra cui medici, infermieri e altri pazienti. La struttura si trova a cavallo dei comuni di Milano e Segrate: emblema dell’ospedale è il Cupolone con l’Angelo San Raffaele, alto otto metri. Fondato da don Luigi Verzé , dal gennaio 2012 è di proprietà del gruppo ospedaliero San Donato della famiglia Rotelli. È un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico ed è un policlinico accreditato con il Servizio Sanitario Nazionale con oltre 50 specialità cliniche. Conta complessivamente oltre 6 mila addetti. Tenendo conto di tutte le sedi si arriva a circa 68 mila accessi al pronto soccorso all’anno, 34.000 interventi chirurgici, 51.130 ricoveri e oltre 950.000 prestazioni ambulatoriali. È collegato all’università Vita-Salute San Raffaele.

Coronavirus a Milano, il medico infettato tra pazienti e conferenze. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni. Una tosse fastidiosa e continua. Gli accertamenti da un collega. Il test del tampone, fatto più per scrupolo che per reale sospetto. Poi l’esito: positivo. È emerso, domenica, il primo caso a Milano città di contagio da coronavirus, il terzo nell’area metropolitana. Si tratta di un dermatologo e docente universitario, che lavora negli ambulatori di via Pace del Policlinico e risiede in centro. Si sarebbe presentato nei giorni scorsi all’ospedale Sacco, con sintomi simili a quelli di una normale influenza: febbre e tosse. È stato sottoposto agli esami e anche al controllo per accertare se avesse contratto il Covid-19. Domenica sono arrivati i risultati: l’uomo è positivo. Le sue condizioni tuttavia sono buone ed è stato già dimesso. Subito sono scattate le verifiche per ricostruire la mappa dei movimenti del professore nelle ultime settimane. Oltre al lavoro negli ambulatori di Dermatologia di via Pace, ha un’attività accademia intensa che comprende la partecipazione a conferenze e incontri. Recentemente ha viaggiato all’estero, in Germania e in Grecia (ma non sarebbe stato in Cina) e potrebbe aver contratto il virus in occasione di questi spostamenti, mentre nelle ultime settimane non sarebbe stato a contatto coi pazienti. Da ieri la dirigenza del Policlinico e l’assessorato regionale alla Sanità si sono attivati per verificare chi sia entrato in stretto contatto con il professore. L’attenzione si concentra sui colleghi e gli specializzandi di Medicina. Alcuni di loro avrebbero avuto nei giorni scorsi febbre e tosse. Per oggi è in programma una riunione con i capi dipartimento per stabilire quali misure adottare, anche sulla base dell’ordinanza regionale e per coordinare le attività con l’Università Statale, dal momento che il Policlinico è ospedale universitario, nonché uno dei più importanti della città con 900 posti letto. Al vaglio la possibilità di chiudere il reparto di Dermatologia. Anche la sospensione delle attività negli ambulatori di via Pace è ancora in corso di valutazione. A medici e specializzandi vicini al professore sarà effettuato il tampone che permette di verificare il possibile contagio. Sono invitati a rimanere a casa. Nel Milanese finora sono noti altri due casi: un uomo di Sesto San Giovanni ricoverato al San Raffaele e uno di Mediglia, al Sacco.

Antonio Rapisarda per “Libero quotidiano” il 7 febbraio 2020. Nessuna psicosi (come è avvenuto con alcuni netturbini che si sarebbero rifiutati di prestare servizio nelle zone di Roma più frequentate dai cinesi), nessun espediente per evitare di presentarsi al posto di lavoro, ma almeno una mascherina per proteggersi concretamente sì. La richiesta arriva dai giudici di pace, una sorta di prima linea quando si parla di immigrazione dato che toccano a loro le udienze di convalida delle espulsioni dei migranti. «Schermarsi da eventuali contagi», per questo i giudici chiedono alle istituzioni di essere forniti del filtro: per tutelare la propria salute non solo dal temibile coronavirus giunto dall' Oriente (trasmissibile da chiunque) ma anche da altre malattie, come la tubercolosi, il colera o il vaiolo. L' appello per «le più elementari tutele sanitarie e assistenziali», di cui i giudici si sentono sprovvisti «pur fornendo un servizio pubblico che non può essere interrotto né differito», è indirizzato al Governo e ai ministri interessati, ossia Speranza e Bonafede: a veicolarlo i due maggiori sindacati italiani della categoria, l' Associazione nazionale dei giudici di pace e l' Unione nazionale dei giudici di pace con due note accomunate dalla stessa preoccupazione. Le mascherine, ovviamente, sono solo una parte del problema. Come spiega l' Unione nazionale, ad esempio, nel pacchetto andrebbero comprese le «indennità di malattia e di rischio» per i giudici e pure per «i magistrati onorari che si trovano in medesime situazioni». Si tratta, come è chiaro dalle ricostruzioni, di un problema assai tangibile per chi è chiamato a dirimere casi da tutto il mondo. Le testimonianze raccolte dall' Associazione nazionale raccontano di come i giudici di pace reputano che la «pericolosità di un contagio» del nuovo virus 2019-nCoV sia «tangibile» durante le udienze per la «convalida delle espulsioni di migranti clandestini». Un problema che potenzialmente riguarda tutto lo Stivale, dato che le udienze del genere si celebrano non solo negli otto Centri di Permanenza e Rimpatrio, i Cpr - che si trovano tra Trapani, Roma, Bari e Torino - ma anche negli uffici dei giudici di pace, e nelle apposite sale della Questura di una qualsiasi città sprovvista di Cpr. Proprio uno dei giudici di pace di Milano, parlando con l' Ansa, ha ricostruito la procedura: «Il provvedimento di accompagnamento alla frontiera emesso dal Questore, che segue il decreto di espulsione firmato dal prefetto, deve essere convalidato da noi». Prima, però, la prassi richiede un colloquio con lo straniero, «che dura dai 10 ai 15 minuti». Colloquio in cui ci si ritrova seduti allo stesso tavolo, «uno di fronte all' altro senza nessuna precauzione». Davanti al bollettino medico che registra l' altissima capacità di contagio del coronavirus, si comprende bene la preoccupazione degli operatori della giustizia per la loro salute. Per questo motivo l' Unione nazionale si aspetta una risposta urgente da palazzo Chigi «essendo difficile continuare a garantire il pubblico servizio svolto a queste condizioni ormai non più procrastinabili», aggiungendo che «in caso di contagio» le responsabilità ricadrebbero inevitabilmente sul Governo. Buone notizie, da questo punto di vista, arrivano dai produttori ufficiali di mascherine. Nonostante l' impennata incredibile della domanda, la Copag (una delle società leader in Italia nell' ambito delle forniture sanitarie) «è riuscita a far fronte agli impegni assunti nei confronti dei clienti, senza speculazioni e rispettando tutte le richieste». La disponibilità c' è, l' esigenza pure: la parola, adesso, passa a Conte e ai suoi ministri.

Adalgisa Marrocco per huffingtonpost.it il 22 febbraio 2020. “Non lasciamo spazio alla psicosi. Siate cauti ma non affollate gli ospedali senza sintomi che lo giustifichino: farlo può essere addirittura deleterio per la salute di grandi e bambini”. Il professor Alberto Villani - presidente nazionale della Società Italiana di Pediatria (Sip) e responsabile del reparto di Pediatria Generale e Malattie Infettive dell’Ospedale Bambino Gesù - non ha dubbi e all’HuffPost dice: “Il Coronavirus è sicuramente molto aggressivo, ma gli effetti che può causare sono diversi in base al Paese dove avviene il contagio: in Italia siamo preparati ad affrontarlo, su tutti i fronti”. Villani commenta così i casi di pazienti risultati positivi al Covid-19 in Lombardia. “Bisogna fare gli opportuni distinguo: gli esiti del contagio in un Paese molto povero e sovrappopolato sono ben diversi da quelli verificabili in un Paese come il nostro. Questo non vuol dire che bisogna abbassare la guardia: in Lombardia il soggetto contagiato è stato individuato e, insieme a lui, sono state rintracciate tutte le persone con cui era stato a contatto”. Quello messo in atto in Lombardia è un protocollo rodato: “Si tratta della stessa procedura usata quando, per esempio, si verifica un caso di tubercolosi o di meningite: individuare il caso originario, tracciandone contatti e spostamenti. È prassi nel nostro sistema sanitario”. L’Italia, infatti, ha tutti gli strumenti per gestire l’eventuale emergenza. “Anche i due casi ritenuti gravi di turisti cinesi ricoverati all’Ospedale Spallanzani stanno resistendo grazie alle cure riservate loro. Ciò dimostra come i nostri reparti di rianimazione e le nostre strutture rappresentino una sicurezza per la popolazione”, sottolinea Villani. Nonostante le rassicurazioni, in queste ore ospedali e pronto soccorso sono affollati. Particolarmente in allarme risultano le mamme, spaventate dai sintomi lamentati dai bambini e solitamente riconducibili ad influenza e sindromi parainfluenzali di stagione. A tale riguardo, la posizione di Villani è chiara: “Affollare le strutture può essere addirittura deleterio per la salute di grandi e bambini poiché aumenta il rischio di esposizione a patogeni”. “Bisogna interpellare prima il proprio medico di base e valutare insieme la situazione, senza correre al pronto soccorso per un semplice raffreddore o per una febbricola. Se sono in circolo patologie molto contagiose, infatti, è addirittura più pericoloso recarsi in un pronto soccorso affollato poiché è lì che c’è maggior rischio di esporsi ai virus. Il discorso è diverso se un soggetto presenta difficoltà respiratorie e febbre alta per più giorni: in quel caso bisogna prendere altri provvedimenti”. Questo il monito del Professore. Un elemento di rassicurazione per quanto concerne l’incidenza pediatrica del Coronavirus pare confermato. “Fino ad ora tra i bambini contagiati nel mondo non ci sono stati né casi gravi né morti”, afferma Villani. Tra i nuovi casi registrati in Lombardia anche una donna incinta, moglie del 38enne contagiato e ricoverato presso l’Ospedale di Codogno. Al Professor Alberto Villani abbiamo chiesto se chi aspetta un bambino debba proteggersi o preoccuparsi in maniera particolare. “In gravidanza bisogna sempre avere cautela e uno stile di vita adeguato, che limiti qualsiasi tipo di contagio soprattutto nell’ultimo trimestre. La stessa influenza può essere fonte di problemi per la mamma e per il nascituro. Sui possibili effetti del Coronavirus in gravidanza sappiamo ancora troppo poco, ma la cautela deve essere costante”. E ancora rivolgendosi alle mamme, Villani dice che “la guardia va tenuta alta, di fronte a qualunque patologia. Non a caso il Ministero della Salute, i Ginecologi e la Società Italiana di Pediatria hanno portato avanti una campagna molto importante per la vaccinazione delle donne incinte contro influenza e pertosse”. A proposito di neonati e bambini, gli specialisti italiani in pediatria sono preparati ad affrontare un’eventuale emergenza. Villani, responsabile del reparto di Pediatria Generale e Malattie Infettive del Bambino Gesù di Roma, afferma: “Il nostro ospedale, come altre strutture del Paese, è sempre pronto a fronteggiare qualsiasi tipo di emergenza. Tutti i percorsi sono attivi, tutto il sistema sanitario è allertato”. Gestire la psicosi da Covid-19, dunque, è necessario. Il professor Villani riassume, in quattro punti, i motivi alla base della condizione di relativa sicurezza del nostro Paese: “1) In Italia, al momento, la casistica è scarsissima e governabile; 2) Le nostre condizioni sociali, ambientali ed economiche consentono di fronteggiare il virus; 3) Il nostro sistema sanitario nazionale è efficiente; 4) Se si viene ricoverati si può contare su tutela sanitaria e strutture adeguate”.

Da repubblica.it il 23 febbraio 2020. "Abbiamo adottato un decreto legge con misure per il contenimento e la gestione dell'emergenza epidemiologica. Lo scopo è tutelare il bene della salute degli italiani". Lo ha detto il premier Giuseppe Conte al termine della riunione del Consiglio dei ministri dedicato all'epidemia di coronavirus nella sede della Protezione civile. "Il bene della salute degli italiani - ha continuato il premier - è quello che ci sta ci sta più a cuore, è quello che nella gerarchia dei valori costituzionali è al primo posto. La salute è al primo posto in una ideale gerarchia di valori". "Nelle aree focolaio - ha spiegato il premier - non sarà consentito l'ingresso e l'allontanamento, salvo specifiche deroghe da valutare di volta in volta. In quelle aree è già stata disposta la sospensione delle attività lavorative e delle manifestazioni".

Previsto il blocco delle gite scolastiche e delle manifestazioni sportive. Come ha spiegato il ministro della Salute Roberto Speranza è stato dato al ministro della Pubblica Istruzione la possibilità di bloccare le gite scolastiche in Italia e all'estero e a quello dello sport di bloccare le manifestazioni sportive. Il ministro Vincenzo Spadafora ha deciso di sospendere tutte le manifestazioni sportive di domani in Veneto e Lombardia. In una lettera inviata al presidente del Coni, Giovanni Malagò - sulla base delle decisioni del cdm - Spadafora chiede al numero unio dello sport italiano "di farsi interprete presso tutti i competenti organismi sportivi dell'invito del governo di sospendere tutte le manifestazioni sportive di ogni grado e disciplina previste nelle Regioni Lombardia e Veneto per la giornata di domenica 23 febbraio 2020".

Ma Schengen non si tocca. Dal premier un netto no allo stop di Schengen e, soprattutto, alla chiusura dei confini come misure di protezione dalla diffusione del coronavirus. "Quando parliamo di controlli accurati - ha spiegato - dobbiamo sempre tenere conto della sostenibilità delle misure" e una chiusura dei confini è una scelta "sproporzionata. Al momento - ha insistito Conte - non ci sono gli estremi per un'iniziativa di questo tipo, senza tenere conto poi dell'impatto devastante che avrebbe sull'economia. Cosa facciamo dell'Italia - ha chiesto il premier - un lazzaretto?".

Il comunicato del Consiglio dei ministri. Nei comuni o nelle aree nei quali risulta positiva almeno una persona per la quale non si conosce la fonte di trasmissione o comunque nei quali vi è un caso non riconducibile ad una persona proveniente da un'area già interessata dal contagio, le autorità competenti sono tenute ad adottare ogni misura di contenimento adeguata e proporzionata all'evolversi della situazione epidemiologica. Le misure Il divieto di allontanamento e quello di accesso al Comune o all'area interessata. La sospensione di manifestazioni, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato. La sospensione dei servizi educativi dell'infanzia e delle scuole e dei viaggi di istruzione. La sospensione dell'apertura al pubblico dei musei. La sospensione delle procedure concorsuali e delle attività degli uffici pubblici, fatta salva l'erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità. L'applicazione della quarantena con sorveglianza attiva a chi ha avuto contatti stretti con persone affette dal virus e la previsione dell'obbligo per chi fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico di comunicarlo al Dipartimento di prevenzione dell'azienda sanitaria competente, per l'adozione della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva. La sospensione dell'attività lavorativa per alcune tipologie di impresa e la chiusura di alcune tipologie di attività commerciale. La possibilità che l'accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l'acquisto di beni di prima necessità sia condizionato all'utilizzo di dispositivi di protezione individuale. La limitazione all'accesso o la sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone, salvo specifiche deroghe.

Coronavirus: i contagi in Lombardia. L'assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera predica "calma e serenità" nell’annunciare che la regione ha attivato tutte le procedure di emergenza contro l’incubo del virus cinese: sono state messe in isolamento 250 persone che saranno sottoposte ai test e ai tamponi per constatare l’eventuale contagio da Covid-19. M.M, il 38enne ricoverato in terapia intensiva al nosocomio di Codogna, si crede che possa aver contratto il virus da un amico e collega – attualmente sotto osservazione all’ospedale Sacco di Milano – tornando da un viaggio di lavoro in Cina, in occasione una cena che si sarebbe consumata in un ristorante di Milano.

Da repubblica.it il 23 febbraio 2020. "Mentre i casi di coronavirus in Italia continuano purtroppo ad aumentare, come vi raccontiamo su Iene.it e come vi racconteremo in onda, Le Iene prendono una decisione storica per adeguarsi alle indicazioni di contenimento della diffusione del coronavirus. Per la prima volta in 24 anni di storia del programma andremo in onda senza pubblico in studio nelle prossime puntate di martedì 25 e giovedì 27 febbraio, come sempre dalle 21.20 su Italia 1, in cui vi parleremo naturalmente anche dell'emergenza coronavirus". È quanto si legge sul sito de Le Iene. "La decisione è stata presa visto che la Lombardia è la regione di gran lunga con più contagiati e alcuni casi sono stati registrati anche a Milano", si legge ancora, "il sindaco del capoluogo lombardo Giuseppe Sala ha chiesto di prendere tutte le misure per fermare la diffusione del virus. Anche noi vogliamo contribuire". Da parte sua, anche Mediaset ha deciso che questa sera Live Non è la d'Urso andrà in onda in diretta senza pubblico in studio, "una scelta che condivido totalmente per senso di responsabilità verso il pubblico stesso, verso gli ospiti e i tecnici che lavorano al programma": lo ha reso noto con un messaggio Barbara D'Urso. "Si dice che "the show must go on", sì, ma giustamente senza esporre le persone ad alcun tipo di rischio inutile", ha continuato la conduttrice, "non sarà facile per me con lo studio completamente vuoto ma cercherò comunque di tenervi compagnia e so che sentirò il vostro calore da casa attraverso i social". 

Coronavirus in Lombardia: assalto ai supermercati aperti. Le Iene News il 23 febbraio 2020. In Lombardia sono scattate le misure per contenere il contagio e la diffusione del coronavirus. Scuole, chiese e negozi dovranno rimanere chiusi per almeno una settimana. A Iene.it vi mostriamo i primi video dei supermercati presi d’assalto con scaffali e frigoriferi svuotati. È assalto ai supermercati facendo lo slalom tra quelli aperti e chiusi. È la prima conseguenza del diffondersi del coronavirus in Lombardia. Le immagini che arrivano a Iene.it sono dei negozi attorno alla zona rossa di Lodi e dalla provincia di Cremona e Piacenza. In questi 10 comuni tra Veneto e Lombardia nessuno può entrare e i loro abitanti non possono superare i confini. La prefettura ha predisposto che i varchi verranno sorvegliati da 35 pattuglie che controlleranno gli accessi alla zona rossa. I presidi saranno attivi 24 ore al giorno. Il piano di cinturazione è stato definito questa mattina dal dipartimento di pubblica sicurezza. Qui i piccoli negozi e le attività della media distribuzione già da ieri mattina sono stati chiusi mentre strade e piazze erano completamente deserte (come vi abbiamo mostrato in questo video). Da qualche ora il presidente di Regione Lombardia con l’unità di crisi nazionale ha chiuso per una settimana scuole, musei e luoghi aggregativi di carattere ludico (clicca qui per l’articolo). Anche la Curia di Milano ha predisposto la chiusura di chiese, oratori e la sospensione delle Messe. Anche il teatro alla Scala e il Piccolo di Milano hanno sospeso le rappresentazioni. Si aggiungono alle università chiuse da ieri, ma entro sera questa lista potrebbe aumentare con altre prescrizioni per ridurre i contatti tra le persone e quindi i possibili contagi. Tutt’attorno si sta scatenando la psicosi che si sta espandendo in tutta la Regione. La grande distribuzione è presa d’assalto. Non è più la caccia all’ultimo paio di guanti o mascherine (che già da ieri risultano esaurite pure nelle farmacie). Già dalle 8 di stamattina all’esterno di alcuni supermercati della Lombardia c’erano persone in fila in attesa di entrare. Non una normale coda, ma qualcosa di più. Le corsie sono invase da carrelli e clienti a caccia di qualsiasi acquisto. Proprio da pochi minuti sono stati chiusi i negozi di due centri commerciali a Sesto San Giovanni, a nord di Milano. È quanto ha stabilito il sindaco in un’ordinanza con "misure drastiche di contenimento per la città”. Qui è risultato positivo al coronavirus un 78enne che da una settimana era ricoverato all’ospedale San Raffaele.

Elisabetta Andreis e Elisabetta Rosaspina per corriere.it il 24 febbraio 2020. Alle casse dell’Unes di viale Premuda, Porta Venezia, a Milano, le commesse si consolano: «Se svuotano gli scaffali entro le 20, stasera andiamo a casa prima». È solo una battuta, ma pochi dei clienti in fila sorridono o hanno voglia di simpatizzare con le cassiere in straordinario. Nella domenica senza calcio, senza mostre, senza cinema e senza teatri, le prove tecniche di coprifuoco sembrano essere diventate l’unica distrazione possibile per coppie, famiglie e single. Una sorta di caccia al tesoro: l’ultimo flacone di candeggina, una rara confezione di salviette umide all’aloe, seminascosta dietro il latte detergente per neonati, una scatola di guanti in lattice, e pazienza se è rimasta soltanto la taglia più piccola. L’Amuchina o il Germozero (qui una guida per trovare online i gel disinfettanti) equivarrebbero al primo premio della lotteria; ma soltanto accanto alle casse se ne intravvede la preziosa etichetta, fragile baluardo dei dipendenti contro il tanto sconsigliato affollamento delle ultime ore. «Posso?», una ragazza porge le mani per ricevere qualche goccia di disinfettante in omaggio. Poi ridacchia imbarazzata come se l’avesse chiesto soltanto per scherzare. Siamo a Carnevale, no? Da una parte e dall’altra del nastro scorrevole si cerca di disinnescare la tensione. Ma le famose mascherine, sparite negli ultimi giorni dalle farmacie, sono riapparse sui volti di chi è stato più tempestivo degli altri. È la legge della giungla. Ipermercati e supermercati del Lodigiano e di Casalpusterlengo sono stati i primi, ieri mattina presto, a essere invasi da un esercito di consumatori compulsivi e ben organizzati. Ma anche a Milano l’annuncio della chiusura di scuole, locali pubblici e musei ha fatto temere che anche le saracinesche sarebbero potute restare abbassate questo lunedì. I carrelli si riempiono in fretta: carne, broccoli, patate, affettati, salmone. Ma soprattutto acqua. All’Esselunga di viale Piave un equilibrista riesce a impilare in un solo carrello sei confezioni da sei bottiglie da un litro e mezzo ciascuna: una cascata da 54 litri. Come se l’acquedotto civico rischiasse di essere bombardato da un momento all’altro o fosse stato distrutto dall’uragano Katrina. I reparti più sguarniti forniscono utili indizi sui timori e sugli scenari previsti dagli acquirenti: biscotti e cioccolata per addolcire una lunga e tediosa quarantena sul divano. Succhi d’arancia e tubi di vitamina C come debole, ma non del tutto inutile, sostegno al sistema immunitario. Pasta e scatolame a lunga conservazione che in ogni caso non vanno a male. E poi carta igienica, dentifricio e shampoo, perché sono anche quelli generi di prima necessità, seppure non di stretta sopravvivenza. Senza dimenticare sacchi di crocchette per cani e gatti con i quali dovesse essere condivisa la temuta serrata di negozi alimentari. «Al Carrefour di via Ancona ho preso l’ultima scatoletta di tonno e le ultime due patate» non sa se rallegrarsi o demoralizzarsi Francesca Singer, imprenditrice e mamma di tre bambini. I vertici dell’Esselunga hanno dovuto affidare all’Ansa, l’agenzia di stampa, un comunicato rassicurante sulla rapidità del ripristino delle scorte: «Siamo pronti ad affrontare qualsiasi esigenza». I magazzini sono pieni, fanno sapere, si tratta soltanto di trasportare la merce fino ai ripiani, ripuliti come neanche nel più riuscito dei Black friday. Rispetto alla corsa all’accaparramento di quasi trent’anni fa, all’inizio della Guerra del Golfo, ora c’è a disposizione un altro canale di approvvigionamento: l’e-commerce. Ma anche l’autostrada online si è ben presto intasata. C’è chi sfoga sui social il suo disappunto quando dall’ordine su Amazon prime si è visto sfilare dal carrello il pacco da otto bottiglie di minerale: «Questo prodotto è stato comprato da un altro cliente» gli ha notificato un messaggio. Sospese in molti supermercati, le consegne a domicilio sono slittate a data da definirsi anche sul web: non prima di martedì, nei casi più fortunati. Amazon, dalle 15 e 30 circa di ieri, informa che le consegne non sono per il momento disponibili. Mentre la App Supermercato h24 avverte genericamente che «potranno verificarsi ritardi».

Coronavirus: trovare parcheggio è facile come se fosse agosto. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Elisabetta Rosaspina. Così insolitamente fragile e spaventata, senza più un’agenda fitta di impegni professionali e mondani da rispettare, senza affanno, senza traffico, senza rumore e senza code (supermercati e farmacie a parte), Milano è da ieri in modalità «pausa». Brutto a dirsi, ma è perfino più bella nella sua versione rarefatta. Silenziosa, un po’ attonita, amabile e quasi rassegnata. Il primo lunedì dopo l’annuncio dell’apparizione del coronavirus è cominciato con la mancata riapertura dei negozi cinesi nella zona di via Paolo Sarpi. Non tanto per paura, quanto per solidarietà. Una lunga fila di saracinesche abbassate è la risposta della Chinatown locale allo sgomento da contagio che si è impadronito della città. Qualche cartello sulle serrande fa riferimento alle «disposizioni delle autorità sanitarie», ma altri si limitano a comunicare le date di chiusura delle ferie impreviste: dal 24 febbraio al 1° marzo. Per cominciare. Ristoranti, parrucchieri, bar, manicure sempre aperti, domeniche comprese, si sono arresi all’infausto debutto dell’Anno del Virus: «È un’iniziativa nata in modo orizzontale, sulle chat, e c’è stato anche un invito dell’ambasciata cinese» ha spiegato all’Ansa Francesco Wu, referente per l’imprenditoria straniera in Confcommercio. Nessun ordine dall’alto: «L’autoquarantena di chi torna dalla Cina ha funzionato — osserva Wu —, non c’è nessun italo-cinese fra i contagiati. Quindi basta caccia all’untore». Tenere aperto, comunque, sarebbe antieconomico. Un’unica cliente ha rallegrato, per esempio, la giornata di un centro estetico cinese disponibile in zona Porta Venezia: «Se proprio devo andare in quarantena almeno avrò i piedi in ordine» stabilisce, pragmatica, all’uscita. Ma, in generale, lo shopping può attendere. In via Montenapoleone e nelle altre vie del quadrilatero d’oro, le boutique sono vuote. Le commesse della Rinascente sorridono grate ai pochi visitatori che si aggirano tra i banchi dando un senso alla loro vana attesa di comitive di turisti. Anche spostarsi per Milano sui mezzi pubblici è diventato confortevole. In metropolitana, sugli autobus e i tram c’è soltanto l’imbarazzo della scelta per sedersi. I timori di un’indesiderata promiscuità hanno spinto molti impiegati a raggiungere gli uffici in auto. Inoltre diverse aziende hanno optato per il telelavoro e le riunioni in streaming. Quindi anche trovare parcheggio è diventato facile quasi come in agosto. All’altro estremo della quotidianità ai tempi della perfida simil-influenza c’è lo stress dei farmacisti: «La gente sembra impazzita — constata una dottoressa Elena Colombo in zona San Siro —. Ieri ho “bruciato” 600 mascherine, reperite per fortuna, e disinfettanti in meno di una giornata. Ma che fine hanno fatto? Dovrebbe esserci tutta la città in maschera, per strada, invece...». Invece no. Se non erano destinate al mercato nero, le tanto ricercate mascherine sono rimaste in tasca o in borsa. Per le vie del centro sono una minoranza i passanti che le sfoggiano. Spesso stranieri. La maggioranza difende l’orgoglio della normalità. Messo a dura prova, però, all’ora della spesa. Nel segreto del monitor gli ordini di generi alimentari e per l’igiene sono quintuplicati, informa Sami Kahale, direttore generale di Esselunga. I rifornimenti sono arrivati, ma non tengono il ritmo dell’incetta: «Non ci sono carenze di prodotti nei nostri magazzini e non prevediamo di averne. Desideriamo pertanto rassicurare i nostri clienti sulla continuità del servizio e di conseguenza invitiamo ad acquistare quantitativi solo per le normali esigenze di consumo» raccomanda (a vuoto) il manager. Con tante provviste accantonate in casa i milanesi disertano caffè, ristoranti e — segno inequivocabile della gravità del momento — addirittura le imprescindibili «apericene». Nonostante i 19 gradi regalati da questo mite inverno, i tavolini all’aperto delle vie di Brera sono desolatamente liberi. Allo storico bar Jamaica sono quasi 110 anni di onorato servizio a ribollire contro «l’isteria collettiva», e lo sdegno è condensato nel cartello appeso dietro al banco del bar: «Non abbiamo chiuso neanche sotto i bombardamenti». Figurarsi se ci riuscirà un pestilenziale mostriciattolo. La quaresima anticipata di Milano prosegue, tra cinema, teatri, night e musei sbarrati. Anche la Biblioteca Sormani si è arresa, ma purtroppo non risulta che le librerie siano state prese d’assalto da torme di lettori angosciati.

Coronavirus Milano, vite (quotidiane) che cambiano: «Noi, i resilienti del virus». Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Stefano Landi e Elvira Serra su Corriere.it.

Le scuole chiuse hanno costretto le mamme a moltiplicare le acrobazie. C’è chi si è offerto di ospitare per qualche giorno i figli delle altre e chi si è cucito addosso lo smart workingGli scaffali saranno pure vuoti, ma la resilienza abbonda. Scuole chiuse hanno costretto le mamme (sempre loro, salvo rare eccezioni: ne abbiamo raccontata una in questa pagina) a moltiplicare le acrobazie per stare in equilibrio precario e perfetto tra casa e lavoro. C’è chi si è offerto di ospitare per qualche giorno i figli delle altre nel proprio appartamento, chi si è cucito addosso lo smart working, inventandosi videoconferenze al parco. Preti di periferia si sono lanciati in dirette social della messa, per non far sentire esclusi i parrocchiani (ma don Walter Magni, portavoce della diocesi ambrosiana, avverte che non vale per le confessioni: quelle si devono fare sempre di persona). Gli psicologi in via del tutto eccezionale stanno sperimentando videotelefonate con Skype o su WhatsApp per sostituire le sedute ed evitare troppe defezioni. Milano non ha perso la sua vocazione ad aiutare gli altri e, nonostante i limiti posti a garanzia della sicurezza nei centri di aggregazione, l’Opera San Francesco, 900 volontari tra mensa solidale e Poliambulatorio medico, ha scelto di fornire lo stesso i pasti, nonostante la mensa sia chiusa, distribuendo sacchetti alimentari. Mentre nella Fondazione Fratelli di San Francesco, dove si gestiscono corsi d’italiano per minorenni stranieri, piuttosto che far viaggiare gli studenti sui mezzi pubblici si sono organizzati per fare le lezioni via Skype e correggere i compiti via email. Insegnanti di yoga e di danza stanno studiando alternative social, per non interrompere del tutto i corsi. E c’è chi, infine, prova a sdrammatizzare. In piena zona rossa del Covid-19, a Codogno, dove tutte le attività commerciali sono state chiuse, i titolari di bar, vinerie e caffetterie stanno cercando di prenderla sul ridere. «Ormai qui è un deserto — racconta una di loro —. Ma noi ci teniamo in contatto con messaggi ironici». (Stefano Landi ed Elvira Serra)

Chiara Alessi: «Disposta a ospitare bimbi a casa mia». Chiara Alessi, 38 anni, fa la giornalista e lavora da casa. «Quando ho saputo che avrebbero chiuso le scuole ho pensato di dare una mano», racconta. Ha due figli di cinque e sette anni e una casa grande a Milano. Quindi ha postato su Twitter: «Se qualche genitore non sapesse a chi lasciare i figli metto a disposizione casa, Lego, libri, pastelli, fogli e pasta in bianco». Che per un bambino di quella età è il kit di sopravvivenza. Anche al coronavirus. L’idea, come dice lei, non è eroica né da pazza irrazionale. «Mi sembra una cosa laica: nella speranza che lo faccio io per te e magari lo faccia qualcun altro per me la prossima volta», racconta. Solo che in poche ore più dei complimenti al coraggio sono piovuti insulti. «Mi dicono che sono la classica italiana che non rispetta le regole. Ma propongo solo di ospitare qualche bambino per dare una mano».(Stefano Landi)

Simona Trotta: «Sedute su Skype con i miei pazienti». Nel suo studio in viale Fulvio Testi Simona Trotta, psicologa di 60 anni, sta vedendo meno pazienti. Vedendo meno, si fa per dire: perché le sedute, in molti casi, sta continuando a farle su Skype o con le videochiamate su WhatsApp. «Alcuni non si fidavano a venire con i mezzi pubblici, altri avrebbero dovuto prendere il treno da fuori Milano. Mi hanno proposto questa alternativa e ho deciso di assecondarli, in via eccezionale, per dare continuità al nostro lavoro». Trotta è anche psicologa infantile all’ospedale Sacco di Milano, proprio nel reparto di Infettivologia pediatrica. «Ma è vuoto, come i viali e il cortile», rassicura. «I certi casi i pazienti hanno annullato perché a casa non avrebbero avuto privacy, con i genitori costretti allo smart working. Ho cercato di essere la stessa, inquadrando la finestra alle mie spalle, la scrivania. Le sedute? Durano uguale».(Elvira Serra)

Don Fabio: «La messa in diretta su Instagram». A Fabio Zanin, prete di 28 anni, l’idea è venuta domenica pomeriggio, quando si chiedeva con il parroco di Cusano Milanino, don Giampaolo, cosa avrebbero potuto fare dopo la sospensione delle messe. «Il vescovo ha detto che ogni situazione è occasione e noi dobbiamo obbedire, naturalmente, ma anche sperimentare nuovi linguaggi», racconta per telefono. La sua sperimentazione è consistita in una diretta Instagram e Facebook della messa delle 8.30. «Mi ha aiutato Claudio, un giovane collaboratore. L’idea in sé non è originale, oggi puoi assistere alla messa anche in tv. Ma la cosa nuova è far arrivare ai parrocchiani la voce del proprio pastore». Claudio gli ha dato una mano a creare un account Instagram della parrocchia e a rinverdire quello Facebook. Da oggi, poi, sarà anche su YouTube. «Ho chiesto ai più giovani di aiutare i loro nonni con il telefonino!».(Elvira Serra)

Giulia Franzoni: «Sfollata al lago così sto con mamma». Quando le responsabili dell’agenzia Angèlia-Bc Communication le hanno proposto lo smart working per tutta la settimana, Giulia Franzoni, stagista di 25 anni, non ha dovuto pensarci sopra e ha scelto di essere «sfollata» vicino al Lago Maggiore. «Vivo ancora con i miei genitori, mio padre è pediatra a Cormano e segue duemila bambini senza mascherina o kit di disinfettanti. Diciamo che è un po’ a rischio. Mia madre soffre di asma. Così mi sono immolata, si fa per dire, ad accompagnarla al lago. E nel frattempo continuo a lavorare». La vita campestre ha i suoi vantaggi: «Per esempio posso fare delle passeggiate nella natura quando sono in pausa». Ma ci sono pure svantaggi: «Beh, vedere solo mia mamma e leggere i miei comunicati stampa non è una gran vita. Con le colleghe ci prendiamo il caffè, chiacchieriamo... Però sia chiaro: non è un sacrificio così terribile!». (Elvira Serra)

Luca Arcoini: «Mia moglie lavora, i figli li gestisco io». Luca Arcoini ha 38 anni e due figli, Giacomo di 4 e Giorgio di uno e mezzo. Gestisce alcuni ristoranti in Lombardia, sono 25 in tutta Italia, e da ieri lo fa restando a casa, in modo da occuparsi anche dei bambini, perché sua moglie Marta, manager, non può scegliere lo smart working. «Oggi è stato abbastanza facile (lunedì, ndr)», racconta. «Ho sentito i direttori dei ristoranti, abbiamo ridimensionato gli ordini sulla base del crollo delle affluenze. Abbiamo provveduto a far arrivare i dispenser di gel anti batterico sia per i clienti che per i camerieri. Tutte cose che sono riuscito a gestire su WhatsApp o con una telefonata, mentre i bimbi giocavano». In effetti anche adesso uno dorme, l’altro disegna accanto a lui. «Poi servirà un piccolo rinforzo da parte dei nonni. Ma tra poco, per esempio, farò una call dal parco. È una situazione di emergenza, c’è più tolleranza». (Elvira Serra)

Addio ufficio, con il coronavirus Milano lavora da casa. Una giornata a Citylife, nelle torri di Generali e Allianz dove l'epidemia ha accelerato l’attività da remoto e svuotato le stanze. Raffaele Ricciardi il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. Gli addetti ai lavori delle risorse umane sono convinti che, una volta passata la paura del coronavirus resterà una lezione sull'organizzazione delle aziende. Citylife, uno dei quartieri di shopping e uffici che ha ridisegnato il profilo di Milano, ne diventa un avamposto in un mite lunedì di febbraio. Sull'area troneggiano le torri di Generali e Allianz, le compagnie assicurative che qui hanno accentrato le funzioni di vertice. Se un gigante potesse batterle con le nocche, ne emergerebbe un rimbombo che sa di vuoto. Poco resta del brulicare di grisaglie che di solito calcano il selciato. Smart working, lavoro agile: è il mantra da queste parti. Una virtù che diventa una scelta necessaria per tutelare il personale e continuare a operare come nulla fosse davanti all'emergenza sanitaria. Calcolano ad Allianz che dei circa 2.600 dipendenti che lavorano alla torre milanese, la metà non sia in ufficio. Periodo di sciate e Carnevale, certo, ma è soprattutto l'invito al lavoro a distanza che ha svuotato i moderni open space. La comunicazione ai dipendenti è arrivata domenica, dopo le riunioni di una task force che si aggiornava al ritmo della cronaca: è corsa sulla Intranet interna, ribadita poi a cascata dai vertici a tutti i livelli. Chi è abilitato allo smart working (1.200 persone sulle 5 mila in Italia), per una settimana lavorerà da casa. Per quelli che presenziano, gli orari di ingresso e uscita sono ampliati per sfuggire all'affollamento dei mezzi pubblici. Chiuse le mense, l'auditorium, la palestra e il bar. Quando si prende l'ascensore non si preme la pulsantiera, per evitare impronte: si avvicina il badge per esser diretti al proprio piano. Gli spostamenti tra i 50 livelli sono vietati. Tutto si smaterializza, anche le riunioni con i colleghi del piano di sopra. È lo stesso disegno degli spazi a consentirlo: le postazioni sono allineate sui lati lunghi degli open space, nel cuore ci sono le sale conferenze con dozzine di monitor e "ragni" per collegarsi a ogni parte del mondo. Un flusso di dati al quale ogni dipendente, dal suo portatile, può prender parte. Fronteggiare il caos straordinario potenziando le misure ordinarie: è quel che accade anche dai dirimpettai delle Generali, altri 2.100 dipendenti, molti dei quali sono abituati a lavorare in remoto due giorni alla settimana (oltre il 50% a livello di gruppo) grazie a un accordo sindacale: chi può farlo è stato invitato a utilizzare al massimo, in questi giorni, il beneficio contrattuale. Sicurezza dotata di termometri e detergente sul banco della reception segnalano che la guardia è alta. Ma negli uffici senza postazioni fisse, dove ogni sera si libera la scrivania lasciando il proprio pc in un armadietto (quando non serve per lavorare da casa l'indomani), la paralisi è solo apparente. Produttività in aumento, più tempo per la famiglia, risparmi sui trasporti e sulle emissioni, riduzione dell'assenteismo (meno 20-30% alle Generali): questi i dividendi, in tempi di pace, dal lavoro smart. Garanzia della continuità operativa, in tempi di crisi. Tutti i big vi stanno facendo ricorso: 1.600 dipendenti in Aon, altri mille in Snam, solo per citarne alcuni. In Vodafone, dove da anni si lavora sul punto, tra Milano, Padova, Bologna, Ivrea e Torino restano a casa in 2.700 su 3.400 (si supera il 90% nelle sedi meneghine). Il lavoro senza lavoratori, però, fa anche le sue vittime. Bisogna scendere tra i bar e i ristoranti di Citylife per trovarli: "Abbiamo il 70% di clienti in meno", stima una cameriera sfaccendata. "Questa sera chiuderemo, anche se potremmo restare aperti, e lasceremo solo una persona in cucina per preparare le consegne a domicilio". La cena, nella City spaventata dal virus e protetta dagli anticorpi smart, si consumerà rigorosamente a casa.

«Ma io devo lavorare». A Vo’ l’intero paese in fila per il tampone. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. Sembra il primo giorno di scuola, ma non è una festa. Le mamme che tengono i bambini per mano cominciano a dare segni di impazienza. Insomma, quand’è che ci fate entrare? Gli uomini sbuffano, si lamentano. «Io dovrei andare a lavorare» dice uno. «Non fare il furbo, resta qui che almeno ti riposi» replica la moglie. Esserci, ci sono quasi tutti, i 3.305 vadensi, tranne i pochi che hanno approfittato dell’ultima notte per fuggire da casa loro. Si sono presentati puntuali alle 8.30 del mattino davanti al plesso scolastico di primo e secondo grado Guido Negri, per scoprire subito che gli altri, gli uomini incaricati di sottoporre al tampone l’intera popolazione, invece sono in ritardo. E che la mappatura da Coronavirus dell’intero paese, una prima volta assoluta, non sarà certo una formalità. Pronti, partenza, via, e mancano i tamponi. I primi duecento talloncini numerati per prenotare la chiamata spariscono manco fossimo in coda alle Poste il 27 del mese. Il geometra e il responsabile della Protezione civile stanno sulla soglia e li chiamano uno alle volta. Ma il meccanismo si inceppa subito. Le operazioni vanno a rilento, e non c’è sala d’attesa, le ressa è tutta all’esterno, dove ogni colpo di tosse risuona come una schioppettata e attira sguardi impauriti. «Siamo su Scherzi a parte?» chiede polemica Kathy Scarpariol, titolare del Ttb, l’unico supermercato del paese, l’unico negozio autorizzato a rimanere aperto «per pubblica utilità», quindi titolare anche di una fretta giustificata di ritornare alla cassa. Le cattive notizie vengono affidate ai volontari, che si aggirano davanti ai cancelli per disperdere i loro compaesani invitandoli al rientro immediato a casa per riprovarci oggi. Vo’ Euganeo non è certo Wuhan, in ogni senso possibile e auspicabile. Il primo giorno di quarantena totale dell’intera popolazione, impossibile entrare o uscire dai dieci varchi sorvegliati dalle forze dell’ordine, con annesso tampone per rilevare l’eventuale contagio, si rivela una faccenda molto all’italiana, nonostante le inevitabili suggestioni cinesi. Purtroppo o per fortuna, a seconda di come uno la guarda. All’interno della zona rossa c’è molto silenzio e altrettanta confusione generata dalla mancanza di certezze. I cittadini davanti alla scuola chiedono come e quando potranno ritornare per sottoporsi a un esame che pochi ritengono davvero necessario. I volontari allargano le braccia perché non lo sanno. «Tornare indietro, strada alternativa». Al varco 1 il maresciallo dei carabinieri ripete a tutte le auto la stessa frase. La sua pattuglia viene da Mestre, quindi non è ferrata sulle deviazioni e i giri sui colli necessari per aggirare Vo’, ma da entrambe le parti c’è buona volontà e reciproca comprensione. Con la luce del giorno, sono poche le persone che provano a uscire. Qualcuno lo fa passando a piedi per i campi, ma sono sempre ragazzi, più che una fuga è una bravata da raccontare al bar del paese, quando riaprirà. I posti di blocco diventano luoghi di appuntamento. Federico Cappellato scende dal furgone con un cartone in mano. «Consegna urgente». I carabinieri gli fanno appoggiare a terra il pacco che contiene germogli di melanzana e pomodoro. Dalla curva spunta Marco Longo, vivaista di Vo’. Sono i giorni della semina, tra un mese dovrà vendere le piantine agli agricoltori. I due amici si fanno una breve chiacchierata, a distanza di sicurezza. «Oh, non ti dimenticare di me» dice Marco. «Come potrei, mi devi ancora pagare» replica Federico. Ridono entrambi. Non ci sono drammi, in questa situazione da film. Anche gli inevitabili disagi sono ben metabolizzati. «Se serve a debellare questa malattia, li sopportiamo volentieri» dice la signora Serafina, fermata mentre prova a raggiungere la sorella in una frazione di Vo’. Il numero di casi confermati è salito a quota 34 in tutto il Veneto, e venticinque di questi sono di questo paese. Ma le tre zone di contagio sono le stesse di ieri. Quando è sera, al pianterreno della scuola si intravedono uomini con la tuta bianca e la maschera integrale che entrano nelle aule per appoggiare sui banchi le casse di tamponi appena arrivati. Alle pareti sono appesi i disegni dei bambini che raffigurano alberi, girotondi e tante facce sorridenti. Speriamo.

Edoardo Semmola per corriere.it il 22 febbraio 2020. Nel sentire le parole concitate «oddio, non sarà mica coronavirus, l’altro giorno ero in palestra insieme a uno dei contagiati di Lodi», ogni dubbio che fosse uno scherzo è subito svanito. E Niccolò Torrini, direttore marketing di Hard Rock Café a Firenze ed ex presidente della commissione Servizi educativi del Quartiere 1, ha iniziato a sudare freddo. Si trovava sulla carrozza 10 del treno Italo partito da Santa Maria Novella alle 18,25 di ieri in direzione Milano quando, poco prima di Bologna, nella carrozza davanti alla sua è scoppiato un parapiglia. «Un tizio ha cominciato a tossire in modo insistente e, evidentemente preoccupato, si è messo a parlare a telefono con qualcuno dicendo che aveva paura che fosse coronavirus perché giorni fa era stato in palestra con uno di quelli che lo hanno contratto e hanno corso insieme», racconta Torrini. Parte «il delirio in carrozza», «un gran trambusto», «mascherine, gente che urla, che chiede di scendere dal treno». All’altezza di San Ruffilio il treno si ferma. Salgono Carabinieri e uomini dell’Unità di crisi del Ministero della sanità. «I Carabinieri bloccano l’accesso alla carrozza 11 e siamo rimasti bloccati per circa 40 minuti, chiusi ad aspettare, mentre la tensione saliva». Dal vetro della porta che separa i due vagoni, Niccolò vede il sospetto portatore del virus parlare con i sanitari di quello che era successo, mentre tutto intorno la gente chiedeva di «uscire e scendere». Ma pare che, «siccome erano passate 3 settimane da quella giornata in palestra, il periodo incubazione fosse passato, e i sanitari hanno detto che non c’era un pericolo imminente». Ma i Carabinieri «non ci facevano avvicinare», poco male perché «comunque io nel frattempo ero già scappato dalla carrozza 10 alla 8, più lontano possibile». Il primo pensiero è stato: «Sarà uno scherzo». Il secondo: «Ma cribbio, proprio sul mio treno doveva accadere?». Il terzo invece: «Paura. La storia della palestra, tornava tutto, sembrava proprio vero. Per questo è scoppiato il delirio collettivo». Torrini non ha capito se il paziente è stato fatto scendere a San Ruffilio o se ha proseguito il viaggio, visto che era fuori dai tempi di quarantena. Ma sui binari «c’era un dispiegamento di uomini da fare impressione».

Anticipazione da “Oggi” il 19 febbraio 2020. «La mia vita ai tempi del Coronavirus si svolge tra il tinello e la cucina di casa. Trascorro il tempo a leggere, a cucinare e soprattutto a insegnare ai miei gemelli che fanno home-schooling dall’età di cinque anni», scrive Heather Parisi in un’ampia testimonianza pubblicata da «Oggi» in edicola da domani. La ballerina dal 2010 vive a Hong Kong con il marito e i due figli e racconta nei dettagli sulle pagine del settimanale come si vive vicino all’epicentro del virus che spaventa il mondo intero. «Gli  impiegati pubblici, quelli delle società finanziarie e degli studi legali lavorano da casa; in pratica chiunque abbia un lavoro di ufficio. E siccome la maggior parte dell’impiego a Hong Kong è nel terziario, di fatto è l’intera città a starsene a casa... Gli studenti frequentano le lezioni da casa in remoto, utilizzando il computer e rispettando l’obbligo, quando sono collegati, di vestirsi in maniera appropriata e, rigorosamente, senza indossare il pigiama. Così, oltre al diritto allo studio, sono salvi anche la disciplina e la forma, che da queste parti hanno una certa importanza. Ascensori e scale mobili vengono sterilizzati ogni due ore e tutti si disinfettano le mani prima di entrare in un edificio pubblico. Per chi è costretto a lavorare in ufficio, è previsto il controllo della temperatura prima di entrare. In realtà», scrive Heather su «Oggi», «la temperatura oramai viene misurata ovunque. È necessario farlo per accedere a qualsiasi club privato, così come per andare dal parrucchiere o al ristorante. Io la misuro anche a chi viene a trovarmi a casa, benché la mia vita sociale sia ridotta davvero ai minimi termini. Fino a oggi non ho ancora respinto nessuno sulla porta di casa e non sono stata respinta da nessuno, ma dovreste vedere la paura e l’imbarazzo negli occhi di ciascuno durante l’attesa del responso della misurazione». La Parisi spiega anche le regole sanitarie che tutti stanno adottando: «Non ci si bacia, non ci si abbraccia e non ci si stringe nemmeno la mano… La prevenzione e l’attenzione ai minimi dettagli è talmente invasiva da entrarti fin dentro agli aspetti più intimi e privati della vita quotidiana, fin dentro al bagno di casa. In questi giorni, ogni condominio ha fornito ai suoi inquilini un prontuario per l’uso nientepopodimeno che del WC. È stato infatti rilevato che il virus può trasmettersi anche attraverso la nebulizzazione delle acque utilizzate nel WC». Heather racconta inoltre che certi prodotti sono introvabili e razionati. «Ho supplicato il direttore del supermercato sotto casa di tenermi un po’ di carta igienica da parte, ma quando è stato il momento di ritirarla, non ce l’ho fatta a tenerla tutta per noi e, come fanno i bambini a scuola con le merendine, ho finito col dividerla con indiani, cinesi e filippini che ne avevano bisogno come e più di me. I prodotti per davvero razionati sono, oltre alle mascherine, i disinfettanti e l’alcool. Non se ne possono acquistare più di due confezioni a testa. Mio figlio Dylan Maria ha il fiuto nel trovare la fila giusta nei negozi giusti! A volte scompare di casa e, preoccupata, chiedo a sua sorella Elizabeth dove sia andato. Dopo un paio di ore se ne torna orgoglioso con qualche confezione di disinfettante: «Mummy, I bought two! Mamma, ne ho comprati due!». Io lo bacio commossa e felice, perché la felicità ai tempi del coronavirus è anche un bottiglia di disinfettante in più».

heather__parisi: Molti mi chiedono come e quanto sia diversa la nostra vita dopo l'esplosione del #coronavirus. Sarò sincera. Io ho sempre amato stare a casa, a leggere, a cucinare ad insegnare ai miei gemelli. E per questa ragione le nostre abitudini non sono assolutamente cambiate. In compenso, è lo stile di vita della gran parte dei cittadini di Hong Kong ad essere cambiato diventando molto più simile al mio. Infatti, la gente esce pochissimo e in gran parte lavora da casa. Questo accade per tutti gli impiegati pubblici, per la quasi totalità delle società finanziarie, per gli studi legali, per i commercialisti e per gli uffici amministrativi. Per coloro che sono costretti a lavorare in ufficio, è previsto il controllo della temperatura ogni volta che entrano dall'esterno. Gli studenti svolgono le loro lezioni da casa collegati via computer con gli insegnanti e i loro compagni in una sorta di classe virtuale. Tutti indossano la mascherina e si disinfettano le mani all'entrata di ogni edificio pubblico. Gli ascensori e le scale mobili vengono sterilizzate ogni due ore. Non c'è panico, nè isteria, ma la consapevolezza che solo con il contributo di tutti indistintamente, questa epidemia può essere sconfitta. Se c'è una città che è preparata ad affrontare una simile situazione, questa è senz'altro Hong Kong e il numero circoscritto di malati, nonostante la vicinanza con la Cina, è lì a dimostrarlo.

L'assalto ai supermercati nella zona rossa colpita dal coronavirus. Si sono formate code nei principali supermercati della zona. Sono gli unici punti di approvvigionamento visto che a Codogno sono tutti chiusi. Michele Di Lollo, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale.  Sembrerebbe la trama di un disaster movie girato a Hollywood. Ma è tutto vero, purtroppo. Verrebbe da pensare al film “Io sono leggenda”, con protagonista un grande Will Smith. Uscito nelle sale di tutto il mondo nel lontano 2007. Supermercati presi d’assalto da questa mattina nel Lodigiano, la provincia da cui il Coronavirus si è diffuso in tutto il nord Italia solo pochi giorni fa. Dopo il blocco di entrate e uscite dalla zona rossa dei dieci comuni della bassa lodigiana a causa dell’emergenza, lunghissime code si sono formate nei punti vendita principali di Casalpusterlengo. Unici punti di approvvigionamento visto che a Codogno gli esercizi commerciali sono tutti chiusi. Gli addetti all’ingresso limitano le entrate, almeno cinque alla volta. E, i clienti, anche se non è obbligatorio, entrano con la mascherina sul volto. Si è formato un lunghissimo serpentone fuori dal Lidl, Famila e Conad. Le città, intanto, sono vuote. Lunghe code anche fuori dalle farmacie. Supermercati pieni e fuori una lunga fila indiana di carrelli. Persone in coda una dietro l’altra per fare provviste. È accaduto nella mattinata di oggi per una comunità che da venerdì fa i conti con il Coronavirus. Sul posto è intervenuta anche la polizia locale che ha cercato di regolamentare il flusso di chi compra. Per il momento tutto si sta svolgendo in tutta tranquillità e non si registrano situazioni di tensione. Ma i negozi di beni alimentari non sono gli unici a subire l’assalto dei cittadini impauriti. Come detto, nei locali di farmacie e parafarmacie si moltiplicano gli scaffali svuotati. Mascherine e disinfettanti per le mani sono esauriti. C’è rabbia e preoccupazione tra gli abitanti: “Come faremo, manderanno la protezione civile?”. Ormai privi di scorte alcuni punti vendita a San Giuliano Milanese e a Peschiera Borromeo. È esplosa tra venerdì e ieri la paura del contagio del virus nato in Cina e arrivato in Italia, con casi accertati in Veneto e Lombardia. Se la settimana scorsa era una chimera reperire le mascherine nei negozi della città, adesso sono spariti anche tutti quei prodotti per l'igiene personale. Tra farmacie, parafarmacie e negozi specializzati, è praticamente impossibile reperirli. Siamo alla sagra dell’Amuchina. Con prezzi che salgono vertiginosamente per quei negozianti e distributori pronti a speculare sull’emergenza. Esauriti tutti i prodotti di ogni marca e formato. Le mascherine sono terminate in molti luoghi, non solo nel Settentrione, da almeno dieci giorni. E troppo spesso non si sa quando torneranno. I magazzini di chi produce non riescono a soddisfare la quantità di richieste dei punti vendita. E anche questo è un dramma.

Eva Desiderio per quotidiano.net il 24 febbraio 2020. Con un messaggio arrivato nella notte Giorgio Armani annuncia che oggi la sfilata della sua prima linea donna, in calendario per Milano Moda Donna alle ore 16 nel Teatro di Via Bergognone, sarà a porte chiuse “dati i recenti sviluppi del coronavirus in Italia”. Teatro vuoto dunque, senza ospiti in sala e senza buyer e giornalisti. La decisione è stata presa per non esporre ad alcun rischio gli ospiti del defile’. Lo show verra’ trasmesso in streaming su armani.com e sugli Instagram è Facebook del groppo ma ancora non si conosce l’ora. Saputo della decisione presa da Giorgio Armani anche Lavinia Biagiotti Cigna ha deciso per la sfilata a porte chiuse alle 12 e 30 di oggi, allineandosi così alla tutela della salute dei proprio ospiti. La Camera Nazionale della Moda Italiana ha comunicato che "oggi penultima giornata di Milano Moda Donna ogni maison prenderà’ decisioni sulle modalità’ di presentazione dei defile’. “A proposito della situazione sul coronavirus - dice la Cnmi - comunichiamo che per quanto riguarda la Camera della Moda, abbiamo seguito e continueremo a seguire le istruzioni delle autorità preposte. Ovviamente i singoli brand prenderanno in autonomia la decisione riguardo alla modalità della sfilata odierna. L’unica notizia che abbiamo riguarda la decisione del signor Armani di tenere la sfilata all’orario previsto ma a porte chiuse. La decisione del signor Armani di salvaguardare la salute dei suoi ospiti è sicuramente apprezzabile. Tuttavia al momento non abbiamo notizia di altre scelte di questo tipo né del resto, di casi legati alla settimana della moda. Speriamo che le misure di attenzione diramate dal ministero della salute ed applicate in questi giorni da tutti noi, siano state sufficienti, visto che da oltre cinque giorni le stesse persone condividono gli stessi ambienti di lavoro. Non possiamo quindi che rimanere fiduciosi del lavoro delle istituzioni.”, conclude Camera Moda. 

Da liberoquotidiano.it il 23 febbraio 2020. Cartelli spiazzanti: il coronavirus "è solo un brutto raffreddore", o "l'epidemia è solo temporanea". A tappezzare Prato, città toscana con una storica e numerosissima "colonia" cinese, sono state due associazioni, il Club Husky motociclisti Prato e il Club Black Dragon Boat, e a denunciare la provocazione alla "volemose bene" è Marco Curcio, consigliere comunale della Lega Salvini premier a Prato. "Questi sono solo due esempi di diversi manifesti apparsi nelle zone a più alta densità di cittadini di origine cinese", spiega il consigliere leghista. "Questi cartelli sono evidentemente inopportuni, considerato che danno messaggi potenzialmente nocivi per la salute pubblica e stanno sollevando un enorme polemica nella città con la più grande città cinese d'Italia".

Coronavirus Milano, assalto ai supermercati: tra mascherine e scaffali svuotati. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Davide Casati. Il supermercato - Milano, zona semicentrale, est della città - apre alle 9: come ogni domenica. Eppure davanti all’ingresso arrivano clienti su clienti sin dalle 8. Complice un’indicazione sbagliata sul web, certo. Ma è un segnale. L’inizio di una mattinata particolare, in questo grande magazzino qualsiasi di una città che si sveglia diversa dal solito. «Non è aperto? Strano», sospetta un cliente sulla sessantina: che si mette ordinatamente in fila davanti alle porte a vetri. Alle nove, quella coda è diventata imponente. Ci sono decine di persone: un paio con le mascherine, altri con le sciarpe tirate davanti a naso e bocca. Alle nove in punto, il reparto frutta e verdura diventa affollato come la vigilia di Natale. E i clienti continuano ad arrivare: a decine. Le mascherine aumentano, minuto dopo minuto. Le sciarpe anche. È normale, questo affollamento? «Macché», risponde sorridente un’addetta del banco del pane. «È la fobia della gente». I carrelli non sembrano esplodere di generi di prima necessità: ci si trova di tutto, come in una giornata normale. Non i gel per disinfettare le mani - introvabili - né le mascherine - mai vendute, in questo supermercato: anche se c’è chi continua a chiederne notizia ai commessi. Le casse, normalmente semideserte, alle 9:30 esplodono di clienti in fila. E aprono, una dopo l’altra. Prima - come normale, in una giornata festiva - solo la 1 e quelle per i cestelli. Poi, visto l’afflusso, la direzione cambia i piani. E aprono la 14, la 15, la 16, la 17, la 18. Una dopo l’altra, senza sosta. Una commessa passa a consegnare alle colleghe alle casse dei guantini. «E le mascherine?», chiede senza voltarsi una cassiera all’altra. «Le hanno messe all’ingresso, ma dovrebbero passare a proporcele, no?», replica la collega. Arriva una cliente che ne ha una, verde. La sfila da un orecchio per parlare con l’addetta alla cassa. «Che ansia, tutta questa gente con le mascherine», dice la commessa di spalle. La cliente tenta di accampare qualche scusa, «Ne ho una anche io», «Scusi, non l’avevo vista», ma l’imbarazzo si stempera con una risata. «Hanno sospeso le gite, questo mi fa impressione», commenta la cliente. «Io non ho paura», replica la cassiera, staccando gli occhi da pacchetti e pacchetti di fazzoletti di carta, «ma non sopporto i clienti che tossiscono senza coprire la bocca. O che prima di pagare tengono la carta di credito tra le labbra, e poi ce la porgono». Del virus - del Coronavirus - nessuno parla apertamente: nessuno lo ha nominato, in nessuna conversazione. Nemmeno nell’ultima, prima di uscire. «Ho capito perché c’é tutta questa gente», sorride una cassiera. «Mi sa che domani nessuno uscirà più di casa». Fuori dal supermercato, poco lontano, la chiesa è deserta. Sul piazzale volano i coriandoli di due bimbi, mascherati anche loro. Ma da superereoi.

Scuole, musei, cinema e atenei: il Nord Italia chiuso per il coronavirus. Salgono i numeri dei contagi da coronavirus che schizzano oltre i 130 casi. Nuovi provvedimenti regionali prevedono la chiusura di scuole e università. A Venezia salta il Carnevale. Rosa Scognamiglio, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Schizza il numero dei contagi da coronavirus in Italia che, al momento, fa registrare oltre i 130 episodi infettivi con almeno 5 Regioni nella morsa del Covid-19. Un escalation in continuo aggiornamento dove a pagarne lo scotto sono soprattutto le aeree provinciali a Nord del Paese tra Piemonte, Veneto e Lombardia. In previsione di uno stato di emergenza nazionale, al termine di un'assemblea straordinaria, il consiglio dei ministri ha già emesso un decreto di sicurezza volto ad arginare la propagazione dell'epidemia fuori dalla cosiddetta "zona rossa", in netta espasione nella giornata di domenica. Ulteriori misure restrittive sono affidate ai Governi regionali che, pertanto, dovranno stabilire nuove linee guida a tutela dei cittadini. Già in queste ore sono stati fornite nuove disposizioni per le Regioni "a rischio" con la sospensione di eventi programmati e la chiusura delle scuole. In Veneto saltano le celebrazioni in onore del carnevale a Venezia e in altre cittadine limitrofe. "Abbiamo firmato con il ministro Speranza l'ordinanza con la quale vengono bloccate manifestazioni pubbliche, private, la chiusura delle scuole e dei musei fino al primo marzo", fa sapere il presidente della Regione Veneto Luca Zaia durante l'unità di crisi a Marghera. Il governatore ha spiegato la necessità di interventi drastici invitando la popolazione a "non frequentare luoghi di aggregazione pubblici e privati". Dopo il decesso per coronavirus del pensionato 78enne, il comune di Vo' Euganeo si blinda proclamando l'isolamento totale. "Sono arrivate indicazioni abbastanza chiare. - spiega Marcello Bano, vicepresidente della Provincia di Padova - Bisogna blindare completamente Vo' sia in entrata che in uscita, quindi non potrà uscire nessuno e la zona sarà completamente isolata". In Lombardia, dove si registra il numero più elevato di contagi - oltre gli 89 casi accertati - il governatore Attilio Fontana ha appena sottoscritto un'ordinanza, d'accordo con il ministro della Salute Speranza - che sarà emessa in prima serata a tutti i prefetti delle province lombarde. Tra i provvedimenti in via d'esecuzione vi sono: la sospensione di manifestazioni o iniziative di qualunque entità, la sospensione di eventi calcistici, attività ludiche, culturali e religiose, la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado ed infine la chiusura di musei, teatri e cinema. In Piemonte, invece, è stata data disposizione per la chiusura delle scuole (di ogni ordine e grado) per almeno una settimana. Questa la decisione della sindaca Appendino in collaborazione con il presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio, il prefetto Claudio Palomba e i rappresentanti delle forze dell'ordine. Asili chiusi e università ferme in Alto Adige fino a domenica 2 marzo salvo nuove disposizioni in misura della diffusione del coronavirus. La chiusura delle strutture coinvolge le province di Bolzano, Bressanone e Brunico. Annullate tutte le attività del parco archeologico regionale Noi ed eventi aggregativi.

Coronavirus, chiuso pure il Duomo di Milano. Non solo scuole, musei, cinema, pub e atenei. Fino al 25 febbraio il Duomo chiuso ai turisti, aperta solo area preghiera. Francesco Boezi, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. La Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano comunica "la chiusura ai turisti del Complesso Monumentale del Duomo di Milano nelle giornate del 24 e del 25 febbraio 2020, in attesa di ulteriori e più dettagliate disposizioni da parte delle autorità competenti, da definire a seguito dell'evolversi della situazione. L'area riservata alla preghiera resterà regolarmente aperta secondo le consuete modalità di accesso. Sono sospese le celebrazioni". L'emergenza dovuta al coronavirus impone scelte dratische. Le tempistiche e la durata del provvedimento, come vale per ogni altra misura cautelativa che viene presa in queste ore, dipenderanno da quello che accadrà nel corso delle prossime fasi. Ma la decisione per il Duomo è stata presa. Il coronavirus continua ad influenzare le scelte degli organi istituzionali e degli episcopati del Belpaese. La Regione Lombardia, considerata la situazione dei contagi, ha in qualche modo caldeggiato la sospensione delle funzioni religiose. Le diocesi lombarde hanno preso atto della disposizione del Pirellone, decretando lo "stop" alle Messe. Altre realtà ecclesiastiche stanno predisponendo azioni simili. Qualche decisione ha già riguardato una fase specifica della Messa, ossia lo scambio del segno della pace, che i fedeli - per un parroco di Cremona - non hanno potuto compiere. Qualche riflessione sta riguardando le modalità di distribuzione del sacramento dell'eucaristia: c'è chi sottolinea la necessità di evitare troppi contatti tra le mani dei fedeli. Ma si tratta di un aspetto di cui si dibatte per lo più social newtork. Il Patriarcato di Venezia, dal canto suo, ha chiesto a tutti di tenere conto delle "norme igieniche" e di "evitare contatti inutili". A riportare le indicazioni date dall'istituzione ecclesiastica veneta, tra gli altri, è stata la Sir. Da Venezia, comunque sia, hanno fatto sapere di attendere eventuali ed ulteriori "indicazioni" da parte della Prefettura. E sempre il Patriarcato, in relazione al segno della pace, ha parlato di una facoltà che rimane nel paniere delle scelte dei fedeli. Il Veneto, come sappiamo, è un'altra delle regioni colpite da qualche contagio. E quindi gli ambienti cattolici, che non fanno differenza, cercano di porre un freno a tutti quei comportamenti che possono coadiuvare la diffusione del virus. Le chiese sono soltanto uno dei luoghi in cui le persone sono solite incontrarsi. E infatti il Nord non può limitarsi soltanto a questo tipo di precauzione: come abbiamo già riportato, ulteriori misure sono stata adottate nei confronti di alcune scuole, università, plessi museali e spazi di svago quali cinema. Alcune delle sfilate previste per il Carnevale di Venezia, almeno stando a quanto abbiamo appreso in queste ore, sono state interessate da un blocco: non si terranno. A Vo'Euganeo, invece, hanno pensato ad un vero e proprio isolamento. La Lombardia - com'era ovvio che fosse - ha esteso le disposizioni ad un numero di attività abbastanza cospicuo: scuole chiuse sì, ma anche sospensioni di qualsiavoglia manifestazione sportiva o ludica dal carattere pubblico. Non è sufficiente: i sigilli verranno apposti anche a musei, cinema e teatri. Gli studenti del Piemonte, sulla base delle decisioni concordate dagli amministratori con la Regione, non dovranno recarsi a scuola per almeno una settimana. In Alto Adige, infine, le decisioni sulla sospensione delle attività sono inerenti solo agli asili e alle istituzioni universitarie.

Maurizio Giannattasio per corriere.it il 24 febbraio 2020. Il Duomo, la Scala e il Piccolo. Milano chiude i suoi luoghi simbolo, indossa il saio e si prepara alla sua prima giornata di clausura. Un coprifuoco a metà, con le scuole chiuse ma i trasporti funzionanti, con discoteche e pub che dovranno tirare giù la serranda alle 18 e riaprirle solo alle 6, ma con i ristoranti aperti. Obiettivo: ridurre le occasioni di assembramento. Tra queste c’è anche una tradizione tutta milanese, l’happy hour. I bar dovranno seguire l’esempio dei loro colleghi dei pub e chiudere tassativamente alle 18. L’ordinanza regionale parla di sette giorni, ma potrebbero diventare quattordici, equivalenti alle due settimane di incubazione del coronavirus. Si cambia regione e città ma la sostanza non cambia. Dopo la Lombardia, tocca al Veneto, al Friuli Venezia Giulia, al Piemonte, alla Liguria, al Trentino Alto Adige. Un pugno di ordinanze molto simili fra loro. Se a Milano chiude la Pinacoteca di Brera, a Venezia salta il Carnevale che attira turisti da tutto il mondo e in tutte e cinque le regioni le scuole di ogni ordine e grado e le università chiudono le aule per sette giorni. Insomma, Nord chiuso per coronavirus con un coprifuoco a gradazione variabile. Più severo per le zone rosse, quelle dove si sono sviluppati i focolai del contagio e più morbido per le zone gialle dove l’obbiettivo è ridurre la presenza di troppe persone. Nelle aree «focolaio» del virus, è in vigore il divieto di allontanamento e di ingresso: le zone saranno presidiate dalle forze di polizia e, in caso di necessità, anche dall’esercito con sanzioni penali per i trasgressori. Nei Comuni della provincia di Lodi sono escluse «dalla sospensione dell’attività lavorativa e di trasporto» le attività commerciali di «supermercati, ipermercati, negozi alimentari e quelle connesse al trasporto» dei prodotti alimentari. Per il resto della regione, Milano in testa, l’ordinanza firmata dal governatore Attilio Fontana riguarda in primis le scuole. Già sabato i rettori delle università lombarde avevano deciso di sospendere lezioni ed esami in tutti gli atenei fino al 29 febbraio. Ieri, è stato il sindaco Beppe Sala ad annunciare la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. «A questo punto anche a livello prudenziale penso che l’attività scolastica vada sospesa a Milano — ha detto il sindaco dopo un vertice in prefettura — Proporrò al presidente della Regione di allargare l’intervento a livello di città metropolitana. È un intervento prudenziale. Lontano da noi di scatenare alcun tipo di psicosi». L’ordinanza vieta anche tutte le «manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico». Il catalogo è vastissimo: si va dai centri sportivi e dalle palestre alle cerimonie religiose di tutti i culti. A partire dalle celebrazioni eucaristiche, ossia la messa. A darne l’annuncio è stato lo stesso arcivescovo di Milano, Mario Delpini. Lo stop alle messe è partito domenica sera. Sospese le celebrazioni anche in Duomo che inoltre verrà chiuso ai turisti sia oggi sia domani. Anche la cultura a Milano e in Lombardia si mette in stand by perché lo stesso divieto che limita le messe riguarda anche i cinema, i teatri e i musei, tutti luoghi di grande affollamento. La Scala ha deciso di sospendere «tutte le rappresentazioni a titolo cautelativo in attesa di disposizioni». Da ieri sono saltati tutti gli spettacoli a partire dal recital del soprano Aleksandra Kurzak. Stesso destino per la Pinacoteca di Brera chiusa ieri pomeriggio. L’ultimo visitatore è uscito alle 17. Anche il Piccolo ha abbassato il sipario. Così il Franco Parenti. I negozi invece restano aperti. Tranne quelli all’interno dei centri commerciali che nelle giornate di sabato e domenica dovranno abbassare le serrande. Resteranno aperti solo quelli che vendono generi alimentari. Lo stesso discorso vale per i mercati cittadini. A differenza delle altre regioni del Nord, la Lombardia ha inserito un’ulteriore limitazione. Riguarda i bar, i pub e le discoteche che dovranno servire l’ultimo cliente rigorosamente entro le 18. Nessuna limitazione invece per i ristoranti. A cascata, i rider continueranno a svolgere il loro lavoro. Fontana lancia un appello ai lombardi: «Dateci una mano a rispettare questi provvedimenti, so che vi chiedo un sacrificio ma presto ci troveremo a bere uno spritz insieme». Prima era stato meno ottimista. Se non funziona provvedimenti come «a Wuhan». Saltano le manifestazioni legate al Carnevale di Venezia e in tutto il Veneto si fermano scuole ed eventi. Stop anche le manifestazioni sportive, ludiche e religiose e verranno chiuse le discoteche e i locali notturni; salvi, però, a differenza della Lombardia, i bar, che non dovranno chiudere alle 18 come nella vicina regione. Come spiega l’ordinanza emessa dal governatore, Luca Zaia, e dal ministro della Salute, Roberto Speranza, stop anche a musei, scuole, corsi professionali e le gite. Negli ospedali saranno invece contingentate le visite, con un visitatore al giorno per ogni paziente, mentre è stato stabilito che tutti i treni, i mezzi pubblici di terra d’acqua e d’aria vengano disinfettati. «Abbiamo firmato l’ordinanza con la quale vengono bloccate, Carnevale di Venezia compreso, tutte le manifestazioni pubbliche, private, la chiusura delle scuole e dei musei fino al primo di marzo». Come in Lombardia sono state fermate le messe. Lo ha deciso il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia. In sostituzione del precetto festivo e del mercoledì delle Ceneri, i fedeli sono invitati a «un tempo conveniente alla preghiera e alla meditazione, anche aiutandosi con le celebrazioni trasmesse tramite radio e televisione». Per i funerali, saranno possibili le sepolture, anche con la benedizione della salma alla presenza delle persone più vicine del defunto, ma senza la celebrazione della messa o di altra liturgia. E anche i matrimoni saranno possibili solo con un numero ristretto di invitati. Stessa regola a Milano. Chiudono le scuole, le università, i musei, le biblioteche, i cinema e i teatri, ma restano aperti gli uffici pubblici e i negozi. «In Lombardia — ha spiegato il governatore Alberto Cirio — si è prevista la chiusura di bar e centri commerciali dalle 18 alle 6 del mattino. Noi abbiamo ritenuto che non fosse il caso. Credo che la riduzione dei contagi ci dia ragione». La partita di calcio Torino-Parma è stata rinviata, ma quella di basket fra Reale Mutua e Junior Casale si è giocata regolarmente. Il Carnevale di Ivrea interromperà gli appuntamenti solo da oggi. Chiusura — e non sospensione — delle scuole di ogni ordine e grado, asili nido e università. Vietate le manifestazioni e gli eventi oltre a ogni forma di aggregazione in luogo pubblico o privato. Stop alle gite di istruzione e ai concorsi. Misure che saranno valide fino al primo marzo. «L’idea è fronteggiare la diffusione del virus offrendo le migliori condizioni possibili di sicurezza e tutela ai cittadini», dice il presidente Stefano Bonaccini. Si stanno valutando misure ulteriori per Piacenza e il territorio piacentino. La Liguria ha disposto la chiusura di scuole e musei fino al primo marzo. Il rettore di Genova aveva già sospeso per una settimana ogni attività didattica dell’università. Il presidente della Provincia autonoma di Bolzano, Arno Kompatscher, ha ordinato che in Alto Adige siano chiuse per una settimana le strutture pubbliche e private, dedicate alla prima infanzia (asili nido e microstrutture aziendali). Saranno sospese anche le attività didattiche presso l’università «Claudiana» e al conservatorio «Monteverdi». Anche in Friuli Venezia Giulia è stata disposta fino al 1 marzo la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado, asili nido e università.

Milano che resiste. Dal metrò agli aperitivi: “Basta panico non è la peste”. La turista pugliese: “A casa sono preoccupati Ma l’unico problema è che i musei sono chiusi a causa del virus. Per fortuna stasera ceniamo in un localino” di Brunella Giovara. La Repubblica il 25 febbraio 2020. Ma tra bar vuoti e turisti in fuga: ora la città paga il conto più caro. Saggio come uno di novant’anni, il giovane Federico Salvi dice: «L’allarme è giusto. Ma il prof di biologia ci ha spiegato che questa non è la peste bubbonica», bravo prof. «Il tasso di mortalità è 2 per cento, e che per chi ha la nostra età è 0,2 per cento». Benedetto l’insegnante ignoto dello scientifico Maria Ausiliatrice, che ha spiegato agli allievi diciassettenni che bisogna lavarsi le mani e «non farsi tossire in faccia, il rischio finisce lì», poi li ha congedati per una settimana e Federico, con gli amici Giorgio e Matteo Vitobello, sono in bici in piazza Gae Aulenti, sotto la torre scintillante di Unicredit dove il sorvegliante armato spiega che «gli uffici sono aperti, gli impiegati stanno lavorando, è tutto regolare», siamo a Milano. E «i genitori sono preoccupati per noi figli. Dicono “mettiti la mascherina”. Ma la maschera seria è quella della 3M da 200 euro». Ed ecco i tre ciclisti sfrecciare verso Niguarda, «andiamo al Parco Nord!», sanno che «bisogna evitare i luoghi troppo affollati, e poi c’è il sole, ci sono 20 gradi, don’t panic» per favore. E Valentina Benghi, mamma di 35 anni con figlia di 4 anni vestita da pavone per il Carnevale, al bar della Feltrinelli: «Sopravviveremo. Se stai male chiami il 112, e da lì sei in buone mani. Che allarmismo! tutta questa gente con la maschera, e la corsa a comprare l’amuchina. La vendono a prezzi folli a quei poveri stolti». Giù per le scale mobili, ecco l’Esselunga che trabocca di salami peperoni verdure biscotti e pane fresco. Oh, c’è tutto, se davvero c’è stato l’assalto ai forni, sono stati veloci a rifornire gli scaffali. Manca l’amuchina, che una volta nessuno si filava, anche se il tassista Sergio Bossi del 6969 assicura che al Gigante di Lodi «c’è un espositore enorme all’ingresso, e la vendono solo a 3,50 euro. Io ne ho prese dieci». Ma lei, ha paura? «No. Mia madre sì, domenica sera mi ha chiamato agitata, “vai a comprarmi della pasta, compra tanta pasta”». Il 6969 ha consigliato «di pulire maniglie e interni con la candeggina», ed eccola qui, bidoncino pronto all’uso. Resta il dilemma: «Pulire anche i sedili, che poi si rovinano?». Si va per via Torino, il Mc Donalds è pieno. Bossi è sereno, «siamo a Milano, mica puoi chiuderla. C’è meno giro ma è lunedì, molti negozi sono chiusi». C’è meno gente del solito, lo dice anche l’uomo Amsa che vuota il cestino in Santa Radegonda. «Turisti sì, ma i caldarrostai sono spariti, non so perché». Non sa neanche perché «tanti hanno la mascherina, che comunque serve a poco. Ci sono stati i morti? Erano anziani, malati. Cambierà se morirà uno giovane», e speriamo che il virus si spenga, che Milano torni frizzante come prima, ma il Camparino in Galleria ieri era impraticabile, italiani e stranieri con lo spritz e le patatine davanti, ore 16. Certo, la mattina faceva impressione la metro semivuota. Mancavano però gli studenti, che in città sono 445 mila e rotti tra elementari medie e superiori, e un 200 mila universitari, quindi un popolo imponente che ora si ritrova a spasso, come la coppia avvinghiata sul tram 33, lui che diceva nel collo di lei: «Ma ti hanno dato dei compiti? A noi niente». Qualcuno ha paura, su questo tram 33 direzione Lambrate? Pare di no, ci sono 18 persone, c’è una bimbetta con mascherina che vuole togliere, «mi vergogno». Il tram 1 passa davanti allo Swiss Corner che ha i tavoli fuori, e pieni, e qui una bionda annuncia al telefono e a tutto il tram «sto andando dall’osteopata. Paura? Mi mette le mani addosso ma mica mi bacia, l’osteopata». Sulla banchina della Rossa, fermata Duomo, ci sono due turiste da Gravina in Puglia. Anita Tucci, 44 anni, con la mamma al telefono dal paese, «stai bene? Non sai cosa stiamo passando noi, pensando a te a Milano…». E come deve stare Anita, «ho scaricato il telefono, tutti i parenti che chiamano. L’unico problema è che i musei sono chiusi per il virus. Meno male che stasera ceniamo in un localino». L’amica Doriana Barchetta, 32 anni, al telefono con il fratello, «qui è tutto normale, no non c’è il panico, statti tranquillo che domani torno». «Il problema di Milano sono le mamme, sono loro che fanno casino. Invece, guardi: scuole chiuse, strade libere», così sul taxi del 4040 lungo via De Amicis. Ma Andrea, milanese «del Lorenteggio, quasi Giambellino», ammette di aver lavorato poco, «tutti a casa con il telelavoro, o a saccheggiare il super, o su Facebook dove ti consigliano di saccheggiare il super». E dichiarandosi «fiducioso nei medici» racconta di aver caricato «un napoletano molto nervoso, ha viaggiato con le testa fuori dal finestrino. E una tizia mi ha detto che il coronavirus l’ha inventato Trump contro i cinesi». I cinesi, appunto, che stanno chiudendo i negozi in silenzio, perché hanno paura degli italiani. Sofia, Classico Nail di via Farini: «Tanta paura, chiudo una settimana. Ha chiuso anche il fornitore di smalti di via Paolo Sarpi». Di fronte, il “Ravioli freschi” tira giù la clair, e Yun Dan riapre il 5 marzo. Aperto Chef J, la padrona manciuriana dice che «non ci sono quelli degli uffici perché lavorano da casa, ma vengono i lavoratori», intendendo muratori, elettricisti, quelli dei cantieri che non si fermano. Né si ferma la movida, in Alzaia del Naviglio grande alle 18 chiusi bar e pub, aperti ristoranti e osterie che servono Negroni Martini con l’oliva e spritz «perché noi facciamo ristorazione», quindi va tutto bene, se non chiudono ristoranti e metro va tutto davvero bene, poi si vedrà. 

L'assalto ai centralini per la paura coronavirus: 300mila chiamate in un giorno al numero di emergenza della Lombardia. Tra 112 e il centralino attivato dalla Regione linee intasate da ogni genere di richiesta, la più frequente quella di fare un tampone. "Ma così si manda in tilt il sistema e si toglie tempo alle richieste di aiuto reali". Tiziana De Giorgi e Sandro De Riccardis il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. Oltre 300mila chiamate in un giorno, più di mezzo milione in 48 ore, una media di 12.500 ogni ora. E' come se tutti gli abitanti di una città grande quasi quanto Catania si fossero attaccati al telefono nello stesso giorno, chiamando lo stesso numero: 800.894.545. E' quello attivato dalla Regione Lombardia per fronteggiare l'emergenza da coronavirus e i timori di chi vive in Lombardia e per provare a decongestionare le linee caldissime del 112 e garantire informazioni corrette e istruzioni a chi, in questo momento, ha sintomi influenzali e problemi respiratori che possono mettere in allarme. Decine di migliaia di chiamate da di chi ha paura di avere i sintomi della malattia, ma soprattutto di richieste di poter fare il tampone che hanno più volte mandato in tilt il sistema, nonostante i 60 operatori al lavoro e le 90 linee dedicate, come spiega l'Areu, l'Azienda regionale emergenza e urgenza. "Bisogna cercare di limitare anche le richieste di informazioni che si trovano facilmente sul decalogo del ministero o qui si satura tutto e chi ha bisogno di assistenza vera, anche se non è in condizioni allarmanti, rischia di non riuscire a parlare con nessuno", spiega il presidente dell'Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi. Ma non è l'unico appello che fa. La sua preoccupazione in questo momento è per la prima linea del sistema sanitario impegnato sul coronavirus. I medici di base, una delle categorie più esposte al contagio. "Evitate di presentarvi nei loro studi senza prima telefonare", chiede Rossi. Ieri, spiega, l'Ats ha inviato una comunicazione che chiude gli studi dei medici di famiglia ad accesso libero, secondo le nuove linee guida della Regione. Dal dottore, quindi, si va su appuntamento, chiamando prima. "Bisogna fare un triage telefonico preventivo. Sarà lui a indicare un orario di vista precisa. E se sono evidenti i fattori di rischio da contagio, in studio non si va. Ma bisogna poter contattare i numeri indicati. Ne va dell'incolumità di tutti". Ma i medici di famiglia, che visitano decine di pazienti al giorno, non hanno al momento alcun tipo di protezione a disposizione, perché "i dispositivi di protezione promessi da Ats non sono ancora arrivati", denuncia Rossi. Negli studi dei medici di famiglia sono attesi camici monouso e idrorepellenti, occhiali a maschera, la famosa mascherina FFP3 e i copricapo. La psicosi coronavirus arriva anche nella sala della Centrale unica di risposta del numero di Emergenza, il 112, come un magma di domande, richieste, lamentele, paure, sintomi inequivocabili e diagnosi preconfezionate, incubi di contagio, pianti per figli, nipoti, anziani genitori. Chiamano tutti senza sosta, sui monitor vengono geolocalizzati i telefoni fissi e le chiamate tramite l'App "Where are U" dell'Areu mentre ne restano in attesa in media altre sei per operatore. Da quando è partita l'emergenza sanitaria, i turni di otto ore sono stati allungati fino a dieci e dodici, ferie e riposi di tutta la squadra sono stati sospesi, molti hanno chiesto loro stessi di tornare al lavoro. "Nessuno voleva restare a casa, volevano rientrare a dare una mano", racconta Contini. "Nei giorni normali rispondiamo a tutti in meno di cinque secondi - spiega Marco Contini, 34 anni, coordinatore della squadra di 28 operatori - . In questi giorni di emergenza sanitaria l'attesa media è salita a trenta secondi". Se la media delle telefonate di soccorso in Lombardia è di 12 mila al giorno, venerdì scorso già erano 18 mila, sabato sono arrivate a 31 mila, domenica hanno sfiorato le 40 mila. 39.450, per la precisione. Domenica scorsa, nella sola provincia di Milano, erano 14 mila. "Una situazione mai vista, forse solo con le esondazioni del Seveso, ma in quei casi dura poche ore - dice ancora Contini - . I cittadini devono capire è che il 112 è solo per le emergenze, non solo quelle sanitarie, ma anche di ordine pubblico, per gli incidenti, gli incendi, le aggressioni, i malori". E invece da giorni, e chissà fino a quando, gli operatori ascoltano di tutto: domande, sfoghi di paura, ricostruzioni di contatti con amici di amici che hanno incontrato un amico di ritorno dalla Cina. Ma poi, in assenza di sintomi reali, non si può che dirottare l'utente all'altro numero istituito dalla Regione. Un circolo vizioso, al momento, senza fine.

Coronavirus, parla il contagiato di Cumiana: "Io e mia moglie positivi ma stiamo bene". La Repubblica tv il 25 febbraio 2020. "Sto bene, non un colpo di tosse ne una linea di febbre, ma io e mia moglie siamo risultati positivi al coronavirus". Il quarantenne di Cumiana nel torinese, dipendente dell'Italdesign, parla a distanza di sicurezza affacciandosi sulla soglia di casa dove da due giorni è in quarantena. "Con mia moglie abbiamo portato la nostra bambina al Regina Margherita per una febbre che non andava via - Spiega - La piccola è risultata negativa ma i nostri tamponi positivi ed è scattato il protocollo di profilassi".

Coronavirus, terzo morto in Lombardia: è una donna di Crema. Terzo decesso in Lombardia per coronavirus. Si tratta di una donna anziana ricoverata presso il reparto oncologico dell'ospedale di Crema. Rosa Scognamiglio, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. "Abbiamo un altro decesso a Cremona. Una persona che aveva quadro clinico complesso". Lo ha confermato l'assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, nel corso della conferenza stampa convocata questo pomeriggio a Palazzo Lombardia per fare il punto sui casi di coronavirus e per presentare le azioni di contrasto al contagio contenute nell'ordinanza regionale. Salgono a 2 i casi di decesso nella Regione Lombardia dove, già nella mattinata di sabato 22 febbraio, una pensionata di 77 anni, residente a Casalpusterlengo, nella "zona rossa" del lodigiano, è morta in seguito a complicanze respiratorie insorte presumibilmente dopo aver contratto il Covid-19. La vittima di quest'oggi, invece, era ricoverata in oncologia presso l'ospedale di Crema "con una situazione clinica già molto compromessa", fa sapere Giulio Gallera. A fronte delle ultime stime, sono 3 i morti in Italia per coronavirus. Il primo decesso è stato registrato a Vo'Euganeo, nel padovano, nella serata di venerdì, dove è deceduto un pensionato di 78 anni che era ricoverato presso l'ospedale di Schiovonia con patologie pregresse. Saranno infatti gli esami autoptici, in programma per i prossimi giorni, a stabilire le cause della morte e a chiarire in che misura sia stata determinante la contrazione del nuovo virus. Intanto, in Lombardia, si registra il numero più elevato di contagi: almeno 112 quelli finora accertati. "Abbiamo fatto più tamponi possibili, oltre 880. - conferma l'assessore al Welfare lombardo - 112 sono i casi positivi, con una media del 12%. Dei 53 ricoverati in ospedale, 17 sono in terapia intensiva". Un vero e proprio bollettino di guerra. A confermare il trend negativo, con picchi sempre più elevati nelle città-focolaio e ad esse limitrofe, è anche il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli che riferisce di 152 contagiati su tutto il territorio nazionale, dei quali 3 deceduti tra Veneto e Lombardia. Quanto alla distribuzione territoriale dei positivi, invece, in Lombardia sono 110, in Veneto 21, in Emilia Romagna 9, nel Lazio 2. I ricoverati con sintomi sono 55, 25 sono le persone in terapia intensiva, 19 quelle in sorveglianza domiciliare e 26 in verifica. Una famiglia lombarda è risultata positiva al coronavirus mentre era in vacanza in Trentino e in queste ore è già stato predisposto il loro trasferimento in Lombardia. Lo rende noto il presidente della Provincia, Maurizio Fugatti."Tre turisti lombardi provenienti dai comuni interessati dal coronavirus in Lombardia sono stati riscontrati positivi sul territorio Trentino. Questo è avvenuto oggi e la notizia l'abbiamo avuta alle 14. Abbiamo subito preso i contatti con il presidente della Regione Attilio Fontana, che ringrazio, e l'Azienda sanitaria lombarda - spiega Fugatti in un video diffuso sul suo profilo Facebook -. In questi momenti abbiamo organizzato il trasferimento della famiglia presso una struttura lombarda. Quindi nessun trentino è stato contagiato". Un dermatologo dell'ospedale Policlinico, l'ospedale maggiore del capoluogo lombardo, con 900 posti letto in 35 padiglioni, tutti nel pieno centro della città, è risultato positivo al test per il Covid-19 ed è ricoverato all'ospedale Sacco di Milano. Quattro medici specializzandi del reparto hanno e hanno avuto nei giorni scorsi sintomi compatibili con il Coronavirus, in particolare febbre e tosse, ma nessuno è ancora stato sottoposto al tampone che può confermare il contagio. Uno degli specializzandi è stato male lo scorso fine settimana e, guarito, era già rientrato al lavoro. La direzione sanitaria dell'ospedale sta al momento valutando la chiusura in via precauzionale del reparto di dermatologia e tentando di ricostruire i contatti del medico. Nel frattempo tutti i colleghi venuti a contatto con il dermatologo sono stati invitati ad astenersi dal lavoro. Domani pomeriggio è prevista una riunione dei capi di dipartimento, per valutare le misure da adottare anche sulla base dell'ordinanza regionale e per coordinare le attività con l'Università Statale di Milano, dal momento che il Policlinico è il principale ospedale universitario della città e ha circa 300 medici specializzandi impiegati. Regione Lombardia oggi ha sospeso tutti i corsi per le professioni sanitarie, ma ad esclusione di specializzandi e tirocinanti. Quanto al bilancio mondiale del coronavirus, la stima si attesta attorno a quota 2.461 vittim. Stando ai dati pubblicati dalla mappa online della statunitense Johns Hopkins University, i casi di contagio confermati all giornata di domenica 23 febbraio sono 78.766, tra cui 76 italiani. Sono invece 23.313 le persone negativizzate, quindi presumibilmente guarite, in tutto il mondo.

Da open.online il 23 febbraio 2020. «I miei angeli sono stremati. Corro a portar loro la colazione. Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni» ha scritto. «A me sembra una follia. Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così», a parlare è Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus. Diversi post, tutti pubblicati su Facebook, in cui la dottoressa Gismondo prova a fare il punto della situazione: «Il nostro laboratorio ha sfornato esami tutta la notte. In continuazione arrivano campioni» scrive, denunciando che «i suoi angeli sono stremati»: «Oggi la mia domenica sarà al Sacco. Vi prego, abbassate i toni». E infine: «Leggete! Non è pandemia! Durante la scorsa settimana la mortalità per influenza è stata di 217 decessi al giorno! Per coronavirus 1».

Dagonota il 23 febbraio 2020. Come è messa l’Italia rispetto al resto d’Europa? Siamo il Paese con il numero di contagi più robusto. Attualmente la Germania ha registrato 16 casi di infezione, la Francia 12m il Regno Unito 9, la Spagna 2, il Belgio, la Svezia e la Finlandia 1. Nel mondo va ancora peggio: siamo al quarto posto nella classifica mondiale dei contagiati, a ridosso del terzo occupato dal Giappone:

1) Cina 77579

2) Corea del Sud 556

3) Giappone 135

4) Italia 115

5) Singapore 85

6) Hong Kong 70

7) Thailandia 35 P 

Praticamente stiamo in Europa ma ai numeri sembriamo un Paese asiatico. Qual è il problema? Sembra sia stato il blocco dei voli deciso dal Conte Casalino e da Speranza per prendersi le prima pagine dei giornali. È infatti sorprendente che il Paese che ha vantato di aver adottato le misure più stringenti, oggi risulta essere il più colpito. In sostanza: bloccando i voli dalla Cina si è instaurato un meccanismo degli arrivi attraverso voli indiretti, arrivi dunque innumerevoli (da ogni parte del mondo) e incontrollabili in modo approfondito. Non puoi pensare di mettere in quarantena ogni essere umano che entra in Italia, né di interrogarlo per capire se è stato in Cina, Dunque i controlli generici sono stati effettuati con il solo ausilio del termoscanner, che rileva solo la febbre, ma abbiamo visto he il contagio può arrivare persino dai portatori sani, senza contare che il virus ha un periodo di incubazione molto lungo. Gli altri Paesi Ue, lasciando aperto la tratta con la Cina, hanno invece avuto la possibilità di circoscrivere il problema. Nessuno è rientrato in Spagna o in Germania da voli indiretti. E tutti quelli che rientrati dalla Cina sono stati messi direttamente in quarantena. Altro che termoscanner, che non serve a nulla. Se Conte e Speranza avessero lasciato aperto il transito dei voli dalla Cina, oggi anche l’Italia avrebbe avuto un canale unico su cui lavorare.

Coronavirus, quarta vittima in Italia: è un uomo ricoverato a Bergamo. Redazione de Il Riformista il 24 Febbraio 2020. C’è un altro morto in Lombardia, facendo salire così a quattro la conta delle vittime in Italia da quando è scattata l’emergenza del coronavirus. La vittima è un uomo di 84 anni ricoverato a Bergamo. In Lombardia aumentano a 112 le persone contagiate dal virus. Il primo malato era stato certificato giovedì sera e poi a partire dal “paziente 1”, un 38enne ricoverato in terapia intensiva, si è passati a sua moglie incinta, a un loro amico e a cascata ad altri pazienti, tra cui una signora di 77 anni morta a Casalpusterlengo, che è stata anche la prima vittima del coronavirus. Ieri è deceduta un’altra che era ricoverata nel reparto di Oncologia a Crema.  “Abbiamo disposto la chiusura dalle ore 18 dei luoghi commerciali di intrattenimento o svago, non i ristoranti, quindi pub e discoteche, luoghi dove si trovano molte persone”. Lo ha detto l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera. Un coprifuoco generale in tutta la Lombardia. Scuole e università chiuse, stop a “manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura”. E’ il contenuto dell’ordinanza emanata dalla Regione Lombardia, “in relazione all’evolversi della diffusione del coronavirus”. Un’ordinanza, firmata dal presidente Attilio Fontana di concerto con il ministro della Salute Roberto Speranza che è valida per tutto il territorio lombardo e che viene diffusa nel giorno in cui Maria Rita Gismondo, la primaria dell’ospedale Sacco di Milano, struttura che si occupa della cura dei pazienti contagianti raffredda i toni: “Si è scambiata un’infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale. Non è così. Vi prego, abbassate i toni”. Ma il governatore aggiunge: “Impensabile isolare Milano”.

IL DECRETO – Al lavoro ventiquattr’ore su ventiquattro per “scacciare la paura”, affidandosi a un decreto lampo e al sistema di screening tra i più avanzati nel mondo. In uno dei momenti più traballanti della sua esistenza, è nella sfida al Covid-2019 che il governo cerca un po’ di compattezza. Intanto il decreto, firmato in serata dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e pubblicato in Gazzetta ufficiale, prevede nella sua ultima versione lo stanziamento di 20 milioni aggiuntivi per ovviare all’emergenza che ha causato in Italia oltre 150 contagi e 3 vittime. “Ho appena firmato il decreto attuativo che dispone queste misure per i prossimi 14 giorni”, annuncia Conte nel pomeriggio, promettendo ai cittadini “assistenza e la massima attenzione per la loro salute” in cambio di alcune restrizioni alla vita pubblica. L’avvocato del popolo vive una domenica molto particolare, ‘blindato’ nella sede della Protezione civile a Roma per seguire passo l’evoluzione del contagio. I conteggi ufficiali vengono affidati sempre ad Angelo Borrelli, per una “comunicazione capillare e trasparente”. E se conferma come di fronte ad una situazione simile “non ci deve essere distinzione di colori politici”, il premier ammette di essere “rimasto sorpreso dall’esplosione dei casi”. Un’ascesa preoccupante che ha reso in pochi giorni l’Italia il terzo Paese con più contagi al mondo, dopo Cina e Corea del Sud. “Noi facciamo molti più controlli di altri Paesi”, è la spiegazione ufficiale degli oltre 4mila tamponi, con la conferma indiretta che nelle prossime ore le positività potrebbero aumentare. Ma la linea di massima precauzione e rigore pagherà secondo il governo, attento al massimo dialogo con la Regioni per delimitare i contagi e “contenere” gli effetti negativi. E per evitare l’effetto paura e il vortice della psicosi collettiva che circola incontrollato tra le chat di tutta Italia. Un esempio? La fake news della chiusura del Pronto soccorso di Tor Vergata o il falso caso di isolamento all’Ospedale Sant’Eugenio di Roma. “È l’esperienza più forte della mia vita, sono convinto che questa sfida la vinceremo”, è il messaggio di ottimismo firmato Roberto Speranza. Il ministro della Salute che non esclude un “rafforzamento delle misure” contro il coronavirus. Dal punto di vista economico l’esecutivo starebbe valutando in settimana un secondo decreto, con lo stop del dei tributi per la aree interessate (in primis Lombardia e veneto). In Cdm domani dovrebbe essere varato il dl imprese con norme ad hoc, mentre la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo ha incontrato sindacati e associazioni datoriali ed è al lavoro per la possibilità “di fare ricorso al lavoro agile anche in deroga ai limiti percentuali stabiliti dai contratti collettivi e dalla legge”.

REVOCATO IL BLOCCO AL BRENNERO –  Il blocco ferroviario al Brennero è stato revocato. A comunicarlo sono le ferrovie austriache OeBB. La linea ferroviaria del Brennero è stata riaperta e i treni internazionali e locali in territorio austriaco provenienti e diretti al Brennero possono nuovamente circolare. Il blocco imposto dalle autorità austriache nel tardo pomeriggio era per sospetto caso di coronavirus. A bordo dell’Eurocity 86 proveniente da Venezia Santa Lucia e diretto a Monaco di Baviera, due donne tedesche avevano accusato febbre e tosse forte. Fatte scendere alla stazione di Verona Porta Nuova, erano state trasportate in un ospedale della città scaligera per essere sottoposte a screening per il coronavirus poi risultato negativo. Al Brennero è stato fermato anche un secondo treno, sempre un Eurocity (1288) e sempre diretto nella città tedesca.

La Toscana non fa controlla su chi torna dalla Cina. E la Lega prepara l’esposto. Volano stracci tra Enrico Rossi, governatore della Toscana, e la Lega. Carenze contro il Coronavirus, ma per il dem si tratta di “fascioleghisti”. Michele Di Lollo,  Venerdì 21/02/2020 su Il Giornale. Volano stracci tra il governatore della Toscana, Enrico Rossi, e la Lega. Sale la tensione. La paura da Coronavirus c’è, inutile ignorarlo. Ed è sempre più difficile distinguere il terrore dalla psicosi. Ma in Toscana qualcosa si rompe. Migliaia di cinesi tornano dal capodanno festeggiato a Pechino e, stando alle dichiarazioni della classe dirigente del Carroccio, nella regione non c’è un piano adeguato per evitare contagi. “Valutiamo un esposto verso il presidente della regione Toscana e l’assessore regionale alla Sanità, Stefania Saccardi, per il loro comportamento”. Sotto la lente le misure adottate per contrastare il diffondersi del virus cinese. Potrebbero essere tacciati di comportamenti gravemente omissivi riguardo alle azioni di contenimento di un ipotetico diffondersi della polmonite anche nella regione. Lo annunciano, con una nota, i parlamentari toscani e i consiglieri regionali della Lega. Sotto osservazione anche un post pubblicato su Facebook dallo stesso governatore. In poche righe Rossi definisce "fascioleghisti" le persone che lo attaccano sul rischio contagio. Al centro della polemica, in soldoni, la superficialità con cui il governo della regione agisce su questo problema. Si parla di querela. Ed è lo stesso Matteo Salvini che, sul social network, scrive:“Basta! Anche dopo le numerose segnalazioni ricevute da voi, abbiamo deciso di denunciare il presidente della Toscana (Pd) che, non facendo tutti i controlli necessari su chi rientra dalla Cina, mette a rischio la salute dei cittadini. E accusa chi lo critica, scienziati e medici compresi, di essere un “fascioleghista”! Insomma, si sparigliano le carte nella città di Firenze e non solo. Si arriva ai ferri corti su un tema, quello del Coronavirus, che in queste ore fa paura più del solito sul territorio italiano, dopo l’annuncio delle sei persone contagiate in Lombardia. “Riteniamo doveroso - affermano nella nota tutti i parlamentari e i consiglieri regionali della Lega eletti in Toscana - che nell’affrontare la delicata tematica relativa al Coronavirus non si debbano usare due pesi e due misure” (il caso dei contagi a Lodi, testimoniano ulteriormente il potenziale rischio in essere anche per il nostro Paese). Si riferiscono a un fatto preciso: “I nostri connazionali sono stati sottoposti a una giusta quarantena presso il centro sportivo militare della Cecchignola, alle porte di Roma. In Toscana non è così. E alcune migliaia di cinesi di ritorno dal loro capodanno sono solo invitati (e non obbligati) a presentarsi presso un ambulatorio allestito nella zona industriale di Firenze. Messo in piedi in fretta e furia, tra il giusto sconcerto di chi lavora nei paraggi”. Apprezzano lo sforzo che sta facendo la Cina sul suo territorio, ma ribadiscono la loro forte perplessità riguardo alle misure adottate dal presidente Rossi e dall’assessore Saccardi. “Per noi assolutamente non idonee allo scopo che si prefiggono”. Per questo motivo i parlamentari leghisti stanno verificando l’opportunità di produrre un esposto nei confronti dello stesso governatore e dell’assessore alla Sanità. L'obiettivo del Carroccio è dimostrare i comportamenti gravemente omissivi che riguardano le azioni di contenimento del virus. 

Da it.blastingnews.com il 23 febbraio 2020. Il coronavirus continua a far paura. Nonostante gli sforzi compiuti dal governo cinese e dagli organismi internazionali, infatti, per il momento la diffusione del contagio non si arresta, anche se negli ultimi giorni è sembrata ridursi, almeno stando alle notizie di cronaca ufficiali. In Italia, dove al momento i casi accertati sono solo tre, il leader della Lega Matteo Salvini ha minacciato di denunciare il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese se un solo malato di coronavirus sbarcherà nel nostro Paese da un barcone proveniente dall’Africa. Chi invece decide di lanciare un vero e proprio allarme è Alessandro Meluzzi. Ospite di Quarta Repubblica su Rete 4, infatti, il criminologo e noto opinionista tv si dice infatti certo che la “pandemia arriverà” e che, a differenza della Cina, “Paesi come l’Italia sono fot...” per colpa del loro “buonismo”. Sul caso del transatlantico Diamond Princess, poi, Meluzzi si dice convinto che la colpa della diffusione del contagio da coronavirus sia dei sistemi di aerazione e avverte sui rischi di prendere treni e aerei. Ospite di Quarta Repubblica per discutere di coronavirus, insieme ai giornalisti Maria Giovanna Maglie, Piero Sansonetti, Giampiero Mughini, e al rappresentante della Croce Rossa Internazionale Capobianco, Alessandro Meluzzi non mostra, come spesso gli capita, peli sulla lingua. “Tu sei preoccupato?”, gli domanda il conduttore Nicola Porro. “Io sono molto preoccupato, anche perché bisogna analizzare un attimo i fatti - risponde secco Meluzzi - lo dicono anche i grandi virologi. Intanto questo coronavirus ha una capacità di incubazione fino ai 26 giorni, sopravvive sulle superfici per nove o dieci giorni, è trasmissibile già durante la fase in cui è asintomatico, quindi le misurazioni della temperatura non servono a granché, perché uno può essere non febbrile ed essere in grado di trasmettere il virus. In Cina i numeri probabilmente, per ragioni di scarsità di trasparenza, non sono neppure quelli che sono stati pubblicati, ma si può dire che sono state già messe in quarantena significative zone, non solo della Cina del centro e del Nord, ma anche del Vietnam per esempio”.

Meluzzi e il coronavirus in Africa: "In quel continente lavorano 6 mln e 500mila cinesi". Parlando del caso specifico dell’Africa, Alessandro Meluzzi riferisce che “in quel continente ci sono sei milioni e 500mila lavoratori cinesi, molti dei quali provenienti esattamente dalla zona che rappresenta il focolaio fondamentale del coronavirus” e ritiene che “molti di questi lavoratori viaggino sistematicamente da e verso la Cina. Ci sono linee aeree come la Ethiopian che mantengono i viaggi per l’Africa. Questo caso emerso in Egitto è una minuscola punta di iceberg di un sistema sanitario come quello africano che non è minimamente in grado di fare delle valutazioni, né tempestive, né non tempestive. Questa è la verità. Allora io sono convinto - questo il suo grido di allarme - che la pandemia inesorabilmente arriverà. E questo non lo dico io ma grandi studiosi, immunologi e virologi. E ritengo che, mentre (potrebbero salvarsi ndr) alcuni Paesi come la Cina, che hanno applicato delle misure draconiane che arrivano fino alla pena di morte per chi nasconde il contagio, Paesi come l’Italia saranno semplicemente fottuti. Per buonismo, per ottusaggine, per incapacità di vedere le cose. Perché guardate che se un medico non è pessimista non fa mai una diagnosi precoce e il medico pietoso fa la piaga verminosa. Ed è quello che accadrà.”

"Il coronavirus si trasmette anche coi sistemi di ventilazione". “Noi dobbiamo uscire dalla demenzialità ideologica - prosegue poi Alessandro Meluzzi - perché i virus non hanno ideologie di destra o di sinistra, occidentale, bianca o nera. I virus purtroppo hanno una penetranza e una mortalità che può essere studiata. La cosa più interessante che ho sentito è stata che sulla Diamond Princess c’è un problema di ventilazione e di ricircolo d’aria, fino ad ora ci hanno raccontato che con i sistemi di ventilazione il coronavirus non si prende, invece questa è una falsificazione. E questo vale anche sugli aerei o sui treni tipo il Frecciarossa. Mi metto in gioco a costo di apparire un allarmista. Avevo previsto un viaggio internazionale di lavoro fuori dall’Italia, non in Cina, posso dire che l’ho cancellato, perché in questo momento non ritengo i voli internazionali sicuri dal punto di vista della trasmissione virale”. 

Dagospia il 22 febbraio 2020. Mario Adinolfi, presidente nazionale del Popolo della Famiglia (PDF) e candidato alla Camera alle suppletive di Roma contro il ministro Gualtieri, in merito alla crisi coronavirus ha dichiarato: “Le famiglie italiane sono giustamente preoccupate. Il governo coi loro soldi ha pagato uno spot con l’attore Michele Mirabella, che in un ristorante cinese dice che "non è affatto facile il contagio". Il tempo delle pantomime, del pistolotto ideologico alla Elly Schlein per far sentire tutti razzisti, è finito. Lo spot della premiata ditta Gualtieri-Speranza sia immediatamente ritirato dai teleschermi, la pazienza delle famiglie italiane ha un limite. Si attivi una rigida quarantena obbligatoria con verifica per tutti i provenienti dalla Cina anche in via indiretta e smettano di far pagare la loro incapacità e i loro pregiudizi ideologici agli italiani. D’altronde da un Pd che oggi elegge presidente del Pd una che non ha mai votato Pd, ti aspetti che sappia gestire il coronavirus?”. Adinolfi illustrerà le proposte del Popolo della Famiglia nel corso di una iniziativa oggi alle 12.30 alla Sala Capranichetta di piazza Montecitorio. 

Coronavirus, 325 casi in Italia. Altri tre morti in Lombardia e uno in Veneto, le vittime diventano 11. I dati aggiornati della protezione civile. Casi in 9 regioni. Primi contagi in Toscana e a Palermo e due in Liguria. Ricciardi (Oms): "Ridimensionare l'emergenza". Sulle misure per i Comuni della zona rossa e per le imprese è atteso venerdì un decreto del governo. Che intanto impugna l'ordinanza delle Marche sulla chiusura di scuole e manifestazioni fino al 4 marzo. Michele Tocci il 25 febbraio 2020 su La Repubblica. La Lombardia è la regione italiana più colpita dal coronavirus. In termini di contagiati e vittime. Nelle ultime ore sono decedute tre delle persone contagiate, secondo i dati della protezione civile, facendo salire il totale delle vittime nella regione a 9. E' morta anche la donna 76enne che era in rianimazione a Treviso. Le vittime in Italia sono dunque 11 (9 in Lombardia e 2 in Veneto) per lo più anziani già indeboliti da altre patologie. Aumentano anche i contagiati, che in Italia sono 323 e tra questi anche tre persone colpite dal virus in Sicilia. L'incremento dei 28 casi nuovi registrati in Lombardia portano il totale nella regione a 240. Altri 45 casi di contagio in Veneto, 26 in Emilia Romagna, due in Toscana, tre nel Lazio, tre in Piemonte, tre in Sicilia, uno in Alto Adige, due in Liguria.

Rezza: "Focolai circoscritti". Il coronavirus circolava in Italia già diversi giorni prima che venisse fuori il cosiddetto "paziente 1": "Ormai è un dato certo", ha spiegato il capo del dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità, Gianni Rezza, al punto stampa in Protezione Civile. "Per fortuna - ha aggiunto - al momento abbiamo dei focolai abbastanza circoscritti".

L'Iss: Italia anziana, ecco perché 2-3% di morti. Per Giovanni Rezza, direttore del dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità, "in Italia c'è una popolazione anziana e si spiegano così i tassi di mortalità del 2-3%. Gli anziani sono più fragili, lo vediamo con l'influenza. Da quest'ultima possiamo proteggerli con il vaccino; non essendoci il vaccino per il Coronavirus c'è la mortalità. L'unica maniera per proteggerli è circoscrivere i focolai come si sta facendo". 

Ricciardi (Oms): "Ridimensionare l'emergenza". C'è poi l'appello di Walter Ricciardi dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) in conferenza stampa alla Protezione civile a Roma: "Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme, che è giusto, da non sottovalutare, ma la malattia va posta nei giusti termini". E ha spiegato perché, ribadendo i numeri di questa epidemia di coronavirus: "Su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, il 5% è gravissimo, di cui il 3% muore. Peraltro sapete che tutte le persone decedute avevano già delle condizioni gravi di salute". Sempre il medico italiano: "In Italia, dopo i primi casi di Roma gestiti in maniera antologica, c'è stata una frammentazione" nell'azione contro il coronavirus, con "regioni che facevano tamponi ad asintomatici e altre ai contatti. In questo modo - ha spiegato - si è persa l'evidenza scientifica. L'Oms dice che bisogna fare i tamponi solo ai sintomatici e a coloro che sono stati in determinate zone", ricordando che "la Francia ha fatto 300 tamponi, noi 4.000, e il Regno Unito 6.000, ma con una metodologia e seguendo un protocollo rigoroso". Ricciardi ha pure affermato che in questa fase "le mascherine di protezione non servono alle persone sane". Mascherine la cui distribuzione in Italia, a detta del capo della Protezione civile Angelo Borrelli farà capo al " Dipartimento della Protezione civile (...) così da venire incontro alle richieste delle Regioni".

Borrelli: l'acquisto delle mascherine sarà centralizzato. "C'è l'esigenza di accentrare in capo al Dipartimento della Protezione civile l'acquisizione di Dispositivi di protezione individuale (Dpi), come mascherine. Lo prevediamo in un'ordinanza di Protezione civile che firmerò nei prossimi minuti. Veniamo così incontro alle richieste delle Regioni". A parte la Lombardia, nel resto dell'Italia si registra il primo caso di positività al coronavirus, a Firenze e a Pistoia, e a Palermo. Arriva anche il primo caso in Liguria, ad Alassio, una settantenne che proviene da una zona a rischio. Il fiorentino è un imprenditore di 63 anni che ha aziende in Oriente. L'uomo ieri pomeriggio si è presentato all'ospedale di Santa Maria Nuova, nel centro cittadino. Nella notte il tampone ha rivelato la presenza del coronavirus Covid -19. Il paziente è stato trasferito nel reparto malattie infettive dell'ospedale di Santa Maria Annunziata a Ponte a Niccheri e gli ambienti del Pronto soccorso di Santa Maria Nuova sono stati sanificati. L'imprenditore di Firenze sarebbe rientrato dall'Oriente ai primi di gennaio e si sta cercando di capire se possa essere stato contagiato in Italia da un suo dipendente che stava male alcune settimane fa. La persona contagiata a Pistoia invece, un informatico di 49 anni già in isolamento volontario, sarebbe appena tornata da Codogno. Ieri, in seguito a un picco febbrile, ha contattato i servizi sanitari. E' risultata positiva al coronavirus anche la turista di Bergamo in vacanza a Palermo che ieri sera è stata ricoverata nell'ospedale Cervello per i controlli dopo aver mostrato sintomi influenzali. E' stata disposta la quarantena per il gruppo di amici della donna e per le persone che sono state a stretto contatto coi turisti. Questo è il primo caso di coronavirus accertato nel Sud Italia. "Il campione esaminato al Policlinico di Palermo - ha spiegato il governatore Nello Musumeci - verrà immediatamente inviato allo Spallanzani per ulteriori verifiche. La signora, che è stata posta in isolamento al reparto di malattie infettive dell'Ospedale Cervello, è pienamente cosciente e mi è stato riferito che non presenta particolari condizioni di malessere. Ringrazio tutti gli operatori perché la macchina sanitaria regionale si è mossa con prontezza ed ha dimostrato di essere pienamente allertata. Al termine degli accertamenti daremo tutte le informazioni necessarie". Nelle Marche una persona è stata trovata positiva alle prima analisi, ma servono conferme. "E' stato diffuso da pochi minuti il risultato positivo di un campione analizzato nel pomeriggio di oggi, 25 febbraio", ha fatto sapere la Regione Marche. "Il campione, proveniente dalla provincia di Pesaro, sarà inviato nelle prime ore di domani mattina al Centro diagnostico di riferimento nazionale dell'Istituto superiore di sanità. Solo al seguito di questo secondo controllo si potrà effettivamente confermare il caso di Nuovo Coronavirus". Ora il "paziente è stato isolato a domicilio e in buone condizioni di salute".

Caccia al paziente zero. Potrebbe essere uno dei tanti casi 'invisibili' l'introvabile paziente zero che avrebbe dato inizio in Italia all'epidemia da coronavirus SarsCoV2. E' proprio nel fenomeno dei casi di portatori del virus impossibili da riconoscere il perché sia praticamente impossibile rintracciare il caso che ha innescato il focolaio di Codogno, così come non è noto il legame tra i casi del Veneto e quelli della Lombardia. Se le persone portatrici del virus stanno bene "non si riesce a identificare i casi", ha rilevato il fisico esperto di sistemi complessi Alessandro Vespignani, direttore del Network Science Institute della Northeastern University di Boston. "Se in Italia non si riesce a trovare il paziente zero è perché questi potrebbe essere asintomatico, magari incontrato in un aeroporto o in una stazione", ha osservato. Le misure per le cosiddette zone rosse sono pienamente in vigore. Oggi sono arrivati anche i militari dell'Esercito per presidiare i check point del Lodigiano. Il Governo punta ora a definire bene cosa devono fare le altre Regioni, per evitare che procedano in ordine sparso e con provvedimenti poco sensati. Il premier Conte ha spiegato che un'ordinanza - molto probabilmente venerdì - definirà tre linee di condotta: "Uno per le zone focolaio (i 10 Comuni lodigiani e Vò, in Veneto), un secondo livello che si estende alle aree circostanti che presentano episodi da contagio che sono state indirettamente coinvolte, un terzo che è il resto d'Italia, dove non c'è bisogno di adottare misure restrittive". L'esempio fatto da Conte è quello della scuola: "Non si giustifica - ha rilevato - la chiusura delle attività scolastiche in Italia, semmai possiamo sospendere le gite, ma sicuramente non ha ragione di esistere la sospensione si attività scolastiche e produttive". Non lo ho però ascoltato il governatore delle Marche, Luca Ceriscioli, che disposto la chiusura di scuole e manifestazioni fino al 4 marzo. Ordinanza che il governo avrebbe già deciso di impugnare. Il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia, dell'Istruzione Lucia Azzolina e dell'Università e della Ricerca Gaetano Manfredi, in una nota congiunta, spiegano: "Con la sua decisione unilaterale di firmare un'ordinanza per la chiusura di tutte le scuole e Università della Regione Marche, il Governatore Luca Ceriscioli si sfila dall'accordo che era stato raggiunto solo poche ore prima nel corso dell'incontro tra governo e Regioni tenutosi alla Protezione Civile e viene meno all'impegno preso con tutti gli altri Governatori che invece si stanno attenendo alle disposizioni concordate".

Paziente di Vo’ torna a casa. È il terzo guarito  «Il 95% dei casi si rimette senza problemi». Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Mariolina Iossa. Dal coronavirus si guarisce quasi sempre. Ogni giorno che passa diventa più importante ridimensionare l’allarme, arginare la diffusione di inutili timori che alimentano una ingiustificata psicosi di massa. Il coronavirus fa paura perché anche ieri si sono registrati nuovi casi, sia di contagiati (siamo a 322) sia di decessi (saliti a 11). Eppure, nella stragrande maggioranza dei casi, non porta alla morte ma alla completa guarigione. A dirlo è Walter Ricciardi, componente del Comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della Sanità e da lunedì consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza, ma lo dicono anche i primi casi di persone colpite dal virus e ormai completamente ristabilite. «Dobbiamo ridimensionare questo grande allarme», ha sostenuto ieri pomeriggio in conferenza stampa alla Protezione civile, Walter Ricciardi. Certo, ha continuato, è «bene non sottovalutare» ma «la malattia va posta nei giusti termini: su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili in ambiente sanitario, e quindi guariscono, il 5 per cento è grave, ma di questo 5 per cento, solo il 3 per cento muore». Ed in ogni caso, tutte le persone decedute, conclude Ricciardi, «erano persone in gravi condizioni di salute per proprie pregresse patologie». Questi i dati, nero su bianco, dati che dovrebbero aiutare ad arginare la «pandemia della paura». Tre almeno i casi finora di completa guarigione. Il ricercatore ventinovenne ricoverato allo Spallanzani a Roma, primo italiano contagiato, risultato ripetutamente negativo ai test, e dichiarato «sostanzialmente guarito» tre giorni fa. Il dermatologo del Policlinico di Milano, professore di 55 anni sempre in viaggio per lavoro, che è migliorato quasi subito dopo le cure, e che ormai sta bene ed è in dimissione («Non vedo l’ora di tornare in pista», ha scherzato ieri con i medici). La signora di Vo’ Euganeo, il piccolo paese in provincia di Padova tra i più colpiti per numero di contagiati, sempre asintomatica durante tutto il periodo di ricovero in ospedale, dimessa e riportata a casa ieri pomeriggio: sarà nella sua abitazione per 14 giorni in «dimissione domiciliare protetta», ma solo come misura precauzionale, perché in realtà è in buona salute. Sono questi i primi «guariti» dal coronavirus. E presto ce ne saranno altri, la malattia ha un decorso di pochi giorni nei casi non gravi: i due cinesi ancora ricoverati allo Spallanzani di Roma migliorano di giorno in giorno, riferiscono i medici, e migliorano anche le condizioni di tutti i primi ricoverati in Veneto e in Lombardia con sintomi lievi.

Da “la Stampa” il 25 febbraio 2020. Non è finita la caccia al «paziente zero». Più trascorrono i giorni, però, più diventa difficile trovarlo. E siccome il contagio si allarga, il ministero della Salute e le Regioni si stanno preparando a fronteggiare la prossima fase con i piani di «mitigazione del danno»: una delle contromisure, su cui convergono Inps e ministero, saranno le visite mediche effettuate al telefono. I sanitari potranno fare certificati di malattia anche senza vedere il paziente e senza rischiare di infettarsi a loro volta. In Lombardia, spiegano gli interessati, ormai l' estensione del focolaio ha fatto passare in secondo piano la ricerca del soggetto che ha portato nel loro territorio il virus: di fatto nel Lodigiano, con la «cintura sanitaria», è scattata una fase successiva. Quella che gli esperti di malattie infettive chiamano la tecnica «cluster containment». Tradotto: impedire che il fuoco si espanda fuori dai confini della zona rossa. Dicono all' Ats, l' azienda territoriale sanitaria, che la ricerca di un «paziente zero» aveva un senso nella fase 1, quando si deve bloccare il contagio e ovviamente è indispensabile identificare chi sta portando in giro il virus. Arrivati dove si è, non c' è ispettore sanitario al mondo che possa ricostruire gli spostamenti e i contatti di centinaia di persone, ricostruire una ragnatela di decine di migliaia di contatti, isolare mezza regione. E anche se da Roma chiedono le investigazioni, ormai quella linea di difesa è stata travolta. Ecco perché nel Lodigiano si è alla fase 2, quella del «contenimento». Nel senso che si cerca di contenere il virus nel territorio cinturato, bloccando nella zona rossa ben 50mila persone. Dato che non si risce a capire come il virus è entrato, almeno si spera che basti a non farlo uscire fuori. «Comunque vada a finire la caccia al paziente zero - spiega intanto Marcello Tavio, Presidente della Società scientifica delle malattie infettive - il fatto che si stia impiegando così tanto tempo a individuarlo, per noi indica che in queste zone il virus circola oramai da tempo, almeno tre settimane». È questa, la «falla» di cui si parla nel governo. Un deficit nelle investigazioni sanitarie in Lombardia.

«Errore affidarsi alle Asl». «Un' indagine epidemiologica sul campo - accusa Walter Ricciardi, professore, executive board dell' Oms, e da ieri consulente personale del ministro Speranza - richiede particolari competenze proprie delle forze dell' ordine e degli esperti dell' Istituto superiore di sanità: non può essere lasciata in mano alle singole Asl». È un fatto che i Nas dei carabinieri sono stati lasciati in panchina: solo ora che la valanga è partita, gli è stato chiesto di occuparsi dei tamponi. E i carabinieri del Nucleo Sanità vanno per le case dove c' è gente in isolamento volontario e gestiscono la consegna dei tamponi da tutt' Italia allo Spallanzani di Roma. Caccia aperta In Veneto, invece, la caccia è ancora aperta. I Dipartimenti di medicina preventiva delle Usl, che un tempo si chiamavano laboratorio di igiene, sono impegnati allo spasimo per tentare di ricostruire la via del virus. Ma senza risultati, per ora. A Vo' Euganeo, per dire, si è stati con il fiato sospeso per sapere se l' agricoltore sessantenne del comune vicino, Albettone, uno che frequentava abitualmente il bar dove si sono ammalati in tanti e che era nel Lodigiano un paio di settimane fa, era ammalato. Il tampone ha chiarito che non c' entra. Questi investigatori in camice bianco sono impegnati nel «contact tracing», tracciatura dei contatti. E si spera ancora che riescano a ricostruire il tragitto del virus che dal Lodigiano si è manifestato sul Colli Euganei, tra Padova e Vicenza, e poi ancora a Mira, in provincia di Venezia, e infine nel centro storico di Venezia. «Il nostro lavoro funziona partendo da una intervista con il contagiato - racconta un anonimo addetto - al quale chiediamo nomi, indirizzi e numeri di telefono di tutte le persone con le quali è venuto a contatto nelle ultime due settimane. Se si tratta di una persona con una normale vita sociale, in due ore ce la caviamo. Ma ci sono individui iper-attivi che richiedono molto più tempo e con i quali si fa fatica a ricostruire la lunga catena di contatti».

Sara Bettoni per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020. «I tamponi un po' scarseggiano. Abbiamo modificato l' approccio». Cambia la strategia di Regione Lombardia per mappare i contagi di coronavirus e frenare la diffusione dell' epidemia. A spiegarlo è l' assessore lombardo alla Sanità Giulio Gallera, che lo ha anticipato domenica sera a «Che tempo che fa» di Fabio Fazio e lo ha ripetuto ieri, in diverse occasioni. Al programma Rai il sindaco di Bertonico, uno dei comuni nella «zona rossa» del Lodigiano, racconta di essere stato convocato per il test, poi la verifica è stata sospesa perché «mancano i tamponi». «Non in Italia. Non possono mancare i test, bisogna fare qualcosa» commenta in studio il virologo Roberto Burioni. Risponde Gallera che gli strumenti per l' analisi dei contagi «scarseggiano un po' ma ne abbiamo già ordinati nuovi quantitativi». Nei soli primi tre giorni di allarme ne sono stati usati circa mille per controllare l' eventuale positività dei contatti vicini ai malati accertati, mentre ieri si è toccata quota 1.500 test processati. I laboratori e le squadre addette al prelievo corrono per stare al passo col numero crescente di casi sospetti. Per questo il Pirellone ha deciso di modificare le linee di intervento. «I tamponi prima si facevano per tracciare, ora per accertare - dice l' assessore -. All' inizio sono stati usati su tutti i contatti stretti ma questo era possibile perché i casi emersi erano pochi. È stato così fino a ieri (domenica, ndr ) ed è il motivo per cui abbiamo anche una grossa evidenza, circa il 50 per cento, di persone senza sintomi che hanno il coronavirus e che molto probabilmente lo supereranno senza rendersene conto». Ora però non è possibile seguire lo stesso metodo. «Abbiamo deciso che non è più utile fare il tampone a tutte le persone vicine ai contagiati se stanno bene. Saranno messe in isolamento a casa loro o in una delle strutture che stiamo per aprire». Tra queste c' è l' ospedale militare di Baggio, alla periferia Ovest di Milano. Le persone in quarantena a casa propria dovranno provare la febbre due volte al giorno, l' Ats chiamerà per conoscere lo stato di salute. In caso di febbre, anche minima, la persona verrà portata in ambulanza in ospedale per le analisi e per accertare così la positività al Covid-19. «Questa è la strategia che stiamo applicando ora». Gallera rassicura sulla fornitura dei vari dispositivi medici, non solo tamponi, che la Regione può acquistare senza ricorrere a gara vista la situazione. «Non esiste un' emergenza tamponi - rimarca il governatore Attilio Fontana - ci sono». La nuova strategia intende anche frenare le moltissime richieste di cittadini che vorrebbero essere sottoposti al test, nonostante le scarse probabilità di contagio.

Coronavirus, gli italiani tornati da Wuhan: “La notte non dormivamo per la paura”. Le Iene News il 26 febbraio 2020. Dopo la quarantena alla cittadella militare della Cecchignola, i nostri connazionali rientrati dalla Cina sono tornati a casa. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli hanno accompagnato cinque di loro verso casa: ecco che cosa ci hanno raccontato di quei terribili giorni trascorsi bloccati a Wuhan. Da giorni tutta Italia è col fiato sospeso per la diffusione del coronavirus: decine e decine di casi e alcuni morti hanno portato al massimo livello l’attenzione delle istituzioni, nel tentativo di circoscrivere quanto più possibile il contagio. Proprio nel giorno in cui sono arrivate le notizie sui primi contagi confermati in Italia, però, per qualcun altro è arrivato un sospiro di sollievo: gli italiani rientrati dalla Cina e messi in quarantena nella cittadella militare della Cecchignola potevano finalmente tornare a casa, nessuno era malato. Matteo Viviani e Riccardo Spagnoli, già in contatto con alcuni di loro che si trovavano proprio a Wuhan, sono allora andati ad aspettarli fuori dalla Cecchignola con una sorpresa: un furgoncino a 9 posti per riaccompagnare i nostri cinque amici a casa! Paolo, Lucio, Beppe, Michel e Fabio salgono in macchina con noi diretti finalmente dalle loro famiglie. Durante il viaggio, i cinque raccontano alla Iena la loro storia. “Siamo tecnici nella lavorazione della ceramica, eravamo andati a Wuhan per avviare una linea di produzione in una nuova fabbrica”, ci spiegano. I primi due di loro, Beppe e Fabio, arrivano in città il 7 gennaio: “La situazione era tranquillissima”. Le prime notizie su quanto stava accadendo arrivano infatti tra il 9 e il 10 gennaio. “All’inizio è partita la notizia di una polmonite, solo dopo si è saputo del virus”. E infatti due settimane dopo, il 22 gennaio, arrivano a Wuhan anche Lucio, Paolo e Michel. “Siamo partiti il 21, c’era un morto. Quando siamo arrivati il direttore della fabbrica ci ha detto: ‘Qui siamo tranquillissimi’”, raccontano. “La mia domanda è sempre stata: perché ci hanno permesso di entrare il 22 per poi bloccare tutto il 23 mattina?”. Da quel momento inizia il loro calvario: potete sentire il loro racconto di quanto è accaduto a Wuhan in quei giorni nel servizio qui sopra. “Non riuscivo a dormire per l’ansia, mi addormentavo solo all’alba”, ci dice uno di loro. “Non riuscivo a prendere sonno, pensavo a tutte le possibili via d’uscita per scappare da quella situazione”, aggiunge un altro. Dopo due settimane bloccati a Wuhan, però, la Farnesina è riuscita a portarli fuori e farli ripartire alla volta dell’Italia. Così i nostri cinque amici, insieme ad altri italiani, partono e atterrano a Pratica di Mare. Ad attenderli c’è la quarantena nella cittadella militare di Cecchignola. Diciassette giorni in attesa e speranza che nessuno avesse contratto il coronavirus. Finalmente arriva il via libera e possono tornare dalle loro famiglie, accompagnati da noi de Le Iene. È il momento degli abbracci e dei saluti: grazie allo sforzo dello Stato italiano – e con il nostro passaggio – per loro l’incubo è finito.

Iene.it: dal Nord Italia a Ischia è panico da coronavirus. Le Iene News il 25 febbraio 2020. A Iene.it con Giulia Innocenzi parliamo di panico da coronavirus. In collegamento ci sarà Teresa, l’ischitana che ha provato a bloccare i pullman in arrivo dal Nord sull’isola, l’infettivologo Matteo Bassetti che risponderà alle domande degli utenti, e il filosofo Stefano Bonaga, che prova a capire le ragioni del panico che si sta diffondendo in Italia. “Il coronavirus attualmente è un po’ più grave della comune influenza”. Risponde così Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive di Genova, alle domande dei nostri utenti che gli pone Giulia Innocenzi a Iene.it, il programma digital che va in onda prima de Le Iene. “E di coronavirus, come anche di influenza stagionale, si può morire. Per questo è importante cercare di evitare il contagio senza però creare allarmismi”, continua Bassetti. E alla domanda se le misure prese dal governo siano esagerate risponde: “Sì”. Un’immagine simbolo della paura collettiva del contagio è quella di Teresa, che ha urlato contro il pullman di turisti dal Nord per impedire che scendessero sull’isola. L’abbiamo intervistata per capire le sue ragioni. “Noi siamo un puntino in mezzo al mare e siamo terrorizzati se da noi dovesse scoppiare il coronavirus. Non abbiamo un ospedale attrezzato per reggere un’emergenza del genere. Allora meglio bloccare i turisti oggi per non avere un danno maggiore domani. Però prometto che non lo farò più”. L’immagine più iconica della paura è la fila fuori dal supermercato dove centinaia di persone con le mascherine aspettano il loro turno per entrare a fare provviste. La foto ha fatto il giro del mondo ed è finita persino sulla prima pagina del Wall Street Journal. Dentro il supermercato gli scaffali sono vuoti perché gli abitanti della zona rossa hanno paura di restare senza provviste. E vi abbiamo mostrato dei filmati che provengono proprio dall’area in quarantena. Martina che vive lì ha documentato per noi la situazione. Abbiamo cercato di capire cosa si innesca nelle persone in queste circostanze con l’aiuto del filosofo Stefano Bonaga. “Quando si ha paura di qualcosa la paura ti spinge nella direzione opposta a ciò che temi. Ma in questo caso non sai da dove arriva il pericolo, quindi si scatena il panico. È difficile gestire questa situazione”.

Coronavirus, giorno 1. "Raziono lo shampoo e vado in vigna, dove mi cacciano". Su La Repubblica il 26 febbraio 2020 Auro Michelon, 36 anni, architetto esperto in ecologia del paesaggio, vice presidente dell’associazione culturale Fuori Via, è un appassionato ricercatore di cammini storico culturali in Europa. L'isolamento raccontato da Vo' Euganeo. "Oggi niente lavoro, i miei colleghi fuori dalla zona rossa hanno deciso di interrompere le operazioni perché dicono, è tutto fermo". Sveglia alle 8.00, l’ansia è sempre presente, mi faccio la doccia accorgendomi di avere quasi finito l’unico tubo di shampoo in mio possesso e decido di razionare. Scendo in cucina e faccio la colazione, do da mangiare ai gatti, le crocchette sono quasi finite ma queste non le posso razionare, esco di casa per prendere un po' d’aria attirato dal rumore del trattore ma a parte il cigolare dei cingoli il rombo del motore, ancora nessuna voce umana, nel frattempo mi arriva un sms dall’assicurazione che comunica l’annullamento della pratica aperta il giorno prima per coprire economicamente il periodo di quarantena. Oggi niente lavoro, i miei colleghi fuori dalla zona rossa hanno deciso di interrompere le operazioni perché dicono, "è tutto fermo" ed è difficile approvvigionarsi dei materiali per proseguire le lavorazioni che sono in atto e hanno deciso di andare in vacanza per qualche giorno sperando che la situazione migliori. Decido di fare una camminata su per il colle per cercare di incontrare qualcuno dei miei vicini e chiedere se hanno notizie del tampone, il sentiero si inerpica a destra del mio cancello e conduce direttamente all’interno della vigna della proprietà confinante, sotto un celo plumbeo avvisto due persone che stanno lavorando alla vigna appena piantata, sono seduti sopra delle strane sedie con delle ruote per muoversi più agevolmente e legare la vigna al filo metallico. Sono silenziosi, appena mi avvicino quasi si spaventano, sono i miei vicini e mi conoscono, li saluto e a distanza di tre metri iniziamo una conversazione, le domande sono semplici: come state? che ne pensate della quarantena? Ci sono strade aperte? Ci sono negozi aperti in paese? Avete notizie del tampone? Mi raccontano che il tampone è stato diviso per zone e per giorni e noi di Cortelà abbiamo l’ultimo turno di mercoledì mattina, sono arrabbiati si sente dal tono di voce mi dicono che pensano di essere stati rinchiusi come animali e che sono terrorizzati dai risvolti economici anche perché possiedono un agriturismo che si riempie tre volte a settimana poi mi dicono che almeno la strada che porta a Valnogaredo, il comune vicino, è aperta e non ci sono controlli e da lì si può andare ad Este. Sono incuriosito e vado a vedere. Salgo su per la strada asfaltata e raggiungo il famoso incrocio, effettivamente è deserto! Ma presto i nostri sogni di libertà si infrangono ecco arrivare lentamente su per la strada un camioncino del comune munito di segnaletica e transenne subito dietro una pattuglia della polizia, scendono e subito chiedono a me e ad altri due agricoltori, "Che ci fate qua? Non potete stare qua!" e gli agricoltori rispondono, "ma noi abbiamo i campi in comune di Valnogaredo e dobbiamo andare a lavorare" e il dipendente comunale risponde, "voi non potete passare". Io e gli agricoltori ci ritiriamo per la paura di essere puniti. Proseguo la mia passeggiata, per fortuna siamo immersi in un paesaggio stupendo all’interno del parco dei Colli Euganei segnato dalla presenza di vigne, uliveti e mandorli appena in fiore. La strada prosegue dritta sulla cresta del colle Monte Versa da un lato, a destra la pianura e Vò dall’altro l’irraggiungibile libertà, l’Italia.

Coronavirus, il ritorno dell’Allegra Viandante: diario di bordo dalla Cecchignola. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia. «Poco fa ho detto ad una amica che mi sento come trasportata da mille mani calde e amorevoli. Quando chiudo gli occhi mi vedo fluttuare su una nuvola piena di tanta speranza, gioia e accettazione. Mi sento al sicuro qui. Stiamo bene e siamo circondati dal verde...». È tornata l’Allegra Viandante. Vi ricordate di lei? Era il nickname scelto da Roberta Scala, passeggera a bordo della nave da crociera Diamond Princess, che su Facebook durante i drammatici giorni della quarantena a Yokohama, in Giappone, teneva ogni giorno un diario in cui raccontava della sua personale “resilienza” contro il coronavirus. Roberta, siciliana di Pozzallo, era tra i 35 italiani (25 membri dell’equipaggio e 10 turisti) “prigionieri” sulla nave, fino a quando, sabato scorso, un Boeing dell’Aeronautica militare non ne ha riportati in patria 19, finalmente al sicuro. Ebbene, L’Allegra Viandante, dopo qualche giorno di silenzio, lunedì notte è tornata a scrivere ai suoi oltre 6 mila followers. Ma stavolta lo fa dalla quarantena della Cecchignola, la cittadella militare di Roma dove resteranno per 14 giorni i 19 italiani. E scrive di nuovo cose bellissime: «Ciò che sta accadendo è davvero ultraterreno, surreale. Sono cose che abbiamo visto solo nei film o abbiamo letto solo nei libri di fantascienza. Io a volte mi fermo con lo sguardo perso nel vuoto perché mi domando se tutto ciò stia succedendo davvero oppure mi sto trovando dentro una realtà parallela...».Qui in Italia pensava di trovare solo belle notizie e invece ha trovato i morti, le centinaia di contagi, però la ragazza è di tempra forte: «Una cosa è costantemente presente dentro di me: io non ho paura e non mi farò prendere dal panico. E lotterò con le unghie e con i denti per far si che chi mi circonda non si lasci prendere dallo sconforto. Non mi serve. Non ci serve. Adesso siamo qui a compiere il nostro dovere di cittadini, siamo sani, stiamo bene e monitorati. Il senso civico e di responsabilità è forte e la sicurezza di essere controllati costantemente analizzati e tamponati ci rende orgogliosi e fieri di poter contribuire al contrasto di questo virus». Ora dei 35 italiani della Diamond sono rimasti a Yokohama solo 14 membri dell’equipaggio, agli ordini del comandante Gennaro Arma. Oltre all’unico passeggero, un anziano di 72 anni, risultato positivo al coronavirus, che tornerà in Italia con un volo speciale a lui dedicato. L’Allegra Viandante, leggendo le cronache italiane, è preoccupata soprattutto per la terza età: «Facciamo in modo che le nostre mamme, papà e nonni siano al sicuro, ma anche i vicini di casa, gli anziani che vivono da soli, sono loro quelli più in pericolo. Facciamo in modo che i nostri amati vecchietti siano protetti da noi in primis. Io credo nell’unità e nella collaborazione, perché per quanto noi italiani possiamo avere mille difetti, nelle situazioni di crisi e di bisogno siamo sempre stati uniti e vittoriosi. Sempre». E infine: «Non perdiamo il controllo. Solo collaborando e restando uniti in un unico intento, possiamo vincere questa cosa. “Contenere e debellare”, questo deve essere il nostro nuovo motto». I suoi amici su Facebook la ringraziano pubblicamente: «Grazie per quest’iniezione di fiducia, ora in Italia ne abbiamo davvero bisogno». E le inviano cuori e baci in quantità. Lei ricambia con un ultimo pensiero, molto poetico: «Vorrei lasciarvi l’immagine di un fiore, si tratta del Biancospino che nel linguaggio dei fiori vuol dire speranza. Nutriamoci di Speranza». Con la «S» maiuscola, ma non sembra esserci un riferimento all’omonimo ministro della Salute.

Virus, le misure: così si cintura una città. Agenti in strada e corridoi per il cibo. Pubblicato domenica, 23 febbraio 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. Posti di blocco intorno ai paesi del contagio per impedire ai residenti di uscire. Corridoi «sterili» per far entrare derrate alimentari e farmaci garantendo così ai cittadini l’approvvigionamento delle merci indispensabili. È il piano di intervento messo a punto dal governo dopo le decine di casi di coronavirus registrati in Lombardia e Veneto per «cinturare i luoghi colpiti». Un provvedimento che — se l’epidemia dovesse aggravarsi come è presumibile visti i numeri di queste ore — mira a limitare la trasmissione del virus e prevede anche l’impiego dell’esercito proprio come accaduto prevenire atti di terrorismo. Una misura di massima emergenza che di fatto «sospende i diritti di libera circolazione delle persone» ma che si rende necessaria quando non ci sono altri modi per fermare la diffusione di un’epidemia. È il «modello Wuhan», dal nome della città cinese dove si è sviluppato per la prima volta il coronavirus e dove è tuttora in vigore un regime di sorveglianza strettissimo. Ogni area dove sono transitate occasionalmente o vivono persone risultate positive ai test, deve essere «isolata». Si crea dunque una vera e propria «zona rossa» interdetta alla circolazione. Le vie di accesso vengono controllate dalle auto di polizia e carabinieri in modo che nessuno possa arrivare o andare via, a meno che non ci siano delle particolari esigenze che dovranno comunque essere appositamente autorizzate dal prefetto. Nella prima fase il «cordone» di sicurezza sarà predisposto attorno a quei Comuni dove sono già state sospese le attività pubbliche, chiuse le scuole e gli uffici. Se l’epidemia dovesse estendersi saranno create aree più estese che potrebbero comprendere più Comuni in modo da poter meglio controllare le zone. Nelle «zone rosse» non possano arrivare i treni o altri mezzi pubblici. La circolazione all’interno dell’area interdetta viene limitata e nei casi più gravi completamente interdetta. L’ordinanza firmata dal ministero della Salute già prevede «l’interdizione delle fermate dei mezzi pubblici» nei Comuni dove sono state «sospese» tutte le attività pubbliche e chiuse le scuole e gli uffici. Qualora dovesse esserci un grave peggioramento della situazione e l’epidemia dovesse estendersi alle città dovrà essere valutata l’eventuale chiusura delle metropolitane. Per garantire ai cittadini l’approvvigionamento dei generi di prima necessità vengono fissati i cosiddetti corridoi «sterili» che servono a rifornire negozi e farmacie di cibo e medicinali. Sono percorsi di sicurezza controllati dalle forze dell’ordine dove possono transitare i fornitori — naturalmente equipaggiati con mascherine protettive e guanti (le tute vengono utilizzate soltanto da chi rischia di entrare in contatto con una persona positiva al coronavirus) — che vengono aperti in giorni e orari stabiliti dalle prefetture. Polizia e carabinieri stanno predisponendo turni per il controllo delle aree che devono essere «isolate». Al momento ogni questura e prefettura deciderà quanti uomini impiegare nei controlli ma se la situazione dovesse peggiorare sarà necessario impiegare l’esercito per garantire il presidio fisso e «liberare» così gli uomini delle forze dell’ordine. La presenza dei militari per «cinturare» le zone di rischio fornisce la sensazione di una gravissima emergenza e per questo il governo ha valutato a lungo questa eventualità. Il rischio per chi non rispetta le disposizioni è stato inserito già nella prima ordinanza del ministero della Salute che «sospendeva le attività nelle aree di rischio». E applica l’articolo 650 del codice penale secondo cui «chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a 206 euro». 

Coronavirus, fuori tutti: l’ospedale di Schiavonia sarà svuotato. Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. VO’ EUGANEO (Padova) «Ma è proprio sicuro? Guardi che è meglio se fa il giro largo». A mezzogiorno gli agenti della polizia locale e i volontari della protezione civile esercitano gli unici poteri dei quali dispongono, fino a ordine contrario. Fanno moral suasion, con gentilezza e senza troppi allarmismi. La loro auto non blocca neppure la strada provinciale da Este a Padova che diventa via Marconi quando attraversa Vo’ Euganeo, tremila e cinquecento abitanti, anche se oggi non se ne vede quasi nessuno. Nella piazza del municipio c’è il custode che si aggira sperduto, qualche giornalista che fa domande ai pochi passanti tenendosi a distanza da sicurezza, almeno due metri, meglio tre non si sa mai, quindi in ogni angolo c’è qualcuno che grida per farsi sentire. Molti sono già andati via. In piazza Risorgimento c’è un casolare con le galline lasciate libere che beccano nelle fioriere, e un aquilone abbandonato sul vialetti d’ingresso. Eppure non tutti hanno questa urgenza. Ogni colpo di tosse, ogni starnuto, come quello della signora Mirella Ruffi che attraversa la piazza con il girello, viene interpretato a seconda delle singole sensibilità. «Sono tutte cose nuove» dice lei dall’alto della saggezza dei suoi 84 anni. «Ormai il male fa presto ad arrivare. Ma bisogna fidarsi di chi ne capisce più di noi». Abita dall’altra parte della carreggiata. Proprio sopra a quella Locanda del Sole dove secondo una vox populi che potrebbe anche rivelarsi inesatta, sarebbe avvenuto il contagio del povero Adriano Trevisan, la prima vittima italiana del Corona virus. «L’aveva costruita lui, quella palazzina, come molte delle case qui intorno». L’ex muratore Trevisan ha trascorso i suoi ultimi quindici giorni all’ospedale di Schiavonia, struttura ultra moderna anche nell’aspetto inaugurata alla fine del 2014 che ha inglobato i nosocomi di Monselice, Este, e Montagnana. Trecento pazienti e 150 dipendenti fissi, altri duemila con l’indotto. I carabinieri allontanano chiunque oltrepassi lo spazio del parcheggio. Dietro il primo edificio è sorto nella notte un ospedale da campo. Quello vero non è più sicuro, e verrà svuotato. E’ la prima volta che succede. «Il luogo dove si va per essere curati diventa a sua volta pericoloso per chi ne è ospite e chi ci lavora» è la sintesi di Michele Magrini, infermiere di chirurgia e segretario locale della Uil. Alle 17.15 di venerdì le infermiere del reparto di ginecologia-ostetricia si stavano preparando alle visite quando i telefoni hanno cominciato a suonare. «Chiudete tutto. Non entra e non esce nessuno». Sono rimaste dentro per quasi quaranta ore, fino a quando i loro tamponi non hanno dato esito negativo. Medici e infermieri hanno dormito dove potevano, sulle barelle della sale operatorie, sulle brande, per terra. Le pazienti hanno mangiato, tutti gli altri sono rimasti a digiuno, perché neppure il passaggio tra reparti era più consentito. All’alba sono arrivati da Padova gli uomini del reparto infettivo incaricati delle analisi, con le loro tute bianche e le maschere di ossigeno a prova di contagio. Anche oggi, anche da fuori, il silenzio e il vuoto intorno all’ospedale creano una atmosfera surreale da brutto film post apocalittico. Ai lati dell’edificio principale si intravedono le tende mobili montate nottetempo, dove sono stati portati tutti i pazienti. Gli infermieri che escono alla spicciolata, da porte secondarie, vorrebbero dire ma non possono. Si chiedono come sia stato possibile una diagnosi così tardiva su un paziente anziano, ricoverato per una polmonite. La loro idea, maturata in anni di esperienza, che i protocolli sono fatti di parole, che diventano reali solo se provati sul campo. Un signora scende dalla sua utilitaria e affida al primo carabiniere con mascherina d’ordinanza un sacchetto. Si chiama Anna Andretto, è qui per suo suocero Ensio, ricoverato in nefrologia. Ha una polmonite, è reduce da un trapianto. Nel sacchetto ci sono i suoi farmaci anti-rigetto. Dietro di lei attende un’altra donna, madre di un medico in attesa del verdetto. Vuole dare al figlio una busta di prosciutto, non si sa mai che abbia fame. Tutto avviene senza scene di disperazione, senza angoscia. Non è come sembra, o come ci immaginiamo che dovrebbe essere. Qui come a Vo’ Euganeo, il paese degli undici contagiati, non c’è panico. Chi sta dentro, chi è coinvolto in prima persona, è più calmo di quel che gli si agita intorno. Giuliano Martini, il sindaco, è provato ma tranquillo. «Se chiuderanno l’accesso al paese, come sembra, faremo in modo di stare calmi. Non mi sembra che agitarsi serva a molto». Nella piazza deserta sotto al municipio, il suo compaesano Claudio Benatto, fabbro carpentiere, la prende con filosofia. «Almeno c’è spazio per parcheggiare». E la scorsa notte, nell’ospedale di Schiavonia, «tagliato fuori dal mondo» come dicevano tutti, il più inaccessibile e blindato d’Italia, nel giro di poche ore sono nati tre bambini. E c’è stato anche tempo per un brindisi, tra genitori, dottori e infermieri. C’era una mezza bottiglia di spumante, dimenticato nel frigorifero da Natale, e ormai sgasato. Ma aveva comunque un buon sapore.

Coronavirus, scontro politico. Salvini: «Blindare porti e confini». Il Pd: «Sciacallo». Pubblicato sabato, 22 febbraio 2020 su Corriere.it. Mentre l’emergenza coronavirus sta diventando sempre più forte, scatta anche lo scontro politico. Nella notte, dopo il primo decesso nel nostro paese, Matteo Salvini torna a far sentire la sua voce critica contro il governo e a chiedere di «blindare» porti e confini per l’emergenza coronavirus. Il leader della Lega esprime cordoglio ai familiari di Adriano Trevisan, prima vittima italiana dell’epidemia cinese e attacca: «Forse ora qualcuno avrà capito che è necessario chiudere, controllare, blindare, bloccare, proteggere?». Dura la reazione del Pd: «Salvini si sta veramente comportando da sciacallo», ribatte il ministro dei Trasporti, Paola De Micheli , arrivando all’auditorium della Conciliazione a Roma dove è in corso l’Assemblea nazionale del Partito democratico. La ministra ha poi subito raggiunto il Comitato operativo della Protezione civile sul coronavirus, presso la sede della protezione civile di via Vitorchiano a Roma. «Le divisioni della politica su questo tema mettono solo una grande tristezza — aggiunge Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato —. Lo scrivo da “politico”: evitate di dare retta ai miei colleghi politici, sul coronavirus vanno seguite solo le indicazioni del ministero della salute, degli operatori, dei medici, degli scienziati». «Chiediamo al premier Conte di venire a riferire in Parlamento sul tema del coronavirus», chiede la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. «È il momento di lavorare e non delle polemiche», aggiunge Meloni.«Fratelli d’Italia, sin dall’inizio, ha dato la sua massima disponibilità a collaborare perche questo è il momento di lavorare e non il momento delle polemiche. Ma chiediamo definitivamente una risposta chiara a quattro domande: qual è il tasso di contagio, quello di mortalità, si può essere infettati da persone asintomatiche, si può guarire. Noi vogliamo sapere tutto del corona virus altrimenti non potremmo dare una mano». Mariastella Gelmini, capogruppo di Forza Italia alla Camera afferma : «Le misure fin qui predisposte dal governo potrebbero rivelarsi adesso insufficienti. Occorre alzare subito il livello di guardia e passare dalle quarantene volontarie a quelle obbligatorie, coinvolgendo anche l’Esercito». E poi: «Dobbiamo inoltre valutare rapidamente, semmai la situazione si aggravasse ulteriormente, la sospensione del trattato di Schengen. Niente polemiche, ma servono soluzioni all’altezza». 

Giuseppe Conte e i suoi ministri i veri sciacalli del coronavirus. Franco Bechis il 23 Febbraio 2020 su Il Tempo. Ecco perché i veri sciacalli di questa drammatica vicenda sono Giuseppe Conte e i suoi ministri, e non chi solo oggi li critica pesantemente per avere sottovalutato i rischi non ascoltando i pressanti appelli dei veri esperti, i massimi virologi italiani che da fin e gennaio chiedevano quarantena e isolamento per chiunque fosse stato in Cina nelle settimane precedenti. Dicevano per una questione di pura immagine dell’esecutivo che l’ Italia era all’avanguardia sulla prevenzione del coronavirus. All’avanguardia lo è per davvero da venerdì 21 febbraio. Ma tristemente per numero di contagiati. Ecco perché i veri sciacalli di questa drammatica vicenda sono Giuseppe Conte e i suoi ministri, e non chi solo oggi li critica pesantemente per avere sottovalutato i rischi non ascoltando i pressanti appelli dei veri esperti, i massimi virologi italiani che da fin e gennaio chiedevano quarantena e isolamento per chiunque fosse stato in Cina nelle settimane precedenti. Per chi se le fosse dimenticate, ecco le irresponsabili parole pronunciate da Conte il 30 gennaio e il 4 febbraio scorso e dal ministro della Salute, Roberto Speranza, il 13 febbraio. Fa rabbrividire ascoltare all’indomani della esplosione del contagio che ha già coinvolto in Italia più persone di quel che è accaduto in ogni altro paese europeo tanta prosopopea, che è anche presunzione, e tanto astio nei confronti di chi chiedeva le sole cose ritenute utili dagli esperti: isolamento e quarantena per chiunque avesse avuto rapporti con chi era andato e venuto dalla Cina nelle settimane precedenti. Il solo professore Roberto Burioni l’ha ripetuto fino a sgolarsi, prima con  cortesia, poi in un modo pressante, decine di volte da fine gennaio. Ma non è stato ascoltato da Conte e dal governo, che in testa avevano una sola cosa che ormai è da ricovero psichiatrico: la mania di non fare favori a Matteo Salvini e alla Lega temendo di mettere a rischio in questo modo la loro poltrona (che per altro non c’entrava nulla con quelle misure sagge da adottare). Siccome le richieste di Burioni erano diventate richieste anche di governatori del Nord, che sono della Lega o del centrodestra, guai a darla vinta a loro. Se l’ossessione di Salvini è così grande da superare anche il dovere che Conte e i suoi avevano di proteggere la salute degli italiani, il problema è davvero gravissimo e va posto seriamente al Capo dello Stato Sergio Mattarella: chi ha questo chiodo fisso in testa va accompagnato dolcemente alle cure necessarie per liberarsene e nel frattempo deve essere sostituito anche con questa stessa maggioranza, o se ce ne saranno le condizioni con una maggioranza di emergenza nazionale più larga, da un Presidente del Consiglio che abbia a cuore la salute del paese più della sua pochette per i clic dei fotografi o per le sceneggiate organizzate davanti ai giornalisti debitamente avvertiti prima: “preparatevi in piazza Colonna che Conte fra poco forse va a prendere un caffè“. Basta con un premier solo di immagine- la sua immagine- e affrontiamo i bisogni e le urgenze con qualcuno in grado di non pensare solo a sè ma al bene di tutta la comunità. In queste ore le legittime critiche a un capo del governo che ha sbagliato gravemente sul coronavirus e a chi ha sostenuto le stesse irresponsabili tesi sono scambiate per atti di sciacallaggio. Non mi interessa quello che dice questo o quel politico di opposizione, che può anche darsi ne approfitti per ritagliarsi qualche vantaggio nei sondaggi (altro non è a disposizione) compiendo lo stesso identico errore di Conte. Ma le critiche sono legittime: avessero adottato i provvedimenti richiesti forse quel venerdì non sarebbe stato quello che abbiamo vissuto e che difficilmente ora argineremo. Gli sciacalli veri sono stati quelli che hanno voluto proteggere la loro funzione addirittura appuntandosi medaglie sul petto per meriti che non avevano e non la vita degli italiani. Di gente così non abbiamo davvero più bisogno.

Il buonismo giallorosso ripete gli errori cinesi. Il blocco dei voli ci ha impedito di tracciare gli arrivi. E minimizzare ha fatto il resto. Gian Micalessin, Lunedì 24/02/2020 su Il Giornale. I cinesi hanno Xi «Dada», ovvero «Zio» Xi Jinping, il leader supremo presidente del paese, capo del partito e comandante dell'esercito. L'Italia nel suo piccolo ha Giuseppe Conte, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza. La differenza è solo nell'ordine di grandezza. Qualitativamente i danni provocati dalla triade giallorossa sono gli stessi. Xi «Dada» e i vertici del Partito comunista cinese hanno per molte settimane ridimensionato la reale diffusione del Coronavirus mettendo a tacere il medico Li Wenliang - colpevole di aver denunciato la pericolosità del morbo - e manipolando i dati su contagio e ammalati. Per rimediare a quella nefasta sequela di errori, censure e omissioni hanno trasformato la provincia di Wuhan, e i suoi 58 milioni di abitanti, in una prigione a cielo aperto. Da noi le cose non vanno molto diversamente. In seguito alle drastiche misure assunte sabato sera dal consiglio dei Ministri i comuni della Lombardia e del Veneto assediati dal Coronavirus diventeranno delle piccole Wuhan presidiate dall'esercito e controllate dalla polizie. Le misure, per quanto estreme, sono - a questo punto - assolutamente indispensabili per evitare ulteriori diffusioni dell'epidemia. Ma si sarebbero potute facilmente evitare se il governo giallorosso, non avesse inanellato al pari dei cinesi una serie di devastanti errori figli del credo dei benpensanti di Pd e Leu e della grancassa del «Repubblica-pensiero». Errori che ci stanno regalando il triste primato di primo paese in Europa - e quinto al mondo - per casi di Coronavirus. Per capirlo bisogna partire da quell'8 gennaio quando l'epidemiologo Burioni lancia il primo allarme sull'arrivo dell'epidemia. Un allarme che - al pari di quello dello sfortunato collega cinese Li Wenliang - viene completamente ignorato. La madre di tutti gli errori è però la scelta, adottata dal governo il 31 gennaio scorso, di bloccare i voli in arrivo dalla Cina. La scelta ignora tutte le raccomandazioni diffuse in quegli stessi giorni dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. «Paghiamo il fatto spiega oggi il professor Walter Ricciardi membro del consiglio esecutivo dell'Oms - di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli, una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località». Un errore confermato dai dati di Germania, Regno Unito e Francia, dove grazie al mantenimento dei voli e all'imposizione della quarantena si registra oggi un numero di casi assolutamente insignificante rispetto a quelli del nostro paese. Ma per il governo giallorosso la scelta sbagliata è l'inevitabile conseguenza delle sue convinzioni ideologiche. Se, come impongono lo «Zingaretti pensiero» e il «verbo» di Repubblica, la quarantena è una bestemmia sinonimo d'intolleranza e segregazione razziale allora il blocco dei voli dalla Cina diventa l' ipocrisia indispensabile per aggirare i dettami scientifici ed evitare di applicarla. Nel nome del buonismo «politicamente corretto» il governo Conte sceglie, insomma, di marciare - al pari della Cina - non nei solchi della ragione, ma in quelli dell'ideologia. Ma non c'è da stupirsi. Il comunismo di Pechino e il buonismo «politicamente corretto» del governo giallorosso sono due facce della stessa ideologia. Un'ideologia che spinge i suoi fautori a stravolgere la realtà dei fatti e il buon senso per dar vita ad un universo illusorio dove la prevenzione invocata dai governatori del Nord e da scienziati come Roberto Burioni viene equiparata al razzismo, mentre l'imprevidenza diventa sinonimo di libertà e tolleranza. Un universo assolutamente folle e inesistente nel cui nome si sceglie, come in Cina, di mettere a rischio la vita dei propri cittadini.

Cosa sappiamo sulle morti legate al Coronavirus in Italia. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Cristina Marrone su Corriere.it. Finora, le sette persone decedute e risultate positive al virus erano tutte anziane e/o con patologie pregresse, in linea con gli studi epidemiologici finora effettuati. In Italia si contano finora 7 decessi per coronavirus: o, meglio, di persone positive al coronavirus. La precisazione è importante, perché tutte le vittime erano state ricoverate nei vari ospedali per patologie pregresse. Il nuovo virus ha dunque peggiorato un quadro già compromesso e questo è in linea con tutti gli studi epidemiologici fatti finora sui casi cinesi: il rischio di morte aumenta con l’età (per gli over 80 arriva al 14,8%) e se il paziente presenta condizioni mediche preesistenti, la cosiddetta comorbidità. Le probabilità di decesso salgono al 10,5% se il paziente che si ammala è cardiopatico; al 7,3% se ha il diabete; al 6,3% con malattie respiratorie croniche; al 6% con ipertensione; al 5,5% con tumore. Il rischio di morire se non si hanno patologie pregresse scende invece allo 0,9%. Insomma, di coronavirus si guarisce: il 98% ce la fa.

Le vittime italiane. Le prime vittime italiane erano già più o meno gravemente malate. In altre parole: da noi, finora, non c’è stato (e speriamo che non ci sia) un paziente come il medico di Wuhan che si è ammalato e poi è morto in corsia. E neppure ci sono stati, finora (e speriamo non ci siano), casi di pazienti sani che sono morti «di coronavirus». La prima vittima in Italia è un paziente veneto di 78 anni morto all’ospedale di Schiavonia la notte del 14 febbraio. Era ricoverato da 10 giorni con più patologie. Il giorno dopo è morta una donna di 75 anni di Casalpusterlengo (Lodi) che era stata all’ospedale di Codogno per una crisi respiratoria. Qui aveva incrociato il paziente 1, il 38enne ora ricoverato a Pavia ancora in gravi condizioni. La donna, anche lei pluripatologica, è poi morta a casa sua. Il tampone post mortem ha rilevato la positività al coronavirus. La terza vittima è una donna di 68 anni deceduta a domenica all’ospedale di Crema. Era ricoverata dal 18 febbraio nel reparto di oncologia ed è risultata positiva al tampone post mortem. Prima di arrivare all’ospedale di Crema la donna era rimasta a lungo ricoverata all’ospedale Maggiore di Cremona e il suo stato di salute era compromesso. Lunedì sono state rese note le ultime quattro vittime: un uomo di 78 anni deceduto all’ospedale Papa Giovanni XXI di Bergamo, ricoverato da tempo per altre patologie; un uomo di 88 anni di Codogno del quale ancora non si conoscono le condizioni di salute precedenti al decesso; un 80enne di Castiglione d’Adda portato all’ospedale di Lodi per un infarto. Ricoverato in rianimazione è poi morto dopo essere stato trasferito all’ospedale Sacco di Milano. E poi ancora un uomo di 62 anni, già affetto da altre patologie, di Castiglione d’Adda ma deceduto all’ospedale di Como.

L’impatto su un sistema indebolito. Il coronavirus è stata quindi molto probabilmente una concausa di morte: ha aggravato le condizioni di persone con un sistema immunitario debole. Del resto il virus è nuovo, nessuno è immune, nessuno ha gli anticorpi per combatterlo e a farne le spese sono le persone più fragili. A differenza dell’influenza non esiste un vaccino e neppure un farmaco per curare la polmonite molto profonda che talvolta può provocare. Come ci dicono i dati che quotidianamente vengono diffusi dal commissario all’emergenza Borrelli, al momento in Italia circa il 40% delle persone positive al coronavirus non presentano sintomi e non si accorgono neppure di essere stati contagiati. Non è assolutamente detto che si sviluppi la polmonite.

Coronavirus in Italia: 7 morti e oltre 200 contagi. Si continua a cercare il "paziente 0". Le Iene News il 24 febbraio 2020. Continua drammaticamente ad aumentare il numero dei morti e dei contagi. Preoccupazione a Milano dopo il caso di un medico del Policlinico e anche per l’economia (giù la Borsa). Nuove ipotesi sul “paziente zero”. Paesi esteri sconsigliano di visitare l'Italia, Oms: "Molto preoccupati". Continua ad aumentare in modo drammatico la conta dei morti per il coronavirus in Italia: dopo un uomo di 84 anni di Bergamo, uno di 88 di Caselle Landi (Lodi), paziente oncologica ricoverata a Brescia, la settima vittima è un paziente di 62 anni di Castiglione d'Adda ricoverato all'ospedale di Como con precedenti problemi di salute. Intanto i contagi continuano a salire, superando quota 200 (al momento sono 229): un turista italiano è inoltre risultato positivo al virus a Tenerife. È questo il primo bollettino dell’epidemia per il nostro paese dopo un weekend che ci ha visto entrare improvvisamente nell’emergenza del coronavirus, come terzo paese al mondo per numero di casi dopo la Cina e la Corea del Sud. La notizia della morte di una donna di Crema è stata smentita da Regione Lombardia. L’Italia si ritrova con 50mila persone isolate in una quarantena di fatto nell’epicentro dell’epidemia nel basso lodigiano (sopra nella foto, la gente in fila sperando di fare la spesa a Codogno); scuole e università chiuse nel Nord, Duomo e Scala di Milano chiusi, Carnevale di Venezia annullato, sport e serie A sospesi e molte altre misure restrittive prese in particolare in Lombardia per limitare la possibile diffusione del virus nei luoghi di aggregazione (chiusi cinema, musei e anche bar e pub ,dopo le 18: qui per tutte le decisioni prese domenica 23 febbraio). La Borsa di Milano registra intanto pesanti contraccolpi per tutta l'economia, chiudendo la giornata in negativo di oltre 5 punti percentuali. E le notizie sul diffondersi del contagio in Italia iniziano a preoccupare anche all'estero. La Francia ha invitato chi rientra da Lombardia e Veneto a porsi in quarantena. Altri Paesi, come l'Irlanda e Israele, hanno invece sconsigliato di recarsi in Italia. Germania, Regno Unito e Stati Uniti non hanno ancora applicato misure nei confronti del nostro Paese, ma la diffusione del coronavirus rischia di avere pesanti ripercussioni sull'economia e in particolare sul turismo. L'Oms, l'organizzazione mondiale della sanità, si è detta "molto preoccupata" per quanto sta avvenendo in Italia in questi giorni.

I MORTI. Le vittime in Italia sono sette e sembrano confermare i dati sull’andamento della malattia che sembra colpire di più le persone più anziane e quelle con altre patologie. Sono morti per coronavirus: Adrian Trevisan, 78 anni, venerdì nell’ospedale di Schiavonia (Padova); Giovanna Carminati, 77 anni, di Casalpusterlengo (Lodi), sabato, gravemente malata da tempo: la positività al coronavirus è arrivata da un test post mortem; Angela Denti Tarzia ieri, domenica, a Crema, 68 anni, ricoverata in oncologia e con una situazione già gravemente compromessa; un uomo di 84 anni ricoverato all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo per patologie pregresse, e uno di 88  di Caselle Landi (Lodi). Delle ultime due vittime si è saputo stamane. E' arrivata la notizia della morte di un uomo di 80 anni ricoverato all'ospedale Sacco, e infine di un uomo di 62 anni in ospedale a Como, con precedenti seri problemi di salute.

I CONTAGI. I casi di coronavirus in Italia sono saliti dai 150 di ieri a oltre 229: almeno 172 in Lombardia, 32 nel Veneto, 18 in Emilia Romagna, 4 in Piemonte e uno nel Lazio (all'Istituto Spallanzani dove due pazienti sono nel frattempo guariti). Aumenta la preoccupazione a Milano con metropolitana, stazione ferroviaria e treni semideserti. Molti supermercati sono stati “assaltati” con scaffali rimasti semivuoti. Alcune aziende hanno scelto di lasciare i lavoratori a casa scegliendo lo “smart working” via computer da casa per contenere la diffusione del virus come alla Torre Unicredit di piazza Gae Aulenti. Qui c’è anche la situazione segnalata da un dipendente che ha i genitori entrambi positivi al coronavirus (non vive con loro). Allerta soprattutto per un medico del Policlinico di Milano, dermatologo e docente universitario, primo contagio all’interno del Comune. Ricoverato al Sacco e trovato infetto, è in buone condizioni ed è stato già dimesso. Si temono eventuali contagi tra conferenze e lavoro in reparto.

L’EPICENTRO DELL’EPIDEMIA. Continua intanto la ricerca del “paziente 0” da cui sarebbe partita l’epidemia: potrebbe esserci una connessione tra il paese di Vo’ (Padova), l'epicentro veneto, e Codogno (Lodi), quello lombardo. Un agricoltore 60enne di Albettone (Vicenza), frequentatore dei bar di Vo', era stato a Codogno e in altri centri del lodigiano e accusa ora sintomi influenzali.

NEL MONDO. In totale si contano oltre 2.600 morti e 79 mila contagi: in entrambi i casi la stragrande maggioranza è in Cina, da dove è partito il coronavirus, in particolare dalla provincia dello Hubei e dalla città di Wuhan. Qui l’epidemia sembra iniziare a rallentare, seppur sempre con numeri altissimi, mentre a in Corea del Sud l’allerta è stata innalzata a livello massimo. Preoccupazione anche in Giappone con 162 casi (senza contare però i 691 sulla nave da crociera Diamond Princess ormeggiata a Yokohama).

LE IENE E L'EMERGENZA. Anche noi vogliamo contribuire alle misure per contenere la diffusione del virus: dopo 24 anni Le Iene andranno in onda per la prima volta senza pubblico in studio nelle prossime puntate di martedì 25 e giovedì 27 febbraio. Iene.it continua a seguire in diretta l'evolversi dell'emergenza. Torneremo a parlarvene anche in onda a Le Iene martedì dalle 21.20 su Italia1, con servizi dedicati alla diffusione del coronavirus.  

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2020.

«Mi ha chiamato una dottoressa infettivologa di Milano. Mi dice: come sta? Come si sente? Io le dico che sto bene, e lei: mi dispiace, è risultato positivo al test».

Reazione?

«Sono rimasto basito per qualche secondo e ho guardato l' orologio. Forse volevo fissare nella memoria un momento così importante, erano le 11.53 di domenica mattina. Ho fatto un respirone e mi sono detto: stai tranquillo e cerca di essere razionale. E così ho cominciato a convivere con lui».

«Lui» è il Covid-19. L' uomo che parla, ha 37 anni, vive in uno dei Comuni della zona rossa e chiede di scrivere soltanto le sue iniziali, A.F.

Come ha contratto il virus?

«Sono un giocatore del Picchio Calcio Somaglia, la stessa squadra di calcio di Mattia, il "Paziente Uno" ricoverato all' ospedale Sacco in condizioni gravi. Sabato 15 ha giocato con me, sono stato seduto accanto a lui. Quando si è saputo che era in ospedale, venerdì, tutti quanti ci siamo messi volontariamente in isolamento e sabato ci hanno fatto i tamponi».

Che esiti hanno avuto?

«Alcuni ancora devono arrivare. Per adesso siamo risultati positivi in sei, più Mattia. Siamo tutti in quarantena nelle nostre case. Nessuno di noi per ora è stato così male da essere ricoverato. Qualche sintomo, qualche linea di febbre, ma niente di serio. Io sono sposato, ero convinto di aver contagiato mia moglie e invece, con mia grande sorpresa, il suo tampone è negativo».

Quali sono le precauzioni che le hanno suggerito di prendere?

«Rimanere in casa, non avere contatti ravvicinati con altre persone, a partire da mia moglie che come me è in quarantena. E poi niente sudate, tachipirina all' occorrenza, chiamare subito il 112 se i sintomi si aggravano e misurare la febbre più volte. Io esagero un po': la misuro ogni ora».

Ed è stabile?

«Per adesso varia fra i 37.1 e i 37.8. Non ho difficoltà respiratorie e ogni tanto mi viene un colpo di tosse, ma niente di che».

È in contatto con gli altri compagni di squadra contagiati?

«Si, certo. Abbiamo creato un gruppo WhatsApp fantastico. Ci scriviamo difficoltà, dettagli che preoccupano o divertono. È diventato un passatempo».

A proposito. Come scorre il tempo in quarantena?

«Ascolto musica, parlo al telefono, mando messaggi, e poi non so più quanto calcio e documentari ho visto. Me ne sto a guardare il cane che gioca con mia moglie in giardino. Vorrei tanto abbracciarla ma non si può».

Riuscite a rimanere a distanza di sicurezza?

«Dormiamo in stanze separate e usiamo bagni diversi. Io disinfetto il mio ogni volta che lo uso. Stiamo rigorosamente a più di due metri di distanza. Mangiamo e parliamo in lontananza».

Avete chi vi porta il cibo?

«Fino a ieri (domenica, ndr ) i miei suoceri, lasciavano i sacchetti davanti a casa. Poi è arrivato il risultato del mio test e sono finiti anche loro in isolamento quindi per adesso saccheggiamo le scorte del freezer, poi si vedrà».

Quante persone saranno controllate per essere state a contatto con lei?

«Una settantina. Ma ho saputo dall' infettivologa una cosa surreale: pur di farsi fare il tampone qualcuno che mi conosce si è inventato contatti recenti con me mai avvenuti».

Il Coglionavirus. Un signore filippino, forse scambiato per cinese, è stato colpito al volto in un supermercato. Costretto a giustificarsi: “Io sono filippino, non sono cinese”. Ormai siamo alla follia #coronavirus. Da leggo.it il 25 febbraio 2020. Quando la psicosi per il Coronavirus si unisce all'ignoranza e all'inciviltà, accadono le cose più gravi e impensabili. Un cittadino di nazionalità filippina, infatti, è stato aggredito in un supermercato da un uomo che, con tutta probabilità, lo aveva scambiato per un cinese. 

In un filmato che sta circolando sui social nelle ultime ore, si vede un uomo aggredire il cittadino filippino con un violento pugno al volto, per poi cercare di colpirlo ancora. A quel punto l'uomo aggredito prova a difendersi mentre altri clienti e alcuni dipendenti del supermercato li separano. «Vaffanculo, io sono filippino, non cinese», la risposta dell'uomo vittima di un'aggressione priva di alcun senso. L'aggressione ricorda molto quanto accaduto due settimane fa ad Assemini (Cagliari): un uomo filippino, scambiato per un cinese (nonostante i tratti somatici tra le due popolazioni siano piuttosto differenti), era stato aggredito su un bus da tre ragazzi, poi fuggiti.

Da repubblica.it il 24 febbraio 2020. È caos nella circolazione ferroviaria con il nord Italia a causa dell'allarme coronavirus. Il traffico della linea convenzionale Milano-Bologna fra Lodi e Piacenza, comunica Ferrovie dello Stato, è sospeso dalle 13.30 per controlli sanitari e attività precauzionali di sanificazione dei locali tecnici, nell’ambito della stazione di Casalpusterlengo, dai quali si gestisce una parte del traffico della linea. I tempi tecnici previsti dai protocolli sanitari prevedono la riapertura dei locali nella notte. È in corso la riprogrammazione dei servizi. I treni a media e lunga percorrenza della linea AV Torino - Milano - Roma - Salerno stanno subendo cancellazioni o deviazioni di percorso via Verona/Padova, con un allungamento medio dei tempi di viaggio superiore ai 90 minuti. Per i treni regionali sulla linea Milano - Bologna e Bologna - Poggio Rusco sono possibili cancellazioni e limitazioni. Attivati servizi sostitutivi con autobus fra Lodi e Piacenza e fra Bologna e Poggio Rusco. Rimane interrotta la linea AV Milano - Bologna in attesa del ripristino dell'infrastruttura dopo l'incidente del 6 febbraio. La linea tra Piacenza e Lodi è proprio quella su cui è stata deviata anche l'alta velocità dopo il deragliamento delle scorse settimane a Ospedaletto lodigiano. "Considerata la possibilità del verificarsi di analoghe esigenze di controlli sanitari", si legge in una nota di Rfi, "in via precauzionale, l’offerta dei servizi di trasporto da domani, martedì 25 febbraio, sarà ridotta, anche in funzione della domanda di trasporto prevista dalle imprese ferroviarie. I programmi di circolazione saranno pubblicati nelle prossime ore sui canali delle imprese ferroviarie". Trenitalia riconoscerà il rimborso integrale per i clienti che hanno acquistato fino al 23 febbraio 2020 un biglietto per viaggi su Frecce, Intercity, Intercity Notte e Regionale. La società, si legge in una nota, riconoscerà il rimborso per qualsiasi viaggio e indipendentemente dalla tariffa acquistata, in caso di rinuncia al viaggio per Coronavirus. La richiesta deve essere presentata entro il 1 marzo 2020. Più in particolare, i biglietti per viaggi su Frecce, Intercity, Intercity Notte e per viaggi misti Frecce, Intercity, Intercity Notte e Regionale, saranno rimborsati con un bonus elettronico di importo pari al valore del biglietto acquistato, utilizzabile entro un anno dalla data di emissione del bonus stesso. La richiesta può essere effettuata: compilando l'apposito web form disponibile su trenitalia.com; presso qualsiasi biglietteria. Per i biglietti del trasporto regionale, il rimborso avrà luogo: in biglietteria, per biglietti acquistati su qualsiasi canale di vendita Trenitalia, con rimborso immediato, con riaccredito sullo strumento di pagamento elettronico utilizzato all'acquisto o in denaro fino a disponibilità di cassa della biglietteria (altrimenti si procederà con la compilazione del modulo da parte del viaggiatore). Per i biglietti acquistati tramite il Call Center, il sito trenitalia.com oppure App Trenitalia è possibile richiedere il rimborso anche telefonando al Call Center Trenitalia ai numeri 06.3000 oppure 892021. Anche Italo dispone rimborsi per i clienti che rinunciano ai viaggi, da realizzarsi entro il 1 marzo nelle zone interessate dal contagio epidemiologico. Sono previste le seguenti condizioni di rimborso: sono rimborsabili i biglietti acquistati fino al 23/02/2020 (incluso) per viaggi dal 24/02/2020 al 01/03/2020 (incluso). Tratte rimborsabili: tutti i viaggi da / per le zone impattate del Nord Italia - restano al momento quindi escluse Campania (Salerno e Napoli), Lazio (Roma) e Toscana (Firenze). Il Cliente, prima dell'orario di partenza, potrà richiedere il rimborso integrale del biglietto tramite Voucher utilizzabili per nuovi acquisti di biglietti relativi a viaggi da effettuarsi entro il 31/07/2020. In tal caso dovrà utilizzare i canali di contatto 060708 o inviare la richiesta via mail all'indirizzo cancellazioni ntvspa.it indicando il codice biglietto nell'oggetto. L'erogazione del voucher avverrà entro 30 giorni dalla richiesta. Resta inteso che il cliente potrà in alternativa richiedere in autonomia sul sito italotreno.it il rimborso secondo le proprie condizioni tariffarie di contratto. 

Mario Evangelisti per ''Il Messaggero'' il 24 febbraio 2020. Dall'aeroporto di Malpensa al centro massaggi gestito da cinesi, dove erano passati sia i due turisti di Wuhan ricoverati allo Spallanzani, sia i quattro di Taiwan che, tornati a Taipei, hanno scoperto di essere positivi. Si seguono tutte le piste per capire chi abbia originato i focolai più importanti del contagio, tra Lombardia e Veneto. Ma la verità è che probabilmente non arriveremo mai alla soluzione, quando meno non a tutte. Secondo gli esperti, però, sarebbe utile ricostruire la catena del contagio, probabilmente arrivato alla terza generazione dei casi: significa che è arrivato alla fine di gennaio, qualcuno è stato contagiato ma con sintomi poco significativi, e ogni settimana i contagi potrebbero essere raddoppiati. Nel Veneto ci sono tre focolai, ma non c'è neppure un paziente zero. In sintesi: non si sa chi abbia portato il coronavirus dalla Cina. Il primo epicentro è quello di Vo' Euganeo, paesino in provincia di Padova, 19 contagiati tra cui Adriano Trevisan, 78 anni, il primo morto per Covid-19 in Italia. Per chi sta investigando sul contagio è un rompicapo poiché nessuno degli infetti è mai stato in Asia. Il sospetto era caduto su un gruppo di cittadini cinesi, che hanno un laboratorio in paese e che frequentavano lo stesso bar di Trevisan. Ma secondo i test nessuno di loro è positivo. C'è però un particolare da chiarire: dopo che i carabinieri sono andati a prendere gli otto cinesi, tra i vicini c'è chi assicura di avere visto una donna fuggire. Potrebbe essere scomparsa semplicemente perché irregolare. Potrebbe essere la paziente zero? Improbabile, visto che nessuno degli altri cinesi è positivo. Altro mistero: Mira, provincia di Venezia, contagiato un pensionato che per due volte era stato in ospedale, prima a Mirano, poi a Dolo, infine a Padova. A Dolo risultano altri tre contagiati, tutti del personale sanitario dell'ospedale. E anche in questo caso non c'è una traccia concreta per capire chi abbia contagiato il pensionato. Stesso rompicapo per una coppia di ultraottantenni di Venzia. C'è solo una certezza: i tre focolai non sono collegati tra loro. Dove ormai la ricerca del paziente sembra un puzzle che non può essere ricomposto è a Codogno e nella provincia di Lodi, focolaio più vasto di tutta Italia. La pista iniziale del manager tornato dalla Cina che, in una cena, poteva aver contagiato il trentottenne ricoverato in terapia intensiva, è sfumata. Più test hanno dimostrato che non è lui il paziente zero. Ormai, con il coronavirus che in Lombardia è arrivato fino a Milano, appare impossibile trovare il paziente zero e perfino inutile: troppo tardi per arginare il contagio. Su questo però dissente il governatore della Lombardia, Attilio Fontana: «Non abbiamo cessato di cercare, vogliamo ricostruire la catena del contagio. Certo, più passa il tempo, più diventa difficile». C'è un paradosso: nell'ospedale di Codogno decisero di sottoporre al test del coronavirus il trentottenne con la febbre alta e difficoltà respiratoria, solo quando la moglie ricordò che era stato una decina di giorni prima a cena con l'amico tornato dalla Cina. Poi gli approfondimenti hanno dimostrato che il manager non c'entrava nulla, ma senza il suo viaggio in Asia non si sarebbe acceso il campanello di allarme e non sarebbe stato svolto il primo test che ha poi messo in moto la macchina della ricerca e che ha fatto scoprire decine e decine di casi in Lombardia. Probabilmente anche l'intuizione dei medici del Veneto, che hanno trovato i due positivi di Vo' Euganeo, è scattata dopo il caso di Codogno. Insomma, non era il paziente zero ma ha contribuito a scoprire gran parte dei casi di coronavirus italiani.

Coronavirus, nelle case del sesso psicosi virus. Rita Bartolomei per quotidiano.net il 24 febbraio 2020. Ma nei centri massaggi, chi controlla? Sì, dietro quelle vetrine che – come dimostrano decine e decine di inchieste, da Trento a Pescara, passando per Emilia Romagna, Lombardia e Lazio – spesso nascondono saloni a luci rosse, con giri di prostituzione molto proficui. Tra le ultime operazioni quella di Monfalcone (Gorizia), sigilli a sei attività e un arresto.

Contagio inarrestabile, come difendersi. «Tanti centri, ad esempio in Veneto, già dalle vacanze di Natale hanno chiuso le saracinesche – fa notare un investigatore –. Psicosi da coronavirus? Può essere. Ma sono aumentati molto anche i controlli. Di solito chi lavora qui è regolare, i tempi di permanenza da noi sono medio-lunghi. Anche se le ragazze cambiano spesso, passano da una città all’altra. Il vero problema sono le case». Appartamenti in tutta Italia, spesso intestati a prestanome compiacenti, trasformati in prigioni. Giovanissime segregate e ritmi da schiave del sesso, da mattina presto a notte fonda. Irregolari dalla provenienza ignota. Eccolo, il vero rischio. Profilo basso, prestazioni scontate, presenza capillare nelle città. Dall’organizzazione criminale al problema di salute il passo è breve.

Comuni infetti blindati, salta lo sport: le misure speciali. I controlli sanitari sono praticamente impossibili, ammettono gli inquirenti: «Questo è un tema che riguarda in genere tutto il mondo della prostituzione e anche le nigeriane, unica etnia che si trova ancora su strada». Le attività delle case chiuse cinesi di solito sono pubblicizzate in rete. Arduo dimostrare il reato di sfruttamento. Di certo le ragazze non denunciano. Escono di casa solo se autorizzate. Il traffico si rigenera in tempi rapidissimi, più forte delle indagini che pure colpiscono pesante. Inchieste dai nomi fantasiosi – vedi ‘Lussuria orientale’ –, processi e intercettazioni che non lasciano dubbi. Call center per smistare le richieste. In tasca alle ragazze, guadagni decurtati delle spese, dal supermercato alla farmacia. Da Trento a Pescara, da Modena a Milano a Prato a Savona, 30 euro per un happy ending, immaginate voi cosa voglia dire quel finale felice che sembra la parola in codice più ripetuta, a tutte le latitudini. L’ultima relazione della Dia (direzione investigativa antimafia) al capitolo criminalità orientale segnala che «lo sfruttamento della prostituzione, in particolare, mostra segnali evolutivi ed oggi non si rivolge solo a favore della clientela cinese». Lo sa bene la moglie che a Nuoro si era presentata con il marito in un centro massaggi e poi aveva avvisato le forze dell’ordine: «Altro che terapie! A lui hanno proposto ben altro». Salone sequestrato, il processo è iniziato pochi giorni fa.

Umberto Rapetto per infosec.news il 24 febbraio 2020. Tutti a chiedersi da dove sia cominciata la italianizzazione del coronavirus, tutti a dare la caccia al “paziente zero” quasi fosse la Titina che nella storica melodia non è trovata da chi la canta. La minaccia del contagio – esasperata da una fraintesa libertà di parola sulle piattaforme social – ha monopolizzato ogni conversazione ed è riuscita ad ammutolire chi a tavola con gli amici parlava di pietanze in un loop gastroculturale. In mezzo a tante chiacchiere (ma nella piena consapevolezza che di chiacchiere si trattava) un amico dermatologo – forse triste per l’assenza di bubboni che in altre pestilenze per lui sarebbe stati forieri di business – ha indotto i commensali ad una riflessione elementare ma suggestiva. Il tema è lo stesso che nel frattempo è stato ripreso da qualche quotidiano che punta il mirino su un ipotetico centro massaggi dove sarebbe scoccata la scintilla. Un centro massaggi? Uno? Mentre chiudiamo scuole, tribunali e stadi, nessuno (non solo adesso ma anche e soprattutto prima) si è mai preso la briga di andare a mettere il naso (il naso sicuramente no…) in uno dei tanti “esercizi commerciali” che erogano prestazioni di varia natura che sarebbero in qualche modo legate alla “wellness”. Se si digita “centro massaggi” all’interno di un motore di ricerca che sia capace di localizzare quelli nei dintorni dell’utente potenzialmente interessato ad “opportunità di benessere”, ci si accorge che la mappa della città è costellata da una miriade di “segnalini” pronti ad indicare nei rispettivi punti la presenza di una “struttura” corrispondente alla richiesta. Avvezzi un tempo ad immaginare il “focolare domestico” (riscoperto dai cittadini delle località in quarantena), dinanzi allo schermo del computer o al display dello smartphone ci si accorge della sbalorditiva densità di “angeli del focolaio”. E se si pensa che molte attività di quel genere non amano promuovere le proprie iniziative commerciali (non solo la pubblicità è l’anima del commercio), è facile comprendere che larga parte delle operatrici non compaiono nella ricerca online o almeno non in quella “tradizionale”. Un qualunque controllo sulla liceità delle imprese in questione e magari sulle condizioni igienico sanitarie oggi arriverebbe tardi e sono in parecchi ad essere curiosi di conoscere le statistiche (non mancano mai) degli accertamenti ispettivi svolti dagli organi di polizia e dalle autorità sanitarie sullo specifico settore. In un momento in cui tutti strombazzano la prevenzione come fede assoluta, è legittimo domandarsi cosa abbiano fatto prima che scoppiasse il caos di questi giorni. Complice il periodo carnevalizio, gli spargitori di terrore si sono preoccupati di raccomandare l’acquisto e l’uso mascherine che sono immediatamente a ruba (con l’unico vero risultato di recare un danno significativo alle coppie scambiste e ai verniciatori delle carrozzerie automobilistiche) e di lavarsi attentamente le mani. La gente, nel frattempo, bistratta e malmena i cinesi colpevoli di essere cinesi, e sta alla larga dai “listolanti” che un mese fa erano sempre gremiti. Chissà se la fuga da certi contesti etnici ha riguardato anche quei locali finora indisturbati e dove ora farà capolino la proposta di un “massaggio rilassante all’Amuchina”…. 

(ANSA il 24 febbraio 2020) - "In quest'aula tra magistrati, imputati e avvocati siamo spesso decine di persone, una situazione ambientale che contrasta con la circolare della Corte d'Appello di Milano" sull'emergenza coronavirus. Così il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha chiesto e ottenuto dai giudici della settima penale il rinvio del processo milanese 'Ruby ter' a carico di Silvio Berlusconi e altri 28 imputati. Il pm, infatti, ha ricordato ai giudici che le direttive della presidenza della Corte d'Appello richiedono una distanza minima tra le persone in aula di due metri e che si "entri in aula 3/4 persone alla volta". La Procura, tra l'altro, aveva già avvisato i difensori ieri, tanto che in aula stamani erano presenti solo tre avvocati e 7/8 persone in tutto. Il presidente del collegio Marco Tremolada inizialmente ha spiegato che "i servizi pubblici devono proseguire, salvo che per i lavoratori provenienti" dalle 'zone rosse'. Poi, però, ha deciso di rinviare al 9 marzo anche per l'assenza dei testimoni. Tanti procedimenti, nel frattempo, vengono rinviati stamani in Tribunale a Milano.

R.Tro. per “il Messaggero” il 24 febbraio 2020. Sull'altare il parroco ha comunicato le indicazioni ricevute dal vescovo ausiliario, ma in realtà nessuno ieri aveva voglia di scambiarsi le mani in segno di pace. Niente di personale, ma anche nelle chiese si corre ai ripari per prevenire possibili contagi da coronavirus. A parte i casi limite di chi, assiduo frequentatore della messa domenicale, ieri ha deciso di dare forfait, i fedeli hanno preso alla lettera le indicazioni ricevute: niente mani nell'acquasantiera, niente scambio della pace e, al momento della comunione, prendere l'ostia con le proprie mani. Le misure già disposte al Nord, da ieri sono ufficiali anche a Roma, anche se la gente già nelle settimane scorse aveva cominciato ad evitare contatti e ad usare accorgimenti durante le funzioni religiose. «Noi andremo a messa stasera, così c'è meno gente, ci mettiamo in un angolo e non diamo la mano a nessuno, nemmeno facciamo la comunione», così raccontava ieri una coppia di una certa età che frequenta la chiesa di San Giovanni Battista de Rossi all'Appio Latino. Poi è arrivata la comunicazione, ognuno è dispensato dallo stringersi la mano. Le acquasantiere sono vuote, le ciotole rivolte al contrario. I banchi sono un po' più vuoti del solito. Le persone anziane, chissà, evitano di frequentare i luoghi pubblici, dove possono venire a contatto con altre persone. Chi è cagionevole in questo periodo evita proprio di andare in chiesa, una preghiera a casa funziona lo stesso. E comunque, per chi è malato o anziano, la parrocchia di San Giuda Taddeo permette di seguire la messa in streaming: basta cliccare il bottone rosso presente in alto o richiedere in Segreteria parrocchiale il ricevitore radio, sta scritto sul sito.

Il Nord chiude. L'epidemia si allarga. Alessandro Sallusti, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. A buoi scappati chiudono le stalle. Affidarsi alla prevenzione fai da te, lanciare messaggi buonisti e tranquillizzanti, non obbligare alla quarantena chiunque - cinese o italiano - provenisse dalla Cina è stato un errore che oggi paghiamo caro. Il virus è arrivato a Milano e tutto il Nord Italia è sull'orlo della paralisi. Già questo - al di là dei problemi sanitari che restano comunque prioritari - è un danno enorme (molte aziende si stanno preparando a operare a scartamento ridotto già da domani). Chi non ha chiuso bene la stalla oggi non trova di meglio - come ha fatto ieri la ministra Paola De Micheli - che dare dello sciacallo a Salvini che ha denunciato ritardi e omissioni. Mi spiace per la ministra, ma la responsabilità di ciò che sta succedendo e che succederà non è degli ex ministri ma di quelli in carica, cioè anche sua. Evidentemente hanno sbagliato, e se si preoccupano delle parole di Salvini vuole dire che stanno continuando a sbagliare, solo che a pagare non sarà Salvini, ma tutti noi. Ieri il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità ha detto che il punto debole del mondo, rispetto alla diffusione del virus, sarà presto l'Africa. Facciamo finta di niente o chiudiamo i porti? Gli crediamo o lo bolliamo come sciacallo razzista (che è pure un signore di colore)? Che senso ha «limitare i rapporti sociali in città», come ha chiesto ieri il sindaco di Milano Beppe Sala, se poi non «limitiamo» i rapporti con possibili nuovi portatori più o meno sani? Si dice che la destra cavalchi le paure. È che le paure non sono infondate e da un giorno all'altro, come dimostra il Coronavirus, diventano realtà. E allora casca l'asino buonista, il cui raglio diventa insopportabile. Questo asino non accetta che la strada da prendere per salvarsi porti a destra che più a destra non si può: rigore, misure speciali, severità nei controlli, intransigenza. Sospendiamo quindi la ricetta Bersani di una politica «larga e plurale», come lui ama dire. Serve oggi una guida «stretta e singolare», che prenda decisioni anche dolorose e impopolari e se ne assuma le responsabilità. È quello che mi auguro avrà il coraggio di fare, all'occorrenza, il sindaco di Milano, perché sia chiaro a tutti: se cade Milano, cade il Paese. Meglio chiudere per un po' la metropolitana che chiudere a lungo l'Italia.

Coronavirus in Italia: 150 positivi. 112 solo in Lombardia. Stop al carnevale di Venezia. Carabinieri del Nas e personale medico specializzato a Castiglione d'Adda. I dati aggiornati. Oltre 50 mila persone in quarantena in 11 comuni. Un cittadino della "zona rossa" di Vò Euganeo, uno dei focolai veneti: "Sembra di essere in guerra". La Repubblica il 23 febbraio 2020. Di ora in ora. Mentre aumentano i casi di positività al nuovo coronavirus in Italia, un paziente è morto a Cremona. E' il terzo in Italia. Il numero delle persone ammalate sotto osservazione è salito a 150 persone in cinque regioni: in Lombardia i casi sono 112, in Veneto 24, in Piemonte 6, in Emilia Romagna 9 e nel Lazio 1. Questi ultimi sono la coppia di cinesi che si trova ancora allo Spallanzani. Nel dettaglio, ci sono 54 persone sono ricoverate, 26 sono in terapia intensiva e 22 in isolamento domiciliare. Il conteggio - va detto - non contempla le due vittime - una in Lombardia e una in Veneto - e il ricercatore che era ricoverato allo Spallanzani ed è guarito. Dall'ospedale Spallanzani di Roma arrivano buon notizie. "La coppia di cittadini cinesi provenienti dalla città di Wuhan, casi confermati di covid-19, continua a essere ricoverata nel nostro istituto", dicono i sanitari del nosocomio romano. "Il marito sta meglio, non necessita di terapia con ossigeno, si alimenta autonomamente e ha ripreso la deambulazione autonoma con appoggio. Risulta negativo ai test per la ricerca del covid-19. La moglie, vigile e orientata - aggiunge - è in respiro spontaneo è ancora ricoverata in terapia intensiva, e non necessita più di supporto ventilatorio. Ha ancora bisogno di monitoraggio per la presenza di patologie preesistenti. Il giovane studente italiano proveniente dalla città di Wuhan è ancora ricoverato ed è in ottime condizioni di salute e di umore". Pier Luigi Lopalco, professore di Igiene all'Università di Pisa, spiega che "è presumibile che il nuovo coronavirus SarsCoV2 abbia cominciato a circolare in Italia verso la fine di gennaio, quando ancora l'allerta non era al massimo ed i voli non erano bloccati: vari soggetti avranno preso l'infezione magari senza accorgersene. Dunque, quella che vediamo ora è già la terza generazione di casi". Il numero di casi infatti, chiarisce l'esperto, "si raddoppierebbe circa ogni 7 giorni e questo spiegherebbe il numero attuale di casi in Italia". Scuole e università chiuse in alcune regioni, gite scolastiche sospese, eventi sportivi cancellati. Laddove si sono verificati i contagi vengono messe in pratica le misure di contenimento previste della autorità. E se ne programmano altre. E' partito alle 13 un summit, non previsto, in Protezione civile del presidente del Consiglio Giuseppe Conte con il capo del Dipartimento di Protezione civile, Angelo Borrelli. Sta arrivando anche il ministro della Salute, Roberto Speranza. I due recenti casi a Venezia e i 24 casi complessivi, hanno spinto le autorità della regione a fermare i festeggiamenti del carnevale di Venezia. "Da questa sera è previsto il blocco del Carnevale di Venezia e di tutte le manifestazioni anche sportive fino al 1 marzo compreso", dice  governatore del Veneto Luca Zaia. Che poi parla delle indagini sanitaria per individuare il punto di partenza dei focolai in Veneto. "Non abbiamo novità sul paziente zero e abbiamo i due casi a Venezia città storica che ci preoccupano non poco, perché sono pazienti che non hanno alcuna storia clinica e sociale riferita alla comunità cinese e di persone che venivano la zona infetta. Le linee guida ci dicono che è più efficace effettuare i test per cerchi concentrici a partite dai casi, e non a tappeto sulla popolazione", aggiunge il governatore spiegando che si sta lavorando per "ricostruire la storia" dei contatti dei due casi veneziani. Mentre a Milano il teatro alla Scala ha deciso di sospendere "tutte le rappresentazioni a titolo cautelativo in attesa di disposizioni".

Sono circa 500 gli uomini e le donne delle forze di polizia e delle forze armate che verranno inviati in Lombardia e Veneto per presidiare gli accessi alle aree focolaio del coronavirus e che devono restare isolate. E in serata è scattata la cintura di protezione della zona rossa, nel Lodigiano, prevista dalle misure annunciate dal governo per l'emergenza. Da questo momento le forze dell'ordine hanno allestito sulle strade posti di controllo per informare gli automobilisti che chi entra nel territorio non potrà più uscire. Allo stesso modo chi si allontana non potrà più fare ritorno.

In Veneto e in Lombardia ci sono poi interi paesi "chiusi" per quarantena, in entrata e in uscita. Provvedimenti che riguardano le zone dei focolai più importanti e misure restrittive per qualcosa come 50 mila persone. Sono undici i comuni del Lodigiano e del Veneto in quarantena, interessati dall'emergenza coronavirus e dai relativi provvedimenti delle autorità per impedire la diffusione del virus. Sono Vò Euganeo, Codogno, Castiglione d'Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano. Dice un cittadino di Casalpusterlengo: "Sembra di essere in guerra: siamo fermi, i negozi sono chiusi, solo i supermercati sono aperti qualche ora al giorno. Entriamo scaglionati, ma qui carne non ce n'è più e non sanno quando arriverà perché arriva tutto da fuori. La gente ha paura. Non ci sono posti di blocco e si può circolare liberamente, ma solo all'interno dei comuni del cerchio rosso. A presidiare - racconta l'uomo - ci sono le forze dell'ordine e mi hanno detto che sul ponte di Piacenza c'è anche l'esercito".

Territori dove vivono oltre 50 mila persone, trasformati in zone rosse a tutti gli effetti: non si entra e non si esce. Non solo: all'interno delle zone focolaio "l'accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l'acquisto di beni di prima necessità è condizionato all'utilizzo di dispositivi di protezione individuale". E a tutti coloro che hanno avuto "contatti stretti con casi confermati" dovrà essere applicata la "misura della quarantena con sorveglianza attiva". Nei comuni della provincia di Lodi interessati dalla limitazioni imposte dal Coronavirus, fa sapere la Prefettura di Lodi, sono "da ritenersi essenziali" e quindi "escluse dalla sospensione dell'attività lavorativa e di trasporto" le attività commerciali di "supermercati, ipermercati, negozi alimentari e quelle connesse al trasporto connesse al rifornimento di prodotti alimentari in quanto tese all'approvvigionamento di beni di prima necessità per la popolazione". Sempre in applicazione delle direttive del governo, il ministero dell'Istruzione informa che, "in attesa dell'adozione formale dell'ordinanza prevista dal decreto approvato in consiglio dei Ministri, per motivi precauzionali i viaggi di istruzione vanno comunque sospesi a partire già da oggi domenica 23 febbraio 2020". Lo stop alle uscite didattiche e ai viaggi di istruzione, sottolinea il Miur, riguarda sia le mete in Italia sia all'estero. "Siamo in attesa di ulteriori disposizioni da parte della Prefettura di Lodi che pubblicheremo appena possibile", si legge sul sito del Comune di Codogno, uno dei principali centri del lodigiano, diventato una città fantasma dopo le disposizioni del governo prese ieri sera per contenere la diffusione del virus. E il presidente della Lombardia Attilio Fontana, parlando a Mezz'ora in più su Rai3, ha detto che se la situazione dovesse "degenerare", "nella fase due si potrebbero assumere iniziative più drastiche e rigorose" che in Cina sono state adottate "a Wuhan", ma sono "convinto che non si arriverà a questo". 

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 24 febbraio 2020. A mezzogiorno in piazza San Marco c' erano tante maschere e poche mascherine. Chi arriva nella città dove il tempo si è fermato, come recita la pubblicità sulla fiancata dei bus che in piazza Roma scaricano turisti a getto continuo, non vuole portarsi dietro le angosce del mondo di fuori. Così quando cominciano i tradizionali voli dal campanile di piazza San Marco, con il naso all' insù ci sono ventimila persone, 30.000 meno dell' anno scorso, ma comunque determinate a rivendicare il loro diritto alla spensieratezza. «Afraid? I' m not afraid, you' re afraid». Io non ho paura, sei tu che ce l' hai. Il gondoliere di San Marcuola accoglie la famigliola cinese a petto in fuori. Padre, madre, due bambini. Tutti con mascherina professionale. I due genitori gli chiedono se non teme di portarli a spasso per i canali, nonostante la loro provenienza. La trattativa per fissare il prezzo comincia all' istante.

Com' è che si dice business as usual in dialetto? Anche Venezia, la vetrina d' Italia, chiude. Ma non troppo. Perché il Carnevale viene fermato quando ormai è agli sgoccioli dopo le due canoniche settimana di durata. Salterà il martedì grasso, ma ormai nel tempo moderno contano le due domeniche, e quelle sono state salvaguardate, con ordinanza regionale giunta a festeggiamenti in corso e mantenuti fino alla mezzanotte di ieri, quando invece sabato mattina era già stato deciso di sigillare le università. Certo, la notizia che rende impossibile tirarla ancora in lungo giunge ieri a inizio mattinata. Due uomini, entrambi di 88 anni, hanno contratto il virus sono ricoverati in terapia intensiva all' Ospedale civile. Non sono turisti, non sono cinesi. Sono residenti da sempre a Castello, il quartiere dietro San Marco, tra i più antichi e veneziani di tutte le calli. Da tempo erano ricoverati per patologie «gravi e croniche». A quel punto, tirarla in lungo salvaguardando uno dei principali business dell' eterna stagione turistica veneziana diventa un non senso, e così nella draconiana ordinanza firmata da Luca Zaia ci finisce il Carnevale ormai in zona Cesarini e qualunque altro assembramento pubblico o privato. «Possibile che per quattro soldi facciamo questa figura da bottegai?», Gianpietro Zucchetta legge l' editto zaiano con un occhio e con l' altro osserva i vaporetti carichi di turisti cinesi e non solo che attraccano alle Zattere, davanti alle fondamenta degli Incurabili. Il suo mestiere era quello del perito giudiziario. La sua vocazione è quella di rappresentare l' anima di una Venezia che forse non c' è più, alla quale ha dedicato decine di libri, dalla storia dei rii e canali a quella delle acque alte che sta riscrivendo, purtroppo va aggiornata. «Tutti sanno che Venezia è una porta spalancata. Figurarsi a Carnevale. Lo sanno tutti, del rischio che si corre, a prescindere dalle cause del contagio di quei due poveretti, per carità. Ma hanno deciso di correrlo comunque, perché chi tocca gli eventi, perde i voti e l' appoggio dei commercianti».

Sono in molti a pensarla così. «Potevano pensarci prima», dice il gondoliere di ritorno dalla corsa con la famigliola cinese. «Fermare adesso il Carnevale è come proibire Natale a Santo Stefano». «C' è da sempre un tacito accordo», sostiene un impiegato del ristorante Pedrocchi in Campo San Geremia. «Chiudono un occhio, anche su elementari misure di controllo, per una festa che in due settimane richiama mezzo milione di persone e oltre. Ma questa volta, forse, non ne valeva la pena». Nel primo pomeriggio sul ponte che attraversa il Canal Grande, quello ideato da Calatrava, in solo mezz' ora passano almeno duemila turisti, e si ascoltano almeno 15 idiomi diversi. Ci sarà pure meno gente del solito, per la prima volta la Polizia locale non ha fatto ricorso ai sensi unici pedonali nei punti più stretti. Ma si avanza a fatica. «A me sembra che la popolazione, e non mi riferisco solo a quella locale, è molto meno preoccupata di quanto non lo siano i media e le autorità». L' osservatorio sulla città di Arrigo Cipriani è il suo Harry' s Bar, che non ha mai chiuso, neppure per l' acqua alta. «Mi sbaglierò, ma la gente non sta seguendo questa vicenda con l' ansia e il terrore che trapela dalle decisioni dei suoi governanti di ogni ordine e grado». La tesi di Cipriani trova conferma nella folla che alle 17 si avvia verso piazza San Marco, dove «in collaborazione con Red Bull e Aperol» è in programma un Dj set, evento non proprio ispirato alla tradizione del Carnevale veneziano. Le ultime notizie sono ormai di dominio pubblico. A Calle dell' Anconeta, uno dei punti più stretti, qualche ragazza si stringe la sciarpa o il foulard sulla bocca. Nulla di più. Su quasi ogni ponte campeggia il manifesto del Carnevale di quest' anno. «Il Gioco, l' Amore e la Follia». Anche il portafoglio ha la sua importanza. La verità è che questa città può chiudere solo sulla carta, perché chiuderla davvero è impossibile. Potremo sbarrare ogni frontiera, ma avremo sempre Venezia, che appartiene al mondo, e non a noi.

PASQUALE RAICALDO per repubblica.it il 23 febbraio 2020. Divieto di sbarco sull'isola di Ischia per i residenti in Lombardia e in Veneto, per i cittadini cinesi provenienti dall'aree dell'epidemia e per chi vi abbia soggiornato negli ultimi 14 giorni. Lo prevede, fino al 9 marzo, una ordinanza appena firmata dai sindaci dei sei comuni dell'isola. Già stamane erano stati segnalati problemi agli imbarchi da Napoli. Nell'ordinanza i sindaci sottolineano l'elevato volume di arrivi turistici sull'isola anche nel periodo invernale, e le difficoltà che comporterebbe dover fronteggiare casi di contagio in un territorio come quello ischitano, che dispone di un solo ospedale ed è svantaggiato dal punto di vista dei collegamenti. Il divieto di accesso temporaneo, secondo quanto scrivono i sindaci, dovrebbe essere fatto rispettare da "polizia municipale e forza pubblica", mentre "le competenti autorità sanitarie locali" dovrebbero realizzare "presidi sanitari prima degli imbarchi per l'isola". Al momento non è ancora chiaro però come possa avvenire il 'filtro' sulla terraferma, poiché agli imbarchi sono tenuti a presentare un documento di identità solo i residenti ischitani che vogliano fruire delle agevolazioni tariffarie in vigore.

Il Coronavirus ferma anche la Serie A: quattro partite sospese. Rinviate a data da destinarsi Atalanta-Sassuolo, Hellas Verona-Cagliari e Inter-Sampdoria e Torino-Parma. Per la prossima settimana si discuterà l'ipotesi di giocare alcune giornate a porte chiuse. Fulvio Bianchi il 23 febbraio 2020 su La Repubblica. Massima allerta in Federcalcio e nelle quattro Leghe (A, B, C e dilettanti) per il coronavirus. C'è l'ipotesi, che si spera ancora di scongiurare, che alcune partite, anche di serie A, possano essere giocate a porte chiuse. Almeno per un paio di turni, con l'augurio ovviamente che questa situazione, ora allarmante, possa migliorare con l'arrivo della primavera. Come noto la Lega di A, "a seguito delle decisioni assunte dal Consiglio dei Ministri in merito alle manifestazioni sportive in programma oggi, domenica 23 febbraio 2020, nelle Regioni Lombardia e Veneto", ha già disposto il rinvio a data da destinarsi di Atalanta-Sassuolo, Hellas Verona-Cagliari e Inter-Sampdoria. Bloccata oggi anche Torino-Parma (e domenica c'è Juve-Inter...). In Primavera 1 Tim rinviate invece Atalanta-Lazio e Chievo Verona-Fiorentina. Il problema sarà poi quello di trovare delle date per recuperare questi incontri. Il calendario d'altronde è ingolfatissimo fra campionato, Coppa Italia e competizioni europee. Inoltre in marzo ci sono due amichevoli della Nazionale con Germania e Inghilterra: si può rinunciare? Giovedì a Milano è previsto ad esempio il ritorno fra l'Inter e il Lugodorets di Europa League: cosa deciderà l'Uefa? Porte chiuse o campo neutro? Intanto, proprio il club bulgaro ha chiesto formalmente a Uefa e Inter chiarimenti sulla situazione in Lombardia e a Milano. "Più di 600 tifosi dovrebbero sostenere la squadra al San Siro. Molti di loro - spiega il Ludogorets con una nota sul proprio sito - hanno già acquistato i biglietti aerei e ci sono viaggi organizzati in autobus dalla Bulgaria all'Italia. Il Ludogorets si aspetta una dichiarazione ufficiale e una rapida spiegazione dall'Inter sulla situazione in città. Se ricevuta, il Club informerà immediatamente i suoi sostenitori della situazione a Milano tramite un messaggio sul suo sito web ufficiale. Il Ludogorets collaborerà con le autorità diplomatiche bulgare sulla situazione in Italia". Ancora: se l'Inter dovesse andare in finale di Europa League e di Coppa Italia non ci sarebbe un mercoledì disponibile, da qui sino a fine stagione, per recuperare la partita rinviata con la Samp. Insomma, l'ipotesi di giocare un paio di turni di campionato a porte chiuse, se il contagio dopo Lombardia e Veneto dovesse diffondersi in altre Regioni, sarà presa in considerazione in questi giorni come soluzione estrema (certo non auspicabile per le conseguenze che potrebbe avere). Anche perché, se dovessero essere rinviate altre partite, non ci sarebbero date disponibili per recuperarle. "Penso che sia un problema serio e importante quello che sta accadendo in Italia, sono d'accordo se si dovranno fermare le partite di campionato" ha detto l'allenatore della Lazio, Simone Inzaghi, che si è detto però contrario all'ipotesi porte chiuse. "Il calcio resta dei tifosi, penso a oggi, con i tifosi del Genoa splendidi e quelli della Lazio impressionanti. E' giusto vivere il calcio con le tifoserie. Per questo bisognerà cercare di porre rimedio a questa grandissima problematica". "Ora più che mai abbiamo il dovere di essere prudenti e responsabili. È necessario agire in maniera seria e determinata, senza alcun allarmismo ma evitando ogni situazione di rischio": lo scrive su facebook Vincenzo Spadafora, ministro dello sport. "Per questa ragione- aggiunge- abbiamo sospeso le competizioni sportive nelle aree in cui può esserci anche solo l'eventualità di diffusione del virus. Siamo un grande Paese ed è in queste situazioni che dobbiamo dimostrarlo. Ringrazio tutto il personale sanitario che si sta impegnando e condivido le parole del presidente Mattarella: occorrono 'senso di responsabilità e unità di impegno'". Domani, lunedì 24 febbraio, a Roma intanto si terrà il consiglio federale della Figc. Il presidente Gabriele Gravina da giorni sta seguendo con la massima attenzione l'evolversi della situazione. Il presidente della Lega di A, Paolo Dal Pino, è partito per gli Stati Uniti, un viaggio già previsto per incontrare emittenti interessate ad acquistare i diritti tv del nostro campionato: ma sarà in collegamento telefonico con via Allegri. Lo stesso per l'ad Luigi De Siervo, anche lui in partenza. Intanto Gabriele Gravina ha convocato per domani (lunedì) alle ore 10, presso la sede della Figc, una task force di medici della Federazione per analizzare la situazione e dare indicazioni precise circa l'attività delle Squadre Nazionali. Alla riunione con Gravina, del cui esito verrà relazionato il consiglio Federale convocato per le ore 12- fa sapere con una la Figc- parteciperanno il prof. Paolo Zeppilli, il prof. Andrea Ferretti e il dott. Carmine Costabile, nonché il prof. Roberto Cauda, direttore dell'Area Clinica e dell'Unità Operativa Complessa di Microbiologia e Malattie Infettive del Policlinico Gemelli di Roma. "In attesa di ulteriori determinazioni, è stato comunque deciso di rinviare i raduni delle Nazionali Under 19 maschile e femminile". Una riunione "per prendere atto delle decisioni già prese e della situazione epidemiologica e regolarci di conseguenza", così Paolo Zeppilli, responsabile medico della Figc, nonché direttore della Medicina dello Sport del Policlinico Gemelli, presenta la task force dei medici della Federazione, convocata per domani a via Allegri per analizzare la situazione dell'emergenza Coronavirus e dare indicazioni precise sull'attività delle squadre nazionali. "La Federazione già ieri si è attivata, prendendo atto delle decisioni del governo - spiega Zeppilli- Noi abbiamo le idee chiare e domani ci riuniremo per valutare il da farsi, anche in vista della riunione, martedì, con i medici delle Federazioni al Coni. Noi ascolteremo e valuteremo in base a quella che sarà la realtà che ci sarà portata avanti dalla Federazione - aggiunge Zeppilli - una realtà abbastanza sfaccettata e complessa. Per questo si è deciso di fare un tavolo ristretto per coordinare al meglio le decisioni per l'attività delle squadre nazionali. Dobbiamo fare il punto, tra domani e dopodomani comunque molte cose si chiariranno.

E' tutto in divenire. I casi cominciamo ad essere non più così limitati e quindi bisogna circoscrivere il più possibile il fenomeno. Non dimentichiamo comunque - conclude Zeppilli - che i calciatori sono una popolazione giovane e quindi da un punto di vista prettamente medico meno preoccupante, quindi evitiamo allarmismi fermo restando che le decisioni devono essere prese coerentemente e attuate senza distinzioni di sorta". Intanto, martedì 25 sono previste Giunta e Consiglio Nazionale del Coni: prevista la partecipazione, per la prima volta, anche del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora. Ai primi di marzo inoltre esecutivo del Cio a Losanna e assemblea dell'Asoif, l'associazione delle Federazioni estive olimpiche (presidente Francesco Ricci Bitti). Si parlerà della situazione mondiale e anche dei Giochi di Tokyo. Al momento non ci sono controindicazioni. I dirigenti giapponesi hanno respinto sdegnosamente l'ipotesi di spostare le Olimpiadi a Londra, ipotesi ventilata da alcuni politici conservatori britannici. Londra come noto aveva ospitato con pieno successo l'edizione del 2012, mentre ad esempio a Rio, dove si era tenuta l'edizione 2016, molti impianti sono già stati smantellati. Il Cio non vuole prendere, almeno al momento, in alcuna considerazione un eventuale piano B (annullare i Giochi e spostarli, sempre a Tokyo, di un anno). Ma intanto si studierà come si può venire incontro agli atleti cinesi: molti di loro non possono fare le qualificazioni olimpiche in questo periodo. Forse una wild card potrebbe essere una soluzione ma aumenterebbe il numero degli atleti a Tokyo con problemi per gli organizzatori. Ma la speranza ovviamente è che da qui a luglio, quando inizieranno i Giochi, la situazione sia ampiamente sotto controllo. Altrimenti sarebbe un problema non solo del Giappone.

Coronavirus, via libera del governo: si gioca a porte chiuse. Juve-Inter, Milan-Genoa, Parma-Spal, Sassuolo-Brescia e Udinese-Fiorentina. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Corriere.it. Avanti, anche se a porte chiuse. Il calcio si è compattato, Lega e Federcalcio dalla stessa parte della barricata per affrontare l’emergenza Coronavirus. Il governo ha compreso le difficoltà del momento e con un nuovo decreto ha dato il via libera ufficiale alle partite senza pubblico nelle zone del contagio. La collaborazione ha funzionato. Ieri mattina la linea è stata stabilita in un incontro in via Allegri, nella sede della Federcalcio, alla presenza del presidente Gravina, di Lotito e Marotta per la serie A, con il presidente della confindustria del pallone, Paolo Dal Pino, collegato in conference call da New York. Presenti anche i rappresentanti dei ministeri coinvolti: Sport e Salute. Dalle parole ai fatti, attraverso due lettere inviate al governo: la prima asciutta della Figc. La seconda, più articolata, della Lega «per chiedere che nei territori considerati a rischio Coronavirus le gare di calcio non vengano sospese, ma disputate a porte chiuse». La motivazione è il calendario già saturo «e la necessità che le competizioni si concludano entro il 24 maggio» considerando che a giugno comincerà l’Europeo itinerante. Il Dpcm, cioè il decreto della presidenza del Consiglio dei ministri, con scadenza 1 marzo, consentirà di giocare a porte chiuse nelle aree interessate. «I provvedimenti, inizialmente previsti per Lombardia, Veneto e Piemonte, sono stati estesi a Friuli, Emilia Romagna e Liguria», ha fatto sapere Vincenzo Spadafora, il ministro dello Sport. Questo significa che il prossimo weekend la serie A giocherà senza pubblico nelle città in cui il virus ha fatto breccia e in quelle che avevano deciso a priori di sospendere gli avvenimenti sportivi. Udinese-Fiorentina, in programma sabato alle 18, è stata rinviata, ma il governatore della regione si adeguerà alle decisioni che arrivano da Roma e quindi si giocherà a porte chiuse. Come Milan-Genoa, domenica alle 12.30, Parma-Spal e Sassuolo-Brescia alle 15 e soprattutto la partita scudetto tra Juventus e Inter. Per adesso le gare con la presenza dei tifosi dovrebbero essere Lazio-Bologna, Napoli-Torino, Lecce-Atalanta, Cagliari-Roma e Samp-Verona, posticipo di lunedì sera e quindi fuori dal decreto. Cinque su dieci. «È chiaro che se la situazione dovesse peggiorare ci atterremo alle disposizioni del governo», ha fatto sapere con sano realismo Gravina. La Figc, nella lettera al governo, ha chiesto anche la possibilità che Inter-Ludogorets, ritorno dei sedicesimi di Europa League, in programma giovedì alle 21, si possa giocare a Milano con San Siro deserto. Il prefetto ha dato l’ok, anche se è giusto ricordare che il decreto ministeriale va oltre le decisioni delle varie prefetture. La società nerazzurra ha fatto sapere che rimborserà il biglietto ai circa trentamila tifosi che lo avevano acquistato. Sulle date dei recuperi regna ancora un po’ di confusione. Si era ipotizzato lo slittamento delle semifinali di ritorno di Coppa Italia e invece si dovrebbe andare avanti con il vecchio programma: mercoledì 4 marzo si giocherà Juventus-Milan e il giorno successivo Napoli-Inter. La sfida dei nerazzurri con la Samp, rinviata domenica scorsa, sarà messa in calendario alla prima data utile e dipenderà dal cammino europeo e nella stessa Coppa Italia della squadra di Conte. La Lega sta studiando anche i recuperi delle altre gare della venticinquesima giornata: Atalanta-Sassuolo (18 marzo la data plausibile), Torino-Parma (4 o 11 marzo) e Verona-Cagliari (11 o 18 marzo). La Lega ci sta lavorando e oggi tutto dovrebbe essere ufficiale. Con le porte chiuse nasce il caso dei rimborsi per i tifosi che hanno già acquistato i biglietti. Il Milan, solerte, ha già annunciato che i propri sostenitori saranno rimborsati per la gara con il Genoa, ma nei regolamenti dei 20 club di serie A, ben 11 non lo prevedono. Tra questi Juventus e Inter e c’è molta attesa per capire cosa faranno i bianconeri, che hanno venduto tagliandi a prezzi elevati, da 70 euro sino a 300, con un incasso che dovrebbe superare i cinque milioni. Di che fine faranno questi soldi se ne riparlerà oggi.

Coronavirus. Porte chiuse e tv, il calcio è in castigo. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Stefano Agresti e Monica Colombo. Senza spettatori, senza giornalisti e senza immagini in chiaro: il calcio ai tempi del coronavirus. Al termine di una giornata convulsa dove fitti sono stati i colloqui fra il ministro delle Sport Vincenzo Spadafora e le istituzioni sportive. E i ribaltamenti di scena non sono mancati: in mattinata era atteso un provvedimento che ampliasse a ogni stadio la disposizione di giocare a porte chiuse nel prossimo fine settimana, nel pomeriggio la conferma di limitare le misure di contenimento alle gare che si disputeranno nelle sei regioni colpite dall’epidemia. Dopo aver partecipato al Consiglio nazionale del Coni, Spadafora ha spiegato: «Non esistono le condizioni o le motivazioni per ampliare le limitazioni al resto del Paese, neppure in via precauzionale. Anzi, se i dati non ci daranno indicazioni differenti può anche darsi che da lunedì non prorogheremo lo stop agli eventi sportivi nelle regioni coinvolte: potremmo delimitare ancora di più le aree, restringendole alle zone dove sono in corso i focolai». Al momento, rimangono 5 le partite di serie A che si giocheranno a porte chiuse: sabato Udinese-Fiorentina; domenica Milan-Genoa, Sassuolo-Brescia, Parma-Spal e Juve-Inter. Da definire la situazione di Sampdoria-Verona, lunedì, quando il decreto avrà esaurito i suoi effetti. Anche la serie B dovrebbe seguire il campionato principale: si giocherà a porte chiuse nelle sei regioni coinvolte e con il pubblico nelle altre. Hanno invece sospeso i loro tornei basket, volley e rugby che, rispetto al calcio, hanno date libere per recuperare le giornate rinviate. Anche sotto la spinta del Codacons, è stata ipotizzata la possibilità di trasmettere in chiaro Juve-Inter, partita scudetto, per dare a tutti i tifosi — e non solo agli abbonati alle pay tv — la possibilità di assistere al big match. Sky ha fornito la disponibilità a programmarla su TV8, il suo canale gratuito. La soluzione però risulta impraticabile poiché l’emittente satellitare possiede solo i diritti criptati, non quelli in chiaro: una decisione del genere susciterebbe l’attenzione dell’Antitrust rappresentando una violazione della legge Melandri. Anche Mediaset e Rai si sono candidate con la Lega per trasmettere le gare che si disputeranno a porte chiuse. In realtà la trasmissione in chiaro delle partite sarà possibile solo in caso di intervento da parte del governo con un decreto e per una motivazione speciale (ordine pubblico...). Ipotesi assai remota. Ma gli abbonati o coloro i quali hanno acquistato il biglietto per una partita che si gioca a porte chiuse saranno rimborsati? Tutto dipende dalle singole società. Nello specifico la Juve attende la circolare governativa di attuazione del decreto per dare indicazioni in merito, così come il Milan che però ha già avviato l’iter necessario al rimborso: riguarderà non solo il costo del biglietto ma anche la quota parte di abbonamento (un diciannovesimo del prezzo totale, dunque). L’Inter è coinvolta per il rinvio della partita con la Samp e intende aspettare che venga stabilita la data del recupero prima di decidere come comportarsi. Il confronto con i blucerchiati dovrebbe essere fissato per il 20 maggio, unico mercoledì libero per i nerazzurri nel caso in cui arrivassero in finale di Coppa Italia e di Europa League, ma verrà anticipato se la squadra di Conte sarà eliminata. È tramontata l’ipotesi di disputare Inter-Samp la prossima settimana facendo slittare al 13 maggio il ritorno della semifinale di Coppa Italia con il Napoli e al 20 maggio la finale. C’è attesa anche per capire chi sarà ammesso sugli spalti per le partite a porte chiuse. Per la gara di domani tra Inter e Ludogorets ci sono 250 giornalisti accreditati, potrebbero essere ritenuti troppi e lasciati fuori anche loro per motivi di sicurezza.

Alessandro Barbano per il ''Corriere dello Sport'' il 24 febbraio 2020. Ragioniamo a mente fredda: c’è più carica virale sugli spalti di uno stadio o in una metropolitana, in un autobus, in un treno, in un aeroporto, in un supermercato? Per rispondere a questa domanda non serve un virologo. Basta un cittadino comune, o un politico, che, di questi tempi, è la stessa cosa. E la politica ha risposto chiudendo gli stadi, e non anche tutto il resto. Si dirà: lo sport è un optional, e non un bene o un servizio pubblico essenziale. Ma una risposta come questa vale in un’economia di guerra. Allora la domanda diventa un‘altra: noi siamo in guerra? A giudicare dagli scaffali vuoti di alcuni supermercati di Milano e dai cittadini con la mascherina in fila davanti alle casse sembrerebbe che sì, ci sentiamo in guerra. Quando una democrazia reagisce agli attacchi entrando in guerra, rinuncia a molte cose. Per esempio al calcio. Si dirà ancora che il nemico è acerrimo e infido, perché si nasconde dietro un misterioso e inafferrabile paziente zero. E che, se ha già fatto tre vittime e 26 ricoveri in rianimazione su 150 contagiati, non si può chiamarlo “influenza”. Davanti a questa evidenza scientifica non resta che alzare le mani. Lo ha fatto anche il presidente del Coni, Giovanni Malagò, rimettendosi alla decisione delle autorità. Ma una domanda, alle stesse autorità, ci sia consentita. Se chiudere le mura di interi centri abitati e inseguire la presunta catena del contagio umano non sono serviti a stanare e circoscrivere il virus, perché quello ti sguscia da ogni dove, non dobbiamo dotarci di una strategia più chirurgica e socialmente meno invasiva? I piani di prevenzione e di contrasto non possono avere un prezzo sociale ed economico più alto della loro stessa efficacia sanitaria. Il prezzo di un Paese che chiude rischia di fare più grande l’emergenza. Ragionate a mente fredda, uomini delle istituzioni, quando, oggi, deciderete se continuare a fermare il calcio in tutte le aree dove il Coronavirus si allarga, cioè ormai in gran parte del Paese. Non cedete alla tentazione di piegare il pericolo al gioco della competizione politica, o di farne il paravento dei vostri irrisolti conflitti. E non nascondetevi dietro il parere degli scienziati, peraltro non univoco. Le misure che adotterete sono politiche, e toccano a voi. Dovete assumerle con la responsabilità e il coraggio di chi cerca un difficile punto di equilibrio, non con la preoccupazione di precostituirvi un alibi di fronte al rischio di un’epidemia che dilaga. Il calcio, lo sport non sono ostacoli da saltare, né vittime sacrificali da esibire, ma alleati per difendere la qualità della vita civile in un momento difficile. Proteggeteli.

Ciclismo, Coronavirus: rinviate Milano-Sanremo e Tirreno-Adriatico. Rimandate a data da destinarsi anche il Giro di Sicilia. A forte rischio il Giro d'Italia. Annullata la Coppi e Bartali. Si fermano anche i Team, dopo Ineos, Astana e UAE Team Emirates, stop anche per la Movistar. La Repubblica il 06 marzo 2020. Lo sport continua a fermarsi a causa del Coronavirus. Dopo l'appuntamento con le "Strade Bianche", corsa toscana in programma inizialmente questo weekend, saltano altri appuntamenti importanti. Tirreno-Adriatico, Milano-Sanremo e Giro di Sicilia sono state rinviate (al momento) ad altra data. Ed è a forte rischio anche il Giro d'Italia in programma dal 9 al 31 maggio, che col suo giro d'affare fa muovere oltre 500 milioni di euro. La Milano-Sanremo, la 'Classicissima' di inizio stagione nata nel 1907, si era fermata nella sua storia solo in occasione delle due guerre mondiali (1916, 1944 e 1945).

Il comunicato di RCS Sport: "A seguito del diniego delle autorizzazioni da parte di alcuni organi competenti - fa sapere la RCS Sport in una nota - si comunica di dover annullare la Tirreno-Adriatico nelle date 11-17 marzo. Inoltre, verificato che non esistono le condizioni per garantire quanto previsto dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana del 4 marzo 2020, e per garantire la salvaguardia della salute pubblica e della sicurezza di tutte le persone coinvolte, RCS Sport ha deciso di annullare la Milano-Sanremo nella data 21 marzo e Il Giro di Sicilia nelle date 1-4 aprile. RCS Sport, attraverso la Federazione Ciclistica Italiana, chiederà all'UCI di ricollocare le tre corse in altra data del calendario ciclistico internazionale, così come già fatto per Strade Bianche e Strade Bianche Women Elite".

Annullata la Coppi e Bartali. Salta anche la settimana internazionale Coppi e Bartali prevista dal 25 al 29 marzo. Lo rende noto un comunicato del GS Emilia. "Il Gruppo Sportivo Emilia - si legge - in accordo con le istituzioni preposte e le amministrazioni comunali interessate dalle tappe, si è già attivato per ricollocare la gara nel calendario internazionale UCI". "Seguiranno ulteriori comunicazioni anche in merito alla collaborazione tecnica con il Gran Premio Industria e Commercio di Larciano per il quale l'UC Larcianese ha già richiesto una nuova data".

La Movistar si unisce ai team che si fermano. E intanto anche i team provano a evitare il contagio dopo quanto accaduto all'UAE Tour, non iscrivendosi alle competizioni. Dopo la Ineos, l'Astana e  l'UAE Team Emirates, oggi è stato il turno della Movistar che ha deciso di fermarsi fino al 22 marzo. "La decisione, presa tenendo conto dei consigli del team medico, risponde all'attuale situazione relativa al Covid-19 - si legge in una nota -. Il team Movistar, al fine di preservare la salute di tutti i suoi membri, nonché' di tutti coloro che sono in contatto con il ciclismo, adotta una misura che cerca di contribuire, con i suoi mezzi, a normalizzare la situazione".

Medicina, rinviato l’esame di Stato del 28 febbraio: troppi atenei chiusi. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 da Corriere.it. Saltano gli esami di abilitazione per i neo-medici: l’esame di Stato per il quale era prevista la prova scritta il 28 febbraio è stato rinviato dal ministero dell’Università a data da destinarsi. Si tratta della seconda sessione dell’esame 2019. L’esame riguarda più di 5000 mila neo laureati che dovranno poi accedere alla specializzazione. Del resto già gli atenei del Nord Italia chiusi in questi giorni per il contenimento del Coronavirus avevano disdetto le prove. La Sapienza di Roma aveva comunicato che neppure nella Capitale, dopo l’ordinanza del sindaco Virginia Raggi che vietava lo svolgimento di qualsiasi concorso nazionale, si era vista costretta al rinvio. Il ministero dell’Istruzione darà aggiornamenti appena la situazione si sarà normalizzata. In ogni caso restano confermate le date per l’esame di Stato nelle due sessioni del 2020: la prima sessione è fissata per il 16 luglio 2020 e il 25 febbraio 2021 per la seconda. Il Miur ricorda che la domanda di ammissione deve essere presentata per la prima sessione non oltre il 6 marzo 2020 e per la seconda sessione non oltre l’8 ottobre 2020, presso la segreteria dell’università presso cui i candidati intendono sostenere gli esami. 

L'assistenza ai malati sta funzionando ma la soglia limite è stimata in 4mila posti letto. Oltre il sistema va in tilt. Maria Sorbi, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. Il numero del contagio da coronavirus è in crescita. E se è vero che alcuni pazienti guariscono in pochi giorni, altri sono gravi e hanno bisogno di una terapia intensiva. Tuttavia i letti non sono infiniti, soprattutto nei reparti di rianimazione. Quanto potrà reggere il sistema sanitario? Arriverà mai il giorno del collasso in cui non ci sarà più posto? Senza tratteggiare scenari apocalittici, gli ospedali stanno iniziando a fare due conti su capienze e disponibilità di personale. Ad oggi l'organizzazione funziona bene, ma i problemi potrebbero arrivare nel caso in cui si dovesse superare la quota di 4mla posti letto occupati. Oltre quel numero i reparti di rianimazione non sarebbero più in grado di dare un letto a tutti i pazienti da isolare.

IL PIANO EPIDEMIA. I posti letto nei reparti di terapia intensiva sono 500, con una media di otto per reparto. «Ma, in caso di epidemia, ci si potrebbe appoggiare anche ai letti della rianimazione nelle sale operatorie, come è già stato fatto a Toronto per gestire l'influenza h1n1 del 2009 - spiega Guido Bertolini, responsabile del laboratorio di Epidemiologia clinica, dipartimento di Salute Pubblica dell'istituto Mario Negri - Inoltre si potrebbe recuperare un altro 20% di posti grazie ai letti liberi, quelli che solitamente vengono tenuti vuoti per far fronte alle emergenze. E poi si utilizzerebbe anche quel 25% di posti destinati ai pazienti fragili che devono essere operati. Quegli interventi programmati verrebbero rinviati. Non solo, un'altra valvola di sfogo sarebbero anche le terapie intensive specialistiche e quelle semi intensive». Con questo piano si garantirebbero cure fino alla soglia limite. Dopo di che stop, non si potrebbe più organizzare l'isolamento.

MANCA PERSONALE. Dopo la «quota collasso» a mancare non sarebbero solo lo spazio e i letti attrezzati ma anche il personale. In base alla circolare del Ministero della Salute per la gestione dell'emergenza, un paziente grave ha bisogno, ogni giorno, come minimo di 15 persone dedicate tra medici, infermieri, addetti delle pulizie e altri servizi. E diventerebbe davvero difficile provvedere ai turni e alle cure. In questi giorni i medici, gli specializzandi e gli infermieri non conoscono riposo e si presentano volontariamente al lavoro per dare una mano ai colleghi. Ma una volta «a regime», la gestione dell'infezione avrà altri equilibri: degenze lunghe, di almeno 14 giorni, e personale scarso. Si consideri che, da ben prima del sos coronavirus, in Italia mancavano 4mila anestesisti e medici di terapia intensiva. Il motivo? Turn over mal rispettato, numero chiuso degli specializzandi e concorsi che, in alcuni ospedali, vanno del tutto deserti. Più volte il presidente degli Anestesisti e rianimatori degli ospedali italiani, Alessandro Vergallo, ha sottolineato la situazione di sofferenza del settore salva-vite dove, in alcuni ospedali, sono gli specializzandi a coprire i turni dei medici mancanti. «C'è carenza di professionisti, è vero - ribadisce Guido Bertolini, autore di un report sulla qualità delle cure nei reparti di terapia intensiva - I primari sono perfino tornati a coprire i turni di notte. Ovviamente con questa emergenza, tutti i nodi vengono al pettine. Il blocco delle assunzioni ha generato gravi problemi, anche in Lombardia».

I PROSSIMI MESI. La saturazione dei posti è uno scenario lontano che probabilmente non si realizzerà mai. «Il picco dell'onda epidemica - sostengono i ricercatori dell'istituto Mario Negri - durerà un paio di mesi, poi inizierà a calare, replicando l'andamento che già si è verificato a Whan. Per di più si indebolirà anche la portata del virus, destinato ad essere sostituito da una forma meno aggressiva». In ogni caso, per contenere il numero delle degenze ospedaliere e accogliere solo quelle necessarie, restano fondamentali sia la quarantena domiciliare, quando possibile, sia la cintura di contenimento del contagio realizzata grazie a isolamenti e chiusura delle scuole.

Vo’ Euganeo, parla la prima paziente guarita: «Ma quale paura? Stavo benissimo». Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Marco Imarisio. La «donna guarita» è ancora molto arrabbiata. «Noi saremo anche ignoranti, ma qualcuno ha soffiato sul fuoco della nostra ignoranza». Dopo la morte di Adriano Trevisan, il primo decesso italiano che ha avuto come concausa il coronavirus, era stata subito sottoposta al tampone. «L’ho fatto non tanto per me, ma per quelli di Vo’ Euganeo che avevo intorno. Mi guardavano come se avessi sputato il virus nel caffè. Tranquilli, ho detto ai miei amici, non sintomi, sarà negativo». Invece, positivo. «I medici me lo hanno detto subito: la ricoveriamo, per scrupolo. Sono stati di parola». Lunedì mattina è tornata a casa, in isolamento domiciliare fiduciario. Insomma, la quarantena di 14 giorni. La sua degenza è durata poco, appena un giorno e mezzo. Quel tanto che basta per fare diventare questa donna di 47 anni l’oggetto delle nostre attenzioni, in quanto a sua volta prima persona dimessa dopo una diagnosi che le assegnava una infezione da virus Covid-19. E di amareggiarla ulteriormente, se possibile.

«Sono solo una persona che è andata a casa, come faranno presto tanti altri. Svegliamoci ragazzi, che ci stiamo facendo del male da soli».

I medici cosa le hanno detto?

«Quel che le sto dicendo io. Gli anziani devono stare più attenti, gli altri facciano attenzione a non pestarsi i piedi, a tenersi a distanza».

Ha mai avuto paura?

«Ma di cosa? È una influenza, mica muori, se non sei già malato. Mi sembra che siamo diventati tutti scemi».

Di chi è la colpa?

«Guardi, io sono vecchio stampo e non sono su Facebook. Ma per la mia attività ogni tanto ci vado. E ci sono andata durante il ricovero».

E dunque?

«Mi ha colpito il video di un signore con la mascherina. Sembrava in panico, diceva che ci infetteremo tutti...».

Perché le ha fatto impressione?

«A un certo punto si è tolto la mascherina. E ha detto di essere un malato di cancro, a cui resta un mese di vita. Noi, diceva, andiamo via nell’indifferenza generale, “senza rompere i c... a nessuno”, mentre voi state impazzendo per questa cosa qui. Ma non vi vergognate? chiedeva. Secondo me, ha ragione lui. Un po’ ci dovremmo vergognare».

Come ha trascorso il periodo di ricovero?

«Mi sono tolta le scarpe solo per dormire. Pensi che mi sono addormentata con i jeans addosso. Stavo bene, ero soltanto seccata, ma tranquilla».

Che trattamento ha ricevuto?

«Ma niente! Ero positiva, ma senza neppure una linea di febbre. Appena arrivata mi hanno fatto un flebino, di zucchero liquido. Per precauzione, dicevano».

Poi più nulla?

«L’unica medicina me la sono data io. Avevo mal di testa, per tutto questo casino, e ho chiesto se potevo prendere un Moment che avevo in borsa. Fine. Vuole la verità?»

Ci mancherebbe.

«Se non fosse morto il povero Adriano, se fossimo andati lunghi, non avrei saputo di essere positiva. E come me, tanti altri. Non credo sarebbe cambiato nulla».

Ora non crede di esagerare nell’altro senso?

«Ma no. Quando mi hanno dimessa, i medici mi hanno detto di stare chiusa in casa, e in caso di febbre, prendere la Tachipirina. Insomma, di gestirmela da sola, e di chiamare solo in caso di febbre molto alta. In tanti criticano anche loro, ma le sembrano disposizioni allarmistiche?»

Sarà almeno contenta di essere la prima di Vo’ Euganeo che torna a casa?

«Per carità. Ma io sono solo risultata positiva al coronavirus. Leggo ovunque su Internet che sarei guarita, quando invece non sono mai stata malata. A meno di non voler farsi suggestionare, come all’inizio abbiamo fatto tutti».

Crede che stia cambiando qualcosa nella percezione di questo virus?

«Me lo auguro. Ci stiamo arrivando, mi sembra. I dottori mi hanno detto che loro cercano solo di limitare il numero degli infettati. Il resto non è di loro competenza. Qualcuno dovrà chiedersi se valeva la pena di scatenare questo finimondo per un virus influenzale».

Come sta?

«Benone. Pensi che negli ultimi 2-3 anni ho sempre avuto una tosse fastidiosa. Quest’anno manco quella. Faccio la quarantena e poi torno al lavoro, almeno spero».

Teme danni economici alla sua attività?

«All’inizio, e per un paio di mesi, ne avrò molti. Se la gente non ragiona con la sua testa e si fa guidare come un gregge, è inevitabile. Ma poi si stancheranno di andare in un altro paese. Quando sarà il momento, le cose torneranno alla normalità. Anche se non ce lo meritiamo». 

Coronavirus, guariti i tre pazienti curati a Roma: il farmaco studiato contro l’Ebola fa sperare i medici. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Aumenta la fiducia dei medici per il farmaco sperimentale indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità nelle linee guida sulle terapie da somministrare ai pazienti con Covid-19. È il remdesivir, un antivirale prodotto dall’azienda americana Gilead Sciences, studiato per il virus Ebola ma che sembrerebbe funzionare anche contro il nuovo coronavirus. «Potrebbe essere la soluzione», ha affermato il capo missione in Cina dell’Oms, Bruce Aylward. I risultati dei primi test sull’uomo, condotti proprio in queste settimane nell’ospedale di Wuhan su pazienti gravi e di moderata gravità, saranno comunicati ad aprile. La sperimentazione clinica era stata accelerata proprio nella speranza che il farmaco, provato solo sugli animali, attivo anche contro i coronavirus di simili sindromi con polmonite grave (SARS e MERS) potesse costituire un aiuto terapeutico in una situazione di emergenza assieme ad una combinazione di antivirali specifici contro l’Hiv, il virus dell’Aids. Il remdesivir è stato utilizzato anche nei tre pazienti curati allo Spallanzani, guariti. Si tratta dei due coniugi cinesi (lui sta bene ed è tornato in reparto, lei sta per essere dimessa dalla terapia intensiva) ammalatisi durante la vacanza in Italia, ricoverati nell’ospedale romano appena arrivati a Roma. E del ricercatore emiliano rimpatriato assieme ad una sessantina di italiani dalla Cina. I malati della Lombardia sono trattati con la stessa cura. Nicola Petrosillo, direttore del dipartimento clinico e di ricerca sulle malattie infettive dello Spallanzani, avanza le prime valutazioni positive: «I nostri tre casi non possono fare letteratura. Però è una terapia molto promettente, senza effetti collaterali di rilievo. Perché un antivirale studiato per un virus differente è attivo anche contro il nuovo agente infettivo? Sono molecole capaci di agire su determinati meccanismi, comuni ai virus. In questo caso la terapia interviene bloccando la replicazione virale all’interno della cellula». Il remdesivir non è ancora in commercio, proprio perché è in fase di sperimentazione. Il nostro sistema sanitario lo ha avuto gratuitamente dall’azienda produttrice, secondo una procedura chiamata «uso compassionevole». E così succede nel resto del mondo. In una conferenza stampa a Pechino, il rappresentante dell’Oms ha dichiarato: «Al momento esiste un solo farmaco che riteniamo possa avere una reale efficace». Le azioni della Gilead sono di botto aumentate del 4,6%. L’americana Charbeat pensa al vaccino anti SARS-CoV 2 e si dice pronta a partire con i test clinici.

I due turisti cinesi: «I medici italiani ci hanno salvato». Sono già 45 i guariti. Pubblicato venerdì, 28 febbraio 2020 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. Dal coronavirus si continua anche a guarire. Sono quarantacinque i pazienti tornati sani, secondo i dati forniti ieri dal capo Dipartimento della Protezione Civile, Angelo Borrelli. «Dalla regione Lombardia ci giunge notizia della guarigione di altre tre persone. Così il totale dei guariti è salito a quaranta in quella regione. E con i due in Sicilia e i tre del Lazio il totale sale a quarantacinque», ha annunciato il commissario straordinario per l’emergenza coronavirus. Tra questi ci sono due pazienti del gruppo di contagiati a Vo’ e uno di Padova. A Piacenza è stato dimesso l’infermiere che aveva accolto il 38enne di Codogno. Ed è risultato negativo al test il neonato partorito da una donna lodigiana contagiata. Già erano tornati a casa un 17enne di Valdidentro a Sondrio, un dermatologo di 55 anni di Milano e la moglie di un imprenditore di Firenze. Stanno tutti bene i primi casi, ricoverati allo Spallanzani, gli unici contagiati della regione Lazio. Il ricercatore era già stato dimesso e tra poco lo sarà anche la coppia di cinesi in vacanza a Roma che ci hanno fatto risvegliare dal sogno di essere rimasti immuni dal contagio. «Grazie, i medici italiani ci hanno curato e salvato la vita» hanno detto ai sanitari, secondo quanto ha riferito Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani, ieri, in una conferenza stampa. «C’è stata una festa con il personale l’altro giorno, e il marito, contento, ha abbracciato il medico. Saranno dimessi dopo la riabilitazione. Lui sta benissimo. La signora ci metterà un po’ di più. Ma sono ottimista», ha aggiunto, raccontando come nel periodo della rianimazione la figlia, arrivata in Italia, li incoraggiasse «con tazebao attraverso il vetro». Sabato potrebbe finalmente tornare a casa Niccolò, il 17enne che era rimasto bloccato a Wuhan, l’epicentro del contagio. A causa di una febbre per due volte non era stato fatto salire sull’aereo che riportava a casa gli italiani. Ed era stato organizzato per lui un rientro successivo. In isolamento alla Cecchignola, non è mai risultato positivo al coronavirus. Dichiarato guarito anche l’informatico quarantanovenne di Pescia, il primo caso di coronavirus in Toscana. Contrariamente a quanto era stato deciso in un primo momento terminerà il periodo di quarantena in ospedale, anche se potrebbe essere dimesso presto. Forse oggi stesso. In Lombardia sono quaranta i pazienti dimessi perché guariti. A Pavia una famiglia è stata dimessa dopo essere risultata positiva. In questo caso non si è trattato di una vera e propria guarigione, ma di un errore del laboratorio.

Coronavirus, i coniugi cinesi sono stati dimessi. La moglie ha pianto di gioia e ha ringraziato l’Italia. Hanno lasciato l’ospedale Spallanzani dopo 49 giorni di ricovero. Valentina Dardari, Venerdì 20/03/2020 su Il Giornale. I coniugi cinesi ricoverati da ben 49 giorni all’ospedale Spallanzani di Roma sono stati dimessi. Marito e moglie, i primi casi risultati positivi al coronavirus a Roma, sono guariti. La coppia di turisti, che stava visitando la Capitale, aveva contratto il Covid-19 a gennaio e verso la fine del mese era stata portata in gravi condizioni nella struttura ospedaliera romana.

Hanno vinto la loro battaglia contro il coronavirus. Secondo quanto riportato dal dottor Francesco Vaia, direttore sanitario dell'Istituto Spallanzani, la signora avrebbe pianto di gioia alla notizia delle imminenti dimissioni. “Stanno bene, erano allegri, la signora piangeva dalla gioia e diceva: Vi amo, amiamo questo ospedale e amiamo l’Italia. Siamo commossi anche noi” ha sottolineato Vaia. I coniugi sono stati giudicati clinicamente guariti. Una battaglia vinta sia dal team medico che li ha seguiti durante tutta la loro permanenza in ospedale, sia dalla coppia. All'uscita dall'ospedale la donna ha alzato il pollice verso medici e giornalisti in segno di vittoria, con un sorriso che si poteva scorgere anche sotto la mascherina. Entrambi avevano rischiato di morire e, appena giunti allo Spallanzani erano stati subito intubati. Le loro condizioni si erano ulteriormente aggravate nei primi giorni di febbraio, tanto da dover essere dotati di un supporto per la respirazione. Monitorati in maniera continuativa, erano stati sottoposti a diverse cure farmacologiche. Il marito è quello che ha risposto meglio, mentre la moglie, che al momento deve usare la sedia a rotelle, dovrà fare un periodo di riabilitazione neuromotoria presso l’ospedale San Filippo Neri. Una volta terminata la riabilitazione della donna, entrambi potranno fare ritorno in Cina. Qualche giorno fa era stato il dottor Vaia a comunicare la totale guarigione dei due pazienti cinesi e ad annunciarne le vicine dimissioni.

Tutto era iniziato a gennaio. La coppia di turisti era arrivata nel nostro Paese insieme ad altri connazionali per un tour tra le bellezze italiche. Poco dopo il loro arrivo si erano sentiti male mentre alloggiavano al Grand Hotel Palatino di Roma. Il 29 gennaio erano stati prelevati in ambulanza dalla struttura alberghiera e trasportati d’urgenza all’ospedale Spallanzani di Roma con chiari sintomi da coronavirus. Entrambi avevano avuto gravi insufficienze respiratorie. In particolar modo il marito era stato il primo ad aver bisogno di essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva dopo sei giorni dal suo arrivo in ospedale. Il giorno seguente la stessa sorte era toccata a sua moglie. Entrambi avevano avuto bisogno di ventilazione assistita. L’inizio dell’incubo, il 29 gennaio, sembra ora così lontano. Ma da allora la vita degli italiani è completamente cambiata.

Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 21 aprile 2020. Le loro mani non tremano più da giorni e nella camera dell' ospedale San Filippo Neri che li ha ospitati per un mese, quando le valigie erano ormai chiuse e dai comodini restavano solo da togliere alcuni libri, la coppia di coniugi di Wuhan ha chiesto carta e penna per poter scrivere quelle parole che la voce, per l' emozione, non riusciva a pronunciare. Li hanno ringraziati uno a uno, i fisioterapisti e i medici che in questi trenta giorni li hanno sostenuti per ritrovare la forza nelle gambe e nelle braccia. Due pagine fitte di parole e di nomi di coloro i quali gli sono stati al fianco per farli tornare a camminare ancora, a stringere tra le mani una tazza di tè senza che cadesse. «Grazie a ognuno di voi, ci avete salvato la vita, torneremo a casa, buona fortuna Italia». A bordo di un' auto hanno lasciato, nelle prime ore della mattinata di ieri, l' ospedale e il reparto di riabilitazione dove sono stati ricoverati in seguito alle dimissioni dall' Istituto nazionale malattie infettive Lazzaro Spallanzani. Prima dei saluti dai finestrini, domenica sera si è tenuta anche una piccola festa di commiato. La loro vita, finalmente, ricomincia da qui. Trascorreranno ora qualche giorno in una struttura alberghiera della città e poi in accordo con l' Ambasciata cinese a Roma, lasceranno l' Italia per tornare a Wuhan. La figlia, che aveva pensato di portarli negli Stati Uniti dove risiede da anni, sarà con loro. La coppia - lui ingegnere di 66 anni, lei umanista e docente di un anno più piccola - erano arrivati in Italia a metà gennaio per un viaggio alla scoperta del Paese. Il 29 gennaio, mentre erano ospiti in un hotel della Capitale hanno accusato i primi sintomi del Covid-19 e da allora la Regione Lazio si è fatta carico di loro. Un lungo ricovero allo Spallanzani e una terapia a base di antivirali hanno escluso il peggio, anche se non è mancato il timore. Le loro condizioni per alcuni giorni erano divenute critiche, ma poi la coppia di coniugi si è ripresa. A lasciare per primo la Terapia intensiva è stato il marito, dopo qualche giorno anche la moglie è stata trasferita in reparto. E alla notizia che entrambi, dopo i tamponi di controllo, avevano negativizzato il virus si è aperta la seconda fase: quella della riabilitazione motoria, svolta per l' appunto al San Filippo Neri. L' assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D' Amato parla di «Giornata simbolica» per il territorio. Perché oltre alle dimessi dei coniugi cinesi si è registrato ieri anche il dato più basso di contagi da un mese: 60, con un trend in frenata all' 1%. Il direttore dell' Asl Roma 1 - da cui dipende l' ospedale San Filippo - Angelo Tanese ribadisce come questo virus può essere sconfitto. «La loro è un' esperienza comune a molte persone ma anche l' esempio di coloro i quali, seppur costretti a vivere anche una fase molto critica della malattia, alla fine ne possono uscire, dopo anche un percorso riabilitativo che si dimostra necessario per la ripresa».

Coronavirus Roma, coppia cinese curata allo Spallanzani dona 40 mila dollari per la ricerca. La coppia è tornata in Cina, ma ha deciso di ringraziare con questa donazione i medici e i ricercatori. La Repubblica il 18 giugno 2020. La coppia cinese che è stata il primo caso di contagio in Italia, ricoverata e curata all'Inmi Spallanzani di Roma e dimessa dalla struttura a metà marzo, ha donato all'Inmi 40 mila dollari per contribuire alla ricerca sul coronavirus. La coppia è tornata in Cina, ma ha deciso di 'ringraziare' con questa donazione i medici e i ricercatori dello Spallanzani, che hanno salvato la vita ai due coniugi ricoverati per molti giorni in terapia intensiva. Marito e moglie rispettivamente di 66 e 67 anni, provenivano dalla provincia di Wuhan ed era arrivati lo scorso 23 gennaio all'aeroporto di Milano Malpensa. Insieme a tutta la loro comitiva si erano spostati per un tour nelle province italiane che aveva toccato varie destinazioni del nord Italia. E avrebbero dovuto proseguire per il sud Italia. Il primo ad accusare i sintomi era stato il marito, mentre la donna, positiva ma asintomatica, ha sviluppato la malattia nei giorni successivi. "La scelta di fare una donazione a favore dell'Istituto Spallanzani è un atto di grande generosità e di riconoscenza. C'è un proverbio cinese che recita: “Chi torna da un viaggio non è mai la stessa persona che è partita”. Ecco il viaggio e la vicenda della coppia di Wuhan curata all'Istituto Spallanzani, che è un'eccellenza del nostro sistema sanitario regionale riconosciuta in tutto il mondo, e che sono stati il primo caso di positività in Italia, rimarrà impressa nella loro e nella nostra memoria. Voglio dunque rivolgere loro un ringraziamento e un invito a fare ritorno a Roma", scrive in una nota l'assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato.

·        Coronavirus nel Mondo.

Ecco quali Stati hanno lottato (con successo) contro il Covid-19. Andrea Walton su Inside Over il 14 ottobre 2020. Il 2020 è stato segnato dallo scoppio della pandemia provocata dal virus SARS-CoV-2 e dal suo dilagare in quasi tutti i Paesi del mondo. Ci sono, però, alcune nazioni che sono riuscite a resistere all’avanzata del contagio riportando pochi o nessun danno. Si tratta, perlopiù, di Stati insulari dell’Oceania, remoti e difficilmente raggiungibili anche in tempi in normali ma anche di Paesi autoritari ed isolati come la Corea del Nord ed il Turkmenistan. Sullo sfondo ci sono anche quelle nazioni che hanno arginato, con efficacia, il virus ed hanno registrato pochissime infezioni.

I segreti dell’Oceania. Le isole Kiribati, Marshall, Nauru, Palau, Samoa, Tonga, Tuvalu, Vanuatu e gli Stati Federati della Micronesia hanno tenuto, almeno sinora, il virus a distanza di sicurezza. La strategia maggiormente applicata è stata quella di chiudere i confini nazionali mentre alcune di queste nazioni, come le Isole Tonga, hanno implementato severe misure restrittive anche in assenza di casi (per evitare che qualche infezione sfuggita alla rete di controllo potesse diffondersi) o dichiarato lo stato di emergenza, come Vanuatu, che durerà sino alla fine del 2020. Non è stata una scelta facile dato che il turismo fornisce un contributo spesso significativo al prodotto interno lordo di alcuni di questi Paesi che sono comunque ben consci dei rischi che potrebbero correre qualora l’epidemia li raggiungesse. A Nauru, ad esempio, buona parte della popolazione soffre di obesità, diabete e problemi cardiaci che, combinati all’assenza di servizi sanitari potrebbe provocare una vera e propria strage. La nazione di Tuvalu, in passato legata al Regno Unito e formalmente una monarchia retta dalla Regina Elisabetta II, ha tratto beneficio dalla sua collocazione geografica. Anche in tempi normali servono più aerei per raggiungerla e lo spostamento, estenuante, dissuade la stragrande maggioranza delle persone dal recarvisi.

Il mistero nordcoreano e quello turkmeno. La Corea del Nord, con una popolazione di oltre 25 milioni di abitanti, non ha dichiarato la presenza di alcun caso di Covid-19 all’interno dei propri confini nazionali. Edwin Salvador, rappresentante dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nel Paese, ha dichiarato che (le sue parole sono riportate dall’agenzia Anadolou) che tutti i test svolti nel Paese sino al 17 settembre (3374) hanno dato esito negativo. Le autorità hanno comunque imposto l’uso delle mascherine negli spazi pubblici e sono state implementate anche altre misure di controllo, come la misura della temperatura corporea in alcune occasioni. Tutti i confini del Paese, compreso quello terrestre con la Cina, sono stati sigillati anche se, nel mese di luglio, si era parlato di un caso sospetto nella città di Kaesong. La vicenda aveva riguardato un uomo, che si era rifugiato in Corea del Sud per poi fare ritorno, i cui test diagnostici avevano dato un risultato indeterminato. Non tutti, data la segretezza che aleggia su Pyongyang, sono realmente convinti che in Corea del Nord non ci siano mai stati o non ci siano attualmente casi di Covid-19 ma, al momento, non ci sono evidenze in tal senso. Il caso del Turkmenistan presenta diverse incongruenze. I corrispondenti di Radio Free Europe/Radio Liberty, un’organizzazione per la comunicazione fondata dal Congresso degli Stati Uniti, hanno segnalato, ad inizio settembre, che gli ospedali del Paese sono stati saturati da pazienti che mostravano una sintomatologia riconducibile a quella del Covid-19 e che anche i decessi erano in crescita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva espresso preoccupazione, in passato, per l’aumento di casi di polmonite atipica in Turkmenistan ed avevano invitato Asghabat ad autorizzare un monitoraggio indipendente in materia. Il Presidente Gurbanguly Mälikgulyýewiç Berdimuhamedow esercita un rigido controllo sulla vita pubblica della nazione e la sua amministrazione ha confermato l’assenza di casi di infezione nel Paese.

Ecco chi è riuscito a resistere. L’espansione della pandemia ha toccato solo marginalmente alcuni Stati, che hanno segnalato la presenza di pochissimi contagi (numeri confermati dall‘ECDC in data 14 ottobre) . Tra questi, in Asia, ci sono Timor Est, separatosi dall’Indonesia nel 1999 dopo una cruenta guerra civile, con appena ventinove casi di infezione, il Bhutan, isolato dalle splendide cime himalayane e situato al confine tra India e Cina, con 313 casi ed il Petro-Stato del Brunei, con 146 contagi confermati. Cambiando continente spicca il caso della Groenlandia, dove i casi totali sono 16 e buona parte dei Paesi più piccoli nei Caraibi, come Dominica e Grenada, che raramente hanno più di qualche decina di infezioni. Ci sono poi diverse nazioni molto popolose, come il Vietnam, che grazie ad interventi sanitari mirati e radicali e ad un’effettiva politica di controllo hanno messo il virus al tappeto. Hanoi ha avuto appena 1113 casi di contagio mentre la vicina Thailandia le infezioni non hanno toccato quota 3700. L’esempio più noto di contenimento efficace è quello messo in pratica dalla Nuova Zelanda, che ha dichiarato appena 1518 casi e che è riuscita ad eradicare quasi completamente il virus SARS-CoV-2 dal Paese. Il costo derivante dalla chiusura totale rischia però di rivelarsi molto alto e bisognerà vedere, nel prossimo futuro, come si manifesterà.

Sono i tracotanti i veri perdenti. Ce lo svela il Coronavirus. Il Corriere della Sera il 15/10/2020. Martha Lincoln in un editoriale pubblicato su Nature il 17 settembre scorso ha proposto un originale spunto per spiegare, almeno in parte, le differenti conseguenze della pandemia in alcuni Paesi del mondo. La sua riflessione è partita dalla constatazione che nazioni in coda nel Global health security index hanno arginato molto meglio Covid-19 rispetto ad altre piazzate nelle posizioni alte della medesima classifica. Fra queste ha citato Stati Uniti, Brasile, Cile e Regno Unito. E si è chiesta quale potesse essere il loro denominatore comune in questo caso. La risposta che si è data è: «il fatto di sentirsi speciali». In effetti solo un anno fa — sottolinea Lincoln — chi avrebbe pensato che gli Usa non fossero uno dei posti più attrezzati al mondo per contrastare un’epidemia? Il Brasile, dal canto suo, ha un presidente che non ha lesinato messaggi mirati a rimarcare come i brasiliani fossero troppo forti per farsi spaventare da una «influenzetta». Quanto al Cile, l’ipotesi dell’editorialista di Nature è che la lusinghiera immagine di sé del Paese potrebbe aver indotto i suoi leader a sottostimare la vulnerabilità al virus nonostante un robusto sistema sanitario. A proposito del Regno Unito, Lincoln si limita a citare la Brexit per ipotizzare che una profonda e diffusa fiducia nelle proprie risorse forse ha qualcosa a che vedere almeno con l’iniziale sottovalutazione del rischio Covid. Al contrario, Paesi perfettamente consci dei propri limiti e dell’impossibilità di fronteggiare l’epidemia, hanno messo in campo prontamente tutte le misure a loro disposizione per ridurre al massimo la diffusione di Sars-Cov-2. L’editorialista cita a questo proposito, per esempio, il Vietnam. Chiaramente si tratta di una tesi che presta il fianco a obiezioni e che certo non basta a spiegare i fattori molto complessi che concorrono a giustificare le differenze epidemiologiche. Nondimeno rimane una lettura stimolante perché può essere applicata sia su scala di popolazione sia individuale e quindi interpella ciascuno di noi sulle proprie responsabilità. Su Nature viene evocata la hybris, che chi ha avuto il privilegio di poter studiare e ha scelto di occupare a suo tempo il banco di un ginnasio ricorderà spiegata come «superbia» o «tracotanza verso gli dei», nella tragedia greca preceduta da olbos e koros, che traduciamo approssimativamente in «felicità» e «abbondanza», e seguita invariabilmente dall’ate, la punizione divina. Papa Francesco ha appena scritto nella sua ultima enciclica che Covid non è una punizione divina. Ma incorrere o non incorrere in un’ate laica è in gran parte nelle nostre mani. Verrebbe da dire nelle nostre mascherine, se non fosse banale. Il problema probabilmente alligna più in profondità. La sicurezza che ci viene da anni di prosperità, almeno nei Paesi occidentali, ha probabilmente contribuito a offuscare la percezione della nostra fragilità e ha indotto a mettere in un cassetto il valore dell’umiltà, esaltando il cinismo, la sicurezza di sé, l’arroganza e soprattutto il disprezzo per la debolezza, tanto che ormai l’insulto più di moda (anche fra potenti leader) è «you are a looser» («sei un perdente»). Ma chi è davvero un vincente e chi un perdente? Forse un virus può aiutarci a capirlo.

Coronavirus in Europa: perché Romania, Bulgaria, Albania e Grecia hanno avuto meno vittime. Pubblicato sabato, 23 maggio 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Dopo tre mesi di questa crisi sanitaria i dati accumulati iniziano a permetterci di iniziare a leggere la sua storia, o almeno la sua prima parte, Ne emerge che in Europa hanno vinto i Paesi considerati di solito più deboli, hanno vinto i meno ricchi e quelli chiaramente poveri. Romania, Bulgaria, Grecia, Albania, Ungheria o Slovacchia hanno avuto - in proporzione alla popolazione – molti meno e spesso meno di un decimo dei morti dei Paesi dell’Europa ricca come Francia, Germania, Svizzera, Svezia, Belgio, Danimarca, Gran Bretagna. Hanno avuto molti meno contagi, sono riusciti a controllare la curva dell’epidemia e a piegarla prima. Fortuna? Forse anche. Forse meno persone portatrici del virus si sono trasferite in quella regione centro orientale d’Europa nelle settimane decisive di gennaio e febbraio. Ma alcuni indizi presenti nei dati fanno pensare che c’è anche qualcos’altro: quei Paesi sono stati più umili, perché erano più consapevoli della fragilità dei loro sistemi sanitari. Per questo non hanno preso alla leggera i segnali che arrivavano da Italia e Spagna e hanno deciso di applicare prima, e con più rigore, regimi di lockdown più stringenti. Sapevano che non potevano permettersi di prendersi rischi. Una fotografia del quadro del 15 marzo scorso permette di capire come il cammino delle due parti d’Europa – la più ricca a Occidente, la meno ricca più a Oriente – si sia divaricato molto presto in questa crisi. Quel giorno l’Italia contava già 1809 morti per coronavirus e 24 mila contagi. La Spagna aveva 294 morti e 7988 casi, ma il resto d’Europa poteva pensare di essere quasi indenne. La Francia, il terzo Paese allora più colpito in grandezze assolute, aveva 127 morti e 5423 contagi registrati. Molti nel resto dell’Europa occidentale sospettavano tacitamente, e un po’ sdegnosamente, che l’epidemia nell’Europa del Sud fosse frutto della disorganizzazione dei paesi coinvolti. Se si guarda allo “Government Response Stringency Index” della Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford - una misura a punti della restrittività dei lockdown, da 1 per la massima apertura a 100 per la massima chiusura – a metà marzo il gruppo dei Paesi “umili” si era già mosso per anticipare il contagio sulla base di ciò a cui stava assistendo in Italia. L’Albania era 84, la Slovacchia a 71, la Romania a 67, la Polonia a 60, l’Ungheria a 59, la Grecia a 57. Invece i Paesi più ricchi sembravano decisamente più rilassati (la Germania a 37, la Francia a 50, il Belgio 53, Gran Bretagna a 11, la Svizzera 46, la Svezia. Una stretta del confinamento in quasi tutta l’Europa occidentale sarebbe arrivata solo a fine marzo, dieci giorni dopo, quando ormai era chiaro che l’epidemia non era solo un problema dell’Italia o della Spagna. Sono stati dieci giorni fatali, che potrebbero essere costati decine di migliaia di morti. Due mesi e mezzo dopo ci sono tutti i segni che la sottovalutazione dei Paesi più forti d’Europa ha comportato un costo molto alto. E che l’umiltà dei Paesi poveri d’Europa ha dato i suoi frutti. Li ha resi più lungimiranti e meno fragili. In base ai dati del Worldometer l’Albania oggi conta solo 11 morti per milione di abitanti, la Gran Bretagna 536 morti. La Grecia conta 16 morti per milione di abitanti, il Belgio 795. La Slovacchia 5 morti, la Francia 432. La Svizzera 220 morti (ma con dati che sembrano incoerentemente bassi, a un’analisi accurata), la Romania 60. La Germania 99 (con una cautela simile a quella che vale per i dati svizzeri), mentre la Polonia 60. Una drammatica pandemia non è certo il contesto adatto per parabole generiche e moraleggianti sul valore dell’umiltà e della prudenza e sui rischi insiti nell’eccessiva sicurezza di sé. Ma la consapevolezza della propria fragilità questa sembra aver reso a nazioni vicine come l’Albania o la Grecia un grande servigio.

Il mondo si è fermato: più del 40% della popolazione mondiale è chiusa in casa o sottoposte a limitazioni di movimento o isolamento sociale nella lotta alla pandemia di coronavirus Sars-Cov-2. Gli Stati Uniti sono ormai il paese con più casi al mondo, l'Italia quello con più vittime. Una tragedia senza fine. E gli occhi sono puntati alla curva dei contagi, aspettando una flessione, per capire o almeno iniziare a pensare a un ritorno alla normalità.

Da agi.it il 5 aprile 2020. E' San Marino lo Stato al mondo più colpito dall'epidemia di coronavirus in atto, seguito da Andorra e Lussemburgo. Non si parla naturalmente di numeri assoluti, che non sono paragonabili con quelli a sei cifre di Stati Uniti (245.000 casi di positività), Italia e Spagna, entrambe oltre i 110.000, ma di numeri relativi, in rapporto alla popolazione. Sulla base dei dati mondiali sui casi di contagio della Johns Hopkins University, che raccoglie le cifre provenienti dai vari dipartimenti sanitari dei Paesi, possiamo calcolare a nostra volta la diffusione nella popolazione. A San Marino si sono verificati dall'inizio del contagio 245 casi; in percentuale sui 33.500 abitanti della Rocca questo significa un tasso del 7,3 per mille. Il secondo posto in questa poco lusinghiera classifica va ad Andorra, che conta 428 casi di contagio, vale a dire il 5,6 per mille sui 76.000 abitanti. Segue il Lussemburgo, con ben 2.487 casi, il 4,1 per mille in rapporto alla popolazione di 602mila abitanti. Altri casi all'attenzione sono quello dell'Islanda, con 1319 contagi su una popolazione di 374.000 abitanti, pari al 3,5 per mille, e le Isole Far Oer, che fanno parte della Danimarca, con 179 contagiati, il 3,4 per mille degli abitanti. A San Marino spetta anche il triste primato dei decessi, con 30 morti (0,8 per mille sugli abitanti), mentre Andorra ne ha 15 e il Lussemburgo ugualmente 30 ma su una popolazione più ampia. Tra gli Stati più grandi, gli unici a superare un tasso di contagio sopra il 2 per mille sono la Spagna, con 112.065 casi su quasi 47 milioni di abitanti, pari al 2,3 per mille, e la Svizzera, 18.827 casi, pari al 2,1 per mille su 8,5 milioni di abitanti. Segue l'Italia, con l'1,9 per mille, il Belgio a 1,34 e l'Austria a 1,27.

Coronavirus nelle Filippine, Rodrigo Duterte: sparare a vista a chi viola le regole della quarantena. Libero Quotidiano il 02 aprile 2020. Laddove si spara a vista. Laddove all'incubo del coronavirus si aggiunge quello di un governante fuori di testa. Siamo nelle Filippine, dove il presidente simil-dittatore, Rodrigo Duterte, ha ordinato alla polizia di sparare ai cittadini che violano le regole imposte dalla quarantena. Una minaccia piovuta dopo l'arresto di 21 persone che erano scese in strada a Quezon City, sull'isola di Luzon, in un mini-corteo per chiedere aiuto al governo. Arrestati perché la protesta non era autorizzata. Probabilmente, alcuni dei manifestanti erano in cerca di cibo. Duterte ha poi invitato i cittadini ad attendere l'assistenza del governo: "Anche se in ritardo, arriverà. E nessuno morirà di fame", ha spiegato. Ma, intanto, si spara a vista.

Filippine, Duerte minaccia: «La polizia sparerà a chiunque violi la quarantena». Il Dubbio il 2 aprile 2020. Il presidente ha dato l’annuncio in tv: «I miei ordini alla polizia e ai militari è di sparare. Piuttosto che creare problemi, vi manderò nella tomba». Il presidente della Filippine, Rodrigo Duterte, ha ordinato alla polizia di sparare ai cittadini che violano le regole della quarantena, imposta per contenere la diffusione del nuovo coronavirus. La violenta minaccia arrivata dal presidente, riporta il Guardian, segue l’arresto di 21 persone, scese in strada a Quezon City, sull’isola di Luzon, per chiedere aiuto al governo sullo sfondo della crisi provocata dall’epidemia. La polizia ha detto che la protesta non era autorizzata, ma secondo il sito Rapper non è chiaro se tutti i partecipanti stessero manifestando o se qualcuno semplicemente fosse in cerca di cibo. Ci sono preoccupazioni crescenti nel Paese su come le fasce più povere della popolazione potranno sopravvivere al mese di lockdown imposto sull’isola di Luzon, dove si trova anche la capitale Manila. La maggior parte dei 48 milioni di persone che la popolano dipendono da lavori giornalieri, interrotti bruscamente in seguito alla chiusura decisa dalle autorità. Duterte ha invitato i cittadini ad aspettare l’assistenza del governo, spiegando che «anche se in ritardo, arriverà e nessuno morirà di fame». Il presidente ha avvertito che il rispetto delle misure di quarantena sarà severamente controllato: «I miei ordini alla polizia e ai militari è di sparare. Piuttosto che creare problemi, vi manderò nella tomba», ha ammonito Duterte in un discorso trasmesso in tv.

Danilo Taino per il “Corriere della Sera” il 31 marzo 2020. Per i Paesi poveri, la pandemia è un dramma ancora maggiore che per le società più ricche. Ma c' è qualcosa di peggio del coronavirus. Per esempio, la risposta avventata di qualche governo. Il primo ministro indiano Narendra Modi ha deciso, repentinamente, di mettere in quarantena tutti, un miliardo e 400 milioni di persone, senza valutarne le conseguenze. Un «coprifuoco del popolo» impopolare come mai. Il risultato, in piena luce in queste ore, è un esodo di massa che non ha precedenti in anni recenti. Milioni di migranti poveri, senza più lavoro, hanno abbandonato le città, nelle quali vivevano perlopiù negli slum, per tornare ai loro villaggi. A piedi: il blocco dei trasporti pubblici doveva durare una giornata di «prova» ma l' attività non è più ripresa. Sono lavoratori, in gran parte dell' economia informale, che vengono pagati a giornata o ogni settimana, già ora senza denaro. Ai quali molti proprietari di casa (anche negli slum si sta in affitto) si rifiutano di fare credito, ai quali i commercianti non regalano una cipolla, ai quali non è rimasto che caricarsi in spalla le poche cose e i figli e partire per viaggi lunghi anche centinaia di chilometri. Con poco cibo o senza. Sotto il sole dell' India, sulle strade che attraversano la attraversano. Una "marcia del sale" gandhiana a rovescio, di disperati senza speranza. La situazione è serissima e fa temere rivolte. Modi si è scusato ma ha detto che la misura era inevitabile per ragioni sanitarie. Questo è però l' effetto ultimo, frutto della mancanza di considerazione per milioni di lavoratori, che la pandemia ha sull' India. C' è altro. I fornitori di servizi informatici al resto del mondo perdono business giorno dopo giorno. Le manifatture di componenti e di prodotti intermedi chiudono via via che le imprese estere riducono l' attività. Un dramma per l' India - un' economia emergente - che racconta su grandi numeri la catastrofe potenziale rappresentata dall' espandersi del coronavirus nei Paesi più poveri.

Nel vicino Bangladesh, un milione di Rohingya in fuga dal Myanmar, rinchiusi in affollati campi di accoglienza, rischia un' epidemia a tappeto. E l' industria del Paese, legatissima alle commesse estere del settore tessile, si sta riducendo quasi a zero. In Cambogia sono state arrestate persone che avevano scambiato informazioni sul virus non gradite al governo.

In Asia, alcuni Paesi - Corea del Sud, Taiwan, Singapore, Hong Kong, Vietnam - stanno affrontando la crisi meglio dell' Europa e degli Stati Uniti. Ma di altri si fatica persino ad avere dati. Si vedono però gli effetti. A causa del lockdown, in Thailandia, migliaia di migranti cercano di tornare nel Myanmar, ma molti sono stati bloccati prima della frontiera. Nelle Filippine si è creato un notevole caos, soprattutto a Manila, dopo la dichiarazione di quarantena.

In Africa, il numero di casi ufficiali è abbastanza limitato ma la preoccupazione è alta. Soprattutto in Egitto, Algeria e Sud Africa, Paesi con i maggiori contatti con manodopera cinese molto presente nel continente. Fatto sta che la Nigeria ha ordinato la chiusura di tutti i business nelle città di Lagos e Abuja. Oltre alla mancanza di strutture sanitarie capaci di rispondere a un'espansione della pandemia, molti Paesi poveri saranno colpiti con violenza dal rallentamento dell' economia mondiale dalla quale dipendono. Il prezzo delle materie prime, loro esportazioni, è crollato. Il turismo è a terra. Le valute, a cominciare dal rand sudafricano, si deprezzano. Molti Paesi africani, che avevano economie in crescita, rischiano di fare un balzo all' indietro di anni. Oltre a restare in balia del virus e a costituire focolai di infezione per lungo tempo. A maggior ragione se i governi sbagliano grandiosamente.

Bielorussia, Brasile e l'Isis gli ultimi negazionisti. Per Lukashenko "basta una sauna". Bolsonaro: "Influenzetta". E i jihadisti: "Colpisce gli infedeli". Fausto Biloslavo, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Il presidente bielorusso che invita a lavorare nei campi perché «il trattore guarisce tutti», quello messicano che va al ristorante invitando la popolazione a uscire a cena e il leader brasiliano che parla di «influenzina» e «raffreddorino». La lista di chi si sente immune dal virus cinese è lunga e comprende anche i terroristi dell'Isis convinti che colpisce solo «gli stati idolatri». In Bielorussia il campionato di calcio continua come se nulla fosse accaduto con gli spalti pieni di tifosi. Il padre-padrone del paese dal 1994, Alexander Lukashenko, ha bollato le misure anti contagio come «una psicosi di un mondo civilizzato impazzito». Non a caso invita la popolazione ad andare al lavoro come sempre. E soprattutto nei campi perché «il trattore guarisce tutti», ma secondo il presidente a vita pure vodka e sauna fanno bene contro il virus. Dall'altra parte del mondo Jair Bolsonaro ha addirittura lanciato la campagna #OBrasilNaoPodePara, il Brasile non può fermarsi. «Non si chiude una fabbrica di automobili perché ci sono morti negli incidenti stradali», ha sentenziato il presidente. E durante un'intervista è riuscito a dire che «per il 90 per cento della popolazione sarà una influenzetta». Anche il capo di stato messicano, Andres Manuel Lopez Obrador, era un campione di sottovalutazione del pericolo fino a ieri, quando il governo ha imposto lo stop a tutte le attività non essenziali. In realtà sono aperti ancora molti ristoranti, dopo che Obrador si è fatto riprendere a cena, la scorsa settimana, in un ritrovo popolare. E postando il filmato su Facebook aveva annunciato: «Se avete la possibilità economica continuate a portare la famiglia a mangiare, ai ristoranti, alle aziende agricole. Fatelo perché significa rafforzare l'economia familiare e popolare». Amlo, come viene chiamato in Messico, ha pure continuato a tenere raduni in tutto il paese dove ha abbracciato i fan e stretto la mano ai sostenitori fregandosene delle raccomandazioni di evitare contatti ravvicinati. Pure i terroristi pensano di essere immuni dal virus. «L'annuncio», bollettino in rete dello Stato islamico ha dedicato la copertina al contagio pubblicando una foto dei nostri soldati in mimetica e mascherine che cinturano una zona rossa. Secondo i redattori jihadisti l'epidemia «ha colpito soprattutto le nazioni idolatre (sia lodato Allah)». Non solo i paesi occidentali come l'Italia o la Cina comunista, ma pure l'odiato Iran dove governano gli ayatollah sciiti considerati apostati. «Possa Allah aumentare la sofferenza degli infedeli e tenere al sicuro i credenti», rimarcano i terroristi, convinti che sia «un tormento divino». Gli svedesi, che sorridevano di fronte all'emergenza italiana, nelle ultime ore hanno inasprito le misure di distanziamento sociale abbassando da 500 a 50 il numero massimo di persone permesso negli assembramenti. Però, rispetto a gran parte dell'Europa, hanno tenuto aperte scuole, ristoranti e bar. Il più incredibile è il monarca thailandese, Maha Vajiralongkorn, alias Rama decimo, che non ha rinunciato alle vacanze a Garmisch-Partenkirchen, rinomata località sciistica in Baviera. E fregandosene del rischio virus ha affittato un intero hotel per il vasto seguito. Non solo: il re con 20 concubine alloggiava nella sua villa in zona, ma si sospetta senza tener conto della distanza di un metro. In patria, nel frattempo, veniva decretato lo stato di emergenza per il Covid-19. La vacanza reale ha provocato un'ondata di indignazione.

Coronavirus, le misure di contenimento nel mondo: dall'indeciso Giappone al modello Singapore. Le misure che i vari governi stanno adottando per arrivare all’obiettivo sono diverse, dettate dalle peculiarità della situazione locale e dalla sensibilità politica e dell’opinione pubblica. Filippo Santelli il 23 febbraio 2020 su La Repubblica. L’allarme rosso in Corea del Sud, le indecisioni del Giappone, le informazioni via social di Singapore, la quarantena obbligatoria negli Stati Uniti (ma non nel resto d’Europa). Non è solo l’Italia: in molti Paesi i casi di coronavirus stanno aumentando, e in alcuni, come la Corea, ad un ritmo altrettanto rapido. Per tutti in questo momento la parola d’ordine è “contenimento”, cercare di tracciare i contatti attraverso cui le persone si sono contagiate, per circoscrivere e spegnere i focolai di epidemia. Ma le misure che i vari governi stanno adottando per arrivare all’obiettivo sono diverse, dettate dalle peculiarità della situazione locale e dalla sensibilità politica e dell’opinione pubblica. Eccone una sintesi, una sorta di cassetta degli attrezzi anti-contagio a cui in queste ore sta attingendo, a modo suo, anche l’Italia.  

Allarme rosso in Corea del Sud. La Corea del Sud è il Paese, insieme al nostro, dove nelle ultime ore il numero dei contagiati è salito più veloce. Solo domenica i nuovi casi sono stati 169, portando il totale a 602, con 5 morti. Per la prima volta da un decennio il governo ha alzato il livello di allarme sanitario a “rosso”, il massimo grado, mossa che in teoria permette di bloccare gli arrivi da specifici Paesi, sospendere i trasporti e boccare le città. Al momento però nessuna di queste misure è stata presa. La riapertura delle scuole dopo il Capodanno lunare è stata rinviata di una settimana, a lunedì 9. Sconsigliate le manifestazioni pubbliche, anche se questo non ha impedito a un gruppo cristiano di tenerne una ieri a Seul. All’ingresso di molti edifici pubblici sono state installate postazioni con disinfettante per le mani. I casi sono per la maggior parte legati a due focolai, quello tra i fedeli della setta pseudo-cristiana Shincheonji, nella città di Daegu (2,5 milioni di abitanti), e quello in un ospedale nella città di Cheongdo. Il governo ha proclamato entrambe “aree speciali”, invitando i cittadini a restare a casa ma senza bloccare ingressi e uscite. Sono in corso operazioni di disinfestazione nelle aree pubbliche. Il massimo sforzo è per ricostruire la mappa delle persone contagiate e dei loro contatti. Le autorità hanno la lista di tutti i fedeli della chiesa locale di Shincheonji, circa 10mila sarebbero in quarantena domestica, ma molti altri non si riescono a rintracciare. I laboratori nazionali eseguono dai 5mila ai 6mila test al giorno. Seul non ha chiuso i voli dalla Cina, ma secondo il sito Viaggiare sicuri del nostro ministero degli Esteri ha creato dei canali di ingresso speciali negli aeroporti per chi arriva dalla Repubblica Popolare, persone a cui poi chiede di registrare la propria residenza e di sottoporsi ad autodiagnosi per 14 giorni, registrando i risultati su una app.

Niente panico, siamo Singapore. Anche a Singapore (89 casi su 5,6 milioni di abitanti, nessun morto) la priorità è ricostruire storia e legami di ogni persona contagiata. Il livello di allarme resta da un paio di settimane ad arancione, un grado più volte raggiunto anche in passato e che non prevede alcun tipo di limitazione o chiusura. Scuole, uffici, luoghi pubblici e mezzi di trasporto sono sempre rimasti aperti. Ma se c’è una cosa in cui la città-Stato appare un modello è nella gestione della comunicazione in questo momento di crisi. Sul sito ufficiale del governo e attraverso i suoi canali social (Whatsapp, Facebook o Instagram) vengono dati costanti aggiornamenti ai cittadini sull’evoluzione dei casi e delle indagini sugli stessi, consigli su come proteggersi e su cosa fare in caso si manifestassero dei sintomi. Obiettivo: assicurarsi che le persone prendano le giuste precauzioni, che non si scateni il panico e che gli ospedali non si intasino diventando un luogo di moltiplicazione del contagio. Singapore ha introdotto un divieto di ingresso per tutti gli stranieri provenienti dalla Cina (ma non da Hong Kong e Macao). Per i cittadini o i residenti di ritorno dalla Repubblica Popolare sono previsti 14 giorni di congedo obbligatorio dal lavoro, o 14 giorni di quarantena se sono passati dallo Hubei. Funzionari sanitari verificano il rispetto delle misure di isolamento con migliaia di telefonate ogni giorno.

Le indecisioni del Giappone. Da qualche giorno il governo giapponese (146 casi, più i 634 sulla nave Diamond Princess, un decesso) è oggetto di pesanti critiche per come sta gestendo l’emergenza. In primo luogo per aver deciso di bloccare a bordo i passeggeri della nave da crociera, rivelatasi un moltiplicatore di contagio, e poi per la scelta, al termine della quarantena, di far sbarcare i suoi cittadini senza ulteriore isolamento o accertamenti più approfonditi. Ieri una turista giapponese scesa dalla Diamond Princess è risultata positiva e altri 20 compagni di viaggio che dovrebbero essere ritestati non si trovano. Il ministro della Sanità si è scusato pubblicamente per “l’errore”. Dal punto di vista della prevenzione, il governo si è limitato a dire a lavoratori e studenti di restare in casa se hanno sintomi influenzali, ma l’appello rischia di lasciare il tempo che trova vista la dedizione al lavoro della cultura giapponese. Tokyo non vuole creare allarmismo in vista delle Olimpiadi della prossima estate, ma non ha potuto evitare di limitare alcuni eventi pubblici: la maratona cittadina prevista tra una settimana sarà corsa dai soli atleti professionisti, mentre i corsi di preparazione per i volontari dei Giochi sono stati rinviati. L’altra priorità di Abe sembra quella di evitare di compromettere i rapporti con la Cina, anche per questo le limitazioni alle frontiere sono contenute: vietato l’ingresso solo alle persone, cinesi o non, che provengono dalle regioni dello Hubei o dello Zhejiang, le più colpite.

La chiusura cinese. Le misure di contenimento più energiche, si capisce il motivo, sono quelle prese dalla Cina. Oltre all’isolamento completo della provincia dello Hubei, 50 milioni di persone, che dura ormai da un mese, varie forme di limitazione ai trasporti, sorveglianza domestica o controllo degli spostamenti sono state introdotte anche nel resto del Paese, coinvolgono tra i 500 e i 750 milioni di persone, la metà della popolazione. Ogni provincia o città autonoma le ha declinate e fatte rispettare a suo modo, più o meno duro a seconda delle esigenze. Un blocco di fatto, da cui ora il Paese sta lentamente uscendo, riavviando le attività produttive. Ma i dipendenti degli uffici continuano a lavorare da casa e le scuole restano chiuse a tempo indeterminato. Tutte le manifestazioni pubbliche sono state sospese. Questo blocco senza precedenti comincia a dare i suoi frutti: il numero di nuovi casi registrati è in discesa sia nello Hubei che nel resto del Paese. Ora i guariti sono più dei nuovi contagiati.

Il resto del mondo. Gli Stati Uniti (35 casi) hanno vietato l’ingresso a tutte le persone che negli ultimi 14 giorni siano state in Cina continentale (ma non a Hong Kong). Per i cittadini americani che tornano, solo la California ne conta quasi 7mila, è prevista una quarantena di 14 giorni in casa. La verifica dell’isolamento e il supporto a chi lo sta facendo sono affidati alle oltre 3mila giurisdizioni sanitarie locali, un sistema che molti considerano poroso. I maggiori Paesi europei come Francia (12 casi), Germania (16) o Spagna (2) invece al momento non prevedono alcuna quarantena per chi ritorna dalla Cina, né hanno bloccato completamente i collegamenti aerei con la Repubblica Popolare.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 18 marzo 2020. Si dice, con dovizia di scienza, che l'andamento del virus non è prevedibile. Ma c'è una tabella messa a punto dall' economista tedesco Henrik Enderlein secondo cui la Germania è otto giorni in ritardo sull' Italia, e la marcia è la stessa. L'1 marzo l' Italia aveva 1.100 contagiati e il 9 marzo la Germania ne aveva altrettanti. Il 3 marzo l' Italia ne aveva duemila e l' 11 marzo la Germania 1.900. Secondo la tabella di Enderlein, il 16 marzo (corrispondente all'8 marzo in Italia) la Germania avrebbe dovuto avvicinarsi ai seimila contagiati ed è successo: li ha superati di poco. La tabella è applicabile a tutti i paesi europei, con differenze massime di poche centinaia di contagiati. La Spagna è in ritardo di sei giorni, la Francia di nove, il Regno Unito di quattordici (noi il 3 marzo duemila casi e 53 morti, loro ieri 1.950 casi e 55 morti). Fantastico e terribile. Il virus si muove con una precisione da passo dell'oca, e la sua precisione sarebbe la sua vulnerabilità se solo gli uomini non fossero vittime di orgoglio, di folle fiducia nella loro eccezionalità, della medesima accecante paura, e così soluzioni ed effetti si ripetono con cronometrica ineluttabilità. La Germania ha chiuso i ristoranti, ma solo dalle 18. Ricorda qualcosa? Da Parigi arrivano foto di stazioni prese d' assalto per la fuga, e dall' intera Francia assedi di supermercati e rivolte di carceri. Intanto l' Organizzazione mondiale della sanità ci ha di nuovo proposti come modello. Un primato che ci saremmo risparmiati. Ma di sicuro, per una volta, i suonatori di mandolino non siamo noi.

Di Luca Guadagnino raccontato a Hunter Harris il 18 marzo 2020 su vulture.com. Mentre i casi di coronavirus continuano ad aumentare a livello planetario e i governi impongono isolamenti e restrizioni di viaggio, Vulture sta parlando con registi di tutto il mondo su come stanno gestendo questo nuovo modo di vivere, fatto di distanza sociale.  ‘’Stiamo affrontando un momento imprevedibile e senza precedenti. Sono a Milano. Nel centro di Milano. Tutto è così rallentato, come del resto in ogni parte del mondo. In America, i nostri amici, fratelli e sorelle, sono all’inizio, esattamente come eravamo noi due settimane fa: ti preoccupi delle persone che sono nel tuo paese ma sei convinto che tanto la cosa non ti toccherà. E poi si diffonde. Il 22 febbraio, quando le prime due aree in Lombardia sono state definite “zone rosse”, a casa mia c’erano degli amici arrivati dall’America.  L’indomani mattina sono partiti dall’Italia ed è suonato come “oh, strano”. E poi, nel giro di una settimana, il contagio si è diffuso fino ad arrivare all’isolamento. Sono impegnato nella post-produzione di tre differenti progetti. Sto lavorando ad uno spettacolo per l’HBO chiamato Noi Siamo Chi Siamo (We are who We are). Ho prodotto un film diretto da Ferdinand Cito Filomarino con John David Washington intitolato Nato Per Essere Ucciso (Born to be Murdered). Ho quasi finito il documentario Salvatore Il Calzolaio dei Sogni, sulla vita del grande stilista Salvatore Ferragamo. La tecnologia aiuta molto perché puoi lavorare e confrontarti a distanza, come stanno facendo tutti in questa condizione di isolamento. Ho lavorato molto in Svezia e in Francia perché i miei collaboratori sono là. Prima dell’isolamento il sentimento nei nostri confronti era “oh ragazzi. Mi dispiace tanto per voi”. E ora, guarda: la Francia è in isolamento, la Spagna è in isolamento, l’Austria è in isolamento, la Germania è in isolamento. È veramente strano essere i primi, non ti vedi come ti sei sempre immaginato, ma allo stesso tempo hai un senso etico di responsabilità, di comunione e di collettività che ti permette di capire che devi farlo. La primavera sta esplodendo. Sono nel mio salotto e ho queste grandi finestre. Sono fortunato perché la stanza è grande e anche la casa. Dalle finestre vedo entrare la luce e vedo foglie e fiori sbocciare. Di solito in primavera esci, vivi la natura e fai vita sociale. La città è vuota. Lo vedo dalla mia finestra. Realizzi che ci vuole veramente tanta forza di volontà per non farsi danneggiare da queste misure estreme ed è emozionante vedere che, in qualche modo, stiamo reagendo, lavorando e cercando di limitare i danni. Questa esperienza che stai condividendo con tutti, con tutti quelli che sono in isolamento in Italia, ti fa sentire meno solo. E presto questo esempio verrà seguito in tutto il mondo. Ho appena ricevuto una email dagli amici di New York che mi informano della chiusura di negozi, cinema, e così via. Le foto che vedo delle altre città nel mondo mi ricordano le città italiane. Per me sembra un po’ una distopia futuristica, come in The Man Who Fell to Earth, come l’Omega Man o come il finale del grande film di John Carpenter in The Mouth of Madness. Esco solo una volta al giorno per comprare i giornali. Sono andato a vedere L’uomo invisibile a Parigi dieci o dodici giorni fa, ed è stato l’ultimo film che ho visto al cinema. Sono andato al ristorante forse il 3 o il 5 marzo. Quella è stata l’ultima volta che ho cenato in un ristorante. Sto leggendo un libro molto bello di Mohamed Mahmoud Ould Mohamedou, un docente di politica internazionale. È intitolato La Teoria dell’ISIS: violenza politica e la trasformazione dell’ordine globale. È un libro fantastico. Guardo film. Finalmente sono riuscito a vedere Waves (Le onde della vita), dove recita Kelvin Harrison Jr, che ritengo sia tra gli attori più intelligenti che lavorano oggi. Mi piace davvero tanto, ed è stato meraviglioso vedere un’altra sua interpretazione. Sto pensando di guardare tutti i film del grande regista taiwanese Edward Yang. È molto importante che le persone capiscano — che i leader capiscano — che non è un problema italiano, così come non era un problema cinese. È una pandemia, e prima o poi colpirà duramente dappertutto. La regione cinese di Hubei era solo due mesi in anticipo, poi la Corea del Sud, il Giappone, poi l’Iran, poi l’Italia, e ora stiamo vedendo che si sta diffondendo ovunque. La cosa peggiore che può accadere è la negazione, un errore di valutazione o compiacenza. Dobbiamo capire che questo problema riguarda tutto il mondo e ognuno di noi è a rischio. Joe Biden, in un dibattito con Bernie Sanders, ha affermato che in America un sistema sanitario nazionale non funzionerebbe, evidenziando quanto non funzionasse in Italia. Sanders, invece, sostiene che in America, dove il sistema sanitario è totalmente privato e for-profit, debba esserci un sistema sanitario pubblico. Penso sia terribile che un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti dica una cosa così inesatta e devastante. In Italia, grazie al sistema sanitario nazionale, stiamo gestendo l’epidemia e si salvano vite. Le persone non sono ignorate ma sottoposte a controlli, e anche chi non può permettersi un’assicurazione sanitaria può andare in ospedale gratuitamente.  Negli ultimi 25 anni, il liberalismo nel mondo ha permesso la privatizzazione di servizi cruciali e fondamentali come la sanità nazionale, e questo è grave. Non voglio prevedere un problema serio per l’America, ma credo che sarà molto complicato perché le persone meno benestanti affronteranno tempi difficili e le risposte dal governo sono minime. Ma forse si sveglieranno. Spero che la modalità di diffusione del virus faccia capire a tutti noi che è importante riflettere e continuare a svolgere il nostro lavoro. È un nemico invisibile. Sono spaventato? Non lo so. Lo sarei se fossi più vecchio, onestamente. Sono spaventato per le persone che amo. 

Dagospia il 17 marzo 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Micaela, italiana che vive a Londra da due anni e mezzo, ha raccontato lo spiacevole inconveniente che le è capitato in un supermercato della city, intervenendo ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Micaela, che chiede di non svelare il suo cognome, ha raccontato: "E' successo a Londra, dove abito. Tornavo dal lavoro, ero appena scesa dalla metro e sono entrata in un supermercato per comprare delle cose. Visto che lo Stato inglese non sta prendendo grandi provvedimenti ho scelto di portare la mascherina quando viaggio in metro o nei supermercati particolarmente affollati. Ero in fila per pagare, quello che era davanti a me si è girato e in modo ironico ha detto "ah, la tua mascherina cambierà molto". Il cassiere, che ha sentito, ha iniziato a ridacchiare con lui e ha detto che gli italiani hanno infettato tutta l'Europa. Non so se parlasse in modo generico o se avesse capito che sono italiana, anche se frequento spesso questo supermercato. A quel punto ho detto la mia opinione, ho detto che non era divertente scherzare su questa cosa, perché in Italia la gente sta morendo e che la situazione è drammatica e triste. Quello della sicurezza ha sentito le mie parole, è venuto verso di me gridando, mi ha detto che non dovevo permettermi di parlare in questo modo, mi ha preso per il braccio e portato all'uscita, dicendomi che me ne sarei dovuta andare immediatamente". Micaela è ancora scossa mentre ne parla: "Mi ha preso per il braccio e mentre provavo a replicare mi ha portato all'uscita e mi ha detto di andarmene. Sono tornata a casa, anche se avrei dovuto chiamare la polizia. Non l'ho fatto, è stato un errore. Ma in quel momento volevo solo tornare a casa. Ci si sente male ad essere trattati così. E' strano. Per la prima volta in due anni e mezzo mi sono sentita vittima di razzismo". Sul futuro: "Vorrei tornare in Italia. Ma i voli sono costosissimi. E non è una cosa che si può fare da un giorno all'altro. Vivo da due anni e mezzo qui, sono legata al mio lavoro, mi piace quello che faccio, non vorrei lasciarlo. Ma se la situazione dovesse peggiorare, non avrò scelte. L'opinione pubblica?  Molti inglesi sono d'accordo con il Governo, altri no. Spero che cambino idea, nelle ultime ore si inizia a parlare di provvedimenti di restrizione". 

Dagospia il 17 marzo 2020. Da radiocusanocampus.it. Luca, italiano residente ad Anversa (Belgio), è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Come si vive l'emergenza Coronavirus in Belgio. "All'inizio nei tg non si parlava d'altro che della situazione italiana, c'era una curiosità sincera sull'avanzamento del virus e le soluzioni che il governo avrebbe assunto -ha raccontato Luca-. Poi da venerdì lo stesso Belgio ha preso contromisure come la chiusura di scuole, attività ricreative, ristoranti. Ancora c'è tanta gente in giro, la città è normale, anzi forse a correre c'è qualche persona in più visto che hanno chiuso le palestre. Ci sono poi le raccomandazioni. I belgi sono molto affettuosi e ora devono rinunciare al bacio per salutarsi, viene raccomandato di salutarsi con la scarpa. Anche qui ci sono scene di assedi ai supermercati. Il giorno in cui dovevano annunciare la chiusura delle scuole sono andato al supermercato e l'ho trovato svuotato. Tanta gente è andata in Olanda, dove ristoranti e pub sono ancora aperti. Fino a domenica scorsa c'era qui mio padre e ha rischiato di non poter rientrare in Italia perchè hanno bloccato moltissimi voli. Ho paura che accada come in Italia perchè minacciano sempre decisioni più forti. Poi la Germania ha bloccato le frontiere per la Francia e i francesi stanno passando dal Belgio per entrare in Germania".

Luigi Mascheroni per il Giornale il 17 marzo 2020. Il virus è identico in ogni Paese, ma ogni Paese risponde al virus a modo suo. Non è una questione di regole, più o meno uguali per tutti. Ma di spirito. Le razze non esistono, ma i caratteri nazionali sì, e sono eterni. I tipi e gli aspetti umani raccontano più di un decreto governativo in materia di norme regole igienico-sanitarie. Si chiama antropologia. Gli italiani, popolo per natura refrattario alle regole e diviso su tutto ma che si ricompatta sull'idea di Italia più che su quella di Nazione, ha reagito come ha reagito, con un po' di improvvisazione, tantissimo coraggio, la solita furbizia, e il genio. Poi resta l'insostituibile spirito comunitario e di adattamento latino. Non c'è niente da fare. Siamo mediterranei e non riusciamo a stare da soli. L'agorà può esser anche solo il cortile condominiale, basta che da un lato all'altro del palazzo si riesca a improvvisare l'inno di Mameli, pur di fare festa. Più discretamente, con una tromba solitaria, a Milano. Coralmente, con pentole e grancasse, sui balconi di Napoli. Abbracciame cchiù forte. E l'Amuchina non serve.

La Spagna, latina e mediterranea come noi, ci ha già lanciato la sfida della creatività. Provaci tu a chiudere in casa uno spagnolo che ha 350 giorni di sole all'anno. Dai balconi, durante la quarantena, loro sono già arrivati a fare la tombola di quartiere. Cuarenta y nueve... Sesenta y siete...

Poi ci sono i francesi. Arroganti, non certo simpaticissimi, insopportabili nel loro sciovinismo, nel credersi sempre migliori, quelli che a loro non può capitare niente di male. I francesi acquisiti, poi, sono i peggiori. Sommano ai propri difetti nazionali quelli transalpini. Senza scomodare il còrso Napoleone, avete visto cosa ha detto e cosa ha fatto Carla Bruni, ieri? La Grandeur della stupidità. O la piccolezza della Grandeur.

E i tedeschi? Davanti a qualsiasi cosa si muovono come la Panzer-Division. Schiacciano tutto e tutti, a volte anche il buonsenso, l'etica e la fratellanza fra popoli. Hanno requisito le mascherine destinate all'Italia... In passato c'è andata anche peggio. In Russia, agli alpini della Julia, Tridentina e Cuneense portarono via tutti i mezzi di trasporto e la benzina, lasciandoli a piedi sul Don. Ed eravamo alleati...

Poi ci sono gli inglesi. L'Impero, la Corona, l'amor patrio, il sacrificio fino all'ultimo uomo. Trafalgar, Waterloo, Dunkerque.. Solo loro potevano resistere alla battaglia d'Inghilterra. Pur di non cedere l'Isola a Hitler si sarebbero fatti bombardare fino all'ultima casa. Figurati quanto si preoccupano di un virus. È lo spirito di Agincourt che dura dalla Guerra dei Cent'anni. E i loro figli illegittimi? Gli americani? Sono rimasti cowboy. Il buonsenso viene sempre dopo aver mostrato i muscoli. Prima le sparano, poi contano i morti. È un'attitudine anche questa. Alla fine, non siamo il peggio noi italiani. Potremmo persino sopravvivere ai nostri politici.

DAGONEWS il 17 marzo 2020. Le principali città del mondo hanno adottato una serie di misure per contrastare l’emergenza coronavirus: c’è chi ha deciso di adottare misure draconiane e chi si è rivolto al buonsenso sei cittadini. Sappiamo già cosa succede in Italia, ma diamo un’occhiata a come si stanno comportando Berlino, Londra, Parigi, Seul, Los Angeles, Chicago, New York e San Francisco. La città di Berlino, così come accade nei 16 stati federali tedeschi, ha grande autonomia sulle misure da adottare. Sono chiuse le scuole e gli asili da questa settimana. Gli esami scolastici possono svolgersi se gli alunni vengono tenuti a una distanza di 1,5 metri l'uno dall'altro per evitare un contatto ravvicinato. Bar, pub e locali notturni della città sono stati chiusi. Tuttavia, i ristoranti possono rimanere aperti se applicano la distanza di sicurezza di 1,5 metri tra gli ospiti. Tuttavia son previste misure restrittive già dalle prossime ore. Chiuse piscine e palestre. Ferma la Bundesliga. Restrizioni anche alle visite in ospedale e nelle case di cura.  Ancora nessun divieto di spostamento in città. Berlino ha confermato 300 casi di coronavirus. Al momento non ci sono morti. In Corea del Sud c’è stato uno dei focolai più grande del mondo, ma ha preferito effettuare tamponi a tappeto sulla popolazione alle misure drastiche. In ogni caso, Seul non è stato l’epicentro del contagio, l'epidemia nel Paese si è sviluppata a Daegu ed è stata collegata a una setta segreta. Di conseguenza, i bar e i ristoranti non sono stati chiusi a Seul e non vi è alcun divieto generale di spostamento. Il direttore della sanità pubblica Yoon Tae-ho ha esortato i sudcoreani in tutto il paese a evitare incontri pubblici, ma non esiste un limite specifico. L'inizio del nuovo semestre scolastico è stato rinviato al 23 marzo. Stop anche agli sport. Seul ha confermato 253 casi di coronavirus. Non ci sono stati morti. La scorsa settimana il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato misure drastiche, tra le quali la chiusura totale delle scuole e delle università in tutto il paese. Ristoranti e bar sono stati chiusi e alle persone è stato ordinato di rimanere a casa tranne che per fare la spesa, recarsi al lavoro o per ricevere assistenza medica. Non si può fare sport. Limitati i viaggi a lunga percorrenza, vietati i raduni. Famosi siti turistici di Parigi come Disneyland, il Louvre e la Tour Eiffel sono stati chiusi. Anche i negozi sono stati chiusi in tutta la Francia, sebbene supermercati, farmacie, banche, distributori di benzina e tabaccherie - che vendono anche giornali, snack e francobolli - rimangono aperti. Il contagi nel Paese sono 6655 e 148 morti. La Gran Bretagna ha adottato finora misure soft per combattere l’emergenza. Le scuole rimangono aperte, non c’è un divieto di spostamento anche se Boris Johnson ha sconsigliato i viaggi non necessari e di interrompere i contatti non essenziali con gli altri. Ma non è stato introdotto alcun limite gli assembramenti mentre i bar e i ristoranti non hanno ricevuto l'ordine di chiudere. Interrotta la Premier League. Ci sono stati 480 casi di virus a Londra, 15 i morti. Il Distretto scolastico unificato di Los Angeles ha annunciato di chiudere le scuole da lunedì. Il sindaco Eric Garcetti ha ordinato a tutti i bar e locali notturni che non servono cibo di chiudere. I pasti al ristorante sono vietati, anche se il personale può ancora preparare cibo per la consegna o da asporto. Non esiste un divieto di spostamento anche se sono sconsigliati quelli non necessari. Il governatore californiano Gavin Newsom ha imposto un divieto a livello statale di raduni con almeno 250 persone, mentre negli eventi più piccoli si raccomanda la distanza sociale di almeno due metri. Palestre, centri fitness e piste da bowling sono state chiuse a Los Angeles, mentre i negozi di alimentari e le caffetterie nelle strutture mediche possono rimanere aperti. La contea di Los Angeles - che è più grande dei limiti della città - ha 94 casi di virus con un solo decesso. A partire da lunedì, tutti gli edifici delle scuole pubbliche di New York sono stati chiusi fino alla pausa primaverile, che non termina prima del 20 aprile. Tutti gli eventi all'aperto e al coperto con 50 o più persone sono stati proibiti. Per gli eventi con un numero inferiore di persone si raccomanda la distanza sociale. Ristoranti, bar e caffè possono servire solo cibo da asporto e per la consegna, mentre i locali notturni sono chiusi. Il consiglio è che "tutti i newyorkesi, sani o malati, devono restare a casa. Si invitano le persone a uscire solo per lavoro, per la spesa o cure mediche». Ci sono stati 463 casi confermati a New York City e sette morti. Come Los Angeles, San Francisco è soggetta al divieto imposto dalla California di raduni pubblici di almeno 250 persone. Tuttavia, la città è andata oltre, vietando i raduni fuori casa. San Francisco ha anche vietato qualsiasi viaggio a piedi, in bicicletta, in scooter, in moto, in automobile o con i mezzi pubblici, se non in caso di necessità. Il decreto avverte che "la violazione o il mancato rispetto di questo ordine è un reato punibile con la multa, la reclusione o entrambi. I negozi e le attività che non sono considerati "essenziali" dovranno chiudere. Tutte le scuole del distretto scolastico unificato di San Francisco sono state chiuse almeno fino al 3 aprile. Anche tutti i bar e ristoranti sono chiusi, anche se i ristoranti possono continuare a fornire servizi di consegna e da asporto. Palestre e strutture ricreative sono state chiuse. San Francisco ha 40 casi confermati, non ci sono morti. Le scuole pubbliche di Chicago sono chiuse da oggi almeno fino alla fine del mese. Alle università e alle strutture per l'infanzia non è stato ordinato di chiudere, anche se alcuni lo fanno volontariamente. Il governatore democratico dell'Illinois JB Pritzker ha già chiuso bar e ristoranti in tutto lo stato, compresa Chicago. Lo stato dell'Illinois ha anche ordinato un divieto di raduni pubblici di 50 o più persone. I ristoranti di Chicago potranno ancora offrire servizi di consegna e drive-thru. Non si consiglia ancora alle persone di rimanere a casa: invitati a non muoversi solo anziani e chi ha patologie croniche. Allo stesso modo, i datori di lavoro sono incoraggiati a rimandare a casa i propri lavoratori quando si sentono male. Chicago ha confermato 49 casi, nessun decesso.

Erasmus bloccati in Spagna: “Grazie a tutti, siamo riusciti a tornare a casa”. Le Iene il 29 marzo 2020. Vi abbiamo raccontato la loro storia: la sera del 26 marzo non sono potuti salire sulla nave per l’Italia perché due di loro avevano la febbre. Sono rientrati con un volo da Madrid messo a disposizione dal governo: “Grazie”. E ci tengono a puntualizzare alcune cose. “Grazie a tutti quelli che ci hanno contattato e mostrato solidarietà, grazie anche al governo italiano che ci ha dato varie alternative per rientrare: siamo tornati con il volo speciale da Madrid”. C’è dunque il lieto fine nella storia dei nostri connazionali bloccati in Spagna durante l’Erasmus. Li abbiamo conosciuti qualche giorno fa, quando un loro video postato in rete è diventato virale. Questo gruppo di studenti è andato a Barcellona per cercare di prendere uno degli ultimi traghetti diretti in Italia. Lì però due di loro hanno avuto la febbre al momento dell’imbarco e la compagnia Grimaldi ha deciso di non farli salire sulla nave. “Avevano 37,5 e 37,7, poi anche un po’ di più”, ci hanno detto i ragazzi. “Abbiamo seguito il protocollo per tutelare la salute delle persone a bordo”, ci hanno spiegato dalla compagnia. Respinti all’imbarco, i ragazzi hanno passato la notte all’aperto a Barcellona. Nel video che ci hanno mandato dalla Spagna prima di raggiungere Madrid per il volo speciale ci spiegano: “Non ci lamentiamo del fatto che Grimaldi non ci abbia fatto partire, ma di essere rimasti una notte intera in porto senza che nessuno ci desse indicazioni su dove andare o dove poter alloggiare”, ci raccontano. “Se non fosse stato per la polizia saremmo rimasti tutta la notte per strada”. Vogliono anche chiarire un’altra cosa: “Un medico che ha riscontrato febbre a oltre 38 in questo momento dovrebbe accertarsi per capire cos’ha, invece abbiamo dovuto pensarci noi”. Per fortuna sembra che adesso stiano tutti bene: “Nessuno ha più la febbre, ce la misuriamo tre o quattro volte al giorno”. Ora sono arrivati in Italia: “Grazie al governo e a tutti quelli che ci hanno mostrato solidarietà. Avevamo a disposizione dei trasporti sia via nave che via aereo: abbiamo scelto di tornare con il volo speciale da Madrid”. E adesso sono tornati a casa, come potete vedere nell’immagine qui sopra.

L'odissea dei connazionali bloccati all'estero: «Fateci rientrare in Italia». Trentasei giovani studenti dell'associazione Intercultura asserragliati nelle case in Honduras, dove c'è il coprifuoco. Altri 30 tra Bolivia e Nuova Zelanda. L'incubo dei genitori. La Farnesina: riceviamo 6-7mila telefonate e 1.500 email al giorno da ogni parte del mondo. Finora rientrati più di 36mila italiani con 200 voli. Emanuele Coen il 30 marzo 2020 su L'Espresso. Trentasei ragazzi italiani, tra i 17 e i 18 anni, bloccati, asserragliati nelle case delle famiglie che li ospitano in diverse città dell'Honduras, uno dei Paesi più pericolosi e violenti del mondo, con un sistema sanitario a dir poco carente. Con lo scoppio dell'emergenza Covid-19, a partire dal 16 marzo le autorità del Paese centroamericano - dove si registrano finora 139 casi positivi al coronavirus, tre morti e tre guariti - hanno imposto il coprifuoco, l'esercito presidia le strade, l'acqua è razionata, la tensione è alle stelle. Le frontiere aeree, terrestri e marittime sono sbarrate. Si è trasformata in un incubo l'esperienza dei giovani vincitori del concorso di Intercultura, l'associazione fondata nel 1955 che invia ogni anno oltre 2.200 ragazzi delle scuole secondarie a vivere e studiare all’estero. E che ora sta facendo di tutto per farli tornare a casa. E un incubo vivono in queste ore i genitori dei ragazzi bloccati in Honduras, che venerdì scorso hanno inviato una lettera al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e alla presidenza del Consiglio per chiedere aiuto e riportare a casa i loro figli con un volo commerciale o un volo dedicato. «La situazione là non è  normale e la quarantena là non è la nostra. Il Paese sta iniziando a razionare acqua ed elettricità, i supermercati sono chiusi, c’è l’esercito che pattuglia tutte le strade e i ponti e i respiratori si contano sulle dita di una mano», hanno scritto preoccupati per l'incolumità dei ragazzi, i quali restano in contatto con l’ambasciata italiana in Guatemala e Honduras. Nelle ultime ore dalle autorità italiane sono arrivati ai genitori messaggi piuttosto rassicuranti su un imminente rientro, anche se la situazione è delicata e in continua evoluzione. «Sono in costante contatto con l'ambasciatore Edoardo Pucci, che sta lavorando a una possibile soluzione da realizzare in tempi brevi per far rientrare gli studenti dall'Honduras», dice Andrea Franzoi, segretario generale di Intercultura, che per tutelare la sicurezza degli studenti ha deciso di terminare anticipatamente i programmi di scambio in tutti i Paesi. Un'odissea, far rientrare gli oltre 1.200 studenti che si trovavano nel mondo al momento della dichiarazione di pandemia da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità. Di questi, finora ne sono tornati oltre mille: 888 nei giorni scorsi da Argentina, Belgio, Canada, Cina, Colombia, Danimarca, Egitto, Filippine, Francia, Germania, Ghana, Giappone, India, Irlanda, Islanda, Hong Kong, Malesia, Messico, Norvegia, Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Repubblica Dominicana, Repubblica Slovacca, Russia, Spagna, Svezia, Svizzera, Repubblica del Sudafrica, Thailandia, Tunisia, Turchia, Ungheria, Stati Uniti. Ieri ne sono arrivati 34, di cui 25 dal Brasile (un secondo gruppo rientrerà nei prossimi giorni), due dalla Danimarca, cinque dall’Uruguay, uno dalla Spagna e uno dalla Repubblica Dominicana. Nelle prossime ore atterrerà a Fiumicino un aereo Lufthansa con nove studenti dalla Lettonia, domani a Malpensa arriveranno invece con un volo speciale Neos (partenza Santiago del Cile, scalo a Lima) 19 studenti dal Cile e 11 dal Perù; sempre domani sono attesi a Malpensa altri 37 studenti da San Paolo del Brasile e a Fiumicino 25 studenti provenienti dal Paraguay. Una volta rientrati questi ultimi, ne resterà una settantina tra Honduras (36), appunto, Bolivia (8) e Nuova Zelanda (23). «La Bolivia è un Paese militarizzato. Siamo in contatto con l'ambasciatore Francesco Tafuri, ci sono buone possibilità di identificare un volo entro questa settimana», prosegue Franzoi. Quanto alla Nuova Zelanda, il segretario generale di Intercultura spiega: «I voli di linea di Qatar Airways non sono ancora bloccati ma sono pochissimi, mentre sono stati sospesi i voli speciali della Germania. In ogni caso l'ambasciata italiana sta lavorando a delle ipotesi, per il momento non sono previsti voli speciali da parte della Farnesina». In generale, conclude Franzoi, «si tratta di uno sforzo organizzativo ed economico enorme che la nostra associazione sta mettendo in campo e che non avrà fine fino a quando non saremo riusciti a fare rientrare tutti i ragazzi in Italia. Dove possibile, Intercultura è intervenuta acquistando nuovi biglietti aerei e organizzando nuovi itinerari di rientro, facendosi carico di tutti i costi aggiuntivi. Per l’organizzazione dei viaggi abbiamo potuto contare anche sulla preziosissima collaborazione dell’unità di crisi della Farnesina e sulla rete delle ambasciate e dei consolati italiani all'estero». La vicenda degli studenti di Intercultura è una delle tante che riguardano i nostri connazionali (sono 5,3 milioni gli iscritti all'Aire, l'anagrafe degli italiani residenti all'estero) che chiedono di rientrare in Italia, come mostrano i dati snocciolati dall'unità di crisi della Farnesina: sei-sette mila telefonate ricevute al giorno, oltre 1.500 email. Dopo lo scoppio dell'emergenza Covid-19 sono già rientrati nella Penisola 36 mila italiani con oltre 200 voli, a cui aggiungere 18 collegamenti via mare, su traghetti, e cinque via terra, in bus. Il ministero degli Esteri è impegnato attraverso un'intensa attività diplomatica a far riaprire gli scali ai voli commerciali, per facilitare i voli delle compagnie aeree Alitalia, Neos, Blue Panorama. Finora da Barcellona sono sbarcati a Civitavecchia 20 traghetti, ognuno dei quali con 500-600 persone a bordo, mentre Alitalia ha attivato voli speciali da Madrid a Roma. Inoltre, ogni giorno da Londra partono cinque aerei diretti nel nostro Paese. Dove la compagnia di bandiera non opera direttamente, invece, la situazione è più complessa, bisogna fare pressione su altre compagnie per intensificare gli sforzi, come in Australia. La notte scorsa, l'ambasciata italiana a Canberra ha annunciato con un post su Facebook di aver ricevuto una comunicazione da parte della compagnia Qatar Airways, secondo cui oltre ad aver aumentato i voli verso l’Europa hanno ulteriormente abbassato le tariffe per agevolare il più possibile il rientro di tutti verso i paesi dell'Unione europea. «Vista la crescente domanda da parte dei tanti cittadini europei in rientro verso l’Unione europea, raccomandiamo ai connazionali che hanno urgenza di rientrare, di attivarsi quanto prima», si legge nel post. Non è possibile stimare quanti siano i connazionali destinati a rientrare dal resto del mondo, fa sapere il ministero degli Esteri, perché le emergenze e le segnalazioni alle ambasciate italiane nel mondo emergono di giorno in giorno. Come ha sottolineato nei giorni scorsi anche il ministro Di Maio, il rientro in Italia di un cittadino italiano temporaneamente all'estero o di uno straniero residente in Italia è possibile solo se trattasi di un'urgenza assoluta. È quindi, per esempio, consentito il rientro dei cittadini italiani o degli stranieri residenti in Italia che si trovano all'estero in via temporanea (per turismo, affari o altro). È ugualmente consentito il rientro in Italia dei cittadini italiani costretti a lasciare definitivamente il Paese estero dove lavoravano o studiavano perché, ad esempio, sono stati licenziati, hanno perso la casa, il loro corso di studi è stato definitivamente interrotto. In ogni caso, l'unità di crisi della Farnesina invita a registrarsi sul sito viaggiaresicuri.it per ricevere tutte le informazioni aggiornate via sms, WhatsApp, email. Gli uffici consolari sparsi nei cinque continenti possono erogare un sussidio ai cittadini italiani stabilmente residenti nella propria circoscrizione consolare, iscritti all’Aire e che si trovi in situazione di comprovata indigenza. Inoltre, ai cittadini italiani temporaneamente all’estero e residenti in Italia o in un'altra circoscrizione consolare, che si trovi ad affrontare difficoltà economiche impreviste e che non possa avvalersi dell’aiuto di familiari o terze persone, può essere concesso un prestito, che l’interessato si impegna a restituire all’erario entro 90 giorni. Occorre infine ricordare che l'ordinanza firmata il 28 marzo dalla ministra delle Infrastrutture e dei Trasporti Paola De Micheli e dal ministro della Salute, Roberto Speranza, prevede l'obbligo di quarantena e di autocertificazione su dove la si trascorrerà per tutti coloro che dall'estero entrano in Italia. Una nuova stretta su tutti gli ingressi nel nostro Paese, che siano via terra, mare o aria. Le disposizioni riguardano ovviamente anche gli italiani ancora bloccati all'estero che una volta rientrati dovranno attenersi alle nuove misure. Con la speranza che tra questi ci siano anche i 36 ragazzi ancora in Honduras. 

Salvatore Cannavò per il Fatto Quotidiano il 29 marzo 2020. È l' Italia che va, con le sue motociclette a noleggio, le valigie pesanti e l'orario dei voli perduto nella borsa. Quella che non sa tornare e chiede aiuto allo Stato. Anzi, lo subissa di richieste, di email, di sms, di telefonate invocando l' intervento del proprio Paese, di cui finalmente ricorda l' importanza. È l' Italia del circo bloccato in Grecia, dei motociclisti di ritorno dal Safari in Africa, dei genitori con i figli bloccati in qualche paese o di quelli che sono restati in India accorgendosi solo all' ultimo che quel paese ha ormai chiuso tutto. La Farnesina è in questi giorni destinataria di lettere, messaggi e richieste di ogni tipo. Chi chiede di farsi prenotare il volo, chi di farsi spedire la motocicletta e chi, ancora, vorrebbe un pullman speciale perché il figlio viaggia con troppe valigie. L' altra sera, durante la trasmissione Otto e mezzo, il ministro Di Maio ha lasciato intendere di vivere a contatto con situazioni a volte serie e preoccupanti, ma spesso anche surreali. E ha buttato lì l' allusione ai reduci del Safari. Si tratta in effetti di due ventenni che dopo un lungo viaggio in Africa, dal quale non hanno ritenuto di tornare in tempo, sono bloccati a Patrasso, in Grecia, anche perché non riescono a spedire le moto prese a noleggio. Hanno ben pensato di chiedere al governo di attivarsi per spedire le due motociclette e anche per questo motivo non riescono a imbarcarsi. Il circo Zavatta è invece bloccato a Filippiada, sempre in Grecia. La polizia di Atene ha deciso qualche giorno fa di rimuovere il suo sito e di collocare i circensi in un campeggio a Igoumenitsa. I circensi, però, non vogliono lasciare la Grecia fino a quando non sarà possibile tornare a organizzare spettacoli e chiedono all' Ambasciata di essere sostenuti economicamente. I diplomatici italiani hanno raccomandato diverse soluzioni per il rientro, compreso un volo speciale dell' Alitalia, ma l' invito non è stato accolto. È stata poi attivata la Caritas, tramite il Coasit di Atene, ma per quanto riguarda il rientro ancora non c' è una soluzione Richieste sono giunte anche dagli italiani in gita che, evidentemente, si sono accorti in ritardo, per disattenzione o per impossibilità, dell' esplosione planetaria del contagio. Solo quattro giorni fa, un gruppo di italiani presente a Goa, la costa indiana che affaccia sul Mar Arabico, ha telefonato e scritto per chiedere dei mezzi di rientro. La richiesta coincide con il lockdown proclamato dall' India e segnalazioni analoghe arrivano dal Marocco e dalla Tunisia dove diversi turisti si sono attivati solo il 23 marzo per rientrare in Italia. Non ci sono voli disponibili e certamente la Farnesina non può attivare dei voli di Stato per ogni richiesta. Ci sono gli italiani che dal 22 marzo hanno deciso di rientrare da Bulgaria e Ungheria nonostante l' Italia si fosse attivata il 12 marzo per un volo Alitalia rientrato con ben 40 posti vuoti e nonostante la possibilità di rientrare via Lufthansa tramite Monaco o Francoforte. Ci sono i genitori ansiosi per i figli, ma l' ansia si spinge fino a non poter accettare troppi scali per un viaggio di ritorno dalla Spagna, lamentando le tappe tra Roma, Firenze e Pistoia e chiedendo la disponibilità di un pulmino per il figlio in viaggio con valigie molto pesanti. È l' Italia che va.

Franco Giubilei per video.lastampa.it il 20 marzo 2020. “Un volo organizzato senza rispettare minimamente le condizioni di sicurezza per passeggeri e personale di bordo”. E’ la denuncia di Francesco Girolamo Ciancimino, corredata da un video girato a bordo, che oggi pomeriggio era fra le 230 persone partite da Madrid per Roma per fare ritorno nel nostro Paese su uno dei voli Alitalia allestiti per permettere il rientro dei nostri connazionali dalla Spagna: “Ci hanno costretto fortunatamente ad indossare mascherine e guanti ma il volo è pieno, oltre 230 persone ammassate che fra tre ore atterrano in Italia, con tutti gli enormi rischi e le conseguenze connesse”. Francesco aggiunge di aver contattato la nostra ambasciata a Madrid per protestare, ma senza risultati: “Mi è stato detto che, essendo voli commerciali, loro non hanno potere di intervenire, si può solo presentare reclamo scritto. Sono basito, mi scuso fin da ora per il rischio a cui espongo il mio Paese, già provato dai danni del Coronavirus”.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 19 marzo 2020. Massimo Ghini risponde dalla cucina di casa: “Siamo in prima linea tra spremute, colazioni, caffè... una fabbrichetta. Siamo in quattro, io e i miei tre figli – mia moglie Paola è a Salerno ad assistere la madre malata - perché finalmente mi ha raggiunto mia figlia Margherita da Londra, c’è stata la fuga degli italiani. Noi siamo riusciti a trovare il biglietto per farla tornare perché la situazione si stava facendo difficile. Ieri sera l’abbiamo mandata a prendere all’aeroporto, noi non possiamo uscire. E’ stato bello commovente, ci siamo incontrati senza poterci abbracciare ed è stata attualmente messa in quarantena in camera sua, preventivamente igienizzata”.

Siete separati in casa.

“Si, ci fa un po’ ridere, ma seguiamo le regole. Lei per fortuna si era già messa in una sorta di auto-quarantena a Londra da 12 giorni fa. Questa storia e queste storie vanno affrontate: ci rivolgiamo all’Inghilterra come se noi fossimo sempre una sorta di trogloditi e loro over the top, invece ultimamente mi pare non sia successo. Mi meraviglio perché la storia e la cultura di quel paese sono stati per me sempre un punto di riferimento. Ma il momento del matto capita a tutti e credo sia quel che sta succedendo lì. Il problema è che Margherita studia da due anni a Londra, alla Ravensbourne University, studia l'organizzazione della moda, quel che c’è dietro gli stilisti e la realizzazione di una linea di moda. E’ partita diciottenne, molto determinata, in una università dove le tasse sono pagate dallo stato inglese che poi lei dovrà rimborsare quando inizierà a lavorare, un grado di civiltà che noi nel nostro paese non abbiamo raggiunto...Solo che nei giorni scorsi, quando è partita questa follia, gli studenti italiani si sono sentiti abbandonati. Lo scarto tra le notizie che ricevevano dall’Italia e quel che stava succedendo a Londra li lasciava sbigottiti: tutti parlano di pandemia e vivi in un posto con pub e ristoranti aperti e metropolitane piene. Margherita spinta da noi ha iniziato ad andare in giro con la mascherina e la guardavano come se fosse lei un’appestata. Si sono chiuse in casa con le sue due amiche in auto isolamento, hanno cercato di avere contatti per questioni mediche, capire in caso di problema a chi rivolgersi. Hanno avuto un numero di telefono di riferimento, hanno risposto loro chiedendo solo il nome e neanche il cognome, dicendo che richiamavano e sono spariti, si sono sentiti presi in giro. Si sono sentite isolate finché non è arrivata loro una mail di medici italiani che hanno cercato i nostri connazionali a Londra dicendo “fate riferimento per ogni problema a noi”. I nostri medici si sono stretti a coorte, come dice il nostro inno, e si sono messi a disposizione, perché quella sanità lì, quella britannica, non si è neanche fatta sentire. Soprattutto dopo l’intervento di Boris Johnson: mi chiedo cosa avrebbero detto da noi se Conte si fosse presentato dicendo “scusate ma le nostre nonne e zie le perderemo per strada, se ci pensate pesano anche sul nostro bilancio economico familiare, purtroppo le perderemo che dobbiamo fare?” Una macabra barzelletta. Ma neanche Goebbels dei momenti di gloria avrebbe potuto fare un intervento del genere. Ora sta tornando indietro”.

Com’è stato gestire logisticamente il rientro?

“Stavo per muovere la Farnesina, parlare con i giornali, andare in televisione, inchiodarmi davanti a qualche ministero e invece per fortuna tra i servizi della carta di credito c’è un’agenzia che aveva dei biglietti a disposizione per un giorno determinato: ho avverto Margherita e le amiche. La partenza è stata un esodo, perché la paura è massiccia e l’aeroporto e il volo era pieno di ragazzi che tornavano a casa, tutti con le mascherine in un aeroporto in cui non c’era nessun tipo di precauzione. La sicurezza l’hanno trovata qui a Roma dove sono state sottoposte a un controllo e ora è chiusa nella sua camera in quarantena, dove ha le sue cose. Le lezioni le fa via Skype, ha consegnato l’ultimo esame e sta studiando. Ora voglio vedere la teoria del gregge: vorrei fare un video con Boris Johnson, con quei capelli da Cugini di campagna, che parla agli italiani”.

Come passate questi giorni?

“Mi trovo da solo con i due figli maschi e ora è arrivata Margherita. L’altra figlia è segregata in casa con il suo fidanzato. Due maschi che vanno in gita, giocano a pallone, hanno la ragazza si ritrovano improvvisamente murati a casa: li tengo a bada come le tigri del Circo Togni, con la sedia. Hanno ragione e ne ridiamo. Mia moglie Paola, che è l’elemento cardine della famiglia, è a Salerno, la mamma non sta bene ed è ad altissimo rischio coronavirus. Cucino tanto, cucino bene ma anche i miei figli lo fanno, è la nostra valvola di scarico. In tutto questo mi è capitato di vedere anche il film dei Dragon Ball, in una regressione all’infanzia vicino a letture più interessanti e film vecchi e nuovi e serie, c’è un momento Pokemon e Dragon Ball, alla ricerca dell’infanzia perduta. Non è che posso dire ai figli “ma io ho studiato con Strehler”. Questo convivere insieme in qualche modo scatena anche desideri nascosti. Per forza l’uomo di sinistra, che ha fatto studi classici, in questi frangenti si dedica alla lettura alta. Io preferisco guardare a quelli che si affacciano con la tromba e le pentole che adoro a cantare e sono vivi - parliamo di gente che anche non ha avuto tantissime soddisfazioni nella vita. Ci siamo attrezzati anche noi: con una cassa gigantesca ci uniamo al delirio musicale. Io ho avuto un padre partigiano che ha combattuto in montagna e lì stavano tutti insieme senza differenziazioni. Oggi mi sento come se fossimo tutti insieme in una specie di montagna e combattiamo tutti insieme contro qualcosa che può farci molto male. Non voglio differenziazioni di tipo snobistico culturale. Oggi siamo qui, così. Qualcuno ha sottolineato presentando i video che faccio in questi giorni “sceglie di parlarne con ironia”. Ma io la trovo la forma più diretta di qualunque altro messaggio al popolo italiano con la faccia compresa: dico esattamente le stesse cose in forma di gioco per fare arrivare lo stesso tipo di messaggio in modo meno ansiogeno. La mia responsabilità da comunicatore è entrare in quella logica e condividere una difficoltà. Ci sono studiosi, professori e politici che sono affidabili e sono loro il punto di riferimento serio, non servo io”.

Cosa ha imparato dall’esperienza di questi giorni?

“La capacità di sapersi rimettere alla prova rispetto a quello che abbiamo dimenticato. Nella società in cui viviamo, essendo privilegiati, a recuperare valori che sono umani e pratici. Per capire tutto quello che è effimero. Vengo da una generazione che ha vissuto prima della televisione e prima del cellulare, ma per i ragazzi vivere questo momento significa iniziare a capire che esistono delle restrizioni e delle responsabilità. Vedo un salto in avanti. Poi si sfogano al telefono parlando con ventisette amici, ridono, cercano di ricostruire l’ambiente in cui vivevano fino a pochi giorni fa. Ma questa capacità di rispondere a un ordine che viene dato e non in modo dittatoriale, ma con coscienza, mi pare serva a recuperare un valore che stavamo perdendo, correndo dietro alla inutilità della vita riproposta, specialmente dalla televisione che non racconta. Sarò duro, ma spero che il reality dopo quel che è successo trovi un viale del tramonto. Oggi non interessa più a nessuno stare a guardare qualcuno chiuso dentro una stanza visto che si vive direttamente a casa”.

Da lastampa.it il 26 marzo 2020. Non si è ancora sbloccata la situazione dei giovani italiani con visto temporaneo che dall’ Australia stanno cercando di tornare in patria  in questi giorni. Dall'Ambasciata d'Italia in Canberra fanno sapere che «al momento non sono previsti voli speciali di rientro verso l'Italia dall'Australia», ma che è in atto un costante lavoro per tenere aperte le tratte attualmente disponibili e a prezzi accessibili. Fonti dell'ambasciata, citate dai bisettimanali in lingua italiana Il Globo di Melbourne e La Fiamma di Sydney, informano tuttavia che fino al 15 aprile la Qatar Airways, che continua a operare regolarmente dall'Australia e ha posti disponibili in economy, ha messo a disposizione dei viaggiatori di rientro uno sconto del 10%. Intanto sono numerosi gli italiani con visto temporaneo per specializzati, in particolare nei settori della ristorazione, fra il milione e mezzo di lavoratori stranieri licenziati con le chiusure di innumerevoli aziende e allo stesso tempo bloccati in Australia, senza accesso alle coperture di sicurezza sociale come il sussidio di disoccupazione. Ad attivarsi per chiedere alla Farnesina di prestare assistenza a chi vorrebbe far rientro in Italia, sono intanto i due parlamentari eletti in questa ripartizione estera, il senatore Francesco Giacobbe e il deputato Nicola Carè, entrambi Pd, che seguono da vicino gli sviluppi della situazione. Il senatore Giacobbe ha scritto al ministro degli Esteri Luigi Di Maio chiedendo che il ministero si adoperi attraverso un intervento diplomatico, per far restare disponibili le tratte aeree dall'Australia e perché si valuti di organizzare un volo charter direttamente dall'Italia. Carè ha invece sollecitato chiarimenti in merito al divieto imposto in Italia di muoversi al di fuori del proprio comune di residenza. Non è chiaro infatti se questo comporti restrizioni particolari per chi, iscritto all'anagrafe degli italiani all'estero (Aire), decida di rientrare in Italia.

Coronavirus, italiani bloccati in Cambogia: “Certificato con 40 dollari, senza tampone”. Le Iene News il 25 marzo 2020.  Da 10 giorni sono bloccati in Cambogia e da qui non possono partire per la Thailandia e quindi tornare in Italia. Su Iene.it vi mostriamo il racconto di questi 5 ragazzi e come lì sarebbe stato possibile secondo loro aggirare il test del tampone pagando 40 dollari. “Aiutateci a tornare a casa”. È l’appello di Sara, Sasha, Rossana, Manuela e Lars. Loro sono 5 ragazzi italiani bloccati da 10 giorni in Cambogia che non hanno neppure potuto fare il tampone per essere certi di non essere positivi al coronavirus. A certificare il loro stato di salute ci avrebbe pensato, ci dicono, un ospedale francese. In cambio di 40 dollari a testa e senza alcun esame, sostengono nel video che ci mandano da lì e che potete vedere qui sopra. “Alcuni mesi fa siamo partiti dall’Italia per un viaggio nel Sud-est asiatico. Negli ultimi mesi qui la situazione è stata più stabile rispetto a Italia e Cina”, raccontano. Ora sono a Phnom Penh, la capitale della Cambogia. Da qui stanno assistendo da settimane all’emergenza della pandemia da coronavirus. Vorrebbero tornare in Italia, ma per poterlo fare devono fare scalo in Thailandia. Non prima di essersi sottoposti al tampone che attesti su un documento che siano negativi al COVID-19. Così vanno in un ospedale pubblico nella capitale. “Siamo in coda per il tampone. Non siamo di certo a un metro di distanza”, dicono nel video che vi mostriamo. Attorno a loro si vedono persone in attesa ma tra uno e l’altro c’è meno di un metro, alcune indossano la mascherina. “Qui ci viene anche chi ha sintomi, e questo è un grande rischio”, raccontano i ragazzi. Si vedono anche i sanitari all’interno di un ambulatorio. Addosso hanno tute e mascherine perché il rischio di venire a contatto con persone positive è altissimo. “Non ci sono più collegamenti aerei tra la capitale cambogiana e Bangkok, questo rende vane le nostre speranze di uscire da questo paese, dove ci troviamo ufficialmente bloccati con un livello sanitario nettamente inferiore a quello occidentale”, spiegano i 5 ragazzi. Se nell’ospedale pubblico non sono riusciti a sottoporsi al tampone, ci mostrano un altro modo per ottenere comunque il certificato necessario per imbarcarsi. Insieme vanno in un ospedale francese e registrano tutto quello che succede. “Stiamo pagando circa 40 dollari a testa per questo esame 'approfondito'”, sostengono mostrandoci alcune impiegate al lavoro dietro a un bancone che sembra un’accettazione. “Non ci hanno neanche misurato la febbre o la pressione. Ma non ci hanno neppure chiesto se abbiamo dei sintomi da coronavirus. Però ci hanno preso questi soldi, che moltiplicati per quanti siamo fa un totale di 240 dollari”. Il documento che rilascia l’ospedale è necessario per poter volare in Thailandia. “Per loro non siamo un pericolo. Ma la cosa più grave è che questo è fatto da una clinica francese, non cambogiana. E la Francia conosce bene l’emergenza che c’è in Europa”. Loro non sono i soli italiani che da quando è scoppiata la pandemia si trovavano all’estero. Qui su Iene.it Luca Sironi ci ha raccontato l’incredibile odissea sua e dei suoi genitori per tornare in Italia dall’Indonesia e abbiamo ospitato anche gli appelli di tanti altri giovani in giro per il mondo.

Da leggo.it il 19 marzo 2020. Bloccati a Dublino per l'emergenza coronavirus, e molti di loro sono positivi: un gruppo di ragazzi italiani è bloccato nella capitale irlandese dopo che 15 di loro, su 17, sono risultati positivi al Covid19. I 15 giovani avevano seguito un corso per assistenti di volo RyanAir a Bergamo: ora si trovano in isolamento in una struttura messa a disposizione delle autorità irlandesi e sono in quarantena fino al 26 marzo. I giovani erano partiti il 2 marzo da Bergamo, diretti a Bari, e da lì si erano imbarcati il sabato successivo per Dublino. Una ragazza si è sentita male in albergo ed è stata portata in ospedale: i test sugli altri colleghi hanno evidenziato la positività. Cinque sono siciliani. Tra i 17 ragazzi di diverse regioni italiane vi sono anche cinque siciliani. Uno di loro lancia un appello affinchè la Farnesina si occupi della loro vicenda. «Siamo bloccati - spiega - senza che nessuno di noi, a parte quattro ragazze che sono state portate in ospedale perchè stavamo male e poi sono state dimesse, sia mai stato visitato da un medico. Alcuni assistenti sociali, in verità assai gentili, ci stanno portando generi alimentari. Ma non sappiano nulla nè delle nostre condizioni sanitarie nè di come dobbiamo comportarci». Il portavoce del gruppo aggiunge di avere avuto il permesso dalle autorità irlandesi di uscire dalla struttura, pur essendo risultato positivo appena cinque giorni fa, e sottolinea che il 26 marzo dovranno obbligatoriamente lasciare la struttura dove attualmente sono ospitati. «Ci siamo messi in contatto con l'ambasciata italiana a Dublino - aggiunge - per sapere se possiamo essere rimpatriati o perlomeno se ci possono aiutare a trovare una sistemazione. Ryanair ci è stata vicina, assicurandoci che non appena riprenderanno i voli e sarà superata l'emergenza, potremo cominciare a lavorare. Ed è quello che ci auguriamo tutti noi».

15 italiani col coronavirus abbandonati all'estero dalla compagnia aerea: “Aiutateci!” Le Iene News il 17 marzo 2020. L’appello di Carlo a Iene.it. Fa parte, racconta a Ismaele La Vardera, di un gruppo di aspiranti steward e hostess di una compagnia aerea. Portati per la formazione da Bergamo a Bari e poi in una località del Nord Europa. Qui hanno scoperto di essere stati contagiati in 15: “Dicono che siamo guariti e ci buttano in mezzo alla strada, ma l’Italia non ci rimpatria perché non si fida”. Ci sono 15 italiani in una località del Nord Europa che, dopo aver scoperto di avere il coronavirus, rischiano letteralmente di essere buttati in mezzo a una strada. Chiedono aiuto a Le Iene, come potete vedere qui sopra nel video con Ismaele La Vardera. E naturalmente cercheremo di darglielo. Ecco la loro storia. Il gruppo stava frequentando un corso di formazione per hostess e steward per una grande compagnia aerea a Bergamo, di cui non possiamo svelarvi il nome per non mettere in difficoltà i nostri connazionali. Sono i giorni drammatici in cui esplode il focolaio dell’epidemia proprio lì vicino. Gli aspiranti assistenti di volo vengono trasferiti a Bari: “Nonostante arrivassimo da Bergamo, nessuno ci ha fatto un controllo”, ci racconta Carlo (nome di fantasia), uno di questi ragazzi. “Proprio a Bari, dove giravamo tutti per la città tranquillamente, ho iniziato ad avere la febbre”. Le misure di contenimento coinvolgono intanto tutta l’Italia, il gruppo viene fatto partire allora per una località del Nord Europa, dove sarebbero comunque dovuti andare, per continuare la formazione: “Al nostro arrivo due ragazze del gruppo si sono sentite male: hanno preso il coronavirus. Abbiamo fatto tutti il tampone e abbiamo scoperto di essere positivi in 15 su 17, tutti gli italiani del gruppo”. Vengono sistemati in una struttura messa a disposizione dal governo. “Io sono stato trovato positivo cinque giorni fa", continua Mauro. "Ieri mattina mi hanno chiamato" “dicendomi che per loro basta che io abbia iniziato ad avere la febbre due settimane fa, appena arrivato a Bari: dopo 14 giorni, sarei libero di uscire”. Insomma, uno a uno rischiano di dover lasciare la struttura senza un test che attesti che non hanno più il coronavirus: “Il governo italiano non ci rimpatria perché non ha la certezza che stiamo davvero bene. Il governo che ci ospita dice che, se l’Italia vuole farci un test, deve farlo a spese sue e nel suo territorio”. Intanto, se dovranno lasciare all’improvviso la casa che li ospita, non sanno dove andare: “Qui non possiamo lavorare né c’è chi ci vuole ospitare, in quanto italiani. Ho sentito che diversi nostri connazionali sono stati già buttati fuori di casa”. Iene.it continuerà a seguire l’evolversi della vicenda. Abbiamo contattato la Farnesina per aiutare questi ragazzi, che ci ha fatto sapere che “l’Ambasciata d’Italia a Dublino, in stretto raccordo con l’Unità di Crisi della Farnesina, è costantemente in contatto con il gruppo di connazionali, che sta rispettando la quarantena imposta dalle autorità sanitarie irlandesi, per prestare loro ogni possibile assistenza”.

(AGI il 20 marzo 2020) Il Brasile ha proclamato lo stato d'emergenza, liberando fondi per il governo da destinare alla lotta all'epidemia di Covid-19, mentre la popolarità del presidente Jair Bolsonaro è in forte calo per la sua gestione della crisi in corso. Il Senato ha approvato una misura che consente al governo di non perseguire gli obiettivi di bilancio di quest'anno. I senatori hanno votato a distanza dopo che nei giorni scorsi due di loro sono risultati positivi al coronavirus.

Estratto da repubblica.it il 20 marzo 2020. Dopo quasi tre mesi dal primo focolaio di coronavirus scoppiato a Wuhan, dove per il secondo giorno consecutivonon sono stati registrati nuovi casi, nel mondo oltre diecimila persone hanno perso la vita a causa della pandemia di Covid-19. È il bilancio aggiornato della Johns Hopkins University.

I contagi giorno per giorno nel mondo. Il bilancio delle vittime in Italia (3405) ha superato ieri quello della Cina (3200). Preoccupa la situazione in Spagna dove si sono superati mille morti. Il Paese, conta 1.002 decessi e 19.989 casi di contagio, in crescita di 2.833 casi rispetto al rapporto di ieri, con un aumento del 16,5 per cento.

Spagna dopo Italia: superati mille morti.Le persone che hanno contratto il Covid-19 in Spagna sono 19.980, e il numero dei deceduti è 1.002, ha reso noto il direttore del Centro di coordinamento per la crisi, Fernando Simon. Ed "è molto probabile che questi dati fotografino per difetto" la situazione reale, ha precisato. Si sono ammalate nelle ultime 24 ore 2.833 persone in più. I decessi in un giorno, ieri, sono stati 235. Il primo ministro spagnolo, Pedro Sànchez, ha fatto un appello richiamando alla "responsabilità sociale" contro il rischio di un aumento delle violenze maschili all'interno delle mura domestiche. "In questi giorni di reclusione - ha detto Sanchez -  la vittima e l'aggressore vivono a stretto contatto per più ore e il rischio è maggiore. Mi appello alla responsabilità di tutti perchè segnalino quando sospettano un caso di violenza maschile", ha scritto su Twitter.

Cina ripristina 60% dei servizi medici. Pechini ha ripristinato circa il 60% dei servizi medici che erano stati sospesi o ridotti per far fronte alla lotta all'epidemia. Secondo Guo Yanhong, funzionario della commissione, l'enorme quantità di personale medico e di risorse che il Paese ha messo a disposizione per contenere il virus, ha influito sui normali servizi medici. I documenti indicano che le aree a basso rischio di contagio dovrebbero gradualmente spostare l'attenzione dal controllo dell'epidemia alla ripresa dei normali servizi medici, le aree ad alto rischio dovrebbero migliorare i servizi medici per i gruppi vulnerabili e i pazienti che necessitano di una stretta attenzione, rafforzando nel contempo il lavoro di controllo delle epidemie.

Canada, Trudeau: diario di isolamento. Il premier canadese, è arrivato al 14esimoo giorno di isolamento nella sua abitazione dopo che la moglie Sophie Grégoire Trudeau ha contratto il coronavirus. Trudeau si è mostrato in una foto in cui si vede seduto a lavorare dalla scrivania di casa ma allo stesso tempo deve prendersi cura dei suoi tre figli perché la moglie si trova in quarantena in un'altra parte della residenza. A casa Trudeau, infatti, non ci sono badanti o staff dell'amministrazione. Politico scrive, citando una fonte ufficiale, che il premier ha tenuto in attesa al telefono un membro del suo staff perché doveva fare il bagno alla sua Hadrien, sei anni.

Corea Sud, curva ricomincia a scendere. I nuovi casi di coronavirus in Corea del Sud sono ritornati a scendere sotto quota 100, a 87, all'indomani dell'impennata inattesa a 152: il Korea Centers for Disease Control and Prevention ha aggiornato i contagi a 8.652, in base ai dati della fine di giovedì. Sono 3 i nuovi decessi, per 94 totali, in gran parte registrati della popolazione più anziata già affetta da altre gravi patologie, come il cancro. Il tasso di mortalità per gli uomini è dell'1,53%, contro lo 0,81% delle donne: quello complessivo resta poco sopra l'1%.

In Argentina quarantena nazionale. Il presidente argentino Alberto Fernandez ha annunciato l'isolamento sociale preventivo obbligatorio fino al 31 marzo alle 24. Il rispetto della quarantena, ha sottolineato il capo dello Stato, sarà sorvegliato dalla polizia nazionale e locale e dalle forze armate. La misura si aggiunge ad altri provvedimenti già adottati, come la sospensione delle lezioni fino al 31 marzo, e l'obbligo per tutti coloro che entrano in Argentina dall'estero di mettersi in quarantena per 14 giorni. Poco prima dell'annuncio del presidente, il ministero della Sanità argentino aveva aggiornato il bilancio dei contagiati a 126, con un aumento rispetto al giorno precedente di 31 casi.

Coronavirus, Brasile chiude le frontiere. Il Brasile ha deciso di vietare l'ingresso nel Paese ai cittadini dell'Europa e di gran parte dell'Asia. Il provvedimento, che sarà in vigore a partire da lunedì, durerà per 30 giorni e riguarderà le persone non di nazionalità brasiliana che arrivano da Unione europea, Gran Bretagna, Islanda, Norvegia e Svizzera, così come da Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Malesia. Sono escluse dal divieto le persone che hanno un lavoro qualificato in Brasile o che viaggiano per raggiungere la famiglia.

Cina, zero casi a Wuhan e 39 importati. Wuhan, il focolaio della pandemia del coronavirus, non ha riportato nuovi contagi per il secondo giorno di fila: in tutta la Cina, ha riferito la Commissione sanitaria nazionale, ci sono stati altri 39 casi di infezione importata e 3 decessi, di cui 2 nella provincia dell'Hubei e uno in quella del Liaoning. I casi confermati sono saliti a 80.967 totali, comprensivi di 6.569 pazienti ancora sotto trattamento medico, di 3.248 morti e di 71.150 persone dimesse dagli ospedali, che hanno spinto la quota dei guariti all'87,8%. Sui 39 casi importati, 14 sono relativi al Guangdong, 8 a Shanghai, 6 a Pechino e 3 al Fujian. Infine, uno ciascuno a Tianjin, Liaoning, Heilongjiang, Zhejiang, Shandong, Guangxi, Sichuan e Gansu. Alla fine di giovedì i contagi di ritorno totali sono saliti a quota 228. Sono 730 le persone dimesse ieri dagli ospedali, mentre i casi di contagio gravi sono calati di 178 unità, a 2.136. Ammontano a 104, ha spiegato la Commissione, le persone che sono attualmente sotto osservazione per il sospetto di contagio, mentre sono 8.989 quelle entrate a stretto contatto con i contagiati e quindi sotto monitoraggio.

Coronavirus, cosa succede nel mondo: contagi, vittime, misure. Le stime in Germania: «Rischio dieci milioni di positivi». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 da Corriere.it.

(Paolo Valentino) «Se la popolazione tedesca non si atterrà alle misure di prevenzione decise dal governo, rischiamo di avere in pochi mesi 10 milioni di contagiati». Lo dice il direttore del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, nelle ore in cui la Germania supera i 10 mila casi di infezione da Covid-19, cioè il doppio di quanti erano appena 2 giorni e mezzo fa. Wieler parla di un’accelerazione «esponenziale dell’epidemia» nei sedici Laender federali e invita la popolazione a ridurre ulteriormente i contatti sociali per fermare il contagio da persona a persona. Nello scenario peggiore, evocato anche dalla cancelliera Merkel, il 60% dell’intera popolazione tedesca rischierebbe di essere contagiato: in cifre significherebbe circa 50 milioni di persone. A confermare la gravità della situazione è l’annuncio che questa sera, per la prima volta dall’inizio della crisi, Angela Merkel parlerà alla nazione in diretta televisiva. La cancelliera vuole non soltanto annunciare nuove misure restrittive della vita pubblica, ma anche convincere la popolazione ad attenersi rigorosamente alle misure precauzionali e allo stesso tempo lanciare un messaggio di speranza. Per la Germania l’appello di un cancelliere al Paese è un fatto eccezionale e drammatico, che di regola accompagna momenti fatali della vicenda nazionale: in dodici anni Helmut Schmidt lo fece una volta sola nel 1977, durante l’autunno tedesco mentre il Paese era sotto l’attacco del terrorismo della Rote Armee Fraktion, le Brigate Rosse tedesche; nei suoi sedici anni al potere Helmut Kohl usò la procedura appena due volte, il 1 luglio 1990 al momento in cui entrò in vigore il cambio 1 a 1 tra il marco dell’Ovest e quello dell’Est, e il 2 ottobre dello stesso anno alla vigilia della Riunificazione; anche Gerhard Schroeder in sette anni al Kanzleramt parlò due volte ai tedeschi: il 24 marzo 1999 per spiegare l’intervento tedesco nella guerra del Kosovo, il primo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e il 20 marzo 2003 per il motivo opposto, cioè il rifiuto di partecipare all’invasione dell’Iraq decisa unilateralmente dagli Stati Uniti. Intanto Il governo federale e la conferenza dei Laender hanno deciso un piano di emergenza per gli ospedali della Germania, che prevede di attrezzare una serie di strutture come centri di riabilitazioni, cliniche private, hotel di proprietà pubblica e alcune grosse arene, dotandole anche di posti di terapia intensiva, per accogliere e curare gli ammalati di Coronavirus. L’obiettivo è raddoppiare le stazioni di terapia intensiva, che attualmente sono 28 mila in tutta la Germania. Nella sola Berlino, l’area della Messe dovrebbe accogliere mille nuovi posti letto. Anche la Bundeswehr, l’esercito tedesco con i suoi ospeali e il suo personale medico, verrà associata al piano.

(Stefano Montefiori) Sono arrivati i primi gel disinfettanti che LVMH (primo gruppo di lusso al mondo) ha deciso di produrre negli stabilimenti di solito riservati ai profumi Givenchy e Christian Dior (da settimane i gel in farmacia non si trovano) e distribuire gratis. Altre aziende (anche i concorrenti Kering) stanno facendo donazioni e filantropia, ma la scelta di LVMH è notevole da un punto di vista comunicativo.

(Stefano Montefiori) Il premier Philippe ieri sera ha detto di non escludere nazionalizzazioni per salvare l’economia. Macron sospende bollette, fatture, affitti per le piccole e medie imprese e sospende la riforma delle pensioni. Il capovolgimento di politica è totale, e potrebbe non essere del tutto momentaneo vista la promessa di «ripensare» il sistema e «uscire dalle leggi del mercato» per certi beni e servizi.

(Paola De Carolis) Il cancelliere dello scacchiere Rishi Sunak ha annunciato un intervento che «sino a qualche settimana fa sarebbe stato inconcepibile» per sostenere l’economia britannica: 330 miliardi di sterline, circa il 15% del prodotto interno lordo del paese, in prestiti per grandi e piccole industrie. «Ho promesso che avremmo fatto il necessario e lo faremo», ha sottolineato il ministro del tesoro al fianco del premier Boris Johnson durante la conferenza giornaliera instaurata per l’emergenza del Covid-19. Se il meccanismo dei prestiti è stato deciso assieme alla Banca d’Inghilterra, il governo ha stanziato altri 20 miliardi di sterline per aiutare famiglie, teatri, bar, ristoranti, locali e associazioni culturali, sportive e turistiche che si trovano ad affrontare un periodo difficilissimo che Johnson, come già altri politici, ha paragonato alla guerra «contro un nemico insidioso che insieme possiamo battere». Allo stesso tempo sono stati disdetti tutti gli interventi medici non essenziali pianificati dal 15 aprile in poi con l’obiettivo di liberare 30.000 posti letto per l’emergenza. Il primo ministro ha fatto riferimento alla situazione italiana sottolineando di aver utilizzato il sistema sanitario italiano: «è eccellente». Se è sopraffatto, ha detto, è per via del numero di contagi. Stando al consigliere medico del primo ministro, Sir Patrick Vallance, l’obiettivo in Gran Bretagna è di contenere i decessi sotto la soglia di 20.000. «Un totale enorme e tragico», ma possibile, ha precisato, aggiungendo che ogni anno muoiono di influenza 8,000 persone ed è possibile che il virus duplichi le vittime. Le scuole per ora rimangono aperte ma Johnson non esclude di varare misure aggiuntive. (Paola de Carolis) Il peso delle nuove misure in Gran Bretagna: chiudono i ristoranti, i camerieri licenziati. Chiude anche la catena per telefonini Carphone Warehouse. E sono più di 2900 gli esoneri. Varie industrie puntano il dito contro Boris Johnson. Il fatto che non abbia imposto per legge la chiusura di pub, ristoranti, cinema e teatri, ma solo consigliato questi provvedimenti, significa che non scattano gli indennizzi delle assicurazioni: «ci vuoi uccidere», dicono diverse associazioni, che scrivono al pubblico alla ricerca di donazioni: aiutateci voi. Con l’assalto ai supermercati, gli anziani hanno difficoltà a fare provviste, così dovrebbe essere introdotto un nuovo servizio solo per gli over-70 per le consegne a casa e anche un’ora al giorno in cui solo loro possono entrare nei negozi.

(Elisabetta Rosaspina) Con la mobilitazione di 200 miliardi di euro, il 20% del suo Pil, la Spagna vara nuove misure economiche per appoggiare «tutti i lavoratori, garantire i pagamenti delle aziende e ai lavoratori autonomi e tutelare le categorie più deboli», secondo quanto ha annunciato questo pomeriggio il capo del governo Pedro Sánchez, al termine del primo, storico consiglio dei ministri virtuale. Una parte della gigantesca somma sul piatto contro il coronavirus, circa 83 miliardi, proverrà da «risorse private». Seicento milioni di euro serviranno per finanziare l’assistenza sociale di base, in particolare quella sanitaria, per la protezione degli anziani e dei più vulnerabili. Non saranno tagliate le forniture di acqua, telefono, gas e corrente a chi sta perdendo il lavoro o parte dei suoi introiti e non riesce più a far fronte alle bollette. Garanzie sul diritto alla casa, stop agli sfratti finché durerà la crisi del coronavirus. Dilazioni di un mese per il pagamento delle ipoteche. I lavoratori dipendenti possono ridurre il loro orario di lavoro, fino al 100%, per fronteggiare gli impegni famigliari. Ai lavoratori autonomi sarà consentito di sospendere il pagamento dei contributi e alle imprese solventi sarà garantita liquidità dal tesoro pubblico, con prestiti per i quali sono stati stanziati cento miliardi di euro. Agevolate le condizioni della cassa integrazione che già riguarda centomila dpendenti. Trenta milioni di euro sono destinati alla ricerca di un vaccino. L’Ibex ha avuto un sussulto positivo del 5% dopo la conferenza stampa del premier. Giro di vite invece sulle passeggiate. Chiuse al pubblico le spiagge, si esce per strada da soli o in due soltanto per accompagnare persone non autonome. Restano aperti i centri veterinari, e i parrucchieri possono prestare servizio a domicilio. Ma il ministero della Sanità potrà ampliare o restringere le misure a proprio discernimento. Intanto il governo invita i propri cittadini all’estero a rientrare: non si sa quanto ancora resteranno aperti gli aeroporti e i porti. La Catalogna aspetta soltanto il via libera del premier, Pedro Sánchez, per chiudere. Se il presidente della Generalitat, Quim Torra (positivo come la sua omologa della comunità di Madrid, Isabel Diaz Ayuso), dovesse prendere provvedimenti più restrittivi, diversi dalle disposizioni del decreto reale, potrebbe essere esautorato dal governo centrale. Nemmeno le isole sono un buon rifugio. Sono stati ridotti a un solo volo al giorno i collegamenti tra le Baleari (dove si contabilizzano finora un centinaio di contagiati e un morto) e Barcellona, Madrid, Valencia. Alle Canarie due donne sono morte, 148 persone sono positive e 50 ricoverate. La progressione esponenziale del virus negli ultimi giorni ha fatto capire nell’arcipelago e sul continente che non c’è tempo da perdere. Le cifre totali segnalano ufficialmente 11.186 infettati (2.000 in più da ieri), 491 morti. La comunità di Madrid è l’epicentro dell’epidemia con 4.871 casi e 355 vittime. La comunità di Madrid è l’epicentro dell’epidemia con 4.871 casi e 355 vittime. La situazione è disperata in alcune case di riposo private, dove il contagio arriva al 70% degli anziani ospiti e quasi tutto il personale infermieristico, a sua volta positivo al test, è stato rimpiazzato da nuovi addetti molto meno pratici del luogo e della situazione. All’estremo opposto c’è il caso di un bebè di pochi mesi ricoverato a Malaga. Come in un film già visto, sono iniziate le proteste nei penitenziari sovraffollati e i test sono razionati e limitati ai soli casi davvero sospetti. Niente analisi per chi ha solo sintomi lievi. La polizia ha requisito tutte le mascherine e i gel disinfettanti reperibili per affidarne la gestione alle autorità sanitarie. Per far rispettare le misure di confinamento decise dal governo sono stati dispiegati quasi duemila soldati in 28 città. I malati meno gravi, ma che necessitano comunque di ricovero, saranno isolati in alberghi «medicalizzati» e non negli ospedali.

(Stefano Montefiori) «Siamo in guerra», ripete molte volte il presidente Emmanuel Macron nel suo secondo discorso ai francesi in cinque giorni. È lo stesso capo di Stato che venerdì 6 marzo andava a teatro con la moglie Brigitte e diceva «nonostante il coronavirus la vita deve continuare», ma sembra passato un secolo. Dopo avere chiuso scuole e università, cinema e teatri, bar e ristoranti, Macron di nuovo in diretta tv annuncia che «non saranno più consentite le riunioni tra parenti o amici. Passeggiare, incontrare gli amici al parco o per strada non sarà più possibile». A partire da oggi a mezzogiorno, e per quindici giorni almeno, gli spostamenti saranno limitati ai bisogni essenziali: andare a lavorare se lo «smart working» non è possibile, fare la spesa, correre un po’ «ma uno alla volta e senza incontrare nessuno». Chi trasgredisce verrà sanzionato. È un ulteriore passaggio di livello nell’emergenza - ieri il bilancio è arrivato a 148 morti -e l’evocazione continua della guerra serve a scuotere i francesi, a fare capire che non si può più scherzare, non ci possono più essere assembramenti come quelli di domenica nei mercati e nei parchi. Ma manca la parola che tutti ormai si attendevano, confinement . Il «confinamento all’italiana» era la raccomandazione del Consiglio scientifico che da mercoledì scorso aiuta il presidente nelle sue scelte, ma Macron ha preferito evitare questa formula attirandosi le critiche immediate di alcuni medici, delusi. «L’unica risposta possibile era un confinamento totale - dice il professor Philippe Juvin, capo del pronto soccorso dell’ospedale Pompidou di Parigi -. Le misure descritte sono ancora ambigue», e anche Marine Le Pen giudica che «i provvedimenti annunciati non sono chiari a sufficienza». Molto dipenderà dal decreto di applicazione, atteso per oggi, affidato al governo di Edouard Philippe. Pochi minuti dopo il discorso del presidente, il ministro della Sanità Olivier Véran ha spiegato: «Ogni francese dovrebbe limitare i contatti a non più di cinque al giorno. Vuol dire che se qualcuno va a fare la spesa, per quel giorno non può fare altro e deve restare a casa». Macron ha anche annunciato il rinvio (forse al 21 giugno) del secondo turno delle elezioni municipali previsto domenica, e la sospensione di tutte le riforme in corso, a cominciare da quella molto contestata delle pensioni. Il presidente ha chiesto ai francesi di comprendere la gravità del momento, ha fatto appello di nuovo al loro senso di responsabilità, ma ha chiesto anche di mantenere la calma ed evitare il panico. Quando si è diffusa la voce che si andava verso un blocco come in Italia, ieri molti francesi hanno lasciato di corsa Parigi per spostarsi nelle seconde case, ospitati da parenti o in alloggi presi in affitto all’ultimo istante in provincia. Una fuga dalle città meno caotica di quella vista in Italia, ma con gli stessi rischi: «Così si aiuta la propagazione del coronavirus», dice Rémi Salomon degli ospedali di Parigi. La situazione è grave soprattutto nella regione di Parigi e in Alsazia, dove l’esercito allestirà un ospedale da campo. I soldati verranno mobilitati anche per aiutare nel trasporto dei malati.

(Marta Serafini) L’aeroporto internazionale Liszt Ferenc di Budapest non chiuderà. Lo riferisce all’agenzia di stampa «Mti» Zoltan Kovacs, sottosegretario del governo ungherese alle comunicazioni internazionali. La mancata chiusura avviene nonostante la decisione del governo ungherese di sigillare le frontiere del paese per contenere la diffusione del coronavirus. Kovacs precisa comunque che solo i cittadini ungheresi possono entrare in Ungheria. In Slovacchia sono 72 i casi di contagio da coronavirus registrati fino a questa mattina. Da mezzanotte scorsa è chiusa la frontiera con l’Ungheria, dalla scorsa settimana sono chiuse le frontiere con gli altri paesi confinanti, compresa la Repubblica ceca. Gli ospedali hanno dichiarato lo stato di emergenza. Intanto in piena epidemia, sta per nascere il nuovo governo: Igor Matovic, il leader del partito vincitore delle elezioni parlamentari Gente ordinaria e personalità indipendenti (Olano), ha messo insieme la nuova coalizione con altri tre partiti della destra. In Polonia invece a tutti i membri del governo che hanno partecipato alla riunione del 10 marzo scorso è stato fatto il test, dopo che il ministro dell’ambiente è risultato positivo, ha spiegato il capo della cancelleria del premier Michal Dworczyk. «I risultati si sapranno martedì, fino ad allora i membri del governo rimarranno in isolamento e lavoreranno da remoto», ha aggiunto. Il ministro dell’ambiente Michal Wos ha annunciato ieri di essersi messo in quarantena, dopo essere risultato positivo al test, assicurando di essere comunque in buona salute. E anche in Repubblica ceca il Covid-19 lascia il segno sulla politica. Cinque partiti dell’opposizione ceca hanno chiamato il governo a mostrare più apertura nella condivisione di informazioni sulla pandemia di coronavirus, la disponibilità di indumenti protettivi e i possibili scenari di crisi futuri. Lo rende noto l’emittente radiofonica «Cesky rozhlas», che fa riferimento a un comunicato congiunto del Partito democratico civico (Ods), del Partito pirata, di Sindaci e indipendenti (Stan), di Tradizione Responsabilità Prosperità (Top 09) e del Movimento cristiano-democratico (Kdh) in cui si chiede di mettere al corrente i cittadini dei possibili sviluppi della situazione sanitaria in Repubblica Ceca e delle misure che il governo intende adottare, si legge nel comunicato. Nel frattempo il capo della Camera dei medici ceca, Milan Kubek, ha espresso l’opinione che il paese non sia stato adeguatamente preparato a fare i conti con una pandemia, data la carenza di mascherine e disinfettanti anche per le strutture sanitarie e data la lunga lista di pazienti in attesa di un test per il coronavirus.

(P.de Car.) La strategia del governo basata su uno studio di Imperial College che mostra tutti i vari scenari. Ecco perché chiudere le scuole non funziona. L’unica possibilità per il Regno Unito è la soppressione del virus, in quanto rallentare i contagi (come pensava di fare inizialmente il Regno Unito) funzionerebbe solo con un sistema sanitario di otto volte superiore a quello che ha il Regno Unito. La nuova strategia ridurrebbe i decessi futuri di 250.000 ed è stata ideata sulla base dei dati provenienti dagli ospedali italiani, dove circa il 30% dei malati ha avuto bisogno della terapia intensiva. Il Regno Unito ha molti meno posti dell’Italia. Il governatore dell’Ohio Mike DeWine vuole che le primarie del partito democratico vengano rimandate a giugno, a causa del coronavirus. Si è aperto un grande scontro con il partito democratico, che vorrebbe andare avanti, il tribunale che ha dato l’ok al voto, e DeWine, repubblicano, che ha deciso di tenere chiusi i seggi per ragioni sanitarie. Invece, Florida, Illinois e Arizona intendono andare alle urne come previsto domani. DeWine ha spiegato di non avere il potere di annullare il voto, ma i cittadini dello Stato possono presentare ricorso ad un giudice e chiedergli di intervenire. Già due Stati, la Georgia e la Louisiana, hanno rimandato le primarie, previste rispettivamente la prossima settimana e il 4 aprile.

(Ivo Caizzi) L’emergenza coronavirus porta l’Europa verso il blocco degli arrivi non necessari dai Paesi extraeuropei, ma anche a chiedere di tenere aperte le frontiere interne per consentire il mantenimento del mercato comune e, soprattutto, i trasferimenti delle forniture mediche e alimentari. La presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, ha annunciato di aver proposto ai 27 capi di Stato e di governo Ue «restrizioni ai viaggi non necessari verso l’Unione europea per 30 giorni, che possono essere prorogati se necessario» in base al principio che «meno si viaggia, più possiamo contenere i contagi». La cancelliera tedesca Angela Merkel ha confermato l’aumento degli infettati da Covid-19 anche in Germania e ha annunciato misure precauzionali «straordinarie» perché «più tutti rispettano le restrizioni, prima usciremo da questa fase». Le esenzioni citate dalla presidente della Commissione Ue riguardano — oltre ai cittadini comunitari e altri europei con i loro familiari — le persone di altri Stati da tempo residenti in Europa, diplomatici, medici e ricercatori impegnati nella battaglia contro il coronavirus. Le restrizioni proposte possono essere approvate già nel summit straordinario dei capi di Stato e di governo, in programma oggi in teleconferenza, e poi ratificate nel Consiglio dei ministri dei trasporti, convocato per domani sempre via video. L’istituzione di von der Leyen ha però richiamato Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania e la extracomunitaria Svizzera, che hanno notificato a Bruxelles di voler chiudere le loro frontiere interne con altri Paesi Ue. Nella prima riunione straordinaria con i 54 ministri della Sanità e degli Interni in teleconferenza, i commissari Ue Stella Kyriakides, Ylva Johansson e Janez Lenarcic hanno espresso la posizione che il coronavirus «è attualmente presente in tutti gli Stati membri dell’Ue, pertanto, la nostra valutazione è che chiudere i confini non è necessariamente il modo migliore per contenere la diffusione del virus». Hanno poi presentato «linee guida» in 25 punti per proteggere la salute dei cittadini e il corretto funzionamento del mercato interno comunitario. A Bruxelles ritengono che controlli sanitari possono essere attuati su chi entra nei Paesi membri senza dover chiudere le frontiere. Germania e Francia non potranno bloccare le esportazioni di mascherine e di altre apparecchiature sanitarie verso altri Stati Ue, come hanno fatto per aumentare le loro scorte. Nell’incontro con i ministri è stata concordata l’utilità di organizzare acquisti congiunti di macchine per la ventilazione polmonare e altri prodotti sanitari in modo da poterli destinare agli Stati membri più in difficoltà con il Covid-19 (come è l’Italia) e frenare eccessivi rialzi dei prezzi o altri effetti negativi. Il governo belga avrebbe già subito una truffa su un acquisto di mascherine per 5 milioni di euro, ammettendo come «minime» le possibilità che possano ormai arrivare dal sedicente venditore.

(P.de Car.) Anche la Gran Bretagna è in semi-quarantena. Nella prima conferenza stampa della nuova era – l’emergenza del Covid-19 ha portato Downing Street a instaurare un incontro quotidiano con la stampa – il premier Boris Johnson ha sottolineato che è arrivato il momento di adottare «misure draconiane». Si tratta di una nuova realtà, ha detto il premier, «che cambierà in modo sostanziale la vita quotidiana di tutti noi». «Non credo — ha aggiunto —‘che ci sia mai stato nulla di simile in tempo di pace». Chi ha sintomi o ha in famiglia qualcuno con sintomi, così, ha adesso l’obbligo di autoisolarsi per 14 giorni. Johnson ha chiesto a tutti, inoltre, di limitare i contatti sociali, di lavorare da casa laddove possibile, di non frequentare pub, ristoranti, teatri o musei. «Questo è di particolare importanza per chi ha più di 70 anni, chi ha problemi cronici di salute e chi è incinta». Particolari misure per Londra, dove è concentrata la maggioranza dei casi. La capitale britannica è avanti di due settimane rispetto al resto del paese nella marcia inesorabile verso il picco delle infezioni, ha detto il primo ministro. Di conseguenza le indicazioni sono di ridurre al minimo le uscite e i contatti con gli altri. Chris Whitty, coordinatore della sanità pubblica, ha sottolineato che le prossime 12 settimane saranno «particolarmente difficili per i colleghi della sanità, siamo estremamente orgogliosi di ciò che stanno facendo». Per quanto riguarda i tamponi – la Gran Bretagna è stata criticata per la mancanza di test – Whitty ha sottolineato che a livello nazionale sono stati effettuati 45.000 esami. Mentre teatri, musei e sale da concerto saranno costretti a chiudere, le scuole per ora rimangono aperte e non sono per ora previste sanzioni criminali a chi viola le indicazioni sull’autoisolamento e i contatti sociali.

(Elisabetta Rosaspina) La Spagna ha deciso la chiusura delle frontiere per far fronte all’epidemia di coronavirus: a partire dalla mezzanotte potranno quindi entrare nel Paese per via terrestre soltanto i cittadini spagnoli, gli stranieri per cause di forza maggiore e le merci al fine di garantire la catena si sostentamento. Lo ha annunciato il ministro spagnolo dell’Interno.

(E. Ros.) Intanto viene superata l’Italia in curva con mille infettati in più al giorno, e la comunità di Madrid guida la tragica corsa del coronavirus che concentra nella capitale ormai ben più della metà dei contagiati. I dati, non ancora ufficializzati dal Ministero della Sanità, segnalano 4.665 casi a Madrid dei 9.100 contati in tutta la spagna, e 213 delle 309 vittime. Nei giorni precedenti la dichiarazione dello stato d’emergenza il virus è liberamente circolato sotto traccia tra raduni, concerti, convegni, assemblee di partito, mercatini e, in particolare, le manifestazioni per la Festa della donna, al cui corteo, l’8 marzo, hanno partecipato tra migliaia di persone la moglie del premier, Begoña Gómez, la ministra delle Pari opportunità, Irene Montero, entrambe positive come la ministra delle Politiche territoriali e della Funzione Pubblica, Carolina Darias (negativo invece Sanchez). Positiva e in isolamento anche la presidente della regione, Isabel Diaz Ayuso, dopo essere risultata negativa a un primo test. E positivo, ha appena rivelato, anche il presidente della Catalogna Quim Torra.Tutte sono a casa (per la first lady, la Moncloa), come la maggioranza dei contagiati, ma secondo il quotidiano La Vanguardia il 40% dei casi richiede ricovero. Il mercato più famoso, quello domenicale del Rastro, ieri era chiuso, ma domenica scorsa è stato frequentatissimo come al solito. Ancora stamattina la stazione di Atocha era affollata di pendolari in arrivo dai comuni limitrofi e dalle cittadine satellite della capitale, nonostante un crollo del 70% dei passeggeri e nonostante il governo abbia rafforzato il numero dei treni per permettere di mantenere le distanze nei vagoni. Cala fortunatamente la ressa in metropolitana, poiché molte aziende hanno aderito alla raccomandazione di promuovere il lavoro da remoto, ma cresce il pessimismo. Non soltanto il picco è ancora lontano, ma crollano le residue illusioni che le misure, quasi identiche a quelle italiane, adottate dal governo possano risolvere la situazione nei 15 giorni per i quali sono state dichiarate. Per rinnovarle occorrerà il via libera del parlamento, che nella situazione drammatica in cui si trova il paese non mancherà quasi certamente di accordarlo. L’obiettivo per il giro di boa è fissato ora al 15 aprile. L’esercito, incaricato di pattugliare le strade di 20 città per sorvegliare il rispetto delle decisioni del governo (i cittadini possono uscire di casa per andare al lavoro, in farmacia, a fare la spesa, dal medico, in banca, per assistere persone anziane o non autosufficienti, e per portare a passeggio i propri cani), è stato mobilitato anche per attrezzare ospedali da campo supplementari. Gli uomini della Brigata paracadutista hanno trasportato decine di letti supplementari dagli alberghi all’ospedale Príncipe de Asturias di Alcalá de Henares, famosa come città natale di Miguel de Cervantes, a una trentina di chilometri dalla capitale, e ora il ground zero della comunità per progressione dei contagi (30 al giorno su 200 mila abitanti): con 300 posti in tutto nell’ospedale, 200 sono già occupati da pazienti colpiti dal Covid-19. Manca materiale sanitario e il 25% del personale è a casa perché positivo al test. Soltanto il centralissimo ospedale de La Paz, a Madrid, è impegnato con più malati. Nei prossimi giorni potrebbero emergere con le conseguenze della fuga dei madrileni verso le seconde case, sulla costa mediterranea e nelle campagne ai villaggi d’origine. La percezione del rischio era ancora bassa nel week end quando nella Sierra madrilena si potevano vedere centinaia di gitanti.

(Paolo Valentino) Mentre i casi di contagio da covid-19 in Germania schizzano a quota 6500, il doppio in meno di tre giorni, e i decessi salgono a 16, il triplo rispetto a sabato scorso, la Baviera, primo Land federale a farlo, proclama l’emergenza catastrofi. Non era mai successo nella Storia del libero Stato. La prima conseguenza della drammatica decisione annunciata dal ministro-presidente Markus Soeder, è che da questo momento la lotta al Coronavirus diventa centralizzata, con un unico coordinamento direttamente nelle mani del ministero dell’Interno bavarese. Nuove misure restrittive sono già state annunciate: già sbarrate scuole e asili nido, teatri, cinema e discoteche, ora verranno chiusi fino al 19 aprile anche piscine, parchi, musei, bar e non ultimi i bordelli. Da mercoledì chiuderanno tutti i negozi, tranne quelli alimentari, lavanderie e ovviamente farmacie, banche e stazioni di rifornimento. I ristoranti potranno rimanere aperti tra le 6 e le 15, ma dovranno assicurare una distanza di almeno 1,5 metri tra i clienti e accettare un massimo di 30 persone. Oltre a rivolgere un nuovo pressante appello alla popolazione a non uscire di casa, Soeder ha messo in chiaro che «non si tratta delle ultime misure» e che altre potranno essere adottate nei prossimi giorni: «Occorre ridurre al minimo indispensabile la vita pubblica», ha detto il premier. Il governo bavarese ha anche annunciato di voler stanziare fino a 10 miliardi di euro per l’economia e il sistema sanitario del Land. Intanto è proprio la Baviera a chiedere con più insistenza al governo federale il coinvolgimento nel sistema sanitario della Bundeswehr, l’esercito tedesco, con tutti i suoi ospedali militari e il suo personale medico nel grande sforzo nazionale per arginare la pandemia.

(Redazione Esteri) «Non abbiamo chiuso le frontiere ma abbiamo introdotto controlli ai confini» terrestri con Austria, Svizzera, Francia, Lussemburgo e Danimarca con l’obiettivo di rallentare l’espandersi del covid-19: lo ha detto il portavoce del ministro degli Interni tedesco, Steve Alter, in conferenza stampa a Berlino. Al momento la misura non riguarda gli aeroporti e il traffico aereo. Il provvedimento prevede di limitare l’ingresso in Germania a chi non ha «stringenti necessità», quindi a chi viaggia per turismo, ha aggiunto il portavoce. Luce verde invece ai pendolari e al traffico di merci. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, ha annunciato alcune misure di isolamento sociale per tentare di contenere la diffusione del coronavirus nel Paese. Parlando oggi in conferenza stampa, il capo del governo tedesco ha spiegato: «Abbiamo bisogno di misure per rallentare il contagio. Sono misure senza precedenti, ma necessarie per non sovraccaricare il nostro sistema sanitario». La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen «terrà oggi alle 17.30 una videoconferenza con il management della CureVac di Tubinga», in Germania. CureVac è l’azienda biofarmaceutica che secondo i media internazionali Donald Trump aveva cercato di convincere, dietro il compenso promesso di un miliardo di dollari, a destinare un vaccino eventualmente sviluppato in esclusiva agli Stati Uniti. Il colloquio «è collegato» alla necessità «di assicurarci che questa società possa continuare ad operare e a fare ricerca in Europa». Lo dice il portavoce capo della Commissione Europea Eric Mamer, durante il briefing con la stampa a Bruxelles. Secondo indiscrezioni di stampa non smentite, il precedente Ceo di CureVac, il cittadino Usa Daniel Menichella, sarebbe stato sostituito dopo una riunione alla Casa Bianca, all’inizio di marzo, in cui l’Amministrazione americana di Donald Trump avrebbe offerto alla compagnia tedesca ingenti somme di denaro per avere accesso esclusivo ai risultati ottenuti dalla stessa nella ricerca, in particolare su un vaccino per la Covid-19.

(Irene Soave) Nei Paesi Bassi, dove l’autorità di sicurezza nazionale fino a pochi giorni fa rispondeva con molta calma e un pizzico di ironia, sul proprio sito, alle domande dei cittadini — «Perché non ci sono controlli della temperatura a chi arriva negli aeroporti olandesi?» «Perché troveremmo solo tanti bei raffreddori e qualche influenza» — le nuove regole sulla chiusura dei negozi e degli esercizi pubblici infiammano il clima. Lunghe code di fronte ai coffee-shop delle città, chiusi da domani al 6 aprile, per comprare le ultime scorte di «erba»: le immagini fanno il giro del mondo. E il verbo «hamstern», «fare incetta» (nei supermercati), viene tradotto nella lingua dei segni con un gesto improvvisato e subito ritwittato centinaia di volte dalla interprete governativa Irma Sluis, che ha riportato in lingua dei segni la conferenza stampa del governo. Il gesto è talmente chiaro (e accompagnato da mimica facciale) che entra nel vocabolario della Lis.

(Stefano Montefiori) Mezzo milione di morti è la stima di Neil Ferguson, scienziato dell’Imperial College di Londra, autorità mondiale riconosciuta nell’epidemiologia, e autore del rapporto arrivato sulla scrivania di Macron. Se non vengono prese misure drastiche di confinamento, le vittime in Francia potrebbero essere tra 300 e 500 mila. Intanto il collasso degli ospedali è cominciato nell’Est del Paese, in Alsazia: mancano i letti e i ventilatori. Le due regioni più colpite sono l’Est e l’Ile de France (Parigi), il blocco totale modello italiano potrebbe essere dichiarato prima qui e poi esteso al resto del Paese. Lasciare Parigi? È la tentazione di tutti: rifugiarsi in campagna, in una casa con giardino, finché si è ancora in tempo. Nel frattempo si diffonde la rabbia popolare contro le scelte scellerate degli ultimi giorni. Le autorità che sembravano gestire bene la situazione fino a qualche giorno fa hanno perso credibilità. In particolare la scelta di tenere le elezioni, inviando un messaggio contraddittorio, è considerata imperdonabile. Così come l’avere creduto fino all’ultimo che fosse possibile evitare il destino dell’Italia. Il comitato scientifico Finalmente noti i nomi del comitato scientifico nominato mercoledì da Macron per consigliarlo sulla crisi: c’è un po’ di tutto, antropologi, sociologi, ma i virologi si sono fatti conoscere all’inizio della crisi per avere sostenuto la famosa teoria «è come un’influenza». Il che spiegherebbe il ritardo nella presa di coscienza.

(Paola De Carolis) Il governo britannico guidato da Boris Johnson viene criticato perché agli organi d’informazione arrivano informazioni a sgoccioli, ad alcuni sì ad altri no. Ieri ad esempio la decisione sull’isolamento degli anziani e lo studio secondo il quale l’80% della popolazione contrarrà il virus sono stati dati in esclusiva a un giornale o tv piuttosto che un altro (rispettivamente a ITV e Guardian). Viene introdotta così una conferenza stampa quotidiana da trasmettere in diretta a tutto il Paese. Lo studio indica che circa 8 milioni di persone in Gran Bretagna avranno bisogno di essere ricoverati, mentre il virus durerà sino alla primavera 2021. In Gran Bretagna 8 milioni di ricoveri non sono in alcun modo sostenibili. Gli ospedali privati uniscono le forze con quelli statali, mentre è possibile che vengano requisiti gli alberghi – per la maggior parte vuoti – per trasformarli in centri d’accoglienza per malati.

(Massimo Gaggi) In ritardo rispetto a Italia ed Europa, ma prima di altre parti d’America, New York chiude le scuole e anche bar e ristoranti (eccetto il servizio take-out). Non siamo al coprifuoco proclamato da Hoboken, la città del New Jersey dirimpettaia di Manhattan, dall’altra parte del fiume Hudson, dove è nato e cresciuto Frank Sinatra, ma ci siamo vicini. Aule sprangate per più di un mese, fino al 20 aprile, ma un affranto sindaco Bill de Blasio ha ammesso che gli alunni potrebbero non tornare più in classe per tutto il resto dell’anno scolastico: si sta cercando, dove possibile, di sostituire l’insegnamento in classe con lezioni online. Pressato dalla cittadinanza e dallo stesso governatore Andrew Cuomo e con i numeri del contagio che indicano una rapida espansione dell’epidemia a New York, il sindaco ha preso con enorme sofferenza una decisione ormai inevitabile ma che lui ha cercato di evitare fino all’ultimo momento. I tormenti di de Blasio illustrano bene la prossima prova tremenda, insieme a quella del cattivo funzionamento del suo sistema sanitario, che dovrà essere affrontata da un’America attonita nello scoprire, davanti alla sfida del coronavirus, l’enorme fragilità del suo modello economico.Degli enormi ritardi nel testare i possibili contagiati scriviamo ormai da dieci giorni. Di tamponi, nonostante tutte le promesse, se ne fanno ancora molto pochi e ad operare sono soprattutto laboratori privati che non sempre comunicano i risultati dei test alle autorità pubbliche, oltre che al paziente. Circondandosi di rappresentanti delle assicurazioni sanitarie, delle case farmaceutiche, degli ospedali, ai quali delega spesso le risposte alla crisi coronavirus, rende evidente la realtà di un Paese che non ha un servizio di tutela della salute pubblica semplicemente perché negli Usa essere curati non è un diritto ma una responsabilità individuale. Affidata ai privati. Oltre alle carenze della sanità ora vengono fuori anche quelle, drammatiche, di un sistema di protezione per i meno abbienti sociale pressoché inesistente: de Blasio ha esitato a lungo perché per una parte molto consistente del milione di alunni di New York la scuola, prima ancora del luogo in cui apprendere, è quello in cui ricevono gli unici pasti della loro giornata: colazione e pranzo. E in una struttura sociale polverizzata con molti genitori single, niente nonni ad aiutare né altre possibilità di tenere i piccoli in strutture protette, padri e madri rischiano di dover restare a casa anche quando sono addetti a servizi pubblici essenziali che non possono essere interrotti come i conducenti di metrò e bus, i poliziotti, gli infermieri, i netturbini.

(Giuseppe Sarcina) Mentre a Las Vegas chiudono tutti i casinò, la Cdc, l’autorità sanitaria federale ha fissato altre restrizioni nella tarda serata di domenica 15 marzo. Da oggi e per otto settimane saranno vietati in tutto il territorio americano «assembramenti con più di 50 persone». La raccomandazione è piuttosto generica: si spiega solo che il limite «non si applica alle scuole e alle società». Se ne deduce che dovrebbe azzerare la programmazione di cinema, teatri, discoteche. Vale anche per bar e ristoranti (oltre a quelli di New York)? I chiarimenti dovrebbero arrivare nel pomeriggio americano di oggi, lunedì 16 marzo, nel briefing quasi quotidiano tenuto dalla «task force anti virus» della Casa Bianca. Donald Trump, invece, ha incontrato i manager della Grande distribuzione e ha promesso ai cittadini americani che «negozi e supermercati rimarranno sempre aperti per tutta la durata della crisi». Non c’è bisogno, quindi, dice il presidente, di accaparrarsi generi alimentari o altri prodotti. L’onda di preoccupazione, però, cresce. Ieri a New York supermarket strapieni. Ancora abbastanza normale la situazione a Washington DC. Nella capitale sono vuoti solo gli scaffali della carta igienica, dei detergenti, della pasta e dei legumi in scatola.

(Marta Serafini) Gli Usa sono pronti ai primi test su esseri umani del vaccino per il coronavirus. Il primo partecipante a una sperimentazione clinica riceverà una dose sperimentale lunedì, secondo quanto rivelato da un funzionario governativo all’Associated Press. Il National Institutes of Health sta finanziando i test, in atto presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle. Il funzionario che ha rivelato la notizia ha parlato a condizione di anonimato. Al primo volontario e a quelli che dovranno eventualmente seguire verranno somministrate diverse dosi del vaccino sperimentale. Ciascuno riceverà due dosi in totale, a distanza di 28 giorni, nel muscolo della parte superiore del braccio. Funzionari della sanità pubblica statunitense sostengono che ci vorranno da un anno a 18 mesi per convalidare completamente qualsiasi potenziale vaccino.

(G. Sar.) Il Covid-19 nella sfida Biden-Sanders In serata il Covid-19 ha dominato anche il dibattito tra i candidati democratici Joe Biden e Bernie Sanders. Biden, dopo aver annunciato che sceglierà una donna come sua vice, è apparso più convincente sulla strategia di contrasto al coronavirus. Ha chiesto di concentrarsi più sull’emergenza che sulla “rivoluzione” predicata da Sanders. Nello scontro, però, la cosa che ha avuto la peggio è l’immagine dell’Italia. A un certo punto, Jake Tapper, moderatore della Cnn, ha chiesto ai due contendenti: «Se lei fosse il presidente in questo momento, che cosa farebbe per essere certo che ogni americano malato possa ottenere le cure necessarie, in modo che gli Stati Uniti non debbano subire lo stesso destino dell’Italia, dove i medici devono decidere in questo momento chi può avere le cure per restare in vita e chi non le può avere?» Una semplificazione estrema di una questione molto più complessa e drammatica. Ma nessuno dei candidati ha contestato, anzi Biden ha usato il nostro Paese per rintuzzare gli argomenti di Sanders a favore di una sanità universale: «In Italia c’è il sistema della sanità universale. Ma non ha funzionato. Questa cosa (il contagio, ndr) non ha nulla a che fare con Medicare per tutti. E la sanità universale non risolve per nulla questo problema.

(Marta Serafini) L’emergenza coronavirus sta spingendo i paesi della sponda sud del Mediterraneo a prendere delle misure senza precedenti che rischiano di avere un impatto significativo per l’Italia. Nell’immediato, infatti, occorre risolvere la questione delle migliaia di cittadini italiani che rischiano di rimanere bloccati in Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto. Ciascuno di questi Paesi, infatti, ha optato per un blocco del traffico aereo (chi totale, chi parziale) che sta spingendo il governo italiano a predisporre dei voli straordinari in collaborazione con Alitalia. Guardando più a medio-lungo termine, invece, l’attenzione si sposta sugli scambi commerciali e sulle centinaia di aziende italiane che hanno scelto di investire in Nord Africa e che rischiano di rimanere isolate. Non va dimenticato, inoltre, che Algeria e Libia forniscono all’Italia ingenti quantità di gas: per il momento i flussi di metano non sono stati intaccati dall’emergenza e la situazione non sembra poter mutare. Secondo quanto riferisce la piattaforma Covid19-Africa, il paese nordafricano con il numero più alto di contagi è l’Egitto con 126 casi, seguito da Algeria (54), Marocco (28) e Tunisia (16). Nessun caso invece è stato segnalato in Libia, almeno per ora.

(M.Ser.) Di fronte all’aumentare dei casi di coronavirus, arrivati a 33, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha proclamato «una quarantena sociale» in tutto il Paese per impedire la diffusione del virus. «A partire dalla mattina del 17 marzo alle 5 il Venezuela entrerà in una quarantena sociale, misura drastica necessaria», ha detto Maduro durante una riunione del governo trasmessa dalla televisione di stato. Inoltre, Maduro ha detto che la Cina ha già assicurato sostegno ed aiuto al Paese con l’invio di personale e materiale sanitario ed ha anche ringraziato il governo cubano per l’assistenza ricevuta. «Per ogni caso di Covid-19, vi sono altri 27 da scoprire», ha aggiunto spiegando la necessità di rompere «la catena della trasmissione ed isolare gli infettati: quello che stiamo facendo è giusto», ha concluso. Il sistema sanitario venezuelano è gravemente compromesso dalla tracollo economico che ha spinto milioni di persone a lasciare il Paese.

(M.Ser.) Diversi supermercati in Australia hanno riservato un’ora di apertura solo per gli anziani, in modo da permettere loro di fare la spese con più serenità ed evitare il contagio da Covid-19. Di fronte ad alcuni negozi di Melbourne, nel Sud, o persino di Sydney, si sono formate lunghe code molto presto e alcuni clienti hanno rinunciato. «Questo è il primo giorno in cui abbiamo adottato questa ora dedicata e sappiamo che non tutto è stato perfetto in tutti i nostri negozi», ha riconosciuto in un comunicato stampa il direttore generale dei supermercati Woolworths, Claire Peters, il cui gruppo ha riservato l’orario dalle 7 alle 8 ad anziani e disabili. L’India ha chiuso ai visitatori il Taj Mahal, una delle sette meraviglie del mondo I casi di coronavirus in India, aggiornati alla tarda mattinata di oggi, sono saliti a 126 e i decessi a tre. All’avviso ai viaggiatori è stato aggiunto il divieto di ingresso nel paese, con effetto immediato e fino al 31 marzo, per i passeggeri provenienti da Afghanistan, Filippine e Malesia. Gli Stati e i Territori dell’Unione interessati dal contagio sono quindici: Andhra Pradesh (uno), Nuova Delhi (sette), Haryana (15), Karnataka (otto), Kerala (24), Maharashtra (39), Orissa (uno), Punjab (uno), Rajasthan (quattro), Tamil Nadu (uno), Telangana (quattro), Jammu e Kashmir (tre), Ladakh (quattro), Uttar Pradesh (tredici) e Uttarakhand (uno). La terza vittima è un uomo di 64 morto all’ospedale Kasturba di Mumbai, nel Maharashtra. Tra i pazienti ci sono 22 stranieri, di cui 16 italiani.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 17 marzo 2020. In attesa per ritornare a casa. Ci sono i turisti rimasti bloccati all’estero e gli studenti «fuori sede» oppure quelli che seguivano il programma Erasmus. Ci sono anche gli italiani che vivono all’estero e adesso, spaventati di rimanere senza assistenza sanitaria, stanno meditando di rientrare. Di tutti si sta occupando l’Unità di crisi della Farnesina. «Stiamo trattando i Paesi per ottenere slot dedicati e organizzando voli commerciali e traghetti per risolvere ogni problema», conferma il capo Stefano Verrecchia. La linea del ministero degli Esteri Luigi Di Maio è netta: «Stiamo lavorando per risolvere i problemi di tutti. Sono giornate delicate ma stiamo rispondendo a questa crisi con tempestività. È il momento di stare uniti e collaborare, lo dico anche a tutte le forze politiche: serve responsabilità. Tutti noi dobbiamo avere un solo obiettivo: tutelare gli italiani. I nostri cittadini stanno dando una straordinaria dimostrazione di serietà. Se saremo forti e solidali ne usciremo più forti e più uniti di prima».

Finora sono 3mila i connazionali già rientrati, per gli altri si stanno organizzando nuovi viaggi.

SPAGNA: Sono 2 i voli organizzati da NEOS per 186 posti ciascuno per il 16 marzo da Tenerife e Fuerteventura per Roma Fiumicino. ALITALIA ha programmato 3 voli per il 17, il 18 e il 19 marzo (operati da AIR EUROPA) sempre dalle Canarie. Si può partite anche da Barcellona con il traghetto che va a Civitavecchia. Per ragioni di sicurezza non si può garantire la capienza totale di 3000 posti , ma per ogni tratta può portare fino a 600 passeggeri. ALITALIA sta organizzando un volo da Madrid.

MALTA Si può rientrare con un collegamento via mare garantito da un catamarano che sbarca a Pozzallo, in Sicilia. Parte ogni giorno e ha già riportato in Italia 562 persone.

ALBANIA: da Tirana ci sono già stati 3 voli BLUE PANORAMA/ALBAWINGS che hanno fatto rientrare 435 passeggeri e viene garantito il collegamento.

AUSTRIA: Sono stati già organizzati tre viaggi in pullman da Vienna e altri ne saranno organizzati nelle prossime.

PAESI BASSI: Volo ALITALIA del 16 marzo alle 17.25 su Roma Fiumicino ha riportato 435 persone.

GRAN BRETAGNA: Da Londra ci sono 2 voli ALITALIA al giorno da London Heathrow (LHR) a Roma Fiumicino, il secondo è stato introdotto oggi. Vettore più grande per mettere a disposizione più posti. Possibile terzo volo.

MALDIVE: Volo Alitalia il 16 marzo – Totale 293 posti.

ALGERIA: Volo in programmazione con Alitalia probabilmente il 21 marzo (priorità accordata a chi disponga già di un biglietto previamente acquistato).

 Da ansa.it il 17 marzo 2020. Le stazioni ferroviarie di Parigi stamane sono affollate di gente che vuole lasciare la città, prima che scatti il blocco agli spostamenti non necessari decretato ieri dal presidente francese Emmanuel Macron, per far fronte all'emergenza coronavirus. Il blocco scatterà a mezzogiorno e molti residenti dell'Ile-de-France, riferisce l'emittente all news Bfm-tv, sono in fila nelle stazioni per lasciare Parigi fin quando sarà possibile, ma con il risultato di creare assembramenti che in questo momento sono sconsigliati. Al contrario, il traffico automobilistico nell'area è nettamente inferiore rispetto ad un normale martedì mattina. La parola d'ordine, annunciata da Macron ieri sera alla nazione, e ribadita dal ministro dell'Interno Castaner, è "restare a casa", sul modello italiano, per almeno 15 giorni.

In Germania il Robert Koch Institut registra 6012 casi positivi ufficiali al test da Coronavirus, "ma noi sappiamo che i casi sono certamente di più". Lo ha detto il presidente del Koch Institut, Lothar Wieler. "I test vanno fatti in modo molto strategico", ha poi aggiunto. "Le misure adottate per il contenimento del coronavirus vanno rispettate altrimenti nel giro di pochi mesi milioni di persone saranno contagiate, e questo va assolutamente evitato". Wieler ha inoltre affermato che "le pandemie vanno avanti a ondate" e che secondo le loro valutazioni, la pandemia da coronavirus potrà durare due anni. Ovviamente tanto più presto arriverà il vaccino tanto meglio è", ha aggiunto.

Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 17 marzo 2020. Altro che fuori dall'emergenza. Nella provincia cinese dello Hubei, quella più duramente colpita, il coronavirus è tornato a fare male. L' agenzia di stampa Xinhua ha dato la notizia di quattro nuovi casi di infezione sabato e di 14 decessi domenica a Wuhan, capoluogo di provincia ed epicentro dell' epidemia. La commissione sanitaria provinciale parlava anche di altri 18 casi sospetti. Il sito As-Source News annunciava ieri che le città di Xiaogan e Tianmen sono state nuovamente chiuse dopo un giorno e riproponeva sul suo profilo Twitter il video pubblicato da un utente. Sono stati segnalati anche 14 casi di contagio di ritorno, quattro a Pechino, quattro nella provincia del Guangdong, due a Shanghai e uno, rispettivamente, nelle provincie dello Yunnan e del Gansu. Una settimana fa, il presidente, Xi Jinping, faceva visita a Wuhan, dove tutto il male sarebbe nato dal mercato degli animali vivi o da laboratori militari, per annunciare al mondo che il peggio era ormai passato e che il Partito comunista era riuscito ad avere la meglio sul Covid-19. Per dieci giorni consecutivi nell' Hubei non si erano verificati nuovi contagi, poi sabato la commissione sanitaria ha riferito di quattro nuovi casi di infezione in sole 24 ore, portando il totale dei positivi su quel territorio da inizio epidemia a 67.794, il numero più alto di contagiati di tutta la Cina (81.032 secondo i dati di ieri). I pazienti dimessi nella provincia dello Hubei sono 55.094, rimangono in ospedale 8.703 cinesi dei quali 2.403 ancora in gravi condizioni e altri 572 in condizioni critiche. La notizia del virus che riprende vigore in Cina è stata subito ridimensionata. Un rapporto di Citizen Lab, organizzazione di ricerca sulla censura di Internet con sede in Canada, ha rivelato infatti che a partire dallo scorso 31 dicembre, i censori del Web in Cina hanno introdotto un nuovo elenco di 45 parole chiave per bloccare la discussione online sull' epidemia di Covid-19. Secondo gli autori del rapporto, a febbraio sono state identificate altre 516 combinazioni di parole, bloccate su Wechat, l' app di messaggistica più diffusa in quel Paese. I nuovi malati nello Hubei, però, significano una cosa sola: non è ancora spento il focolaio scoppiato tra novembre e dicembre nella metropoli di 11 milioni di persone nel cuore della Cina. Non si può ancora annunciare la vittoria sul Covid-19, malgrado il blocco messo in atto da Xi Jinping per un mese e mezzo. In Italia, invece, c' è già chi si illude che il peggio sia passato. Che siamo prossimi a vedere la fine dell' emergenza. Nulla di più falso, da settimane i virologi stanno ripetendo che sono tante le variabili da tenere d' occhio per capire l' andamento dell' epidemia. Parlare di trend in ribasso o di calo costante dei contagi è pura incoscienza, quando non conosciamo ancora come si diffonderà il coronavirus al Sud e come si riuscirà a contenerlo al Nord. «La violenza con cui è stata colpita l' Italia è apparsa finora unica, nell' ambito dei Paesi sviluppati. Altri Paesi occidentali sembrano tuttavia ad altissimo rischio di intraprendere lo stesso percorso, se non anticiperanno l' attuazione di misure restrittive», affermava qualche giorno fa il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). E metteva in guardia: «Di tale pandemia l' Italia è in questi giorni il Paese più colpito. Il superamento della Cina in termini di numero ufficiale di decessi appare imminente. Altri Paesi, soprattutto in Occidente, sembrano avviati sulla stessa strada». E lo stesso Dragone torna ad avere paura.

DAGONEWS il 18 marzo 2020. Esodo dei cinesi verso le loro città natali: dopo che l’emergenza nel loro Paese è di sotto controllo (almeno prima del loro arrivo) in centinaia hanno deciso di lasciare l’Europa, dopo i casi di coronavirus crescono di giorno in giorno. I più ricchi hanno prenotato voli su jet privati alla impressionante cifra di 21mila sterline pure di raggiungere la Cina che, adesso, è considerato un luogo sicuro. Pechino ha riportato solo un nuovo caso rispetto ai 15.152 di appena cinque settimane fa, mentre il numero di decessi e contagi in Europa continua a salire. Alcuni video hanno mostrato la folla all’aeroporto di Pechino, strapieno di passeggeri in arrivo dall’estero. Molti sono studenti cinesi che dichiarano di sentirsi spaventati e indifesi dal modo in cui diversi paesi in Europa stanno gestendo l’emergenza. «Essere sul suolo cinese mi fa sentire al sicuro - ha detto un ragazzo ritornato nel suo Paese – Mi sembrava pericoloso rimanere nel Regno Unito». Una situazione che ha ingrossare le tasche delle compagnie di jet privati che hanno dovuto aggiungere nuovi voli visto la grande richiesta. La Deer Jet, al prezzo di 21mila sterline, riporta riccastri a casa su un aereo da 14 posti.

La Cina ha registrato domenica un solo caso a Wuhan, focolaio del coronavirus, e altri 20 di contagio di ritorno. Secondo gli aggiornamenti della Commissione sanitaria nazionale (Nhc), i morti sono stati 13, di cui 12 nella provincia dell'Hubei - di cui Wuhan è capoluogo - e uno in quella di Shaanxi. Tra i casi mortali, nove sono stati rilevati a Pechino, tre a Shanghai e nel Guangdong, e uno nelle province di Zhejiang, Shandong, Guangxi, Yunnan e Shannxi. I contagi di ritorno sono così saliti a 143.

La Corea del Sud ha approvato una stretta ai controlli a partire da giovedì su tutti gli arrivi internazionali contro i rischi del contagio di ritorno, nel mentre ha annunciato su lunedì 84 nuovi casi di coronavirus che hanno portato il totale a quota 8.320. Secondo i Korea Centers for Disease Control and Prevention, i morti sono saliti a 81. Malgrado un leggero rialzo sui 74 casi di domenica, il trend è sotto quota 100 per il terzo giorno di fila. Circa il 61% dei casi certi sono legati alla Chiesa di Gesù Shincheonji, setta religiosa di Daegu.

La pandemia di coronavirus ha raggiunto un altro, allarmante traguardo: per la prima volta i contagi e i morti nel mondo hanno superato quelli in Cina. In questo scenario l'Europa, che è il nuovo epicentro, chiude da oggi a mezzogiorno le frontiere esterne dell'Unione. "Questa è una crisi sanitaria che segna la nostra epoca", ha sottolineato l'Oms, avvertendo che la lotta contro questa "malattia grave, che uccide anche giovani e bambini", richiederà "mesi". Lo dimostrano gli 87.000 contagi registrati nel mondo, che hanno superato gli 80.000 della Cina, e lo stesso vale per il numero dei morti, ben oltre i 3.200 degli oltre 7.000 complessivi.

La crescita più robusta è in Europa, dove in diversi Paesi si assiste all'escalation iniziata in Italia. La situazione nel Vecchio Continente è stata tra i temi al centro della videoconferenza dei leader del G7 in cui è stato concordato di fare tutto il possibile per garantire la crescita. Ai suoi partner, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha anticipato di aver proposto "una restrizione temporanea per tutti i viaggi non essenziali verso l'Ue, per trenta giorni, ma da prolungare se necessario". Tale blocco, soggetto ad esenzioni per cittadini europei che tornano a casa, ma anche per personale sanitario e ricercatori, ha come obiettivo quello di "non appesantire ulteriormente i sistemi sanitari", ha spiegato von der Leyen, che domani ne discuterà con i capi di Stato e di governo convocati per un consiglio straordinario, sempre in video. Ma la decisione è presa, tanto che in serata è stato il presidente francese Emmanuel Macron ad annunciare che la chiusura scatterà da martedì a mezzogiorno.

Sempre più Stati membri però hanno già rinunciato alla libera circolazione interna sancita da Schengen. Così dopo Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania e Germania, anche la Spagna ha sigillato i suoi confini: è il secondo Paese più colpito in Europa, con oltre 9.000 contagi (anche il governatore catalano Quim Torra) e 300 morti.

Cresce l'allarme anche in Gran Bretagna: il brusco aumento delle infezioni da Covid-19 ha convinto Boris Johnson ad abbandonare la linea dell'attendismo, tanto che il capo del governo di Sua Maestà ha raccomandato lo stop di tutti i viaggi non necessari, il lavoro da casa e la rinuncia ai contatti sociali, incluse le 'istituzionali' bevute al pub.

Misure draconiane sulla falsariga italiana sono state adottate in Svizzera e uno scenario simile è stato imposto in Francia: spostamenti drasticamente ridotti per 15 giorni e sanzioni per chi non rispetta le regole. "Siamo in guerra", è stato il monito di Macron. La stretta anti-pandemia non riguarda solo l'Europa.

Negli Stati Uniti le due città simbolo, New York e Los Angeles, di fatto si fermeranno, con lo stop a scuole, bar, ristoranti, cinema e all'iconica Statua della Libertà. Anche a Washington si resterà a casa e Las Vegas ha chiuso i casinò, mentre in New Jersey è scattato il coprifuoco. La città di San Francisco ha ordinato ai residenti di gran parte della regione della Baia di restare a casa per le prossime tre settimane e il più possibile lontano dalle altre persone per fermare la diffusione del contagio da coronavirus. In Africa infine si registrano solo un centinaio di contagi complessivi in 27 Paesi ma c'è da dubitare che i controlli siano massicci. L'Oms ha messo in guardia i paesi a basso reddito perché l'infezione avrebbe un impatto devastante sulle fasce più deboli. Per questo l'imperativo è sempre lo stesso: "Test, test, test" su ogni caso sospetto. 

 (ANSA il 3 febbraio 2020) - Il coronavirus sembra sempre più una pandemia: "è molto, molto trasmissibile, e quasi certamente sarà una pandemia" afferma Anthony Fauci, il direttore dell'istituto americano per le allergie e le malattie infettive. Gli scienziati, riporta il New York Times, non sanno ancora quanto letale sia il coronavirus che si sta diffondendo più come un'influenza che come le cugine Sars o Mers. Ed è proprio la sua rapida diffusione a preoccupare. Secondo alcuni modelli il numero reale di casi è di 100.000 o più. La Cina ha registrato ieri 57 nuovi decessi legati al coronavirus di Wuhan, che portano il totale a 361: gli ultimi aggiornamenti forniti dalla Commissione sanitaria nazionale (Nhc) segnalano inoltre 2.296 nuovi contagi accertati, per 17.205 casi complessivi. Si attestano a 21.558 i casi sospetti, mentre le guarigioni accelerano a quota 475. La provincia dell'Hubei si conferma l'epicentro dell'epidemia del letale coronavirus: solo ieri, in base ai dati della Commissione sanitaria nazionale (Nhc) cinese, i nuovi decessi sono stati 56 (sui 57 complessivi) e i nuovi contagi accertati si sono portati a 2.103 (su 2.296). Nella sola provincia i decessi sono saliti a 350, contro il dato nazionale di 361. L'aereo con 57 degli italiani bloccati a Wuhan, a causa della quarantena decisa per contenere l'epidemia del nuovo coronavirus, è partito in piena notte, con un po' di ritardo rispetto alla tabella di marcia iniziale, ed è atteso in patria in mattinata, all'incirca verso le 10. Secondo quanto riferito da diversi connazionali rimasti nella città focolaio dell'epidemia, oltre agli italiani c'è stata la partenza di altri stranieri in fase di evacuazione. Le Borse cinesi sprofondano al ritorno agli scambi dopo la lunghissima pausa del Capodanno lunare, scontando l'epidemia del coronavirus di Wuhan: Shanghai cede l'8,7%, Shenzhen il 9%. L'indice Composite di Shanghai ha accusato nelle prime battute un tonfo dell'8,73%, bruciando ben 259,83 punti, scivolando a quota 2.716,70 e ai minimi da febbraio 2019, mentre Shenzhen ha perso il 9%, lasciando sul floor di Borsa 158,02 punti, a quota 1.598,80. La Banca centrale cinese (Pboc) ha ieri annunciato una maxi iniezione di liquidità sui mercati per 1.200 miliardi di yuan (173 miliardi di dollari) per aiutare, una delle le misure per attutire il contraccolpo di un atteso drammatico ritorno agli scambi, dopo un Capodanno lunare esteso di 3 giorni e una crisi del coronavirus che nel Paese ha causato 361 morti, superando i 349 legati alla Sars nel 2002-03. Secondo quanto riportato dal 21st Century Business Herald, l'autorità di regolamentazione sui mercati finanziari (CSRC) avrebbe notificato agli intermediari la sospensione, a partire da oggi, delle vendite allo scoperto sulle azioni al fine di dare una maggiore stabilizzazione dei mercati. Sono almeno 24 tra province e municipalità cinesi, come Shanghai, Chongqing e il Guandong, che hanno rinviato la ripresa delle attività economiche e produttive a non prima del 10 febbraio per i timori di contagio del coronavirus di Wuhan. Sono aree che nel 2019 hanno pesato per oltre l'80% in termini di contributo al Pil della Cina e per il 90% all'export. L'Hubei, cuore dell'epidemia, non ripartirà prima del 14 febbraio, sempre che non si richieda una "appropriata estensione" del periodo di ferie, ha scritto venerdì il Quotidiano del Popolo.

Giordano Stabile per ''La Stampa'' il 15 marzo 2020. In Israele l' epidemia accelera, il numero dei contagiati passa da 127 a 193 in un solo giorno e Netanyahu interviene, parla alla nazione per prepararla alla battaglia, mentre il capo dell' opposizione Gantz annuncia che è pronto a entrare in un governo di unità nazionale guidato dal rivale. La curva del contagio indica che presto lo Stato ebraico potrebbe trovarsi in una situazione simile a quella italiana. Il premier promette che «non solo supereremo questa crisi, sconfiggeremo il virus». Soprattutto con l' uso di «una tecnologia invasiva», cioè un software per la difesa antiterrorismo, di concezione militare, per tracciare il diffondersi del contagio e stroncarlo, anche attraverso il controllo degli spostamenti attraverso i cellulari, con l' appoggio dello Shin Bet. Una guerra cibernetica «al nemico invisibile». Il primo passo è però cercare di «non infettarsi e non infettare altre persone». Per questo il governo ha annunciato nuove misure. Scuole e università rimarranno chiuse fino a dopo il Passover, tutte le attività ricreative sospese e gli assembramenti oltre le 10 persone proibiti. Ci saranno anche controlli della temperatura nei supermercati. Netanyahu ha valutato tre scenari per il futuro. In quello più drastico chiuderanno tutte le aziende a parte quelle che forniscono servizi essenziali: acqua, carburanti, elettricità, gas, sanità, sicurezza. Ai militari di leva è stato ordinato di tornare in caserma, dove dovranno restare «fino a un mese». Israele non ha ancora imposto il blocco dei voli, come l' Arabia Saudita, ma le norme imposte ai visitatori stranieri, che devono dimostrare di avere un posto dove stare per 14 giorni in quarantena, hanno di fatto bloccato gli arrivi. Nei Paesi vicini, il Libano si prepara a una chiusura totale in stile Italia, che sarà annunciata oggi, mentre il principale focolaio di contagio resta l' Iran. Ieri i casi sono saliti a 12.729, i morti a 611. Ma la realtà potrebbe essere peggiore. Foto satellitari hanno mostrato come il cimitero di Qom abbia allestito una nuova area grande come un campo da calcio, medici parlano di «centinaia di morti al giorno», mentre le autorità hanno arrestato un noto calciatore, Mohammad Mokhtari, per aver scritto su Instagram che «le cifre ufficiali sono una piccola percentuale della verità». Anche i contagi nel Golfo stanno esplodendo: 337 in Qatar, 211 in Bahrein, 104 in Kuwait, 103 in Arabia Saudita, 85 negli Emirati.

Si moltiplicano i focolai di coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over su il 21 gennaio 2020.  Dalla Corea del Sud all’Iran, da Israele alla Russia: adesso l’emergenza coronavirus è diventata a tutti gli effetti globale. I focolai del Covid-19 si moltiplicano giorno dopo giorno, superano i confini nazionali ed eludendo misure di controllo più o meno ferree. I primi Paesi caduti in questo circolo vizioso non potevano che essere gli Stati asiatici, cioè quelli più vicini alla Cina, epicentro del contagio. Il caso che sta facendo più scalpore è quello relativo alla Corea del Sud. Fino a pochi giorni fa sembrava che Seul fosse immune alla psicosi che stava iniziando a prender piede in Estremo Oriente. Certo, la Casa Blu doveva fare i conti con alcune persone infette ma nelle ultime ore è arrivata la doccia fredda: cento nuovi casi da aggiungere in una volta sola ai precedenti, per un totale di 204 pazienti contagiati. Calcolatrice alla mano, la Corea del Sud è diventata di colpo il secondo Paese per incidenza della malattia dietro la Cina.

Corea del Sud in emergenza. Come è potuta accadere una cosa del genere? Stando a quanto riferisce la Bbc, molti dei nuovi contagi, 86, sono stati registrati tra i fedeli di una congregazione religiosa della città di Daegu, il quarto centro urbano più grande del Paese con 2,5 milioni di abitanti. Le autorità locali hanno chiesto ai cittadini di non lasciare le proprie abitazioni. Il sindaco ha descritto l’evento come “una crisi senza precedenti” e, stando a quanto riferito dall’agenzia Afp, perfino i comandanti di una vicina base militare americana hanno imposto restrizioni di accesso. Stessa sorte è capitata ai residenti di Cheongdo, località sospettata di essere il ground zero del contagio. Qui, dal 31 gennaio al 2 febbraio, un gran numero di seguaci della Shincheonji Church of Jesus the Temple of the Tabernacle ha partecipato ai funerali allestiti in occasione della morte del fratello fondatore della congregazione. Ai 9mila membri del gruppo è stato detto di ricorrere all’auto quarantena, dopo che la setta è stata identificata come focolaio di coronavirus. In 400 presentano sintomi collegabili al Covid-19. Il contagio potrebbe esser partito da una donna di 61 anni. “Finora il governo si è concentrato sul contenimento delle infezioni provenienti dall’estero – ha detto il primo ministro Chung Sye Kyun – ma da ora in poi darà la priorità a prevenire la diffusione locale del virus”. A Seul le autorità hanno vietato i principali raduni per cercare di combattere l’epidemia.

Giappone e Iran: sale la preoccupazione. Allarme rosso anche in Giappone dove, nonostante le drastiche misure prese dal governo di Abe Shinzo, preoccupano i crocieristi della Diamond Princess, da poco fatti sbarcare nonostante i dubbi sull’efficacia della quarantena trascorsa a bordo della nave, altro focolaio di coronavirus. In Iran, dopo i primi due morti, ci sono stati altri contagi. Le ultime rilevazioni parlano di 4 decessi e 18 cittadini infettati anche se i media sostengono che il conto possa essere superiore. Il portavoce del ministero della Salute, Kianoush Jahanpour, ha affermato che i casi rilevati sono tutti collegati alla città di Qom, a 140 chilometri da Teheran. Le elezioni parlamentari in corso in queste ore potrebbero diffondere ulteriormente il virus tra la popolazione.

L’epidemia si estende in Libano. Confermato il primo caso di coronavirus anche in Libano. Stando a quanto riportato da AdnKronos, il ministro della Salute, Hamed Hassan, ha reso noto che si tratta di una donna di 45 anni. Il soggetto è risultato essere positivo ai test dopo essere rientrato in patria con un volo dall’Iran. Il governo ha assicurato che la donna, ricoverata al Rafiq Hariri University Hospital di Beirut, è in buone condizioni. Nel corso di una conferenza stampa lo stesso ministro Hassan ha accennato ad altri due casi sospetti, senza tuttavia fornire ulteriori dettagli. Da quel che è emerso la donna avrebbe contratto il virus in Iran, senza essere recentemente passata dalla Cina.

Le contromisure di Israele. Primo caso di Covid-19 anche in Israele: si tratta di una donna rientrata proprio dalla citata Diamond Princess. Secondo le disposizioni delle autorità israeliane i viaggiatori in arrivo da Cina, Hong Kong, Macao, Singapore e Thailandia devono isolarsi a casa per un periodo di 14 giorni. Chi violerà consapevolmente questa misura rischia fino a sette anni di carcere; in caso di negligenza, il massimo della pena è di tre anni.

Le carceri cinesi. In Cina tornano a salire i nuovi contagi. Rispetto alle scorse settimane c’è una novità: il virus si è diffuso anche all’interno delle carceri. I media hanno riferito di 512 casi all’interno di quattro prigioni: due situate nello Hubei, una nello Shandong e una nello Zhejiang. I responsabili delle strutture sono stati puniti. A Pechino c’è da registrare un focolaio di 36 casi sospetti all’ospedale Fuxing, nel distretto di Xicheng, vicino a piazza Tienanmen. Nel gruppo degli infetti figurano medici, infermieri e operatori sanitari.

Coronavirus, l'Ue si prepara a chiudere l'area Schengen, stop agli ingressi da Paesi terzi per 30 giorni. L'annuncio di Ursula von der Leyen al termine della videoconferenza con i leader del G7: "Restrizione dei viaggi non essenziali". Eccezioni per gli europei che rientrano e per medici impegnati nella ricerca sul Covid19. Domani video-summit dei 27 capi di Stato e di governo. Intanto sono otto i Paesi che hanno chiuso le frontiere, ultima la Spagna. Speranza, ministro della Salute: "I più importanti Paesi europei stanno adottando le stesse misure che l'Italia ha già varato". Alberto D'Argenio il 16 marzo 2020 su La Repubblica. L'Europa si blinda, si chiude al mondo e sbarra i suoi confini esterni: per trenta giorni nessuno potrà più entrare nel nostro continente dai paesi extra-Schengen. Lo annuncia da Bruxelles la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, al termine della videoconferenza tra i leader del G7. "Con i governi europei abbiamo deciso una restrizione temporanea dei viaggi non essenziali nell'Unione. Lo facciamo per non far ulteriormente diffondere il virus dentro e fuori il continente e per non avere potenziali ulteriori pazienti che pesano sul sistema sanitario Ue". Eccezioni per gli europei che rientrano nella Ue e per medici e scienziati che portano avanti la ricerca contro il Covid-19. Il provvedimento è arrivato dopo ore febbrili di contatti tra i quali, in mattinata, una telefonata tra von der Leyen, Angela Merkel ed Emmanuel Macron alla quale ha partecipato anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Al termine dei colloqui è stato convocato un summit in collegamento video tra i ventisette capi di stato e di governo per domani. Con la chiusura dei confini esterni si cerca anche di salvare Schengen, ovvero di evitare che i singoli governi continuino a chiudere le frontiere interne all'Unione. "Il coronavirus è diffuso già in tutti i paesi quindi la chiusura dei confini tra i nostri paesi non è il modo migliore per bloccarlo", afferma il portavoce capo della Commissione europea, Eric Mamer. La chiusura dei confini interni intreccia le due grandi emergenze del momento, quella sanitaria e quella economica. Come traspare dalle parole dei responsabili di Bruxelles: "La libera circolazione delle merci è cruciale per le forniture alimentari, di medicinali e di protezioni. Inoltre evita gravi interruzioni delle catene di approvvigionamento", il cui stop danneggerebbe ulteriormente l'economia. Al momento sono otto i paesi che hanno notificato alla Ue misure sulle frontiere: Austria, Ungheria, Repubblica ceca, Danimarca, Polonia, Lituania, Germania e Spagna. Proprio la decisione di Berlino di chiudere la maggior parte delle frontiere ha dato un'accelerazione al processo decisionale Ue. Ecco allora che per non trasformare l'Europa in uno spezzatino e per dare una risposta politica a Donald Trump che la scorsa settimana ha unilateralmente bloccato i voli da e per gli Usa, si combina la decisione estrema di blindare i confini esterni dagli arrivi extra-Schengen e intanto di salvare quelli interni. Per farlo Bruxelles ha presentato ai governi delle linee guida sperando così di armonizzare le varie decisioni nazionali. La Commissione non esclude verifiche sullo stato di salute ai confini tra soci dell'Unione, ma ricorda che non possono essere discriminati i cittadini in base alla nazionalità. Bruxelles soprattutto chiede "corsie preferenziali" per il passaggio di medicine e cibo e ricorda che non sono necessarie certificazioni "Covid free" per le merci. C'è poi il capitolo economico, con Bruxelles che dà già per certa una recessione della zona euro. Ecco allora che è in corso un Eurogruppo tra i ministri delle Finanze in collegamento video. "Il contenimento forzato sta portando le nostre economie ai tempi di guerra", il pesante allarme del suo presidente, il portoghese Mario Centeno. I ministri approveranno le drastiche misure proposte dalla Commissione venerdì scorso: sospensione del Patto di stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato con possibilità per i governi di spendere ben oltre il 3% del deficit per sostenere i sistemi sanitari e contenere i danni del virus sulla società e sull'economia. Italia, Francia e Commissione spingeranno sui nordici, che hanno dovuto accettare la fine (temporanea) dei vincoli di bilancio, per andare oltre e preparare un grande piano coordinato tra capitali da centinaia di miliardi per rilanciare l'economia. "I più importanti Paesi europei stanno adottando le stesse misure che l'Italia ha già varato". Lo scrive su Facebook il ministro della Salute, Roberto Speranza.  "Da tempo ho stimolato i miei colleghi a scelte più dure. Il virus non conosce confini. Siamo dinanzi alla più grande emergenza sanitaria globale degli ultimi anni. Nessun Paese può pensare di salvarsi da solo. Tutti insieme ce la faremo", aggiunge Speranza.

Coronavirus, l’Ue chiude le frontiere Von der Leyen: «Sospendere il patto di stabilità». Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Ivo Caizzi. I leader dei 27 hanno dato l’ok alla proposta della Commissione europea di introdurre una restrizione temporanea per tutti i viaggi non essenziali verso l’Ue, per un periodo di 30 giorni, per far fronte al coronavirus. Ogni Stato attuerà la misura, in modo coordinato. Lo spiega il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, al termine di una videoconferenza con i capi di stato e di governo dell’Ue. «Siamo stati tutti d’accordo sulla decisione della Commissione Ue» sul fatto che per i viaggi verso l’Europa» ci sia «una limitazione per 30 giorni, di fatto un veto con pochissime eccezioni». Il Consiglio europeo straordinario in teleconferenza ha appoggiato le posizioni dell’Eurogruppo e le misure della Commissione europea per far fronte alle conseguenze economiche della crisi del coronavirus. Lo ha detto il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, spiegando che i capi di Stato e di governo hanno chiesto che i ministri dell’Economia monitorino la situazione e adattino la risposta in base ai cambiamenti rapidi che avvengono. «Faremo "Whatever it takes" per ristabilire la fiducia e sostenere la ripresa velocemente», ha sottolineato Michel. La Commissione europea presenterà nei prossimi giorni una proposta per attivare la «clausola di salvaguardia generale» che permette di sospendere il Patto di Stabilità e Crescita. Lo ha annunciato la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, al termine della teleconferenza dei capi di Stato e di governo. «Da venerdì vediamo che le cose sono ancora più gravi», ha detto von der Leyen. «Stiamo lavorando sulla clausola di salvaguardia generale (general escape clause, ndr) e faremo una proposta al Consiglio nei prossimi giorni», ha detto von der Leyen.

L’Ue blocca tutti gli ingressi non essenziali in Europa per 30 giorni. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Ivo Caizzi. La Commissione europea, presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen, ha richiamato la Germania e gli altri Paesi membri intenzionati a chiudere le loro frontiere interne all’Ue. Nella prima riunione straordinaria in teleconferenza con i 54 ministri della Sanità e degli Interni l’istituzione di Bruxelles ha fatto presente che il coronavirus «è attualmente presente in tutti gli Stati membri dell’Ue, pertanto, la nostra valutazione è che chiudere i confini non è necessariamente il modo migliore per contenere la diffusione del virus». La Commissione europea, che controlla la corretta applicazione dei Trattati comunitari, ha così comunicato che «gli Stati membri devono salvaguardare la libera circolazione di tutte le merci, in particolare, devono garantire la filiera di prodotti essenziali come medicine, equipaggiamento medico e cibo». Al momento, oltre alla Germania, hanno notificato a Bruxelles la richiesta di chiudere le frontiere interne con altri Paesi Ue anche Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Lituania e la extracomunitaria Svizzera. Von der Leyen ha invece annunciato per chi proviene dagli Stati extracomunitari «restrizioni temporanee ai viaggi non essenziali verso l’Ue per 30 giorni». «Meno viaggiamo, più possiamo contenere i contagi. Propongo dunque ai capi di Stato e governo di introdurre restrizioni temporanee ai viaggi non essenziali verso l’Unione europea», ha detto von der Leyen. «Queste restrizioni dovrebbero rimanere in vigore, almeno inizialmente, per un periodo di 30 giorni, ma possono essere prorogate, se necessario». Le esenzioni citate dalla presidente della Commissione europea riguardano la possibilità di ingresso da parte di persone extracomunitarie che da tempo risiedono nei Paesi europei, familiari di cittadini europei, diplomatici, dottori e ricercatori impegnati nella battaglia contro il Sars-CoV-2. Nella teleconferenza con i ministri della Salute e degli Interni, i commissari Ue competenti Stella Kyriakides, Ylva Johansson e Janez Lenarcic, hanno presentato precise «linee guida» (in 25 punti: le trovate qui, in inglese) per proteggere sia la salute dei cittadini, sia il corretto funzionamento del mercato interno comunitario. In particolare Germania e Francia non potranno continuare il blocco delle esportazioni di mascherine e di altre apparecchiature sanitarie verso altri Paesi Ue, che avevano attuato per aumentare le loro scorte. Nell’incontro è stato affrontata anche la necessità di organizzare acquisti congiunti di macchine per la ventilazione polmonare e degli altri prodotti sanitari necessari per contrastare la Covid-19, in modo da poterle destinare agli Stati membri più in difficoltà (come al momento è l’Italia) ed evitare eccessivi rialzi dei prezzi o altri effetti negativi. Il governo belga avrebbe già subito una truffa su un acquisto di mascherine sanitarie per 5 milioni di euro, definendo ormai «minime» le possibilità che possano effettivamente essere spedite dal venditore.

Ora l’Europa segue l’esempio italiano e si barrica. Chiudono scuole, bar, ristoranti, discoteche e pub in mezzo continente. Il Dubbio il 13 marzo 2020. L’Europa diventa l’epicentro della pandemia. E piano piano tutti cominciano a seguire l’esempio italiano, chiudendo scuole, bar, ristoranti, discoteche e pub, nel tentativo di fermare la diffusione del virus.

SPAGNA. In Spagna risulta essere il Paese europeo maggiormente colpito dopo l’Italia e si prepara a dichiarare domani uno stato di allerta nel tentativo di arginare l’epidemia che si sta diffondendo a ritmi vertiginosi e che ha già ucciso 120 persone. Un consiglio straordinario dei ministri adotterà domani un decreto che metterà la Spagna in «allerta per un periodo di 15 giorni», ha annunciato il premier Pedro Sanchez in un breve discorso televisivo. La Spagna conta 4.209 casi positivi, oltre 2 mila a nella regione della capitale Madrid, dove i decessi sono 64), risultando la più colpita. «Purtroppo, non possiamo escludere che la prossima settimana supereremo le 10 mila persone contagiate», ha dichiarato il capo del governo. «Siamo nella prima fase di una lotta contro il virus diffuso in tutti i paesi del mondo e in particolare nel nostro continente, l’Europa». Lo stato di allerta dichiarato consente di mobilitare «tutti i mezzi economici, sanitari, pubblici e privati, civili e militari, per proteggere tutti i cittadini», ha spiegato. Le autorità locali hanno adottato una serie di misure per cercare di limitare la diffusione del virus. Dopo quella di Madrid – che ha chiuso anche bar, ristoranti e discoteche – diverse regioni hanno annunciato la chiusura delle scuole. Nel nord, la Catalogna ha decretato la quarantena di quattro località e la chiusura di aree commerciali, palestre e stazioni sciistiche. La regione di Murcia, nel Sud-Est del Paese, ha annunciato su Twitter l’isolamento di aree turistiche di fronte al timore degli arrivi dei madrileni nelle loro seconde case. Nei Paesi Baschi, una delle regioni più colpite, le autorità hanno dichiarato lo stato di emergenza sanitaria che facilita la mobilitazione di tutti i servizi. Per evitare che le chiese diventino focolai di contaminazione, la Conferenza episcopale spagnola ha esortato i cattolici a seguire «messe alla radio e alla televisione».  E sulla situazione spagnola è intervenuto anche il leader di Italia Viva, Matteo Renzi: «la Spagna, nei primi giorni, fa peggio dell’Italia. Amici europei: fate tesoro di ciò che è accaduto da noi, intervenite subito!».

GERMANIA. Per contenere la diffusione del nuovo coronavirus, il governo del Land di Berlino ha disposto la chiusura di discoteche, bar e birrerie dal 17 marzo prossimo. Come riferisce il quotidiano “Berliner Morgenpost”, la disposizione si applica a «tutte le strutture di ristorazione che non servono forniture alimentari di base». In precedenza, è stata ordinata la chiusura di tutte le scuole e di tutti gli asili della capitale tedesca, nonché dei teatri pubblici. Per contrastare il contagio da coronavirus , diversi musei, biblioteche e altre istituzioni culturali di Berlino stanno informando il pubblico della loro chiusura. Infine, le Imprese berlinesi di trasporto pubblico (Bvg) hanno annunciato limitazioni al servizio.

GRECIA. Nonostante finora siano stati solo 190 i casi, in Grecia il ministero della Salute ha ordinato la chiusura di tutti i bar, caffè, ristoranti, centri commerciali e sportivi. Le misure si aggiungono a quella già decisa dal dicastero della Cultura, che ha stabilito la chiusura di musei, siti archeologici e biblioteche, riferisce l’agenzia stampa ellenica Ana-Mpa. Al momento una persona è deceduta.

AUSTRIA, SLOVENIA, REPUBBLICA CECA e ISLANDA. L’Austria ha individuato due zone rosse e isolato la valle Paznaun e del centro sciistico St.Anton, ha chiuso i negozi «non essenziali» e 47 valichi minori con l’Italia. La Slovenia, dove sono 126 i casi positivi, ha bloccato gli automezzi oltre 3,5 tonnellate che non abbiano targa slovena. Chiuse le scuole, mentre la Repubblica Ceca chiude i confini. L’Islanda ha chiuso licei e università, disponendo l’obbligo di due metri di distanza sui posti di lavoro, il divieto di eventi con più di 100 partecipanti e test a tappeto.

DANIMARCA. La premier danese Mette Frederiksen oggi ha annunciato la chiusura delle frontiere, a partire da domani mattina alle 11, per tentare di rallentare la l’epidemia di coronavirus. «Tutti i turisti e gli stranieri che non possano provare di avere una ragione valida per venire in Danimarca non saranno autorizzati ad entrare», ha dichiarato Frederiksen in una conferenza stampa, chiarendo che la circolazione delle merci non è sospesa e che i danesi saranno sempre autorizzati a rientrare.

FRANCIA. All’indomani del discorso alla nazione del presidente Emmanuel Macron, sono state disposte restrizioni e chiusure a catena, anche se restano confermate le elezioni municipali di domenica. In base all’ultimo bilancio reso noto dal ministro della Salute Olivier Vèran, in Francia ci sono 3.661 contagiati, 800 in più in 24 ore, 79 decessi e 154 pazienti ricoverati e in gravi condizioni. «Siamo all’inizio della fase di accelerazione del virus. Le misure varate servono a frenarlo» ha spiegato a Tf1 il primo ministro Edouard Philippe, che si è difeso dalle critiche sulla decisione di andare alle urne tra due giorni: su base scientifica, ha detto, «andare a votare per rinnovare i sindaci non è più pericoloso di andare a fare la spesa», confermando anche il secondo turno del 22 marzo. Sul piano diplomatico, in un colloquio telefonico con il presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, Macron ha proposto di valutare nei prossimi giorni l’attuazione di controlli rafforzati all’interno dello spazio Schengen, fino alla chiusura per le zone a rischio. Una proposta, ha sottolineato l’Eliseo, tesa ad «evitare provvedimenti non coordinati», come quelli attuati da paesi che hanno già deciso di chiudere o controllare i confini con diversi vicini europei, «in violazione delle regole comunitarie». Chiudono il castello di Versailles, la Tour Eiffel «dalle 21 e a tempo indefinito», e il Louvre, ma sono consentite le messe festive fino a 100 persone coi fedeli distanziati tra i banchi. Chiuse scuole e università.

REGNO UNITO. Il governo britannico ha rinviato di un anno le elezioni amministrative previste per il 7 maggio, a causa dell’emergenza. Secondo quanto riportano i media britannici, il premier Boris Johnson ha deciso per il rinvio a causa del timore che il voto sarebbe coinciso con il previsto picco dell’epidemia nel Regno Unito. Il rinvio era stato caldeggiato sia dalla Commissione elettorale che dal Partito laburista. 

Coronavirus, cosa succede in Europa: i contagi, le vittime, le misure. Il dossier su Francia, Germania e altri Paesi. In tutta Europa salgono i casi: Berlino ha superato Parigi (670 casi a 613), ma ogni governo risponde in modo molto diverso. Il numero di tamponi in alcuni casi rimane basso, ma c’è già allarme per la tenuta dei sistemi sanitari. Sulle scuole per ora poche chiusure. Una guida per capire come sta avanzando l’epidemia negli Stati europei più colpiti. Corriere della Sera il 7 marzo 2020. Ivo Caizzi, Paola De Carolis, Stefano Montefiori, Elisabetta Rosaspina, Irene Soave, Paolo Valentino.

1) Quanti sono i casi?

FRANCIA I positivi sono 613, dei quali 9 morti e 12 guariti (al 6 marzo). Rispetto al giorno precedente i nuovi casi sono 138, il che indica un aumento molto pronunciato rispetto all’inizio della crisi, a fine gennaio. Le persone ricoverate in rianimazione, giovedì 5 marzo, erano 23. Molti casi positivi non sono tenuti in ospedale: soprattutto negli ultimi giorni si è deciso di ricoverare solo i casi gravi. I primi tre malati sono stati individuati il 24 gennaio, tre persone di origine cinese tornate da Wuhan.

GERMANIA Al 6 marzo c’erano 670 casi ufficiali di Coronavirus in 15 su 16 Laender tedeschi, la sola eccezione è la Sassonia-Anhalt. Non ci sono ancora decessi, ma un uomo è in fin di vita in una clinica di Aaachen, nel Nord Reno Vestfalia. Il primo caso ufficiale riconosciuto in Germania risale al 28 gennaio scorso e si è verificato in Baviera nella provincia di Starnberg. Ma probabilmente già prima, secondo la lettera di un gruppo di medici tedeschi pubblicata sul New England Journal of Medicine, un uomo tedesco di 33 anni originario di Kaufering, sarebbe stato il primo europeo a infettarsi, entrando in contatto con la dipendente cinese dell’azienda per cui lavora, la Webasto.

REGNO UNITO Sono 163 (30 diagnosticati nelle ultime 24 ore). Una sola vittima: si tratta di una donna di 75 anni che aveva altri problemi di salute, ricoverata al Royal Berkshire Hospital di Reading. La settimana scorsa era morto un britannico sulla nave da crociera Diamond Princess, ma era un residente all’estero e non è entrato nelle statistiche ufficiali. Sono guarite 18 persone. 45 si sono auto-isolate.

SPAGNA In Spagna sono stati registrati al 6 marzo 386 casi, in aumento costante, tra positivi ospedalizzati, morti e guariti in 17 regioni (indenni finora l’enclave di Ceuta e Melilla in Marocco). Otto le vittime accertate. La prima, il 13 febbraio, è un uomo di 69 anni che aveva viaggiato in Nepal. Il primo positivo al Coronavirus ufficializzato, il 2 febbraio, è stato un turista tedesco (asintomatico) in vacanza a Tenerife. Ogni comunità autonoma tiene il conto dei propri contagiati e il dato globale è aggiornato due volte al giorno nel sito del Ministero della Sanità. Nelle statistiche fornite non si fanno distinzioni tra pazienti ricoverati e i casi meno gravi trattati a domicilio. La comunità più colpita è quella di Madrid, seguita con molto distacco, dalla Catalogna (90 casi a 24, al sei marzo).

BELGIO In Belgio il 6 marzo sono stati indicati 56 nuovi casi arrivando a quota 109, ma testano solo i casi gravi, sulla massa c’è un preciso ostruzionismo delle autorità sanitarie con una lettera ai medici che stabilisce una procedura complicata (e scoraggiante).

OLANDA I positivi sono 128, il 6 marzo il primo morto, un 86enne. Il 27 febbraio la prima diagnosi, a Tilburg: un uomo che aveva viaggiato in Nord Italia.

SVEZIA Sono 101 casi. La prima paziente, una donna di Jönköping, è stata trovata positiva il 31 gennaio. Tornava da un viaggio a Wuhan e prima di riscontrare alcun sintomo si era auto-quarantenata: il suo caso viene citato come esempio di «condotta corretta»: si pensa infatti che non abbia contagiato nessuno. Il secondo caso è arrivato il 26 febbraio: da un trentenne che aveva viaggiato in Italia. Da lì, è partita l’epidemia.

2) Quanti tamponi sono stati fatti?

FRANCIA All’inizio, sono stati fatti solo a chi rispondeva a due criteri concomitanti: sintomi influenzali, e anche ritorno da regioni a rischio (Cina, Corea del Sud, Singapore, Lombardia e Veneto in un primo momento poi tutta Italia). Ora i criteri sono allargati ai «contatti» (chi ha condiviso gli stessi ambienti o hanno avuto un contatto a meno di un metro con una persona risultata positiva). Gli ospedali sono in grado di realizzare migliaia di test al giorno, i risultati arrivano in 3-5 ore. È previsto di aumentarne il numero nella «fase 3» (epidemia conclamata), definita «inevitabile» da Macron. In ogni caso, viene fatta una «preselezione» e il numero di test effettuati è molto inferiore a quello italiano: lunedì scorso erano intorno a 1000 quando in Italia avevano già superato i 20 mila.

GERMANIA I tamponi vengono fatti «a ritmo intenso», come ha spiegato il Robert Koch Institut, l’autorità che monitorizza e valuta la situazione in Germania. Vengono presi a chiunque abbia avuto contatti certi con malati di Covi-19 o proviene da Paesi a rischio o presenta sintomi evidenti, ma non a chi ha semplici sintomi influenzali. Il numero dei tamponi non viene fornito, perché se sono negativi vale la legge sulla privacy, molto restrittiva in Germania. Il Robert Koch Institut ammette che ci possano essere cifre nascoste, cioè casi non dichiarati o conosciuti, ma è sicuro che si tratti di numeri non significativi.

REGNO UNITO Il test non viene effettuato su tutti i pazienti che presentano sintomi, solo sui malati gravi o chi dice di essere stato all’estero.

SPAGNA Il governo spagnolo ha deciso di mantenere riservate le informazioni sul numero di tamponi praticati. Da informazioni giornalistiche si sa che i test vengono effettuati certamente su chi ha avuto contatti con malati o presenta sintomi assimilabili al contagio da Covid-19. In questo caso i prelievi vengono effettuati a domicilio e i risultati comunicati nell’arco di 48 ore circa.

BELGIO Provenienti dal Nord Italia con febbre hanno chiesto di fare il tampone e medici/ospedali li hanno rimbalzati…

OLANDA I tamponi si fanno a chi “presenta febbre e sintomi respiratori insieme”, o è stato in un’area a rischio negli ultimi 14 giorni.

SVEZIA L’autorità di salute pubblica ha cambiato indirizzo: il test si farà di routine a chi ha sintomi respiratori di qualunque tipo, con priorità ai più gravi. E da fine febbraio il governo ha disposto che si possano fare i tamponi anche a casa, per evitare contagi in ospedale o affollamenti di pronto soccorso e ambulatori.

3) Ci sono focolai dell’epidemia accertati?

FRANCIA Sì. I principali finora sono nell’Oise (sopra Parigi), nella vicina Val d’Oise, nel Morbihan (Bretagna), in Alta Savoia e nell’Haut-Rhin, in Alsazia.

GERMANIA La Codogno tedesca è il Landkreis di Heinsberg, nel Nord Reno-Vestfalia. Le regioni più colpite sono il Nord-Reno Vestfalia, il Land più popoloso, dove si registrano più della metà dei casi di contagio tedeschi. A seguire il Baden-Wuerttenberg con 100 infettati e la Baviera, con 80.

REGNO UNITO No.

SPAGNA Non ci sono località considerate focolai, ma nel centro di Madrid, a pochi passi dal Parco de Retiro, è scattato l’allarme in una residenza per anziani, dove il 3 marzo è deceduta una donna di 99 anni per Coronavirus e altri 15 anziani e un’infermiera sono risultati positivi.

BELGIO No, per il momento.

OLANDA L’area dove si concentrano più casi è il Nord Brabante, con 17 positivi, e il gruppo di contagiati più nutrito è a Houten, vicino Utrecht (9)

SVEZIA Il 60% dei contagi è a Stoccolma.

4) Ci sono contagi dall’Italia?

FRANCIA Dopo alcuni contagi dall’Italia, si moltiplicano i casi sviluppati dall’interno, senza che sia possibile risalire al paziente zero di un particolare focolaio.

GERMANIA La maggior parte dei malati ha contratto il Coronavirus in Germania. I contagi dall’Italia sono una sessantina, dall’Iran 15.

REGNO UNITO Sono 10 i casi per i quali la Sanità non ha una spiegazione e che di conseguenza sono contagi interni. L’unica vittima era tra questi: non aveva viaggiato all’estero. Il resto, invece, sembra aver contratto il virus in altri paesi o essere stato in contatto con persone che provenivano da fuori.

SPAGNA Sì, l’Italia è spesso citata come luogo di provenienza o di passaggio delle persone infettate. La situazione più critica è quella dell’hotel di Costa Adeje sull’isola di Tenerife, dove una coppia italiana è risultata positiva al tampone, cinque connazionali sono stati ricoverati in ospedale e altri cinque sono in isolamento sotto osservazione in albergo. Altri casi, in Catalogna e Cantabria.

BELGIO I primi contagi sono stati attribuiti a chi proveniva dal Nord Italia e dalla Francia. In un comune di Bruxelles, Woulowe Saint Lambert, abitato da molti italiani, il borgomastro ha imposto la quarantena per gli uffici pubblici a chi era stato recentemente nel Nord Italia.

OLANDA «La maggioranza dei positivi» rientrava da viaggi in nord Italia o aveva avuto contatti stretti con altri contagiati, spiega il sito dell’Istituto nazionale di Sanità.

SVEZIA Arriva da viaggi organizzati in Italia la maggioranza dei contagiati.

5) Come regge il sistema sanitario?

FRANCIA è la preoccupazione più grande. A Parigi in preparazione tende per allestire nuovi reparti dove curare i casi più gravi. L’indicazione è ricoverare solo le persone con i sintomi più seri, e tutte le misure vengono decise con l’intento di distribuire la crisi nel tempo.

GERMANIA La situazione degli ospedali varia a seconda dei Land. Quelli delle regioni meno colpite ancora reggono più o meno bene lo stress. Sul modello di quanto ha fatto a Berlino la Charitè, il più grande policlinico d’Europa, vengono erette tende all’esterno degli edifici principali per eseguire i test in condizioni di sicurezza. Critica è invece la situazione del sistema sanitario nel Nord Reno Vestfalia, dove il personale medico e paramedico da ieri non osserva più il severo (e assurdo per alcuni) protocollo del Koch Institut, che prevede la quarantena per ogni dottore o infermiere che entra in contatto con un malato di Covid-19: vista la situazione, il personale non sarebbe più sufficiente a gestire l’emergenza. Ci sono diversi casi di medici e paramedici contagiati: uno proprio ad Aachen, dove adesso l’intera struttura nella quale operava (45 persone) rischia di esser messa in quarantena, senza possibilità di sostituzione.

REGNO UNITO Sono 30 gli ospedali del Regno Unito designati centri per il Coronavirus. In tutti gli ospedali sono state istituite unità di isolamento per la diagnosi di pazienti che presentano sintomi (non per la cura). Il governo ha chiesto a chi ha sintomi di non recarsi al pronto soccorso o dal medico e di procedere con una diagnosi telefonica e seguire le indicazioni su dove recarsi (chiamando il numero verde dell’NHS, 111).

SPAGNA Quasi duecento medici internisti sono stati messi in quarantena a titolo precauzionale, da tre giorni, nei Paesi Baschi, in Andalusia e nella regione di Madrid, per essere stati in contatto con pazienti o con i 13 colleghi risultati positivi. La comunità più colpita è quella basca, con un centinaio di medici isolati e altrettanti sotto osservazione.

6) Ci sono altre zone rosse?

No, in nessun Paese d’Europa. L’unica, piccolissima zona rossa è Heinsberg, nel Nord Reno Vestfalia, in Germania.

7) Quali misure sono state prese per le scuole e i trasporti?

FRANCIA Le scuole sono state chiuse finora nei principali focolai, circa 150 istituti in totale. Nell’Haut-Rhin, dove i casi si sono moltiplicati per otto nelle ultime 48 ore e sono adesso 81, a partire da sabato 7 marzo verranno chiuse altre 100 scuole. In tutta la Francia gli eventi - concerti, manifestazioni varie - che prevedano la presenza al chiuso di oltre 5000 persone.

GERMANIA Sulle scuole in Germania vale il federalismo. Scuole e asili nido sono chiusi fino al 14 marzo ad Heinsberg e fino all’8 marzo in tutta la Baviera. Nel resto del Paese, Nord Reno-Vestfalia compreso, si procede caso per caso. Si registrano quindi chiusure di singoli istituti pubblici o privati, legate a casi sospetti o a contagi ufficialmente confermati, un po’ in tutti i 15 Laender dove è presente il virus. Lufthansa ha messo a terra un quarto della flotta, cancellando oltre 7 mila voli fino alla fine di marzo. Il governo sconsiglia fortemente i viaggi verso i Paesi a rischio: Cina, Giappone, Corea del Sud, Iran, Thailandia. Anche le regioni del Nord Italia sono nella lista, che ieri è stata allargata al Trentino-Alto Adige. Chiunque si rechi in questi posti, sarà sottoposto a quarantena obbligatoria al rientro in Germania. A Düsseldorf, capitale del Nord Reno Vestfalia, è stato svuotato un centro di accoglienza per rifugiati e i suoi 100 ospiti distribuiti in altre strutture: il centro è destinato a diventare una «stazione di quarantena» nel caso di un aggravarsi dell’emergenza.

REGNO UNITO Sono state chiuse le scuole dove sono stati identificati casi, al momento si tratta di quattro istituti. Tante scuole hanno introdotto per gli allievi i gel disinfettanti e mandato questionari ai genitori sui viaggi intrapresi di recente da familiari e parenti stretti.

SPAGNA Scuole e università restano aperte. Nessuna misura è stata presa riguardo al trasporto pubblico, salvo a Madrid la raccomandazione di evitare i mezzi nelle ore di punta. Per il momento non ci sono limitazioni neppure ai viaggi per le zone più colpite nel mondo: Cina, Corea del Sud, Giappone, Singapore, Italia.

BELGIO No, a parte il caso di cui sopra del comune di Bruxelles, Woulowe Saint Lambert, abitato da molti italiani, dove il borgomastro ha imposto la quarantena anche agli studenti che sono stati recentemente nel Nord Italia.

OLANDA Nessuna: il sito del governo ha approntato un Q&A nel quale spiega espressamente che non c’è «alcun bisogno» di chiudere le scuole e che i bambini, anche se di ritorno da una vacanza in Italia, vanno tenuti a casa solo se hanno sintomi.

SVEZIA I voli da e per l’Iran sono stati bloccati. Il ministero degli Esteri ha sconsigliato i viaggi «non essenziali» in Italia e Corea del Sud. Per ora non ci sono misure di chiusura delle scuole, né di restrizioni ai viaggi di lavoro; molte aziende con personale all’estero, però, lo stanno richiamando.

8) A che livello è l’allerta del governo?

FRANCIA Il piano epidemiologico approvato nel 2011 prevede tre fasi: nella prima, si cerca di impedire l’ingresso del virus. Nella seconda, quella attuale, si cerca di limitarne la diffusione nei focolai già individuati. Nella terza fase, la cui proclamazione è imminente, il virus circola in tutto il territorio nazionale e l’obiettivo è limitarne gli effetti, estendendo a tutto il Paese i provvedimenti già presi nei focolai.

GERMANIA Il ministero della Sanità ha imposto il divieto all’esportazione di ogni tipo di mascherine, maschere per respirare, abiti protettivi e guanti sterili. «Tutti i mezzi di difesa devono essere messi a disposizione del nostro sistema sanitario», è la motivazione. Grandi eventi economici e culturali sono stati cancellati: la Borsa Internazionale del Turismo di Berlino, la Fiera del Libro di Lipsia, quella dei costruttori di Monaco. Rinviata per il momento da aprile a luglio la Hannover Messe, la più grande del mondo per l’industria e l’automazione.

REGNO UNITO Dopo il letargo iniziale, il Regno Unito è in stato di allerta. Quattro le fasi identificate: contenimento, ritardo, ricerca, diminuzione. Siamo nella prima fase. Non è stata annunciata l’epidemia ma il governo ha sottolineato che un grave aumento dei casi è inevitabile. Tra le preoccupazioni, oltre al servizio sanitario, c’è la distribuzione del cibo. I supermercati hanno fatto sapere che c’è stata un’impennata negli acquisti di cibo a lunga scadenza e che il ritmo attuale non è sostenibile. Sono aumentati inoltre i clienti che fanno la spesa online e i supermercati non hanno abbastanza furgoni per le consegne. Il governo ha consigliato a tutte le aziende di prepararsi alla possibilità che un quinto dei dipendenti si ammali.

SPAGNA Non è stata varata per adesso alcuna restrizione ufficiale per evitare affollamenti, anche se il ministero della Sanità ha raccomandato di programmare a porte chiuse gare e competizioni sportive nelle «zone a rischio». Ma gli organizzatori del Rally Costa Brava, una gara di auto d’epoca fissata per il 13 e 14 marzo, nella provincia catalana di Girona, hanno deciso di escludere i partecipanti provenienti da Paesi con alto numero di contagiati, tra cui l’Italia. La Conferenza Episcopale ha disposto invece che fosse ritirata l’acqua benedetta dall’acquasantiera nelle chiese e che la stretta di mano al momento dello scambio di un segno di pace sia sostituita da una leggera inclinazione del corpo.

BELGIO L’allerta è salita molto soprattutto nelle istituzioni europee di Bruxelles. A livello nazionale il primo vero allarme è stato per la carenza di mascherine (perché Germania e Francia hanno bloccato le esportazioni).

OLANDA In apertura del sito del governo (government.nl) è stata pubblicata una pagina di informazioni su ogni aspetto dell’epidemia. Non ci sono annunci di misure differenti.

SVEZIA L’agenzia di salute pubblica (Folkhälsomyndigheten) considera il livello di rischio «moderato»: 3 punti su una scala di cinque. Per ora, una nota del governo spiega espressamente che la quarantena si mette in atto solo se estremamente necessaria, perché sono misure che violano molti diritti umani - libertà di movimento, di riunione e così via.

9) Quali controlli ci sono per chi arriva dall’Italia e dall’estero?

FRANCIA Non ci sono controlli particolari negli aeroporti francesi, per adesso. Nuovi provvedimenti potrebbero essere presi nelle prossime ore.

GERMANIA Chi arriva in Germania dall’estero (non dalle zone a rischio) con qualsiasi mezzo di trasporto non viene al momento sottoposto ad alcun controllo. Gli o le viene tuttavia chiesto di riempire un formulario, per garantire la sua reperibilità nei prossimi trenta giorni.

REGNO UNITO Pochi e rari. A Heathrow ad esempio le precauzioni adottate riguardano le strutture, con scale, bagni e ascensori disinfettati con maggiore frequenza.

SPAGNA Non ci sono al momento controlli sanitari sui passeggeri in partenza e transito dagli aeroporti spagnoli, ma secondo El Independiente , Enaire (la società pubblica responsabile della gestione del traffico aereo) prepara un piano per proteggere dal contagio i controllori di volo, per scongiurare quarantene nelle torre di controllo. Per esempio gli operatori in servizio non potranno passare da un centro di controllo all’altro.

BELGIO Nessun controllo specifico negli aeroporti e nel resto del Paese.

OLANDA Non ci sono controlli speciali. ««Se dovessimo controllare tutti i passeggeri in arrivo negli aeroporti del Paese», recita il sito dell’Istituto di Sanità, nelle schede messe a disposizione del pubblico, «scopriremmo solo un sacco di raffreddori e influenze».

SVEZIA Sul sito Krisisinformation.se, un sito apposito, c’è una sezione apposita che spiega l’assenza di controlli speciali negli aeroporti: «Queste misure sono efficaci solo se si possono tracciare i voli diretti, senza scali, e da Wuhan alla Svezia per esempio non ce ne sono».

10) Il governo sta valutando misure economiche straordinarie?

FRANCIA Il governo sta varando aiuti fiscali e finanziari per le aziende messe in difficoltà dall’epidemia.

GERMANIA Non ci sono ancora misure economiche straordinarie, ma cresce la pressione degli imprenditori perché il governo intervenga. Secondo un documento della BDI, la Confindustria tedesca, il calo nella produzione nell’export è pesante e rischia di azzerare le già deboli previsioni di crescita per quest’anno. Il ministro delle Finanze, Olaf Scholz, si è detto pronto a mobilitare miliardi nel caso di crisi congiunturale.

REGNO UNITO Il governo ha stanziato oggi altri 46 milioni di sterline per la ricerca di un vaccino e di un test rapido, il totale dall’inizio della crisi arriva così a 91 milioni per il virus e 65 milioni per un vaccino.

SPAGNA Non sono state annunciate per ora misure economiche o fiscali straordinarie dal governo.

BELGIO Nessuna misura straordinaria.

OLANDA Le misure sono state discusse a porte chiuse nell’ultimo consiglio dei ministri, e non divulgate dalla stampa. Il ministro della Salute Bruno Bruins invita per ora semplicemente a rimanere calmi e ad aggiornarsi sul sito dell’Istituto nazionale di sanità.

SVEZIA La sola misura presa finora è stata classificare come «malattia socialmente pericolosa» il Covid-19: solo con questa definizione è possibile prendere rapidamente misure di quarantena, ove fossero necessarie.

11) Come ne parla la stampa?

FRANCIA Il coronavirus è l’argomento principale dei media dai primi giorni della crisi internazionale, con qualche pausa legata alla riforma delle pensioni. Ma la copertura e l’interesse sono simili a quelli italiani, tenuto conto che la Francia è il secondo Paese in Europa dopo l’Italia per gravità della situazione.

GERMANIA I giornali fanno coperture a tappeto da dieci giorni a questa parte. Soprattutto con live-ticker, i blog in diretta 24/7 con il continuo aggiornamento della situazione. I toni sono in generale misurati (con l’eccezione della Bild, ma è la regola per un giornale popolare). Forte presenza di scienziati ed esperti.

REGNO UNITO Sino alla settimana scorsa, il Coronavirus era trattato dalla stampa principalmente come un problema estero. Adesso è sulle prime pagine di tutti i giornali, ma la copertura, rispetto all’Italia, è ancora relativamente contenuta. Il Guardian, ad esempio, oggi ha la parte alta della prima pagina sul primo decesso in Gran Bretagna e un approfondimento a pagina 8 e 9.

SPAGNA La stampa nazionale e locale ha iniziato a seguire gli sviluppi della diffusione del Coronavirus fin dagli esordi in Cina, ma senza eccessivo allarmismo. I titoli di apertura dei giornali sono riservati all’epidemia. On line quasi tutti i quotidiani nazionali hanno aggiornamenti «in diretta», consigli pratici e delucidazioni scientifiche.

BELGIO I giornali belgi iniziano a titolare chiedendosi se il Paese rischia una situazione emergenziale “all’italiana”.

OLANDA Il primo morto, di oggi, apre le homepage dei maggiori quotidiani, ma non c’è molto altro: toni bassi, poche notizie, per ora.

SVEZIA A oggi non c’è quasi nulla sulle homepage dei principali quotidiani. Nei giorni scorsi, al crescere dell’epidemia, se n’è parlato.

Da lastampa.it il 26 febbraio 2020. Controlli meticolosi a Malpensa, Fiumicino e Caselle ma nessun test negli aeroporti di Londra. È la situazione che ha sconcertato alcuni italiani, rientrati nella capitale britannica dopo qualche giorno trascorso in Italia. «Alla partenza da Caselle mi hanno preso la temperatura - racconta Silvio, tornato a Ivrea per il celebre carnevale - Al mio arrivo a Gatwick non mi ha fermato nessuno. E non ho visto alcun termoscanner». Della psicosi Coronavirus che si vive in queste ore in Italia, nel Regno Unito non c’è traccia. L’aplomb british, certo. Ma secondo alcuni nostri connazionali i controlli su suolo inglese sono troppo morbidi. Alcuni esperti, da giorni, spiegano il motivo dell’alta incidenza del virus in Italia: ci sono più contagi perché i controlli sono più numerosi. Simple as that. «Noi abbiamo fatto più di 8 mila test, meno di 500 in Francia», osserva il virologo Francesco Broccolo, dell'Università Bicocca di Milano. Nel Regno Unito i tamponi realizzati sono 6795, di cui 13 risultati positivi. E ancora non si registrano vittime. «Ma non è certo merito dei controlli», ragiona Achille, 35enne che lavora nel settore finanziario della City. La sua storia è emblematica. Qualche giorno fa si è presentato in un ambulatorio privato con tosse e problemi respiratori. Era rientrato dall’Italia a fine gennaio, quando l’emergenza Coronavirus non era ancora scoppiata. «Dopo avermi misurato la febbre, che non avevo, la dottoressa mi ha domandato se ero stato di recente in Asia. Al mio “no”, mi ha detto che potevo andare». E’ poi stato lui a specificare che era italiano e che la moglie era rientrata da qualche giorno da una delle zone di contagio. La risposta è stata sconcertante: «Mi spiace, ma non abbiamo il tampone per fare il test per il Coronavirus». E l’ha invitato a chiamare il 111, il numero per le emergenze. Poi la dottoressa si è lasciata andare a una confidenza: «Spero di sbagliarmi, ma credo che le autorità sanitarie stiano sottovalutando questa situazione». La storia di Achille assume contorni inquietanti per i dettagli geografici in ballo: la famiglia della moglie, infatti, frequenta spesso Vo’, uno dei focolai dell’epidemia in Veneto. Nel suo ufficio, poi, lavora un giovane sudcoreano. È andato dal dottore perché aveva la febbre e ha ricevuto la stessa risposta: «Se non sei entrato in contatto diretto con persone contagiate, non possiamo farci nulla. Noi non abbiamo il tampone». Ieri il responsabile delle risorse umane ha inoltrato una mail ad Achille e a tutti gli altri dipendenti: sono vietati i viaggi in Italia e chi è rientrato da una delle zone di contagio deve rimanere in quarantena per 14 giorni. Una decisione aziendale, non del sistema sanitario. Molti si chiedono se sia stata una mossa tempestiva.

·        Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Cos’è il CommonPass, il primo passaporto Covid digitale per viaggiare. Roberta Caiano su Il Riformista il 26 Ottobre 2020. Un passaporto sanitario digitale per far ritornare le persone a viaggiare in sicurezza ai tempi del Covid-19. E’ questo lo scenario su cui si affaccia l’Europa e il mondo intero utilizzando le nuove tecnologie per certificare in tempo reale lo stato di salute del passeggero, grazie al risultato di un tampone e, in futuro, a seguito della relativa vaccinazione. La pandemia da coronavirus, infatti, continua a dilagare nel Vecchio Continente e in tutto il mondo. Anche se in maniera diversa, ogni Stato sta cercando di contrastare la diffusione dell’infezione con delle misure sempre più restrittive e conformi all’obiettivo di non aumentare il contagio. In particolar modo, uno dei modi su cui sono tutti concordi è quello di trovare il vaccino al più presto per debellare il virus e l’ondata di morti e contagi che sta devastando la vita di ognuno di noi a livello globale. Per questo, il World Economic Forum e altri organismi internazionali tra cui il Commons Project hanno lanciato il progetto rendendo sempre più chiaro che quando un vaccino verrà sviluppato, molto probabilmente diventerà un prerequisito per il viaggio. Questa settimana a Heathrow, Londra due delle più importanti compagnie aeree, precisamente United Airlines e Hong Kong Cathay Pacific, hanno cominciato a fare le prove con il nuovo software per smartphone che funge appunto da passaporto Covid per i viaggiatori. A confermare l’importanza dei test è stato lo stesso top manager della United Airlines, Steve Morrissey, che al Financial Times ha ribadito lo sviluppo di un’alternativa alla quarantena e alle restrizioni ai viaggi in vigore in molti Paesi. Come riporta il sito ufficiale della fondazione Commons Projects, un trust pubblico non profit, il progetto è stato sviluppato da “un fondo pubblico senza scopo di lucro istituito per costruire piattaforme e servizi per migliorare la vita delle persone in tutto il mondo e per sbloccare il pieno potenziale della tecnologia e dei dati per il bene comune”. Inoltre, la pagina ufficiale riporta che la nuova applicazione digitale mondiale è stata istituita con il sostegno della Fondazione Rockefeller.

IL COMMON PASS – E’ denominato CommonPass il primo passaporto digitale Covid che certifica la negatività al virus. Per il momento, la prova si basa su un recente test e/o tempone che testimoni lo stato di “Covid Free” in attesa di includere anche la vaccinazione non appena diventerà disponibile. Il CommonPass consente ai passeggeri semplicemente di attraversare le frontiere e facilitare gli spostamenti internazionali, imbarcandosi sui voli commerciali attraverso un codice QR scansionabile sul proprio telefono cellulare personale. Ciò che però desta preoccupazioni è la questione della privacy dei dati sensibili come quelli relativi alla salute, che viene subito coperta dal World Economic Forum in un video promozionale in cui annuncia che i passeggeri condivideranno solo determinate informazioni sulla salute proteggendole in modo sicuro. All’attualità dei fatti, un test con esito positivo al covid-19 vieta ai viaggiatori di attraversare i confini internazionali e di salire a bordo degli aerei. Un esempio viene proprio dall’Italia con la compagnia Alitalia che ha introdotto i voli Covid-free, per alcuni collegamenti da Milano Linate a Roma Fiumicino, imponendo a tutti i passeggeri un test sierologico prima dell’imbarco con un risultato immediato. Ma ciò che manca è una standardizzazione a livello globale. Infatti per quanto riguarda altre malattie, come ad esempio la febbre gialla, in un certo numero di paesi subtropicali è già richiesto un certificato di vaccinazione per consentire ai viaggiatori di entrare nei loro confini. La novità è che il covid-19 è un virus mutante, dunque il vaccino è molto più complicato da trovare e soprattutto da testare nella sua completa efficacia. Per ora si pensa ad arrestare il contagio affermando in maniera unitaria il passaporto sanitario Covid, che permette così l’attraversamento dei confini in modo più controllato attraverso un monitoraggio più moderno e tecnologico. Dal canto loro, le compagnie aeree sono ben liete di accogliere questi nuovi metodi coordinati a livello internazionale permettendo così un ritorno alla normalità nel settore dei viaggi, garantendo sicurezza e coesione. Sono molti, infatti, gli aerei che stanno rimanendo a terra o volano semi vuoti, per questo il passaporto sanitario digitale potrebbe risultare un metodo efficace per ritornare a far volare anche un settore come quello dei viaggi che ha risentito in maniera traumatica della crisi scatenata dall’ondata dell’epidemia.

Luigi Offeddu e Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020. L' Ue è stata fondata su due principi base: la libera circolazione di persone, merci e servizi, senza controlli alle frontiere interne, e la sicurezza (anche sanitaria) dei suoi cittadini. Una libertà sancita dal trattato di Schengen, cui aderiscono 26 Paesi, tranne la Bulgaria, Croazia, Cipro, Irlanda, Romania. Non fanno parte dell' Ue ma aderiscono a Schengen la Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda. Ora, contro il coronavirus, la Commissione europea ha emanato una direttiva generale che dice fra l' altro: «agli autisti merci non dovrebbe essere imposta alcuna restrizione, né chiesto di esibire alcun certificato medico. Varcare un confine, inclusi i controlli sanitari, non dovrebbe richiedere a un convoglio merci più di 15 minuti». Poi ha stabilito 3 linee di difesa: ha «raccomandato» di evitare ogni viaggio all' estero «non essenziale»; fino al 16 aprile ha chiuso i suoi confini esterni a tutti i cittadini extra-Ue; infine, nello stesso periodo, ha ristabilito i controlli alle frontiere interne. Inoltre chiede che i britannici siano considerati come cittadini Ue per tutto il 2020.

Traduzione: anche se non del tutto formalmente, Schengen è stato sospeso, e quasi tutta l' Europa è sotto chiave. Hanno chiuso ai voli passeggeri e commerciali gli aeroporti di Paris Orly, Milano Linate, Bergamo. Tutti gli altri, al 1° aprile hanno un' attività ridotta fino al 92% (fonte Eurocontrol). Armonizzare è complicato e alla fine questa è la casa di mezzo miliardo di persone nella morsa del coronavirus.

Austria: sospesi i voli passeggeri con l' Italia e chiusi 47 valichi terrestri su 56. Per il trasporto merci gli autisti devono esibire un certificato medico non più vecchio di 4 giorni. Gli stranieri residenti possono rientrare in Austria sottoscrivendo l' impegno alla quarantena volontaria. È permesso il transito senza soste in territorio austriaco.

Belgio: gli italiani che vogliono tornare devono autocertificare motivi di assoluta urgenza. Alitalia offre ancora un'«offerta rimodulata» fra Roma e Bruxelles, mentre Brussels Airlines ha cancellato tutto.

Finlandia. Per transfrontalieri valgono norme Schengen. Restrizioni ai confini orientali, quarantena obbligatoria. Raccomandazione di evitare viaggi all' estero. Sospesi voli civili in arrivo, permessi quelli merci, ma con quarantena obbligatoria per i piloti.

Francia. Stretti controlli ai confini. Traffico merci ammesso «se compatibile con la salute pubblica». Gli autisti hanno l' obbligo di mostrare il certificato della effettiva necessità del viaggio. Fino al 15 aprile chiuse le frontiere, restano aperte quelle con l' Italia. Air France offre ancora voli passeggeri, ma raccomanda di verificare prima con i consolati.

Germania. Controlli ai confini, traffico libero per merci e transfrontalieri. Chi arriva in nave ad Amburgo (i voli sono in genere tutti sospesi) da Italia, Iran, Corea, Giappone, dovrà avere la «passenger locator card» che traccia i movimenti per 30 giorni.

Grecia: sospesi voli da e per Spagna, Francia, Inghilterra.

Irlanda: chiunque arrivi, esclusi i viaggiatori dall' Ulster, è tenuto alla quarantena di 14 giorni se è stato in zone colpite da virus. Tutti i cittadini sopra i 70 anni verranno monitorati fino al 31 luglio.

Italia: negli scali è garantita l' operatività per i soli voli di Stato, trasporto organi, canadair, cargo e voli emergenziali. Completamente sospesi i voli da e per la Spagna fino all' 11 aprile. Ripresi giovedì invece i traghetti passeggeri per la Sicilia e Sardegna.

Londra: Alitalia opera ancora da Fiumicino su Londra, si vola anche da Zurigo e Francoforte, «ma in rapida riduzione». Gli italiani possono rientrare in patria, previa autocertificazione e autoisolamento volontario. Nessuna restrizione per gli italiani in arrivo. Con sintomi lievi la quarantena è di 7 giorni.

Lussemburgo: sospesi voli e viaggi non essenziali, abolito il divieto di circolazione festivo dei Tir.

Malta: Sospesi voli da Germania, Francia, Spagna, Svizzera, Italia. Dal nostro Paese sospesi anche i collegamenti marittimi fino a data da definirsi. Quarantena obbligatoria. Multa fino a 1000 euro per chi non rispetta le restrizioni.

Olanda: sospesi tutti i voli da e per Italia, Spagna e Austria.

Portogallo: divieto sconfinare via terra. Sospesi voli da e per Italia e Spagna.

Spagna: dal 16 marzo confini terrestri aperti solo a spagnoli, transfrontalieri o residenti, che documentano cause di forza maggiore o bisogno. Via libera alle merci.

Svezia: confini aperti. Nessuna misura di auto-isolamento, libertà di circolazione.

Bulgaria: fino al 17 aprile divieto di ingresso per cittadini italiani, cinesi, iraniani, coreani, provenienti da Gran Bretagna, Bangladesh, India, Maldive, Nepal, Sri Lanka, Spagna, Irlanda Nord, Francia, Germania, Olanda, Svizzera. Permesso il transito per tornare al proprio Paese. Sospensione voli da/per Italia e Spagna Slovenia: dall' Austria possono entrare solo cittadini con certificato medico rilasciato non più di 3 giorni prima. Sospesi tutti i voli e i treni dall' Austria Croazia: confini chiusi in entrambi i sensi. Con eccezioni concesse a diplomatici, militari, medici, camionisti. Obbligatoria quarantena di 14 giorni in auto-isolamento domiciliare o in strutture ospedaliere, per chi arriva dall' Italia e altri Paesi «contagiati».

Danimarca: blindati i confini, schierato l' esercito, e per entrare nel Paese occorre provare una ragione importante, fino al 13 aprile. Frontiera aperta solo per il passaggio di beni alimentari e medicine.

Lettonia. Divieto spostamento passeggeri su aerei, auto, treni, lungo i confini esterni dell' Ue Estonia: entrano solo estoni e stranieri residenti o in transito verso il loro Paese d' origine. Sui traghetti verso Finlandia, Svezia, Germania, si sale solo con l' auto.

Lituania: vietato l' ingresso agli stranieri, con l' eccezione di autisti merci. Vietata l' uscita dei cittadini lituani, a meno che non che lavorino all' estero.

Polonia: entrano solo i polacchi. Nessun limite per chi lascia la Polonia via terra. Gli stranieri con permesso di lavoro e residenza possono tornare, ma con obbligo di quarantena (esentati autisti merci e transfrontalieri Slovacchia: ingresso vietato agli stranieri, ad esclusione di chi ha il permesso di residenza, con obbligo di quarantena. Sospesi voli civili per tutti.

Romania: divieto di entrata ai cittadini non Ue, tranne quelli in transito. Proclamato formalmente lo «stato d' assedio». Quarantena per chi viene dai Paesi Ue con più di 500 casi. Sospesi voli da e per Italia, Spagna, Germania, Francia, e i treni da /per Italia.

Ungheria: frontiere aperte solo per gli ungheresi. Al momento solo chi ha applicato rigidissime misure interne con chiusura delle attività non cruciali, monitoraggio sanitario di massa e controllo degli spostamenti della popolazione è riuscito a contenere la pandemia, ovvero Cina e Corea, dove stanno gradualmente riprendendo le attività. Per quel che riguarda l' Ue non è mai arrivata una raccomandazione sul primo presidio di difesa dal contagio: l' obbligo per tutti i cittadini di indossare da subito la mascherina. Del resto non ce n' erano per tutti, avendo da anni delegato la Cina la produrre per tutti noi.

·        Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

Andrea Marinelli per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2020. «Non mi sorprende che i tre leader del G20 che hanno preso meno seriamente il Covid-19 anche dal punto di vista personale, Donald Trump, Boris Johnson e Jair Bolsonaro, hanno finito per essere contagiati. Il coronavirus è un grande livellatore. Non importa quanto ricco o importante tu sia: se non stai attento, rischi il contagio», afferma Ian Bremmer, politologo e fondatore del centro studi newyorchese Eurasia Group.

Come legge questa «maledizione» dei tre grandi negazionisti?

«Quando hai un Paese e un mondo così divisi, questo scontro fra "noi e loro" può sembrare positivo: ti dà l'impressione di avere alle spalle una squadra per cui combattere. Invece finisce per indebolire la nazione, il mondo: viviamo in un'epoca "G-zero", senza potenze dominanti, in cui le persone non sanno cooperare. Trump, Johnson e Bolsonaro sono un simbolo di questo mondo frammentato, che non sa cooperare e non riesce neanche a rispondere alle crisi insieme. Il messaggio che ne deriva è che quello "G-zero" è un mondo molto pericoloso».

Cosa pensa del contagio di Trump?

«Possiamo dire che da parte sua non c'è stata nessuna ipocrisia. Era il primo a non indossare la mascherina, faceva comizi, incontrava persone. Non prendeva il virus seriamente, e parliamo di un uomo obeso di 74 anni. È stato irresponsabile, ed è il motivo per cui oggi abbiamo 207 mila morti».

Che messaggio ha dato al popolo americano?

«A un mese dalle elezioni pensavamo di aver già visto di tutto nel 2020. Dopo aver preso in giro Biden sostenendo che facesse campagna dal seminterrato, adesso Trump resterà in isolamento per almeno due settimane. Per ora ha sintomi leggeri ma anche Johnson ha iniziato così e poi ha rischiato di morire».

Trump ha spesso preso in giro i rivali che indossavano la mascherina.

«Ha politicizzato l'uso della mascherina, nonostante il dottor Fauci dicesse che bisognava convincere le persone a indossarla. Il presidente non se ne è curato ed è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti hanno risposto così male alla crisi. C'era il tempo di prepararci, abbiamo epidemiologi e scienziati bravissimi, molti soldi da spendere e piani già pronti per una pandemia, ma la nostra risposta è stata fra le peggiori al mondo. In gran parte dipende da lui, perché non ha preso la questione seriamente e l'ha politicizzata».

Riuscirà a trarre benefici politici dal contagio?

«Secondo me renderà ancora più difficile una sua vittoria. Durante la campagna non voleva affrontare il coronavirus perché l'ha gestito molto male, e molti americani la pensano così: va meglio di Biden sull'economia, ma peggio sul virus. Ora il suo contagio ci porterà a parlarne per tutto il mese, sarà l'argomento principale e di certo lo danneggerà. E poi non potrà fare comizi di persona per almeno due settimane. Senza considerare che è stato ricoverato e potrebbe non essere in grado di svolgere le sue funzioni: tutto questo rende più difficile una sua vittoria. Di una cosa però sono certo: se non sarà incapacitato in ospedale, contesterà l'esito delle elezioni».

Coronavirus, i paesi contrari al lockdown sono quelli che hanno più morti. Matteo Gamba su Le Iene News il  9 maggio 2020. Donald Trump, Boris Johnson (che poi si è ammalato, anche gravemente) e Jair Bolsonaro prima hanno paragonato il coronavirus a un’influenza e poi si sono opposti e hanno ritardato ogni quarantena in nome dell’economia. A pagarla duramente sono ora americani e britannici, primi e secondi al mondo per numero di morti. Mentre in Brasile la pandemia dilaga. E anche nella Svezia del no al lockdown e dell’immunità di gregge le cose peggiorano di giorno in giorno. “Il Covid-19 è meno grave dell’influenza. Non ci sarà nessuna emergenza e non sono preoccupato, è un virus che sparirà spontaneamente con il caldo”, diceva il presidente americano Donald Trump a inizio marzo. Lo stesso che ora è arrivato a consigliere di “iniettarsi disinfettante” e che ieri, 8 maggio, insisteva nel voler “riaprire subito tutto, anche a costo di molti morti” per dire addio nel nome dell’economia agli odiati lockdown, già in genere molti più blandi negli Stati Uniti che in Europa. “Non cambierà niente”, gli faceva eco sempre a inizio marzo l’alleato primo ministro britannico Boris Johnson, che si è opposto fino all’ultimo anche lui, accumulando ritardi, alla quarantena di massa che ha appena dovuto prolungare per tre settimane. Il 13 marzo confermava la strategia del “tutto aperto” e del “business as usual”. Mentre il suo consigliere scientifico Patrick Vallance parlava di “una brutta influenza” e puntava direttamente all’immunità di gregge (lasciando libero il virus fino ad arrivare a un 60% di contagiati che avrebbe tutelato gli altri e portato però decine di migliaia di morti). Il 27 marzo poi Boris Johnson si è ammalato di coronavirus, è finito in terapia intensiva e ha raccontato di aver avuto paura di morire. Dopo questi ritardi nel decidere il lockdown, che costava troppo all’economia, e sottovalutazioni del Covid-19, oggi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono i due stati del mondo che hanno registrato più morti per coronavirus, rispettivamente 77.180 e 36mila (secondo un ricalcolo effettuato ieri nel Regno Unito), nonostante siano stati colpiti in pieno dall’epidemia dopo la Cina, l’Italia, la Spagna, la Francia e la Germania per esempio. Anche come numero di contagiati la tragedia Usa è enorme: i casi sono 1.283.929. Seguono la Spagna (222.587), l’Italia (217.185) e il Regno Unito (212.629), che come trend sembra destinato a breve al secondo posto anche in questa triste classifica. Sempre ieri, 8 maggio, gli Stati Uniti hanno registrato un’impennata di 2.500 morti in 24 ore dopo qualche giorno di trend almeno in calo. E il virus sempre avvicinarsi anche alla cerchia di Trump: ieri è risultata positiva Katie Millner, portavoce del vicepresidente Usa Mike Pence, mentre il giorno prima è successo lo stesso a un membro dello staff del presidente che si occupa del cibo e del guardaroba. Insomma anche la stessa Casa Bianca sembra accerchiata dall’“influenza”. Un’altra clamorosa sottovalutazione del Covid-19 viene da Jair Bolsonaro, ancora fortemente contrario alle misure di contenimento, che ha ridotto al minimo. Il presidente brasiliano è circondato pure da un mistero attorno alla notizia di una sua presunta positività circolata il 13 marzo (di sicuro da martedì scorso lo è il suo portavoce, il generale Otavio Rego Barros). Immancabile la definizione, risalente al 26 marzo, del Covid-19 come di “un’influenza di poco conto”: Bolsonaro continua a dirsi contrario con battute e violazioni a effetto alle misure di isolamento e distanziamento sociale e ha anche licenziato il ministro della Sanità Luiz Mandetta che le reclamava. L’epidemia di coronavirus sta esplodendo però negli ultimi tempi in Brasile: ieri ci sono stati 751 morti, non ce ne erano mai stati così tanti. E ci sono anche forti dubbi sui numeri reali dei decessi, difficili da conteggiare in particolare nella parte amazzonica e nelle favelas. Il paese, dove la pandemia è partita molto dopo rispetto a tanti altri, è già l’ottavo al mondo per numero di contagiati (146.894) e si avvia, come tutto l’emisfero australe, verso la stagione fredda che potrebbe peggiorare le cose. Bolsonaro sembra infischiarsene: dopo le critiche per aver organizzato una grigliata con una trentina di invitati, ha appena rilanciato: “Ho invitato tremila persone”. A pagare la visione del Covid-19 come “un’influenza” e l’opposizione e i ritardi sul lockdown nemico dell’economia di questi tre leader sono stati e sono i cittadini americani, britannici e brasiliani. Si può discutere su quanto stringenti debbano essere le misure di distanziamento sociale e di quarantena, che infatti sono state declinate in maniera diversa in vari paesi. Dati alla mano però, il no e le sottovalutazioni dei leader di Stati Uniti, Gran Bretagna e Brasile sono la palese dimostrazione che, comunque vada, servono a salvare vite. Un altro caso molto discusso è quello della Svezia. Contrariamente a Norvegia e Finlandia, i confinanti paesi scandinavi che hanno chiuso tutto, Stoccolma ha deciso di non adottare nessuna quarantena di massa puntando appunto su un lento raggiungimento di quell’immunità di gregge di cui si era parlato anche in Gran Bretagna. Il numero dei morti in proporzione alla popolazione, come potete vedere dal grafico qui sotto (fonte: OurWorldInData) è però molto più alto dei vicini. “È stato davvero una sorpresa, devo dire che non avevamo calcolato un così alto numero di morti”, ha detto mercoledì 6 maggio Anders Tegnell, l’epidemiologo a capo dell’Agenzia di sanità pubblica, che difende comunque la strategia della “mitigazione dolce” sul lungo periodo: “La seconda ondata da noi sarà meno critica e non avremo mai chiuso”. Molti dei decessi sono avvenuti nelle case di cura nonostante, con uno dei pochi divieti decisi in Svezia, le visite dei parenti siano state bloccate. Intanto l’economia, che è comunque in crisi globale e che doveva avvantaggiarsi invece dall’assenza di lockdown, non va meglio dei vicini. Con molti morti in più.

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. In guerra, diceva Eschilo, la prima vittima è la verità. E se la metafora bellica per il Covid-19 è inadeguata, non lo è in questo senso: in molti Paesi la «verità» su contagi e vittime reali del virus è difficile da rintracciare nei dati ufficiali. Per povertà di mezzi: non ovunque i tamponi si trovano (come nello Yemen in guerra: un solo caso). Per i numeri che non tornano, come in Cina o in Turchia, ma soprattutto per la scarsa trasparenza di governi e regimi. Come il Brasile di Jair Bolsonaro e gli altri tre del «club dello struzzo» (la definizione è del politologo Oliver Stuenkel): anche Turkmenistan, Nicaragua e Bielorussia negano semplicemente che il virus li abbia colpiti. Non a caso nel rapporto 2020 di Reporter Senza Frontiere, pubblicato ieri, c' è un' inedita sezione «Coronavirus»: molti leader hanno approfittato dell' emergenza per restringere ancora la libertà di stampa, incarcerando giornalisti che dubitavano delle statistiche (come in Algeria) o varando leggi «anti-fake news» che aumentano il loro controllo sull' informazione.

Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020.  Al centro dell' Europa c' è una specie di Paese delle favole, dove tutto va bene, la gente è felice e nessuno muore per coronavirus. O almeno così sostiene il presidente-padrone Aleksandr Lukashenko, in sella dal 1994, quando la Bielorussia tenne la sua prima elezione democratica. Il capo del Paese (tutti lo chiamano «batka», cioè babbo) parla di «coronapsicosi». «Nel nostro Paese non è morta una sola persona per il virus La causa è stata una delle malattie croniche che avevano». Domenica lui è andato in chiesa in mezzo a centinaia di fedeli e lunedì le scuole hanno riaperto. Pure il campionato di calcio funziona: gli stadi sono aperti al pubblico e 11 Paesi, tra i quali Russia, Ucraina e Israele, trasmettono in tv le uniche partite che si giocano nel Vecchio Continente. Ma stavolta sembra che il suo popolo non creda a «batka», visto che molta gente da settimane pratica un auto lockdown. E perfino le autorità statali diffondono cifre che non sono in linea con quello che dice Lukashenko. Secondo i dati del ministero della Salute, ad aprile c' è stata un' impennata dell' epidemia. Da poche centinaia di casi si è passati a 6.264, con 51 morti. Altro che un sorso di vodka, un po' di hockey e lavoro in campagna per combattere il Covid, come dice il presidente. Il 60% degli studenti non è tornato in classe. E perfino i tifosi sono guardinghi. Negli 8 stadi dove sabato si è giocata la 5° giornata del campionato c' erano solo 2.383 persone. Il match più frequentato, a Borisov, è stato seguito dal vivo da 652 appassionati.

Paolo Salom per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. In Cina il virus esiste eccome. Anche se ultimamente i nuovi contagi sarebbero quasi scomparsi. E, da gennaio almeno, le autorità sanitarie informano con regolarità il mondo sull' evoluzione dell' epidemia: positivi, decessi, guarigioni. Il problema tuttavia è duplice: per prima cosa c' è stato un grave ritardo nella comunicazione sulla presenza, a Wuhan, della nuova epidemia, i cui primi casi sarebbero stati osservati già a dicembre, se non prima. E poi i numeri: la Cina ha denunciato 84 mila casi e meno di 5 mila decessi. Considerando la popolazione (un miliardo e 400 milioni) e la densità abitativa di megalopoli come Wuhan (10 milioni di abitanti), resta un mistero capire come sia possibile che la Cina abbia avuto cinque volte meno morti rispetto all' Italia. Pechino è stata oggetto di numerose proteste a livello di cancellerie. Donald Trump ha criticato il suo «amico» Xi Jinping per la «poca trasparenza» a proposito del virus. E persino la tedesca Angela Merkel, raramente critica della Cina, ha avanzato «dubbi» sulla «sincerità» dei partner orientali. Ma Pechino a tutti ha sempre risposto: «Noi non abbiamo mai nascosto nulla».

Rocco Cotroneo per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. Jair Bolsonaro ha smesso di chiamare il Covid-19 una gripezinha - dolce parola che significa piccola influenza - ma non di difendere il ritorno alla normalità e di accusare gli altri di propagare panico eccessivo. Ha sostituito il popolare ma troppo loquace ministro della Salute Luiz Henrique Mandetta, allineato alle indicazioni Oms, con Nelson Teich, un altro medico che la pensa allo stesso modo ma non lo dice, appare assai meno in tv e se lo fa ha dietro il ritratto del presidente, con il quale si dice allineato. Risultato, ordine sparso sotto l' Equatore: ogni governatore e sindaco fa quel che gli pare, annuncia aperture e chiusure a giorni alterni, e ancora non è chiaro se la curva ascendente del contagio in Brasile stia andando verso il peggio oppure non è poi così ripida, né se i dati diffusi su contagi e vittime (40.000 e 2.600) siano attendibili o molto sottostimati. Intanto il sistema ospedaliero di due Stati, Amazonas e Ceará, è al collasso con il 100% di letti e respiratori occupati, altri si stanno saturando. Sono le zone più calde del Brasile, sempre per ricordare a Bolsonaro, e a molti altri che lo sostenevano, che il virus non si ferma con le alte temperature.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. «Nessun virus è più forte delle nostre misure». Così il presidente turco Recep Tayyip Erdogan a inizio aprile cercava di minimizzare i numeri della pandemia e di rassicurare i cittadini sulla capacità del sistema sanitario. Sempre meglio dell' atteggiamento adottato fino a metà marzo quando Ankara negava persino che ci fossero contagi e se qualcuno dava dati diversi da quelli ufficiali veniva ripreso o, peggio ancora, arrestato «per incitamento al panico» come è successo a 410 persone. Ieri il New York Times ha rivelato che soltanto ad Istanbul tra il 9 marzo e il 12 aprile ci sono state 2.100 morti in più della media dei due anni precedenti, più o meno tanti quanti i decessi dichiarati oggi in tutta la Turchia a causa del Covid-19: i numeri non tornano. Il governo si difende dicendo di aver agito tempestivamente chiudendo a metà marzo tutti i voli internazionali, le scuole, i bar e i caffè e sospendendo le preghiere di massa. L' 11 aprile è stato imposto un primo coprifuoco per il fine settimana in 31 regioni su 81. Da domani, vigilia dell' inizio del Ramadan, sarà imposto un lockdown di quattro giorni. Basterà? Il presidente assicura un ritorno alla normalità a giugno nonostante i 90.980 contagi. Ma l' Associazione dei Medici turchi è scettica: chiede maggiore trasparenza sui dati. E i sindaci di Istanbul e Ankara, entrambi dell' opposizione, invocano maggiori tutele per i loro cittadini. La pandemia, però, sta affondando l' economia e di soldi ce ne sono veramente pochi.

L'avanzata dei negazionisti del coronavirus. Melissa Aglietti su videodromenews.com il 02-04-20. Mentre la pandemia di coronavirus lascia spiazzati governi e cittadini, c’è chi, orgoglioso, mostra la verità sul palmo della mano: «SARS-CoV-2, in realtà, non esiste». Parafrasando Wittgenstein, i limiti del linguaggio sono i limiti del nostro mondo. E così, c’è qualcuno per cui la parola “coronavirus” rappresenta una demarcazione talmente netta e solida da poterla srotolare lungo le frontiere di un intero Paese, come negli Usa, dove fino a un mese fa Trump paragonava il virus a una banale influenza. O come in Turkmenistan, dove da martedì è addirittura vietato girare con le mascherine e parlare della pandemia.

Negazionismo in salsa turkmena. Secondo Reporter senza Frontiere, l’organizzazione che difende e promuove la libertà di stampa e di informazione, il governo della repubblica dell’Asia centrale, guidata dall’autocrate Gurbanguly Berdimuhamedow, avrebbe proibito ai media statali di riportare la parola "coronavirus". «Le autorità turkmene hanno tenuto fede alla loro reputazione adottando questo metodo estremo per sradicare tutte le informazioni sul virus», ha fatto sapere Rsf. Non solo. Secondo Turkmenistan Chronicle, dalle brochure informative sulla prevenzione delle malattie virali è stato eliminato ogni riferimento all’infezione da Covid-19. Ma l’onda negazionista non si ferma qui. Radio Azatlyk riporta di poliziotti in borghese occupati a intercettare le conversazioni sulla pandemia tra la popolazione, mentre, stando a quanto riportano i corrispondenti di Radio Free Europe, la polizia adesso può arrestare chi indossa la mascherina in pubblico. Una strategia paradossale che va oltre ogni logica: al momento i contagi ufficiali nella repubblica turkmena sono pari a zero, nonostante il vicinissimo Iran sia tra i Paesi più colpiti al mondo.

Vittorio Sgarbi e gli altri negazionisti di casa nostra. Il coronavirus non sa nemmeno di esistere. È solo un parassita che infetta le nostre cellule, perdendo la sua individualità, a metà tra l’essere e il non essere. Ma a noi, che osserviamo le conseguenze che si porta dietro, ci sembra assurdo negare la sua esistenza. Eppure c’è chi, fino a pochi giorni fa negava l’emergenza coronavirus. Tra questi anche il critico d’arte Vittorio Sgarbi. «Vi hanno messo paura», scriveva il 14 marzo sul suo profilo Facebook. «È una paura che vi è stata introdotta da tutte le immagini televisive, da tutti i camici, le mascherine e da alcuni virologi». Per Sgarbi, il governo avrebbe attuato una strategia della tensione per coprire le inefficienze del sistema sanitario e che la zona rossa sarebbe nient’altro che una sospensione della democrazia. Il 16 marzo, la conversione: «Ho sottovalutato. La quarantena è una misura intelligente e drastica», dirà in un video su Facebook. E poi c’è la virologa Maria Rita Gismondo dell’ospedale Sacco di Milano che a fine febbraio assicurava che il coronavirus non fosse altro che una banale influenza. Eppure una banale influenza non ha mai sconvolto il mondo in questo modo.

Stefano Montanari e i morti “per” coronavirus. Tra i negazionisti del coronavirus, un nome salta all’occhio: è quello di Stefano Montanari, nanopatologo, farmacista e direttore scientifico del laboratorio Nanodiagnostics di Modena e guru degli antivaccinisti. «Non c’è un aumento di mortalità a causa del coronavirus. Stiamo parlando del nulla: i morti per coronavirus sono tre», sostiene Montanari in un’intervista al canale Byoblu. «Contrariamente a quanto si crede abbiamo delle difese nostre immunitarie che sono fortissime, molto più forti di quanto non sia la stragrande maggioranza dei farmaci. Quando ci mettiamo i guanti facciamo un disastro dal punto di vista della nostra salute». Insomma, dopo i negazionisti dell’Olocausto, arrivano loro, i negazionisti del coronavirus, che negano, più o meno in buonafede, quello che è sotto gli occhi di tutti. Con buona pace dei fatti, costretti a fare da tappezzeria al gran ballo delle bufale. 

Il circolo mondiale dei negazionisti vip: macché epidemia, è una normale influenza. In Usa il presidente Trump e l'industriale Musk minimizzano il Coronavirus. Lodovica Bulian, Mercoledì 11/03/2020 su Il Giornale. «Falsità», «panico da stupidi», «il coronavirus non esiste». I negazionisti del Covid-19 non desistono nemmeno di fronte a un'Italia chiusa per emergenza e di terapie intensive a rischio collasso. Twittano, si immortalano in video selfie per «svegliare» i followers dal «terrorismo mediatico». Il virologo Roberto Burioni, attento controllore dei cinguettii diffusori di fake news sui social, ha risposto a Elon Musk, patron di Tesla, che ai suoi 32 milioni di seguaci su Twitter aveva scritto: «Il panico da coronavirus è stupido». Per molti l'imprenditore ha sminuito la portata dell'infezione nonostante anche la sua «patria d'affari», la California, ne sia stata colpita. «L'epidemia di babbei è già una pandemia», gli ha risposto Burioni. E con gli utenti che lo hanno attaccato in difesa di Musk, il virologo ha rincarato la dose: «Io ho fatto un millesimo di quello che ha fatto questo babbeo: ho studiato molto la virologia. Lui con tutti i suoi soldi no». Del resto Burioni ha risposto, sebbene in toni più garbati, anche al presidente degli Stati Uniti Donal Trump che sul Covid-19 aveva twittato: «Quindi l'anno scorso 37.000 americani sono morti per l'influenza comune. In media tra 27.000 e 70.000 all'anno. Niente è fermo, la vita e l'economia continuano». Il professore gli ha fatto notare: «Signor Presidente, mentre tutti gli americani hanno un certo grado di immunità contro l'influenza stagionale, non esiste alcuna immunità contro questo nuovo coronavirus. Il virus è pericoloso, si diffonde molto rapidamente e penso che sottovalutare questa malattia infettiva sarebbe un errore mortale». E poi ci sono personaggi di casa nostra, che scatenano l'indignazione collettiva. Come l'uscita video su Facebook della ex showgirl Eleonora Brigliadori che si cimenta su teorie di complotti americani e ai suoi followers parla così: «Che ci fosse l'America dietro tutto questo, era già chiaro a molti di noi!». E ancora: «I contagi ci sono sempre stati, non c'è niente di nuovo tranne la volontà di creare terrorismo». È bene ricordate che l'Organizzazione mondiale della sanità ha più volte ribadito che «a livello globale si arriva al decesso in circa il 3,4% dei casi di Covid-19. Per fare un confronto, l'influenza uccide meno dell'1% degli infetti». E fanno discutere anche le dichiarazioni del presidente della casa del caffè Hausbrandt, Martino Zanetti, che ieri ha commentato la situazione italiana così: «Il Coronavirus non esiste, se questa è una pandemia allora ce l'abbiamo tutti gli anni. È una falsità palese costruita dal governo francese per sabotare i progetti di Via della Seta fra Pechino e Venezia. Ai miei collaboratori consiglio di viaggiare e muoversi liberamente senza preoccupazioni». Alla fila si è aggiunto ieri anche Helmut Marko, ex pilota e ora consulente di Red Bull: «È come un'influenza. Per la maggior parte, le persone muoiono di vecchiaia con malattie preesistenti. Dobbiamo contrastare la paura dei politici e non sostenerli».

Materazzi : “I Francesi ci deridevano ora ci copiano”. Angela Costagliola su Mondonapoli il 19 Marzo 2020. In diretta dal profilo Instagram della Gazzetta dello Sport insieme ad Andrea Elefante, Marco Materazzi, ex difensore dell’Inter e della Nazionale Italiana, ha detto la sua sull’emergenza Coronavirus in particolare sul comportamento della Francia :”Ci hanno deriso al mondiale e anche adesso durante questa crisi, ma alla fine ora stanno facendo come noi, che ci siamo uniti tutti assieme per fronteggiare il virus così come eravamo uniti durante quel mondiale del 2006.”

Carla Bruni sfotteva sul coronavirus in Italia. "Ora se la fa sotto, solo i coglioni..." Roberto Alessi su  Libero Quotidiano il 05 aprile 2020. Adoro Carla Bruni, nata ricchissima, con due padri adorabili e miliardari (in euro), uno naturale e uno che le ha dato il cognome e un' eredità colossale. Claudia è nata pure bella, certo, con qualche aiutino, ma la struttura è quella (mia madre Anita mi diceva: «Bella a partire dalle ossa, quella è dalla base»). In più colta: ottime scuole e frequentazioni, viaggi, fidanzati famosi (compresi Mick Jagger e Eric Clapton). Infine ha sposato uno degli uomini più famosi di Francia, Nicolas Sarkozy, ex presidente. Le ha tutte. Come si fa a non detestarla? Ha pure la stronzaggine. Quando si iniziava a parlare di Coronavirus in Italia lei faceva le battutine alla tv francese e durante una sfilata (era il 23 gennaio) ha detto davanti alle telecamere: «Baciamoci, non facciamo gli stupidi! Noi siamo della vecchia generazione! Non abbiamo paura di nulla paura del Coronavirus. Nada!» e poi, guardando la telecamera, ha finto di star male, fingendo di tossire. Spiritosa come una lapide, vero? Oggi, come tutti, se la fa addosso e dopo un paio di settimane dalla bravata ha scritto «Certe volte succede di fare uno scherzo di cattivo gusto. Sul momento, in un certo contesto uno scherzo, anche stupido, non significa granché. Uscito dal contesto, lo stesso scherzo diventa schifoso». E la retromarcia (un po' tardiva per la verità) è arrivata e Carla ha montato un video dove mostra gli eroi dei nostri giorni: medici che tengono duro, infermieri che per mille euro rischiano di contrarre una broncopolmonite fulminante, malati che resistono, parenti e bambini che riescono perfino ad accennare un sorriso. Solo i coglioni non cambiano idea.

Carla Bruni sbeffeggia il Coronavirus, finge tosse e crisi respiratoria: "Baciamoci, nessuna paura". Una scenetta di cattivo gusto quella di cui si è resa protagonista l'ex première dame francese durante la settimana della moda di Parigi. Redazione Today il 16 marzo 2020. Carla Bruni non fa ridere. La simpatia non è mai stata la qualità migliore dell'ex top model italiana "adottata" dalla Francia, ma stavolta ha esagerato. Durante la settimana della moda di Parigi - due settimane fa - dopo una sfilata, l'ex première dame ha finto tosse e crisi respiratoria, ironizzando sull'emergenza Coronavirus, davanti al presidente di LVMH Fashion Group, Sidney Toledano. A riprendere la scena, che in questi giorni sta facendo il giro del web, le telecamere del programma di Tf1 '5 Min de Mode'. "Baciamoci, non facciamo gli stupidi - dice Carla Bruni a Toledano - Noi siamo della vecchia generazione. Non abbiamo paura di nulla, non siamo femministi e non abbiamo paura del Coronavirus. Nada". Immagini che hanno fatto scoppiare una bufera sui social, dove in molti non perdonano Carla Bruni. "Da oggi potremo porre la domanda 'Quanto sei stupido da 1 a #CarlaBruni?' twitta qualcuno e non è il solo a pensarla così... Su Instagram, quando anche la Francia è nel pieno dell'emergenza, arrivano le scuse (ma se la prende con il montaggio): "Certe volte succede di fare uno scherzo di cattivo gusto - scrive Carla Bruni - Sul momento, in un certo contesto, uno scherzo, anche stupido, non significa granché. Uscito dal contesto, lo stesso scherzo diventa schifoso. Ho purtroppo scherzato io qualche settimana fa, uno scherzo stupidissimo e sono stata filmata senza rendemene conto. Un montaggio malvagio ha deliberatamente dato un carattere schifoso a questo mio scherzo imbecille. Vorrei presentare le mie scuse a tutti quelli che sono stati scioccati e feriti da questo video e dal suo contenuto. Vorrei precisare ancora una volta che si trattava di uno scherzo. Che non riflette in niente i miei sentimenti. Buon coraggio a tutti". 

 Emergenza Coronavirus, Ogbonna: «Noi italiani derisi dagli inglesi. Ora…». Redazione LazioNews24 il 28 Marzo 2020. Emergenza Coronavirus, il difensore del West Ham, Angelo Ogbonna ha raccontato come gli inglesi stanno vivendo la situazione di emergenza. Angelo Ogbonna, ex difensore di Torino e Juventus, ora in forza al West Ham, in un’intervista rilasciata ai microfoni di TMW,  ha spiegato in che modo l’Inghilterra ha affrontato e sta affrontando la situazione di emergenza legata al Coronavirus. Ecco le sue parole: «Hanno sottovalutato una problematica globale, seria, grave. Inizialmente ci deridevano, pensavano che stessimo esagerando ed esasperando la questione. Io vivo a Londra ma sono da subito stato preoccupato per noi e per la famiglia in Italia. Devo dire la verità: nell’aria, almeno a Londra, la preoccupazione c’era. Supermercati vuoti, meno gente a giro. Però Londra non è l’Inghilterra. Io voglio ringraziare i medici in Italia che si stanno prendendo cura delle persone, dei malati, dei contagiati. Di chi rischia ogni giorno. La mia famiglia è a Cassino, la situazione è difficile ovunque e anche lì. Quella della mia compagna è a Torino dove quando torniamo siamo quasi in pianta stabile. Sono città bloccate, sembra di vivere un film».

Coronavirus, "Una scusa per gli italiani per non fare niente": il commento infelice di un presentatore britannico. Lui è Christian Jessen, medico e presentatore di programmi "spazzatura". La battuta inopportuna l'ha pronunciata premettendo che può  "essere un po' razzista". Di Maio: "Qualcuno ha confuso la pandemia con uno show". Enrico Franceschini il 13 marzo 2020 su La Repubblica.  "Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta". Un commento a dir poco vergognoso, specie davanti a 15mila malati e oltre mille morti nel nostro Paese, quello del dottor Christian Jessen, 43enne medico britannico, scrittore e presentatore televisivo di show stile tabloid, come "Embarassing  bodies" (Corpi imbarazzanti) e "Supersize vs Superskinny" (Supergrassi contro supermagri). Ha anche prodotto e narrato un documentario intitolato "Cure me, I am gay" (Curatemi, sono gay), su presunte terapie per "curare l'omosessualità". Che le sue parole siano imbarazzanti è lui stesso ad ammetterlo, durante l'intervista radiofonica alla rete Fubar, secondo quanto riporta il quotidiano Independent: "Quello che dico potrebbe essere un po' razzista, e mi toccherà scusarmi, ma non pensate che il coronavirus sia un po' una scusa? Gli italiani, sappiamo come sono, per loro ogni scusa è buona per chiudere tutto, interrompere il lavoro e fare una lunga siesta". Usa proprio il termine spagnolo, "siesta", diffuso anche in inglese, alludendo a un prolungato riposino pomeridiano, ovvero nelle ore lavorative. A quel punto il conduttore gli domanda se è d'accordo con la decisione di Boris Johnson di ritardare la chiusura delle scuole. "Concordo in pieno", risponde il dottor Jessen. "Penso che sia un'epidemia vissuta più sulla stampa che nella realtà. In fondo anche l'influenza uccide migliaia di persone ogni anno". Il che è vero: le vittime della normale influenza sono circa 8mila l'anno soltanto in Gran Bretagna. Ma a parte che il coronavirus a detta di medici e scienziati non sembra una "normale" influenza, l'intervistatore gli fa notare che comunque già 10 persone sono morte nel Regno Unito per l'infezione arrivata dalla Cina. "Lo so, è tragico per le persone coinvolte, ma non si tratta di grandi numeri. Non colpisce le madri, non riguarda le donne incinte, e nemmeno i bambini per quanto sappiamo, perciò perché questo panico di massa? Diciamo la verità, è solo un brutto raffreddore. Non è una vera epidemia, o meglio, ovviamente lo è, ma ci preoccupiamo troppo. Beh, spero di non dovermi rimangiare queste parole!" Laureato in medicina al prestigioso University College London, il dottor Jessen ha una specializzazione proprio alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, la facoltà che studia i nuovi virus. Esercita tuttora la professione di medico presso una clinica privata di Harley Street a Londra, anche se il suo principale mestiere è diventato fare la star delle tivù sensazionale. Questa sera è arrivata, sulla sua pagina Facebook, la reazione del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio: “Qualcuno ha confuso il coronavirus per uno show. E personalmente provo imbarazzo per queste persone. Dopo l’insulto alla pizza italiana (su cui poi sono arrivate le scuse della tv francese), ora arriva l’ultimo dei conduttori televisivi, tale Christian Jessen, inglese, già noto per i suoi programmi di grande approfondimento culturale come “Malattie imbarazzanti”... Questo straordinario statista, in merito all’emergenza che stiamo vivendo, ha detto che 'gli italiani usano delle scuse per chiudere tutto e smettere di lavorare per un po’, per avere una lunga siesta'. Io non lo commento nemmeno. E stavolta, sono sincero, non ci servono nemmeno le scuse, ancor meno le sue. È un piccolo uomo, lasciamolo alle sue farneticazioni e guardiamo avanti. Con dignità, come abbiamo sempre fatto”.

Eleonora D'Amore per fanpage.it il 24 marzo 2020. Era lo scorso 13 marzo quando il dottor Christian Jessen, medico e conduttore del programma inglese Malattie imbarazzanti, affermò che gli italiani stavano usando la pandemia di coronavirus come scusa per avere una "lunga siesta", riconoscendo che i suoi commenti potevano sembrare "un po' razzisti". A pochi giorni da quella frase infelice, arriva il suo commento sui social, nel quale si scusa per aver offeso l'Italia e chiunque stia affrontando questo momento di forte sofferenza: Per quanto riguarda i miei commenti sull’epidemia di coronavirus in tutto il mondo e la situazione dell’Italia: Ho sbagliato, lo ammetto. Ho cercato di sdrammatizzare il panico. Tuttavia, col senno di poi riconosco che la mia osservazione era insensibile e devo scusarmi per qualsiasi turbamento io abbia causato. Capisco perché sia stato offensivo e spero possiate perdonarmi. Come medico, il mio lavoro è essere onesto e cercare di portare luce nella vita delle persone. Vorrei assicurarvi che i miei pensieri sono rivolti a tutti coloro che sono colpiti dal virus e a coloro che stanno lavorando duramente per aiutare tutti a superare questo momento difficile. Infine, al momento non sto usando molto i social media, quindi tenete presente che forse non vedrò le vostre risposte. Ripeto che adesso non userò i social media perché sto lottando con la mia salute mentale e Twitter non è sempre il posto migliore dove trovarsi in tali circostanze. Tornerò quando starò meglio.

Coronavirus, da Valencia a Tgcom24: "Noi italiani derisi, qui sono arrivati in ritardo con le chiusure". TGcom il 26 marzo 2020. "Mi meravigliavo degli aerei che ancora il 4 marzo atterravano da Orio con centinaia di connazionali, giunti per il Festival delle Fallas, interrotto solo allʼultimo", commenta Vittoria, da anni residente in Spagna. "Non so se c'entra la partita con l'Atalanta, non so se c'entrano il corteo dell'8 marzo o le Fallas; so che anche qui siamo arrivati in ritardo ad affrontare il coronavirus". Da dieci giorni in quarantena con la famiglia a Valencia, su disposizioni del governo Sanchez, Vittoria, trentenne italiana, esprime a Tgcom24 tutto il suo sgomento. "Per business hanno interrotto il più tardi possibile i tradizionali festeggiamenti di San Giuseppe; ricordo che noi italiani eravamo derisi per le nostre preoccupazioni, informati com'eravamo di quello che avveniva nel nostro Paese", racconta. Mentre il rimpallo di responsabilità per la pandemia di Bergamo continua tra Valencia (e il suo club calcistico) e gli esperti italiani (anche l'Iss e da ultimo il commissario Borrelli valutano come ipotesi che tifosi spagnoli e atalantini a San Siro quel 19 febbraio per il match di Champions abbiano potuto innescare il contagio zero nella Bergamasca).

Strade vuote e posti di blocco anche lì a Valencia: che aria si respira da quando è iniziato il lockdown spagnolo?

"Anch'io sto chiusa in casa da dieci giorni; cerco di non guardare troppe notizie per non angosciarmi. Vivo su una strada di passaggio, con i negozi, gente ce n'è ancora in giro. Mi arrivano foto della piazza principale che è vuota ed è inusuale, ma non mi risulta il coprifuoco come in Italia. Ma anche qui si respira un'aria di incertezza. Tutti i giorni alle 20 c'è l'applauso comunitario dalle finestre, dal primo giorno. Emotivamente molto coinvolgente".

Mentre a Valencia e in tutta la Spagna la vita continuava normalmente, le notizie che riceveva dall'Italia erano di piena emergenza: che idea si faceva?

"Qui in Spagna il problema coronavirus è stato sottovalutato, ma seguivo la questione in Italia, meravigliandomi degli aerei carichi di turisti che arrivavano da Orio e da Roma a Valencia per le Fallas. Com'è possibile?, mi chiedevo sapendo dell'emergenza in Italia. Proprio le Fallas, la festa più grande e attesa di Valencia, era iniziata il primo marzo e nessuno intendeva fermarla anche perché in un mese di festival girano 4 milioni di persone e un grande business. Poi, alla fine, il 13 marzo, per decisione del governo centrale, anche le Fallas si sono fermate; tutto rimandato a luglio e nella piazza principale è rimasto da bruciare il busto dell'opera-simbolo, la Meditatrice, alla quale hanno messo una mascherina. Ciò, mentre dall'Italia le notizie ci angosciavano: qui la comunità italiana è molto numerosa e tutti si chiedevano se andare a lavoro normalmente. Io alla fine ho deciso di mettermi in telelavoro da subito, prima del discorso al Paese del presidente Sanchez".

Una situazione surreale?

"All'inizio noi italiani qui venivano derisi, perché eravamo molto in allarme; eravamo preoccupati; eravamo un passo avanti in questo senso, ma non venivano presi sul serio. Si poteva forse evitare il disagio che verrà con un po' più di intelligenza e serietà. Noi le Fallas quest'anno non le abbiamo vissute, proprio per questo motivo. C'era gente di tutto il mondo, turisti, troppi assembramenti nella piazza principale e li ritenevo un pericolo. Facevo giri all'aria aperta ma con le dovute distanze. Quando l'Oms ha sancito la pandemia, il governo spagnolo si è svegliato e ha deciso di chiudere tutto. Il giorno prima non c'era da preoccuparsi, il giorno dopo tutti a casa".

Come vive la quarantena: routine stravolta, ansie?

"Non ci vediamo più neanche con i vicini. Alla fine si esce solo per buttare la spazzatura. E pensare che fino a due giorni prima lo stesso governo assicurava che non ci fosse bisogno di bloccare le Fallas. Abbiamo vissuto i primi giorni con l'incubo di esserci ammalati. E ora sono soprattutto preoccupata anche in ambito lavorativo, i prossimi mesi saranno molto duri. Provo preoccupazione mista a rabbia per la disorganizzazione dei governi dei vari Paesi, con ognuno che agisce in maniera diversa senza coordinamento europeo. Il contagio era prevedibile. Certo, ora la routine è stravolta; cerco di non far annoiare il mio bambino e di stare allegri; ci colleghiamo tutto il giorno con i famigliari in Italia".

Sulla stampa locale che notizie ha dell'emergenza sanitaria? Anche lì si ipotizza che il coronavirus sia arrivato prima di metà febbraio nella Regione Valenciana o è solo un'ipotesi che si segue in Italia e che vorrebbe spiegare la pandemia di Bergamo?

"Lunedì nella Comunitat Valenciana si erano registrati 25 decessi in più e 297 nuovi positivi in 24 ore, leggevo su Las Provincias, per un totale di 1.901 infetti e  94 vittime; ci sono anche 378 malati tra i sanitari. Situazione, dunque, in evoluzione, con altri 15 giorni di lockdown che ci aspettano. Per quanto riguarda la partita, sì, i contagi anche qui dicono siano potuti iniziare da lì: positivi di Valencia insieme a positivi di Bergamo a San Siro avrebbero dato vita a un contagio massivo, come riporta in questi giorni, tra gli altri, anche Mundo Deportivo. Ricordo della polemica per la gara di ritorno che si è giocata a porte chiuse, con i tifosi fuori dallo stadio tutti ammucchiati".

Il primo pensiero quando si tornerà alla normalità?

"La voglia più grande non è solo che passi tutto questo, e la vedo abbastanza lunga, ma è di tornare in Italia, riabbracciare i miei cari, stare un po' con loro e vivere con loro la normalità anche di una passeggiata, che ora sembra un evento storico".

Coronavirus, in Svezia si ride dell'Italia: "Siete ridicoli, non siamo come voi". Redazione AV LIVE il 27/03/2020. La Svezia è l’unico paese in tutto il vecchio continente che di fatto non ha applicato misure restrittive per contenere il coronavirus. Come sottolinea l’edizione online di Repubblica, il governo ha deciso di chiudere le scuole solamente per gli studenti dai 16 anni in su, università comprese, e vietato gli assembramenti superiori alle 500 persone. Per il resto, il nulla. Una ragazza italiana che si trova a Goteborg, una delle città più importanti della Svezia, ha deciso di mettersi in quarantena come molti suoi connazionali, ma gli svedesi li hanno derisi con frasi quasi razziste: “noi non siamo come voi, non ci accadrà nulla, siete ridicoli”. La Svezia ha optato per continuare la vita di prima, con gli uffici aperti, e i mezzi pubblici fra bus, tram e metro che all’ora di punta sono stracolmi.

La strategia dell’Italia contro il Coronavirus: prima derisa poi copiata da tutti. Pietro Lepidi il 21 marzo 2020 su  thewisemagazine.it il 21 marzo 2020. Noi italiani siamo sempre pronti a criticare ogni singola disposizione del governo e facciamo bene. Anni di mala amministrazione della cosa pubblica e di personalità politiche mediocri ci hanno abituato a essere cauti. Tuttavia, per quanto riguarda la lotta al coronavirus bisogna ammetterlo: il governo italiano e i suoi cittadini hanno azzeccato in pieno la strategia vincente per combattere il Covid-19. Gli altri paesi del mondo prima ci hanno guardato con diffidenza, poi ci hanno considerati degli untori, poi ci hanno derisi e infine ci hanno copiato. Ormai è molti giorni che siamo chiusi in casa aspettando il giorno in cui potremo finalmente tornare a fare un giro in centro o vedere gli amici dal vivo, ma soprattutto aspettando il giorno in cui dovrebbero iniziare a diminuire i contagi, con alcuni giornali che parlano di picco imminente e altri che prospettano ancora molte settimane di crisi. Noi ci stiamo forse ormai abituando a questo stato di quarantena, dopo gli avvenimenti dell’ultimo mese che hanno costretti a correre precipitosamente ai ripari congelando gradualmente tutte le attività sociali e molte delle attività produttive del paese. Tra l’8 e il 9 marzo l’Italia si fermata e si è chiusa in casa mentre il mondo guardava incredulo il numero crescente di contagi registrato nel nostro paese dopo il primo caso di Lodi del 20 febbraio. Diciamolo pure, abbiamo fatto benissimo a fermare il paese. Qualsiasi altra misura meno restrittiva avrebbe messo in ginocchio il nostro sistema sanitario più di quanto questo virus non stia già facendo ora. La stragrande maggioranza degli italiani ha rispettato i decreti del presidente del consiglio e si è spostata da casa solo se necessario, le città italiane si sono svuotate e gli ospedali stanno con tenacia combattendo il virus al meglio delle loro possibilità. L’Italia si è gradualmente blindata per fermare il Coronavirus e mentre lo abbiamo fatto i paesi occidentali ci hanno guardato con sospetto e indifferenza. Una prima reazione è stata quella di bloccare i cittadini italiani in viaggio all’estero. Il 27 febbraio, solo una settimana dopo il primo infetto nel lodigiano, già dodici paesi avevano bloccato l’ingresso agli italiani: Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Mauritius, Turkmenistan, Iraq, Vietnam, Capo Verde, Kuwait, Maldive e Seychelles (oggi sono 43). Mentre sono bastati quattro giorni alle autorità delle Mauritius per decidere di respingere quaranta italiani provenienti dalle regioni allora più a rischio e rispedirli indietro «come pacchi». Incredibilmente, sono improvvisamente ritornate le frontiere nell’Unione Europea, con l’accordo di Schengen prima timidamente difeso poi abbandonato. D’altra parte, nessuno aveva immaginato o molti governi hanno fatto finta di non sapere che il virus per arrivare in Italia doveva aver attraversato l’intera Europa e che quindi bloccare gli italiani avrebbe fatto poco per fermare l’epidemia. In queste ultime settimane sembrava che l’emergenza fosse tutta e solo italiana (al più cinese). I paesi che consideriamo nostri alleati invece di aiutarci ci hanno deriso e ostacolato. Prima attraverso l’emittente francese Canal+ e la sua “pizza al coronavirus” poi è stato il turno del medico inglese Christian Jessen secondo cui il Coronavirus era «una scusa per gli italiani per non fare niente». Dal punto di vista istituzionale, la Germania voleva bloccare tutte le esportazioni delle mascherine verso l’Italia che disperatamente le richiedeva, in barba a tutti gli accordi europei di libero scambio. La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen è riuscita a impedire questa violazione dei trattati ma i suoi provvedimenti non sono bastati a fermare lo sgretolamento di tutte le principali disposizioni dell’UE, da Schengen a Maastricht. A rincarare la dose ci ha pensato poi la presidente della BCE Christine Lagarde, che per le sue dichiarazioni ha fatto rimpiangere a tutti i mercati finanziari europei il «whatever it takes» del buon Mario Draghi. A poco è servito l’appello alla solidarietà di Maurizio Misani, ambasciatore italiano presso l’Unione Europea. Mentre alcuni stati, come il Belgio, attuavano misure restrittive blande e altri, come l’Inghilterra, sostenevano apertamente posizioni antiscientifiche come l’idea di combattere il virus attraverso l’immunità di gregge in mancanza di vaccino, in Italia molti si chiedevano: non è che stiamo sbagliando noi? Non avremmo esagerato nei provvedimenti restrittivi? Ha ragione Trump quando il 10 marzo definiva il Coronavirus «meno grave dell’influenza»? Perfino Joe Biden, candidato dem di punta nella corsa alle presidenziali USA si è permesso di attaccare il sistema sanitario italiano nel dibattitto di domenica scorsa contro Bernie Sanders. Mentre Biden difendeva la sanità privata USA, Anthony Fauci, direttore dell’istituto nazionale USA contro le malattie infettive (NIAID), affermava «il nostro sistema di controllo del Coronavirus non è pronto per ciò che stiamo affrontando». Sì, avevamo ragione noi, in questa settimana moltissimi paesi hanno adottato provvedimenti restrittivi “all’italiana” che hanno dimostrato l’efficacia della quarantena nel combattere il Coronavirus. Dopo i primi tentennamenti anche Donald Trump e Boris Johnson, i più restii a bloccare l’economia dei loro rispettivi paesi, si sono convinti a blindare le loro nazioni. Per una volta possiamo dirlo: l’Italia, nonostante tutte le divisioni politiche, le polemiche, le inosservanze di alcuni cittadini incoscienti, ha fatto la cosa giusta. E per una volta possiamo dire anche questo, che l’Italia ha insegnato alle democrazie occidentali come gestire una crisi pandemica, e se il mondo avesse adottato con la stessa lungimiranza le stesse misure restrittive e di contenimento del Covid-19 che l’Italia ha utilizzato per prima, oggi la situazione sanitaria ed economica mondiale sarebbe maggiormente sotto controllo.

Rocco Cotroneo per il “Corriere della Sera” l'1 aprile 2020. Rimasto isolato persino dall' amico Donald Trump e da altri ex ostinati negazionisti come il messicano López Obrador, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro insiste nella sua linea sulla pandemia, creando l' ennesimo caso internazionale e un impasse interno di rara complessità. «Meglio morire di coronavirus o di fame?», è l' ennesima provocazione lanciata ieri ai giornalisti che lo attendevano fuori dalla residenza ufficiale, e ai quali Bolsonaro ha dedicato la dose quotidiana di insulti. Negli ultimi giorni il leader di estrema destra è stato sommerso dalle critiche per aver passeggiato tra la folla alla periferia di Brasilia, e aver spinto per il ritorno al lavoro e alla normalità. Contro le indicazioni dello stesso ministro della Salute, la cui poltrona è in serio pericolo, e di quasi tutti i governatori e i sindaci che con le loro ordinanze hanno chiuso i brasiliani in casa. Dopo che Bolsonaro e i suoi tre figli hanno postato in modo provocatorio i video del bagno di folla di domenica, i social hanno optato per una decisione umiliante. Facebook, Instagram e Twitter hanno cancellato i messaggi del clan presidenziale, perché, hanno detto, «la disinformazione» in essi contenuta può provocare «gravi danni alle persone». Nei giorni scorsi il presidente aveva definito il Covid-19 «una influenza come tante». Gli effetti pratici della posizione di Bolsonaro, per ora, sono pochi. I brasiliani che possono permetterselo continuano a rispettare la quarantena e il presidente ha dovuto rinunciare a due iniziative. Una campagna nazionale dal titolo «Il Brasile non può fermarsi» è stata bloccata sul nascere dalla giustizia, e anche la tentazione di emettere decreti federali contro quelli degli enti locali si è rivelata una strada difficile. La Corte suprema potrebbe dichiararli nulli.

Quanto pagheremo per i negazionisti del Coronavirus (quelli che è una “normale influenza”). Giovanni Drogo l'11 Marzo 2020 su Next Quotidiano. Il coronavirus Covid-19? Poco più che una normale influenza, spiegava qualche giorno fa il Presidente della Lombardia Attilio Fontana. E chissà come spiegherà ai suoi concittadini che ora ha intenzione di fermare tutte le attività produttive ed economiche della regione per una quarantena totale di 15 giorni a causa di una “banale influenza”. Fortunatamente al Pirellone sembrano essersi finalmente resi conto che Covid-19 non è affatto come l’influenza, ma ci sono molti altri che invece pensano che il coronavirus non presenti davvero maggiori rischi dell’influenza stagionale.

Donald Trump che dice che il coronavirus è come l’influenza e quello strano tweet di Elon Musk. È il caso ad esempio del Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump che un paio di giorni fa su Twitter scriveva che l’influenza uccide tra le 27.000 e le 70.000 persone all’anno e che ciononostante nessuno pensa di chiudere negozi, uffici o fabbriche. «La vita e l’economia continuano. In questo momenti ci sono 546 casi confermati di coronavirus, con 22 decessi. Pensateci!», scriveva il 9 marzo il Presidente USA. Oggi, 11 marzo, i casi di coronavirus negli States sono 1.039, i decessi 29. In realtà sappiamo che non è così. Quella da Covid-19 non è un’epidemia di “banale influenza” soprattutto per tre semplici ragioni: non esiste un vaccino, non esiste una cura, la totalità della popolazione mondiale non ha sviluppato anticorpi contro questo nuovo virus e quindi potenzialmente tutti possono ammalarsi. Un altro Vip che è stato molto criticato è il fondatore di Tesla Elon Musk che in un tweet del 6 marzo ha scritto «il panico per il coronavirus è idiota» e nulla più. Ora non si capisce se Musk sta dicendo che è da stupidi farsi prendere dal panico per il coronavirus (magari assaltando i supermercati o altre cose) o se sta dicendo che è da idioti preoccuparsi per il coronavirus. La frase in sé è davvero poco chiara e il rischio che venga fraintesa è davvero alto. In una successiva reply Musk però sostiene che «le navi con a bordo molte persone e una scarsità di strutture mediche sono un problema serio». Probabilmente sta parlando delle numerose navi da crociera bloccate o messe in quarantena per il coronavirus. E sembra quindi che la prima interpretazione (quella sul fatto che è inutile reagire in maniera irrazionale alle notizie sul coronavirus) sia quella corretta. In un altro tweet però Musk scrive che «la capacità di contagio di Covid-19 è sovrastimata» a causa di una eccessiva estrapolazione della crescita esponenziale dei contagi «che non è quello che accade nella realtà». Secondo Musk continuando a fare questo genere di calcoli «il virus supererà la massa dell’universo conosciuto». Quindi sì, per Musk quello che si sta dicendo a proposito dell’epidemia di Covid-19 è esagerato.

I VIP italiani che spiegano che è solo un’influenza. In Italia abbiamo la nostra buona dose di VIP che ritengono di saperla lunga, più di virologi e scienziati.  In un video pubblicato due giorni fa dal titolo “Il virus del buco del culo” Vittorio Sgarbi se la prende con i virologi Burioni e Pregliasco dicendo che «se bevi un tè caldo» il coronavirus «è già morto» e che non serve convincere gli italiani che c’è un pericolo: «io giro ovunque, le uniche zone che mi attraggono sono le zone rosse, io vorrei andare a Codogno, a Vò». Sgarbi non crede a medici, virologi ed esperti «non mi convincono». Anzi lui «non crede al coronavirus, ci deve essere qualcosa dietro che vogliono far passare, ci deve qualche malessere, qualche influenza ma con questo devo cambiare completamente la vita per avere tremila letti in più per mettere uno a cui è venuto il raffreddore?? Non c’è un cazzo!». Eleonora Brigliadori invece ha fatto sapere sempre tramite Facebook che lei non si farà certo fermare dal decreto del Governo che invita gli italiani a evitare tutti gli spostamenti ad eccezione di quelli necessari e urgenti. «Uscirò quando e dove vorrò e incontrerò tutte le persone che devono rincuorare le proprie forze nella libertà soprattutto in questo momento perché hanno chiuso le chiese ma l’anima umana», ha scritto l’ex conduttrice televisiva. La settimana scorsa invece era stato il presidente di Hausbrandt Martino Zanetti a rilanciare una famosa teoria del complotto sul coronavirus dicendo che: «il Coronavirus non esiste, se questa è una pandemia allora ce l’abbiamo tutti gli anni. È una falsità palese costruita dal governo francese per sabotare i progetti di “Via della Seta” fra Pechino e Venezia». Zanetti ha aggiunto anche un consiglio: «come uomo dissento totalmente dai meccanismi di coercizione mascherati da ordini di tutela della salute pubblica e ai miei collaboratori consiglio di viaggiare e muoversi liberamente senza preoccupazioni». Lo show di oggi invece è gentilmente offerto dal senatore di Forza Italia Massimo Mallegni che in un video ci tiene a far sapere che questa cosa che circola “si chiama influenza” e che non dobbiamo assolutamente preoccuparci: «stamani aereo Pisa-Roma pieno di gente, nessun cavaliere mascherato in giro, d’altra parte qualcuno ha la psicosi nella testa ma evitiamo di essere deficienti, cerchiamo di uscire e di usare il cervello: non siamo noi ad aver contagiato i cinesi ma sono i cinesi che hanno avuto questo problema che si chiama influenza. Quindi evitiamo di essere presi per coglioni, chiaro?». Anche il senatore ci tiene a dispensare consigli: «torniamo a riempire gli autobus, torniamo a riempire i treni, torniamo a riempire gli aerei, mi raccomando, ce la possiamo fare». Ma a fare cosa?

Diario virale. I giorni del coronavirus a Bulåggna (22-25 febbraio 2020). Pubblicato il 25.02.2020 da Wu Ming. Le mascherine erano pantomima, non prevenzione. La maggior parte della gente lo aveva capito, oppure prevaleva il timore del ridicolo: era pur sempre una città che amava stare in ghingheri. Fatto sta che le mascherine si vedevano quasi solo sui giornali e sui siti dei giornali. Nei primi giorni, si era trattato sempre di operatori sanitari, infermieri, gente che lavorava in ospedale, poi erano arrivate a valanga le foto dal presunto “shock value” (oooooh!): tizi con la mascherina davanti al Duomo di Milano o in altri luoghi famosi. A Bologna, l’edizione locale di Repubblica mostrava ogni giorno foto di qualcuno che girava sotto i portici con la mascherina. Per la verità, era sempre un fagiano isolato, attorniato da altre e altri che non la indossavano e forse lo compativano. Eppure Chiara, che lavorava in farmacia, ci raccontava di quante persone entravano e le chiedevano mascherine, dopo aver superato almeno cinque cartelli che avvisavano del loro esaurimento. Un conoscente si vantava di averne acquistate on line un pacco da dieci, per tutta la famiglia, già all’inizio di febbraio. Comprare la mascherina era un modo per sentirsi efficienti, pronti alla battaglia. Omologati e quindi più sicuri. Era il desiderio per un oggetto solo perché lo desiderano gli altri. Un mix di consumismo e paranoia. Very emiliano. La mascherina era l’equivalente individuale, personal, delle «misure di prevenzione» imposte alla cittadinanza. Non c’era bisogno di indossarla davvero. Contava il gesto: come certi eroinomani che rimangono dipendenti dal buco, anche senza iniettarsi la roba. Tornato a casa, te ne dimenticavi, la imbucavi in un armadio e tanti saluti. Pura funzione apotropaica. Un talismano. Nel frattempo, proprio facendo la coda in farmacia, potevi esserti beccato il virus. La deterrenza produce quel che vorrebbe evitare. Nel tardo pomeriggio del 23 febbraio avevamo perlustrato due quartieri – Navile e Porto – in cerca di mascherine. Da poche ore era arrivata l’ordinanza del governatore Bonaccini, tanto perentoria quanto ambigua nelle formulazioni, anche per via di un inquietante eccetera: «Sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di aggregazione in luogo pubblico o privato, anche di natura culturale, ludico, sportiva ecc, svolti sia in luoghi chiusi che aperti al pubblico […]». Non avevano scritto «politica e sindacale», ma nell’eccetera molti avevamo letto precisamente quello. «Il 29 c’è la manifestazione per Orso in Cirenaica», si diceva nelle mailing list. «Che faranno? Mandano la Celere a caricarci in quanto “untori”?». L’ordinanza proseguiva: «chiusura dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, corsi professionali, master, corsi per le professioni sanitarie e università per anziani ad esclusione dei medici in formazione specialistica e tirocinanti delle professioni sanitarie, salvo le attività formative svolte a distanza […] Sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura […] nonché dell’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero o gratuito a tali istituti o luoghi.». I musei… ma non le biblioteche. Noi stessi, nei giorni seguenti, avremmo continuato a lavorare nella sala studio di una biblioteca di quartiere, piena zeppa di gente. L’ordinanza era piena di nonsense e buchi, tanto che il giorno dopo una circolare applicativa avrebbe tentato di mettere toppe, col solo risultato di rendere la situazione ancor più contraddittoria e surreale. Dicevamo della perlustrazione. La Bolognina era piena di gente. In Piazza dell’Unità si giocava a basket e si chiacchierava a capannelli, come sempre. Lì accanto, il supermercato Pam era aperto e affollato, come al solito. Nessuno faceva incetta nevroticamente, nessuno portava la mascherina. C’erano scaffali semivuoti, ma la domenica sera succede sempre. Giusto il ristorante cinese, la sera prima, aveva un aspetto diverso. In un sabato normale, era impossibile trovare un posto a sedere senza aver prenotato. Invece, in tutto il locale, i clienti occupavano soltanto due tavoli. In compenso i cinesi erano dappertutto, com’era normale in Bolognina, e nessuno che li scansasse o gridasse loro qualcosa. L’emergenza sanitaria non faceva diventare razzista o sinofobo chi non lo era. Semmai, faceva emergere un razzismo pre-esistente, che usava il virus come pretesto per sfogarsi. Un tramonto di una bellezza da restare attoniti tingeva il cielo di scarlatto e carminio, per contrasto facendo sembrare nera la stazione vista dal ponte Matteotti, e trasfigurando tutto il mondo intorno. Il giorno dopo, avremmo rivisto quei colori su Repubblica on line, a far da sfondo per posti di blocco e gente in mascherina, come nella locandina di un film apocalittico di serie B. A nord del ponte, la Bolognina; a sud, via Indipendenza saliva fino al Nettuno. Eravamo entrati in stazione ed era affollatissima, zero mascherine anche lì. Avevamo incontrato De Bellis, una vecchia conoscenza, e scambiato due chiacchiere sulla psicosi da coronavirus… ma intorno a noi non ce n’era traccia. Normalità anche dentro il Despar della stazione, niente incetta, c’era chi comprava solo tre birre, un sacchetto di Fonzies… Intorno a piazza Medaglie d’oro i soliti bar, le pizzerie al taglio, le gelaterie… Tutto come di consueto. Via Indipendenza, via dei Mille, Piazza dei Martiri, via Marconi… Là in alto, la sagoma scura di Villa Aldini. Moltitudine di corpi a passeggio. Bambine e bambini tornavano in costume da feste di carnevale, coi loro genitori. Genitori tranquilli e sorridenti. Eppure, come appurato direttamente e da testimonianze altrui, le chat di genitori – il vero inferno del dark web contemporaneo – erano in preda alla pazzia, sature di un vero e proprio desiderio di fascismo profilattico, e di terrore per le sorti dei bambini. L’allenatore di uno sport di squadra, per ovviare alla chiusura della palestra, aveva proposto ai ragazzini di trovarsi in un parco, visto il caldo primaverile. Una madre gli aveva risposto sottolineando il passaggio dell’ordinanza regionale che vietava l’aggregazione in luoghi pubblici e privati. Eppure, in nessuna parte del mondo, nemmeno a Wuhan, risultavano morti minorenni, anzi, sembrava proprio che al nuovo virus i bambini fossero quasi immuni. Forse anche chi rovesciava nelle chat quell’ansia e quella furia, dopo, per strada, si comportava da persona raziocinante. Anche quello era un gesto apotropaico. Uguale e contrario a quello di chi sosteneva che il virus era solo una barzelletta e sfornava calembours, si dava alla memetica spinta, cazzeggiava a getto continuo. Il cinismo e la paranoia vanno a braccetto, si nutrono della stessa sfiducia, dello stesso rifiuto per qualunque chiave di lettura del mondo. Senza chiavi, non entri più da nessuna parte. E se ti scappa da cagare, puoi solo cagarti addosso. In ogni caso, se uno non avesse avuto lo smartphone, girando per le vie non si sarebbe accorto di nulla. Cosa dovevamo concluderne? Forse che, almeno a Bologna, la paranoia era in gran parte confinata alla sfera mediatica-social. A essere paranoica e ansiogena era stata per prima l’informazione mainstream. In seconda – ma rapidissima – battuta quel mood si era impossessato della classe politica, degli amministratori locali e di una minoranza di persone comuni. Sì, almeno da noi, sembrava proprio una minoranza: persone perlopiù attempate e sole, che credevano alla tv o a Facebook e si precipitavano in farmacia per accaparrarsi l’amuchina. Si stava generando un grande paradosso: la Regione Emilia-Romagna disponeva la chiusura di (quasi) tutti i luoghi di cultura e socialità, quelli dove si sarebbe potuta elaborare insieme l’emergenza – scuole, musei, teatri, cinema – e vietava le manifestazioni con un «ecc», mentre la gente continuava ad ammassarsi nelle stazioni e nei luoghi del consumo. I centri commerciali e i supermercati funzionavano as usual. Quel pomeriggio Jadel era stato all’Ikea e riferiva del sempiterno marasma di corpi che avanzavano a serpentone, tra camerette di bimbi virtuali e tinelli abitati da spettri di famigliole. Bruno era passato all’Ipercoop Lame: piena zeppa. Nelle palestre – le vedevi attraverso le vetrate che davano sui passeggi – ci si allenava come al solito: si sudava, ci si respirava l’alito a vicenda, ci si spogliava e si faceva la doccia negli stessi vani. Sia chiaro, non stiamo dicendo che dovevano chiudere anche quelli: al contrario, facciamo notare che lo scopo dell’ordinanza non era la profilassi. Stante quella situazione, che profilassi vût mâi fèr? Le strombazzate chiusure erano sanitariamente inutili, com’era stato inutile bloccare i voli, mettere posti di blocco sulle strade, far camminare avanti e indietro poliziotti e militari in mimetica. L’Italia era stata l’unico paese europeo a bloccare i voli dalla Cina. Null’altro che teatro, oltreché un contentino agli idioti e mestatori che sbraitavano: «Chiudere le frontiere!» Un provvedimento facilissimo da capire, ma di nessuna utilità, anzi, controproducente. A ogni epidemia si facevano le stesse cose, col pilota automatico, e ormai c’erano studi su studi a dimostrare che non servivano o facevano proprio danni. Nel 2003, in piena epidemia di SARS, il Canada aveva sperperato oltre 7 milioni di dollari in controlli di passeggeri in arrivo… senza trovare un solo contagiato. Quei soldi, avevano concluso gli autori di uno studio apparso sulla rivista scientifica Emerging Infectious Diseases, sarebbe stato meglio investirli direttamente nella sanità. Sei anni dopo, in pieno allarme da influenza «suina», l’Australia aveva fatto la stessa cosa: aveva militarizzato otto aeroporti e controllato quasi due milioni di passeggeri in arrivo o di ritorno nel Paese. Il tutto per identificare solo 154 persone che forse avevano l’influenza in forma lieve. Anche in quel caso, a detta di chi aveva analizzato la vicenda, si erano sprecate preziose risorse, sottraendole alla sanità. Lo stesso sfoggio di inutilità si era avuto con l’aviaria, con Ebola e, in Cina negli ultimi due mesi, con lo stesso Covid 19. Pure in Italia stavamo assistendo a un gigantesco sperpero di soldi pubblici, spesi in militarizzazione, posti di blocco e pattugliamenti vari anziché usati per potenziare la sanità pubblica – indebolita da trent’anni di «aziendalizzazione», tagli, esternalizzazioni – per renderla in grado di affrontare un acuirsi della crisi. Anche l’efficacia sanitaria dei “lockdown” territoriali, cioè delle quarantene di massa, era messa in discussione da diversi studi. Per quanto fosse controintuitivo, alcune ricerche sembravano dimostrare che i lockdown delle zone ad alto rischio aumentavano il numero di contagi e l’estensione dell’epidemia. No, la profilassi – almeno quella in senso stretto – c’entrava poco, come con le mascherine.

La situazione in pugno. «Chiudere tutto» aveva una finalità a breve termine diversa da quella sbandierata, e poi aveva una funzione sistemica, oggettiva, a lungo termine, di cui Bonaccini e la sua giunta – e i loro omologhi di altre regioni – erano solo esecutori semiconsapevoli. La finalità a breve termine era fare teatro: esibire «prontezza» e «nerbo» a favore di telecamere, mostrare che «si stava agendo», poco importava se a cazzo di cane e senza costrutto, l’importante era agire, subito! «Subito» era la parola magica: «Bravo Bonaccini che si è mosso subito!» . L’altro concetto virale era: «Meglio troppo che troppo poco». Seguivano i like. La rappresentazione più plastica di quell’atteggiamento l’aveva fornita il governatore della Regione Marche, che parlando in conferenza stampa, aveva prima annunciato la chiusura di tutte le scuole di ogni ordine e grado, per rimangiarsi il provvedimento seduta stante, dopo aver ricevuto in diretta una telefonata dal governo nazionale. Le decisioni drastiche servivano giusto a pararsi il culo e a stendere un velo sul solito pressapochismo. La funzione sistemica, invece, aveva a che fare con la biopolitica, con il governo dei corpi e il controllo della popolazione. Come ogni “emergenza” pompata e montata, anche questa tornava buona per stabilire un precedente. «Chiudere tutto» – o meglio, fingere di chiudere tutto – non serviva a niente, ma non appena la situazione fosse migliorata, i politici avrebbero dato il merito ai provvedimenti. Il tran tran sarebbe ricominciato, ma con più controllo di prima, più sorveglianza, e con l’idea condivisa che da un giorno all’altro si poteva bloccare la cultura, vietare ogni riunione, associazione, “assembramento” di persone non finalizzato al mero consumo, col consenso di un’opinione pubblica impaurita («Qualcosa si deve pur fare!»). O meglio: col consenso dei media e di una minoranza rumorosa di imparanoiati, che creavano l’effetto di un’opinione pubblica impaurita. Nel suo capolavoro Sorvegliare e punire (1975), Michel Foucault aveva descritto un “lockdown” del XVII secolo: «Ecco […] le precauzioni da prendere quando la peste si manifestava in una città. Prima di tutto una rigorosa divisione spaziale in settori: chiusura, beninteso, della città e del “territorio agricolo” circostante, interdizione di uscirne sotto pena della vita, uccisione di tutti gli animali randagi; suddivisione della città in quartieri separati, dove viene istituito il potere di un intendente. Ogni strada è posta sotto l’autorità di un sindaco, che ne ha la sorveglianza; se la lasciasse, sarebbe punito con la morte. Il giorno designato, si ordina che ciascuno si chiuda nella propria casa: proibizione di uscirne sotto pena della vita. Il sindaco va di persona a chiudere, dall’esterno, la porta di ogni casa; porta con sé la chiave, che rimette all’intendente di quartiere; questi la conserva fino alla fine della quarantena. Ogni famiglia avrà fatto le sue provviste, ma per il vino e il pane saranno state preparate, tra la strada e l’interno delle case, delle piccole condutture in legno, che permetteranno di fornire a ciascuno la sua razione, senza che vi sia comunicazione tra fornitori e abitanti; per la carne, il pesce, le verdure, saranno utilizzate delle carrucole e delle ceste. Se sarà assolutamente necessario uscire di casa, lo si farà uno alla volta, ed evitando ogni incontro. Non circolano che gli intendenti, i sindaci, i soldati della guardia e, anche tra le cose infette, da un cadavere all’altro, i “corvi” che è indifferente abbandonare alla morte: sono “persone da poco che trasportano i malati, interrano i morti, puliscono e fanno molti servizi vili e abbietti”. Spazio tagliato con esattezza, immobile, coagulato. Ciascuno è stivato al suo posto. E se si muove, ne va della vita, contagio o punizione.» La noncuranza per la sorte dei “corvi” – infermieri, portantini, ausiliari sanitari – accomunava quel regolamento dei tempi della peste ai giorni del Covid 19 in Italia. Pochi sembravano preoccuparsi del superlavoro in ospedali e laboratori, dei turni raddoppiati e triplicati, dell’esaurimento psicofisico del personale in un settore da tempo in sofferenza. Perché Foucault aveva scritto di quarantena nel XVII secolo? Perché quella logica era sopravvissuta anche dopo la peste, la quarantena era rimasta come possibilità, opzione sempre praticabile nel rapporto tra pubblici poteri e corpo sociale. Quel normare lo spazio urbano, le vite e i corpi aveva aperto la strada all’affermarsi delle società disciplinari del XIX-XX secolo: «Alla peste risponde l’ordine: la sua funzione è di risolvere tutte le confusioni: quella della malattia, che si trasmette quando i corpi si mescolano; quella del male che si moltiplica quando la paura e la morte cancellano gli interdetti. Esso prescrive a ciascuno il suo posto, a ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morte, a ciascuno il suo bene per effetto di un potere onnipresente e onnisciente che si suddivide, lui stesso, in modo regolare e ininterrotto fino alla determinazione finale dell’individuo, di ciò che lo caratterizza, di ciò che gli appartiene, di ciò che gli accade. […] la penetrazione, fin dentro ai più sottili dettagli della esistenza, del regolamento ­– e intermediario era una gerarchia completa garante del funzionamento capillare del potere; non le maschere messe e tolte, ma l’assegnazione a ciascuno del suo “vero” nome, del suo “vero” posto, del suo “vero” corpo, della sua “vera” malattia. La peste come forma, insieme reale e immaginaria, del disordine ha come correlativo medico e politico la disciplina.» I “lockdown” del 2019-2020, inutili allo scopo dichiarato, avrebbero però rafforzato la presa del «capitalismo della sorveglianza», che realizzava una sintesi di società disciplinare e società del controllo diffuso. In ogni caso, in Italia non c’era la peste. I pochi morti che il Covid 19 aveva fatto erano quasi tutti over 80 e già debilitati da altre patologie. Probabilmente il virus era già in Italia da settimane, un sacco di gente se l’era già preso ed era guarita, e altri se lo stavano prendendo senza entrare nei radar. Se non eri già messo male di tuo, poteva colpirti duro, ma la superavi. In fondo il quadro clinico era molto simile a quelli delle influenze stagionali – che ogni anno, solo in Italia, uccidevano ottomila persone, mentre al momento i morti accertati per Covid 19 erano solo sette (7). I media aizzavano a trovare il misterioso «Paziente zero», ma forse non lo trovavano perché era già guarito, e sarebbe stato per sempre ignaro del proprio status di contagiato n.1. E la ricerca del «Paziente zero» cos’era, se non un’altra manifestazione di paranoia? Paranoico è chi, anziché domandarsi «cosa?», si domanda: «Chi?» Paranoico non è chi teme un potere totalitario che tutto controlla, ma chi lo evoca e in fondo lo brama, perché sente marcire, intorno a sé, ogni autorevolezza e ogni significato. Nel mentre gli anziani, cioè i soggetti più a rischio, senza particolari tutele, venivano lasciati in balia di un’informazione apocalittica, che li bombardava con immagini di supermercati svuotati e bottigliette di amuchina in gel ormai introvabili e preziosissime, spingendoli così a precipitarsi in un affollato centro commerciale, dov’era più probabile il contagio. Eravamo il Paese europeo con più casi accertati, ma forse era solo perché facevamo test a pioggia. Quando in tutta la Francia, senza scomporsi, ne avevano fatti solo 800, soltanto nel Lodigiano noi ne avevamo già fatti più del doppio e richiesti ben 4000. È chiaro che in quel modo trovi ammalati. Ma i media pestavano, pestavano, pestavano, con coperture sempre più forsennate, titoli sempre più allarmistici, e sembrava la grande pestilenza del 1348.

– Che dobbiamo fare? – c’eravamo chiesti.

– Scriveremo il Decamerone!

– Anche meno. Scriviamo un diario collettivo di questi giorni.

I media mainstream erano i veri untori. Di fronte al nuovo coronavirus, la già normalmente pessima informazione italiana aveva toccato il fondo di un nuovo abisso. Tutti i suoi soliti “tic” si erano uniti in un effetto palla di neve che alimentava la psicosi. Anche le notizie in apparenza tranquillizzanti, responsabili, «niente panico», andavano a farcire il classico “panino”, inserite tra affermazioni e testimonianze di segno contrario. Come sempre, poi, imperversava il ritornello sugli «esperti», unici autorizzati a illustrare la soluzione del problema. «Non facciamo politica, lasciamo parlare i tecnici!» Ma appena i tecnici aprivano bocca, risultava chiaro che: L’imperversante.

a) alcuni, da tempo trasformati in opinionisti televisivi e star da social network, erano ormai schiavi del proprio personaggio e delle aspettative del pubblico;

b) alla fine della fiera, le soluzioni proposte erano sempre politiche e sociali, perché fronteggiare un’epidemia con mille o diecimila posti letto in ospedale fa tutta la differenza del mondo, e investire in posti di blocco anziché nell’aumento di posti letto non è una decisione «tecnica», da esperti, ma politica, da amministratori;

c) I potenziali o sedicenti «esperti» erano migliaia e le loro spiegazioni spesso si contraddicevano, generando solo una maggiore confusione e una forte predisposizione al complottismo, perché «se fanno tanto casino, dev’esserci sotto qualcosa che non ci raccontano».

Anche le conseguenze del «chiudere tutto» erano politiche e sociali. Pochi si preoccupavano di quanti avrebbero perso lo stipendio, e in diversi casi anche il lavoro. Al contrario, si lodavano alcuni negozianti cinesi che avevano deciso – obtorto collo – di sospendere le loro attività. Che pensiero carino! Il paternalismo verso quei «bravi cinesi» ricordava molto da vicino quello per i «bravi negri» che facevano volontariato, lavoravano gratis, si meritavano le nostre carezze. I sindacati – tutti: confederali e di base – avevano fatto notare che le incongruenze dell’ordinanza bonacciniana mettevano a rischio un gran numero di lavoratori, soprattutto precari. E la scelta di chiudere le scuole per un virus che non colpiva i bambini e falcidiava soprattutto anziani  – i quali, di norma, non bazzicavano le aule – generava problemi a cascata. Un amico insegnante ci aveva descritto le proprie difficoltà: «Non dare continuità alle attività didattiche in questo momento dell’anno scolastico è un problema, vi assicuro. Per i ragazzi con disabilità che seguo poi… Non  vi dico. Devo cercare in questi giorni di mantenere loro una routine a domicilio che in qualche modo simuli la scuola. Banalmente, compiti che quotidianamente mi devono mandare per email… Già vivono un tempo sfasato e quasi mai sincronico con il resto del mondo… Figuriamoci in queste situazioni.» Nel tardo pomeriggio del 24 era arrivata la circolare applicativa. Sembrava scritta da Ionesco. Eugène Ionesco (1909 – 1994), drammaturgo. Il più noto esponente del «Teatro dell’assurdo». Il criterio per il quale certe attività venivano proibite e altre no sembrava essere quello – alquanto aleatorio – dell’«eccezionale concentrazione di persone». Niente manifestazioni, eventi culturali e sportivi e altre occasioni in cui si aggregava un pubblico una tantum… ma restavano aperti i mercati settimanali. E proseguiva l’attività di centri sportivi e ricreativi, centri anziani (proprio mentre svariati medici consigliavano agli anziani di restare a casa), restavano aperti gli orti urbani (dove si concentravano soprattutto anziani) ecc. In TV e sui giornali tutti parlavano di malattia e ospedali, ma nessuno coglieva l’occasione per parlare di com’era stata compromessa la sanità pubblica italiana in trent’anni di “riforme” neoliberali. I decreti legislativi del 1992-93 avevano introdotto criteri aziendalistici e manageriali nella gestione di ospedali e presidii sanitari territoriali: gli ospedali di rilievo nazionale o altamente specializzati erano stati sganciati dalle unità sanitarie locali e trasformati in «aziende ospedaliere»; le USL stesse – sottratte a ogni controllo da parte dei Comuni – erano divenute aziende, di diritto pubblico ma «con autonomia imprenditoriale». Quegli stessi decreti avevano anche avviato la regionalizzazione della sanità. Di fatto, si trattava di controriforme, volte a ledere l’universalità, capillarità e gratuità del Sistema Sanitario Nazionale com’era stato istituito nel 1978. La controriforma Bindi del 1999 aveva poi implementato e accelerato ogni processo di aziendalizzazione, frammentazione, esternalizzazione, intromissione di interessi privati nella sanità nominalmente pubblica. Le conseguenze erano state devastanti: in base alle nuove logiche di bilancio, se un ospedale non “rendeva” veniva chiuso. In tutta Italia se ne erano sbaraccati a centinaia, quasi sempre in provincia, come erano stati chiusi a migliaia i presidii di specialistica ambulatoriale. Servizi essenziali si erano allontanati di decine e decine di chilometri, in alcuni casi svanendo del tutto. Tutte decisioni prese in ordine sparso, perché la faccenda era ormai di competenza delle diverse regioni. Il servizio sanitario nazionale era da tempo poco più di una bella idea. La scarsità di posti letto per la terapia intensiva era il leitmotiv di quei giorni di coronavirus, ma tale penuria era presentata quasi come un dato “naturale”, ineluttabile. Anziché dire che bisognava invertire la tendenza, e tornare ad aumentare servizi e posti letto, si invitava la gente a chiudersi in casa, ma anche no, dipende, puoi andare qui ma non là…Soprattutto, nessuna talking head della TV, nessuna delle vedettes spettacolari che interpretavano il ruolo di «esperto» parlava delle cause sistemiche delle recenti epidemie, delle repentine diffusioni di nuovi virus. Farlo avrebbe comportato una critica radicale dell’aggressione capitalistica all’ambiente e al vivente. L’aviaria, la Sars, la suina e prima ancora la BSE erano uscite dai gironi infernali dell’industria zootecnica planetaria. In parole povere: dagli allevamenti intensivi, per via di come gli animali erano trattati e, soprattutto, nutriti. Ebola, Zika e West Nile erano venuti a contatto con gli umani per colpa della deforestazione massiva e della distruzione di ecosistemi. Anziché un’occasione per mettere in discussione il sistema che causava le epidemie, la crisi del Covid 19 era usata come diversivo per non parlare di ambiente e di clima, proprio mentre l’inverno più caldo e secco di sempre stava seminando morte. Lo aveva detto chiaro e tondo Fridays For Future Bologna: «La città si mobilita con urgenza per l’emergenza corona virus, panico dilagante, chiusa l’università e probabilmente annullato ogni tipo di evento in settimana. Eppure a Bologna il limite giornaliero delle polveri sottili solo a gennaio è stato superato più di 11 volte, il limite giornaliero del particolato più pericoloso per la salute umana (PM 2.5), di 25 µg/m³, più di 17 volte. Ogni anno sono oltre 30.000 i nuovi casi di tumore in Emilia Romagna , circa 87 al giorno. Si stimano in media 35-40 decessi per tumore ogni giorno in regione. E come si sta procedendo? Approvando progetti per l’ampliamento della tangenziale e dell’autostrada, incrementando il traffico cittadino con una mobilità pubblica insufficiente, cara e centrocentrica. La verità che passa inosservata è che l’aria che respiriamo ogni giorno a Bologna ci uccide ma si decide lo stesso di investire sulla morte, facendo finta di niente manipolando le notizie. Perché si tace quando si tratta di crisi climatica? Perché ci sono troppi interessi in ballo!» Qualcuno aveva fatto notare che i “lockdown” cinesi avevano fatto calare le emissioni globali di CO2, e pure da noi l’aria aveva un odore migliore. Ma era un effetto passeggero, che non aggrediva nessuna causa strutturale. Era necessario forare la membrana di un’informazione ossessionante, porre all’ordine del giorno i problemi di fondo rimossi. Bisognava tornare a vivere e comunicare e lottare, oltre la visione di Burioni che sburioneggiava e di Giovanna Botteri che ansimava, da attrice di filodrammatica, dietro la mascherina. Mentre riflettevamo su tutto questo il sindaco Merola aveva dichiarato: «Bisogna applicare l’ordinanza e non perdere tempo a discutere.» Come volevasi dimostrare.

Diario virale. Bulåggna brancola nel buio delle ordinanze (26-28 febbraio 2020). Pubblicato il 28.02.2020 da Wu Ming. Tra i modi di dire felsinei, il nostro preferito era sempre stato: «As vadd di can caghèr di viulén». Nel loro Dizionario bolognese, Gigi Lepri e Daniele Vitali lo rendevano con: «Succedono cose inaudite». Letteralmente, però, si vedevano «cani cagare violini». E in quei giorni di virus cagavano liuti, violoncelli, contrabbassi, pronti a suonare melodie stridule. Dopo la prima puntata del nostro Diario virale, avevamo ricevuto decine di racconti, testimonianze, aneddoti sullo sfascio che l’ordinanza di Bunazén stava causando nel mondo del lavoro. La settimana prima c’era stato lo sciopero degli edili, con manifestazione a Milano. Il 25 febbraio un’impresa di costruzioni romagnola, visto che i suoi lavoratori avevano partecipato al corteo, li aveva avvertiti con un sms che erano tutti in quarantena per quattordici giorni, e dovevano fare il tampone altrimenti li metteva in cassa integrazione. Nelle aziende di alcune province, Confindustria voleva imporre ai dipendenti di riempire questionari invasivi, per appurare se erano entrati in contatto con «qualcuno che è stato in Cina/zone italiane attenzionate e presentava sintomi come tosse e/o febbre» o se avevano avuto rialzi di temperatura «oltre 37.2°». In alcuni call center si misurava la febbre ai dipendenti in entrata. Il padronato, insomma, coglieva l’occasione per aumentare il controllo aziendale sui lavoratori. La Cgil aveva dovuto precisare: «non è obbligatorio compilare nessun questionario proposto dall’azienda o altri enti che non siano quelli preposti (Dipartimento di Igiene Pubblica dell’Ausl); l’autocertificazione che alcune imprese stanno richiedendo è illegittima oltre che essere una falsa tutela per i lavoratori […] Dobbiamo evitare che le aziende, fuori dalle procedure definite dalle Autorità competenti, in modo unilaterale prendano iniziative che possono creare allarmismo e panico e ledere i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.» Alcune aziende usavano il coronavirus per imporre ferie forzate ai dipendenti, in modo da fargliele smaltire tutte – a febbraio! – e averli a disposizione per il resto dell’anno. Vodafone aveva indetto la chiusura nazionale «ad esclusione delle attività di vendita, supporto vendita […] presidi del Customer Care, Security Operations Center e Network Operations», obbligando i lavoratori degli altri comparti aziendali – anche quelli delle zone non toccate dall’emergenza – a utilizzare le proprie ferie. Tentativo bloccato dalla Cgil di Bologna. Una lavoratrice interinale era stata allontanata dal luogo di lavoro solo perché il marito lavorava in un’azienda del modenese dove il padrone era risultato positivo al virus. – Solo dopo l’intervento del sindacato han tirato il culo indietro!

Di storie così ce n’erano uno sbanderno. Tutto questo mentre il Garante per gli scioperi rivolgeva «un fermo invito» ai sindacati perché evitassero le astensioni collettive dal lavoro fino al 31 marzo. Quindi, niente scioperi per più di un mese, proprio mentre i lavoratori subivano uno dei peggiori attacchi degli ultimi decenni. In teoria non si potevano convocare nemmeno le assemblee sindacali, ma la Cgil le aveva fatte comunque, minacciando denuncia ai sensi dell’articolo 28 se i padroni avessero cercato di impedirle. Ogni vertenza era comunque bloccata, dato che lavoratori e sindacalisti dovevano occuparsi dell’emergenza. Anche perché l’Inps dell’Emilia-Romagna aveva deciso di chiudere, mentre tutte le attività collegate – Caf e patronati – gestite dai sindacati restavano aperte al pubblico e assorbivano tutto il lavoro in più. L’emergenza che toccava affrontare non era quella del virus, ma quella generata da ordinanze e circolari attuative, che ormai facevano epidemia per conto loro. Scollegate una dall’altra, da regione a regione, e recepite in misura diversa da comune a comune, con direttive applicative che si susseguivano a distanza di 24 ore, per rammendare i buchi che le direttive precedenti avevano prodotto. A Bologna si toccavano picchi di ridicolo. «Bologna non si ferma», aveva detto il sindaco Merola mentre chiudevano musei, cinema e teatri, saltavano festival e fiere…Restavano aperte le biblioteche. Proprio nelle biblioteche scrivevamo il Diario virale. In quella più grande, Sala Borsa, frequentata da migliaia di utenti al giorno, l’amministrazione dispensava i dipendenti comunali dai contatti col pubblico. Precauzione che però non valeva per i lavoratori ausiliari della coop appaltatrice, i quali evidentemente potevano essere esposti al virus, purché mandassero avanti la baracca. La circolare applicativa della regione non disponeva la chiusura dei centri sportivi, ma la sindaca di un comune della cintura aveva deciso di chiuderli lo stesso. Così i dipendenti So.Ge.Se delle piscine di quel comune erano rimasti a casa, mentre quelli delle piscine di altri comuni continuavano a lavorare. Quella gente doveva spendere giorni di… cosa? Malattia? Ferie? Cassa integrazione? Con le scuole chiuse, gli insegnanti percepivano comunque lo stipendio, ma i servizi di pulizia e mense erano in gran parte esternalizzati, e quei lavoratori erano senza paga. Idem i lavoratori del privato sociale, spesso impiegati nel sostegno alla didattica. Per loro i sindacati avevano chiesto il fondo d’Integrazione salariale, la vecchia “cassa integrazione”. Un sussidio noto per i suoi cronici ritardi e comunque ridotto del 20/30% rispetto allo stipendio. In realtà, i servizi svolti da quei lavoratori erano già pagati, già a bilancio, perché le cooperative che li fornivano avevano vinto bandi pubblici. Non ci sarebbe voluta chissà quale organizzazione per far arrivare quei soldi subito nelle tasche dei lavoratori. Dove invece non c’era un baiocco che inzuccasse con quell’altro. I lavoratori delle coop sociali o delle piattaforme di servizi a domicilio – come l’accompagnamento di disabili e malati, la formazione e aggiornamento sui luoghi di lavoro, ecc. – si vedevano cancellato ogni appuntamento e di conseguenza i guadagni di intere settimane. L’intero settore dello spettacolo era stato scaraventato in una crisi senza precedenti. Le imprese coinvolte non potevano sostenere i costi della chiusura, così finivano per chiedere ai lavoratori di rinunciare allo stipendio, o al posto di lavoro stesso. Il rischio della chiusura definitiva di piccoli teatri e cinema era altissimo. Non solo: tutti i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di personale o di pubblico erano a rischio. Ogni azienda bloccata dall’ordinanza si ritrovava ad affrontare il problema senza avere ricevuto la minima indicazione su come comportarsi. Le disdette nel settore alberghiero e turistico arrivavano a raffica, sui giornali si parlava di un calo del 40% a livello nazionale. Tutte le fiere bolognesi erano state rimandate a maggio. Anche le forniture iniziavano a scarseggiare e molte aziende dovevano mettere in cassa integrazione i dipendenti perché impossibilitate a proseguire la produzione. I sindacati gestivano l’emergenza caso per caso, azienda per azienda, cercando di non far perdere giornate di stipendio e chiedendo l’attivazione degli ammortizzatori sociali straordinari alle amministrazioni e al governo, che invece baccagliavano di «zone rosse» da isolare. L’insipienza di una classe dirigente selezionata in peggio da anni di retoriche populiste e tecnocratiche risultava in tutta la sua evidenza. Anche l’accavallarsi di competenze amministrative e governative faceva danni, dimostrando che gli ambiti non erano chiari a nessuno. Un lavoratore del modenese, malato di polmonite e positivo al coronavirus, era stato invitato dai medici a non recarsi all’ospedale, per non rischiare di infettare altri pazienti, e a farsi assistere a casa; ma il Prefetto era intervenuto per imporre il ricovero, nonostante il precedente dell’ospedale “bomba” di Codogno. Il governatore delle Marche, benché nella sua regione non risultasse nemmeno un contagiato («ma abbiamo avuto casi al confine, a Cattolica»), aveva decretato la chiusura delle scuole. Il governo centrale aveva impugnato il provvedimento, talmente peregrino da illuminare la peregrinità degli altri. «No a iniziative autonome dei governatori», aveva tuonato il premier Conte. Il TAR gli aveva dato ragione. Lo stesso Conte ora parlava espressamente di «rischio recessione» e chiedeva di abbassare i toni.

Eh, già, i toni…Nel giro di poche ore i media mainstream avevano cambiato linea. Gli stessi giornali che fino al giorno prima titolavano a tutta pagina che «mezza Italia» (sic) era in quarantena, il giorno dopo pubblicavano articoli rassicuranti, che ridimensionavano l’emergenza. Dopo aver tifato paranoia per una settimana, se ne uscivano con analisi forbite sul Paese «in crisi di nervi». Pfui, che povevacci, che cveduloni…Ma dopo ettolitri di benzina sul fuoco, spegnere l’incendio non sarebbe stato facile. Soprattutto perché ora gli amministratori – che da quei media si erano lasciati influenzare, reagendo nei modi più irrazionali possibili – si trovavano in un paradosso a spirale, una trappola senza uscita: non sapevano come rimangiarsi il “decisionismo” e il celodurismo di pochi giorni prima. Revocare le direttive inutili mentre il virus era ancora in giro non equivaleva forse ad ammettere di avere sbagliato tutto, o almeno di avere esagerato? L’altra opzione era fingersi imperterriti, mantenere in essere le direttive in nome di una loro presunta efficacia, almeno per un’altra settimana, poi si sarebbe visto. Questo, però, avrebbe reso sempre più ingestibile la situazione sul piano socioeconomico. Quante settimane di scuola o lezioni universitarie o esami avrebbero perso gli studenti? Quante giornate avrebbero perso i lavoratori precari, autonomi e quelli non coperti dagli ammortizzatori? Quanti giorni di malattia o di ferie accumulate sarebbero stati bruciati? Quanti soldi si sarebbero ancora buttati in inutili blocchi e militarizzazione? E soprattutto, quei provvedimenti erano stati presi in attesa… di cosa? Di un vaccino? Della bella stagione? Ch’al vgnéss zò la Madòna? Un esempio clamoroso era il coprifuoco imposto ai locali e bar di Milano. Che significato aveva il ritiro di quella disposizione, dopo soli quattro giorni dalla sua entrata in vigore? Delle due l’una: o la misura era stata una cazzata fin dall’inizio, oppure era stata una buona idea ma la si revocava per le pressioni della Confcommercio e dei dané (ne andava del «modello Milano»!), sacrificando all’economia la salute dei cittadini più deboli. In entrambi i casi, il sindaco Sala non ci faceva una bella figura, così come non ce la faceva Cirio, il governatore del Piemonte, che voleva «ritornare alla normalità» e tentava di giustificare questo desiderio con varie supercazzole, non avendo dati medici che lo giustificassero, ma soltanto ragioni economiche.

Come sempre la faccia più tosta, di quelle ch’as i amacarév i nûṡ (che ci si ammaccherebbero le noci), l’aveva il veneto Zaia: mentre il suo omologo marchigiano, sbertucciatissimo, chiudeva le scuole, lui bel bello le riapriva dichiarando: «La situazione è sotto controllo». Almeno altrove si faceva marcia indietro, o si provava a farla, seppure maldestramente o paraculamente, perlomeno su alcuni dei provvedimenti. In Emilia-Romagna no, brisa, nessun cenno di autocritica, amministratori allineati, coperti e pure infastiditi dal «discutere». Bonaccini aveva persino dichiarato che la chiusura delle scuole era stata «richiesta da oltre il 90% dei genitori» (!), un dato bello tondo e levigato, prêt-à-porter. Meno di un mese dopo la «stravittoria» (sic) alle regionali, al primo test significativo del presunto «nuovo corso» il golden règaz Bonaccini e il PD emiliano davano prova di un frastornato dilettantismo, e si stavano alienando proprio i lavoratori del comparto cultura e spettacoli, gente che si era turata il naso in massa per sconfiggere la Lega. Ma niente, i nostri amministratori andavano dritti come treni e non li avresti mai sentiti dire «ho sbagliato». – Bonaccini sembra quello che pensa di potersi pisciare a letto e dire: «E alåura? Ai ò sudé!» A parte stringere la ganassa, comunque, non sapevano che altro fare. Avevano un piede a mollo e l’altro in acqua. Non potevano neanche dar la colpa al ministero della sanità, perché era il ministero di un governo amico, e soprattutto perché i più assurdi spropositi presenti nelle ordinanze erano farina del sacco locale. Questo era successo ovunque: ad aver dato il peggio erano state le regioni. La  regionalizzazione della sanità si era dimostrata d’intralcio nella gestione della crisi, alimentando un caos più volte criticato dai vertici dell’Istituto Superiore di Sanità e addirittura spingendo Conte a minacciare la Lombardia di toglierle le prerogative. Nemmeno sul vero numero dei contagiati c’era consenso: secondo l’ISS le regioni comunicavano numeri non controllati. L’emergenza – nazionale e planetaria – stava sfasciando importanti settori dell’economia, mentre altri puntavano a cogliervi opportunità, a sfruttarla per il proprio tornaconto. I provvedimenti presi erano contrari agli interessi di una parte di borghesia, che infatti stava tirando le orecchie ai politici, reclamando il dietrofront. Non per questo avrebbero danneggiato il capitalismo come sistema, perché a un livello superiore esso avrebbe integrato e usato quel precedente, traendone profitti. Con tutta probabilità, lo stava già facendo. Ma se dicevi che l’emergenza non era tutta disfunzionale al capitale, anzi, per certi versi era molto funzionale, ti davano del «dietrologo» o del «complottista». In realtà non c’era nulla di nuovo né di astruso, tantomeno si trattava di «complotti»: era solo la classica contraddizione, per dirla col Marx dei Grundrisse, «tra [la] potenza generale sociale alla quale si eleva il capitale e il potere privato del capitalista sulle condizioni sociali della produzione.» Una crisi, una catastrofe o una rovinosa serie di cazzate potevano danneggiare il potere privato di uno o più capitalisti – cioè rovinare aziende o determinati comparti dell’economia, provocare ruzzoloni in borsa ecc. – e al tempo stesso rafforzare il capitale come potenza generale sociale, come sistema nel suo complesso. Non sarebbero stati gli errori del ceto politico, non sarebbe stata la «recessione da coronavirus» a fermare il capitalismo. Il capitalismo usava la distruzione – «creatrice», diceva quel tale – di alcuni suoi settori e si ristrutturava per raggiungere un livello superiore. Non si fermava nemmeno davanti al baratro ecologico e climatico, anzi, cercava modi di mercificare il baratro. Trovava limiti solo nei conflitti sociali che si opponevano all’estrazione di valore, cioè nelle lotte contro lo sfruttamento. Nessuna crisi lo aveva mai fermato, perché non poteva fermarsi da sé. Come ogni modo di produzione precedente, sarebbe finito solo quando una rivoluzione ne avesse imposto un altro già maturo. Erano tanti i modi in cui il capitale come potenza generale sociale poteva trarre profitto dall’emergenza. Ad esempio, grazie ai big data. Estrarre valore dai comportamenti delle persone, dalla loro sorveglianza, dal tracciamento di ogni azione compiuta online – e ormai, con l’«Internet of things» e le case smart, «online» voleva dire tantissime cose – era il business più redditizio di quella fase storica. I big data prodotti a fantastiliardi di gigabite in quelle settimane di emergenza e paura sarebbero stati materiale prezioso, anzi, erano già materiale prezioso da vendere sul mercato, e da usare per propinare pubblicità micropersonalizzata, vendere sicurezza, acuminare algoritimi per produrre nuove app sempre più pervasive e addictive, disciplinare e sorvegliare meglio ecc. Inoltre si era stabilito l’ennesimo precedente, utile a perfezionare il comando capitalistico sui territori. Il decreto-legge del governo prevedeva lockdown di vaste dimensioni di territorio anche in presenza di un solo tampone positivo non collegabile a focolai noti.

Illustrazione fuori testo. Che una simile formulazione fosse lì per voglia di controllo orwelliano o semplicemente perché il decreto era scritto in fretta e furia, come le sue disposizioni attuative, senza che nessuno ponderasse le conseguenze, poco importava. Contavano le conseguenze, appunto, non le intenzioni. Si trattava dell’ennesimo «decreto sicurezza» che sarebbe rimasto nel nostro ordinamento, adagiato su quelli già in essere e fatto di pura propaganda. Era probabile che quando l’anno venturo il Covid19 – divenuto malanno stagionale, come diversi esperti prevedevano – fosse tornato, le reazioni non sarebbero state spropositate come la prima volta, ma intanto si era introdotta la possibilità di trasformare in zone rosse ampie porzioni di territorio italiano, al cui interno potevano essere sospesi diritti elementari, di fatto per la presenza di un solo ammalato. Procedura controversa, quella del lockdown, anche sotto l’aspetto strettamente sanitario. In uno dei testi scientifici che avevamo letto si studiava l’effetto di una quarantena su due territori contigui, uno con servizi medico-sanitari migliori e quindi a minor rischio di epidemia (chiamiamolo «ricco») e uno con servizi medico-sanitari peggiori e quindi a maggior rischio di epidemia (chiamiamolo «povero»). Nel caso di focolai nel territorio povero, chiudendo quest’ultimo diminuivano sì i contagi nel territorio ricco, ma aumentavano e si aggravavano nella zona sottoposta a quarantena, e a tal punto che l’intera situazione peggiorava: «più bassa sarà la mobilità relativa delle persone della comunità ad alto rischio, più vasta sarà la dimensione complessiva dell’epidemia.»

Al contrario, proseguiva il paper, «se la comunità a basso rischio ha una risposta abbastanza forte alle infezioni, allora non restringere gli spostamenti tra le due comunità può ridurre o addirittura spezzare le catene di trasmissione nella comunità ad alto rischio. Esportando casi secondari di infezione nella comunità a basso rischio, la produzione complessiva di casi secondari può essere ridotta.» Non era necessario pensare all’Africa per immaginare una situazione simile a quella studiata in quel testo. In Italia c’erano moltissime zone sfigate sotto l’aspetto sanitario, confinanti con altre messe molto meglio. Idea: scrivere un racconto su un lockdown da qualche parte lungo la dorsale appenninica, o in una valle alpina, o nella zona del Delta del Po, dove poteva capitare di vivere a ottanta chilometri dal primo ospedale e in assenza di presidii sanitari territoriali. C’era continuità tra i «decreti sicurezza» degli ultimi anni – «Minniti-Orlando», «Salvini» e «Salvini bis», che il governo Pd-M5S si guardava bene dell’abrogare – e quello sull’emergenza coronavirus, perché c’era una continuità tra retoriche. La fobia del contagio si era incanalata nel solco già tracciato dalle pseudo-emergenze legate all’immigrazione, e dalle campagne securitarie e sul «decoro». Ancora una volta il libro di Wolf si dimostrava prezioso. Al virus si era data una risposta in chiave di militarizzazione del territorio, la stessa che si era sempre data a povertà, esclusione, disuguaglianze. Si era ricorso alla logica della «zona rossa», ma spingendola ben oltre i confini della zona da circoscrivere per contenere il focolaio. Si era data la caccia a presunti «untori» – il «Paziente Zero», sfuggente come Igor il Russo!  – alzando di diverse tacche il livello di paranoia. Foto e racconti sui giornali descrivevano città vuote, piazze deserte. Spesso si trattava di luoghi scelti ad hoc: non i quartieri dove la gente viveva davvero, ma le strade del turismo e dello shopping. Zone in realtà già morte, al cui cadavere l’emergenza Covid veniva soltanto a togliere un dito di belletto. E lo stesso poteva dirsi per l’agorafobia da coronavirus, che ci pareva strettamente collegata all’ideologia del decoro. Laddove già si era diffusa una certa paura per i luoghi pubblici, magari velata di nostalgia, perché considerati «non più sicuri come un tempo», proprio là colpiva più duro il vuoto. Ma come per il razzismo contro i cinesi, non era il virus a indurre nuovi atteggiamenti: l’emergenza portava a galla verità nascoste dal tran tran quotidiano o rivestite da strati di retorica. Come scrivevamo ai tempi del terremoto in Emilia: a uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. L’emergenza era come un interruttore, che d’improvviso aumenta l’intensità della luce e rende visibili contorni e gesti che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra. La quarantena, le zone rosse, i confini invalicabili, i posti di blocco, le limitazioni alla mobilità, le chiusure: i termini e le questioni erano identici a quelli di un’altra «emergenza», quella che riguardava profughi, migranti, richiedenti asilo. In un caso come nell’altro, i confini erano la risposta a un attacco di panico, dovuto al trovarsi smarriti, in mezzo a una folla sconosciuta, bombardati dall’insicurezza, disorientati dallo spazio. I confini erano le pareti alle quali si aggrappa chi si trova circondato dai suoi simili e ne ha paura: perché sono stranieri o perché sono infetti. Perché sono altri. Lo si vedeva bene da certe reazioni, come quella del governatore del Friuli-Venezia Fedriga, che subito aveva unito le due emergenze, chiedendo la quarantena anti-Covid19 per i migranti in arrivo dalla Slovenia. Salvo poi ritrovarsi con la Slovenia che voleva chiudere i confini, come no, ma per non far entrare gli italiani. E lo stesso, in giro per il mondo, dalle isole Mauritius ai Caraibi al Brennero, per treni, aerei e navi con italiani a bordo. Rifiuti che facevano montare l’indignazione per lo smacco subito: una ferita sanguinosa, specie per quei sovranisti che di solito invocavano i porti chiusi e sbattevano le frontiere in faccia a chi scappava dalla guerra. Da farsa, il «contenimento» era divenuto lugubre carnevale in quel di Taranto, dove ArcelorMittal, il colosso siderurgico proprietario dell’Ilva, aveva predisposto nientemeno che una task force per «meglio tutelare il personale considerata l’evoluzione del nuovo Coronavirus 2019-nCoV», e disposto: «i dipendenti che entrano in contatto con personale esterno (vettori, fornitori, vigilanti) sono tenuti a indossare apposita mascherina con filtro». Era la stessa azienda che ogni giorno riversava nell’aria – e sulle case di quegli stessi dipendenti – acido solfidrico e anidride solforosa oltre i valori soglia. Tanto da ricevere un ultimatum dal sindaco. Si era arrivati a quel punto, a quell’ipocrisia, perché del contenimento s’era fatto spettacolo, diversivo. Razionali misure di contenimento non potevano prescindere dall’informare adeguatamente i cittadini, in particolare i soggetti più a rischio, affinché evitassero determinati comportamenti e circostanze. Era chiaro – o avrebbe dovuto esserlo – che questo non si poteva ottenere con il terrore, né con gli energumeni in mimetica. Solo la corretta informazione, unita alla capillarità dell’assistenza e a elementari misure di profilassi nella routine quotidiana di tutte e tutti noi avrebbe potuto prevenire le condotte pericolose. Invece si era fatto l’opposto: si era rovesciata addosso ai soggetti più deboli una disinformazione massiva, martellante, contraddittoria, e li si era spinti a tenere i comportamenti più a rischio. Affollare i supermercati in cerca di amuchina, ad esempio. Invece di intervenire sulle esigenze dei più vulnerabili – principalmente anziani e immunodepressi – e potenziare le strutture ospedaliere che potessero accoglierli, si era deciso di promulgare ordinanze assurde e incoerenti, che probabilmente avevano tutelato ben poco, ma in compenso avevano mandato in tilt mezzo mondo del lavoro. Dal ponte Matteotti guardavamo il tramonto scendere su Bulåggna e, tutt’intorno, sull’Emilia-Romagna, sulla pianura padana, sull’Italia. I media avevano descritto scenari da film di Romero, come La città verrà distrutta all’alba (1973). A noi invece veniva in mente uno scenario da western crepuscolare. La sensazione era che il paese fosse in balia di chiunque e di qualunque cosa. Una frontiera selvaggia dove tanti aspiranti sceriffi gonfiavano i muscoli e alzavano la voce, mimando un decisionismo tanto nocivo nei modi e nelle implicazioni quanto farlocco e pagliaccesco. Il Covid 19 non ci avrebbe annientati. Il problema era tutto il resto.

Diario virale. Contro chi sminuisce l’emergenza (1-10 marzo 2020). Pubblicato il 10.03.2020 da Wu Ming.  Venere risplende sulla stazione di Bologna, 9 marzo 2020, h.21 circa. Venere, stella della sera ma anche del mattino, Vespero e Lucifero. A est la luna piena abbagliante, a ovest Venere risplendente, a sud-ovest l’elicottero ronzante, a nord la nebbia che s’alzava dallo Scolo Calamosco e a sud il carcere della Dozza, con i colli e San Luca sullo sfondo. Il carcere era in fiamme. Erano le undici di sera. Avevamo aggirato i posti di blocco su via del Gomito, imboccando stradelli che conosceva solo Wu Ming 2, ed eccoci in piedi in mezzo a un campo arato, a cento metri dalla recinzione del carcere. Eravamo visibilissimi, per via del plenilunio, ma le guardie avevano ben altro da fare. Le scarpe appesantite dal fango, le mani impruriginite da qualche pianta urticante afferrata risalendo la ripa del canale. L’avevamo attraversato su una passerella di fortuna, una scaletta d’alluminio gettata di traverso. Solo mezz’ora prima, nessuno di noi pensava di dover fare quel trekking notturno. Poi lo scatto: – Andiamo alla Dozza. Becchiamoci al volo in Bolognina.

Dal carcere saliva una tromba di fumo scuro, reso bronzeo dalle luci dei fari. Qualche ora prima erano andate a fuoco due macchine della Penitenziaria. Sagome nere sul tetto, urla: «BASTARDI!». Spari di candelotti, clangori, forse colpi di piccone, qualcuno sfasciava barricate. A fare da bordone, il rombo perenne della tangenziale. Dietro di noi, curiosamente, c’era via del Bordone. Una sterrata piena di buche, che avevamo seguito fino a lasciare l’auto all’ingresso del podere La Chiocca.

– «Gran Sasso – Cucina abruzzese»? Mai avrei immaginato di trovare un ristorante sconfundato qui, in ze mìddol ov nóuer.

– All’incrocio, su via di Cadriano, c’è lo stabilimento Granarolo. Di giorno un po’ di giro c’è.

– Di sera è spettrale, però.

– Ma tanto adesso li han chiusi tutti, i ristoranti.

Entrati in un fondo di proprietà dell’Alma Mater, che ci faceva non precisate «colture sperimentali», e dopo avere incrociato un’enorme nutria albina, avevamo costeggiato lo Scolo Calamosco, poco più di un rigagnolo che fiatava nebbia densissima. Trovata la scaletta, eravamo passati di là.

– Non si vedeva una roba così da quarant’anni. Da Trani, nell’80, e Fossombrone, nell’81…

– Sì, «dall’Ucciardone / all’Asinara, / un solo grido: / compagno, spara!»

– Ma nemmeno negli anni ’70 ci sono mai state così tante rivolte in così tante carceri, in simultanea.

– Qui comunque va a finire brutta brutta… Quelli che gli va bene li storpieranno di mazzate.

Un’ora prima l’ennesimo decreto aveva trasformato il paese intero in zona «a contenimento rafforzato». Ormai facevano un decreto al giorno, dopamina a balùs. Intossicati di brutto. Divieto assoluto di «assembramento», «#iostoacasa», «cambiamo abitudini», «#iostoacasa», tutti serrati in casa, dicevano popstar, rapper e trapolèr famosi e registi sorridenti con case immense ai Parioli e servitù. «Mostriamo responsabilità», «siamo tutti sulla stessa barca», «ce la faremo tutti insieme». «Tutti insieme», ma contro i detenuti «non escludiamo di usare l’esercito». Loro mica sono sulla nostra barca. L’esercito. Vogliamo i colonnelli. Con Tognazzi.

– Visto come succede? Zac, e da un’ora all’altra non puoi più lasciare il paese.

Non scrivevamo più nelle biblioteche. Ormai avevano chiuso anche quelle. Non c’era più un posto dove mettersi, a casa c’erano i cinni e mille distrazioni, e così scrivevamo dove capitava: nei parchi dove c’era un po’ di wi-fi, sui gradini di San Petronio… Anche nella sala d’aspetto della stazione, quella con la breccia della bomba dell’80. Finché restava aperta. Ci passavamo spesso, alla stazione, e una sera avevamo visto transitare convogli pieni zeppi diretti a meridione. «Folla sui treni per lasciare Milano», avrebbero titolato i giornali. Da poche ore circolavano le bozze di un nuovo dpcm (decreto della presidenza del consiglio dei ministri). Cos’era, il quarto in una settimana? L’annuncio repentino che l’intera Lombardia e svariate province del resto dell’Alta Italia sarebbero diventate zone rosse – poi virate in «arancione» – aveva scatenato il fuggi fuggi, assembramenti ai binari, e in generale un rapido spargugliarsi di migliaia di persone sul territorio nazionale. «Inaccettabile confusione causata dalla diffusione delle bozze del decreto», aveva detto il premier Conte. Si dava la colpa a un whistleblower. Una petizione lo individuava nel governatore Fontana e/o nel portavoce della pcm Casalino, e per non sbagliare chiedeva le dimissioni di entrambi. Il potere e i suoi zelanti sostenitori si lamentavano che il «popolo bue» fosse stato informato prima anziché dopo, e che avesse capito e reagito «male». Ma il caos non lo aveva scatenato il leak: lo aveva scatenato il testo stesso del decreto. E chi mai, potendo ancora andarsene e avendo un posto dove andare, avrebbe voluto restare intrappolato in una specie di grande lazzaretto? [Rispondere con sincerità, per favore: senza infingimenti né pose da cittadini ligi o da forcaioli a misura di social.] Inoltre, non era questione di «bozze» o «fraintendimenti»: anche il testo definitivo era – per dirla coi governatori delle regioni dipinte d’arancione – «pasticciato», «ambiguo», «di dubbia interpretazione e difficile applicazione», deciso e scritto «senza un confronto preventivo» ecc. Quanto alle misure che si capivano, erano «esagerate» e «senza una ratio», aveva detto Zaia, riferendo il parere negativo del comitato scientifico di cui si avvaleva la regione Veneto. Intanto, il Viminale se la prendeva con le regioni, accusandole di muoversi alla spicciolata. Non quelle dove c’era il «contenimento rafforzato», ma tutte le altre. Alcune regioni del centro e del sud avevano annunciato la quarantena per chi veniva dalle zone a rischio, altre no. Il governatore della Puglia Emiliano aveva criticato i revenants suoi corregionali, lagnandosi dell’«esodo» che portava a sud l’«epidemia lombarda» (sic). Ma l’esodo non era cominciato la sera prima: era in corso da settimane, semplicemente con meno intensità e in modo meno visibile, perché ogni restrizione decisa in fretta e furia – e applicata senza la minima chiarezza – aveva aumentato la mobilità. La fuga dal centro-nord era iniziata con le prime ordinanze regionali ed era proseguita senza interruzioni. Molti precari, rimasti senza lavoro e non avendo ammortizzatori di alcun genere, erano tornati dai genitori, al sud o comunque sotto la linea gotica, dove almeno un piatto di minestra sapevano di rimediarlo.

– Non ho capito: dovevo fare la fame per accontentare Burioni? Con gli atenei chiusi, anche molti studenti fuorisede erano ripartiti. Tanto, senza luoghi di socialità e cultura, senza musica e senza cinema, in città non c’era un cazzo da fare. Qualcuno se n’era andato già dopo la prima ordinanza, dopodiché, di restrizione in restrizione, la vita quotidiana si era fatta penosa e l’esodo era aumentato: bar, osterie e ristoranti chiusi dopo le 18; vietate persino le esibizioni degli artisti di strada…

– Non posso manco studiare, hanno chiuso le biblioteche. Che ci resto a fare in ‘sta città morta? Bulåggna che stai sotto la collina, distesa come un vecchio addormentato, la noia, l’abbandono, il niente sono la tua malattia. Bulåggna, ti lascio, io vado via. 

Per due giorni Bulåggna era rimasta una specie di isola, parte di un arcipelago che includeva Ferrara, Ravenna e Forlì-Cesena. A ovest la zona arancione cominciava dopo Anzola, a est Rimini era già dannata. La via Emilia interrotta da checkpoint e confini presidiati: non accadeva dal settembre del ’44. Poi, in capo a due giorni, ci eravamo dannati anche noi, con tutto il Paese. In Emilla-Romagna c’erano 75 persone ricoverate in terapia intensiva. Settantacinque in tutta la regione, e si diceva che la nostra sanità, fino a ieri «eccellenza», «fiore all’occhiello» ecc., era sull’orlo del collasso. Ok, bisognava tener conto della crescita esponenziale, nel giro di una settimana potevano diventare 250, ma quello era il classico ragionamento di chi dà la colpa «alla Natura» per le distruzioni di un sisma, senza tener conto di come s’è costruito, di come s’è conciato il territorio. A forza di chiudere ospedali, una regione di quattro milioni di abitanti s’era ridotta ad avere poche decine di posti-letto e ventilatori per affrontare l’epidemia. Meglio andare con ordine, però. Sulla sanità, dopo.

Il mondo del lavoro era stato gettato nel caos. I decreti governativi imponevano la distanza di un metro sui luoghi di lavoro e lo smart working per chi poteva lavorare da casa. Questo creava una discriminazione evidente: c’era chi veniva messo in sicurezza e chi no. La campagna comunicativa era ossessionante: «Restate a casa, non siate incoscienti!». Ma chi lavorava nei front office, chi mandava avanti gli uffici pubblici e i servizi, o rimaneva alla catena di montaggio, iniziava a sentirsi quello a cui era toccata la pagliuzza corta, e minacciava di mollare tutto. Cosa sarebbe successo se uffici e fabbriche non avessero più funzionato? Intanto, la chiusura di palestre, centri sportivi, scuole, cinema e teatri aveva messo a casa una miriade di lavoratori autonomi o parasubordinati, che per le caratteristiche contrattuali faticavano ad avere accesso agli ammortizzatori sociali. I sindacati di base chiedevano il «reddito di quarantena», cioè misure di sostegno al reddito di tutti i cittadini, fossero lavoratori dipendenti, precari, autonomi, partite IVA, operatori sociali, lavoratori dello spettacolo ecc. I lavoratori messi a casa scrivevano disorientati e disperati ai sindacati anche solo per sapere cosa fare: «Salve, vi scrivo per segnalare la perdita del periodo lavorativo corrispondente all’emergenza coronavirus. Una delle società per cui sono responsabile di settore mi corrisponde €250 al mese. L’altra – una scuola dove insegno 15 ore a settimana – me ne corrisponde 300. Per tutta la durata dell’emergenza non percepirò il compenso pattuito. È una situazione che ci mette in ginocchio. Io ho famiglia e figli. Non è possibile essere trattati così. Aiutateci. Grazie.» Erano decine e decine le mail e le telefonate di quel tenore che riempivano le caselle postali e le linee delle Camere del Lavoro. Dopo anni e anni di desindacalizzazione, emorragia di tesseramenti, disintermediazione, all’improvviso la gestione delle conseguenze dei decreti statali ricadeva sui “mediatori” sociali. Questi si ritrovavano impegnati all day long nell’attivazione delle casse integrazioni, anch’essi impreparati a reggere una valanga di quella portata, e a loro volta intralciati dalle ordinanze, che imponevano la distanza e il contingentamento degli ingressi. Anche loro rischiavano il collasso. Lo stato emanava decreti draconiani – confusi e incoerenti – e il paese reale doveva interpretarli, tradurli, renderli sostenibili. Ammesso che fosse possibile. E non lo era.

L’1 marzo il presidente dell’Istituto superiore di sanità Brusaferro aveva dichiarato: «Se entro i prossimi sette giorni i contagi scenderanno vuol dire che le chiusure e le misure prese hanno funzionato.» Di giorni ne erano passati dieci e tutti erano d’accordo: i contagi erano in rapido aumento. Rapidissimo. Tanto che «non c’è più tempo», aveva detto Conte annunciando la chiusura dell’Italia intera. Salvo poi lamentarsi, come sempre, che il popolo non aveva capito, perché s’era precipitato a fare scorte. Ma se mi dici «non c’è più tempo», che debbo capire io? Per la precisione, in aumento erano le diagnosi positive: il numero reale di contagi – visto che la maggioranza si beccava il Covid-19 in forma asintomatica o lieve e nemmeno si faceva il tampone – non lo conosceva nessuno. Ad ogni modo, stando alla proposizione condizionale di Brusaferro, si poteva concludere questo: le misure non avevano funzionato. Del resto, alcune le avevano decise a dispetto dei pareri negativi degli esperti. Il 4 marzo, il comitato scientifico che prestava consulenza al governo aveva detto: chiudere le scuole adesso e per due settimane sarebbe di dubbia utilità. Parere ignorato dal governo, uscito sui media ma immediatamente affogato nel clamore, per esser presto dimenticato. Ma non si trattava solo di inutilità: era plausibile che le ordinanze e i decreti fino al penultimo, aumentando gli spostamenti delle persone, avessero in realtà esteso il contagio. Dunque cos’era rimasto da fare, secondo la logica da rotolone lungo il piano inclinato, se non dichiarare l’intera Italia zona «protetta»? Per questo il nuovo decreto, a sole 48 ore dal precedente. Secondo il team dell’Istituto Sacco e dell’Università di Milano che studiava il virus Sars-CoV-2, quest’ultimo girava in Italia almeno da gennaio, mentre il primo decesso collegato al Covid-19 era del 21 febbraio. Se era vero, allora le misure di contenimento erano tardive e dunque, anche fossero state più coerenti e la loro applicazione meno cialtronesca, sarebbero servite a poco. Che la tempistica fosse la chiave dell’efficacia lo dicevano diversi studi scovati e passati in rassegna da Mauro, e anche accreditati siti di informazione scientifica, come Medbunker: «Punto fondamentale di tutte queste misure è che vanno applicate appena possibile, subito. Un ritardo può renderle meno efficaci o completamente inutili.»

Si parlava di lui. In Italia, nel periodo da dicembre (esplosione dell’epidemia a Wuhan) al 21 febbraio, cosa si era fatto? Non era tanto difficile intuire che, prima o poi, l’epidemia di Covid-19 sarebbe uscita dalla Cina. E in ogni caso, era un’eventualità alla quale prepararsi. Invece ci si era crogiolati nella disinformazione e nell’autocompiacimento orientalista. Più o meno: «Guardate i cinesi, si credevano stocazzo e adesso muoiono come mosche!». Per il resto, giornali e tv – come sempre – avevano rigurgitato scemenze, ruttato gossip, reiterato gare di cucina e ruminato la solita politichetta di infimo cabotaggio. Pagine e pagine, ore e ore e ore di talk-show a mostrare la buzza di un miracolato come Salvini o commentare le bizze di un has-been come Renzi. Il 21 febbraio «La Stampa» faceva ancora battute sul “virus” della politica italiana e in prima pagina c’erano insulsaggini su Renzi. Il giorno dopo, tutti i giornali avrebbero aperto a cinque colonne sul primo morto di Covid-19 in Italia. Come aveva ben riassunto Girolamo De Michele, «se invece di strepitare istericamente sulla chiusura delle frontiere quando – ora lo sappiamo con certezza – il virus era già in Italia (e non lo avevano portato i cinesi) si fossero per tempo rafforzati i presidi sanitari, partendo dalla constatazione che il virus non sarebbe rimasto confinato nella provincia di Hubei, è probabile che quello che è stato considerato un picco di polmoniti da influenza stagionale sarebbe stato riconosciuto nella sua vera natura. Se fossero stati predisposti, come in Cina, adeguati ricambi al personale medico, evitando turni stressanti che sono la norma e che hanno offuscato la capacità di riconoscere l’improbabile dietro il consueto; se i primi pazienti fossero stati, oltreché identificati, ricoverati in ambienti idonei; il virus non avrebbe avuto una diffusione epidemica.» Dopo la prima morte, in sole ventiquattr’ore si era passati dal regime della cazzata al regime della paranoia. E purtroppo il caso del 38enne di Codogno – il «Paziente Uno» – aveva funzionato da diversivo, disperdendo l’attenzione in troppe direzioni, distogliendola dal fatto che tutte le altre vittime erano anziane e/o già indebolite da altre patologie. Ogni volta che lo facevi notare, qualcuno ti rispondeva: – E allora il 38enne di Codogno, eh? Se constatavi che l’89% per cento dei morti era sopra i 70 anni, il 58% sopra gli 80, e nel complesso l’età media era 81, ti accusavano di «fregartene se muoiono i vecchietti». In rete, svariati post e commenti di imbezèl ci accusavano di questo. Al contrario, quei dati – lampanti com’erano – avrebbero dovuto far capire che gli anziani andavano protetti in special modo, senza disperdere energie e diffondere paranoie, informandoli subito e adeguatamente. Qualcosa tipo: – Nonno, la situazione è rischiosa, per un po’ senti i nipoti per telefono e aspetta ben che passi la buriana. Messaggio a tutta prima simile ma in realtà ben diverso dal generico, tardivo e terrorizzante «Anziani chiusi in casa!» risuonato che ormai eravamo a marzo. Come avevamo scritto nel Diario virale #2, ci sarebbe stato bisogno subito di «corretta informazione, unita alla capillarità dell’assistenza e a elementari misure di profilassi nella routine quotidiana, […] intervenire sulle esigenze dei più vulnerabili – principalmente anziani e immunodepressi – e potenziare le strutture ospedaliere che potessero accoglierli.» Se l’obiettivo era «non far collassare la sanità», allora si sarebbe dovuto agire sui soggetti più a rischio, e intanto premunirsi aumentando i posti-letto in terapia intensiva, comprando nuovi ventilatori ecc. Invece tutti i provvedimenti – chiusura dei luoghi di studio e cultura, poi dei luoghi di lavoro, poi di intere province e infine, in un crescendo di panico, dell’intera nazione – erano stati massimalisti e generici, e avevano avvelenato la vita sociale, diffondendo la paura del prossimo, il sospetto verso i rapporti umani, il desiderio di ulteriori misure securitarie. Per due settimane la regione Emilia-Romagna aveva tenuto chiuse le scuole ma non i centri anziani. E così, sedici dei nuovi ammalati s’erano passati il virus nella stessa bocciofila. Se era aperta, normale che qualcuno pensasse di poterci andare, no? Se non volevi che ci andassero, dovevi chiuderla, no? Ma le autorità, lungi dal fare autocritica, si erano messe a colpevolizzare gli anziani. Era partito il mantra: «Gli anziani a casa!». Mantra inutile, perché era una toppa ipocrita messa sul buco di prima, e perché era un’ingiunzione vuota, come se negli anni di massima diffusione dell’Aids ci avessero detto tout court: – Non dovete chiavare! NON chiavate! Mantra controproducente, perché inibiva anche condotte che invece sarebbero state salutari. Come nell’apologo raccontato su Giap dall’utente Vecio Baeordo: «Ieri mia madre, che è ampiamente nell’età a rischio, mi ha detto: “Sarei uscita volentieri, sto bene, non faceva freddo e come sai ho tanto bisogno di camminare, ma dicono di stare chiusi in casa e ci sono rimasta”. Non sarebbe andata in birreria, e nemmeno al supermercato (ci vado io per lei), sarebbe andata a prendere una boccata d’aria, a muovere i muscoli e a far circolare un po’ il sangue. Zero contatti. Zero aumento rischio contagio […] Siamo partiti da un virus e siamo arrivati a un Generico Babau che sta “là fuori”. Un nemico invisibile ed esterno. Tecnicamente una paranoia.» Finalmente, al TG1 delle 20 dell’8 marzo, uno scienziato senza aspirazioni sbirresche, l’infettivologo Massimo Andreoni dell’Università di Tor Vergata, l’aveva detto chiaro: «gli anziani non devono restare confinati notte e giorno, è importante anche per loro uscire e svagarsi, magari non frequentando luoghi affollati, ma una bella passeggiata non può fare che bene.» Nel frattempo, proprio lì a Bulåggna, un paziente proveniente dal piacentino, con la tosse, era stato ricoverato in Urologia per un intervento, senza problemi, nessuno gli aveva chiesto niente… e avevano dovuto chiudere l’intero reparto, perché solo dopo giorni s’erano accorti che aveva la febbre da Covid-19, non da decorso post-operatorio. E i pazienti di Urologia erano stati ricollocati altrove. L’episodio faceva capire bene su quale genere di prevenzione/informazione si sarebbe dovuto puntare – triage all’ingresso delle strutture sanitarie, procedure diagnostiche mirate, potenziamento delle strutture ecc. – e su quale invece ci si era incaponiti a insistere: – NO interazioni sociali! State A CASA! #IOSTOACASA!!! Ma quando politici e influencer intimavano «a casa!», quali case avevano in mente? Le loro, a quanto pareva. A leggere le disposizioni sulle misure di contenimento, sembrava che ciascun italiano avesse una stanza tutta per sé dentro una casa spaziosissima, e ovviamente ciascuno avesse un bagno separato. Nel decreto del 7 marzo, per esempio, c’era scritto che chi aveva i sintomi doveva «rimanere nella propria stanza con la porta chiusa garantendo un’adeguata ventilazione naturale». Ammalato o meno, chi restava in casa passava il tempo davanti alla tv, ad alimentare il proprio terrore, o sui social, dove ci si aizzava e impauriva e caricava la molla a vicenda, commentando gli annunci sempre più ansiosi e ansiogeni, facendo reload per aggiornare la “partita doppia” dei morti e dei guariti. Numeri sciorinati minuto per minuto come fosse una partita a basket Italiani contro Coronavirus. Numeri decontestualizzati e perciò inutili a farsi un’idea sensata della situazione, come nel 2011 con l’aumento del misterioso «Spread». Whatsapp era l’arma che aveva fatto più danni, di gran lunga il più potente amplificatore di paranoia. Messaggi vocali proliferanti parlavano di «ventenni intubati», uno era attribuito a sanitari del Niguarda di Milano. L’ospedale aveva smentito. Una bufalazza, giusto per alimentare il terrore. «Una menzogna e una porcheria inqualificabile», aveva detto il primario del San Raffaele, aggiungendo: «Noi abbiamo 27 persone in terapia intensiva, sei sono guariti e ce n’è uno di 18. Ma uno. E capita anche in periodi normali che un giovane possa ammalarsi di polmonite. L’età media dei pazienti è 70 anni.» Ma c’era poco da smentire, perché i social giocavano di rimessa. Il problema era il circolo vizioso tra politica e informazione mainstream. Se si fosse continuato a parlare solo di contagi e morti e zone rosse, la paranoia avrebbe continuato ad autoalimentarsi e a produrre mostri e decreti-mostro sempre più assurdi. Anche perché i politici reagivano sempre peggio e con meno lucidità man mano che scoprivano di essere positivi al test.

Era come se al governo ci fosse re Julian, quello di Madagascar.

– Nel secondo film vuole offrire Melman la giraffa in sacrificio al vulcano, per far finire la siccità.

– Ecco, uguale.

Era indispensabile allargare il campo dei discorsi e dell’analisi, oltre la risposta codina «Qualcosa devono pur fare!» In un mese e mezzo di emergenza, delle carceri se n’erano fottuti tutti, come di altre realtà di sovraffollamento coatto, tipo CPR, dormitori e centri d’accoglienza. Da anni la situazione nei penitenziari, sovraffollatissimi, era gestita sul filo del rasoio. Con l’emergenza, le condizioni di vita erano ulteriormente peggiorate, anche per via di restrizioni iper-zelanti e ingiustificate, misure improvvisate che il Garante nazionale dei diritti dei detenuti aveva definito «frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure.» La tensione cresceva da settimane. L’associazione Antigone aveva cercato di farlo capire, e avanzato proposte di buon senso, restando inascoltata. Finché non erano esplosi i grandi riot. Per ora, solo nelle prigioni. Domani, chissà. Mentre scrivevamo, era giunta la notizia che a Modena un detenuto era morto, poi i morti erano saliti a tre e c’era un ferito grave, poi i morti erano diventati sei, poi sette, infine otto. Tre morti anche a Rieti. A Pavia venivano presi in ostaggio due agenti di custodia. A Foggia c’era stata un’evasione di massa. Il 10 marzo era esplosa anche la Dozza. Centinaia di detenuti si erano impadroniti del reparto giudiziario. Verso sera, compagne e compagni avevano raggiunto il carcere ed esposto uno striscione con la scritta «Amnistia subito! Liber* tutt*!». A quel punto, le autorità non avevano più fatto passare nessuno. Noi c’eravamo arrivati solo perché Wu Ming 2 conosceva ogni cazzo di sentiero e cavedagna dei dintorni. Da decenni in Italia non si vedevano rivolte carcerarie tanto vaste e radicali. I detenuti erano i primissimi a rivoltarsi apertamente contro la gestione dell’epidemia sulla pelle dei più deboli e dei già esclusi. La cosa più sensata da fare, e (in un paese diverso) realizzabile subito, l’aveva enunciata con la massima chiarezza Luca Abbà: «liberare chi già gode di benefici, chi è sopra una soglia di età definita “a rischio”, chi ha un residuo di pena sotto i due anni. Non sta a me proporre quali misure alternative si potrebbero applicare (tipo obblighi di firma, rientri domiciliari ecc…) e nemmeno la forma legislativa adeguata (amnistia, indulto, decreto legge). Ai detenuti esclusi da tale provvedimento si potrebbero applicare più facilmente misure di prevenzione e sicurezza adeguate per poter garantire i colloqui con i propri cari e condizioni di detenzione meno disagiate di quelle odierne a causa del sovraffollamento cronico degli ultimi anni.»

I detenuti non si erano fatti paralizzare dal timore di essere criminalizzati: stavano già in gaiba, più di così… Fuori, per esser messi alla gogna e additati come delinquenti bastava esprimere un minimo scetticismo sulla gestione dell’emergenza. Sui social circolava la solita memetica e “satira” fascistoide, in cui si dava la colpa dell’epidemia a vari capri espiatori: gli «italiani che se ne fottono delle regole», la fauna della «movida», un pingue e sudicio attivista con la bandiera della pace… Ma anche in questo caso, a fomentare erano i media mainstream, con gli articoli contro i presunti «furbetti della quarantena». C’era un chiaro desiderio di «maniere spicce», di uno stato autoritario che facesse «pulizia». Tanti dicevano che la Cina ce l’aveva fatta perché lì c’era un regime, una dittatura. Altri blateravano di responsabilità collettiva e di «proteggere i più deboli», quando fino al giorno prima avevano incensato la meritocrazia, il darwinismo sociale e chissenefotte delle persone più fragili. Più sottile, l’accusa di «sminuire l’emergenza». A noi sembrava che quell’accusa andasse rovesciata. Sminuiva l’emergenza chi accusava gli altri di sminuire l’epidemia. Sminuiva l’emergenza chi la confondeva con l’epidemia. Sminuiva l’emergenza chi voleva parlare solo del virus, del numero dei contagiati, del «bollettino di guerra» strettamente sanitario ecc. La fallacia era parlare di provvedimenti politici drastici e senza precedenti, di misure di governance con ricadute sociali a cascata, come se fossero procedure cliniche. Lo spettacolo di una «medicalizzazione della politica» era messo in scena giorno e notte, tramite l’insistenza su mascherine e ingressi di ospedali. E se non ti adeguavi a quel modo di parlare dell’emergenza, ti accusavano di «sottovalutare la situazione». Colpa di un equivoco di fondo, un malinteso concettuale che ci vedeva reciprocamente lost in translation. C’era chi per «emergenza» intendeva il pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia. Invece, noi e pochi altri – in nettissima minoranza ma in continuità con un dibattito almeno quarantennale – chiamavamo «emergenza» quel che veniva costruito sul pericolo: il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…Chi, ogni volta che si parlava di tutto ciò, voleva subito tornare a parlare sempre e solo del virus in sé, della sua eziologia, della sua letalità, delle sue differenze con l’influenza ecc., a nostro parere sottovalutava la situazione. Qualcuno, poi, accusava a vanvera di «negazionismo». Noi stessi, pur non avendo mai negato la pericolosità del virus e l’esistenza dell’epidemia, ci eravamo beccati l’epiteto «negazionisti epidemiologici». Beh, c’eravamo abituati. Con calma, ci sarebbe stato da riflettere su quanto l’accusa di «negazionismo del coronavirus» avesse in comune con quella, altrettanto farlocca, di «negazionismo delle foibe». In ogni caso, l’uso a cuor leggero del concetto di «negazionismo» faceva danni: inflazionando il termine e rendendo l’accusa passepartout, si toglieva l’erba sotto i piedi a chi cercava di contrastare i negazionisti veri: quelli dei crimini nazifascisti e quelli del cambiamento climatico. Che, tra l’altro, sovente coincidevano.

In un commento su Giap, Wolf aveva scritto: «È almeno dal 92-93 che non disponiamo più di un tempo ordinario, una qualche emergenza c’era sempre, come minimo quella farlocchissima dei “conti pubblici”; […] non riconoscere l’emergenza permanente in cui siamo immersi è, come minimo, sintomo di una totale mancanza di senso storico.» Sempre Wolf, in un altro commento, aveva invitato a ponderare le somiglianze tra la retorica sull’epidemia e quella che aveva preceduto la nomina e l’insediamento del governo Monti. E così c’eravamo accorti del parallelismo tra dati sul contagio e «spread». Anche nel 2011 si era percossa, martellata l’opinione pubblica con cifre decontestualizzate, facendo crescere la paura dell’irreparabile, finché non c’era stato un quasi-coup d’état pilotato dall’UE per disarcionare il Berlusca e insediare Monti. Ma in realtà l’emergenza permanente era cominciata prima, nella stagione delle leggi speciali sul terrorismo. A fine anni Novanta ci avevamo pure scritto sopra un libro, Nemici dello Stato. Criminali, «mostri» e leggi speciali nella società di controllo (Derive Approdi, 1999). Prima del Covid-19, eravamo convinti che la critica dell’emergenza fosse ormai patrimonio dei movimenti. Una consapevolezza più acuta in alcuni attivisti e più vaga in altri, anche astratta volendo, ma in ogni caso presente. Eravamo anche convinti che le ricette di organizzazioni internazionali come l’OMS, il Fondo monetario, il WTO, l’UNESCO, la FAO non venissero prese ipso facto come Vangelo. E invece. Molti che negli anni, dentro i movimenti sociali, non avevano lesinato discorsi (e retorica) sull’emergenza come metodo di governo, di fronte all’emergenza coronavirus balbettavano e sembravano sguarniti di strumenti critici, affannati e pavidi di fronte a eventuali accuse di «irresponsabilità», poco o per nulla desiderosi di «spazzolare contropelo» i discorsi dominanti. E lo stesso di fronte alla tracotanza di qualunque «esperto» o ai comunicati dell’OMS. Qualcuno andava oltre, mostrandosi proprio infastidito dal pensiero critico. Da lì le accuse di stampo perbenista, rivolte anche da parte di “insospettabili” a chi nonostante tutto cercava di esercitarlo, il pensiero critico, per bene o male che gli riuscisse, e non rinunciava alla parresìa, al parlar franco, anche rischiando attacchi e impopolarità. A saltare per prima era stata la capacità di comprendere i discorsi altrui. «Se fai il paragone con l’influenza», aveva scritto Robydoc su Giap, «poi devi specificare che non è un paragone epidemiologico: è come se stessi facendo il paragone con i morti sul lavoro.» Eh, già. «Numquam nominare influentiam», precetto di stretta osservanza burioniana. Chiunque avesse detto cose ovvie sul fatto che, sotto l’aspetto sintomatico, la maggior parte dei pazienti che s’accorgeva di avere la malattia la viveva come un’influenza più aggressiva, aveva scatenato reazioni pavloviane e s’era beccato epiteti. RobyDoc proseguiva: «Se dici che “non sembra sia il virus in quanto tale che uccide, visto che deve agire a certe condizioni per essere pericoloso”, devi specificare che questo non significa “tanto non toccherà a me”; se metti in rilievo l’insensatezza e la contradditorietà di alcuni provvedimenti, poi devi specificare che non stai proponendo di andare a vedersi la partita, eccetera.» Chi non aveva reagito come sopra, spesso aveva scelto l’autocensura, per non passare come «quello che sminuiva», il «negazionista», il «dietrologo» (!) e quant’altro. Forse con il decreto serale del 9 marzo qualcuno avrebbe cominciato ad aprire gli occhi. Giorgio Agamben, più di chiunque altro, aveva subito il tiro al piccione, per un suo articolo uscito su Il manifesto. Agamben si era espresso male e frettolosamente parlando del virus vero e proprio (ancora una volta l’eziologia, alla quale si sarebbero voluti confinare tutti i discorsi!), ma nelle righe sull’emergenza il suo monito era stato: attenzione, la situazione di questi giorni dimostra che, dal punto di vista del controllo e del disciplinamento sociale, sfruttando un’epidemia si può ottenere di più e molto più in fretta che sfruttando altri pericoli. E aveva fatto l’esempio del terrorismo. Esempio ripreso anche da Mattia Galeotti su Giap, ma in un modo che poteva essere d’ispirazione e al tempo stesso aiutava a ribadire la differenza tra pericolo ed emergenza. Nella Francia di fine 2015, dopo il massacro al Bataclan e gli altri attacchi del 13 novembre, il pericolo terrorismo era reale: le stragi c’erano state. Ma l’emergenza terrorismo era una superfetazione, era tutto il «di più» costruito sul pericolo reale: la legge marziale, lo stato di polizia, il divieto di manifestare ecc. Scetticismo e critiche si erano diffusi tra i francesi fin da subito, ma, come aveva scritto Galeotti, non poteva bastare «la semplice evidenza dell’insensatezza [di divieti e restrizioni]», perché erano altrettanto diffusi la paura e il precetto «non è il momento di criticare». «A un certo punto però qualcuno/a ha detto qualcosa di completamente diverso. È cominciato molto piano con le manifestazioni dei migranti e con la contestazione della COP21: alcune manifestazioni non autorizzate hanno violato i divieti a partire da un rifiuto dell’emergenza («la vera emergenza è il clima», uno slogan di quei giorni). Stiamo parlando del finire del 2015, ma quei giorni sono stati importanti per aprire il ciclo in cui l’Esagono si trova anche adesso. Così come è stato fondamentale che il movimento contro la Loi Travail dell’anno successivo de-sacralizzasse Place de la Republique, che era all’epoca diventata un simulacro di unità nazionale, con la statua piena di candele e frasi strappalacrime. Destituire l’emergenza è un’operazione che in Francia è riuscita.» L’état d’urgence giustificato col pericolo del terrorismo era stato sfidato e disarticolato dal basso, dall’avvio del ciclo di mobilitazioni politiche e sindacali partito allora e che durava ancora nel 2020. I milioni di persone che avevano infranto i divieti non erano «negazionisti», gente che non credeva all’esistenza dell’ISIS. Era gente che contestava ciò che si voleva imporre sfruttando il pericolo rappresentato dall’ISIS. Ci avevano spesso accusati di ottimismo. In passato, bastava che constatassimo «in Italia le lotte ci sono» e molti: – Uh, come siete ottimisti…Semplicemente, non ci eravamo mai abbandonati a fatalismo e melancolia. E chissà se era ottimismo pensare che, nonostante tutto, l’emergenza fosse contrastabile, disarticolabile, e lo stato d’emergenza destituibile, e che il conflitto reale sarebbe tornato a manifestarsi. Eravamo stati attaccati per avere scritto, nel Diario virale #1, quel che in realtà avevano scritto anche svariati esperti e rispettati divulgatori, e che il sito Scienza in Rete aveva così riassunto: «Quello che si DEVE dire è, sic et simpliciter, che molti di quelli che incontrano il virus nemmeno se ne accorgono. Di quelli che manifestano sintomi, solo una percentuale minima, forse il 2% o 3% (alla fine dell’emergenza saranno anche meno) ci lasciano le penne; un numero che certamente si vorrebbe, e dovrebbe, evitare, ma che va considerato nella sua giusta dimensione […] Per essere ancora più chiari: non è né la febbre gialla né il vaiolo, e non è nemmeno la MERS, né la SARS (queste ultime due condizioni sono causate da altri coronavirus). Se lo si dicesse chiaramente, ribadendo il concetto che questa letalità, unita alla finora bassa probabilità di contagio individuale, produce un rischio individuale nullo per chi non si trova in zona ad alta densità di contagio […] si eviterebbero le code ai supermercati per comperare 50 scatolette di tonno, 6 flaconi di amuchina o 50 bottiglie di acqua.» E invece, come già avevamo fatto notare, altri esperti – magari per vendere un instant-book con prima tiratura da centomila copie – alla chiarezza preferivano l’allarme indiscriminato, fino a lanciare strali contro chi, già guarito, usciva di casa, dando così un presunto «segnale sbagliato». C’erano poi vari modi di giustificare le misure prese, trasformando in Sacre Scritture studi dagli esiti dichiaratamente incerti e sfumati. Mai come in quei giorni s’era visto che la comunicazione scientifica si presentava come «neutra» ma era inzuppata di ideologia dominante, come ogni altra comunicazione, e presa nelle contraddizioni del reale. Ne aveva scritto su Giap Mariano Tomatis qualche anno prima, e in quell’occasione c’era stato un bel dibattito. Ma gli ultimi in grado di rendersene conto sembravano essere gli scienziati. Il Patto Trasversale per la Scienza concludeva così il suo comunicato congiunto sull’emergenza Coronavirus: «è importante ribadire che non c’è nessun disaccordo tra scienziati, in quanto le nostre valutazioni ed i nostri obiettivi sono comuni. D’altronde non potrebbe essere altrimenti tra persone che sanno dove iniziano i fatti e dove finiscono le opinioni.» Seguivano le firme di importanti luminari e professori ordinari (tutti rigorosamente maschi), della cui competenza specifica non potevamo discutere. Tuttavia, se la loro preparazione epistemologica e filosofica era quella che emergeva dall’ultima frase, condita peraltro da un’insopportabile presunzione, non c’era proprio da stare allegri. Come aveva notato l’urbanista Enzo Scandurra, l’epidemia aveva mostrato la fragilità della costruzione neoliberista: «La ridondanza e la flessibilità assicurano che se una parte del sistema va sotto stress (per es. il fegato nel caso del sistema-uomo) altre parti del sistema collaborano per attenuare lo stato di stress del sottosistema. I sistemi viventi sono infatti sistemi ridondanti e con notevoli caratteristiche di flessibilità […] la flessibilità è il contrario della specializzazione. Tanto più un sistema è specializzato, ovvero basato su un’unica variabile o sull’uso spinto di una tecnologia, tanto più sarà fragile e non capace di resistere a cambiamenti imprevisti. Questo è evidente nel caso dell’Alta Velocità dove uno scambio mal progettato ha praticamente messo in ginocchio tutto il sistema dei trasporti ferroviari […] C’è allora da riflettere su come le nostre città siano sistemi dotati di scarsa flessibilità […] quando si verifica il collasso di uno dei sottosistemi (la sanità, ad esempio), l’intero sistema entra in uno stato altamente critico.» Un esempio di parametro che aveva impedito la flessibilità e preparato il disastro era il cosiddetto «rapporto deficit-PIL non superiore al 3%», uno dei più noti dogmi neoliberali, nato in Francia nei primi anni Ottanta e divenuto una delle pietre angolari del Trattato di Maastricht (1992). Ogni volta che si affrontava una questione seria si chiedeva la deroga a quel parametro. A riprova che era insensato. Del resto, lo aveva ammesso il suo stesso inventore. «Se mi chiede se la regola adottata oggi in Europa […] secondo cui il deficit di un Paese non deve superare il 3% del Pil abbia basi scientifiche, le rispondo subito di no. Perché sono stato io a idearla, nella notte del 9 giugno 1981, su richiesta esplicita del presidente François Mitterrand che aveva fretta di trovare una soluzione semplice che mettesse rapidamente un freno alla spesa del governo di sinistra che nel frattempo stava esplodendo. Così in meno di un’ora, senza l’assistenza di una teoria economica, è nata l’idea del 3% […] il numero 3, che è noto al pubblico per vari motivi ed ha un’accezione positiva, si pensi alle Tre Grazie, ai tre giorni della resurrezione, le tre età di Auguste Comte, i tre colori primari, la lista è infinita. Un numero, magico, quasi sciamanico, facilmente spendibile anche nel marketing politico […]» (Guy Abeille, intervistato dal Sole24Ore, 04/04/2019). I dogmi neoliberisti inscritti nei trattati europei e recepiti dalle leggi italiane avevano imposto feticci come il «pareggio di bilancio», inserito perfino nella Costituzione. Proprio l’inseguimento del «pareggio di bilancio» era quello che aveva devastato il welfare state e in particolare la sanità pubblica, che adesso, dopo quasi trent’anni di tagli, si ritrovava incapace di gestire l’epidemia. Così avevano riassunto lo sfascio le CLAP (Camere del Lavoro Autonomo e Precario): «Dal 1997 […] l’Italia ha perso 100mila posti letto […] Tra il 2012 e il 2017 […] sono stati soppressi 759 reparti ospedalieri.» Ora si diceva che per affrontare l’epidemia bisognava operare in deficit di oltre sette miliardi. Una super-deroga giustificata dalla situazione. Sì, si potevano chiedere e ottenere deroghe, ma quanto a soluzioni razionali sul lungo periodo, c’era poco da sperare. «Il servizio sanitario è al collasso!», «i posti-letto già finiti!»… Si parlava di posti-letto e di capienza del sistema sanitario come se fossero premesse assiomatiche, un datum quasi immodificabile. E invece, se c’era davvero grande pericolo, allora si sarebbero dovuti mettere in questione anche i dogmi più consolidati. C’era urgenza? Allora che si precettassero le cliniche e gli ospedali privati, quelli che avevano guadagnato dall’aziendalizzazione, privatizzazione e frammentazione del Sistema Sanitario Nazionale. Qualcuno non voleva essere precettato? Requisire la struttura. L’esproprio per pubblica utilità lo prevedeva anche la Costituzione, che quando parlava della proprietà privata ne limitava «i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale». Nell’Italia di un universo parallelo, l’epidemia poteva essere l’occasione giusta, poteva stimolare un’inversione di rotta e il ritorno a una sanità veramente pubblica, universale e gratuita. Ma come arrivarci, in quell’universo parallelo? Neanche a Reggio Emilia, si poteva andare. I ruzzoloni in borsa (il 9 marzo Piazza Affari aveva chiuso a -9%) e il fatto che molti settori dell’economia fossero in sofferenza veniva usato per dire: – Avete scazzato analisi, il capitalismo non ci guadagna niente. Chi traeva simili conclusioni non faceva altro che cadere in balia di due equivoci:

1) scambiava l’«economia» nella sua dimensione contingente per il capitalismo come sistema, e

2) confondeva il «governo» – inteso come la momentanea compagine dei politici che ricoprivano gli incarichi ministeriali – con la governance, cioè con l’insieme di strumenti atti ad assicurare la stabilità dei rapporti tra governanti e governati/e.

Più o meno lo stesso errore di quando si confondeva «il tempo che fa» con il clima, e si diceva: – Oggi fa freddo, dove sarebbe questo riscaldamento globale, eh? L’emergenza consentiva una vastissima speculazione finanziaria. Dall’emergenza estraevano valore le grandi piattaforme, come Google che ne approfittava per prendersi sempre più pezzi di scuola pubblica. Dell’emergenza approfittava l’industria dell’intelligenza artificiale applicata a sorveglianza e controllo, dalle videocamere smart alle nuove macchine biometriche da usare nei checkpoint ai termoscan che si stavano installando anche nei nostri aeroporti e nelle nostre stazioni, fino ai droni progettati ad hoc per i cordoni sanitari. E come si fregavano le mani gli organizzatori della più grande expo del settore, la iHLS InnoTech Expo, che si sarebbe tenuta a Tel Aviv a novembre: «Interested in learning more about the applications of robotics and AI in emergency and disaster scenarios? Attend iHLS InnoTech Expo!» Sul sito dell’expo c’erano vari articoli dove si parlava dell’emergenza coronavirus. Uno, ad esempio, la descriveva come una grandissima opportunità per vendere ai governi droni di ultima generazione. L’emergenza permetteva anche di dividere, riconfigurare e controllare meglio i territori, stabilendo quali fossero sacrificabili e quali no. Prima che l’intera Lombardia diventasse «zona arancione» e poi tutto il Paese «zona protetta», c’era stato, per dirla con Zone Rosse su Giap: «un tentativo di riconfigurare la geografia nel senso di un controllo del territorio che consentisse a Milano e al polo logistico di Piacenza di funzionare a “regime coronavirus” […] sacrificare le province di Cremona e Lodi e parte della bergamasca per non compromettere la finanza, il flusso della logistica e l’asse Milano-Venezia.» Nelle Marche, si era deciso di “dedicare” al Coronavirus l’ospedale di Camerino – al centro di un territorio fragile, che già da quattro anni viveva l’emergenza terremoto, senza nemmeno i medici di famiglia in molti paesi. I ricoverati erano stati trasferiti a San Severino e Macerata, i lungodegenti a Cingoli. Ma anche dai territori “sacrificati” si poteva estrarre valore. Wolf aveva attirato la nostra attenzione su certi discorsi: «stamattina alla “voce del padrone” [Radio24, N.d.R.] un deputato della Lega che si trova in zona rossa (non ricordo il nome, ma poco importa) proponeva la trasformazione delle zone rosse in ZES, zone economiche speciali, cioè territori in cui si deroga a normative fiscali, del lavoro, ambientali… a favore delle imprese.» Si stavano facendo ipotesi ed esperimenti. Caoticamente, alla carlona, scherzando con la catastrofe, ma intanto si insinuavano idee, scenari fino ad allora impensabili diventavano pensabili, e qualcosa sarebbe tornato utile. Toccava ribadirlo: la funzionalità dell’emergenza non era la messa in pratica di alcun complotto o Piano perfetto o bella pensata o Volontà del Signor Capitale, ma era una funzionalità sistemica, parte dell’operatività strutturale del capitalismo, ed era sempre l’esito di contraddizioni e conflitti.

Per tornare sulle cause sistemiche delle nuove epidemie: da tempo si preconizzava che il surriscaldamento globale, sciogliendo il permafrost, avrebbe “risvegliato” virus coi quali noi umani non eravamo mai entrati in contatto. Avremmo reagito ogni volta come con questo coronavirus? O avremmo finalmente deciso di farla finita con il capitalismo? In mezzo al campo arato osservavamo il fumo salire denso dal carcere e perdersi nella notte. Sentivamo le urla, gli scoppi dei lacrimogeni, le sirene. Tutto intorno a noi un paesaggio da horror rurale; in lontananza la basilica di San Luca, sempre illuminata; e più vicino, le luci del quartiere fieristico. Quel lembo di terra era ancora Bulåggna, ma non lo era già più. Da quella spianata rischiarata dalla luna guardavamo l’immagine mostruosa del paese riflettersi nelle fiamme. Non sapevamo cosa ci aspettava, ma potevamo immaginarlo. Ci sentivamo grati di essere lì, l’uno per l’altro. Urticati, infangati e forse perfino fuori tempo massimo per saltare canali, ma c’eravamo. Non da soli. Saremmo andati a cercare chiunque non avesse ancora ceduto all’insensatezza. Questo ci avrebbe dato la forza nei tempi a venire. Come sempre. E avremmo scommesso ancora sull’intelligenza contro l’idiozia di stato, la paranoia collettiva, la politica emergenziale. Una volta di più. Un minuto di più. In fondo, non c’era mai stato un motivo più valido per fare ciò che andava fatto. 

·        …in Africa.

Così l’Africa è rimasta (quasi) immune al coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 9 novembre 2020. Il primo caso di Sars-CoV-2 accertato in Africa risale allo scorso 14 febbraio. Le autorità egiziane comunicano di aver intercettato uno straniero affetto da Covid-19. Si tratta di uno straniero asintomatico, subito trasferito in ospedale e posto in quarantena. In quel preciso momento il mondo intero si stava interrogando sulle sorti del Continente Nero: sarebbe stato travolto dal coronavirus e messo in ginocchio a causa della sua arretratezza economica e sanitaria? Visto l’evolversi della situazione altrove, dove Paesi all’avanguardia come Francia, Regno Unito, Italia e Stati Uniti stavano pagando un prezzo altissimo in termini di vite umane (e non solo), le previsioni non sembravano affatto rosee. E invece, di lì a poco, i pronostici sarebbero stati clamorosamente smentiti. Mentre oggi il virus ha ripreso la sua corsa in gran parte del pianeta, da luglio i casi di Covid-19 sono in costante calo in tutta la regione africana. Il motivo, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, sarebbe da ricercare in una combinazione di misure di sanità pubblica abbinate a fattori socio-ambientali. La risposta dell’Africa all’emergenza Covid-19 è stata rapida, tempestiva, chirurgica ed efficiente.

Rapidità d’intervento. Alla notizia del primo caso di coronavirus rilevato in Egitto, John Nkengasong sapeva che cosa sarebbe potuto accadere. Il primo direttore dell’Africa Centers for Disease Control and Prevention, l’agenzia sanitaria pubblica panafricana incaricata di supportare le iniziative di salute pubblica degli Stati membri e rafforzare la capacità delle loro istituzioni nell’affrontare le minacce di malattie, aveva maturato una certa esperienza sul campo. Un caso di Sars-CoV-2 avrebbe presto potuto generare altre decine di infezioni. Poi centinaia, quindi centinaia di migliaia. A quel punto un’onda gigantesca avrebbe veramente travolto l’Africa. Immaginando il peggio, il signor Nkengasong aveva subito dato disposizioni ben precise ai vari Paesi africani. L’Africa è entrata immediatamente in massima allerta. All’aeroporto internazionale Bole di Addis Abeba, in Etiopia, dove ogni giorno atterravano decine di aerei provenienti dalla Cina, all’epoca primo epicentro della pandemia, il personale si era già attrezzato a dovere. Uomini con la mascherina raccoglievano informazioni sui passeggeri e controllavano loro la temperatura corporea. Lo stesso, mentre Stati Uniti e diverse nazioni europee prendevano sotto gamba la minaccia, stava accadendo quasi in tutto il resto continente. Il primo caso positivo nell’Africa subsahariana sarebbe stato confermato il 28 febbraio. Era di un uomo d’affari italiano che ha sviluppato i sintomi dopo un viaggio a Lagos, capitale della Nigeria.

Prevenire il virus. Di solito è l’Africa a essere l’epicentro di malattie infettive. Questa volta è accaduto esattamente il contrario: il Continente Nero è stato vittima di un “attacco anfibio”. L’analisi genomica del virus riferita ai primi casi avrebbe presto rivelato che quasi tutte le infezioni portate nella regione africana non provenivano dalla Cina ma dall’Europa. “Abbiamo guardato con totale spavento e stupore ciò che stava accadendo in Europa. Sapevamo di non avere alcuna possibilità se quella situazione fosse accaduta qui su quella scala”, ha spiegato al Financial Times il signor Nkengasong. Insomma non c’era tempo da perdere. Il cuore della strategia africana ruota attorno a un punto fondamentale: senza un vaccino o un farmaco efficace è impossibile combattere ad armi pari contro il Covid. Dunque l’unica possibilità è bruciarlo sul tempo. “Una volta che questo virus sarà fuori controllo, sarà molto, molto difficile da gestire per i nostri sistemi sanitari”, ha pensato Nkengasong, facendo poi notare che il coronavirus “non è una malattia che si combatte con ventilatori o unità di terapia intensiva”. “L’unico modo in cui possiamo giocare e vincere è concentrarci sulla prevenzione”, ha concluso. Numeri alla mano, l‘Africa si è comportata meglio di molte altre regioni più ricche.

Scenario favorevole. Senza ombra di dubbio la rapidità d’intervento adottata dalla maggior parte dei Paesi africani ha aiutato molto a frenare la diffusione del virus. Ci sono tuttavia da considerare anche altri fattori. Primo: l’Africa ha una popolazione molto giovane, con un’età media di 19,4 anni (quasi la metà di quella dell’Europa). Secondo: il Continente Nero è in svantaggio rispetto ai continenti più ricchi sotto tutti gli aspetti tranne uno. I governi africani sono abituati ad avere a che fare con una marea di malattie infettive, comprese molte malattie più pericolose del Covid. E così, mentre il Sars-CoV-2 mandava in tilt europei e americani, molti presidenti africani scrollavano le spalle e pensavano: “Eccone un altro”. Sia chiaro, tutte le nazioni hanno preso sul serio il pericolo rappresentato dal coronavirus ma nessuno è andato nel panico. Tranne una manciata di Paesi, come Egitto e Sud Africa, nel continente non ci sono praticamente unità di terapia intensiva e apparecchiature mediche sofisticate (il Sud Sudan, ad esempio, all’inizio dell’emergenza sanitaria aveva meno ventilatori, quattro, che non vicepresidenti, cinque). Dunque la linea d’azione comune è stata una: aggredire il virus prima che potesse espandersi. In poche settimane, grazie al Louis Pasteur Instite di Dakar, in Senegal, una struttura di livello mondiale, molti addetti erano stati preparati a dovere per affrontare la nuova malattia. Entro la fine di febbraio ben 42 Paesi erano in grado di testare il Covid-19. Soltanto poche settimane prima, quasi nessuno aveva era pronto a fronteggiare la sfida del secolo.

La risposta dei singoli Stati. Ogni nazione africana ha attuato le proprie misure restrittive. Il virus si è diffuso in tutto il continente nonostante l’ottimo modello organizzativo messo in campo dall’Africa, ma i numeri si sono sempre mantenuti bassissimi se paragonati agli altri continenti. Nonostante questo molti Paesi hanno intrapreso sforzi aggressivi per contenere la diffusione di Covid. Il Ruanda, ad esempio, già il 31 gennaio cancellava i voli dalla Cina. Una settimana dopo l’individuazione di un caso, che evidentemente era riuscito a eludere la rete di prevenzione allestita dalle autorità, il governo ha sospeso tutti i voli internazionali, chiuso i confini e detto ai cittadini di restare in casa. Il 23 marzo il Sudafrica ha annunciato un blocco di tre settimane, uno dei più duri al mondo. Questo Paese è stato colpito più degli altri probabilmente perché la sua popolazione è più anziana o perché ci sono più soggetti diabetici o con problemi cardiaci. Il Kenya ha imposto un durissimo coprifuoco dal tramonto all’alba. Il Financial Times ha sottolineato che a un certo punto si contavano più persone uccise per averlo sfidato di quante ne fossero morte per Covid. Una delle poche ombre è arrivata dalla Tanzania, dove il presidente John Magufuli ha negato che il coronavirus potesse rappresentare una minaccia esortando i tanzaniani a lavorare e riunirsi normalmente. Risultato: i funerali delle vittime si svolgevano di notte. In generale il più alto numero di morti si è concentrato nell’estremo nord del continente, tra Marocco, Egitto e Algeria, e nell’estremo sud, in Sud Africa, dove si è verificata quasi la metà di tutte le morti. Per il resto, il Continente Nero, almeno per il momento, ha superato la prova Covid-19 a pieni voti.

Perché non ci sono focolai di Covid-19 in Africa. Andrea Walton l'8 settembre 2020 su Inside Over. L’Africa è riuscita a sfuggire (almeno fino ad ora) alle conseguenze più devastanti della pandemia che, secondo alcuni esperti, avrebbe dovuto metterla in ginocchio. Le baraccopoli densamente popolate e le scarse condizioni igieniche non hanno favorito la diffusione del virus. La comunità scientifica ha cercato di elaborare alcune, possibili spiegazioni di questo fenomeno: tra queste ci sono l’età media piuttosto bassa della popolazione africana (e dunque più asintomatici) e una sorta di immunità pre-esistente derivante da infezioni di altri coronavirus. Il continente africano ha superato, ad agosto, la soglia del milione di contagiati.

Le certezze sono assenti. Diversi studi scientifici, volti ad individuare la presenza di anticorpi, hanno certificato come le persone esposte al Sars-CoV-2 siano percentualmente rilevanti: in Malawi, sono stati testati 500 addetti sanitari e si è scoperto che il 12.3% di loro era stato esposto al virus. In Kenya i test hanno coinvolto 3mila donatori di sangue ed i risultati sono stati sorprendenti: il cinque per cento della popolazione, tra i 15 ed i 64 anni, avrebbe gli anticorpi legati al Sars-CoV-2. I casi individuati ufficialmente ed il tasso di mortalità riscontrato non coincidono, perché più bassi, con quelli evidenziati dagli studi. La teoria del dottor Yap Boum, epidemiologo presso Epicenter Africa, è suggestiva: la regolare esposizione alla malaria e ad altre malattie infettive potrebbe aver spinto il sistema immunitario a reagire più efficacemente al morbo.

Carenze strutturali. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Africa ed in particolare modo i Paesi con poche risorse, come la Repubblica Democratica del Congo, potrebbero dover affrontare delle epidemie striscianti se non verrà data la priorità ai test per il Covid-19. Il test tramite tampone nei Paesi africani, secondo quanto segnalato da Focus on Africa, è approssimativo ed in taluni casi inesistente. Il Sudafrica, che ha realizzato oltre due milioni di test, è al primo posto sia per infezioni, oltre 500mila (più del 40% dell’intera Africa) che per test realizzati. Le nazioni virtuose, sulle 54 di questa area geografica, sono decisamente poche ed includono anche il Ghana, Gibuti ed il Marocco. La Tanzania, come segnalato da Focus in Africa in data 23 agosto, non ha pubblicato dati nazionali sino all’8 maggio e poi non li ha più aggiornati.

Problematiche croniche. I sistemi sanitari africani sono spesso segnati dalla presenza di gravi conflitti ed insurrezioni che ne minano la stabilità. Basti pensare a regioni come il Sahel, afflitto ormai da anni dall’insurrezione di gruppi islamisti legati allo Stato Islamico e ad al-Qaeda oppure alla Somalia, dilaniata dagli scontri tra Mogadiscio ed al-Shabaab e priva, per decenni, di un esecutivo legittimo. Senza dimenticare la Repubblica Centroafricana, dove le infrastrutture sono praticamente inesistenti. Altre nazioni, relativamente più fortunate, hanno comunque deciso di adoperare stratagemmi originali per individuare i possibili contagiati da Covid-19 nei porti e negli aeroporti. La School of Veterinary Medicine, in Namibia, ha deciso di addestrare i cani, accurati al 95%, per rilevare la presenza del Covid-19 negli uomini.

Un futuro a rischio. La Fondazione Surgo ha deciso di avviare un progetto, Precision for Covid, in grado di individuare un indice di vulnerabilità alla malattia per molte comunità africane, con lo scopo di aiutare governi a supportare i soggetti più vulnerabili. L’indice CCVI tiene in conto fattori come la vulnerabilità socio-economica, la densità di popolazione, l’accesso ai servizi abitativi, quante sono le persone anziane ed altri elementi. Molti Stati sono afflitti da vulnerabilità più o meno gravi in alcuni ambiti: dall’Africa centro-meridionale dove sono molte le persone colpite da Hiv, malaria e malattie respiratorie ad Etiopia, Madagascar e Mozambico dove sono presenti disordini civili ed insicurezza alimentare. La malattia potrebbe sfruttare queste problematiche per dare sfoggio delle sue capacità distruttive.

Grazie alle ferite di Ebola l’Africa si è salvata da Covid. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 maggio 2020. L’esperienza acquisita negli anni con il terribile virus Ebola ha reso i pur fragili governi molto più reattivi rispetto alle epidemie. La mortalità elevatissima di Ebola ( circa il 60%) ha così stimolato un’estrema vigilanza e una maggiore rapidità di risposta. In tutto il Mali ci sono appena 45 posti letto in terapia intensiva, in Burkina Faso scendono a 15, nella Repubblica del Congo sono pochi di più. Numeri sconsolanti, che rendono queste nazioni del tutto indifese di fronte a una pandemia virulenta come quella del Covid- 19, che dallo scorso febbraio sta flagellando il pianeta. Quando lo scorso febbraio il contagio, partito dalla città cinese di Whuan, ha iniziato a colpire l’Europa, l’Oms ha lanciato un drammatico allarme, invitando a «prepararsi al peggio» e a un’apocalittica «bomba epidemica» pronta a esplodere nel continente africano. A tre mesi di distanza quella bomba non è mai esplosa; se il coronavirus ha avuto una diffusione significativa ( ma non gravissima) in Maghreb e Africa del nord, le nazioni subsahariane sono state risparmiate o comunque toccate in modo lieve. Come è stato possibile? Ci sono senza dubbio motivi endemici che spiegano la limitata diffusione del Covid- 19. In primo luogo il clima caldo e secco della fascia subsahariana limita la persistenza del virus en l’air. Inoltre l’età media molto bassa della popolazione riduce il tasso di mortalità generale causata dalle infezioni respiratorie, molto più severe quando attaccano gli anziani. Ma in questo caso stiamo parlando degli effetti veri e propri della malattia quando in realtà è il numero complessivo di persone contagiate, il denominatore, che è rimasto sotto la soglia di allarme. Un fenomeno che tutti gli epidemiologi legano allo scarso sviluppo industriale del continente, alla bassa densità abitativa di molte regioni, alla ridotta interconnessione tra gli abitanti, agli effetti minori della globalizzazione ( il numero di persone che viaggiano in aereo è modesto rispetto all’Europa, agli Stati Uniti e alla stessa Asia). Si è ipotizzato che le cifre siano falsate dai pochi tamponi effettuati, ma, come fa notare Philippe Le Vaillant, responsabile di Medici senza frontiere in Senegal, i pochi ospedali presenti sul territorio non sono mai stati presi d’assalto dai malati. C’è invece un fattore specifico ai paesi dell’Africa centrale che spiega più di ogni considerazione sociologica generale la relativa impermeabilità al virus: l’esperienza acquisita negli anni con il terribile virus Ebola che ha reso i pur fragili governi molto più reattivi rispetto alle epidemie. La mortalità elevatissima di Ebola ( circa il 60%) ha così stimolato un’estrema vigilanza e una maggiore rapidità di risposta. Paesi come l’Uganda e il Ruanda hanno chiuso gli aeroporti, le scuole e vietato gli assembramenti prima ancora che venisse registrato il primo caso di Sars- cov2, anticipando i protocolli dell’Oms che raccomandano queste misure solo quando il contagio è in fase avanzata. Anche la quarantena per chi proveniva dall’estero è stata messa in atto con largo anticipo. L’Uganda ha anche realizzato dei tamponi mirati su categorie particolarmente a rischio: circa un migliaio di autisti di tir che lavorano oltre le frontiere sono stati testati ogni giorno per evitare che potessero diventare dei veicoli privilegiati del contagio. Soltanto una dozzina di questi è risultata positiva al Covid- 19 ma in forme lievi ed è stata prontamente isolata. Così stando ai dati del 20 maggio l’Uganda conta finora zero decessi e pochissimi contagi. Ma probabilmente ciò che ha contribuito in maniera maggiore a proteggere la popolazione sono leitari di base”, una figura di medicina comunitaria che non esiste altrove e che venne istituita durante le successive epidemie di Ebola. L’ultima nel 2014 aveva ucciso circa 15mila persone nell’Africa occidentale e oggi i sanitari formati all’epoca si dedicano anima e cuore alla battaglia contro il coronavirus. Solo in Sierra Leone sono 15mila i sanitari di base che agiscono sul territorio, non si tratta di veri e propri medici ma di personale con formazione epidemiologica e una conoscenza approfondita delle comunità in cui operano incaricato di tracciare le eventuali aree di contagio per scongiurare i pericolosissimi cluster. «La lezione di Ebola è stata fondamentale per combattere il Covid- 19, in tutte le epidemie la mobilitazione comunitaria è un aspetto determinante, le famiglie devono ragionare come degli epidemiologi, ma anche gli epidemiologi devono ragionare come delle famiglie», spiega in un articolo pubblicato dal sito African arguments l’antropologo Paul Richards, autore del saggio How a People’s Science Helped End an Epidemic. La conoscenza delle dinamiche comunitarie nei villaggi aiuta i sanitari a reperire in fretta i membri colpiti all’interno delle famiglie e a isolarli come anche a stabilire protocolli efficaci di distanziamento sociale. Naturalmente l’esperienza accumulata in questo decennio è un patrimonio necessario ma non sufficiente per eliminare il rischio di nuove ondate del virus e lo stato pietoso del sistema di sanità pubblica di diversi Paesi e la mancanza di fondi per le campagne di prevenzione è una debolezza strutturale che espone la popolazione qualora dovessero emergere focolai fuori controllo. Per esempio nella popolosa città di Kano nel nord della Nigeria è appena esploso un focolaio che ha provocato decine di morti.

Articolo del “Financial Times” dalla rassegna stampa di “Epr comunicazione”  il 30 aprile 2020. Il Financial Times approfondisce la questione del Covid 19 in Africa. Da quando il primo caso di coronavirus africano è stato confermato il 14 febbraio, quando è stato diagnosticato ad un cittadino cinese in Egitto, il virus si è diffuso in quasi tutti gli angoli del continente. Bill Gates, il fondatore di Microsoft, la cui fondazione di beneficenza è focalizzata sulla pandemia, ha avvertito che la malattia potrebbe impattare sulla vita di 10 milioni di persone. Eppure, a più di due mesi di distanza, alcuni hanno il coraggio di sussurrare un messaggio di speranza. L'Africa ha più di 32.000 casi ufficiali del virus che ha infettato più di 3 milioni di persone in tutto il mondo, e ha subito meno di 1.400 morti. Data la limitata capacità di analisi, i numeri possono sottovalutare notevolmente il vero peso, anche se a prima vista, le cifre suggeriscono che un continente di 1,2 miliardi di persone ha sofferto meno morti di Covid-19 rispetto a quanto gli Stati Uniti stanno registrando ogni giorno. John Nkengasong, direttore dei Centri africani per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha avvertito che sarebbe sbagliato trarre conclusioni definitive. Non ci sono, ha detto, prove concrete che qualsiasi fattore specifico dell'Africa - che si tratti di una popolazione più giovane, del clima caldo o anche della prevalenza di vaccinazioni contro la tubercolosi - abbia un qualche impatto sulla diffusione della malattia. "A questo punto sarei estremamente cauto nel dire che ci stiamo muovendo lentamente e che ci sono fattori speciali", ha detto, aggiungendo che i casi confermati sono aumentati di oltre il 40% in una settimana. Questo suggerisce che l'Africa potrebbe essere semplicemente dietro la curva, con la pandemia che sta prendendo velocità ora. "Il nostro livello di test è estremamente basso", ha detto, il che implica che molti casi potrebbero essere passati inosservati. Circa 415.000 test significa che ne sono stati effettuati solo 400 per milione, molto più bassi che in Europa. "I Paesi africani hanno fatto passi molto radicali molto presto, chiudendo le frontiere e facendo blocchi", ha detto. Paul Hunter, professore di medicina all'Università dell'East Anglia, ha detto che le autorità hanno ragione ad essere prudenti. Tuttavia, ha detto, ci sono ragioni per sospettare che il virus possa essere meno letale in Africa, dove le malattie diffuse dalle goccioline, come l'influenza, tendono a diffondersi più lentamente. Il continente ha avuto un solo caso di sindrome respiratoria acuta grave (Sars) durante l'epidemia del 2002-03, con una sola infezione a Città del Capo. La diffusione più lenta delle infezioni trasmesse per via aerea, ha detto il Prof. Hunter, potrebbe essere attribuibile a popolazioni meno dense, all'effetto della luce ultravioletta o a un clima che fa sì che le persone passino più tempo all'esterno. Nel caso del coronavirus, ha detto, la popolazione giovane dell'Africa potrebbe anche aiutare a spiegare il basso tasso di mortalità finora. L'età media in Africa è di 19,4 anni, contro i 40 dell'Europa e i 38 degli Stati Uniti. Il professor Hunter ha detto: "Ci sono stati così pochi casi di malattie gravi nelle persone sotto i 20 anni in occidente che, quando si ha una popolazione che ha un'età mediana di 19 anni, il rischio di un alto numero di decessi è sostanzialmente ridotto". Un modo per giudicare se i decessi da coronavirus potrebbero essere sotto dimensionati è quello di comparare le statistiche di mortalità complessiva per le morti in eccesso rispetto ai livelli normali. In Sudafrica, i decessi nell'anno fino al 14 aprile sono stati " entro i limiti dell'aspettativa", secondo il Medical Research Council del Paese, suggerendo pochi decessi nascosti di coronavirus. In Egitto, un paese di 100 milioni di persone che ha registrato 4.782 infezioni e 337 morti, un epidemiologo ha detto che i dati rilasciati dal ministero della salute non sono sufficienti per prevedere il decorso della malattia. Ma dubita che le statistiche ufficiali fossero del tutto imprecise: "Se le infezioni fossero drasticamente più alte, vedremmo gli ospedali sopraffatti, cosa che non sta accadendo. Ma potrebbe comunque accadere".

Lorenzo Simoncelli per “la Stampa” il 31 marzo 2020. Lagos, capitale commerciale della Nigeria, la megalopoli d' Africa da 20 milioni di persone che non dorme mai, chiude i battenti. La pressione del Covid-19 è arrivata anche qui e dopo giorni di tentennamenti si è deciso di imporre la chiusura di tutti i servizi non essenziali per due settimane. In Nigeria i casi di Covid-19 dal 27 di febbraio ad oggi sono 111 con una vittima confermata. Pochissimi considerati i 200 milioni di abitanti del Paese, ma comprensibili considerando il basso numero di tamponi effettuati. Le autorità sanitarie della megalopoli nigeriana hanno dimostrato in passato di saper gestire e frenare l' epidemia di Ebola, ma la pandemia globale di coronavirus sta facendo tremare il Presidente Muhammadu Buhari già costretto a manovre economiche emergenziali per il crollo del prezzo del greggio. Lagos contribuisce ad un terzo dell' economia nazionale, da sola vale l' intero Pil del Kenya, chiuderla significa soprattutto togliere linfa vitale ai milioni di commercianti che vivono di economia informale tra le disordinate strade della megalopoli nigeriana. Chiedere di rimanere a casa a persone che vivono in slum malsani dove la distanza tra una baracca e l' altra non supera mezzo metro un' impresa ardua è, forse, controproducente. Sulla decisione del Presidente Buhari che prevede la chiusura anche della capitale Abuja e dello Stato di Ogun, ha pesato la direzione presa dagli altri Stati del Continente, decisi a fermare tutto per evitare di raggiungere i picchi di Europa, Cina e Stati Uniti, impossibili da gestire dai servizi sanitari nazionali. È pronto un fondo emergenziale di 40 milioni di dollari, oltre alle donazioni dei facoltosi privati nigeriani, tra cui Aligko Dangote, l' uomo più ricco d' Africa. Ma il rischio è che milioni di lavoratori vengano tagliati fuori dai sussidi e che, alla fine del lockdown, la popolazione povera aumenterà a dismisura. Il vicino Ghana ha seguito la decisione della Nigeria di limitare la chiusura alle grandi città, tra cui la capitale Accra, Tema e Kumasi, dispiegando 35mila uomini armati per implementare le misure restrittive anche qui per le prossime due settimane. In Africa orientale, invece, il Ruanda, lo Stato più colpito dal coronavirus nella regione, è già da una settimana in lockdown totale, ma il numero di nuovi contagi non accenna a diminuire in attesa di raggiungere il picco. Kenya e Sudan, invece, hanno optato per l' opzione del coprifuoco notturno per evitare che la popolazione frequenti luoghi di aggregazione all' aperto. A Nairobi non sono mancati scontri con la polizia. La popolazione protesta la decisione del Governo sostenendo che i danni economici delle misure restrittive rischiano di essere superiori ad un eventuale contagio diffuso di Covid-19. Il Sudafrica ha adottato misure ancora più stringenti e su tutto il territorio nazionale dal 27 marzo fino al 16 aprile sarà blocco totale. Vietata anche la vendita di alcolici e tabacchi per 21 giorni. Nella Nazione Arcobaleno, la più colpita dal coronavirus in Africa, i casi confermati sono 1.280, le città sono deserte. La maggior parte della popolazione è fuggita verso le zone rurali. Nonostante il pugno di ferro con migliaia di militari nelle strade si sono verificati i primi contagi anche nelle township, le aree nelle periferie delle grandi metropoli dove vivono milioni di sudafricani in condizioni igieniche precarie. Anche il vicino Zimbabwe, dove si è registrata la prima vittima, ha deciso di chiudere le attività in tutto il Paese per tre settimane.

Coronavirus, l'allarme di Giovanni Rezza: "Bomba Africana, se arriva nel continente nero l'Italia rischia". Libero Quotidiano il 3 Febbraio 2020. Il Coronavirus si espande a macchia d'olio. L'epidemia che sta spaventando il mondo potrebbe esplodere anche in Africa, al punto di farne un luogo di incubazione e di trasmissione. Lo sa anche il governo italiano che - secondo Il Messaggero - ha optato, proprio per questo, di far sbarcare la nave dell'ong spagnola Open Arms, con 343 migranti a bordo, nel porto di Pozzallo, sottoponendola a controlli più accurati del solito. D'altronde, i dati diffusi dall'Istituto Superiore di Sanità confermano i 14.564 infetti, 360 decessi a livello globale e 23 casi in Europa. Numeri che potrebbero nettamente aumentare con l'arrivo del virus nel continente africano. 

Leggi anche: Coronavirus, scienziati Usa: "Oltre 100mila i contagiati". "La più grande preoccupazione" dell'Organizzazione mondiale della Sanità è che l'epidemia partita dalla Cina possa raggiungere "Paesi con sistemi sanitari più deboli". Come per 'appunto l'Africa, "un continente molto popoloso - ammette Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento Malattie infettive dell'Iss -. Finora segnalazioni di casi sospetti ce ne sono stati in alcuni Paesi. In Costa d'Avorio è risultato negativo un test effettuato poi in Francia. In Sudan, in Guinea equatoriale, Mauritius e Angola hanno messo in quarantena diverse persone provenienti dalla Cina e hanno inviati i campioni per i test in Germania, India e Sudafrica". Una situazione che deve mettere in allerta tutti gli organismi internazionali, soprattutto perché la presenza cinese in Africa - a causa degli interessi economici - è massiccia.

 Lorenzo Simoncelli per “la Stampa” il 3 febbraio 2020. L'Africa intera aspetta con il fiato sospeso i risultati del laboratorio di Johannesburg in Sudafrica dove sono stati mandati i campioni dei 18 casi sospetti di aver contratto il Coronavirus. Nessuna conferma al momento, ma la paura di un' epidemia su larga scala è alta in un Continente ancora alle prese con l' epidemia di Ebola, con strutture sanitarie precarie ed un grande transito di cittadini cinesi. La Cina è, infatti, il primo partner commerciale dell' Africa. Si stima che circa un milione di cinesi vivono in Africa, oltre 200mila sono lavoratori delle principali aziende statali inviati da Pechino per realizzare opere pubbliche a margine del progetto di espansione della Via della Seta. Etiopia, Kenya, Tanzania e Sudafrica sono gli Stati con la maggior concentrazione di cinesi ed anche i più preparati a gestire un' eventuale diffusione dell' epidemia. A seguito dell' aumento degli scambi commerciali, quasi tutte le compagnie di bandiera africane hanno voli diretti con la Cina. Negli ultimi dieci anni, anche grazie alla crescita esponenziale del turismo cinese in Africa, circa 800mila visitatori all' anno, le rotte sono aumentate del 600%. In media 8 voli al giorno collegano l' Africa con la Cina. L' Ethiopian Airlines collega Addis Abeba con 5 metropoli cinesi, tuttavia non ha ancora bloccato i voli. Al contrario di altre compagnie come la Rwanda Air e la Royal Air Maroc che hanno chiuso tutte le rotte con la Cina fino a data da destinarsi. Un impatto devastante per l' economia di questi Paesi che, pochi mesi fa, avevano lanciato dei nuovi visti ad hoc per favorire l' ingresso di cinesi. Per paradisi turistici come Mozambico ed isole Mauritius il rischio è che vadano persi i proventi della stagione estiva. Il Mozambico ha sospeso l' emissione dei visti e vietato l' ingresso ai cinesi provenienti da qualsiasi città. Oltre a lavoratori, impresari e turisti, la Cina ospita un enorme contingente di studenti africani, molti di ritorno in questi giorni in Africa per le vacanze del Capodanno cinese. Solo a Wuhan, epicentro dell' epidemia, si stima che gli universitari africani siano 4.600, oltre 80mila in tutta la Cina. Il soft-power di Pechino passa attraverso il finanziamento di migliaia di borse di studio, tanto che il maggior numero di universitari stranieri in Cina è rappresentato proprio dagli africani. Una studentessa della Costa d' Avorio, proveniente da Pechino, è stata la prima a manifestare i sintomi del Coronavirus, salvo, poi, esser risultata negativa ai test. Le misure di prevenzione e controllo sono state rafforzate nei maggiori porti ed aeroporti del Continente. Gli ospedali delle metropoli africane hanno già creato aree di quarantena per eventuali pazienti colpiti dal virus, ma la paura è che le strutture di sorveglianza non siano sufficientemente adeguate a contenere un' eventuale epidemia, così come accaduto recentemente per Ebola in Africa occidentale ed in Congo. «Non in tutto il Continente sono presenti laboratori con strutture in grado di rilevare la presenza del virus» - ha detto Ngozi Erondu, membro del programma di Global Health del think-tank inglese Chatham House. John Nkengasong, direttore del Centro dell' Africa per la prevenzione ed il controllo delle malattie infettive (Africa CDC), in un' audizione all' Unione Africana ha detto, invece, che il Continente è pronto a gestire l' epidemia. L' Organizzazione Mondiale della Salute ha deciso comunque di aumentare le risorse finanziare in 13 Stati africani e Bill Gates, attraverso la sua fondazione, ha donato 5 milioni di dollari per la prevenzione della diffusione del virus.

Graziella Melina per “il Messaggero” il 3 febbraio 2020. L'epidemia da Coronavirus cinese rischia di spostarsi nel continente africano. I legami commerciali che legano la Cina con i diversi Paesi africani hanno fatto sì che il continente a noi più vicino possa in realtà diventare luogo di incubazione e di trasmissione. Le autorità italiane stanno tenendo sotto controllo la situazione e non è un caso che la nave dell'ong spagnola Open Arms, con 343 migranti a bordo attraccata ieri nel porto di Pozzallo, sia stata sottoposta a controlli più accurati del solito. Visto lo stato di emergenza dichiarato dal governo, come previsto dal protocollo sanitario, i migranti arrivati ieri sono stati visitati per scongiurare che avessero i sintomi legati al virus cinese. Secondo i dati diffusi ieri dall'Istituto Superiore di Sanità, i casi confermati di pazienti affetti da Coronavirus hanno raggiunto i 14.564, 360 i decessi e 23 i casi in Europa. Ma se l'infezione dovesse arrivare in Africa la situazione potrebbe diventare davvero preoccupante. Annunciando l'emergenza sanitaria globale, il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha riconosciuto infatti che «la più grande preoccupazione» dell'organizzazione è che l'epidemia partita dalla Cina possa raggiungere «Paesi con sistemi sanitari più deboli». Come appunto l'Africa. Non nuova ad epidemie di grossa portata, tra cui l'Ebola, che si è diffusa in Liberia, Sierra Leone e Guinea tra il 2014 e il 2016, uccidendo circa 11.300 persone. J.Stephen Morrison, direttore del Global Health Policy Center al Center for Strategic and International Studies di Washington, ha avvertito che la malattia rischia di attecchire se raggiungerà alcuni Paesi africani e potrebbe inaugurare una pandemia. «In Africa ancora non sono emersi casi di Coronavirus - spiega Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento Malattie infettive dell'Iss -, ma il continente potrebbe rappresentare un punto debole». La paura di un'epidemia in quel continente c'è. «Si tratta di un continente molto popoloso - ammette Rezza -. Finora segnalazioni di casi sospetti ce ne sono stati in alcuni Paesi. In Costa d'Avorio è risultato negativo un test effettuato poi in Francia. In Sudan, in Guinea equatoriale, Mauritius e Angola hanno messo in quarantena diverse persone provenienti dalla Cina e hanno inviati i campioni per i test in Germania, India e Sudafrica». In Sudan, il ministro della salute Akram Ali Altoum ha annunciato che 2 cittadini sono stati sottoposti a controllo dopo essere stati a Wuhan, ed erano arrivati dalla Cina attraverso Cairo e Addis Abeba. «Sappiamo naturalmente che l'Africa ha punti fragili e deboli della catena sanitaria. Conforta però che finora i casi sospetti non abbiano avuto esito positivo - ammette Rezza -. In teoria, gli stati africani non hanno la stessa rete dei laboratori europei. E la febbre di varia natura che possono contrarre le persone potrebbe essere confusa con altre infezioni e non essere riconosciuta come da Coronavirus. Motivo per cui è bene che gli organismi internazionali stiano in allerta».

·        …in India.

Gerry Freda per ilgiornale.it il 6 maggio 2020. In India, dopo sei settimane di chiusura totale anti-contagio, è stata da poco autorizzata dal governo la riapertura di alcuni esercizi commerciali, tra cui i negozi di liquori, causando una vera e propria “corsa all’alcol” da parte della popolazione. Le autorità federali hanno infatti dato il nulla osta anche alla ripresa di alcune attività economiche non essenziali, tra cui figurano appunto 130 botteghe di spiriti sparse per il subcontinente. Gli assembramenti caotici davanti alle rivendite di alcolici si stanno verificando nel Paese mentre si registrano lì oltre 42500 contagi da Covid e circa 1300 morti. Proprio davanti ai negozi delle bevande incriminate si stanno creando, fin dalle prime ore dell’alba, code disordinate formate da centinaia di persone, disposte ad attendere anche con 35 gradi di temperatura esterna pur di entrare a comprare l’agognato alcol. In alcuni casi, la polizia è dovuta intervenire per disperdere, mediante “bastonate”, gli assembramenti ingestibili. Ad esempio, ha evidenziato ieri The Independent, in un distretto rurale della città di Puri, nell’est dell’India, sono stati contati ultimamente più di 500 individui ad aspettare di potere mettere piede in una bottega di spiriti. Terminato l’orario di lavoro dell’esercizio commerciale, tutta quella folla ha cominciato a protestare e a pretendere di entrare a fare acquisti lì dentro. Di conseguenza, gli agenti hanno dovuto caricare la gente in attesa utilizzando i lathi, ossia dei lunghi bastoni di bambù con funzione di manganelli. Scene analoghe, denuncia il giornale britannico, si sono presentate di recente anche nella capitale Delhi, dove, nei pressi di un negozio di alcolici situato nel centro antico della metropoli, si è formata una calca di più di 200 persone intenzionate ad acquistare le bevande in questione. A un certo punto, i soggetti in fila hanno cominciato a perdere la calma e a spintonarsi, obbligando le forze dell’ordine a disperdere con la forza la gente lì radunata. I casi di assembramenti “esplosivi” davanti alle botteghe di spiriti, fa sapere la testata d’Oltremanica, stanno divenendo sempre più frequenti nel subcontinente, con conseguente impennata, sul web, di sollecitazioni affinché il governo indiano imponga nuovamente la chiusura di quegli esercizi commerciali per ragioni di ordine pubblico. Sui social, riferisce il medesimo organo di informazione, l’hashtag #LiquorShops è infatti divenuto in poco tempo uno dei più ritwittati del Paese.

Da “il Giornale” il 14 aprile 2020. Se repetita iuvant, ripetere cinquecento volta aiuta ancora di più. Ne sono convinti in India, dove hanno punito dieci turisti che, violando le misure di contenimento, sono stati sorpresi a farsi una passeggiata lungo la riva del Gange, a Rishikesh, città sacra indiana ai piedi dell' Himalaya. Una città famosa in Occidente soprattutto perché nel 1968 fu la meta di un rititro spirituale dei Beatles. Ma a questi occidentali è andata molto peggio che ai «fab four». In dieci, tra austriaci, australiani, israeliani e messicani sono stati fermati dalla polizia e costretti dalle autorità a scrivere per 500 volte la frase «mi dispiace di aver violato le regole del blocco». La polizia indiana del resto merita il premio per la creatività delle punizione da «evasione» anti-Covid: ci sono agenti che indossano caschi a forma di coronavirus, a trasgressori costretti a fare squat e flessioni come espiazione. Scommettiamo che molti italiani, anche i meno in forma, preferirebbero questa punizione alla multa per centinaia di euro. Magari non sceglierebbero invece le bastonate che pare vengano irrorati con grande frequenza: domenica nove persone fermate su un' auto a un posto di blocco in Punjab sono state colpite vigorosamente. Del resto sono molti i turisti stranieri bloccati nel subcontinente: ieri un volo con a bordo 444 passeggeri, tra cui 33 bambini, è atterrato nella notte a Melbourne provenendo dall' India e sono stati messi in quarantena per quattordici giorni in alberghi di Sydney e Melbourne. E anche l' Italia sta cercando di rimpatriare alcuni nostri concittadini bloccati in India.

Alice Mattei per it.businessinsider.com il 29 aprile 2020. Di questi tempi tutto il mondo guarda all’India: come è stato possibile che uno dei Paesi più popolosi del mondo, con città sovrappopolate e sovraffollate, con un ampia fetta di popolazione che vive in povertà, abbia evitato l’esplosione della bomba Covid? Come è stato possibile che un paese con problemi sanitari e igienici enormi,  abbia contenuto la diffusione del CoVid19?. Perché le stime che prevedevano più di 150 milioni di contagi nel subcontinente sono state smentite? A quanto sembra, il peggio è stato scongiurato grazie a un blocco precoce e rigidissimo: in tutto  l’India ha riportato 31.360 casi di coronavirus e 1.008 decessi, ovvero circa 0,76 decessi per milione. Negli USA, tanto per avere un termine di paragone, l’indice per milione è di 175. Secondo il primo ministro Narendra Modi, la ragione del contenuto allarme sanitario in India sta nel fatto che il blocco nazionale è stato deciso in modo precoce, ossia non appena si sono presentati i primi casi: si è chiuso tutto quando i contagi tracciati erano sono 519. In Italia, tanto per dare un paragone, si è chiuso tutto superati i 9.000 casi.

L’epidemia in India una bomba ritardata dai rischi devastanti. Claudio Landi su Il Dubbio l'11 aprile 2020. Gli effetti del virus sulla salute ma anche sull’economia della nazione. Il più grande blocco di persone e di attività economiche del mondo. Il lockdown indiano. Centinaia di persone si sono messe in viaggio dalle metropoli, una per tutte la capitale economica, Mumbay, verso i loro villaggi di provenienza. Lo scopo: trovare una casa dove dormire e mangiare mentre l’economia dell’India si bloccava per decisione del primo ministro Narendra Modi. Modi è esponente della destra nazionalista indù, il BJP, legatissimo al mondo dell’induismo radicale, già “Chief minister” del suo stato, il Gujarat. Modi ha messo l’intera India in lockdown dal 25 marzo scorso. Le statistiche ufficiali mostravano in verità una India pochissimo colpita dalla pandemia: 3500 casi registrati, un centinaio di vittime. Un po’ poco per un paese afflitto da serissime carenze nella sanità pubblica e spesso attraversato da malattie infettive. Chiunque abbia viaggiato, visitato, lavorato in India conosce molto bene le condizioni igieniche locali e magari ha sofferto delle relative conseguenze. Ad oggi, la situazione rimane critica. Mumbay è diventato l’epicentro indiano della crisi sanitaria: con i suoi oltre 20 milioni di abitanti può diventare il centro di una catastrofe. Non è quindi un caso che le autorità locali abbiano già deciso un allungamento del lockdown fino alla fine di aprile. La situazione è così delicata che l’India ha aperto negoziati stringenti con la vicina Cina per ottenere forniture mediche. «Tutti stanno facendo la fila alle porte della Cina, che ha sviluppato una grande capacità di produzione di maschere, guanti, tute, occhiali protettivi e copriscarpe per soddisfare l’ondata di una volta della domanda interna. Ma ora con la pandemia all’interno del paese contenuta, la Cina è posizionata in modo univoco per intraprendere esportazioni su larga scala», ha detto il funzionario ad un autorevole giornale indiano. Questo aspetto di cooperazione fra i due giganti dell’Asia emergente si aggiunge ad altri importanti elementi di collaborazione o di buon vicinato fra i due paesi, che si sono rafforzati dopo i vertici fra lo stesso Narendra Modi e il Presidente cinese Xi Jinping, l’ultimo a Mamallapuram in Tamil Nadu, alla fine del 2019. I rapporti fra India e Cina in realtà sono un prisma molto complesso di cooperazione e di rivalità strategica: l’’ incidente’ di Doklam, nel Sikkim, era il 2017, aveva avvelenato i rispettivi rapporti. Pechino e Delhi decisero di attivare un dialogo politico ai massimi livelli, ovvero fra Modi e Xi. I cinesi conoscevano molto bene il premier indiano fin da quando era Chief minister del Gujarat. La pandemia ora consente proprio l’allargamento della cooperazione sino- indiana. L’India grande produttrice globale di farmaci a basso prezzo, dipende dalla Cina per alcuni principi attivi o per alcune medicine chiave, come la penicellina. Ciò impone una stretta relazione fra i due paesi oggi in tempo di coronavirus. Il primo impatto della crisi quindi potrebbe essere proprio quello di approfondimento della cooperazione reciproca, anche se nella nella destra indiana ci sono forti sentimenti anti-cinesi. Ma Delhi ora vuole consolidare i suoi rapporti con Pechino. Ma quale sarà l’impatto del coronavirus sull’India? Se l’epidemia si allargasse, dicono gli economisti, l’India ne potrebbe essere devastata. L’India ha eccellenti strutture sanitarie private che hanno alimentato in questi anni un discreto fenomeno di "turismo medico" anche dall’Occidente, ma è molto assente quanto a servizi sanitari per la popolazione comune. Il coronavirus non troverebbe ostacoli sanitari; e potrebbe avere effetti enormi sulla particolarissima struttura capitalistica indiana. L’India è una grande economia emergente. Ma essa presenta una struttura particolare: l’economia informale occupa, secondo l’ILO, circa l’ 80 per cento della forza lavoro non agricola. La grandissima maggioranza dei lavoratori indiani informali sono come quegli uomini che hanno percorso nei giorni scorsi centinaia di km per scappare dalle metropoli e ritornare ai loro villaggi. L’economia informale indiana è specializzata in particolare nei servizi a basso valore aggiunto. Secondo molti specialisti, l’impatto del virus su questa economia potrebbe essere disastrosa per la distruzione di imprese che comporterebbe. Strutture ospedaliere e sanitarie pubbliche non efficienti, economia informale di servizi molto sensibile alle crisi, (e banche alla prese con crediti incagliati) sono un trittico preoccupante per l’India grande nazione emergente. Ma le cose stanno davvero così, oppure noi occidentali guardiamo ad un paese come l’India con gli occhiali sbagliati? Ad esempio, le sotto- caste. La società indiana da sempre, o quasi, è organizzata attorno e sulle “sotto- caste” che non sono propriamente le quattro caste mediche, ma rappresentano comunità culturali legatissime e coese al proprio interno anche con relazioni matrimoniali. Le “sotto- caste” sono allo stesso tempo, agenzie di “welfare” familiare e agenzia di sostegno per le attività di lavoro autonomo. L’indiano medio è molto attaccato al suo lavoro autonomo che domina quella economia informale. La moria di attività economiche che potrebbe provocare il virus potrebbe essere rapidamente sostituita da un nugolo di nuove attività messe in piedi grazie a quelle strutture sociali che garantiscono la persistenza della società. Le potenzialità di culture diverse, anche se vediamo la stratificazione castale come una struttura sociale non moderna, non dovrebbero mai essere sottovalutate.

Da leggo.it il 7 aprile 2020. Due gemellini nascono durante il lockdown dovuto al coronavirus in India e i genitori decidono di chiamarli uno Covid e l'altra Corona. Una coppia indiana del Chhattisgarh è riuscita ad avere una grande gioia in questo momento di grande difficoltà, ma hanno deciso di ricordare il periodo storico in cui sono nati i loro bambini per tutta la vita dando loro i nomi del virus che sta terrorizzando il mondo. I gemellini, un maschio e una femmina, sono nati durante il lockdown all’ospedale Ambedkar Memorial Hospital, nella notte tra il 26 e il 27 marzo. La mamma e il papà però hanno scelto di fissare nella memoria dei bambini il momento storico in cui sono nati chiamandoli come il temuto virus: Covid e Corona. Preeti Verma, la madre dei due gemelli ha spiegato di sentirsi molto fortunata: «Li abbiamo chiamati Covid (il bimbo) e Corona (la bimba) per ora. La nascita è avvenuta dopo aver affrontato diverse difficoltà e quindi io e mio marito volevamo rendere memorabile questo giorno». I genitori hanno spiegato che nel corso degli anni potrebbero decidere di cambiare il nome dei loro bambini, ma per ora sono convinti di quelli che gli hanno dato. La scelta dei nomi è nata durante i controlli in ospedale, quando quasi per gioco i medici hanno ipotizzato la scelta di questi nomi, ma alla fine alla mamma e al papà sono piaciuti.

Da “la Stampa” il 31 marzo 2020. Appestati, untori, diffusori del virus: come già successo in alcuni Paesi dell' Africa gli europei, e in particolare gli italiani, fanno ormai paura in India. E in molti temono che possa scattare una «caccia allo straniero». «Tra gli indiani - raccontano alcuni -, soprattutto i meno istruiti, si è diffusa la convinzione che il virus, sia stato portato da noi. In particolare dagli italiani». Tutto è cominciato quando, in coincidenza con le notizie dell' esplosione del contagio nel Nord Italia, il 3 di marzo un turista italiano, purtroppo morto qualche giorno fa, si è sentito male e, dopo essere stato ricoverato in un ospedale di Jaipur, è risultato positivo al coronavirus. In un montare di diffidenza i turisti che viaggiavano nel Paese si sono visti rifiutare l'accesso agli alberghi, già prenotati, o sono stati bloccati e messi in quarantena obbligatoria. Gli italiani hanno avuto, e hanno tuttora, i problemi maggiori. Mentre alcuni media arrivavano a definire il Covid-19 «il virus italiano», alcuni parlamentari del Bjp hanno chiesto che Rahul Gandhi, rientrato da un viaggio in Europa a fine febbraio, venisse sottoposto al test del Covid-19, e altri, in parlamento, hanno domandato a gran voce che persino Sonia Gandhi, che non si è mai allontanata dal Paese, venisse costretta al test.

Carlo Pizzati per “la Stampa” il 3 aprile 2020. Appena rientrati al loro paesino nel Bengala, i sette emigrati sono stati bloccati dalle autorità sanitarie. Andare a vivere con la famiglia nelle catapecchie di dieci metri quadrati? Neanche per sogno. Quarantena e distanza sociale, come nel resto del mondo. Operai come questi, che vivono alla giornata, è già tanto siano riusciti a pagarsi un biglietto da Chennai fino a casa. Qualcuno si è ricordato dei due alberi di mango e del grande banyan che reggono pedane avvista-elefanti. E i sette sono finiti in quarantena tra i rami, come il Barone Rampante. Mogli e madri arrivano tre volte al giorno per lasciare viveri ai piedi dei tronchi. Si attende. E questa è solo una delle tante vicende dei 120 milioni di migranti indiani nell' Era della Pandemia. Il problema inizia alle ore 20 del 24 marzo, quando il premier Narendra Modi annuncia che a mezzanotte inizia la chiusura totale. Panico. Restare in città senza lavoro, rischiando la fame, o partire nonostante il blocco? Assalto alle stazioni degli autobus. Poi si fugge in calessi trainati dalle bici, o a piedi. Centinaia di migliaia di persone vanno verso Rajasthan, Uttar Pradesh, Jharkhand, dove un piatto di riso lo si trova dalla mamma, dai figli, dai parenti. Urbanizzazione al contrario. Sì, lo sanno che così portano il virus a chi amano di più, disseminandolo nelle campagne. Ma c' è un terrore più immediato: la fame. «Abbiamo più paura di morire di fame che di coronavirus», dicono. Così la chiusura totale, contro un virus che in India ha registrato 2069 contagi ufficiali e 53 decessi, si trasforma in crisi umanitaria. I migranti marciano per centinaia di chilometri verso casa, ai bordi delle autostrade, in scene viste solo nel 1947, nella partizione tra Pakistan e India. Qualcuno muore d' infarto per la stanchezza, chi addirittura sulla soglia di casa, chi invece viene falciato dai camion nel buio delle strade scalcinate d' India. Anche chi è rimasto nelle metropoli rischia grosso. Molti migranti sopravvivono da tre giorni ad acqua e sale. Fanno collette, ma non bastano. Sono terrorizzati dalla polizia che li malmena se li sorprende per strada, anche se vanno ai centri di distribuzione di cibo, spesso a più di 10 chilometri a piedi. Affamati, restano nei cantieri in attesa del 15 aprile, stretti stretti, senza mascherine e senza speranze. Modi chiede scusa per aver causato tanto sconforto: «Ma è indispensabile». Non va meglio nelle bidonville delle megalopoli come Mumbai. Il 30% degli indiani vive nei bassifondi, ma nella capitale del Maharastra si sale al 62 per cento. Distanza sociale? Qui ci sono più di cinque milioni di persone che vivono in catapecchie di dieci metri quadrati, fino a otto per stanza. A Worli Koliwada, 35 mila abitanti, appena scoperti sei casi di contagio sono scattati i sigilli. Alcuni si asserragliano con barricate e vigilantes alle entrate dei vicoli. Non ci sono bagni privati, ma una cloaca comune. L' acqua viene erogata per due ore, al mattino. Lavarsi le mani? In India, secondo il censo 2016, solo il 63% della popolazione le lava dopo essere andati al bagno in un paese dove la carta igienica è un lusso. Il 40% non ha sapone né acqua, l' 80% delle famiglie povere non ha lavabi né acqua per le mani. Per fortuna i medici indiani sono bravi, nonostante lavorino in ospedali pubblici tra i peggiori al mondo, pericolanti per i pochi finanziamenti. Il 22 marzo Modi aveva invitato la nazione a battere le mani nei balconi per dimostrare la solidarietà a dottori e infermieri. Ma da quando c' è la chiusura, il personale viene preso a sassate e bastonate, e pure sfrattati perché "portatori di contagio". Nel mirino della polizia finiscono anche i giornalisti, picchiati e arrestati, come denuncia Pen international, perché narrano le realtà dei più sfortunati (uno degli articoli incriminati documenta come i Dalit, o intoccabili, siano costretti a sfamarsi mangiando erba). I segnali di un caos crescente in India, dove i casi reali sono probabilmente più di quelli ufficiali. E dove ci si attende un' ondata di morte come non si è ancora vista in un grande Paese che del suo saper convivere con la morte ha fatto una bandiera.

Da leggo.it il 30 marzo 2020. Coronavirus, esodo biblico in India: migliaia di persone fuggono dal lockdown di Delhi per raggiungere i villaggi. Camminano a piedi, noncuranti del metro di distanza di sicurezza, hanno bagagli improvvisati che sorreggono con il capo e in alcuni casi viaggiano con gli animali. Sono i migranti 'fuggiti' dalla capitale dopo il lockdown imposto da Modi. Quello che sta accadendo in India in queste ore è un vero e proprio esodo biblico, le cui immagini così rurali portano indietro nel tempo. Un fenomeno che non accenna a diminuire nel quinto giorno consecutivo dall'annuncio dello stop. Le immagini fanno il giro del mondo e preoccupano perché in un Paese così popoloso queste migrazioni sono una bomba a orologeria. I migranti desiderano tornare nei loro villaggi dopo aver interrotto le attività in città e aver perso il lavoro. Uno scenario simile a quanto è successo in Italia nella notte dell'8 marzo, quando i fuorisede hanno preso d'assalto le stazioni per tornare al Sud. Loro abbandonavano il "Nord focolaio" in treno e la loro fuga aveva il sottofondo di trolley trascinati per le scale in fretta e furia. Anche in India qualcuno prova ad ammassarsi sui mezzi di trasporto e alle frontiere, ma quella lunga scia umana di gente a piedi è ancora più impressionante. Un’emergenza nell’emergenza: la bomba sanitaria potrebbe scoppiare da un momento all'altro dopo quella sociale. Eppure il primo ministro indiano Modi aveva predisposto il blocco per tenerli al sicuro dalla pandemia e autorizzato metodi poco ortodossi per far rispettare il lockdown, salvo poi chiedere perdono per aver imposto a un miliardo e trecento milioni di persone di chiudersi in casa. Queste centinaia di migliaia di persone, per lo più lavoratori giornalieri, non hanno più nulla in città e vogliono tornare nelle aree rurali perché non hanno altre possibilità di sostentamento. I treni e gli autobus sono pochi e loro sono costretti a tornare a piedi, percorrendo decine e decine di chilometri. Il coronavirus potrebbe viaggiare con loro. È il caos totale in un Paese abituato al traffico, agli assembramenti, alle file per un pasto. In Uttar Pradesh sono partiti mille autobus scatenando il più grande ingorgo di persone mai visto alla stazione. In Orissa, almeno 15 mila si erano messi in cammino per tornare in Bihar, il loro stato d’origine, ma l’Alta Corte ha chiesto allo Stato di fermarli, rinchiudendoli nei 104 campi già allestiti. In Kerala altre migliaia sono accampati nelle strade di Paippad, nel distretto di Koitayam, chiedendo mezzi per raggiungere i villaggi d’origine. Agli Stati della federazione è stato chiesto di chiudere le frontiere, mentre chiunque sia riuscito a mettersi in viaggio durante il lockdown dovrà trascorrere due settimane di quarantena in una delle strutture governative.

Carlo Pizzati per “la Stampa” il 26 marzo 2020. «Go Corona Go!» gridavano milioni di indiani dai loro balconi domenica scorsa, esortati dal premier Narendra Modi a dimostrare solidarietà a medici e infermieri. Strade e balconi gremiti di famiglie che sbattevano pentole e coperchi, «come se l' India avesse vinto il Mondiale. Sì, ma quello della Stupidità», ha scritto Ruchir Joshi sul «Telegraph»: «E' il peggior momento negli ultimi 20 anni par farsi colpire da una pandemia globale». E quei milioni di sbattitori di pentole non sapevano ancora che la «festa» di domenica era solo la prova generale di una chiusura ben più seria. Martedì alle 20, infatti, il premier è apparso in tv per annunciare che l' intera nazione, tranne i supermercati, avrebbe chiuso i battenti. I contagi in India, la seconda nazione più popolata al mondo e la quinta economia globale, sono appena 536 e i morti sono dieci, cifre che difficilmente riflettono la realtà. «Molte famiglie saranno distrutte per sempre se non restate a casa. Il Paese è in chiusura totale. Proibito uscire. Vi chiedo di restare dove siete, ovunque vi troviate». Poi fa scattare il blocco delle stazioni di bus e treni, oltre che degli aeroporti, riempiendo le strade di poliziotti per far chiudere i negozi. «Se non domiamo la pandemia in 21 giorni - dice Modi - torneremo indietro di 21 anni». Subito, gli alimentari a Delhi, Mumbai, Bangalore e nelle altre metropoli e città sono stati presi d'assalto. Ma la polizia ieri è riuscita a mantenere l' ordine bastonando gli autisti di rickshaw, sgonfiando le ruote delle bici dei calessini, malmenando i passanti. La pena per chi viola il coprifuoco è un anno di prigione. L'incubo vero è che qui si può arrivare a milioni di morti. Nonostante l' età media in India sia di 28 anni (in Italia è 45), la struttura sociale fa sì che spesso si trovino a vivere sotto lo stesso tetto tre o quattro generazioni, con più facilità di trasmissione dai giovani agli anziani. Inoltre, in città come Mumbai (20 milioni di abitanti) ci sono gli slum più grandi del mondo, con otto persone che dormono nella stessa stanza in baracche di fortuna. Il problema ancora più serio sono le condizioni degli ospedali in uno dei sistemi sanitari peggiori al mondo, dove mancano 500 mila medici. Il governo Modi ha fatto scendere la spesa per la sanità sotto il 2% del Pil, così oggi si trova un letto di ospedale ogni duemila persone (in Italia sono 3,2 ogni mille). Uno dei migliori epidemiologi indiani, Jayaprakash Muliyl, è allarmato: «Il sistema sanitario è assolutamente impreparato. Se non interveniamo, avremo milioni di morti». Gli economisti come Arun Kumar avvertono di un altro rischio: «Se non saremo capaci di fornire assistenza al 50% più povero della popolazione, ci sarà una rivolta sociale».

Coronavirus e coprifuoco: in India la polizia usa anche i bastoni. Le Iene News il 25 marzo 2020. La polizia ferma le proteste e fa rispettare a volte anche con la violenza il coprifuoco deciso per un miliardo e 300mila persone in India. Al momento nel paese si registrano 10 morti e 560 contagiati per il coronavirus. Un epidemiologo avanza una previsione che crea polemiche e paure: “Possibili 300 milioni di casi”. In India il coprifuoco ha confinato in casa un miliardo e 300mila persone ma per le strade delle città alcuni sfidano la quarantena o protestano. La risposta della polizia è dura. Sopra potete vedere le bastonate che alcuni agenti con mascherina danno a chi passa per le strade sempre più deserte. Al momento il paese registra 10 morti e 560 casi di coronavirus. La sfida è capire come sia possibile, nell’India degli slum, dove un quarto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, applicare il principio del distanziamento sociale per evitare la diffusione del contagio. “L’India deve prepararsi a uno tsunami di casi”. Mette paura intanto la dichiarazione di Ramanan Laxminarayan, direttore del Center for Disease Dynamics, Economics and Policy (Centro per le dinamiche delle patologie, l’economia e la politica), con sede a Washington e Delhi. L’epidemiologo ed economista ha detto alla Bbc dall’India, creando polemiche e paure: “Se applichiamo gli stessi modelli matematici usati per Europa e Stati Uniti, in India potrebbero esserci 300 milioni di contagiati”.

Andrea Cuomo per “il Giornale” il 23 marzo 2020. Prove tecniche di paralisi. Ovvero il più grande lockdown della storia. Ieri l' India si è bloccata per quattordici ore filate, dalle 7 alle 21, in quello che i media locali hanno definito il «coprifuoco del popolo». E che popolo: 1,36 miliardi e spiccioli di anime, il secondo Paese più affollato al mondo dopo la Cina, che secondo le stime dell' Onu nel 2027 diventerà il primo. Più di un sesto del mondo si è spento per un giorno intero per testare la capacità del Paese di affrontare un blocco più esteso nel caso in cui il coronavirus dovesse dilagare anche nel subcontinente. La faccia ce l' ha messa il premier Narendra Modi, che per incoraggiare i connazionali alla domenica di totale pausa ha postato vari tweet con l' hashtag #jantacurfew. «Le misure che prendiamo ora ci aiuteranno nei tempi a venire. State a casa e state al sicuro», si legge in uno. L' India - che già da qualche settimana ha chiuso i confini, sospeso l' emissione di visti e vietato l' ingresso a chi proviene dai Paesi più colpiti dall' epidemia - ieri ha bloccato tutti i treni della sterminata rete ferroviaria, che ogni giorno trasporta venti milioni di persone (molti treni saranno fermi fino a 31 marzo), ha sospeso tutti i servizi non essenziali e ha imposto a tutti di restare a casa. I social media si sono inzeppati di fotografie di luoghi iconici del Paese, dal Taj Mahal in giù, svuotati dal lockdown. Come in Italia alle 17, in un flash mob oceanico, gli indiani si sono affacciati da balconi, terrazze e finestre «per esprimere gratitudine a quanti stanno lavorando ventiquattro ore su ventiquattro perché la nazione si liberi dal Covid-19», come ha scritto Modi. E come in Italia e negli altri Paesi semiparalizzati dal virus, alla vigilia del blocco gli indiani hanno affollato gli alimentari e i supermercati per fare rifornimento di riso e farina e in molti hanno preso d' assalto gli ultimi treni per fare ritorno ai loro luoghi d' origine. Insomma, un Paese in allarme preventivo. Già, perché - mistero gaudioso in un Paese già di suo misterioso - all' India finora il coronavirus ha fatto il solletico: 360 contagi e sette morti fino a ieri, casi per la gran parte attribuibili alla presenza di viaggiaotri giunti da Paesi a rischio, come l' Italia. Davvero quasi nulla in un Paese che ha ventitré volte gli abitanti dell' Italia e che condivide 3500 chilometri di confine terrestre con la Cina, da cui tutto ha avuto origine. C' è chi tira in ballo la fortuna, la casualità, e c' è chi invece pensa che il fenomeno sia stato semplicemente sottovalutato a causa dello scarso numero di tamponi effettuati. Di certo se qualcosa andasse storto nella più grande democrazia al mondo gli effetti sarebbero numericamente devastanti. Le città indiane sono megalopoli affollate e con standard igienici molto scadenti rispetto ai nostri. E c' è anche l' atavica abitudine tutta indiana di vivere in grande contiguità con il prossimo, in spazi ristretti e spesso sporchi; ciò che sta accadendo tuttora a Delhi o Mumbai malgrado il governo abbia già da giorni chiuso i luoghi di aggregazione e vietato gli assembramenti. Non solo: il sistema sanitario pubblico indiano è decisamente arretrato, con attrezzature scarse e obsolete, e i ricchi si fanno curare nelle strutture private, che ovviamente non potrebbero sopperire alle carenze dello Stato. E infine c' è il fatto che molti indiani tornati da Paesi «rossi», come riferiscono i media, si sono rifiutati di sottostare alla quarantena e in qualche caso sono fuggiti dagli ospedali, trasformandosi in potenziali untori. Non c' è quindi da sorprendersi leggendo la previsione dell' epidemiologo Ramanan Laxminarayan, direttore del Centro di studio delle dinamiche economiche e politiche delle malattie di Delhi, secondo cui lo sbarco in India del virus potrebbe provocare la morte di 300 milioni di persone. Il più grande olocausto della storia.

·        …in Turchia.

Marco Ansaldo per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. Venti giorni appena. Quelli che passano dalla proclamazione di «Paese esente dal coronavirus» alla richiesta di «isolamento totale per Istanbul ». Ma sono tre settimane in cui la Turchia, e soprattutto la grande metropoli sul Bosforo, piombano nella paura. Più di 20 mila contagiati, quasi 500 morti. Sono i numeri ufficiali. Ma quanto sono quelli reali, si chiede l' opposizione, in uno Stato privo di informazione libera? A dichiarare la Turchia «immune » era stato il ministro della Salute, Fahrettin Koca, un medico. Salvo ora rimangiarsi la parola, e la faccia, dichiarando che la pandemia «va avanti a una velocità inaspettata». Pure il presidente Erdogan ha messo la retromarcia e dopo aver intimato che «gli ingranaggi devono funzionare sotto ogni circostanza e condizione», ha ora deciso «il coprifuoco per i minori di 20 anni e quelli oltre i 65». «La priorità di Erdogan - commenta Yavuz Baydar, direttore del sito di informazione Ahval - è di far muovere le ruote dell'economia rispetto al virus». Il Sultano non può permettere che il lockdown comprometta una situazione già disastrata. E a nulla valgono gli appelli del nuovo sindaco laico di Istanbul, il repubblicano Ekrem Imamoglu, che chiede «un isolamento totale della città per almeno 2 o 3 settimane». Il Sultano è passato alla controffensiva: ha inviato a ogni utente di telefonia mobile un messaggio personale: «Vi sono vicino». Di fronte all' esplosione del virus ha licenziato il ministro dei Trasporti, disposto il sigillo alle 81 provincie bloccando autostrade, fermando voli e treni. E indetto l' obbligo di mascherina nei luoghi pubblici e nei negozi. Sotto accusa generale è il campionato di calcio, uno degli ultimi a fermarsi, quando già molti giocatori stranieri avevano stracciato il loro contratto con le società. Il Paese è sconvolto dalle condizioni dell' ex portiere della Nazionale, Rustu Recber, lo Zoff della Turchia, terzo ai Mondiali in Giappone, solito a dipingersi gli occhi di lucido nero per spaventare gli avversari: ieri è migliorato dopo che era stato dichiarato grave, ma è isolato in ospedale. Lo sfondo politico però resta. Erdogan, affiancato dai nazionalisti dei Lupi grigi, sta facendo approvare in Parlamento un' amnistia per sanare la popolazione carceraria: su 300 mila detenuti ne verrebbero liberati 70 mila, in gran parte prigionieri comuni. A stare in cella sarebbero gli oppositori politici, magistrati, intellettuali, funzionari, giornalisti, considerati terroristi. Le opposizioni sostengono l'iniziativa ma chiedono di includere lo scrittore Ahmet Altan e il filantropo Osman Kavala, in prigione dopo il golpe fallito del 2016. Dice Emrah Altindis, professore di biologia al Boston College: «Adesso la Turchia ha il tasso di incremento più alto al mondo. Se i dati sono veri, in prospettiva il tasso è inferiore solo a quelli di Italia e Spagna».

Rischio contagio nelle carceri turche: Erdogan libera migliaia di detenuti. I detenuti che non potranno uscire dal carcere sono soltanto quelli condannati per terrorismo, tra cui però figurano molti attivisti anti-Erdogan. Gerry Freda, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. L’epidemia di coronavirus non risparmia la Turchia del presidente Erdogan, costretta ultimamente a liberare migliaia di detenuti per scongiurare un’esplosione di contagi nelle carceri. Il Paese anatolico è ormai secondo solo all’Iran nel Grande Medio Oriente per numero di infezioni da Covid-19, avendo superato Israele, Pakistan e India. Attualmente, l’ex Sublime Porta registra 56.956 persone malate del morbo incriminato, appena definito dall’Oms come “10 volte più mortale del virus H1N1”, e 1.198 morti. Nel pieno della crisi sanitaria nazionale causata dal coronavirus, il governo Erdogan ha già adottato provvedimenti straordinari, come il coprifuoco totale per tutto lo scorso fine settimana, ma è stato in questi giorni costretto, fa sapere La Stampa, a disporre anche la scarcerazione di ben 45mila prigionieri. I detenuti saranno liberati in applicazione di una legge promossa dall’esecutivo Akp e appena votata dal parlamento nazionale con l’urgenza di evitare la comparsa di focolai incontrollati di contagio all’interno degli istituti di pena. La normativa introdotta recentemente, spiega il quotidiano torinese, autorizza il rilascio temporaneo soltanto dei carcerati condannati non per il reato di terrorismo. Le disposizioni approvate dal parlamento turco, evidenzia l’organo di informazione, sono state però immediatamente condannate dall’ong umanitaria Human Rights Watch, poiché a scontare oggi nel Paese islamico condanne per terrorismo vi sono anche tanti giornalisti indipendenti e attivisti critici nei confronti del presidente Erdogan. Di conseguenza, queste personalità dissidenti resteranno in cella, esposte al rischio dell’infezione da coronavirus. Oltre a decidere la scarcerazione di migliaia di ospiti delle strutture detentive turche, il governo a guida Akp ha anche ultimamente annunciato che il coprifuoco verrà osservato nel territorio nazionale ogni fine settimana, dalla mezzanotte del venerdì a quella della domenica. Nonostante i tentativi di contenimento dei contagi messi in campo dalle autorità di Ankara, l’avanzata del morbo non si arresta, ma continua a colpire i compatrioti del presidente. Il Paese musulmano, afferma a tale proposito sempre La Stampa, “ha visto un aumento giornaliero di 4.789 casi di coronavirus e 97 decessi nelle ultime 24 ore”.

·        …in Iran.

Coronavirus, in Iran è arrivata la terza ondata di contagi. Notizie.it il 14/10/2020. Mentre l'Europa combatte con quella che appare una seconda ondata in Iran si registrano nuove cifre record di contagi e di morti. La temuta terza ondata paventata a settembre sembra purtroppo arrivata in Iran, mentre l’Europa fa i conti con quella che assume ogni giorno di più la connotazione della seconda. Il Covid torna a far paura anche in Italia, dove nella giornata del 14 ottobre è stato registrato il record assoluto di contagi da inizio pandemia.

Iran, terza ondata di contagi. Mentre a giugno l’Europa sembrava tirare un sospiro di sollievo, una seconda ondata aveva investito l’Iran ed Israele dopo l’allentamento delle misure di contenimento. Questa settimana il paese ha registrato due tristi record: il maggior numero di morti in una sola giornata – dall’inizio dell’epidemia a marzo – e il maggior numero di nuovi contagi.  Ormai si è arrivati a oltre 29.000 morti e oltre 508.000 contagi. Prima dell’11 ottobre-quando sono stati registrati 251 morti causati dal coronavirus– il record di morti giornalieri era stato registrato il 7 ottobre con un numero di decessi pari a 239. 

Le misure di contenimento. Nei giorni precedenti, le autorità iraniane avevano prorogato la chiusura dei luoghi pubblici per evitare assembramenti di persone, oltre a prevedere delle sanzioni per gli infetti da Covid- 19 che nascondevano la malattia, per chi non indossava le mascherine e non rispettava la quarantena. 

Situazione critica. Nonostante le misure di contenimento previste, la situazione sembra peggiorare di giorno in giorno con il personale medico esausto, gli ospedali in difficoltà per il numero eccessivo di accessi  e la crisi economica che avanza inesorabile.

Come riporta The Guardian, Mohammad Talebpour – il direttore dell’ospedale Sina, il più antico di Teheran – ha predetto ha affermato che un terzo del personale medico del suo ospedale ha già contratto la malattia  e che se gli iraniani non agiranno  con tempestività e la malattia continuerà per altri 18 mesi, l’Iran potrebbe poter contare fino a 300mila vittime.

Marta Serafini per il “Corriere della Sera”  il 4 agosto 2020. In Iran il numero delle persone che hanno perso la vita per complicanze legate al coronavirus è tre volte più alto rispetto a quello reso noto dalle autorità di Teheran. A fare luce sulla censura dei dati è l'edizione in lingua persiana della Bbc , secondo la quale i dati trapelati dallo stesso governo riferiscono di almeno 42mila morti con sintomi da Covid-19 al 20 luglio, contro i 14.405 riportati ufficialmente dal ministero della Sanità. Doppio anche il numero delle persone contagiate: 451.024 contro i 278.827 resi noti. Il primo caso di coronavirus confermato in Iran risale inoltre al 22 gennaio, riferisce la Bbc, quasi un mese prima di quello segnalato dalle autorità. La fonte, il dottor Pouladi - un nome di fantasia - afferma di aver condiviso questi dati con la Bbc per «far luce sulla verità» e «porre fine ai giochi politici» sull'epidemia. La discrepanza tra i dati ufficiali e il numero di decessi corrisponde anche alla differenza tra il dato ufficiale e i calcoli della mortalità in eccesso fino a metà giugno. «La posizione dei servizi di sicurezza era quella di non ammettere l'esistenza del coronavirus in Iran», ha affermato il dottor Pouladi. «All'inizio non avevano kit per i test e quando li hanno acquistati non sono stati usati abbastanza ampiamente». Nel Paese, l'inizio dell'epidemia è coinciso sia con l'anniversario della rivoluzione islamica del 1979 che con le parlamen-tari. All'inizio l'ayatollah Ali Khamenei, il leader supremo, sosteneva che il coronavirus fosse usato per sabotare le elezioni.

Coronavirus Iran, bevono metanolo per curarsi: centinaia di morti e avvelenati. Laura Pellegrini i l28/03/2020 su Notizie.it. La fake news secondo la quale gli alcolici al metanolo potrebbero curare il coronavirus ha ucciso centinaia di persone in Iran. Alcuni media locali citati dal New York Times riportano una strage avvenuta in Iran a causa della circolazione di una fake news riguardante una possibile cura contro il Covis-19. Pare, secondo la falsa notizia circolata in Iran, che gli alcolici a base di metanolo possano essere efficaci per combattere il coronavirus. Tuttavia, dopo aver ingerito in grandi quantità la sostanza, centinaia di persone sono morte e altrettante sarebbero rimaste intossicate. L’emergenza coronavirus, dunque, ha creato situazioni di estrema emergenza in alcune zone del Paese. Sono molte e varie le fake news sul coronavirus che circolano sul web: l’ultima di cui siamo venuti a conoscenza ha causato una strage. In Iran centinaia di persone sono morte e molte sono rimaste intossicate dopo aver ingerito metanolo come possibile cura contro il coronavirus. Le persone hanno creduto che tale sostanza potesse disinfettare gli organi interni e proteggerli dalla contrazione dell’infezione. Ma il risultato è stato opposto: gli organi interni hanno registrano danni gravissimi che potrebbero rimanere per sempre. Nonostante la vendita di alcol sia vietata dalla legge, le persone sono riuscite a procurarlo nei mercati neri. Ma ancora prima dello scoppio dell’emergenza, l’avvelenamento da metanolo nel Paese era molto elevato. Secondo uno studio recente, infatti, tra settembre e ottobre 2018 circa 800 persone sarebbero rimaste avvelenate. Il bilancio dell’Iran, aggiornato al 27 marzo, è di 30mila casi di coronavirus confermati e oltre 2200 morti, tra i quali un bimbo di 6 anni. Alcuni, però, ritengono che i numeri non siano reali e che il Paese nasconda in realtà dati più elevati.

Coronavirus, i medici iraniani: "Dalla Cina informazioni non accurate". Il portavoce del ministero della Salute iraniano ha messo in dubbio le informazioni condivise da Pechino nelle prime settimane della diffusione del virus. Gabriella Colarusso il 07 aprile 2020 su La Repubblica. La pandemia di coronavirus ha aperto un piccolo caso diplomatico tra Iran e Cina, due Paesi alleati e legati da importanti rapporti economici. Domenica il portavoce del ministero della Salute iraniano, Kianoush Jahanpour, durante una conferenza stampa e poi sul suo profilo Twitter ha messo in dubbio le informazioni condivise da Pechino nelle prime settimane della diffusione del virus: le statistiche ufficiali cinesi sono uno "una beffa amara", ha detto, e all'inizio hanno spinto la comunità internazionale a considerare il coronavirus poco più che un'influenza con un basso tasso di mortalità. "Se in Cina dicono che un'epidemia è stata contenuta in due mesi, bisogna pensarci due volte". Le osservazioni di Jahanpour hanno fatto molto scalpore nell'opinione pubblica iraniana. La Cina è un importante partner economico dell'Iran, primo acquirente del petrolio iraniano e un fornitore essenziale per l'economia del Paese stretta dalle sanzioni, è la prima volta che critiche così esplicite alla gestione dell'epidemia da parte di Pechino arrivano da un alto funzionario del governo. Ma Jahanpour è anche un medico, e agli attacchi che gli sono arrivati via social media ha risposto che "le questioni scientifiche non possono e non devono essere mescolate con la politica". In base "alle informazioni epidemiologiche e alle relazioni fornite dai ricercatori cinesi, tutti i centri accademici nel mondo hanno considerato il nuovo coronavirus meno pericoloso dell'influenza di tipo A", ha spiegato. "I risultati di oggi dimostrano che questo è sbagliato. E ci fidiamo di più delle nostre scoperte". Parole che hanno scatenato la reazione piccata dell'ambasciatore cinese in Iran, Chang Hua: "Suggerisco di seguire le conferenze stampa quotidiane del ministro della Salute cinese prima di trarre conclusioni". Sulla questione è intervenuto anche il portavoce del ministro degli esteri iraniano, Seyyed Abbas Mousavi, che ha ringraziato la Cina per tutto l'aiuto fornito all'Iran nella lotta contro la pandemia, un intervento che ha spinto anche Jahanpour a rivedere in parte le sue dichiarazioni ribadendo la sua gratitudine ai cinesi per l'aiuto e la solidarietà. Ma lunedì un altro medico molto stimato in Iran ha criticato direttamente la Cina: la dottoressa Minoo Mohraz, membro del comitato iraniano anti-Covid19, in un'intervista all'Iranian Labour News Agency, (Ilna), ha detto che "il comportamento del virus dopo che si è diffuso in tutto il mondo ha dimostrato che non è come quello riportato dalla Cina". E questo può essere successo per due motivi: "O il virus è mutato e si è rafforzato" o le informazioni non erano esatte. "Scientificamente, quello che so è che le loro statistiche e relazioni non erano molto accurate".

Giordano Stabile per “la Stampa” il 27 marzo 2020. In Iran le morti per coronavirus sono fino a cinque volte di più di quelle dichiarate e l' opacità nelle comunicazioni da parte del regime ha già causato il propagarsi dell' epidemia in almeno dieci altri Paesi, compreso il Canada e la Gran Bretagna. La denuncia arriva da fonti sanitarie vicine all' Oms a Ginevra. Secondo questi dati riservati, fino al 23 marzo i decessi legati al coronavirus erano 7493, contro i 1685 rilevati dal ministero della Salute iraniano, mentre le persone contagiate erano 52.310 invece che 21.638. Il conteggio alternativo si basa su notizie di intelligence all' interno del sistema sanitario locale, cioè medici e funzionari che hanno sotto mano la situazione reale. Le autorità hanno dapprima minimizzato i rischi, anche per non abbassare l' affluenza alle elezioni parlamentari del 21 febbraio. L' epidemia, con epicentro a Qom, forse in un seminario frequentato anche da ottocento studenti cinesi, era già in piena espansione. Poi gli ayatollah hanno frenato sulla chiusura dei grandi santuari sciiti, a partire da quello di Mashhad, altri veicoli dell' infezione per l' enorme numero di pellegrini, anche dei vicini Paesi arabi. I santuari sono fonte di prestigio internazionale e di reddito, con un giro d' affari di svariati miliardi. Infine sono arrivati i festeggiamenti per il capodanno persiano e soltanto ieri il governo del presidente Hassan Rohani si è deciso a proibire tutti gli spostamenti interni. Non c' è però ancora un serrata totale, come in Italia. Ieri i casi ufficiali sono saliti a 29.000 e le vittime a 2.234, ma come abbiamo visto andrebbero moltiplicate per cinque. Uno scenario da incubo. La discrepanza dei dati, oltre alle reticenze del regime, si spiega anche, precisano le fonti, con il complesso sistema burocratico delle diagnosi. In Iran la diagnosi richiede una doppia analisi dei tamponi, una condotta dai medici nei laboratori locali e una seconda al Pasteur Institute for Public Health and Infectious Diseases. In questo processo gran parte dei casi «sospetti» non viene confermata a livello nazionale e il numero totale è sottostimato. C' è poi la carenza di strumenti per effettuare i test. E i pochi disponibili sono veicolati soprattutto alla dirigenza della Repubblica islamica. Anche perché almeno una decina di alte figure religiose, politici, parlamentari sono già morti di coronavirus. Ma la scarsità di tamponi effettuati e la sottovalutazioni dei casi sospetti favorisce l' espandersi incontrollato dell' epidemia, tanto più che è emerso come i primi contagiati risalgono addirittura ai primi di gennaio, proprio a Qom, dove però l' Università di medicina non è stata in grado di diagnosticarli in maniera corretta e tempestiva. Le autorità, è la denuncia, «danno la priorità alle motivazioni politiche rispetto a quelle scientifiche e stanno ostacolando la risposta globale all' epidemia». Il presidente Rohani e il ministro degli Esteri Javad Zarif hanno puntato il dito contro le sanzioni Usa, che rendono difficile procurarsi sui mercati internazionali medicine, dispositivi di protezione personale e kit per i test. Ma la Repubblica islamica ha respinto le offerte di aiuto da parte degli Stati Uniti, per motivi politici, e per «dare l' impressione di avere la situazione sotto controllo». In questo modo però l' epidemia e i tassi di mortalità «sono destinati a crescere e a porre una minaccia anche ad altri Paesi».

Iran, viceministro  che negava i 50 morti in quarantena con il virus Suda durante l’annuncio. Pubblicato martedì, 25 febbraio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. Il viceministro della Sanità Iraj Harirchi aveva negato lunedì la denuncia fatta da un parlamentare a Qom che i morti (soltanto nella città santa) siano almeno 50, molti di più dunque dei 16 in totale dichiarati ad oggi dalle autorità (i contagi annunciati sono solo 95). «Se fosse vero, mi dimetterei subito», aveva detto Harirchi. Adesso Harirchi ha rivelato di avere il coronavirus. Il viceministro, che già sudava visibilmente ieri in conferenza stampa accanto al portavoce del governo Ali Rabiei, ha pubblicato un video che sembra abbia girato da solo: «Ve lo dico dal profondo del cuore, prendetevi cura di voi stessi. Sconfiggeremo il coronavirus». Anche un parlamentare riformista di Teheran, Mahmoud Sadeghi, ha scritto in un tweet di essere stato contagiato. Ha aggiunto di non sperare di vivere a lungo e ha lanciato un appello alla magistratura: liberate i prigionieri politici.

Coronavirus, la vicepresidente dell’Iran positiva ai test.  Mattia Pirola il 27/02/2020 su Notizie.it. Dopo il viceministro della Salute, anche alla vicepresidente dell'Iran è stato diagnosticato il Coronavirus. Si conta anche la vicepresidente dell’Iran tra le persone contagiate dal Coronavirus nel Paese. Masoumeh Ebtekar, numero due della nazione mediorientale, risulta quindi tra le 254 persone infette dal virus. L’Iran rimane uno dei Paesi più colpiti, e conta anche ben 26 morti dall’inizio della diffusione dell’epidemia. Risulta essere infatti il quarto paese con il maggior numero di contagiati ufficiali da Coronavirus dopo la Cina, la Corea del Sud e l’Italia. Tra i malati “illustri” si conta anche il viceministro della Salute. “La signora Ebtekar ha mostrato segni di infezione da Coronavirus”. Per questo “è stata sottoposta ai test. Il risultato si è rivelato positivo”, hanno rivelato i media iraniani, citando un collaboratore della vicepresidente. In precedenza anche il viceministro della salute di Teheran si è sottoposto al tampone, il quale ha evidenziato anche per lui l’infezione da COVID-19. Le autorità militari comunque si sono dette ottimiste, comunicando alla nazione che l’epidemia si trova in una fase di “contenimento relativo”. La situazione dei contagi in Iran tuttavia rimane confusa. L’infezione potrebbe essersi diffusa attraverso una delle principali rotte di pellegrinaggio del Paese, quella verso la città di Qom. All’estero si teme che il regime stia mentendo sul numero di contagi. Il tasso di mortalità nel Paese è pari al 10%, cinque volte superiore alla Cina. Michael Ryan, direttore del programma per le emergenze dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha spiegato.

Il virus in Iran: Teheran nega i 50 morti  a Qom, contagiati anche due neo deputati. Pubblicato lunedì, 24 febbraio 2020 su Corriere.it da Viviana Mazza. Grande confusione sui numeri del coronavirus in Iran. Da giorni c’erano sospetti diffusi sull’assenza di trasparenza sia a proposito del numero delle vittime che sull’inizio del contagio. Abbiamo lasciato Teheran all’alba di domenica su un aereo affollatissimo, uno degli ultimi voli della Turkish Airlines in uscita dal Paese. Dopo poche ore la Turchia ha infatti deciso di sospendere i voli da Teheran a Istanbul (continuano per il momento quelli in arrivo nella capitale), come pure i treni tra i due Paesi. All’aeroporto Imam Khomeini moltissimi dei passeggeri indossavano mascherine e guanti di plastica (sabato erano già quasi introvabili nelle farmacie), anche se poi nelle lunghe file al check in e ai controlli le persone si accalcavano le une alle altre. Dichiarazioni contrastanti con quelle del ministero della Salute arrivano dall’interno del Paese, dalle stesse istituzioni della Repubblica Islamica. Un parlamentare di Qom, Ahmad Amirabadi Farahani, ha accusato il governo di non dire la verità, in una sessione parlamentare a porte chiuse: il coronavirus, sostiene, ha ucciso già 50 persone nella città santa epicentro del contagio. Il parlamentare ha pubblicato 40 dei loro nomi. Il ministero della Salute nega: il dato ufficiale è, al momento, di 12 morti e 61 contagi in tutto l’Iran, e le autorità dicono che sono stati fatti i test ad altre 900 persone. Già nei giorni scorsi il deputato riformista Mahmoud Sadeghi, in un’intervista con il Corriere aveva espresso dubbi sulle informazioni diffuse dal governo. Ricordando l’ammissione tardiva dell’abbattimento dell’aereo ucraino lo scorso gennaio, chiedeva «trasparenza se si vuole mantenere la fiducia del popolo». «Ci impegniamo alla trasparenza riguardo la diffusione dei dati», ha detto ieri il portavoce del governo Ali Rabiei. Annunci quotidiani sul coronavirus ora vengono trasmessi in tv a mezzogiorno. Tra i contagiati ci sono due deputati neoeletti di Rasht, uno dei quali in condizioni critiche; e un membro del consiglio comunale di Teheran. Non è chiaro quante persone siano in quarantena nel Paese. I dubbi riguardano anche l’inizio del contagio. La premio Nobel e dissidente Shirin Ebadi, che vive all’estero, ha accusato il governo iraniano di essersi mosso tardi: «Da due settimane si parlava dei sintomi del coronavirus nel Paese ma le autorità non l’hanno annunciato perché temevano che l’allarme avrebbe frenato la partecipazione al 41° anniversario della Rivoluzione islamica». I primi due morti, a Qom, sono stati annunciati mercoledì 19 febbraio, alla vigilia delle elezioni parlamentari, ma il parlamentare di Qom sostiene che i decessi nella città santa risalivano al 13 febbraio. Ha aggiunto che gli infermieri non hanno ricevuto gli indumenti adatti per evitare di essere contagiati e che alcuni hanno lasciato la città. Lo stesso parlamentare sarebbe stato ricoverato per accertamenti, secondo la tv americana Nbc da Teheran. La città santa di Qom, a sud della capitale, ha una popolazione di 1,2 milioni tra cui centinaia di migliaia di studenti di teologia di varie nazionalità (anche cinesi). Non è chiaro chi sia il paziente zero: lo scorso giovedì il ministero parlava di operai cinesi, ora di un commerciante locale che andava e veniva dalla Cina. A Qom sono state chiuse le scuole ma gli appelli a fare altrettanto con il santuario della città, meta di pellegrinaggio, sono state respinte dai religiosi. Qualcuno tra loro sostiene anche che c’è un complotto americano che vuole legare il virus a Qom per colpire l’Islam sciita. Il virus rischia di isolare ancora di più la Repubblica Islamica, già sotto sanzioni americane. Molti Paesi vicini hanno chiuso le frontiere e sospeso i voli. Giovedì scorso l’Iraq è stato uno dei primi a vietare l’ingresso agli iraniani e ai propri cittadini di recarsi in Iran. Decisione notevole: mentre l’Arabia Saudita - che ha preso la stessa decisione - è la grande rivale politica dell’Iran nella regione, l’Iraq ha forti legami e finora né le minacce Usa di sanzioni, né i bombardamenti Usa e iraniani interposti sul suo territorio avevano fermato gli scambi Baghdad-Teheran. Nell’ultima settimana Libano, Canada ed Emirati hanno annunciato che passeggeri giunti dall’Iran avevano il virus. A questi, negli ultimi due giorni si sono aggiunti altri tre casi di passeggeri arrivati in Kuwait (provenienti da un’altra città santa, Mashhad, non Qom), uno in Bahrein, uno in Iraq e uno in Afghanistan. In Iran scuole, università, teatri, cinema e alcuni seminari religiosi sono chiusi. La metro viene ripulita ogni giorno: è usata da 3 milioni di persone. Il ministero della Salute insiste che le sanzioni non hanno danneggiato le importazioni di test diagnostici. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha aiutato il Paese a ottenere quattro set di test e altri sono in arrivo. Ma l’altra battaglia della Repubblica Islamica, oltre a quella contro il virus, consiste nel rassicurare la gente che le autorità stanno facendo tutto il necessario per contenere la nuova crisi.

Da "Ansa" il 5 marzo 2020. L'Iran ha deciso di chiudere tutte le scuole e le università per un mese per cercare di arginare la diffusione del Coronavirus. Lo riferisce il ministero della Salute di Teheran. 

Da "adnkronos.com" il 5 marzo 2020. Medici e infermieri iraniani che in un video ballano e cantano nelle corsie d'ospedale, armati di mascherine, guanti e camici. L'obiettivo ufficiale, tenere alto il morale della popolazione dell'Iran, colpito dall'epidemia di coronavirus e da dove arrivano anche altre immagini terribili. Nella Repubblica Islamica le autorità parlano di 92 morti e 2.922 casi confermati di contagio. Ma diverse fonti sostengono che in realtà le vittime e le persone infettate da Covid-19 sarebbero molte di più. Il video con i medici che ballano è stato diffuso sui social media e ha presto fatto il giro del mondo. C'è anche chi balla con un tampone in mano in un Paese in cui sono vietati i comportamenti "indecenti". Il filmato è stato rilanciato anche dalla giornalista Masih Alinejad, che oggi ha diffuso pure un altro video che sarebbe stato girato in un obitorio della città di Qom, focolaio dell'epidemia in Iran. La persona che ieri ha realizzato il firmato denuncia come "non smettano di arrivare corpi di persone morte a causa del virus". "Non finisce mai", dice la voce mentre le immagini mostrano tanti sacchi con i corpi delle vittime. L'autore è "stato arrestato - ha twittato la giornalista - Cercano di coprire il vero numero delle morti".

(ANSA il 9 marzo 2020) - L'Iran ha rilasciato con permessi temporanei 70 mila detenuti per cercare di contrastare la diffusione dell'epidemia di coronavirus (Covid-19). Lo ha annunciato il capo della magistratura di Teheran, Ebrahim Raisi. La scorsa settimana era già stato annunciato il trasferimento agli arresti domiciliari di 54 mila carcerati. Secondo i dati forniti dal governo, la Repubblica islamica è il terzo Paese al mondo per numero di vittime, con 194 morti confermati finora.

Dagospia il 2 marzo 2020. CHE STA SUCCEDENDO DAVVERO IN IRAN? – I DATI UFFICIALI SUL CORONAVIRUS, NEL PAESE DEGLI AYATOLLAH, PARLANO DI 1500 CONTAGIATI E 66 MORTI, MA C’È PIÙ DI UN DUBBIO CHE IL REGIME STIA NASCONDENDO LA VERITÀ – SU TWITTER GIRANO IMMAGINI E VIDEO MOLTO INQUIETANTI DI GENTE CHE COLLASSA PER STRADA E DI TOMBE SCAVATE DA PERSONE CON TUTA ANTI-VIRUS. IL VICE MINISTRO DELLA SALUTE E LA VICEPRESIDENTE SONO POSITIVI, UN PARLAMENTARE E UN ADVISOR DI KHAMENEI SONO MORTI. GIÀ VENERDÌ, SECONDO LA “BBC”, I DECESSI SUPERAVANO QUOTA 200

Gabriella Colarusso: Mohammad Mirmohammadi, uno dei membri del consiglio che fa da advisor alla guida suprema Khamenei nelle controversie con il Parlamento, è morto per il #coronavirus. Aveva 71 anni. Ad oggi il bilancio ufficiale in #Iran è di 1501 contagiati, 66 morti, 291 persone guarite.

Traduzione del Thread di aliostad. L’epidemia di Coronavirus in Iran ha superato il livello di crisi. IL paese sta implodendo - la legalità e l’ordine pubblico spariranno nei prossimi giorni. Alcuni funzionari sono già morti e le infezioni si stanno allargando tra chi lavora negli ospedali e le forze di polizia. Perché sta succedendo tutto questo? Il regime ha nascosto i primi casi:

Sono cominciati ad apparire prima delle elezioni, che necessitavano di un’alta affluenza.

Per una questione politica: non bloccare i voli da/per la Cina.

L’origine del contagio sembrano essere studenti religiosi arrivati a Qom dalla Cina.

Non sono stati chiusi i luoghi sacri.

Invece di informare il pubblico della gravità della situazione e dei rischi, il revime ha minimizzato ricorrendo alla tattica retorica del “combatteremo e lo sconfiggeremo.

Solo che adesso il virus si è diffuso ovunque. Il mondo ha un esempio perfetto di cosa possa significare fallire nel contenere il virus. Ho i miei genitori, mio fratello, gli zii là e sono molto preoccupato per loro. Vi racconto alcuni esempi di cosa sta succedendo. Non ci sono rapporti ufficiali, quindi non c’è modo di verificare niente di quello che vi racconto. Un parlamentare eletto nelle elezioni di due settimane fa è morto. Proveniva dalla provincia di Gilan. (…) nella stessa zona sono state scavate molte tombe, potrebbero essere correlate all’alto numero di contagiati in quella provincia. Un membro di un equipaggio di una compagnia aerea è collassato all’aeroporto e poi è morto. Un’ambulanza di un obitorio è stata abbandonata dopo aver trasportato una vittima di Coronavirus nella provincia di Mazandaran, dove però non sono stati riportati contagiati ufficiali. Una clinica del sud del paese è stata data alle fiamme dai alcune persone preoccupate perché nel centro erano stati trasferite 10 persone contagiate. PER FAVORE QUALCUNO AIUTI L’IRAN. ABBIAMO BISOGNO DI UNO SFORZO INTERNAZIONALE. Continuerò a twittare con la situazione che evolve. Non sto riportando altre notizie perché non sono confermate da più fonti, ma temo che sia tutto vero. Nel frattempo, la base religiosa del regime sta negando tutto. Ci sono persone che leccano teche e altari per dimostrare che hanno un potere curativo. La letalità tra medici e infermieri è molto alta. Molti sono già morti. Nel frattempo il parlamento sta valutando di riconoscerle come martiri. L’ex ministro dell’Intelligence Mostafa Poormohammadi è stato ricoverato per il Coronavirus. Secondo RT il nipote della Guida Suprema è stato infettato. Khamenei è stato visto due giorni fa mentre dava un messaggio di incoraggiamento allo staff medico in una stanza con accanto soltanto il suo medico di fiducia. Con giorni di ritardo il governo ha deciso di mettere in quarantena la città di Qom, meta di pellegrinaggio e epicentro del focolaio in Iran. Sono stati riportati molti casi di persone collassate per strada, con immagini e filmati simili a quelli che arrivavano da Wuhan nelle prime ore dell’emergenza. Per ora però non sembrano esserci segnali di panico per le strade. Le scuole sono chiuse in alcune province per 40 giorni ma molti negozi rimangono aperti, anche se alcuni serrano volontariamente, mentre sono stati cancellati molti eventi sportivi e concerti. Una nostra parente è stata contagiata e sta guarendo. Aveva qualche linea di febbre ma respirava con molta difficoltà È andata in ospedale ma siccome non aveva la febbre non è stata sottoposta a test.

·        …in Israele.

(ANSA il 13 agosto 2020) - Ha avuto successo la sperimentazione clinica contro il Covid 19 di un farmaco composto dagli anticorpi al virus: tutti e tre i pazienti trattati sono guariti e dimessi dall'ospedale pochi giorni dopo. L'annuncio è stato dato da Zeev Rothstein direttore del Centro medico dell'ospedale Hadassah di Gerusalemme che ha lavorato insieme all'azienda biofarmaceutica Kamada che ora sta procedendo nei trials. "La risposta - ha detto - è ai miei occhi quasi un miracolo: i pazienti hanno avuto il rimedio ed ora sono a casa".

Davide Frattini per corriere.it il 20 aprile 2020. La piazza scelta per la manifestazione avrebbe dovuto essere più piccola. La polizia ha imposto che i dimostranti rispettassero la distanza di 2 metri, così in 2 mila sono riusciti a riempire quella Kikar Rabin da sempre centro delle rimostranze collettive. Domenica sera gli slogan a Tel Aviv sono stati urlati attraverso le mascherine, le bandiere nere sventolate per avvertire che la democrazia sarebbe in pericolo. Indebolita dalla possibile intesa — concordano i partecipanti e i politici che tengono comizi dal palco — traBenjamin Netanyahu e Benny Gantz, l’ex capo di Stato Maggiore sceso in campo per mandare a casa il primo ministro e diventato suo giubbotto di salvataggio politico. A sorpresa. Per gli israeliani che lo hanno votato in questo anno ininterrotto di campagna elettorale e per i suoi (ormai ex) alleati nella coalizione Blu e Bianco. Sono stati loro — Yaar Lapid e Moshee Yaalon — ad accusare Gantz di tradimento, tra i fischi della folla e a criticare la gestione dell’emergenza Coronavirus. Per ora le trattive tra Netanyah (in attesa di processo per corruzione) e l’ex generale non sembrano superare gli ostacoli tra i due avversari: Gantz aveva giustificato la giravolta con la necessità di formare un governo di unità nazionale a tempo per combattere la crisi sanitaria.

Tenersi a distanza nel Paese degli abbracci: il distanziamento sociale in Israele. La polizia ha obbligato gli organizzatori a pagarsi le mascherine da distribuire a tutti i partecipanti. Le stesse protezioni che gli israeliani devono indossare se vogliono uscire di casa. Netanyahu e i suoi ministri hanno votato una alleggerimento della quarantena nazionale: il 30 per cento della forza lavoro può tornare al lavoro (percentuale ancora più alta nelle aziende tecnologiche), riapertura di alcuni negozi (oltre a quelli di alimentari, ottici o venditori di elettrodomestici), attività sportive fino a 500 metri da casa, i bambini di tre famiglie diverse possono essere seguiti da una sola persona. Le misure criticate dagli esperti di sanità pubblica sono quelle che Netanyahu sembra aver introdotto per ragioni politiche, della sua coalizione fanno parte i partiti ultraortodossi: permettere le preghiere all’aperto con un massimo di 19 partecipanti che indossino la mascherina, consentire i matrimoni e le cerimonie per la circoncisione fino a 10 invitati. La decisione più controversa è la riapertura devi bagni rituali (tre uomini alla volta) considerati uno degli ambienti dove il virus si è diffuso di più tra gli haredim.

Coronavirus, Carola e Vittoria: "Siamo noi le tenniste sul tetto: ecco perché palleggiavamo". Il video dei loro palleggi "in quarantena" da un tetto all'altro ha fatto il giro del mondo: postato dall'Atp (l'Associazione tennisti professionisti) e commentato da fan e sportivi. Le protagoniste sono due ragazze di 11 e 13 anni che si allenano nello stesso circolo di Finale Ligure (almeno, prima della quarantena: ora, come tutti hanno visto, si allenano sul terrazzo). "Tutte le mattine vado sul terrazzo per continuare gli allenamenti - dice Carola in un audio mandato in onda su Radio Capital - vedendo anche Vittoria sul palazzo di fronte abbiamo fantasticato di essere sul campo e abbiamo cominciato a fare degli scambi". "Sono contenta perché anche tennisti come Tsistpas, la Errani e la Vinci hanno commentato il nostro video" confessa Vittoria.

Giordano Stabile per lastampa.it il 17 aprile 2020. L’Intelligence americana avvertì Israele di una possibile epidemia di nuovo coronavirus in Cina già lo scorso novembre. Secondo la tv Channel 12, gli agenti americani avevano notato l’emergere di una malattia sospetta a Wuhan, nella seconda settimana di novembre, e hanno fatto subito rapporto alla Casa Bianca e ai principali alleati degli Stati Uniti, la Nato e Israele. In quel momento le morti anomale per polmonite nella città erano note soltanto al governo cinese.

Il rapporto dei vertici militari. La possibilità di una pandemia era però stata messa in conto dall’Intelligence. In Israele vennero avvertiti i vertici delle Forze armate. Gli alti ufficiali, rivela la tv israeliana, discussero allora della possibilità della diffusione del virus in Medio Oriente e dell’impatto che poteva avere in Israele. Il rapporto passò anche al ministero della Salute, che però “non ne fece nulla”.

Misure in ritardo. Il 20 gennaio il presidente cinese Xi Jinping ha per la prima volta parlato in pubblico del nuovo coronavirus e delle misure di contenimento decise da Pechino. Negli stessi giorni il più importante epidemiologo cinese aveva ammesso che era probabile il contagio da uomo a uomo. Ma a quel punto i casi a Wuhan e nella provincia dello Hubei erano già esplosi e cominciavano a diffondersi anche in Europa e Nord America.  Israele ha preso le prime misure contro i contagi il 30 gennaio, quando ha bloccato tutti i voli provenienti dalla Cina.

Nello Stato ebraico 13 mila contagi. Nello Stato ebraico si sono registrati i primi contagi a febbraio. La politica di contenimento del virus ha funzionato abbastanza bene. I casi sono saliti a 12.895, con 148 vittime. Domenica comincerà un prima ripresa delle attività economiche, limitata ad alcuni settori a minor rischio. Il lockdown, molto rigido durante le festività di Pasqua (cattolica, ebraica e adesso ortodossa), ha causato come negli altri Paesi una brusca recessione. Il tasso di disoccupati è salito dal 4 al 28 per cento nel giro di un mese. I partiti della destra religiosa alleati del premier premono per una apertura delle attività il prima possibile.

Rischio di nuove elezioni il 4 agosto. Le rivelazioni di Channel 12 rischiano però di mettere in imbarazzo anche il premier Benjamin Netanyahu, di nuovo alla ricerca di una maggioranza in Parlamento dopo il fallimento dei colloqui con il capo dell’opposizione Benny Gantz per formare un governo di unità nazionale. Se entro 14 giorni non si troverà una soluzione Israele andrà al voto per la quarta volta in un anno e mezzo, il 4 agosto.

Davide Frattini per corriere.it il 3 aprile 2020. Gli infermieri scesi dall’ambulanza per raccogliere i campioni da portare in laboratorio sono stati respinti a sassate dagli studenti delle yeshiva, le scuole religiose, nel quartiere Mea She’arim a Gerusalemme. La città di Bnei Brak confina con Tel Aviv, i palazzi dell’una attaccati a quelli dell’altra. Eppure tra i 200 mila abitanti gli infettati dal Covid-19 sono già 508contro i 261 della metropoli su Mediterraneo che ha il doppio della popolazione. Il governo israeliano si sta rendendo conto che le aree più complesse da gestire sono quelle dove vivono in maggioranza le famiglie ultraortodosse. I rabbini si sono piegati tardi e controvoglia all’ordine di ridurre gli assembramenti: la polizia fatica a imporre la quarantena obbligatoria in tutto il Paese, ancora sabato notte il funerale di un rabbino a Bnei Brak ha portato migliaia di seguaci nelle strade al punto che il sindaco della laica Ramat Gan ha chiesto di imporre il coprifuoco nella città vicina.

Etgar Keret: mia moglie è una roccia. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è sottoposto per la seconda volta al tampone (tutti e due negativi) e ha comunque deciso di rimanere in auto-isolamento dopo che Rivka Paloch, sua consigliera proprio per le questioni religiose, è risultata positiva assieme al marito. Dell’alleanza di governo fanno parte i partiti ultraortodossi, uno dei leader – Yaakov Litzman – è il ministro della Sanità. Ha chiesto la chiusura totale di Bnei Brak, sa però che Netanyahu è impegnato nelle trattative per formare una coalizione e ha bisogno dei deputati religiosi: per ora il premier in carica ha promesso un generico «rafforzamento delle imposizioni» in alcune zone, vuole evitare che la quarantena più dura venga per gli haredim venga percepita come una discriminazione. I casi totali in Israele sono oltre 5500, i morti 21. Gli ultraortodossi rappresenterebbero quasi la metà dei pazienti nei quattro ospedali più grandi. Gli esperti del ministero della Sanità spiegano al quotidiano Haaretz che la maggiore incidenza è causata anche dalla mancanza di informazioni: «I giovani delle yeshiva non usano gli smartphone, di sicuro non sono connessi a Internet e non hanno la televisione. Stiamo cercando di lanciare l’allarme: affiggiamo manifesti sui muri e passiamo per le vie trasmettendo messaggi dagli altoparlanti».

Gli ebrei e il coronavirus, l’assurda domanda al capo dei rabbini. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 2 Aprile 2020. Un intervistatore televisivo pone al rabbino capo Riccardo Di Segni una domanda apparentemente demenziale, ma che invece ha un suo perché: «Come vivete voi ebrei questa epidemia?». Di Segni, incredulo e sconsolato, allarga le braccia: «Ma come vuole che la vivano? Gli ebrei la vivono esattamente come chiunque altro, ebreo o non ebreo». Non era quello che si aspettava l’intervistatore che zitto zitto – aveva un suo itinerario mentale con cui dar senso al dissennato quesito. E lo lancia in coda, chiudendo l’intervista: «Certo che voi ebrei ne sapete qualcosa di queste storie! Quante volte nel passato vi hanno accusato di portare la peste così come oggi si fa con la Cina, quando si dice che la malattia viene dalla Cina, e che il coronavirus è cinese…». Di Segni non poteva dire nulla e io ho spento come mi capita ogni giorno quando supero il livello di tolleranza per le bugie, le omissioni (posso sapere per prima cosa quanta gente è morta oggi?) e l’overdose di retorica per inni, trombette, tricolori, o sole mio, papi senza ombrello, eroi, trincee, avamposti, linea del fuoco. Ma fra tutte le retoriche, alcune perdonabili, ce n’è una che viene usata come barile di acido per dissolvere la verità: il divieto di ricordare che quel particolare Coronavirus che in Occidente è stato ribattezzato con il nome di codice “Covid-19” viene dalla Cina dove è nato e ha sempre vissuto come accessorio ambientale di una particolare varietà di pipistrelli, detta “Naso a ferro di cavallo”. Lasciamo stare la questione degli esperimenti cinesi avvenuti nel 2015 su innesti di Sars (Severe Acute Respiratory Syndrom, cioè polmonite acuta) su quel particolare coronavirus che poi è diventato il Covid19. Quel che ci preoccupa è un altro elemento pandemico che emerge sempre più dal giornalismo televisivo: il divieto, accompagnato da una prefabbricata dose ideologica di sarcasmo e commiserazione nei confronti di chiunque si azzardi a ricordare la natura cinese di un virus cinese che ha appestato a lungo la Cina e che la Cina ha cercato di occultare mettendo le mani addosso a chiunque denunciasse l’epidemia, facendo così perdere tempo e ulteriori vite umane in Paesi come il nostro che si sono infettati senza sapere di che cosa si trattasse e come potesse essere combattuto e contenuto. La Cina ha capovolto abilmente i ruoli esercitando una fortissima pressione politica e mediatica, impartendo una tassativa parola d’ordine, subito srotolata lungo tutte le vie della Seta: è vietato ricordare la cronologia degli ultimi quattro mesi. Il messaggio è passato senza trovare ostacoli, liscio come l’olio: la Cina non è e non è il Paese in cui l’epidemia è nata, si è sviluppata ed è sfuggita al controllo per poi devastare le nostre vite, ucciderci a decine e presto centinaia di migliaia, specialmente i più deboli. Una ventata eugenetica è arrivata dall’Oriente: coloro che muoiono non sono delle vere vittime, ma degli incidenti statistici avariati perché fuori corso per età, o difetti come diabete, ipertensione, asma. Chiunque aggiunga l’aggettivo “cinese” all’epidemia, va dunque marchiato come razzista, oscurantista, aggressore, e pazzo furioso. Il messaggio del conduttore televisivo che ieri mattina si rivolgeva allo sbalordito rabbino capo Di Segni, andava dunque letto così: «Mi aiuti lei, che come ebreo se ne intende di ignobili accuse, a sdoganare la Cina dall’accusa di essere all’origine di questa pandemia». Di Segni, per fortuna, era fuori collegamento. Ma fateci caso: non accade mai che qualcuno ricordi in qualsiasi televisione, che in Cina sono morti tutti coloro che avevano dato l’allarme a Wuhan e che erano stati bullizzati, a cominciare dal più popolare e noto di loro, il dottor Li Wenliang morto il 7 febbraio, seguito da Jiang Xueqing morto il primo marzo, Mei Zhongming e Zhu Heping e molti altri, come ricordava ieri il Foglio. Come risposta al loro allarme civile di medici, ricevettero la direttiva ideologica del Partito comunista cinese di «parlare di politica, parlare di disciplina e parlare di scienza». In due parole: zitti e mosca. Anzi: zitti e Bejing. La nuova parola d’ordine è comunque passata con efficacia: non risulta più da nessuna parte che la Cina abbia avuto alcuna responsabilità, neanche cronologica, nella nascita e diffusione del virus che secondo la stessa Oms è nata nel “Wet Market” (mercati di pesce e animali vivi in condizioni igieniche intollerabili) di Wuhan.  La direttiva è attiva su tutti i canali comunicativi e politici incoraggiata con particolare entusiasmo dal nostro ministro degli Esteri, un autentico baco felice della via della Seta. I telegiornali si sono allineati al punto tale che quando Trump ricorda che il virus è partito dalla Cina e che il governo cinese ha taciuto per settimane condannando decine di migliaia di vite fuori dalla Cina, si si affrettano a sottolineare che Trump è probabilmente in preda di una delle sue crisi da pazzo furioso, perché “attacca la Cina”. I conduttori di talk show sono avvertiti: eventuali scompostezze dei loro ospiti nei come la pretesa di ricordare la storia di questa epidemia, dovranno essere liquidate con espressioni di compatimento, suggerendo che si tratti di odio, razzismo e detestabile ingratitudine per un grande Paese che ci sta inviando (pagando s’intende) mascherine e respiratori con cui difenderci dal Covid19 comparso a dicembre nei mercati di animali vivi di Wuhan. Se poi qualcuno ricordasse l’allarme della comunità scientifica internazionale per le ricerche cinesi del 2015 su un coronavirus usato come vettore per la Sars, costui va immediatamente messo a tacere come provocatore. Per me che appartengo alla generazione già scremata dal Covid-19 (e che dunque ha ancora un residuo di memoria) tutto ciò ha un delizioso sapore da madeleine proustiana: ecco a noi, ben tornato, il socialismo reale geneticamente modificato, e dunque finalmente realissimo. La Cina non è più vicina, secondo il titolo del noto film di Marco Bellocchio del 1967, ma è già dentro di noi e trasmette dai nostri teleschermi.

Israele impone la quarantena: l'Italia come un Paese asiatico. Le autorità israeliane hanno imposto di effettuare controlli a chiunque sia stato a Taiwan, in Australia o in Italia negli ultimi 14 giorni e sviluppi sintomi collegabili al coronavirus. Federico Giuliani, Domenica 23/02/2020 su Il Giornale. Gli oltre 100 pazienti contagiati in Italia dal coronavirus stanno iniziando a preoccupare gli altri Paesi del mondo. Se prima l'unica minaccia sanitaria proveniva dalla Cina, epicentro dal quale è scaturita l'emergenza globale, adesso ci sono altre nazioni che contano sul loro territorio un elevato numero di casi. Tra queste citiamo la Corea del Sud, dove al momento si sono registrati 602 casi e 5 vittime, Giappone (138 e 1 morto) e, appunto, Italia (117 e un decesso all'attivo). Israele, ad esempio, ha imposto misure ferree. Una quarantena di quattordici giorni sarà obbligatoria per tutti gli israeliani che ritornano dal Giappone, dalla Cina, dalla Corea del Sud, da Hong Kong, Macao, Thailandia e Singapore. Come se non bastasse, hanno specificato le autorità “chiunque sia stato a Taiwan, in Italia o in Australia negli ultimi quattordici giorni e sviluppi i sintomi della malattia dovrebbe essere esaminato”. In altre parole gli israeliani che si sono recati nel nostro Paese, e che una volta rientrati in patria dovessero presentare sintomi sospetti, dovranno essere sottoposti a test strumentali per scongiurare il rischio di aver contratto il coronavirus. Insomma, il ministero della Salute di Israele, nel mettere a punto le sue linee guida, ha messo l'Italia sullo stesso piano delle nazioni asiatiche.

Le mosse del governo israeliano. In effetti il numero di casi fin qui registrati nel Belpaese è di gran lunga superiore a quello di tutti i Paesi dell'Asia, ad eccezione di Cina, Corea del Sud e Giappone. Giusto per fare un confronto, Singapore e Hong Kong, entrambi a due passi da Pechino, contano rispettivamente 89 e 70 casi. La Thailandia è ferma a 35, Taiwan a 28, la Malesia a 22, il Vietnam a 16. Certo, è doveroso sottolineare come queste siano cifre fredde e soggette a repentini cambiamenti. Tornando a Israele, il governo locale ha anche chiesto a circa 200 studenti e insegnanti israeliani di entrare in quarantena perché si trovavano in diversi siti turistici contemporaneamente al gruppo di turisti sudcoreani risultati positivi al coronavirus una volta rientrati in patria proprio da un viaggio in Israele. Il ministero della Salute ha pubblicato sul suo sito web i dettagli delle peregrinazioni dei citati turisti sudcoreani, chiedendo agli israeliani che sono stati in contatto con loro di contattare le autorità sanitarie. Ricordiamo inoltre che sabato un aereo proveniente da Seul e contenente circa 200 passeggeri non israeliani non ha ricevuto l'ok per poter sbarcare all'aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv proprio perché il governo ha emesso ferree leggi di ingresso per combattere il coronavirus. 

Giordano Stabile per lastampa.it il 18 marzo 2020. Nella notte il governo israeliano ha dato il via libera a nuove misure di emergenza per contenere l’epidemia di coronavirus. Oltre a norme “all’italiana”, per limitare i movimenti delle persone, ce ne sono altre alla “coreana”. La strategia si poggia su due pilastri: test di massa e controllo degli spostamenti di contagiati, persone in quarantena e sospetti contagiati attraverso i dati raccolti dai loro telefonini. Verrà utilizzato un software simile a quello già usato per controllare sospetti terroristi. L’applicazione sui cittadini israeliani ha posto alcuni dubbi legali ma alla fine il governo ha deciso di agire, senza passare per un voto alla Knesset, come aveva chiesto il Procuratore generale Avichai Mendelblit. Il controllo degli spostamenti sarà affidato alla polizia e allo Shin Bet, i Servizi interni, e non avrà bisogno dell’autorizzazione di un giudice. L’imposizione della quarantena spetterà però soltanto alla polizia e non ai Servizi. L’obiettivo è molteplice. Sorvegliare tutte le persone poste in quarantena, in modo che la rispettino effettivamente. Verificare gli spostamenti dei contagiati, anche pregressi fino a 14 giorni prima del conclamato contagio, per capire con chi sono stati in stretto contatto. A quel punto avvertire e porre sotto controllo anche i possibili contagiati. In questo modo si può delimitare un “focolaio”, effettuare test mirati per “seguire gli spostamenti del virus”, ed evitare movimenti che possano estendere l’epidemia. Tutti i dati raccolti saranno conservati fino alla fine dell’emergenza, poi cancellati. La misura era in discussione da sabato, ed è stata in una primo momento frenata, per l’evidente intrusione nella privacy dei cittadini. Ma in Corea del Sud è stato utilizzato un metodo simile che ha funzionato e, vista l’emergenza, il premier Benjamin Netanyahu ha deciso di andare avanti. Nella notte ha annunciato anche test di massa, anche su persone non sintomatiche ma che si sospetta abbiano avuto contatti con contagiati. Il numero dei test giornalieri salirà a «cinquemila», moltissimi per un Paese di 8,7 milioni di abitanti. La Corea, con 51 milioni di abitanti, ne faceva 15 mila al giorno. Questa mattina i casi in Israele sono saliti a 427, con un aumento del 27 per cento in 24 ore. In Cisgiordania sono 44. Per ora non ci sono vittime.

·        …nel Regno Unito.

COVID: GB, PARTITO PROGRAMMA VACCINAZIONI. (ANSA l'8 dicembre 2020) - E' partito questa mattina come previsto il programma di vaccinazioni anti-Covid nel Regno Unito e la prima dose è stata somministrata ad una signora novantenne: secondo quanto riporta la Bbc, la donna - Margaret Keenan, che compirà 91 anni la settimana prossima - ha ricevuto il vaccino Pfizer-BionTech questa mattina alle ore 6:31 (le 7:31 in Italia) nell'Ospedale universitario di Coventry. Entro fine mese dovrebbero essere vaccinate nel Paese fino a quattro milioni di persone. (ANSA).

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 12 novembre 2020. Da una settimana l'Inghilterra è in lockdown: ma andando in giro qui a Londra, si fa fatica a crederlo. Sabato scorso al mercato alimentare di West Hampstead, dove abito, c' era una ressa come non si vedeva da settimane (e la fila dal pescivendolo era la più lunga di sempre); per strada c' è gente dalla mattina alla sera; il traffico automobilistico non accenna a scemare. Certo, se si va in centro, nelle aree dello shopping, Oxford Street o Regent Street sono semivuote, perché i negozi sono chiusi: ma qui nelle zone residenziali è business as usual. Un po' dipende dalle regole: si è autorizzati ad andare a passeggio, anche con un amico, e pure a incontrarsi al parco, sebbene in teoria la raccomandazione del governo sia quella di stare al casa; e dipende anche dal fatto che non ci sono controlli: altro che poliziotti per strada e autocertificazioni, qui riuscire a farsi multare da un bobby è un' impresa quasi impossibile. Ma c' entra anche la stanchezza psicologica di un secondo lockdown , dopo che il primo è finito solo agli inizi di luglio: e allora gli inglesi questa volta interpretano le regole in maniera creativa. C' è il pub che serve birra da asporto, visto che bar e ristoranti dovrebbero essere chiusi, ma possono operare se fanno solo takeaway; c' è il negozio che si mette a vendere bibite e caffè (e intanto ti smercia pure il maglione); perfino i preti in chiesa, che non possono dir messa, ogni tanto si «affacciano» di soppiatto all' altare per una preghiera collettiva. Il bello è che i giornali non si scandalizzano, anzi lodano questo atteggiamento, improntato al common sense britannico: quando le regole si fanno troppo complicate o impossibili, le si piega al buon senso comune. E allora si indossa la mascherina (cosa che fino a qualche mese fa era rara), non ci si stringe la mano, si resta a distanza: ma per il resto si va avanti come se nulla fosse, magari prendendo il tè coi vicini sulla soglia di casa. È il lockdown light : o meglio, il lockdown all' inglese.

Da leggo.it l'8 novembre 2020. La regina Elisabetta ha indossato la mascherina in pubblico. Per la prima volta dallo scoppio della pandemia di Coronavirus, la sovrana è apparsa così in pubblico durante una cerimonia nell'Abbazia di Westminster a Londra per ricordare i britannici che hanno perso la vita nel corso di tutte le guerre. «La Regina ha celebrato il centenario della sepoltura del Milite Ignoto questa settimana all’Abbazia di Westminster, in un tributo personale prima della Remembrance Sunday», ha precisato in una nota Buckingham Palace. Si ritiene che la mascherina nera, bordata di bianco, sia stata realizzata da Angela Kelly, consigliera personale e curatrice della Regina, che disegna molti dei suoi abiti. Elisabetta ha lasciato un mazzo di fiori sulla tomba del Milite Ignoto.

La "prima volta" della Regina Elisabetta: non si era mai mostrata così. Per la prima volta dopo lo scoppio della pandemia sua Maestà si è mostrata in pubblico, a un evento ufficiale, con il volto semicoperto da una mascherina realizzata apposta per lei. Novella Toloni, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. Gli occhi che si intravedono appena, il cappello e l'abito neri come l'occasione richiede. La regina Elisabetta II si è mostrata per la prima volta dallo scoppio della pandemia da coronavirus con indosso la mascherina. Un evento raro al quale fino a oggi i sudditi britannici non avevano ancora assistito ma che era inevitabile. Dopo mesi di distanziamento sociale e isolamento la regina Elisabetta II è tornata a mostrarsi in pubblico già da alcune settimane. Ma mai si era fatta vedere, fino a oggi, in un evento ufficiale con la mascherina sul volto. Sua Maestà ha presenziato solo a poche occasioni istituzionali negli ultimi tempi ma l'ultima, il centenario della sepoltura del Milite Ignoto, ha richiesto la sua presenza fisica e questa volta la mascherina era ben visibile sul suo viso. La sovrana, 94 anni compiuti lo scorso aprile, ha ricordato insieme ad altri esponenti della famiglia reale i britannici che hanno perso la vita nel corso di tutte le guerre con una cerimonia privata svoltasi nell'Abbazia di Westminster a Londra. All'interno della maestosa Abbazia la regina è entrata da sola per commemorare i caduti, offrendo un tributo personale prima della Remembrance Sunday. Per la prima volta in assoluto la mascherina nera, bordata di pizzo bianco, l'ha accompagnata lungo la navata e nei momenti di celebrazione, soprattutto quando la sovrana ha deposto un mazzo di fiori sulla tomba del Milite Ignoto. Un evento eccezionale quello di una regina con il volto semicoperto da una mascherina, che sarà ricordato nei libri di storia inglesi per la sua eccezionalità. Come del resto lo sarà la pandemia da Covid-19 che ha travolto il mondo interno in questo 2020. I tabloid inglesi si sono però soffermati sulla mascherina indossata dalla regina, che sarebbe stata realizzata da Angela Kelly, la consigliera personale e curatrice della Regina, che disegna molti dei suoi abiti. L’ultima volta che la regina Elisabetta II era stata vista in pubblico a un evento ufficiale era lo scorso ottobre durante la visita a Porton Down, vicino a Salisbury, insieme al principe William. Un ritorno sulla scena pubblica dopo sette mesi di quarantena preventiva. In quell'occasione, però, nessuno dei due indossava la mascherina e non mancarono le polemiche per la mancata osservanza. L’uso della mascherina è obbligatorio nel Regno Unito solo in alcuni ambienti al chiuso, inclusi i luoghi di culto.

Gran Bretagna in lockdown, Johnson: “Ma scuole aperte”. Redazione su Il Riformista il 31 Ottobre 2020. L’Europa ancora nella morsa del coronavirus. Il premier britannico Boris Johnson ha annunciato un nuovo lockdown nazionale: “Da giovedì (5 novembre, ndr) fino all’inizio di dicembre dovete rimanere a casa e potete lasciarla solo per scuola, lavoro esercizio fisico ma da soli, senza persone di altre famiglie, per visite mediche e nel caso in cui foste in pericolo in casa o per assistere persone alle quali servono cure”. Il "blocco" rimarrà in vigore fino al 2 dicembre e prevede la chiusura di pub, bar e ristoranti (che possono solo effettuare consegne e asporto), ma a differenza della scorsa primavera, lascia aperte le scuole, le università e i cantieri. “Nessun primo ministro responsabile” potrebbe ignorare i numeri, ha aggiunto sottolineando che “se non entriamo in azione potremmo vedere i decessi in questo Paese raggiungere le diverse migliaia al giorno”. La mossa arriva nel momento in cui la Gran Bretagna ha superato il milione di casi (dopo Francia e Spagna) visti i 21.915 nuovi contagi delle ultime 24 ore, in leggera diminuzione rispetto ai 24.405 del giorno prima, portando il totale a 1.011.660.In Grecia scatterà invece da martedì un parziale lockdown (che durerà tutto il mese) a causa dell’aumento dei casi di coronavirus degli ultimi giorni: questa settimana sono stati oltre mille al giorno, con un picco di 1.690 registrati venerdì. Per la prima volta da maggio saranno chiusi ristoranti, bar, caffè, cinema e palestre in Gran parte del Paese mentre ovunque saranno obbligatorie le mascherine e sarà in vigore il coprifuoco da mezzanotte alle 5 del mattino. Contrariamente al lockdown della scorsa primavera, i viaggi all’interno del Paese non saranno soggetti alle limitazioni e i negozi al dettaglio rimarranno aperti. Ad annunciare una seconda ‘chiusura’, che entrerà in vigore sempre da martedì, è anche il cancelliere austriaco Sebastian Kurz, preoccupato dalla crescita dei contagi nel Paese. Tra le misure previste, il coprifuoco dalle 20 alle 6 e la chiusura di bar e ristoranti che potranno effettuare solo servizio d’asporto. È record di contagi in Germania, dove sono stati registrati 19.059 casi in un giorno, per un totale di 518.753 infezioni nel Paese. Secondo il conteggio del Robert Koch Institute, lo scorso sabato erano state 14.714. A fine settembre, la cancelliera Angela Merkel aveva già avvertito che avrebbero potuto esserci 19.200 nuovi contagi al giorno fino a Natale. Per quanto riguarda i decessi, sono stati 103, facendo salire il bilancio delle vittime a 10.452.

Dagonews il 28 ottobre 2020. (dal Wednesday Briefing del “New York Times”). Tutto il mondo è paese: nel Regno Unito la seconda ondata sta travolgendo gli ospedali, con medici e infermieri che hanno il morale a pezzi e protestano contro il governo di Boris Johnson. “Ci siamo già passati, e non è stato piacevole, ma sembrava tutto finito. Invece ora andrà avanti molto più a lungo. Non avevamo e non abbiamo abbastanza personale”.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 19 ottobre 2020. Ma chi è veramente Boris Johnson? The Gambler - il giocatore d' azzardo - sostiene il sottotitolo della monumentale biografia appena uscita in Gran Bretagna e che sta facendo versare fiumi d'inchiostro ai giornali londinesi. L' autore è Tom Bower, uno scrittore aduso ai ritratti al vetriolo (si è cimentato in passato con le vite di Mohamed al-Fayed e Richard Branson, di Tony Blair e del principe Carlo): solo che questa volta l' intento era quello di delineare un personaggio in maniera simpatetica, se non assolutoria. Lui in fondo fa parte della stessa cerchia («Boris non è un estraneo nella mia casa», lascia cadere en passant ), e soprattutto è sposato con l' ex direttrice dell'Evening Standard, il giornale di Londra che aveva lanciato Johnson a sindaco della capitale. Per l'intero libro, il protagonista è semplicemente «Boris», mentre tutti gli altri vengono indicati ovviamente per cognome. Ma nonostante ciò, il risultato è devastante: Johnson viene fuori come un uomo fondamentalmente tarato, psicologicamente devastato, divorato dai suoi demoni interiori. E la colpa è tutta di suo padre, Stanley: un farabutto che picchiava la moglie - fino a spaccarle il naso, una volta, e farla finire in casa di cura per esaurimento nervoso -, un adultero seriale, uno che convinceva le ragazze alla pari a girare nude in casa con la scusa che non c' era acqua per lavare i vestiti (e se ne è portata una a letto sotto gli occhi dei figli), che metteva i suoi quattro ragazzi in competizione esasperata fra di loro e che infliggeva loro continue torture psicologiche. È su questo sfondo da incubo che Boris si costruisce la sua corazza: non poteva raccontare fuori quello che succedeva tra le mura di casa e allora si rinchiude in se stesso, decide che da grande diventerà «il re del mondo» per essere invincibile, inviolabile, isolato dal dolore. Il Boris persona pubblica che tutti conosciamo - teatrale, buffonesco, esuberante, carico di ottimismo a ogni costo, travolgente e tracotante - è una maschera che nasconde un uomo solitario, che ha pochissimi amici, insicuro, bisognoso di approvazione, ma soprattutto profondamente infelice. Uno che vuole piacere a tutti ed è costantemente in cerca di affetto, persino da parte dei suoi nemici. Ovviamente la movimentata vita sentimentale di Johnson occupa una parte notevole del libro: a partire dal primo matrimonio con la compagna d' università Allegra Mostyn-Owen, laddove Boris dimentica il certificato di nozze nei pantaloni imprestati e poi perde l' anello nuziale. Ma la vera vittima è Marina Wheeler, la seconda moglie, che si vede sfilare sotto il naso una teoria di amanti (e figli illegittimi), fino a cacciarlo di casa definitivamente quando si invaghisce di Carrie Symonds, di 24 anni più giovane di lui. Ed è un quadro familiare, il più agghiacciante di tutta la ricostruzione: quando i parenti litigano al suo capezzale, mentre Boris lotta tra la vita e la morte in preda al Covid. Bisogna trascinare i figli, ormai in rotta con lui, a dargli un (possibile) ultimo saluto, mentre il padre Stanley si rifiuta di telefonare a Marina. Per il suo biografo, insomma, è il retroterra caotico e doloroso che spiega tutto ciò che è venuto dopo: l' ambizione, l' esibizionismo, l' inaffidabilità, le vulnerabilità di Johnson. Ma dipingerlo come una vittima non basta ad assolverlo: perché quest' uomo si è ritrovato in mano i destini di una delle nazioni più fulgide del pianeta nel mezzo di una crisi epocale. E leggere The Gambler non è rassicurante.

Deve fare la quarantena e lo trovano al ristorante: bufera su Blair. Polemiche per l'ex premier britannico Tony Blair, il quale è stato pizzicato in un noto ristorante londinese, dopo essere rientrato da un viaggio negli Usa. "Non ha rispettato la quarentena", tuonano i conservatori. Mariangela Garofano, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. L’ex premier britannico Tony Blair è finito nell’occhio del ciclone per aver “infranto le regole” relative al protocollo Covid. Volato negli Stati Uniti il 14 settembre, per partecipare ad una conferenza sulla situazione tra Israele ed Emirati Arabi Uniti, l’ex primo ministro è rientrato a Londra il 16 ed è stato avvistato il 26 nell’esclusivo Harry’s Bar di Mayfair. Come riporta il Daily Mail, Blair avrebbe trasgredito le regole, che impongono a tutti i cittadini una quarantena obbligatoria di 14 giorni, di ritorno dagli Usa. Il conservatore David Jones ha dichiarato al quotidiano che Blair con la sua condotta “ha dato un pessimo esempio ai viaggiatori, in qualità di ex premier che trasgredisce le regole”. In risposta alle accuse, il portavoce di Blair ha specificato che l'ex premier britannico “ha seguito tutte le regole imposte dal governo Usa e della Gran Bretagna. Il signor Blair è stato sottoposto ad un test Covid prima di lasciare gli Uk, un altro all’arrivo alla Casa Bianca ed ed è stato testato diverse volte dal suo ritorno. Tutti i test sono risultati negativi e non ha partecipato ad altri incontri”. Dal Ministero degli Esteri fanno inoltre sapere che i diplomatici in viaggio di lavoro per conto del governo della Gran Bretagna sarebbe esenti dalla quarantena. “Il Foreign Office fornisce esenzioni ai diplomatici che viaggiano per affari relativi agli intessi della Gran Bretagna”, ha dichiarato un portavoce dell’FCO, sottolineando che “queste persone, i loro dipendenti e familiari non devono seguire l’isolamento di 14 giorni”. Ma Tony Blair ha lasciato il suo incarico come inviato in Medio Oriente nel 2015, diventando da allora un privato cittadino a tutti gli effetti. Le regole sono molte chiare a tal proposito, affermano i conservatori. L’esenzione dalle norme in vigore vengono applicate esclusivamente a diplomatici, il loro staff e ai membri dell’Onu, per le “conferenze internazionali”. Non è stata risparmiata dalle critiche neppure la regina Elisabetta, che pochi giorni fa ha fatto la sua prima apparizione dopo mesi di isolamento nella “Covid bubble”.

La regina appare in pubblico dopo 7 mesi. Ma non indossa la mascherina. La sovrana si è presentata al pubblico senza mascherina insieme al nipote William, cosa che ha suscitato parecchie critiche, visto l’incremento dei casi di Coronavirus in Uk. “Anche la regina dovrebbe rispettare le regole”, hanno puntualizzato in molti sul web. Ma dopo 7 mesi di confinamento, Elisabetta ha rispettato un rigoroso distanziamento di sicurezza durante la sua prima apparizione pubblica.

Tampone a Londra, “La mia esperienza traumatica. Vedere per credere”. Le Iene News il 21 ottobre 2020. Diana ha documentato la sua esperienza quando si è trovata a doversi fare da sola il tampone nella capitale inglese. “Non avevo capito che me lo sarei dovuta fare da sola!”. “Il tampone per il Covid-19 a Londra? Per me è stato scioccante!”. Diana ride mentre ci racconta la sua esperienza quando, dopo essere entrata a contatto con un positivo, è dovuta andare a farsi il tampone. 23 anni, Diana è italiana ma vive a Londra da quando ha 15 anni. Martedì 20 ottobre, nella capitale del Regno Unito, va a fare il suo tampone dopo essersi prenotata: “Sono andata sul sito del Nhs (il sistema sanitario nazionale del Regno Unito, ndr) e mi sono prenotata per fare un tampone. Ti danno un codice Qr e una fascia oraria in cui andare e ti assegnano al punto più vicino a dove abiti. È un servizio gratuito se lo fai nel pubblico”. Così Diana si reca nel posto indicato. “Quando sono arrivata non potevo crederci: non avevo minimamente capito che dovevo farmelo da sola!”. Infatti, nella mail di conferma che ci ha inoltrato Diana si legge: “A seconda del luogo in cui ti recherai, ti potrebbe essere chiesto di farti il tampone da solo (con le istruzioni) o ti verrà fatto da un assistente. Lo staff ti comunicherà quale test farai una volta arrivato sul luogo”. Quando Diana arriva nel punto dove vengono eseguiti i tamponi, rimane di sasso: “Ma se lo fanno da soli?!”. “Loro ti danno il tampone con un manuale di istruzioni che devi seguire”, ci racconta. “C’erano circa sei persone che a distanza di un metro se lo facevano da soli, ma tutti starnutiscono e si soffiano il naso. C’erano degli addetti che supervisionano e controllano che tu non sbagli procedura”. Come è successo a lei, che ha dovuto ripetere il tampone: “Mi ero toccata i denti e non si può, ma come cavolo facevo a saperlo?”, dice sbalordita. “Se vai da privato è diverso”, dice Diana. “E’ a pagamento e te lo fanno loro”. “Nel caso del tampone che ho fatto io il risultato dovrebbe arrivare in 48 ore”, dice Diana, che sta quindi ancora aspettando l’esito. Insomma, dopo aver imparato a farsi il tampone da sola, come definirebbe tutta l'esperienza? “Scioccante!”.

Luke Leitch, Editor at Large di Vogue Italia, Contributing Editor di Vogue Runway, e Style Editor di 1843 (The Economist),  per "corriere.it" il 17 ottobre 2020. È lunedì sera, sono in taxi diretto a casa da Linate. Seleziono alcune foto appena scattate in aeroporto, le dispongo in ordine su Instagram e digito la didascalia seguente: «Di recente, durante i miei viaggi tra Londra a Milano, mi diverto ad ascoltare gli inglesi che si lagnano della burocrazia italiana. Tutti quei moduli da compilare! A cosa servono, poi? Stasera a Linate c’è un nuovo protocollo: il Regno Unito è stato aggiunto alla lista dei Paesi i cui viaggiatori, all’arrivo in Italia, devono sottoporsi a un tampone per il Covid-19 prima di poter proseguire. Venti minuti di attesa, un tampone veloce su per ciascuna narice — preparatevi! — e poi ti spediscono il risultato. Se sei positivo, devi restare in isolamento. Ma quanto sono inefficienti, questi italiani, vero? Testare, tracciare e monitorare — veloce, nessun intoppo. Però, stranamente, c’erano alcuni inglesi che si lamentavano di doversi sottoporre al test. Invece sappiate che se non riuscite a farvi fare il tampone in Inghilterra, o se il centro di monitoraggio più vicino si trova a diverse centinaia di chilometri di distanza, come tanti inglesi hanno purtroppo scoperto, allora vi suggerisco di prendere un volo economico di primo mattino per qualsiasi aeroporto italiano (perché in Italia si mangia benissimo ovunque!), fatevi fare il test gratuitamente a spese del governo italiano, poi fate un salto in città per godervi un bel pranzo, e più tardi risalite sull’aereo per rientrare nel vostro Regno Unito, così fiero della sua sovranità, della sua libertà e del suo buon governo. Sarete ancora in tempo per ascoltare i notiziari della sera, con gli ultimi sviluppi indubbiamente rassicuranti. #covid_19 #coronavirus #milano #london #linate #heathrow #staysafe». Incoraggiare uno tsunami di turisti «sanitari» inglesi diretti in Italia con l’intenzione di sfruttare gli eccellenti centri di monitoraggio di questo Paese non è forse la migliore delle idee: chiedo umilmente scusa. Ma come anglo-australiano che divide il suo tempo tra Londra e Milano (sono arrivato in Italia per lavoro e ci sono rimasto per amore), resto perennemente sbalordito dalla distanza che intercorre tra la percezione che si ha all’estero dell’Italia e degli italiani e la mia esperienza di vita qui. Oggi che il Covid-19 rappresenta la più grande minaccia globale e ci aggredisce tutti indistintamente, è proprio attraverso il prisma del coronavirus che spesso si esprimono questi stereotipi scontati e stanchi. Lo scorso marzo, il New York Times si chiedeva, con grande supponenza, se l’Italia sarebbe stata capace di aderire alla quarantena decretata dal premier Conte, proprio per quella storica propensione degli italiani alla furbizia che li rende così abili nell’aggirare le leggi. Ma anche senza tirare in ballo la pessima figura fatta dal New York Times nel prevedere le preferenze elettorali dei suoi stessi lettori (la mattina delle scorse elezioni presidenziali il giornale dava ormai per certa la vittoria di Hillary Clinton), le esternazioni riguardo l’Italia mi sono parse, come minimo, fuori posto. A marzo l’Italia aveva già cominciato a prendere molto sul serio la minaccia del Covid-19. A Linate, il controllo della temperatura era iniziato addirittura a febbraio e quando ho fatto ritorno a Londra, ai primi di marzo, quasi tutti i miei amici si erano già messi la mascherina e si davano da fare per provvedere all’isolamento dei parenti anziani. Anzi, mi sono affrettato a spedire per posta alcuni pacchi di mascherine in Italia, perché a Londra non le comprava nessuno, mentre a Milano erano ormai introvabili. Ma era solo quello che avevo visto con i miei occhi e ascoltato con le mie orecchie, come potevo giudicare? Le settimane successive, quelle della terribile prima ondata, hanno dimostrato che, come sempre, la verità si trova a metà strada tra quello che credi di sapere e quello che gli altri credono di sapere. Certo, c’erano quei video divertentissimi su YouTube, quasi delle gag, con i sindaci delle piccole città di provincia che andavano a rimproverare di persona i cretini che preferivano la spiaggia alla quarantena. Eppure si avvertiva un senso fortissimo di determinazione e di unità nazionale persino in quei giorni bui, quando venivano ignorate le richieste di dispositivi di protezione, lanciate dall’Italia ai paesi europei non ancora toccati dal virus, quando le strade di Milano riecheggiavano del lamento delle sirene e la tragedia di Bergamo sembrava inarrestabile. Ho cominciato a ricevere notizie di amici ricoverati in ospedale, poi di amici i cui genitori o nonni erano deceduti. Tutto andrà bene, ma quando? Bloccato a Londra, non vedevo l’ora di rientrare a casa, e grazie a un incarico professionale e all’affidamento a un dottore, sono riuscito a tornare a Milano il 16 aprile, ma solo dopo un controllo severo ed esauriente presso il presidio sanitario all’aeroporto di Roma. Arrivato a Milano mi sono isolato, poi ho effettuato un tampone (a Londra non erano disponibili), risultato negativo. Verso la fine di maggio sono riuscito a visitare un laboratorio di Prada appena riaperto, per un articolo destinato ad American Vogue, che ho scritto in volo verso Londra da Roma. E quando il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, incoraggiava il governo federale a mostrarsi «Severo. Attento. Disciplinato. Unito. Premuroso», queste erano esattamente le qualità che avevo modo di osservare a Valvigna, dove la casa di moda collaborava con le strutture sanitarie locali per sanificare i luoghi di lavoro, in vista della ripresa della produzione anche a distanza. Nelle parole di Lamberto Berti, il responsabile delle relazioni industriali: «Ce la stiamo mettendo tutta per fare bene. Dobbiamo tornare alla vita, e l’unico modo è garantire protezione adeguata e comportamenti sicuri». Quando sono sbarcato a Heathrow, Londra, quella sera stessa, non ho trovato nessun controllo, nessuna quarantena, niente di niente. Solo il 1 luglio — quando il numero dei contagi era finalmente in calo anche nel Regno Unito — sono stato obbligato a riempire il primo modulo per il tracciamento nel rientrare in quel Paese. Il mese scorso il premier britannico Boris Johnson ha insinuato che la percentuale di contagi è stata (ed è tuttora) più alta sotto il suo governo rispetto all’Italia, perché la Gran Bretagna «è un Paese che ama la libertà». In vernacolo, la giusta reazione a una simile scempiaggine è quella che mi diverto ancora a pronunciare in modo sgrammaticato: «Cazzate totale». In Inghilterra il governo ha incoraggiato i cittadini ad andare al ristorante e a tornare in ufficio. Il consigliere del primo ministro si è inventato le scuse più elaborate e inverosimili per aver infranto le regole del lockdown, e non è stato licenziato. Se vi capita di leggere l’eccellente rivista Private Eye, abbondano gli esempi di coperture e pessima gestione che hanno contraddistinto la reazione del governo britannico all’emergenza sanitaria. La tremenda lezione appresa da Trump è che se te ne freghi e scarichi ogni responsabilità, qualsiasi malefatta resterà impunita. Pertanto l’esempio della leadership inglese non ha fatto altro che incoraggiare i cittadini a fare altrettanto. E il fallimento dell’esempio inglese sta nel suggerire che «libertà» significhi fare esclusivamente quello che ci pare e piace, mentre il privilegio della «vera» libertà esige la consapevolezza della responsabilità collettiva, nel nostro interesse personale e nell’interesse degli altri. Per questo mi diverto a fare la fila e farmi infilare il tampone nel naso — e a immortalare l’atto su Instagram — quando approdo a Milano dopo una visita in una Londra irrequieta e smarrita. Perché sappiamo benissimo che bastano pochi imbecilli presuntuosi, in qualunque parte del mondo, per offrire a questo orribile virus l’occasione per svilupparsi, diffondersi e uccidere i nostri cari. E mentre so benissimo che l’Italia non è un Paese perfetto, che si tratti di arginare il virus o affrontare qualsiasi altro intervento (questo sarà per un’altra volta, chissà), posso testimoniare personalmente della vigilanza e della serietà che ho trovato in questo Paese e che mi fa sentire molto più «libero», rispetto alla mancanza di vigilanza e di serietà che ho riscontrato nel Regno Unito. Forse Boris Johnson ha ragione su una cosa: essendo (mezzo) britannico anch’io, il senso di libertà — ma la libertà che nasce dalla serietà, dalla risolutezza e dalla precisa valutazione del rischio — è ciò che apprezzo maggiormente in Italia in questo momento.

Cristina Marconi per "Il Messaggero" il 17 ottobre 2020. Bhasha Mukherjee è talmente brava e bella che la corona di Miss Inghilterra può tenerla anche per due anni. Un po' perché il 2020 non è proprio il momento ideale per organizzare concorsi di bellezza, un po' perché questa ventiquattrenne dottoressa nata a Calcutta e cresciuta a Derby, con la fascia e la coroncina indossate sul camice da medico, è la rappresentante migliore che il paese possa immaginare nell'anno del Covid.

IN PRIMA LINEA. Una malattia che la Mukherjee combatte in prima linea da quando ha interrotto il viaggio intorno al mondo in cui stava portando avanti i suoi compiti da reginetta - volontariato e impegno umanitario soprattutto - per rispondere all'appello dell'NHS, il servizio sanitario nazionale inglese, che chiamava a raccolta tutti i medici, sia i neolaureati che i pensionati, per rispondere alla pandemia.Da allora la dottoressa Mukherjee è in servizio al Boston Pilgrim Hospital del Lincolnshire e al Derby Royal Hospital, ma non ha abbandonato il suo ruolo da Miss Inghilterra e i suoi doveri. «Sto continuando a fare moltissimo lavoro di charity da remoto e riuscire a fare questo e servire il mio paese allo stesso tempo è veramente speciale», ha raccontato, osservando che «non esiste momento migliore per me di essere Miss Inghilterra». L'ultima iniziativa risale alla settimana scorsa e consiste in una raccolta di fondi, fatta attraverso una sfida di fitness a cui hanno partecipato medici e infermieri, postando i risultati ogni giorno, per aiutare i bambini che vivono per strada nella sua città natale, Calcutta. Nei 92 anni di storia del concorso non era mai capitato che una contendente tenesse lo scettro per 20 mesi, ma per la giovane, eletta nel luglio del 2019, la riconferma è apparsa da subito come la soluzione migliore dopo che l'edizione del 2020 era stata spostata da luglio a fine ottobre per via del coronavirus. «Dopo che Miss Mondo ha annunciato di voler rinviare la settantesima finale fino almeno all'autunno del 2021, abbiamo deciso di cambiare anche noi la data della finale», che ora è prevista per il 16 aprile a Birmingham, ha spiegato Angie Beasley, organizzatrice di Miss Inghilterra, secondo cui Bhasha Mukherjee è stata già «una miss eccezionale», visto che «non solo ha servito il suo paese come medico del servizio sanitario pubblico durante la pandemia, ma ha portato anche un senso di diversità al concorso grazie alle sue origini, che riflettono veramente l'Inghilterra di oggi». In finale arriveranno le ventiquattro finaliste selezionate nel corso dell'anno grazie a dei video inviati durante il lockdown.

CIRCOSTANZE. «È dolceamaro perché le circostanze non sono ideali, è difficile festeggiare quando vedi che il numero di ricoveri per Covid è in aumento nel tuo ospedale», ha raccontato la dottoressa commentando la sua rielezione e spiegando che il suo ospedale è vicino «a Nottingham, che ha il tasso di contagi più alto del paese, tanto che abbiamo molti pazienti e personale che fanno la spola tra noi e il focolaio». La dottoressa, di turno sia nel reparto di urologia chirurgica che in quello del coronavirus, ha raccontato di come siano in aumento gli asintomatici e di come questo metta a repentaglio gli altri pazienti, e in particolare gli immunodepressi. Mukherkee ha due lauree ed è specializzata in medicina respiratoria. Sono stati i suoi amici a convincerla a partecipare a Miss Inghilterra, a cui non pensava sebbene avesse lavorato come modella in passato. Quando nella primavera scorsa era in giro per l'India per fare volontariato, raccolta fondi e tutto il lavoro da ambasciatrice che ci si aspetta da Miss Inghilterra, ha raccontato di aver sentito il desiderio di unirsi a quel popolo di medici e infermieri che il paese ha applaudito tutti i giovedì sera alle 8 per tutto il periodo del lockdown.

Boris Johnson: “Noi più liberali e libertari. Ecco perché abbiamo più contagi di Italia e Germania”. Il Dubbio il 25 Settembre 2020. Mentre il coronavirus riesplode in Inghilterra, Francia e Spagna, BoJo spiega: “Se guardiamo alla storia degli ultimi 300 anni, ogni avanzamento, dalla libertà di parola alla democrazia, è venuto virtualmente da questo Paese”. “E’ quindi molto difficile – ha concluso – chiedere al popolo britannico di obbedire uniformemente alle direttive oggi necessarie”. La resistenza di una parte dei britannici ad accettare restrizioni e obblighi nella lotta al coronavirus – dai contatti sociali all’uso della mascherina – è anche frutto della mentalità liberale, o libertaria, più diffusa nel Regno rispetto “a molti altri Paesi”. Lo ha sostenuto oggi il premier conservatore Boris Johnson nel Question Time, rispondendo a una contestazione del deputato laburista Ben Bradshaw sul “come mai Germania o Italia” registrino al momento meno contagi ufficiali dell’isola senza aver adottato le nuove misure restrittive annunciate ieri da Johnson con un pressante appello alla “disciplina” individuale dei connazionali. “C’è un’importante differenza – ha argomentato BoJo – fra il nostro Paese e molti altri nel mondo poiché il nostro è un Paese che ama da sempre la libertà. Se guardiamo alla storia degli ultimi 300 anni, ogni avanzamento, dalla libertà di parola alla democrazia, è venuto virtualmente da questo Paese”. “E’ quindi molto difficile – ha concluso – chiedere al popolo britannico di obbedire uniformemente alle direttive oggi necessarie”.

L’Inghilterra fa i conti con un nuovo picco. Nuovo picco da maggio dei casi di coronavirus nel Regno Unito secondo i dati giornalieri diffusi oggi dal governo, che certificano altri 6.178 contagi contro i quasi 5.000 di ieri. Stabile invece – alla vigilia dell’entrata in vigore delle nuove restrizioni annunciate ieri da Boris Johnson – la conta dei morti (37 nelle ultime 24 ore come ieri), nonché il totale dei ricoveri nazionali in terapia intensiva, fermo a 181. Circa 220.000, infine, i test quotidiani eseguiti, fino a una somma di oltre 19 milioni dall’inizio della pandemia.

Restrizioni in Francia. Nel suo rapporto quotidiano, l’Agenzia di sanità pubblica francese riporta 43 nuovi decessi da coronavirus nelle ultime 24 ore, che portano il totale a 31.459 vittime da inizio pandemia. Mentre si registrano 13.072 casi in più rispetto a ieri, che portano il dato globale sui positivi a 481.141 casi. Sono stati registrati 4.244 nuovi ricoveri negli ultimi sette giorni, di cui 675 in terapia intensiva. Il tasso di positività è pari al 6,2%. Sono stati individuati in totale 1.039 focolai, di cui 70 identificati nelle ultime 24 ore, di questi 189 in case di cura. “La situazione generale continua a peggiorare”. “A questo ritmo l’11 novembre verrà utilizzato l’85% della capacità ospedaliera regionale”, ha avvertito il ministro della Salute. Il governo ha varato una nuova serie di misure per le aree metropolitane di Bordeaux, Lione, Nizza, Lilla, Tolosa, Saint-Etienne, Parigi e le sue periferie, Rouen, Grenoble e Montpellier. A partire da sabato, sarà abbassato a 1.000 partecipanti il limite per manifestazione e concentramenti in strada. Scatta inoltre il divieto di grandi eventi, il divieto di assembramenti con più di dieci persone in parchi e spiagge. Inoltre viene imposta la chiusura anticipata alle 22 per i bar. Verén si è anche auspicato che il telelavoro sia incoraggiato dalle aziende in queste aree.

10mila casi al giorno in Spagna. Il ministero della Sanità spagnolo ha riportato oggi 11.289 nuovi casi di Covid 19 e 130 decessi provocati dal virus. Il numero più alto dei nuovi contagi, 1300, si è registrato a Madrid, si legge sul sito di El Pais. “La maggior parte dei focolai si registrano in ambito privato e delle relazioni sociali, i focolai sui posti di lavoro sono molto meno numerosi”, ha spiegato oggi il ministro della Sanità, Salvador Illa, in un’audizione in commissione Sanità. “Mi devono appellare alla coscienziosità dei cittadini”, ha aggiunto.

Fabrizio Finzi per l'ANSA il 24 settembre 2020. "Anche noi italiani amiamo la libertà ma abbiamo a cuore anche la serietà". Questa la replica, informale ma secca, di Sergio Mattarella al premier britannico Boris Johnson che ieri si era lanciato in una spericolata difesa d'ufficio sull'aumento dei contagi nel Regno Unito tirando in ballo il proverbiale liberismo britannico. Si tratta di una piccola scivolata perchè il vulcanico Johnson rispondeva - in diretta televisiva e alla Camera dei Comuni - in realtà ad una domanda sulle differenza di incremento dei contagi tra Inghilterra, Germania ed Italia. E quindi il parallelo era ardito, potendo essere letto al contrario, come un'accusa di scarsa libertà, in Italia e Germania. Una frase che evidentemente ha colpito il presidente della Repubblica che sin dall'inizio della pandemia si è speso per invitare gli italiani alla responsabilità ed ha sempre sostenuto tutti i provvedimenti restrittivi anti-Covid. Per cui oggi a Sassari, a margine di un ricordo dedicato a Francesco Cossiga, Mattarella sollecitato da alcuni presenti sull'uscita di Johnson ha voluto aggiungere la parola "serietà". Sostantivo che nei dizionari ha questo primo significato: "piena consapevolezza dell'obbligo assunto, senso del dovere". Nessuna replica da Downing street ma rimangono le parole del primo ministro: "c'è un'importante differenza - aveva argomentato BoJo - fra il nostro Paese e molti altri nel mondo poiché il nostro è un Paese che ama da sempre la libertà. Se guardiamo alla storia degli ultimi 300 anni, ogni avanzamento, dalla libertà di parola alla democrazia, è venuto virtualmente da questo Paese. E' molto difficile chiedere al popolo britannico di obbedire uniformemente alle direttive oggi necessarie". Non si tratta quindi di sfumature ma di sostanza. Basta riprendere le parole di Mattarella dello scorso luglio per capire quanto diverso sia l'approccio alla pandemia: "talvolta viene evocato il tema della violazione delle regole di cautela sanitaria come espressione di libertà. Non vi sono valori che si collochino al centro della democrazia come la libertà". Questo perchè, secondo il presidente, "occorre tener conto anche del dovere di equilibrio con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto far ammalare altri". Nessuno quindi, pur dovendo imparare a convivere con il virus ancora per un po', può "comportarsi come se il virus fosse scomparso". "Altrove il rifiuto o l'impossibilità di quei comportamenti ha provocato e sta provocando drammatiche conseguenze", disse in più occasioni.

Mentre Johnson accusa l'Italia, la sua fidanzata si gode il lago di Como. La fidanzata di Johnson ha soggiornato in un albergo da oltre 600 euro a notte e preso parte a un'escursione dal costo di più di 300 euro all’ora. Gerry Freda, Venerdì 25/09/2020 su Il Giornale. Nonostante le recenti accuse di Boris Johnson all’Italia, bollata dal premier britannico come un Paese che sta riuscendo a contenere la seconda ondata di Covid a causa del non troppo elevato amore per la libertà dei cittadini del Belpaese, Carrie Symonds, la fidanzata del primo ministro, sembra invece apprezzare molto la nazione contro cui ha tuonato il leader tory. Mentre infatti Johnson rivolgeva all’Italia le accuse incriminate, la 32enne Carrie trascorreva, insieme a tre amiche e al figlioletto di quattro mesi Wilfred, vacanze extralusso proprio nel Paese contro cui Boris puntava il dito, ossia sul lago di Como. A realizzare tale scoop è stato il Daily Mail. La testata britannica ha infatti pubblicato ieri delle foto che immortalano la Symonds mentre si gode, tra passeggiate sul lungolago e cene prelibate al ristorante, un soggiorno estremamente confortevole nella rinomata località turistica lombarda, pernottando presso il lussuoso Grand Hotel Tremezzo, frequentato da molti facoltosi turisti internazionali. In particolare, il quotidiano londinese evidenzia il fatto che, proprio mentre Johnson annunciava martedì alla nazione mesi difficili fatti di restrizioni ai danni di alcune attività commerciali in nome del contenimento del virus e mentre il suo governo procedeva a erogare sussidi a cinque milioni di disoccupati britannici, la sua fidanzata spendeva più di 600 euro a notte per soggiornare in quell’elegante albergo, costruito nel 1910. Altre foto diffuse dal giornale mostrano la fidanzata del premier, insieme alle amiche e al figlioletto avuto da Boris, pranzare al ristorante dell’hotel, assaporando una portata dal gusto mediterraneo e dal costo di quasi 30 euro: spigola con pomodori, capperi e olive. Ulteriori immagini della lussuosa vacanza di Carrie mostrano quest’ultima prendere parte, a bordo di un battello di legno levigato, a una visita guidata nei luoghi più suggestivi di quello spicchio di terra lombarda, organizzata dallo stesso albergo e dal costo di oltre 300 euro all’ora. Oltre alle foto, il Daily Mail fornisce, come prova della confortevole capatina in Italia della fidanzata del premier che ha recentemente tuonato contro il Belpaese, alcune testimonianze di turisti britannici che hanno incontrato proprio la Symonds sul lungolago. “Lei sembrava molto rilassata, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo”, hanno dichiarato alla testata i vacanzieri di Sua Maestà che hanno incrociato la fidanzata di Boris nella località turistica in questione.

Boris Johnson non ricorda  che uno dei medici che  lo ha salvato è di Catanzaro. Beppe Severgnini  il 25/9/2020 su Il Corriere della Sera. La grottesca affermazione del primo ministro. Gli inglesi liberi perché non rispettano le regole, come invece fanno gli italiani. Boris Johnson somiglia sempre più a un personaggio di P.G. Wodehouse, grande umorista inglese e cantore della gloriosa epoca edoardiana. Dopo essersi passati e ripassati la bottiglia del Porto, gli eccentrici aristocratici intorno al tavolo si divertono a lanciare piccole, brillanti provocazioni. Finché uno la spara grossa, e gli altri ridono fino alle lacrime. C’è un particolare. Intorno a Boris Johnson, oggi, non c’è l’idilliaca campagna inglese, ma una nazione in ansia. Già una volta — in primavera — il Regno Unito ha perso l’opportunità di imitare l’Italia, primo Paese fuori dall’Asia a essere colpito dal coronavirus. Avevamo regalato due/tre settimane ai nostri amici e alleati. Niente da fare. Nonostante lo spavento dello stesso primo ministro, colpito dal Covid e ricoverato d’urgenza in ospedale, e nonostante il numero dei contagi, di nuovo in crescita, il gusto della battuta a effetto è rimasto. Ma non fa più ridere. La Gran Bretagna è spaventata e non ha voglia di scherzare. Il presidente della Repubblica, di solito restìo ai commenti a caldo, stavolta si è fatto sentire. Sergio Mattarella ha ricordato che noi italiani sappiamo essere seri. Ha fatto bene, perché è così, e non c’era bisogno del coronavirus per capirlo. Chiunque lavori con un’azienda, un professionista, un ricercatore, un artista o un ristoratore italiano lo sa. Qualunque straniero arrivi in Italia, e abbia a che fare con un artigiano, rimane sbalordito. Capisce che sappiamo pensare con le mani e amiamo il lavoro fatto bene. Se credete che sia così in tutto il mondo, vi sbagliate. Qual è il problema? Che molti tra noi non vogliono ammettere di essere seri: temono di rovinarsi la reputazione di geniali inaffidabili. Sbagliano. Gli italiani che sanno mettere insieme genio e regolatezza hanno successo, in patria e nel mondo. A proposito: uno dei medici del St Thomas’ Hospital di Londra che hanno salvato Boris Johnson è italiano (Luigi Camporota, di Catanzaro). La serietà è quella che ci ha portato fuori dai guai in primavera, e potrebbe tenerci lontani dai guai in autunno. La serietà è il timore che abbiamo provato e ancora proviamo. Aver paura di fronte al pericolo è un segno di intelligenza; affrontarlo con incosciente baldanza è, invece, una prova di superficialità. Gli inglesi sono un grande popolo, e lo rimangono. Ma l’understatement — la loro religione ufficiosa — stavolta era fuori luogo: hanno minimizzato la cosa sbagliata (il virus) nel momento sbagliato. Cosa possiamo fare per dimostrare ai nostri amici europei d’oltremanica che meritiamo rispetto? Continuare a procedere con cautela. La nostra vita — lentamente, gradualmente, timorosamente — sta tornando alla normalità. Il traffico a Milano — lo dicono gli accessi all’area C e l’esperienza di chi vive in città — è tornato quello di febbraio; la gente va al ristorante e sogna di rientrare in un teatro e in uno stadio (duemila persone, però, non ventimila!). Manca ancora molto, certo, e alcune cose devono cambiare: senza una copertura nazionale della banda larga, per esempio, lo smart working diventerà un altro elemento di diseguaglianza (ecco un bel modo per investire parte dei denari del Recovery Fund!). Ma la strada è giusta, l’attenzione è molta e la calma ammirevole. Invece di fare battute alla Camera dei Comuni, il primo ministro britannico venga a trovarci. Capirà che noi italiani siamo seriamente liberi e liberamente seri. Se si comporta bene, un bicchierino di mirto o di marsala glielo offriamo volentieri.

Coronavirus in Inghilterra, da oggi scatta la "regola del sei". A causa dell'aumento dei contagi, il governo ha deciso che non ci si può incontrare in più di 6 persone di diversi nuclei familiari, all'aperto e nei luoghi chiusi. Eccezioni per uffici, matrimoni, funerali, eventi sportivi e scuole. La nuova misura colpirà soprattutto pub e ristoranti. Antonello Guerrera il 14 settembre 2020 su La Repubblica. Oggi in Inghilterra è il giorno della "Rule of six", della "regola del sei". Che cosa significa? A causa del forte aumento di contagi da coronavirus negli ultimi giorni (costantemente sopra i 3000, quasi 3500 ieri), da oggi il governo Johnson ha deciso che non ci si può incontrare in più di sei persone di diversi nuclei familiari, sia all'interno che all'esterno. Una netta marcia indietro dopo il limite alzato di recente a 30 persone e in vigore fino a ieri. Ma l'applicabilità di queste nuove regole desta molti dubbi. Innanzitutto ci sono eccezioni importanti, come il lavoro in ufficio (fondamentale per Johnson per ripopolare il centro di Londra e i suoi business), i matrimoni e i funerali (fino a trenta persone), funzioni religiose, gli eventi sportivi riaperti al pubblico, e poi ovviamente le scuole, punto cardine della ripartenza post prima ondata in Regno Unito, come ha dichiarato più volte il premier Boris Johnson. Dunque, la "regola del sei" è destinata a essere impattare soprattutto pub, ristoranti e visite casalinghe. Ma se la ristorazione non prevederà più tavoli e prenotazioni con più di sei persone, come si potranno controllare gli incontri privati? Persino durante i momenti più duri del lockdown, la polizia inglese molto raramente ha effettuato controlli, sia per convenzione sociale sia perché le persone erano molto più rispettose delle regole anti Covid. Ora la situazione sembra sfuggita di mano, soprattutto tra i giovani: la fascia 18-25 anni rappresenta quasi il 40% dei contagi, il ministro della Salute Matt Hancock è stato durissimo ("così ucciderete i vostri nonni!") e quindi il governo vuole mettere un freno agli assembramenti riesplosi durante l'estate. Anche perché, seppur mai escluso a livello ufficiale, Johnson e l'economia britannica non possono permettersi un altro lockdown totale, a maggior ragione in coincidenza della realizzazione della Brexit il 31 dicembre prossimo, quando è possibile un'uscita senza accordo dall'Ue, che in teoria aggraverebbe ancor più lo stato dell'economia britannica. Per questo, il governo sta esortando gli inglesi (perché gallesi e scozzesi hanno regole diverse su assembramenti, come per esempio i bambini non inclusi nel computo) a denunciare alla polizia comportamenti impropri e irresponsabili da parte dei connazionali: delazioni vere e proprie, che hanno scatenato le paure degli inglesi più tradizionalisti, che hanno già dovuto accettare l'introduzione di una sorta di ronde anti Covid, composte da volontari che sorveglieranno i cittadini sul rispetto delle norme anti coronavirus, anche se non potranno fare multe, a differenza della polizia. Nel weekend, come pubblico deterrente, un ragazzino dello Wiltshire è stato multato per 10mila sterline per aver organizzato un party in casa con oltre cinquanta ospiti festanti, approfittando dell'assenza dei genitori. Qualcosa che accade da molte settimane sempre più spesso in tutta l'Inghilterra tra i più giovani. Due giorni fa il governo ha imposto un lockdown a pub e ristoranti (che ora possono fare solo takeaway) a Bolton, a nord di Manchester, dopo un'esplosione di Covid. Se i nuovi casi dovessero continuare a crescere, non è escluso che queste chiusure locali possano espandersi sensibilmente. È anche vero che i morti restano bassi (cinque ieri), che i ricoverati in terapia intensiva oggi sono 600 rispetto ai 17mila al picco dell'emergenza e che l'aumento di nuovi casi è dovuto anche a un deciso aumento dei test in Regno Unito nelle ultime settimane, che ha superato persino i 200 mila al giorno, anche se con molti problemi, come ha rivelato ieri il Sunday Times: i laboratori britannici hanno ancora molte deficienze soprattutto nell'elaborazione dei risultati, che arrivano entro due giorni a solo un quarto della cifra complessiva, e così spesso Londra manda i test in Italia e Germania per smaltire le centinaia di migliaia di tamponi arretrati per cui ancora non c'è una risposta. Inoltre, il "test & trace" fa ancora acqua: una app come l'italiana Immuni ancora non c'è e il sistema di tracciamento nei locali e dei "segugi" è spesso effimero in quanto molti clienti lasciano dati falsi.

La Regina Elisabetta fa cavaliere Tom Moore, per la donazione Covid. Notizie.it il 17/07/2020. La Regina Elisabetta fa cavaliere Tom Moore, per ringraziarlo dell'ingente donazione al sistema sanitario inglese durante l'emergenza Covid. La Regina Elisabetta fa cavaliere dell’ex impero britannico Tom Moore, veterano di guerra che da ora in poi sarà Sir. Accompagnato dalla figlia, dal genero e dai due nipoti, l’anziano signore ha partecipato alla tradizionale cerimonia d’investitura, con tanto di tocchi con la spada. La toccante e suggestiva cerimonia è stata ripresa da diverse emittenti tv ed è il primo impegno pubblico per la Regina, da tre mesi. Finora, Elisabetta II è rimasta isolata a Windsor con il consorte Filippo durante l’emergenza Coronavirus. Nelle immagini diffuse dal luogo dell’investitura, si vede la sovrana in abito acquamarina che, con la spada tradizionale, tocca Moore sulla testa e sulla spalla, pronunciando le parole di rito. Alla fine, si è soffermata per chiacchierare alcuni minuti con Sir Tom e la sua famiglia, chiedendo lui dove avesse passato il periodo di lockdown e ringraziandolo a nome dell’intero Paese. Il veterano, infatti, ha destinato un’ingente donazione in denaro al NHS, il sistema sanitario pubblico britannico, per sostenerlo durante il difficile periodo della battaglia contro il Coronavirus. “Grazie davvero, lei ha raccolto una somma incredibile“, ha detto la Regina a Moore. Ad aprile 2020 l’uomo aveva lanciato una sfida online, promettendo di compiere 100 giri del giardino attorno a casa sua, con il solo aiuto del deambulatore. In cambio del particolare gesto, chiedeva donazioni da destinare al sistema sanitario, puntando a qualche migliaio di sterline che sono poi diventate molte di più. “Sono onorato della decorazione e dell’incontro con sua maestà la Regina, non me lo sarei mai aspettato, per me è il più speciale dei giorni”, ha commentato Sir Tom Moore a conclusione della cerimonia.

Cliente affetto da coronavirus gli sputa in faccia: morto tassista. Marco Alborghetti il 22/05/2020 su Notizie.it. Il tassista inglese era stato ricoverato a metà marzo ed è morto dopo tre settimane in ospedale: la verità sul suo decesso. Trevor Belle, tassista inglese di 61 anni, è morto dopo esser risultato positivo al coronavirus. L’uomo era stato infettato da un cliente che nel mese di marzo gli avrebbe sputato in faccia, contangiandolo. Su GoFundMe è stata lanciata una raccolta fondi per il suo funerale. La sua triste vicenda ricorda quella di Belly Mujinga, bigliettaia morta a Londra dopo essere stata infettata da un uomo che l’ha aggredita sputandole in faccia. Trevor Belle è deceduto al Royal London Hospital il 18 aprile, dopo essere risultato positivo al coronavirus. A destare scalpore sono state però le cause del suo contagio, non avvenuto naturalmente: a metà marzo, infatti, l’uomo aveva caricato a bordo del suo taxi un uomo che gli avrebbe sputato in faccia, infettandolo. Trevor ha iniziato ad accusare i sintomi una settima dopo quell’episodio, il 22 marzo. In seguito all’aggravarsi della sua condizione, è stato ricoverato in ospedale, dove però purtroppo i medici nell’arco delle tre settimane non sono riusciti a tenerlo in vita. Solo tre giorni prima del decesso, Trevor aveva compiuto 61 anni. La storia di Trevor Belle ha sconvolto e allo stesso tempo commosso il Regno Unito, tanto da smuovere i cuori e le tasche di molte persone solidali. Sulla piattaforma GoFundMe sono stati raccolti fondi per organizzare il suo funerale. Lo scopo era quello di raggiungere le tremila sterline, ma, al momento (venerdì 22 maggio) ne sono state raccolte oltre seimila.

Gran Bretagna, positivo al coronavirus sputa addosso a una bigliettaia: la donna muore pochi giorni dopo. L'episodio il 22 marzo alla stazione Victoria di Londra. Belly Mujinga, 47 anni, è stata attaccata da un uomo affetto da Covid 19. Antonello Guerrera il 13 maggio 2020 su La Repubblica. Un'addetta alle biglietterie della stazione ferroviaria di Victoria, a Londra, è morta in un modo terribile. La donna, Belly Mujinga, 47 anni, lo scorso 22 marzo è stata attaccata da un uomo, a suo dire, infettato da Covid 19 che all’improvviso, e senza alcun motivo apparente, ha sputato addosso a lei e ad almeno un altro collega. Belly si è ammalata di coronavirus proprio qualche giorno dopo e, a distanza di un paio di settimane, è morta in un ospedale della capitale britannica. Il premier britannico Boris Johnson si è detto scosso da questo tragico evento. Il decesso della donna è avvenuto lo scorso 5 aprile, ma la notizia è stata resa nota solo ieri. A quanto risulta, Mujinga avrebbe denunciato il caso ai suoi superiori il giorno stesso, ma non sarebbero stati presi altri provvedimenti, né sarebbe stata presentata una denuncia alla polizia. L’altro collega di Belly vittima dell’attacco si è ammalato anche lui di Covid 19, ma avrebbe sconfitto il virus.Molti colleghi di Belly ora hanno paura, vista la loro esposizione molto elevata al Covid 19 nelle stazioni sempre frequentate da pendolari e da oggi ancor di più dopo la piccola “riapertura” del Paese decisa dal premier Johnson. Ad alcuni solo da oggi sarebbero stati forniti mascherine e guanti, secondo quanto riporta la Bbc. Sinora sarebbero morti 50 addetti alle biglietterie e nelle stazioni per coronavirus a Londra.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. Il Regno Unito va in frantumi sulla Fase 2. Ieri sera, in un discorso televisivo alla nazione, Boris Johnson ha annunciato il progressivo - ma comunque lento e graduale - allentamento del « lockdown »: il messaggio del governo passa da «state a casa» a «state allerta». Tuttavia le altre regioni del Paese non ci stanno: Scozia, Galles e Irlanda del Nord continueranno a chiedere ai propri cittadini di non uscire. E in particolare la premier scozzese Nicola Sturgeon, tenace avversaria di Boris, ha attaccato con durezza la linea del primo ministro, definita «vaga». Johnson è stato estremamente prudente: la « road map » che ha schizzato, ci ha tenuto a sottolineare, è del tutto condizionale: se il virus rialzasse la testa, si tornerebbe a un pieno « lockdown ». Al momento però, ha spiegato, la R (ossia il tasso di diffusione del virus) è fra 0,5 e 0,9 (a seconda delle aree del Paese), dunque sotto la fatidica soglia di 1: il che consente di avviare una timida riapertura. In primo luogo, già da oggi, chi non può lavorare da casa è «attivamente incoraggiato» a tornare al lavoro: e si tratta innanzitutto dei cantieri e delle fabbriche. Da mercoledì i cittadini avranno sostanziale libertà di spostamento fuori dalle mura di casa, pur nell' osservanza della regola del distanziamento sociale. Dal primo giugno cominceranno a riaprire i negozi e le scuole (a scaglioni) a partire dalle materne ed elementari. Mentre bisognerà aspettare almeno luglio per la riapertura di pub, ristoranti, cinema e teatri. Nelle scorse settimane era stata ventilata l' imposizione di una quarantena di due settimane per tutti gli arrivi dall' estero (la Gran Bretagna è infatti l' unico Paese che ha mantenuto le frontiere aperte): ma su questo Johnson è rimasto abbastanza generico. L' epidemia comunque sta tornando sotto controllo. Il numero dei decessi giornalieri continua a diminuire: ieri ne sono stati registrati solo 269, la cifra più bassa da sei settimane. Quanto a contagi, la Gran Bretagna ha raggiunto l' Italia: a ieri ne erano stati rilevati 219.183, a fronte dei 219.070 del nostro Paese. Quanto a decessi totali, la cifra britannica è più alta, con 31.855 morti rispetto ai nostri 30.560: ma questo dato va rapportato alla popolazione, che in Gran Bretagna è del 10 per cento più numerosa di quella italiana. Quindi la mortalità britannica è più bassa, con 47 decessi ogni 100 mila abitanti, rispetto ai 50 italiani (e ben sotto i 57 spagnoli). I confronti internazionali restano comunque difficili, perché la raccolta dei dati avviene in modo diverso da Paese a Paese: in Gran Bretagna, ad esempio, conteggiano non solo i decessi in ospedale, ma anche quelli nelle residenze per anziani e nella case private, cosa che altri Paesi non fanno. C' è poi il discorso delle differenze regionali: in Gran Bretagna il virus si è «spalmato» in maniera uniforme in tutto il Paese, mentre in Italia è concentrato in Lombardia, che conta la metà dei decessi totali. Questo vuol dire, ad esempio, che a Milano, fatte le proporzioni con la popolazione complessiva, la mortalità è quasi il doppio di quella di Londra.

Covid-19, record di morti in Gran Bretagna: 32 mila deceduti. La Gran Bretagna supera l'Italia per numero dei decessi dovuti al Covid-19. Boris Johnson adesso segnala l'urgenza del vaccino. Giuseppe Aloisi, Martedì 05/05/2020 su Il Giornale. La Gran Bretagna ha stabilito un tristissimo record: con 32 mila persone decedute per via del Covid-19, il Regno Unito è la realtà europea più colpita in relazione alle persone che hanno esalato il loro ultimo respiro per via della pandemia. Mentre le nazioni che appartengono al Vecchio Continente procedono lentamente verso un parziale allentamento delle misure prese dai vari esecutivi dall'inizio dell'emergenza, a Londra sono costretti a fare i conti con una classifica che non può non preoccupare. Anche il Belpaese, stabile in testa nella rilevazione sulle cifre dei morti per un lungo periodo di tempo, è stato scavalcato: adesso l'Italia non è il luogo europeo più interessato dal più alto tasso di mortalità europeo. La disamina proviene dall'Ons, ossia dall'Ufficio nazionale di Statistica, così come riportato dall'Agi. Il periodo di tempo preso in considerazione dall'istituto, però, copre fino al 27 di aprile. Bisognerà approfondire l'incidenza del tasso di mortalità negli ultimi giorni del mese scorso ed in questa prima settimana di maggio. Per ora, però, è possibile registrare la presenza di questa casistica: quasi 30 mila persone risultano essere morte per il nuovo coronavirus tra l'Inghilterra ed il Galles. Il resto dei decessi - quelli che mancano matematicamente per raggiungere i 32 mila finali - sono stati riscontrati in Irlanda del Nord ed in Scozia. Nulla a che spartire, quindi, con la situazione tedesca, che è molto differente. Vale la pena sottolineare il criterio utilizzato per la rilevazione: chi ha stabilito il numero dei morti, ha tenuto a mente soltanto quei casi in cui nel certificato di morte fosse presente la voce riferibile al patogeno che sta sconvolgendo l'intero mondo. E il problema delle case di cure, come riscontrato anche dalle nostre parti, sta interessando anche la Gran Bretagna. Nel corso del pomeriggio di ieri, Boris Johnson, che ha subito in prima persona alcuni rischi derivanti dal contagio, ha rimarcato l'urgenza del vaccino. Per il premier inglese - come ripercorso dalla Lapresse - la sfida del vaccino non può in alcun modo costituire una gara. La fretta, più che altro, è dettata dalla tutela della Salute pubblica: "Per vincere questa battaglia dobbiamo lavorare assieme per costruire uno scudo inaccessibile attorno alla nostra cittadinanza, cosa che può essere raggiunta solo sviluppando e producendo massicciamente un vaccino", ha dichiarato il leader conservatore. Oxford è una delle realtà che sta lavorando allo sviluppo di un vaccino che possa consentire alle persone di tornare alla normalità. Ma sembra che ci voglia ancora qualche mese per definire lo stato della ricerca. La finalità deve accomunare l'intero universo scientifico. E Johnson ha insistito molto anche sulla bontà di una collaborazione che coinvolga le competenze a prescindere dalla nazione di appartenenza di chi sta studiando un modo definitivo per fuoriuscire dal quadro pandemico. Una battaglia per cui la Gran Bretagna è in prima linea sin dal principio di tutta questa storia.

Da ilmessaggero.it il 6 maggio 2020. Neil Ferguson, lo scienziato che ha consigliato a Boris Johnson di chiudere la Gran Bretagna per il coronavirus, ha rassegnato le dimissioni dalla sua posizione di consulente del governo perché - stando a quanto riportato dal quotidiano inglese The Telegraph - ha infranto le regole di distanza sociale per incontrare una donna, Antonia Staats, 38enne attivista di campagne progressiste che vive fuori Londra con il marito e i figli. Da teorico inflessibile del lockdown nel Regno Unito a figura imbarazzante, destinato a farsi da parte dall'incarico di consulente del governo di Boris Johnson: brutta figura per il professor Neil Ferguson, 51enne luminare dell'Imperial College di Londra, costretto stasera ad annunciare le dimissioni dal Sage, il pensatoio di scienziati ed esperti chiamati a consigliare l'esecutivo sull'emergenza coronavirus, da un'inchiesta del telegraph che ha documentato alcuni suoi incontri clandestini con l'amante, una donna sposata, avvenuti in plateale violazione delle misure restrittive sul distanziamento sociale che egli stesso aveva contribuito a imporre a milioni di persone nel Regno Unito. Ferguson avrebbe ricevuto la donna, Antonia Staats, 38enne attivista di diverse campagne progressiste che vive fuori dalla capitale britannica con il marito e i figli, almeno due volte dall'inizio del lockdown, il 30 marzo e l'8 aprile, ha rivelato il giornale. Il professore, specialista di modelli matematici applicati all'infettivologia che con i suoi calcoli convinse a metà marzo il governo britannico di Boris Johnson a cambiare passo verso una svolta radicale nella battaglia contro la pandemia, non ha negato gli episodi. Si è limitato a giustificarsi dicendo di essersi concesso questi incontri ritenendosi «immune» dopo aver contratto in prima persona il coronavirus, aver trascorso due settimane in auto-isolamento ed esser stato dichiarato guarito. Ha tuttavia ammesso di aver fatto «un errore di giudizio» e «preso la decisione sbagliata». «Mi rammarico profondamente - ha aggiunto - di aver danneggiato il messaggio pubblico sulla necessità di mantenere il distanziamento sociale per controllare questa devastante epidemia. Le linee guida del governo sono inequivocabili, e restano valide per proteggerci tutti». Downing Street ha confermato le dimissioni dell'accademico dal Sage, mentre alcuni parlamentari del Partito Conservatore di Johnson ne hanno bacchettato il comportamento: «Scienziati come lui - ha commentato Iain Duncan Smith, ex ministro ed ex leader Tory - ci hanno detto cosa non dobbiamo fare, noi abbiamo fatto come lui ci ha detto ed egli invece ha fatto come ha voluto. È difficile da credere che un uomo intelligente abbia minato così il messaggio del governo sul lockdown».

(ANSA il 7 maggio 2020) - Il ministro della Sanità britannico Matt Hancock si è dichiarato oggi "senza parole" per il comportamento del professor Neil Ferguson, teorico del lockdown nel Regno Unito contro il coronavirus, costretto ieri a dimettersi da consulente del governo dopo essere stato sorpreso a incontrare l'amante in violazione delle restrizioni da lui stesso raccomandate. E ha aggiunto che l'accademico, ribattezzato 'professor lockdown' sui media, "ha preso le decisione giusta" facendosi da parte.  Nel contempo Hancock, interpellato sul caso dal pubblico durante un filo diretto tv su Sky News, si è rimesso alla polizia per un'eventuale indagine sull'accaduto e una possibile ammenda a carico del luminare dell'Imperial College. Il ministro ha peraltro insistito che la vicenda non deve portare a mettere in discussione il lockdown. Mentre ha frenato sui tempi di una fase 2, definendo per ora prematura una data di ripresa delle scuole ed evocando misure cautelari anche "in estate" per quei negozi o ristoranti che fino ad allora potranno riaprire.

Guia Soncini per linkiesta.it il 7 maggio 2020. Professor Ferguson, io le sono vicina. Non solo perché voi sarete pure il paese di Camilla Parker-Bowles ma noi siamo quello di Mastroianni; non solo in quanto studiosa di quel pilastro della società che è l’adulterio; non solo perché dover lasciare una task force, di questi tempi, è assai peggio che dover lasciare una moglie; io le sono vicina perché lei è una vittima, e non solo delle circostanze. Riassunto per chi non fosse in confidenza con l’incresciosa situazione. Neil Ferguson è un epidemiologo cinquantaduenne, a capo del prestigioso (non so bene se in questi casi si usi “prestigioso” o “autorevole”) gruppo creato dall’Imperial College (università londinese il cui nome ormai è più evocativo di Oxford e Cambridge) per tutelare l’Inghilterra dal virus Corona (un malanno stagionale di cui forse avete sentito parlare). Tra le linee-guida emesse dalla squadra d’emergenza, la solita roba che conosciamo anche da queste parti: distanziamento sociale, affetti stabili (comunque si chiamino nel paese di Enrico VIII e delle sue sei mogli). Ieri sera, Ferguson si è dovuto dimettere dall’incarico dopo che il Telegraph (quotidiano conservatore: neanche si può dare la colpa ai comunisti) ha raccontato che per due volte, nel corso delle settimane di clausura, egli aveva ricevuto la signora Antonia Staats, che non solo è sposata con un altro (quindi clandestinamente instabile), ma ha l’aggravante di vivere lontano da lui. Il Daily Mail ieri sera sottolineava come la signora viva nella parte sud di Londra, e Ferguson nella parte nord (il Mail era in brodo di giuggiole come non lo si leggeva da quando Sarah, omonima di Ferguson e all’epoca moglie del principe Andrea, si faceva ciucciare l’alluce da un texano: per fortuna ci sono gli epidemiologi, in quest’epoca in cui le principesse sono così noiose). Ah: Ferguson ha appena finito una quarantena perché era risultato positivo al virus. Non si vedeva un’attrazione così disposta a passar sopra a veleni, rischi, proibizioni, e morte dal 1597, anno in cui William Shakespeare scrisse Romeo e Giulietta, due adolescenti che finirono malissimo nonostante non esistessero i paparazzi. (Ieri il Times, ignaro d’avere in zona un caso così perfetto per giocarsi la carta Montecchi e Capuleti, usava la definizione di “Romeo e Giulietta” per una coppia italiana che si era conosciuta a Verona e non si era potuta frequentare per tutta la fase 1). E ancora: tra la prima visita a presunto scopo di copula riportata dal Telegraph (che sarebbe del 30 marzo) e la seconda (8 aprile), la signora Staats avrebbe detto ad amici che il marito aveva dei sintomi compatibili col virus (il marito l’avrà attaccato alla moglie che l’ha attaccato all’amante che al mercato la quarantena comprò?). La parte migliore è tuttavia quella in cui la signora (che viene descritta come militante di sinistra; mi correggo: si può dar la colpa ai soliti bolscevichi) dice che lei non ha violato alcunché, non tanto perché lei e il marito hanno «un matrimonio aperto» (cioè: non s’illudono che non verranno cornificati), quanto perché le linee guida decise dal suo (ex?) amante parlano di household, nucleo familiare, e lei considera il proprio e quello di Ferguson come un unico nucleo familiare. E noi che ci scervellavamo con gli affetti stabili e instabili: persino col nucleo familiare puoi arrangiarti un po’ come ti pare. Nel piglio della signora si riconoscono i tratti salienti della situazione: un’amante volitiva è un’imposizione per liberarsi della quale ci vogliono tempo ed energie non disponibili durante un’epidemia; provateci voi, a dire «non puoi venire a trovarmi anche se sono a casa» a una fedifraga determinata a farvi visita. Ferguson ha detto che si dimetteva perché «ho commesso un errore di valutazione» (spero che nelle cronache italiane qualcuno vorrà tradurlo con «errore di saggezza»), e che ha fatto tutto perbene visto che è stato due settimane in isolamento ma che non vorrebbe aver «depotenziato il messaggio di grande chiarezza su quanto siano necessarie le distanze sociali». Dottor Ferguson, sento di poterla rassicurare: nessuna vicenda, in questi mesi di virus, ha mandato messaggi più chiari della sua. La capiamo tutti. Chiunque sia stato un amante, chiunque abbia avuto un amante, chiunque abbia mai osservato un’amante pretendere attenzioni dal marito d’un’altra. Qualche settimana fa, durante la fase 1, sotto la mia finestra aperta, nel silenzio totale delle strade deserte, un suo collega parlava al telefono. Non so se fosse un epidemiologo; ma era un povero cristo che spiegava a qualcuna che mica era colpa sua se non poteva chiamarla spesso: era blindato con la moglie. Spero che anche lui, per rassicurare telefonicamente la sua Staats dopo esser sceso a comprare le sigarette, avesse violato la regola dei duecento metri. Altrimenti, oltre a me, è assai probabile che quella telefonata l’abbia ascoltata anche la legittima consorte, e a quel punto dimettersi da una task force sarà il minore dei suoi problemi.

Paola De Carolis per il “Corriere della Sera” il 7 maggio 2020. Si sarebbero conosciuti attraverso un sito per cuori solitari: attivista lei, professore lui. Sembrerebbe la trama di una soap opera o di una commedia all'inglese se non fosse per l' effetto catastrofico che la storia ha avuto sulla vita privata e professionale dei suoi protagonisti. La donna che per almeno due volte ha violato il lockdown per andare a trovare l' epidemiologo dell' Imperial College che ha plasmato le misure restrittive britanniche si chiama Antonia Staats, ha 38 anni, è tedesca di nascita, lavora per Avaaz, una società non profit che si batte per l' attivismo globale - dall' Europa, al clima, ai diritti umani -, risulta simpatica ai vicini, è rispettata dai colleghi e adorata dagli amici. Suo marito, Chris Lucas, è uno studioso di linguistica della Soas, la Scuola di studi orientali e africani di Londra dove i due si sono conosciuti. Hanno due figli e vivono in una bella villa spaziosa in un quartiere meridionale della capitale. Antonia ha una relazione con Neil Ferguson, ma non ci vede nulla di male. Quello tra lei e Lucas, dopotutto, è «un matrimonio aperto». Se ha attraversato Londra per vedere Ferguson lo ha fatto credendo di rispettare le regole. È come, ha spiegato, se facessero parte dello stesso nucleo familiare, tanto che i due prof si conoscono e si stimano: hanno scoperto di avere diverse passioni in comune. Come i numeri e i dati. In un momento estremamente difficile per tutto il Paese, che ha diviso nipoti dai nonni, figli dai genitori e costretto tanti anziani a morire soli, risulta pressoché impossibile chiudere un occhio su tali trasgressioni, ma meritavano Straats e Ferguson di essere schiaffati sulle prime pagine di tutti i giornali e trattati come assassini? Sulla leggerezza che li ha portati a vedersi sono spuntate mille teorie che hanno cercato di tingere una relazione sentimentale di ben altri colori. C' è chi ricorda che l' organizzazione per la quale lavora Staats è stata messa in piedi grazie anche ai soldi di George Soros. L'attivista, stando ad alcuni, è una «disturbatrice» di sinistra, una specie di agente segreto che si è inserita nei massimi circuiti governativi per destabilizzare l' esecutivo. C' è chi, invece, sottolinea il suo impegno a favore dell' Unione Europea e contro la Brexit. Era pronta addirittura a pagare il taxi a dimostranti troppo pigri per raggiungere la piazza di fronte al Parlamento con i mezzi pubblici per una importante manifestazione. Una «farabutta», insomma. E che dire della sua presa di posizione sull' ambiente e contro i combustibili fossili? Questo chiarisce la natura del legame con Ferguson. Entrambi erano intenzionati a distruggere l' economia britannica, lui con il lockdown, lei battendosi per una rivoluzione verde, si legge su Internet. Se si tratta di uno scandalo molto inglese - le relazioni pericolose, al contrario di quanto indichi il detto, fanno parte del Dna britannico e lo stesso primo ministro, con i suoi complicati affari sentimentali, ne è la dimostrazione -, è sbalorditivo il modo in cui è stato trattato dai media, come se realmente, quando la Gran Bretagna supera i 30.000 decessi ufficiali, potesse rappresentare la notizia più importante del giorno. Sicuramente un dramma c' è, oltre alla violazione di regole che sono pesantissime per tutti e che dovrebbero essere uguali per tutti. Due famiglie - i Lucas e i loro figli, nonché Ferguson con il suo - dovranno ritrovare un equilibrio personale. Professionalmente avranno qualche problema.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. Gli amanti ai tempi del coronavirus hanno molti volti. I più famosi sono quelli di Neil Ferguson e di Antonia Staats: lui è il direttore del Dipartimento malattie infettive dell' Imperial College di Londra che ha convinto Boris Johnson ad abbandonare la strada dell' immunità di gregge e a optare per un più ragionevole lockdown, valido per tutti tranne che per se stesso e per Antonia, l' amante incontrata a casa sua ben due volte durante la quarantena. I giornali inglesi lo hanno crocifisso, e non tanto perché lei è una donna sposata (il suo è un matrimonio aperto), ma perché lui è - era, prima delle dimissioni - un consigliere del comitato Sage per l' emergenza. Al di là del ruolo, e delle inevitabili conseguenze, Neil e Antonia hanno ricordato a tutti una cosa molto vera: gli amanti clandestini non si sono estinti con l' applicazione delle misure anti contagio. Come sa bene l' anchorman spagnolo Alfonso Merlos, alle spalle del quale, durante una diretta via Skype, è comparsa semi-nuda la collega Alexia Rivas (va detto che quest' ultima si considerava già la sua fidanzata, dettaglio sconosciuto dalla titolare in carica Marta López). A dimostrazione del fatto che, a dispetto delle definizioni giuridiche assunte dal Decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 26 aprile, gli amanti sono «affetti» ben più «stabili» di quanto non lo siano parenti e affini, fino al sesto grado. Lo scrittore Diego De Silva, autore tra gli altri di Terapia di coppia per amanti , lo aveva intuito già il primo aprile, quando su Twitter aveva scritto: «Una grande distinzione alla fine del coronavirus sarà fra chi si ama ancora e chi ha smesso di amarsi». A noi del Corriere , per telefono, dice che i protagonisti del suo romanzo appena citato, Viviana e Modesto, avrebbero escogitato qualunque cosa, pur di vedersi: «Intanto è una leggenda quella che gli amanti sono clandestini: la verità è che sono coppie ufficiali, che sopravvivono alle epoche, ai matrimoni che finiscono e a quelli che nascono. Sono molto più stabili di molti matrimoni allo sfascio». Anche la terapista di coppia Gianna Schelotto annovera, tra i pazienti che in queste settimane ha continuato a seguire via Skype, amanti condannate più che mai ad aspettare. Racconta: «Il coronavirus ha dilatato la loro sofferenza e in certi casi ha aumentato le loro paure, per via della convivenza estrema e prolungata con i partner ufficiali». Lei è convinta, però, che non siano pochi quelli che hanno fatto come Ferguson e Antonia: «Gli amanti non sono prudenti di per sé, sono sempre convinti che nessuno sappia e nessuno veda, si sentono più invisibili del virus». Se poi durante la quarantena hanno preso decisioni drastiche, la psicoterapeuta cita I Nuovi Angeli e la canzone Anna da dimenticare , e smorza: «Non è niente di definitivo: sono le "grandi decisioni decise mai"». Allora ecco cosa è successo agli amanti dal 9 marzo scorso: molti hanno continuato a vedersi, molti si sono sentiti solo per telefono, molti sono rimasti appesi a messaggi che arrivavano in differita su WhatsApp, molti sono caduti, vittime collaterali di incidenti domestici (come la comparsa improvvisa della moglie o del marito durante una video chiamata). Altri sono stati scoperti. E alla fine non è successo niente. Perché, lo spiega lo psichiatra Raffaele Morelli, direttore di Riza Psicosomatica , la parola «amanti» significa «coloro che amano». E non smettono certo da un giorno all' altro. «Con gli amanti siamo nel cuore del fuoco, è il luogo in cui la sessualità lavora in modo più significativo. L' eros non è, come pensiamo noi, il mondo degli istinti, ma è il mondo della trasmutazione: facciamo l' amore perché si secernono sostanze che rigenerano il nostro cervello e favoriscono l' evoluzione interiore. Perdere il proprio amante vuol dire perdere l' energia primordiale di cui abbiamo bisogno».

Paola De Carolis per corriere.it il 3 maggio 2020. Tra lacrime e commozione, Boris Johnson ha raccontato di essere giunto a un passo dalla morte al St Thomas’s Hospital di Londra, dove alcune settimane fa era stato ricoverato perché colpito dal Covid-19. «E’stato un momento brutto, non lo negherò», ha sottolineato il primo ministro al Sun on Sunday, tabloid cui ha dato la prima e sinora unica intervista sulla malattia. «Avevano una strategia per affrontare uno scenario del tipo morte di Stalin», ha ammesso con un riferimento a come gestire da un punto di vista mediatico la notizia di un suo possibile decesso. «Non stavo per niente bene e i medici avevano un piano su come agire se le cose si fossero messe male», ha precisato il premier, che ha aggiunto di essermela cavata grazie ai medici, Nick Price e Nick Hart, cui Wilfred, il figlio nato la settimana scorsa deve il terzo nome, ma soprattutto grazie agli infermieri che sono stati al suo fianco per 48 ore filate monitorando di continuo l’ossigenazione del sangue. Con il trasferimento in terapia intensiva è arrivato il momento peggiore. «I maledetti valori continuavano ad andare nella direzione sbagliata», ha spiegato il primo ministro. I medici hanno preso in considerazione l’opportunità di collegarlo a un respiratore, passo che avrebbe reso necessario il coma farmacologico. «Mi sono chiesto, come ne uscirò?». La gravità della situazione ha sorpreso lui per primo. «E’ difficile credere che le mie condizioni di salute siano peggiorate così in fretta», ha detto. Dopo la diagnosi ha continuato a lavorare, anche se non si sentiva affatto bene. «Ero frustrato, non capivo perché non miglioravo». Quando i medici hanno indicato che era necessario il ricovero, Johnson ha risposto inizialmente che non voleva andare in ospedale. I medici hanno insistito: avevano ragione. Dopo una prima visita, a Johnson è stata messa la maschera per l’ossigeno. «Ho ricevuto litri su litri d’ossigeno». Si commuove ricordando gli infermieri, che aveva già ringraziato quando era stato dimesso. «Mi commuovo quando ci penso.... », ha detto con gli occhi bagnati dalle lacrime. «Ho ricevuto cure eccellenti - ha detto - impressionanti, commoventi». In 55 anni si è rotto di tutto, ha sottolineato, ma non aveva mai fatto i conti con la propria mortalità. «Mi sono rotto il naso, un dito, il polso, una costola. Mi sono rotto quasi tutto. Alcune cose diverse vote. Ma non ho mai avuto una malattia grave come questa». Aver visto da vicino gli effetti del virus lo rende cauto sulla riapertura del paese. «Così tante persone hanno sofferto, così tante famiglie hanno ancora di fronte momenti di grande ansia. Se mi chiede, “mi motiva la voglia di mettere fine alla sofferenza della gente?”, rispondo, certo che si. Ma ho anche un desiderio travolgente di rimettere in piedi tutto il paese, di vederlo sano, di andare avanti».

Boris Johnson, racconta la grande paura: “Era pronto un piano tipo la morte di Stalin”. Il Dubbio il 3 maggio 2020. “Mi hanno dato una maschera per il viso e ho ricevuto litri e litri di ossigeno, ho tenuto a lungo quella e il tubicino per il naso. E’ stato un momento difficile, non lo nego”. Boris Johnson poteva morire di coronavirus: il governo britannico era pronto a questa evenienza mentre il premier si trovava in terapia intensiva a lottare con l’ossigeno, e aveva un piano d’emergenza per gestire l’annuncio del decesso. E’ stato lo stesso Johnson a raccontare la sua lotta per la vita, in un’intervista al Sun, ammettendo di essere “un uomo molto fortunato”. “Mi hanno dato una maschera per il viso e ho ricevuto litri e litri di ossigeno, ho tenuto a lungo quella e il tubicino per il naso. E’ stato un momento difficile, non lo nego. Avevano una strategia per affrontare uno scenario del tipo ‘morte di Stalin’ (che fu annunciata il giorno dopo, ndr). Non ero in forma particolarmente brillante e sapevo che c’erano piani di emergenza in atto”. “I medici avevano tutti i generi di disposizioni su cosa fare se le cose fossero andate male, compreso come dare l’annuncio della mia morte se il virus mi avesse sconfitto”, ha spiegato, riferendo come all’inizio, quando ha scoperto di essere positivo al Covid-19, abbia negato la gravità della situazione. “Lavoravo e continuavo a fare queste videoriunioni”, ma “mi sentivo abbastanza stordito”, ha ammesso. La piena consapevolezza è arrivata quando è stato collegato ai monitor e trasferito in terapia intensiva. “Era difficile credere che in pochi giorni la mia salute si fosse deteriorata a tal punto. Ricordo di essermi sentito frustrato. Non riuscivo a capire perchè non stavo migliorando. Ma il momento brutto è arrivato quando le probabilità erano 50-50 se mettermi o no un tubo nella trachea”. “Ho pensato, ‘non c’è medicina, non c’è cura’”. E poi, “‘come farò a uscirne?'”. “E’ stato grazie ad una meravigliosa, meravigliosa assistenza infermieristica che ce l’ho fatta. Ce l’hanno fatta davvero e hanno fatto una grande differenza. Non so spiegare come sia successo. Non so… è stato semplicemente meraviglioso vedere il… “. A questo punto, la voce del premier – ha riferito il Sun – ha vacillato mentre gli occhi si sono arrossati e si è fermato per fare un respiro profondo. “Mi commuovo… ma è stata una cosa straordinaria”, ha sottolineato Johnson, che due settimane dopo essere uscito dall’ospedale ha assistito alla nascita del suo sesto figlio, Wilfred, avuto con la compagna Carrie Symonds. Ora, ha assicurato il premier, “sono guidato da un desiderio travolgente di rimettere in piedi il nostro Paese, di nuovo in salute, e sono molto fiducioso che ci arriveremo”.

Coronavirus, allarme per i malati di cancro: 18mila morti in più. Il sistema sanitario inglese è preoccupato per i pazienti oncologici: a causa del Coronavirus si è ridotto il numero delle chemioterapie e molte persone, pur presentando sintomatologie riconducibili ad un tumore, scelgono di non recarsi in ospedale per paura del virus, ritardando così la diagnosi. Federico Garau, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. La diffusione del Coronavirus ha purtroppo costretto le strutture ospedaliere a concentrare tutti i propri sforzi nel trattamento dei pazienti affetti dal terribile morbo. In questo modo, tuttavia, molte altre patologie gravi sono state gioco forza messe da parte, anche solo per evitare ad altre persone malate di entrare in contatto con soggetti infetti e contrarre a loro volta un virus che, nella peggiore delle ipotesi, considerate le già precarie condizioni di salute, sarebbe potuto risultare per loro fatale. Da qui l'allarme che si sta diffondendo nel Regno Unito: i medici temono che a causa dell'emergenza scatenata dal Covid-19 possa derivare un drammatico aumento di decessi provocati dal cancro. Il trattamento di molti tumori, infatti, riferisce il “DailyMail”, è stato temporaneamente sospeso sia per evitare ai malati oncologici di sostare negli ospedali dove potrebbero contrarre il morbo, che per tenere liberi dei posti letto in più per i nuovi pazienti affetti da Coronavirus. Uno scenario terribile, che preoccupa il Royal College of Surgeons, che nei giorni scorsi ha avvertito il sistema sanitario nazionale inglese, avvisandolo del fatto che oltre 2milioni di interventi che non hanno nulla a che fare col Sars-Cov-2 non sono stati effettuati. Il dottor Peter Johnson, direttore clinico nazionale del Nhs per i tumori, ha dichiarato che per quanto terribile possa essere il Covid-19, i vecchi nemici dell'uomo, come il cancro, rimangono in agguato. Secondo uno studio condotto dall'University College di Londra (Ucl), a causa del Conavirus ci saranno molti più decessi per cancro, questo perché tutti i pazienti oncologici o con sospetto tumore non stanno accedendo alle strutture ospedaliere per ricevere i trattamenti necessari. Secondo Johnson, inoltre, molte persone con sospetti sintomi di cancro starebbero di proposito evitando di recarsi in ospedale per sottoporsi ad esami proprio per paura della pandemia. “Se le persone aspettano a chiedere aiuto, il cancro sarà una minaccia ancora più grande per migliaia di vite in questo paese", ha affermato. A confermare le preoccupazioni del professor Johnson anche un sondaggio compiuto su un campione di cittadini. Il 10% ha affermato che, in caso di sospetto tumore, non si sottoporrebbe mai a visita durante la pandemia, mentre il 36% ha dichiarato che prima di fissare una visita vorrebbe aspettare almeno una settimana. Il consiglio dei medici ai cittadini, tuttavia, resta uno solo: in caso di sintomi preoccupanti, recarsi subito dal proprio medico di famiglia ed effettuare gli esami specifici. “I servizi di screening del cancro si sono fermati, il che significa che perderemo la nostra possibilità di attaccare molti tumori quando sono ancora curabili”, ha dichiarato il direttore dell'Institute of Cancer Policy del King's College di Londra. Stando alle ultime ricerche del Leeds Teaching Hospitals, del Royal Free di Londra e dell'University College London Hospitals si sarebbe già verificata una riduzione del 60% delle chemioterapie, con un calo del 76% di segnalazioni di nuovi casi di cancro. Ciò, secondo gli esperti, potrebbe causare 6.270 decessi in più rispetto ai numeri stimati prima dell'emergenza Coronavirus. Un aumento del 20% delle vittime di tumore, per un totale di 17.915 decessi in più. “Il Coronavirus era sconosciuto fino a pochi mesi fa, ora sappiamo che il pericolo riguarda tutti. Dobbiamo tuttavia ricordare che i nemici più vecchi, come il cancro, rappresentano un pericolo ancora maggiore. Le morti per il virus campeggiano sui quotidiani, ma molte persone continuano a ricevere cure per i tumori e muoiono a causa di essi”, ha ribadito il dottor Johnson. “Il sistema sanitario incoraggia tutti, anche in caso di dubbi o timori di aver contratto il cancro (noduli o altre problematiche che possano risultare connesse al terribile male) a non trascurare la situazione ed a contattare i medici. Consultazioni a distanza, centri terapeutici protetti dal virus e un accordo senza precedenti con gli ospedali privati sono tra i modi innovativi adottati dal sistema sanitario”, ha aggiunto, invitando tutti a chiedere aiuto in caso di sintomi.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 27 aprile 2020. Quanto è indipendente il comitato di scienziati «indipendenti» che consiglia il governo britannico sulla crisi del coronavirus? I dubbi sono stati rilanciati ieri mattina, dopo che il Guardian ha rivelato che Dominic Cummings, il mefistofelico super-consigliere di Boris Johnson, ex direttore della campagna per la Brexit e vero burattinaio occulto di Downing Street, partecipa da settimane alle riunioni del Gruppo di Consulenza Scientifica per le Emergenze (la cui sigla in inglese è Sage , che significa anche «saggio»). Il comitato è composto da membri la cui identità è tenuta segreta, così come confidenziali sono i loro pareri: e questo sia per ragioni di sicurezza che per metterli al riparo da pressioni indebite. Ma in realtà Boris Johnson non si è fatto scrupolo a piazzare in mezzo a loro il suo braccio destro, la cui sola presenza rischia di sminuire l' imparzialità del Sage. Il governo di Londra ha reagito negando che Cummings faccia parte del comitato e sostenendo che il super-consigliere abbia solo assistito ad alcune riunioni in veste di osservatore, limitandosi a fare qualche domanda di tanto in tanto. Ma secondo il Guardian, Cummings in realtà era parte attiva delle discussioni e contribuiva alla formazione dei pareri scientifici. Il Sage si è riunito due volte a gennaio, dopo le prime notizie sul coronavirus, e poi nove volte a febbraio e dieci a marzo, mentre ora si consultano due volte alla settimana. Si sa che ne fanno parte il consigliere scientifico e il consigliere medico del governo (due esperti molto rispettati), oltre che diversi microbiologi ed epidemiologi (fra cui almeno sei donne). Ma prima dell' era Johnson non risulta che consiglieri politici prendessero parte ai lavori dei comitati di consulenza scientifica. Il governo britannico, fin dall' inizio della crisi, ha sempre detto di voler essere «guidato dalla scienza». Ed è vero che la discussa teoria dell'«immunità di gregge», secondo cui era meglio far infettare il più alto numero di persone possibile, non era stata tirata fuori da Johnson bensì dal suo consigliere scientifico, Sir Patrick Vallance (e il governo aveva subito preso le distanze). Così come era stato poi lo studio pubblicato a metà marzo dai ricercatori dell' Imperial College (il cui capo, il professor Neil Ferguson, siede ora nel Sage ), secondo il quale senza far nulla si sarebbe provocato mezzo milione di morti, a indurre Johnson a una precipitosa marcia indietro e all' imposizione del «lockdown». E se le rivelazioni del Guardian rischiano di offuscare l' idea di indipendenza dei pareri ricevuti dal governo, va detto anche che da più parti a Londra si sottolinea ormai che le decisioni fondamentali non possono essere delegate agli scienziati, perché sono di natura eminentemente politica. Come bilanciare le esigenze della salute con quelle più generali della collettività, come e quando far ripartire il Paese, quali rischi decidere di correre? Sono tutte scelte che non toccano ai virologi ma a chi è stato eletto dal popolo. Che è chiamato a prendersene tutta la responsabilità.

Virus: è l'ora più buia, ma senza Churchill. Un disastro all'inglese. Sabrina Provenzani per il “Fatto quotidiano” il 24 aprile 2020. A un mese dall' inizio del lockdown qual è il bilancio per il Regno Unito? La risposta politica - Tardiva. Malgrado le prime riunioni dell' esecutivo siano state a fine gennaio, per settimane il governo ha raccomandato solo di lavarsi le mani, senza implementare controlli agli arrivi dalle zone rosse, il lockdown o avviare campagne di testing e tracing, con l' intento dichiarato di ottenere immunità di gregge. Il cambio di strategia è avvenuto solo a metà a marzo, quando è stato annunciato il lockdown. I morti in ospedale sono 18.738 più un centinaio fra medici e infermieri. Il Financial Times stima 41mila morti totali, soprattutto nelle residenze per anziani.

Boris Johnson - Distratto dalla Brexit e dal proprio divorzio e rassicurato dai suoi consiglieri scientifici, nelle settimane cruciali fra fine gennaio e metà marzo ha sottovalutato la crisi, invitando la popolazione a continuare la vita di sempre e non partecipando a cinque riunioni del comitato di emergenza Cobra. Il 27 marzo si è ammalato di Covid-19 ed è uscito di scena, lasciando di fatto un vuoto di potere.

L' impreparazione del Servizio sanitario (e del governo) - Un decennio di tagli, sempre sotto governi conservatori, la riorganizzazione in Trust (aziende autonome) e il depauperamento della medicina territoriale hanno provocato una risposta a macchia di leopardo. All' inizio della crisi la disponibilità di letti in terapia intensiva era fra le più basse d' Europa. È aumentata liberando reparti di ospedali o costruendone di nuovi che restano vuoti per la cronica carenza di ventilatori, medici e infermieri. Imputati: la mancata attuazione delle raccomandazioni del 2016 in caso di pandemia; lunghe linee di comando e una burocrazia esasperante che rallenta acquisti di materiale d' urgenza e la redistribuzione del personale dove serve. A fine gennaio, quando la concorrenza mondiale era già altissima, solo alcuni trust hanno comprato materiale protettivo, anche in concorrenza fra loro. Senza un efficace coordinamento centrale, malgrado l' intervento dell' esercito, il governo britannico non riesce a recuperare sufficienti misure di protezione, espone tuttora il personale a rischi inaccettabili o li costringe a riutilizzare materiali monouso. Intanto, altri reparti restano inattivi, con ritardi per i trattamenti di altri pazienti, per esempio in oncologia.

La propaganda ufficiale - Sono diversi i ministri che hanno mentito o edulcorato la verità in più occasioni, hanno fornito versioni contraddittorie sulla mancata partecipazione ai bandi europei per ventilatori e dispositivi di protezione. Garantito al personale in prima linea consegne urgenti di protezioni mai arrivate, arrivate con ritardo o con standard di sicurezza inferiori. Somministrato a lavoratori essenziali nella sanità tamponi poi rivelatisi inadeguati. Il ministro della Salute, Matt Hancock aveva annunciato l' imminente arrivo in farmacia di test: 20 milioni di dollari pagati in anticipo per due milioni di test cinesi rivelatosi inutilizzabili. Poi si è impegnato a raggiungere l' obiettivo di 100mila test quotidiani entro fine aprile. Ma a oggi sono solo 14mila al giorno.

I media - Con alcune eccezioni (Channel 4, The Guardian, Sky) i media di massa, inclusa la Bbc, hanno ignorato o sottovalutato le lezioni italiana e spagnola e sono stati deferenti nei confronti del governo. Il risultato è stato una copertura giornalistica in ritardo. Solo dalla scorsa settimana quotidiani prestigiosi come il Financial Times e il Sunday Times hanno pubblicato inchieste ed editoriali di condanna all' operato del governo.

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 22 aprile 2020. I morti per il coronavirus in Gran Bretagna potrebbero essere già più di 40 mila, oltre il doppio della cifra ufficiale comunicata dal governo. È la conclusione cui è giunto il Financial Times, che ha condotto uno studio basato sui dati pubblicati martedì 21 aprile dall’Ufficio Nazionale di Statistica, secondo il quale il numero fornito dalle autorità – di 17.337 decessi – deve essere incrementato del 40 per cento, perché bisogna tener conto delle persone morte in casa o nelle residenze per anziani, che non vengono incluse nei bollettini governativi. Dunque secondo l’Ufficio di Statistica saremmo già a circa 24 mila decessi, un dato “italiano”: ma il Financial Times sostiene che anche questa stima è in realtà troppo prudente, perché se si esamina il dato complessivo delle «morti in eccesso» rispetto alla media stagionale si può ipotizzare che la cifra reale di vittime del coronavirus sia invece di 41 mila. I dati mostrano che nella settimana del 10 aprile erano state registrate in Inghilterra e Galles oltre 18 mila morti in totale, con un aumento del 75 per cento sulla media degli ultimi 5 anni (e un trend simile appare anche in Scozia e Irlanda del Nord). Il Ft ha estrapolato questi dati confrontandoli con i decessi in ospedale e, assumendo una correlazione stabile, è arrivato alla conclusione agghiacciante - ma definita ancora «prudente» - di 41 mila vittime da Covid. Va comunque precisato che si tratta di proiezioni statistiche, non di dati reali certificati. L’unica consolazione è che il picco sembra essere stato raggiunto già l’8 aprile e da allora i numeri indicano una lenta discesa. Non ancora abbastanza, tuttavia, per indurre il governo di Londra ad allentare il lockdown: la Gran Bretagna è stato l’ultimo Paese a imporre le chiusure e ora potrebbe essere l’ultimo a uscirne. Il governo di Boris Johnson intanto punta tutte le sue energie – e la sua strategia comunicativa – sulla ricerca di un vaccino. Domani, giovedì 23 aprile, cominceranno i primi test sull’uomo, all’Università di Oxford, e il governo ha annunciato un finanziamento di 20 milioni di sterline per questa ricerca, più altri 22,5 milioni per una ricerca parallela condotta all’Imperial College. Anche qui però la Gran Bretagna è in ritardo, perché negli Stati Uniti e in Cina i test sull’uomo sono partiti già 4 settimane fa. Il rischio per il governo è di non riuscire a tener fede alle sue promesse, dopo che già ha fallito l’obiettivo sbandierato di 100 mila tamponi al giorno: e già si parla del ministro della Sanità, Matt Hancock, come del capro espiatorio da sacrificare all’opinione pubblica.

Il dramma di Londra: tra il 4 e 10 aprile una persona su due è morta di Coronavirus. Carmine Di Niro de Il Riformista il 22 Aprile 2020. A Londra, nella settimana tra il 4 e il 10 aprile, una persona è deceduta infetta dal Coronavirus, mentre resto dell’Inghilterra e del Galles la statistica è di una su tre. Sono i dati allarmanti diffusi dall’Ons, l’Office for National Statistics, l’Istituto nazionale di statistica britannico. Dati drammatici che fanno il paio con quelli diffusi dalla Johns Hopkins University americana, che accerta 130.184 casi e 17.337 morti in Gran Bretagna.

I NUMERI DELL’ONS – Ma andando ad esaminare i numeri diffusi dall’Istat britannico, la situazione sembra farsi ancora più preoccupante rispetto ai già allarmanti dati riportati dall’Nhs, la sanità pubblica nazionale. L’Ons infatti da alcune settimane sta affiancando l’Nhs sui dati del Coronavirus, calcolando su base settimanale quante persone in totale, e non solo in cliniche e strutture ospedaliere. Così escono fuori numeri drammatici. Tra il 4 e il 10 aprile in Inghilterra sono così morte 18.517 persone totali, ovvero per qualsiasi causa: un numero che supera di 2.129 unità quello della settimana precedente, 8mila in più rispetto alla media degli ultimi cinque anni dello stesso periodo. Sempre nella stessa settimana di riferimento, dal 4 al 10 aprile, nella sola Londra la percentuale di decessi dovuti al Covid è arrivato al 53%, mentre in Inghilterra e Galles la percentuale scende al 33% (ma la settimana precedente erano stati il 21% del totale).

I DATI CHE NON TORNANO – Come in Italia, dove la stessa Protezione civile ha dovuto ammettere che i numeri ufficiali sono al ribasso rispetto alla reale dimensione del problema Coronavirus, anche in Inghilterra la situazione non cambia. Se tra il 28 dicembre e il 10 aprile per il governo sono 9,288 i morti ricoverati e contagiati da Covid, per l’istituto nazionale di statistica il numero sale a 13.121, conteggiando però anche quelli deceduti in casa e strutture Rsa. Se questa tendenza sarà confermata, il numero ufficiale di 17.337 decessi dovrà essere rivisto al rialzo.

DAGONEWS il 20 aprile 2020. In Gran Bretagna le aree con minoranze etniche costituiscono più di tre quarti dei focalai di coronavirus. Ma se questo fa emergere come le minoranze sono le più colpite c'è il dato sui musulmani che fa riflettere. Secondo uno del professor Richard Webber, dell'Università di Newcastle, in città come Blackburn, Bradford, Luton, Rochdale e Rotherham, il contagio è stato contenuto e sono aree dove abitano per la maggior parte comunità musulmane. Un dato che suggerisce come alcune abitudini, come lavarsi le mani regolarmente prima della preghiera o l’età media inferiore o il fatto che una donna musulmana su tre non lavori, rende la comunità meno esposta al COVID-19. Un esempio è Tower Hamlets, nel centro di Londra, che ha più di un terzo di residenti musulmani: nonostante sia circondato da zone in cui il coronavirus è esploso con violenza, a Tower Hamlets si sono registrati 548 casi di COVID-19, rispetto agli 859 della vicina Newham e i 1.075 di Southwark. Entrambi i distretti hanno un'alta percentuale di minoranze etniche, ma ci sono meno musulmani rispetto ai Tower Hamlets. Le statistiche mostrano che solo quattro delle aree con una percentuale maggiore di  musulmani compaiono anche nell'elenco delle zone colpite da COVID-19. Queste sono Newham, Birmingham, Brent ed Ealing. Un dato riscontrabile anche in vari quartieri di Londra e Manchester, Luton, Bradford, Slough e Leicester. Phillips ha aggiunto: «Da questa rilevazione emerge un dato. Se una delle strategie per fermare la trasmissione del virus è il lavaggio delle mani, una comunità i cui membri lo fa cinque volte al giorno prima della preghiera ha qualcosa da insegnarci. Inoltre tra i musulmani il 40% è inattivo - e quindi non utilizza regolarmente i trasporti pubblici, per esempio – e questo ci dice quanto sia importante il distanziamento sociale».  Nonostante, dunque, le minoranze etniche siano le più colpite dal coronavirus, lo stile di vita dei musulmani può “proteggerli” dall’infezione.

Da corrieredellosport.it il 28 marzo 2020.  Jürgen Klopp si conferma un uomo di grande sensibilità e, nel corso di un’intervista al sito ufficiale del Liverpool, ha rivelato di essersi commosso davanti al video di alcuni medici che, in un ospedale britannico, si sono messi a cantare ‘You’ll never walk alone’ , l’inno dei Reds, per incoraggiare i colleghi impegnati in terapia intensiva: “Sono passate due settimane, ma sembra che siano passati anni da quando abbiamo giocato contro l'Atletico Madrid. Ricordo che sapevamo tutti della situazione del Coronavirus in tutto il mondo, ma eravamo ancora ‘nel nostro tunnel’ – le parole di Klopp - l'unico modo per tornare a parlare di calcio il prima possibile, se questo è ciò che la gente vuole, è essere disciplinati. Più lo saremo e prima, pezzo dopo pezzo, riavremo la nostra vita indietro”. “Ho ricevuto un video di persone in un ospedale, appena fuori dalla terapia intensiva, che cantavano “You'll never walk alone” – racconta Klopp - ho cominciato subito a piangere. Ritengo grandioso tutto ciò che stanno facendo, incredibile. Queste persone non solo lavorano ma hanno un grande spirito. Non potrei ammirarle di più di così. Sono abituate ad aiutare gli altri e per farlo si mettono in pericolo aiutando chi sta male”. Klopp lancia un messaggio fiducioso: "Ci sarà un momento nel futuro in cui guarderemo indietro e speriamo di poter pensare a questo momento storico come il passato. Tra 10, 20, 30, 40 anni ci guarderemo indietro e penseremo che questo è stato il periodo in cui il mondo ha mostrato le più grandi forme di solidarietà, amore e amicizia".

Infarto al funerale della madre deceduta per Coronavirus: morta a 32 anni. Antonino Paviglianiti il 10/04/2020 su La Notizia.it. Al funerale della madre, deceduta per Coronavirus, il cuore della giovane Laura Richards di 32 anni ha ceduto: morta per infarto. Un infarto al funerale della madre deceduta per Coronavirus: dramma nel dramma per una famiglia di Atherstone nel Warwickshire, in Regno Unito. Laura Richards, 32 anni, è crollata mentre sua madre Julie Murphy, 63 anni, deceduta per Coronavirus, veniva tumulata al cimitero della località britannica. Non c’è stato nulla da fare per la giovane Laura: i presenti si sono precipitati a soccorrerla e hanno chiamato i soccorsi sanitari che ne hanno potuto solamente constatare il decesso. Una notizia terribile che ha gettato nello sconforto l’intera comunità di Atherstone: Laura Richards e la mamma, infatti, erano ben volute da tutti i vicini che ne parlano con toni meravigliosi. La sorella di Laura Richards ha ripercorso quei momenti drammatici. E al Sun, Lisa Green, ha raccontato: “All’inizio pensavamo fosse un attacco di ansia e stress, ma poi abbiamo dovuto chiamare il 999: è stato semplicemente orribile”.

La povera Lisa ha proseguito con il suo racconto: “Stavano sotterrando mia madre nel terreno e Laura improvvisamente ha detto: ‘Non riesco a respirare, non riesco a respirare’. Sadie, sorellastra di Laura Richards, ha spiegato: “Non c’è stato nulla da fare, ha avuto un grave attacco di cuore. Perdere tua sorella al funerale di tua madre è come un film horror. Aveva solo 32 anni”. La madre di Laura Richards, Julie Murphy, è morta in ospedale il 15 marzo dopo aver contratto il Coronavirus nella casa di cura di Oldbury Grange, Nuneaton, Warks. La donna, di 63 anni, era affetta da problemi di demenza senile. Laura Richards, qualche giorno prima del funerale, aveva dedicato alla madre appena scomparsa un messaggio toccante: “Ti amo mamma”, a corredo di una foto insieme. La giovane di 32 anni è stata sepolta accanto a sua madre giovedì 9 aprile. Solo cinque persone hanno potuto partecipare al rito funebre a causa delle misure di restrizione, valide anche in Regno Unito.

Coronavirus, morto il medico che chiese a Johnson più sicurezza. Lavinia Nocelli il 10/04/2020 su La Notizia.it. Morto il medico che aveva chiesto al premier Boris Johnson di garantire "urgentemente" dispositivi di protezione per "ogni operatore" sanitario. E’ morto Abdul Mabud Chowdhury, il medico che aveva chiesto al premier Boris Johnson di garantire “urgentemente” dispositivi di protezione per “ogni singolo operatore” sanitario. L’uomo aveva 53 anni. Aveva avvertito Boris Johnson tre settimane fa il medico 53enne morto dopo essersi ammalato di Covid-19, a seguito della richiesta effettuata al premier britannico dell’urgenza di fornire agli operatori sanitari più dispositivi di protezione nella lotta al coronavirus. Abdul Mabud Chowdhury, però, è caduto dopo aver combattuto per 15 giorni la malattia. A riportare la notizia è stata l’emittente Sky News, riferendo come Abdul, padre di due figli, non è riuscito a vincere la battaglia, dopo averla data lanciando il messaggio a Johnson: garantire “urgentemente dispositivi di protezione per ogni singolo operatore del servizio sanitario nazionale (Nhs) nel Regno Unito”. Abdul, lavoratore dell’Nhs, scriveva: “siamo in contatto con i pazienti, ma come esseri umani abbiamo il diritto come gli altri di vivere in questo mondo con le nostre famiglie e bambini”. Abdul era urologo all’ospedale Homerton di Londra, ed è l’ennesimo medico che si aggiunge agli altri – insieme agli infermieri – deceduti per combattere l’emergenza sanitaria in Gran Bretagna. In prima linea, si è spento nella serata di giovedì 9 aprile al Queen’s Hospital di Romford. Il figlio 18enne, Intisar Chowdhury, ha dichiarato: “Mio padre non avrebbe avuto paura di sottolineare cosa non andava. Dato che si preoccupava delle persone, si prendeva cura dei suoi colleghi, dei suoi colleghi, della sua famiglia, gli importava persone che non ha mai nemmeno incontrato. Si preoccupava per tutti e l’amore e la compassione che provava per tutti si estendono in ogni aspetto della sua vita. È un eroe“.

"Io, italiano in Inghilterra. Mi davano della Cassandra e ora è corsa alla carta igienica". I pub e i locali della movida rimasti aperti, le uscite di BoJo. E poi il ritorno alla ragione e il boom di contagi. Un lettore ci racconta l'emergenza coronavirus vista da Nottingham. Leonardo Porcelloni il 3 aprile 2020 su L'Espresso. Ciao Italia, Pare quasi di avere la sfera di cristallo che permette di aprire squarci sul futuro. Quello che succede oggi in Inghilterra, è esattamente quello che è successo due settimane fa in Italia. A febbraio ero rientrato in Italia, solo per pochi giorni: ancora l’umorismo prevaleva sulla paura e si puntava il dito sugli altri, i cinesi. In aeroporto ho comprato del gel disinfettante, quasi per scaramanzia (dovevo comprarne due: adesso lo sto centellinando). La situazione in Italia è poi precipitata, e anche le sardine sono sparite dalle piazze. Tornato in Inghilterra, ho incominciato a seguire passo dopo passo, con grande apprensione, la crisi che imperversava in Italia. Il dibattito acceso, il Governo impreparato. Spritz o isolamento? Il numero dei contagi e le vittime che aumentavano. Dal 9 marzo #iostoacasa; concerti dai balconi; infermieri al fronte. Lì è iniziato il mio spaesamento: avevo gli occhi puntati sull'Italia, ma i piedi Oltremanica, dove il numero dei casi era esiguo per accendere l’interesse della gente e un dibattito politico. Eppure, anche qui in Uk, in pochi giorni, i numeri si stavano moltiplicando e nella popolazione cresceva l'attesa per un’imminente presa di posizione da parte delle autorità, che sembrava non arrivare mai. È arrivata il 12 marzo, finalmente, ed è stata un enorme scivolone di BoJo, con la sua rassegnazione che tanto «il virus tornerà ogni anno» e non ci si può far niente, e «preparatevi a perdere i vostri cari prima del dovuto». Forse noi italiani non siamo abituati a notizie così fredde e dirette, ma così sembrava di voler gettare la spugna ancora prima di provare a reagire. Dunque, a metà marzo il piano Uk era lasciare che il 60% della popolazione venisse contaminata in modo da raggiungere la tanto dibattuta “herd immunity” (immunità di gregge). Il giorno dopo venivano comunicati i dati stimati sul contagio: tra le 5 e 10 mila persone. La sera prima eravamo andati a dormire contandone 450 circa. Mi sono sentito come sotto una pioggia di proiettili, privo di elmetto. Molti dei Paesi europei, allibiti, avevano puntato gli occhi alla Gran Bretagna. Non mi ero mai sentito così tanto al centro dell’attenzione. Chissà la Regina! Anche se forse col tempo ci si è abituata. A proposito, fino ad oggi, 25 marzo, non si era più sentito parlare della famiglia reale, ma adesso il virus è entrato di prepotenza anche lì colpendo il Principe del Galles, Charles. Ma torniamo a metà marzo, quando per me cominciavano le telefonate dall’Italia: «Cosa fai all’Università? Vai a casa! Anzi, torna a Casa!». E io in effetti stavo tra i corridoi del dipartimento e mi guardavo intorno tra frotte di studenti che entravano ed uscivano da classi, palestre, caffè, autobus. Con calma, ho incominciato a sistemare le mie cose e a prendere le distanze. Qualche commento tra colleghi: «Ben presto incominceremo a caricare libri e computer negli zaini». Alcuni uffici iniziavano a svuotarsi e la gente cominciava a lavorare da casa. Ma solo una ridotta minoranza. Son settimane che mi guardo attorno allibito: vorrei scuotere le persone e far loro capire che se veramente siamo vicini ai numeri italiani allora la tempesta è già cominciata, ma nessuno se ne è accorto. Ad ogni modo, con gli albionici è consigliabile stare a distanza ed evitare il contatto fisico, ora più che mai! Ci ho provato a sfruttare la mia testimonianza di italiano e sensibilizzare chi mi stava vicino: ma nulla, ho l’aria di Cassandra, che nessuno vuole stare a sentire. Qui si segue la linea deterministica adottata dai Tory. In più «we’re young mate, don’t worry!». Già visto e già sentito, purtroppo. Però la storia del gregge non aveva funzionato del tutto. È il riscatto dell’individualismo che la paura risveglia. Infatti c’era stata una parte di anglosassoni che già da qualche giorno si era autoisolata e aveva ritirato i figli dalle scuole ancora gremite. I genitori che tenevano a casa i propri figli da scuola nel periodo della pandemia avevano raccolto petizioni per 22mila firme per chiedere un nulla osta, altre 400 mila firme erano state raccolte per chiedere l’implementazione del lockdown per prevenirne la diffusione. Di fronte all’immobilità del Governo si era mobilitato il Consolato Italiano con una Task Force COVID-19 per assistere i propri connazionali con informazioni utili, perché qua c’era gran confusione. Il quelle ore si continuava a leggere sui giornali testimonianze di persone che contattavano l’NHS (Sistema Sanitario Nazionale) con sintomi riconducibili al Coronavirus e venivano invitati a recarsi presso la struttura ospedaliera con mezzi propri o pubblici e poi lasciati ad aspettare nelle sale di attesa in mezzo agli altri pazienti, alla gente che corre da una parte all’altra, ai senza tetto che usano i bagni dell’ospedale. Nel frattempo i club della movida notturna comunicavano che la festa poteva continuare, i pub restavano aperti: l’importante è lavarsi le mani. In fondo non li si può nemmeno biasimare, perché è il Primo Ministro stesso ad aver annunciato di non chiudere i locali. Però alcuni incominciavano a essere vuoti, le casse languivano e tanti perdevano il posto di lavoro. Per molti immigrati il sogno di trovare lavoro negli UK si interrompeva, senza possibilità di posticiparlo perché dal 2021 c’è la Brexit. In tutto ciò, nei supermercati la carta igienica e la pasta sono scomparsi da giorni! D’accordo gli alimentari, ma la carta igienica? Il professor Kappes spiega che per molti inglesi questa è simbolo di sicurezza, forse perché legata a un concetto di igiene, e quindi aiuta a superare momenti di forte stress. Speriamo che gli basti allora. Il 20 marzo la notizia che nessun anglofono avrebbe mai voluto sentire: i pub devono chiudere per combattere il virus. Capite che sono come le chiese in Italia, ma più affollati! Finalmente attorno al 21 marzo arrivano notizie chiare dal NHS: se si presentano i sintomi si rimane a casa, se la vita è in pericolo si chiama il numero di emergenza 999, si finisce in ospedale dove si fa il test. Ma una larga parte della popolazione continuava la propria vita nell’indifferenza. Ho chiesto alla mia anziana vicina di casa se le servisse una mano per la prossima spesa, così da evitarle di uscire. Ha sorriso e risposto: «No no, thank you». Nel frattempo si cominciava a vociferare di un imminente lockdown, (del resto, con i pub chiusi, uscire non ha più senso). Se in Italia abbiamo vissuto la storica controtendenza, che ha spostato i giovani da nord a sud, qui gli immigrati si sono riversati verso gli aeroporti. Frotte di italiani che scappavano verso l’Italia, i facoltosi rientravano con voli privati da 20mila pound a testa - 15 posti - , dalle residenze studentesche si vedevano giovani asiatici carichi di valigie che cercavano un taxi. Nella sera del 23 marzo viene annunciato l’ormai tanto atteso, e quasi desiderato, lockdown britannico. Per chi si fosse perso il comunicato, viene mandato a ripetizione sui canali della BBC e chiaramente su ogni testata dei giornali, poi sul cellulare arriva l’avviso dal NHS. È una procedura conosciuta e testata, pare che in Cina abbia funzionato. Nessuno dunque sembra opporsi, sembra tutto procedere all’unisono, ma non nei fatti perché da Londra continuano ad arrivare immagini di metro e strade sempre troppo affollate. È il momento dell’hashtag #stayathome, delle fotografie di città vuote, degli infermieri dal fronte. Qualcuno ha provato ad intonare Bohemian Rhapsody dal balcone, ma è stato malamente rimproverato. I post condivisi per smuovere la sensibilità delle persone non sono più sugli italiani, ma sugli stessi britannici. Gli addii ai propri cari si fanno in video e a Londra a 36 anni non si è più una priorità e si muore nel proprio appartamento. La BBC commenta i dati italiani e li compara con i propri su diagrammi cartesiani, sulla linea del tempo è quel paio di settimane che ci separa. È uno sguardo all’immediato futuro, purtroppo ormai quasi certo. C’è forse rammarico: ciò che accadrà fra una o due settimane è il risultato di ciò che è stato fatto fino a questo esatto momento. Un po’ come per i cambiamenti climatici, anche se lì la questione riguarda gli anni, ma il sentimento è lo stesso: «Se fossimo intervenuti prima di vedere gli effetti». Durante il primo giorno di lockdown osservo dalla finestra una coppia giocare a tennis nel circolo privato. Già, oggi anche io lavoro da casa.

Ora Boris Johnson scrive agli inglesi: «Restate a casa». Il Dubbio il 29 marzo 2020. Dopo una prima sottovalutazione, ora il premier Boris Johnson scrive una lettera destinata a 30 milioni di indirizzi. Dopo aver sottovalutato a lungo la pericolosità del Covi-19, ora il primo ministro britannico Boris Johnson, finito nell’elenco dei contagiati, prende carta e penna e scrive una destinata a 30 milioni di indirizzi. Restate a casa, è la raccomandazione del premier ai suoi concittadini. «Per me è importante essere chiaro con voi: sappiamo che le cose peggioreranno, prima di migliorare», scrive Johnson. «Stiamo facendo i giusti preparativi e, più tutti seguiamo le regole, meno vite andranno perse e prima la vita potrà tornare alla normalità. In questo momento di emergenza nazionale, vi invito, per favore, a restare in casa, a proteggere l’Nhs (il servizio sanitario nazionale britannico, ndr) e a salvare vite». Le regole che impongono di restare in casa e sul distanziamento sociale devono essere rispettate, avverte Johnson. «Se le persone non le rispettano, la polizia le multerà e scioglierà gli assembramenti». Il numero dei morti in Gran Bretagna è salito sopra quota mille, con oltre 17mila contagi stimati. Le misure di distanziamento sociale sono state introdotte solo in questa ultima settimana: venerdì scorso Johnson e il ministro della Salute Matt Hancock hanno annunciato di essere positivi. Anche il principe Carlo, l’erede al trono, ha contratto la malattia. Il primo ministro, che ha 55 anni, ha detto di avere sintomi lievi, con febbre e tosse persistente. Si è messo in isolamento e lavora da casa.

Coronavirus Londra, morto uno studente di 13 anni: “Era sanissimo”. Laura Pellegrini l'01/04/2020 su Notizie.it. Uno studente di 13 anni di Brixton, nei pressi di Londra, è morto a causa del coronavirus: si tratta della vittima più giovane del Regno Unito. Tragedia a Londra, dove uno studente di 13 anni è morto a causa del coronavirus dopo aver accusato i primi sintomi pochi giorni prima. Aveva qualche difficoltà respiratorio ma era sempre stato sanissimo e non aveva alcuna patologie pregressa. Il ragazzino è stato ricoverato al Kings College Hospital di Londra, dove è tragicamente morto. Si tratta della vittima più giovane registrata nel Regno Unito, mentre in Europa il più giovane è una ragazzina di 12 anni del Belgio. Non ha ricevuto nemmeno la vicinanza della famiglie, che risiede a Brixton, il giovane studente di 13 anni morto a Londra per il coronavirus. Il ragazzino, Ismail Mohamed Abdulwahab, è scomparso lunedì 30 marzo dopo essere stato ricoverato in coma indotto. Aveva iniziato ad accusare die problemi respiratori che poi si sono aggravati. Prima di tutto questo, però, era sanissimo, molto conosciuto e apprezzato da tanti. “È con grande tristezza che annunciamo che il fratello minore di uno dei nostri insegnanti del Madinah College – si legge in una comunicazione – è tristemente scomparso questa mattina (lunedì 30 marzo 2020 ndr.) a causa dell’infezione da Covid-19. Ismail aveva solo 13 anni senza condizioni di salute preesistenti e purtroppo è morto senza familiari nelle vicinanze a causa della natura altamente contagiosa della malattia”. Poco tempo dopo è arrivata la notizia della morte di un altro giovane, Luca Di Nicola, un cuoco di 19 anni di origine teramana. Sarebbe morto dopo aver accusato tosse e una grave polmonite.

Il caso Luca di Nicola, il 19enne morto a Londra. Il papà: "È risultato positivo al coronavirus". Aveva 19 anni, era originario di Nereto, in provincia di Teramo, viveva a Enfield Town, periferia nord di Londra e faceva l'aiuto-cuoco. È morto nella capitale britannica il 24 marzo, apparentemente per una polmonite fulminante. La famiglia conferma a Repubblica la positività del ragazzo. Antonello Guerrera il 31 marzo 2020 su La Repubblica. “Il mio Luca è risultato positivo al coronavirus”. A farlo sapere è Mirko, il papà di Luca Di Nicola, il 19enne aiuto-cuoco originario di Nereto morto a Londra la sera di martedì scorso per una polmonite fulminante. La famiglia del ragazzo ha ricevuto nelle ultime ore una mail dalle autorità mediche britanniche in cui si dice che, dopo un tampone post-mortem, Luca è risultato positivo al Covid-19, in un contesto medico già problematico dovuto "all’influenza e a un’infezione ai polmoni". Il medico legale ancora non ha confermato, ufficialmente. Ma altri componenti della famiglia Di Nicola confermano a Repubblica di aver ricevuto la comunicazione ieri sera: prima una email dall’ospedale North Middlesex Hospital di Londra e poi una telefonata dal medico legale. Luca sarebbe quindi morto a 19 anni dopo aver contratto il coronavirus senza avere patologie pregresse. “Era sanissimo”, ci aveva detto sua zia Giada. Il ragazzo, che si era trasferito a Enfield, periferia nord di Londra, da qualche anno con la madre Clarissa e il compagno di quest’ultima, Vincenzo, è stato male per una settimana prima di morire. Il medico di base, secondo il racconto dei suoi familiari a Repubblica, gli aveva detto "che era giovane, forte e che non si doveva preoccupare di quella brutta influenza”, somministrandogli del paracetamolo. Martedì sera poi la situazione è precipitata: "Luca aveva dolori al petto. Poi la madre ha notato che aveva le labbra viola e poco dopo è collassato", ci aveva spiegato Giada. "Hanno chiamato l'ambulanza, lo hanno rianimato ma i polmoni erano collassati, pieni di acqua e sangue. L'hanno intubato e subito ricoverato in terapia intensiva al North Middlesex Hospital di Londra. Ma dopo mezz'ora, intorno alle 7 di sera, Luca è morto. Senza aver fatto neanche una lastra prima”. Il tampone post-mortem sarebbe stato effettuato sul corpo di Luca con qualche giorno di ritardo, il che aveva irritato la famiglia, già distrutta a causa della tragedia. Anche la mamma e il suo compagno continuano ad avere gli stessi sintomi del 19enne. A loro, dopo la morte del ragazzo, i medici hanno detto "di autoisolarsi per due settimane”, somministrando anche stavolta paracetamolo. Clarissa e Vincenzo per ora stanno bene e le loro condizioni sembrano stazionarie.

Antonello Guerrera per repubblica.it il 29 marzo 2020. C'è un italiano, giovanissimo, morto a Londra per sospetto coronavirus. E il suo caso è sempre più misterioso. Luca Di Nicola aveva 19 anni ed era originario di Nereto, in provincia di Teramo. Da qualche anno viveva a Enfield Town, periferia nord di Londra, insieme alla madre Clarissa e al compagno di quest'ultima, Vincenzo. Faceva l'aiuto-cuoco. Luca è morto nella capitale britannica la sera di martedì 24 marzo, apparentemente per una polmonite fulminante. Ma la famiglia del ragazzo, distrutta dal dolore anche perché "era sanissimo", sospetta che nel decesso di Luca c'entri il Covid-19. Racconta al telefono Giada, giovane zia di Luca residente in Abruzzo: "Per una settimana prima di morire Luca ha avuto febbre e tosse e l'avevano avute anche mia cognata Clarissa e il suo compagno Vincenzo che vivevano nella stessa casa. Pareva influenza: il medico di base a Londra ha somministrato a mio nipote del paracetamolo. Ma Luca si è aggravato il 23 marzo. Il medico lo ha visitato a casa e gli ha detto che era giovane, forte e che non si doveva preoccupare di quella brutta influenza". Il giorno dopo la situazione è precipitata: "Luca aveva dolori al petto. Poi la madre ha notato che aveva le labbra viola e poco dopo è collassato", spiega Giada. "Hanno chiamato l'ambulanza, lo hanno rianimato ma i polmoni erano collassati, pieni di acqua e sangue. L'hanno intubato e subito ricoverato in terapia intensiva al North Middlesex Hospital di Londra. Ma dopo mezz'ora, intorno alle 7 di sera, Luca è morto. Senza aver fatto neanche una lastra prima". Che Luca sia morto per coronavirus potrebbe ora rimanere solo un sospetto. "Le autorità inglesi ci avevano detto di aver fatto un tampone post mortem - racconta Romina, altra zia di Luca, che vive a Glasgow - Ora invece il medico legale, dopo due giorni di silenzio, ci dice che gli esami saranno forse condotti il 31 marzo. Forse ". Romina è affranta: "Non sappiamo nulla, neanche dove sposteranno la sua salma, dopo che nessuno ha più visto Luca da quella maledetta sera. Adesso siamo anche preoccupati per la mamma e il suo compagno perché continuano ad avere gli stessi sintomi di Luca". Ai quali, dopo la morte del ragazzo, i medici hanno detto "di autoisolarsi per due settimane". Neanche a Clarissa e Vincenzo è stato effettuato un tampone: "Solo paracetamolo". Il caso di Luca, seguito dal Consolato e dalle autorità italiane, esplica come viene gestita l'emergenza nel Regno Unito: se si hanno sintomi (come tosse o febbre) governo e ministero della Salute raccomandano solo l'autoisolamento per una settimana. Al numero speciale "111" - che Luca e la sua famiglia non avrebbero chiamato - si deve far ricorso solo per i casi gravi da coronavirus. Un approccio che ha spaventato molti italiani che vivono nel Regno Unito.

Paola De Carolis per "corriere.it" il 2 novembre 2020. Ha preso il Covid ma ha preferito non farlo sapere «perché il paese aveva già tante preoccupazioni». Anche il principe William, primogenito di Carlo e Diana e secondo in linea di successione al trono, ha avuto il virus in primavera, nel periodo in cui si sono ammalati il padre Carlo e il primo ministro Boris Johnson. Stando al Sun, il principe si è ripreso in fretta ma non è stato bene e ha accusato stanchezza e spossatezza per diverse settimane. Le sue condizioni hanno destato preoccupazione: c’è stato un momento in cui faticava a respirare, nonostante l’età – 38 anni - e le buone condizioni di salute generale. Kensington Palace ha confermato la notizia sottolineando però che non ci saranno ulteriori commenti. William secondo la stampa britannica si è isolato a Anmer Hall, la tenuta del Norforlk dove vive con la moglie Kate e i tre figli, George, sette anni, Charlotte, cinque, e Louis, due. Appena si è sentito meglio ha ripreso a lavorare, partecipando, nel mese di aprile, a 14 eventi virtuali. Il momento peggiore della malattia sarebbe stato nella settimana attorno al 7 aprile, quando nel diario del principe non figura alcun impegno. All’epoca, il Covid faceva mille vittime al giorno. «Stavano succedendo tante cose serie e non volevo fare preoccupare nessuno», avrebbe sottolineato William a un suddito che lo ha incontrato recentemente durante una visita ufficiale. La moglie Kate, invece, è risultata negativa al tampone e non si è ammalata.

Covid, William infettato ad aprile: lo tenne nascosto. Lo svelano i media. Contagio poco dopo quello del principe Carlo. La Repubblica lunedì 2 novembre 2020. Il principe William fu contagiato in aprile dal coronavirus, ma la cosa venne tenuta segreta. Lo rivela una fonte di Kensington Palace citata sia dalla Bbc sia dal Sun, mentre il palazzo si rifiuta al momento di commentare. Il contagio avvenne più o meno nella stessa epoca di quello di suo padre Carlo, che invece lo rese noto pubblicamente. A decidere per la riservatezza nel caso di William - afferma la fonte - fu lo stesso duca di Cambridge, 38 anni, sostenendo di non voler  "allarmare la nazione" ulteriormente. Il primogenito di Carlo e Diana non avrebbe peraltro manifestato sintomi significativi, limitandosi a restare isolato in quei giorni nella residenza di Anmer Hall, nel Norfolk, secondo le linee guida standard previste dal governo e sotto il controllo dei medici di corte. Il silenzio ufficiale del palazzo reale riflette un certo imbarazzo per la rivelazione a scoppio ritardato: un fatto in grado di sollevare interrogativi sulla trasparenza di casa Windsor e in particolare proprio del principe William, il quale finora ha goduto di buona stampa in genere sui media del Regno Unito e ha sempre cercato - con la moglie Kate e i tre figli George, Charlotte e Louis - di far circolare un'immagine di affidabilità, di equilibrio da futuro re e di relativa apertura e modernità. Anche rispetto al fratello minore 'ribelle' Harry e alla di lui consorte Meghan Markle. "Non c'erano sintomi importanti e per questo non ho voluto preoccupare nessuno", si è giustificato il duca 38enne stando alla gola profonda sentita dal Sun. Nei giorni dell'asserito contagio da coronavirus, l'ufficio stampa dei Cambridge fece trapelare del resto segnali di normalità da Anmer Hall, riferendo di 14 telefonate e video collegamenti fatti da William e Kate nella loro agenda di impegni pubblici e di rappresentanza a distanza. A inizio aprile la coppia - per incoraggiare i sudditi di fronte all'esplodere della pandemia e offrire un'istantanea da "business as usual" - si collegarono fra l'altro in video, sotto l'occhio mediatico, con gli insegnanti e i bambini di una scuola elementare di Burnley, in Inghilterra, rimasta parzialmente aperta anche in quelle settimane per i figli di medici, infermieri e lavoratori dei servizi essenziali del Regno.

L'ipotesi shock: "Il principe William ha nascosto la sua positività per paura che Harry potesse diventare re". Secondo alcune esperte di corte, il principe William avrebbe volutamente nascosto le sue condizioni di salute per evitare che il fratello potesse salire sul trono inglese. Carlo Lanna, Domenica 08/11/2020 su Il Giornale. Il Covid-19 ha fatto molta paura anche alla famiglia reale inglese. Nella sua prima fase, infatti, come hanno riportato le notizie da Londra, sia il principe Carlo che il principe William sono stati colpiti dal virus. Entrambi sono riusciti a sconfiggere l’infezione, ma il primogenito e futuro re, pare che abbia avuto dovuto difendersi da una forma piuttosto acuta del virus, dato che avrebbe avuto alcuni problemi respiratori. Il peggio però è passato e in famiglia tutti possono tirare un sospiro di sollievo. La notizia di quanto è accaduto al principe William è trapelata di recente, solo per non far preoccupare la popolazione già terribilmente colpita da un virus letale e insidioso. Ci sarebbe però un retroscena choc sulla scelta di tenere nascosta la verità su William. Roberta Fiorito e Rachel Bowie, due esperte e studiose della famiglia reale, ne hanno parlano al podcast Royally Obsessed. E nell’intervista rivelano che il principe avrebbe tenuto segreto il suo stato di salute per paura che "Harry potesse diventare re". Ma andiamo con ordine. Considerato lo scenario che i reali inglesi hanno dovuto affrontare, l’ipotesi delle due esperte non era poi così tanto fantasiosa. Se la Regina Elisabetta avesse già abdicato a favore del figlio e con la malattia sviluppata da Carlo, sarebbe stato il Principe William a salire sul trono. Ma dato che il primogenito è stato anche lui colpito dal virus, la reggenza sarebbe passata a George. In quanto minorenne però, e secondo quanto è scritto nel Recency Act, il principe Harry avrebbe dovuto guidare il Paese durante la fase acuta della pandemia. Uno scenario molto complesso perché, al momento, Harry non è un membro attivo dalla famiglia e di conseguenza non sarebbe stato poi così semplice gestire la situazione. Le due esperte, quindi, rivelano che la scelta di nascondere le condizioni del Principe William è stata voluta da tutta la famiglia, proprio per evitare che si abbattesse sulla royal un tornado di proporzioni bibliche. Questo fa capire come, dopo la Megxit, tutta la royal family non abbia alcuna intenzione di ricucire lo strappo con Harry e Meghan che ora vivono sereni a Los Angeles. Durante l’intervista, inoltre, le esperte parlano anche di un’altra ipotesi. Come è accaduto per il ministro Johnson, pare che la segretezza delle condizioni del Principe siano legate a un fattore ben preciso: anche la famiglia reale voleva minimizzare sulla "frenesia" del contagio. Purtroppo, la verità sta nel mezzo. E fino a quando la casa reale non rilascia dichiarazioni ufficiali i rumor e le indiscrezioni restano tali.

Elisabetta II arriva al castello di Windsor, al riparo dall’epidemia. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Enrica Roddolo. La regina, classe 1926, si prepara al suo compleanno - il prossimo 21 aprile - più triste degli ultimi decenni. Si ritirerà a Windsor, il castello fuori Londra, è considerato più sicuro in vista dell’emergenza Covid 19 che sta arrivando anche Oltremanica. Arrivata già oggi fuori Londra, ben prima di Pasqua quando è già una tradizione la riunione a Windsor della Firm, vi resterà poi ben oltre le festività. Di più, rinuncerà agli amati Royal garden parties estivi. Una tradizione che scandisce da secoli l’anno a Buckingham palace: in genere sono cinque ogni anno, quattro tenuti nei giardini del palazzo reale a Londra e uno nel giardino del palazzo reale in Scozia. Buckingham palace ha annunciato che molti degli appuntamenti pubblici che coinvolgono normalmente molte persone saranno necessariamente annullati o cancellati nei prossimi mesi. «In consultation with the Medical Household and government, a number of public events with large numbers of people due to have been attended by the queen, and other members of the royal family, in the coming months will be canceled or postponed». Insomma, anche la regina, una stakanovista dei Royal engagement dovrà rinunciare alla sua routine di lavoro. E con lei si asterranno dai Royal duties altri membri della famiglia reale mentre la situazione sanitaria a Londra si fa più preoccupante. Rinviata anche una visita di stato a Londra, quella dell’imperatore e imperatrice del Giappone. A data da definirsi.

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 5 aprile 2020. Sarà un evento eccezionale per tempi eccezionali. Questa sera la regina Elisabetta comparirà sugli schermi della tv britannica per un messaggio alla nazione: una cosa successa prima solo per sconvolgimenti quali la guerra del Golfo o la morte di Diana. Ci si aspetta che la sovrana faccia appello all' unità e alla resistenza dei sudditi, oltre che lodare gli sforzi del venerato servizio sanitario. Ma come sta passando questi giorni in isolamento, nel castello di Windsor, una regina abituata per tutta la vita ad avere attorno uno stuolo di servitori, da chi le apre le tende la mattina a chi le rimbocca le coperte la sera? Elisabetta, che questo mese compirà 94 anni, sta affrontando la situazione con spirito indomito: data l'età, sono state prese tutte le cautele del caso, soprattutto dopo che il principe Carlo è risultato positivo al coronavirus. Ma lei non ha abbandonato la sua routine: e al suo umore giova il fatto che si è ritrovata riunita col consorte Filippo, ormai alle soglie dei 99 anni. La coppia - ha riferito il Daily Mail - anche se abita in aree separate del castello, ha ripreso a pranzare assieme dopo settimane. La regina ha dovuto rinunciare a quasi tutto il suo staff dopo che la giovane attendente incaricata di portare a passeggio i suoi cagnolini ha contratto il virus: di conseguenza tutto il resto del personale di Palazzo che era venuto in contatto con la donna è stato messo in quarantena. A prendersi cura di Elisabetta sono ora i due anziani paggi di Filippo, William Henderson e Stephen Niedojadlo, che lui si è portato dietro dalla residenza di Sandringham: anche se adesso la dog sitter si sta riprendendo e parte dello staff, che non è risultato positivo al virus, potrà presto tornare in servizio. La sovrana ha dovuto modificare alcune abitudini: per esempio, non può più andare nelle stalle di Windsor a dare un' occhiata ai suoi amati cavalli. Ma non se ne sta con le mani in mano: riceve e scrive lettere, legge documenti ufficiali, autorizza messaggi e soprattutto è molto attiva al telefono, tramite cui si tiene in contatto con amici e familiari (e conduce alla cornetta anche le udienze settimanali con Boris Johnson). Un passatempo a cui pare invece abbia rinunciato sono i puzzle, una delle sue passioni: li ritiene troppo frivoli per questi tempi difficili. Filippo, dal canto suo, che è andato in pensione tre anni fa, occupa il tempo leggendo biografie di personaggi famosi. Ma la persona che è rimasta sempre al fianco della regina in questa settimane è Angela Kelly, la donna che la veste ogni giorno e che è diventata la sua confidente: una figura rassicurante in questi giorni di isolamento. Le due amano guardare il cielo notturno assieme: e in queste serate chiare passano il tempo ad ammirare le stelle, grazie anche alla quiete dovuta all' assenza di traffico aereo dal vicino aeroporto di Heathrow. Poi si siedono davanti alla tv per il loro programma preferito, il quiz Countdown su Channel 4. La regina ha avuto dei gesti di considerazione verso chi affronta con lei le difficoltà di questi giorni: e ha aperto la piscina reale di Windsor allo staff e alle loro famiglie, che altrimenti rimarrebbero rinserrate in piccoli appartamenti. Così come ha autorizzato l' uso del parco al personale rimasto dentro Buckingham Palace, dove continuano a lavorare i giardinieri e gli addetti alle telecomunicazioni...La pandemia è una prova anche per la monarchia britannica: ma il messaggio alla nazione di oggi sarà la dimostrazione del rinsaldato legame con i sudditi.

Vittorio Sabadin per “la Stampa” l'11 maggio 2020. La regina Elisabetta esce di scena per un lungo periodo, senza fissare una data per il ritorno. A 94 anni, e dopo 68 di regno, è stata costretta dall' epidemia di Covid a cancellare ogni impegno futuro: la sua agenda, per la prima volta, è vuota. Niente più apparizioni pubbliche, ricevimenti, inaugurazioni, cene di stato. Resterà confinata almeno fino all' autunno nel castello di Windsor, dove si trova dal marzo scorso in compagnia di suo marito il principe Filippo (99 anni il prossimo mese), del suo ultimo corgi, Peggy, e di una delle poche amiche che le sono rimaste, la sarta Angela Kelly. In quell' enorme e millenario castello, i passi dei pochi domestici rimasti rimbombano nei saloni vuoti, malinconica colonna sonora del tramonto della più longeva monarchia nella storia britannica. Anche Buckingham Palace, che persino durante la Seconda Guerra Mondiale continuò ad ospitare il re e la regina, verrà chiuso per tutta l' estate. I 50.000 turisti che lo affollano da luglio a ottobre non contribuiranno quest' anno ai lavori di restauro. La Regina non andrà neppure a trascorrere le vacanze al castello scozzese di Balmoral: il suo isolamento sarà totale. Fonti del palazzo, interrogate dal Sunday Times, che ha dato la notizia del volontario ritiro di Elisabetta, hanno spiegato: «La Regina non farà niente che vada contro le raccomandazioni comunicate alle persone della sua età e intende adottare tutte le precauzioni necessarie. Si discute se potrà riprendere l' attività in ottobre, ma in questo momento nella sua agenda non c' è più nulla». La prima volta dal 1953 Alcuni esperti ritengono che in ottobre potrebbe verificarsi una seconda e più violenta ondata dell' epidemia ed è probabile che le persone a rischio saranno nuovamente invitate a restare in casa. Inutile dunque fissare impegni per l' autunno. Elisabetta non vuole mai mancare ad un appuntamento: migliaia di persone, ha sempre spiegato ai suoi collaboratori, si preparano con settimane di anticipo per vederla, alcuni spendono soldi per abiti nuovi e non bisogna mai deludere le loro aspettative. Meglio dunque cancellare fin da subito l' agenda dei prossimi mesi. Niente Chelsea Flower, l' appuntamento di maggio dedicato ai fiori e ai giardini che Elisabetta non ha mai mancato dal 1953. Annullati anche gli appuntamenti equestri al Royal Ascot e al Royal Windsor Horse Show. Niente cerimonia per i conferimenti dell' Ordine della Giarrettiera. Niente Trooping the Colour, la parata militare con la quale si festeggia a giugno il suo compleanno. Niente visite di stato giapponese e sudafricana. Annullati i quattro garden party per tremila persone previsti a Buckingham Palace e in Scozia. Rinviato a data da destinarsi anche il matrimonio della principessa Beatrice di York con Edoardo Mapelli Mozzi. Annullato ogni incontro, sospesa ogni inaugurazione. Le giornate scandite per decenni da una infinita serie di impegni, più di 500 l' anno, sono improvvisamente vuote: Elisabetta passa il tempo a comporre puzzle e guarda in tv i drammi storici inglesi, segnalando a chi le è vicino gli errori che ci sono. Il consiglio della madre La Regina ripete sempre che lei deve «essere vista per essere creduta» e non le sfuggono certo i rischi che questa lunga assenza comporta. Sua madre Elizabeth le aveva detto, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, che dopo quella tragedia che aveva spazzato via i Savoia, i Borbone e tante altre monarchie, un sovrano avrebbe dovuto conquistarsi ogni giorno il diritto di regnare, perché la storia, le linee di sangue e le fandonie sull' unzione divina non bastavano più. Una monarchia può superare molte crisi (Elisabetta ne ha viste di ogni tipo) ma se un sovrano si isola nel proprio palazzo, allora corre i rischi più gravi. Lo aveva fatto la regina Vittoria, e la gente aveva appeso a Buckingham Palace cartelli con scritto: «Vendesi per assenza del proprietario». Il significato dei cappellini Questa costante preoccupazione spiega le Rolls-Royce modificate con finestrini più grandi, perché tutti possano vedere che la Regina è a bordo; gli abiti dai colori pastello e i cappelli strani, perché siano inconfondibili nella folla; le passeggiate in strada per stringere mani; la fitta agenda di impegni, più di due al giorno, ognuno con il suo abito e le sue cose da dire e da sapere su chi si incontrerà. Ma se il sovrano scompare, i sudditi possono legittimamente domandarsi a che cosa serva una monarchia. Anche per questo Elisabetta ha voluto fare due discorsi alla nazione in un mese, dopo i tre che aveva pronunciato in tutto negli altri 68 anni di regno. È stata molto brava a toccare le corde giuste: l' orgoglio britannico, l' esempio delle generazioni che hanno combattuto altre battaglie: «Mai arrendersi, mai disperare», ha detto, ricordando che lo spirito che ha vinto la guerra può abbattere anche un coronavirus. Ma la Regina non può andare sempre in tv: si può forse governare dalla televisione, e molti lo fanno, ma non regnare. Il principe Carlo è stato contagiato ed è guarito, ma resta anche lui confinato con la moglie Camilla nella residenza di Balmoral. Molte pratiche che svolgeva la Regina ora toccheranno a lui e il ruolo di supplenza al trono che già esercita diventerà ancora più impegnativo. Ma anche Carlo non è più un ragazzino, e i 72 anni che compirà a novembre lo mettono nelle categorie a rischio per un possibile ritorno autunnale della pandemia con un virus mutato. William e Harry E i giovani sui quali la monarchia faceva tanto affidamento? Harry e Meghan nuotano nella piscina della villa da 18 milioni di dollari che occupano a Beverly Hills, William e Kate sono confinati nella residenza di Sandringham e non mettono il naso fuori casa. Una volta, penserà forse la Regina in questi giorni di ozio, negli anni delle guerre e delle pandemie le principesse e le duchesse si arruolavano tra le ausiliare, come aveva fatto lei, o lavoravano con la Croce Rossa per assistere i ricoverati o preparare i pasti. Oggi stanno a casa e si scattano selfie con i bambini. Davvero nessuno poteva andare un attimo in un ospedale a ringraziare i medici e gli infermieri? Nessuno capisce quanto sia importante in questo momento farsi vedere? Non si può stare assenti. Si diceva che Elisabetta avrebbe lasciato al figlio Carlo la reggenza al compimento dei 95 anni, nella primavera del 2021. Se il Covid-19 non scompare in fretta è ora possibile che questa scadenza venga accorciata e che la lunga solitudine della Regina scandisca davvero l' inizio della fine del suo lungo, impareggiabile regno. 

Da "rainews.it" il 9 maggio 2020. Quella dell'8 maggio 1945 fu una giornata davvero particolare per la giovane Elisabetta che è stata anche raccontata, in modo romanzato, nel film Una notte con la Regina che trae però spunto da un fatto realmente accaduto. Re Giorgio VI concesse alle figlie Lilibeth e Margaret il permesso di lasciare Buckingham Palace e unirsi, seppure accompagnate da un folta schiera di persone, ai festeggiamenti dei sudditi per le strade di Londra. La stessa Elisabetta ne parlò in un'intervista alla BBC del 1985. "Avevamo paura di essere riconosciute", raccontò la Regina. "Così mi calcai fin sopra gli occhi il cappello dell'uniforme, ma fui ripresa da un ufficiale che era con noi". E ancora: "Penso sia stata la notte più memorabile della mia vita" 

Stefania Saltalamacchia per "vanityfair.it" il 9 maggio 2020. Un mese dopo lo storico discorso in era coronavirus, solo il quarto in quasi 70 anni di regno, Elisabetta II torna a parlare e lo fa in un giorno ben preciso: l’8 maggio 2020, ben 75 anni dopo da quell’8 maggio del 1945 quando il padre, re Giorgio VI aveva annunciato alla radio la fine della seconda guerra mondiale. All’epoca Elisabetta aveva 19 anni, oggi ne ha 94 ed è una monarca esperta e navigata. Sa che deve esserci nei momenti più delicati per la sua nazione. Ora la Gran Bretagna è in lockdown, sta affrontando – come il resto del mondo – la pandemia. La regina, che aveva 13 anni quando scoppiò la guerra nel 1939, fa sapere oggi: «Può sembrare difficile non poter celebrare questo anniversario speciale come vorremmo. Ma lo ricordiamo dalle nostre case, dalle nostre porte. Le nostre strade non sono vuote, sono piene dell’amore e della cura che proviamo l’uno per l’altro», ha continuato Elisabetta, facendo riferimento all’invito del governo britannico: restare a casa, stare lontani oggi per riabbraciarci presto. «E quando guardo il nostro Paese», ha continuato, con la foto del padre Giorgio VI in primo piano sulla scrivania, «E vedo quello che siamo disposti a fare per proteggerci e sostenerci a vicenda, dico con orgoglio che siamo ancora una nazione che quei coraggiosi soldati, marinai e aviatori riconoscerebbero e ammirerebbero». Il discorso della regina è stato registrato nel salotto bianco di Windsor la scorsa settimana. Nel castello poco fuori Londra, lei e il marito Filippo, 98 anni, sono ormai in isolamento da oltre un mese. Parlando dell’inizio della guerra, la regina, allora principessa, ha detto: «La prospettiva sembrava desolante, la fine lontanissima, il risultato incerto. Ma abbiamo continuato a credere che la causa fosse giusta – e questa convinzione, come ha notato mio padre, ci ha portato avanti. “Mai mollare, mai disperarsi”, era quello il messaggio del V-E Day. «Ricordo vividamente le scene esultanti a cui io e mia sorella abbiamo assistito con i nostri genitori e Winston Churchill dal balcone di Buckingham Palace», ha continuato la sovrana, «Il senso di gioia della gente che si radunava fuori e in tutto il Paese, anche se mentre si celebrava la vittoria in Europa, sapevamo che ci sarebbero stati ulteriori sacrifici. Molte persone hanno perso la vita in quel terribile conflitto. Hanno combattuto per poter vivere in pace, in patria e all’estero. Sono morti per la speranza di poter vivere come persone libere in un mondo di nazioni libere. Hanno rischiato tutto in modo che le nostre famiglie e i nostri quartieri potessero essere al sicuro. Dovremmo e li ricorderemo». La pace in Europa, ha aggiunto, la regina da allora è stata mantenuta. E questo è il modo migliore per onorare tutti quelli che dal campo di battaglia non sono mai tornati. Oggi il nemico è invisibile, la lotta è contro un virus, ma il messaggio di Elisabetta II alla Gran Bretagna non cambia: «Mai mollare, mai disperarsi».

La regina Elisabetta: "Vinceremo e torneremo insieme". La sovrana britannica ha tenuto un discorso televisivo straordinario sull'emergenza. La Repubblica il 05 aprile 2020. "Vi parlo in un tempo che so essere di crescente difficoltà. Un tempo di sconvolgimento nella vita del nostro Paese che ha portato dolore ad alcuni, problemi economici a molti ed enormi cambiamenti nella vita quotidiana di tutti noi". Così la regina Elisabetta, quasi 94 anni, di verde vestita, nel suo discorso televisivo straordinario alla nazione sull'emergenza coronavirus registrato nei giorni scorsi dal castello di Windsor, anticipato dalla corte ai media nelle ultime ore, e trasmesso stasera nelle case di milioni di britannici. "Insieme stiamo affrontando l'emergenza, se restiamo uniti e risoluti vinceremo noi". Nel suo discorso di quattro minuti alla nazione, la regina Elisabetta ringrazia "chi resta a casa" e, facendo così, "aiuta a proteggere le persone fragili e a risparmiare a molte famiglie il dolore già sofferto da quelli che hanno perso i loro cari". E ancora: "Spero che nei prossimi anni tutti potranno essere orgogliosi di come hanno risposto a questa sfida. E coloro che verranno dopo di noi diranno che i britannici di questa generazione sono stati più forti di qualsiasi altro, che le qualità dell'autodisciplina, della cortese determinazione e della comprensione reciproca ancora caratterizzano questo Paese". La Gran Bretagna e il mondo "sapranno prevalere" sulla minaccia del coronavirus. Ha detto convinta Elisabetta II. "Prevarremo - ha concluso - e la vittoria apparterrà a ciascuno di noi. Dobbiamo confortarci pensando che giorni migliori torneranno: che saremo di nuovo con i nostri amici, saremo di nuovo con le nostre famiglie e ci incontreremo ancora". È il quarto discorso in 68 anni di regno dopo quelli in occasione del primo conflitto in Iraq, dei funerali di lady Diana e l'ultimo per la scomparsa di sua madre ultracentenaria nel 2002.

Alessandro Logroscino per "ansa.it" il 6 aprile 2020. E' stato visto solo nel Regno Unito da oltre 24 milioni di telespettatori il discorso straordinario registrato nei giorni scorsi da Elisabetta II sull'emergenza coronavirus dal castello di Windsor e trasmesso ieri sera anche nei Paesi del Commonwealth. Lo rende noto oggi la Bbc, precisando che si tratta di uno share tre volte superiore a quello dei tradizionali messaggi televisivi di Natale della regina, seguiti in media da circa 7 milioni di persone. Non è stato battuto tuttavia il record d'ascolto (27 milioni) fatto segnare dal messaggio alla nazione del primo ministro Boris Johnson tenuto il 23 marzo per annunciare il lockdown. Nel suo intervento, il quarto in così forma eccezionale in 68 anni di regno, la quasi 94enne sovrana britannica ha ringraziato gli operatori della sanità per il loro lavoro e tutti coloro che restano a casa nel rispetto delle direttive del governo. Usando un tono ad un tempo di sollecitazione alla consapevolezza dei sudditi, invitati a essere all'altezza delle precedenti generazioni e allo spirito mostrato dai britannici al tempo della Seconda guerra mondiale, e d'incoraggiamento a non abbattersi: nella consapevolezza che la sfida può essere vinta, che uniti "prevarremo" sul virus e "ci incontreremo di nuovo". Il senso del messaggio è stato peraltro oscurato, pochi minuti dopo, dall'annuncio improvviso del ricovero allarmante in ospedale di Johnson: alla prese con sintomi perduranti di Covid-19, dieci giorni dopo esser stato testato positivo. Una battaglia da combattere restando a casa, dura, "penosa" e che cambierà le nostre vite, ma nella quale infine "prevarremo" e "torneremo insieme". Così, con un appello accorato quanto fermo "all'autodisciplina" e alla risolutezza di fronte alla più grave avversità che incombe sul suo Regno e sul mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale, Elisabetta II ha parlato stasera ai britannici e ai popoli del Commonwealth dell'epidemia di coronavirus. Lo ha fatto inossidabile come sempre, vestita di verde speranza, incoraggiando e spronando i sudditi in uno storico discorso dagli schermi della tv: appena il quarto in ben 68 anni di regno, al di fuori della tradizione del Natale. Un discorso dai toni gravi, ma non angosciati, trasmesso in un giorno nel quale i dati hanno fatto segnare oltremanica un nuovo picco di contagi, quasi 6.000 in più in 24 ore, con una conta di morti censiti arrivata quasi a quota 5.000. La pandemia, ha avvertito Sua Maestà dalla Drawing Room del castello di Windsor, non fa sconti, consuma un tempo di "crescente difficoltà". "Un tempo di sconvolgimento nella vita del nostro Paese", ha rimarcato, che ha ha già "portato dolore ad alcuni, problemi finanziari a molti ed enormi cambiamenti alla vita quotidiana di tutti". L'invito e la sfida al suo popolo, espressi con echi alla Winston Churchill, primo ministro all'epoca della sua incoronazione, è a mostrare le qualità migliori, con "orgoglio", in questa lotta senza armi e senza bombe. Ad essere degno del giudizio del posteri. "Spero che chi verrà dopo di noi possa dire dei britannici di questa generazione che sono stati forti" come le altre, ha scandito con fermezza da matriarca la sovrana, 94 anni fra due settimane, guardando all'orizzonte d'una storia di cui è stata protagonista per decenni anche in momenti più tormentati di quello attuale. Non è mancato un grazie "al duro lavoro" dei medici, degli infermieri del servizio sanitario nazionale (Nhs) e di tutti coloro che assistono gli altri, né un elogio dell'applauso collettivo rivolto loro anche dai balconi e dalle finestre dell'isola. Ma soprattutto non è mancato il grazie alla gente comune, "a coloro che restano a casa, aiutando così a proteggere le persone vulnerabili e a risparmiare alle loro famiglie la sofferenza... di chi ha perso dei cari". Stare in casa, rispettare le restrizioni imposte dal governo di Boris Johnson, è faticoso, ma "è la cosa giusta da fare", ha sottolineato con chiarezza la regina. Invitando tutti a cercare "conforto" dall'attuale "penoso senso di separazione" - paragonato a quello del conflitto mondiale, con tanto di richiamo al suo primo discorso (radiofonico) da giovane principessa rivolto con la sorella Margaret agli sfollati del 1940 - nella convinzione, da mantenere viva "mentre abbiamo ancora di che sopportare, che giorni migliori torneranno: che saremo di nuovo con i nostri amici, saremo di nuovo con le nostre famiglie e ci incontreremo ancora". L'esperienza di una vita lunga e costellata di sfide nazionali e globali induce del resto la figlia di Giorgio VI a indicare una luce in fondo al tunnel di questa prova, "diversa dalle altre" poiché vissuta come "uno sforzo che ci accomuna agli altri Paesi del globo": la luce della certezza che "prevarremmo" e che alla fine "la vittoria apparterrà a tutti". Nel frattempo, si tratta di testimoniare che "l'autodisciplina, la determinazione amabile, la calma e la fratellanza" sono ancora parte del "carattere di questo Paese", ha incalzato la monarca, mostrandosi salda a dispetto dell'età e delle traversie, dal rifugio di Windsor in cui si è trasferita con il quasi 99enne consorte Filippo per allontanare nei limiti del possibile l'ombra di un virus già capace di colpire, seppure in forma lieve, sia l'erede al trono Carlo sia il premier Boris Johnson, con la sua compagna incinta Carrie Symonds e un discreto numero di consiglieri e ministri. Ma non di piegare lo spirito di una regina figlia della guerra.

Due retroscena sul discorso straordinario della regina Elisabetta (preparato con lo “zampino” del principe Filippo). E pensare che, visti i precedenti storici, c'era chi era pronto a scommettere che Elisabetta II avesse indetto il discorso straordinario per annunciare la morte del quasi 99enne principe consorte. Ilaria Mauri su Il Fatto Quotidiano il 6 aprile 2020. Per la quarta volta nella storia del suo lungo regno, domenica 5 aprile la regina Elisabetta ha tenuto un discorso straordinario alla nazione, parlando di una battaglia dura, “penosa”, da combattere restando a casa, che cambierà le nostre vite, ma nella quale infine “prevarremo” e “torneremo insieme”. Un appello accorato quanto fermo “all’autodisciplina” e alla risolutezza di fronte alla più grave avversità che incombe sul mondo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Un discorso dai toni gravi, ma non angosciati, che la Regina – 94 anni fra due settimane – ha preparato personalmente, come sempre fa anche in occasione dei suoi messaggi d’auguri natalizi. Alla stesura del testo hanno collaborato però anche i suoi assistenti personali in collaborazione con Downing Street e potrebbe esser stato vagliato anche dal principe Filippo che, a dispetto di alcune indiscrezioni, non solo sarebbe vivo e vegeto ma avrebbe gettato anche un’occhiata al discorso della moglie come ha rivelato il suo ex segretario stampa, Simon Lewis, a Sky News. Dopo aver trascorso gli ultimi mesi separati, il Duca di Edimburgo ha raggiunto la moglie a Windsor e ora stanno vivendo insieme questi giorni di quarantena nel castello di Windsor. “La Regina non legge mai un discorso alla cieca ma lo prepara e lo controlla più volte personalmente per assicurarsi che il messaggio sia fedele alle sue intenzioni. E potrebbe aver chiesto anche in questo caso al marito Filippo di dare un’occhiata alle sue parole, ha sempre fatto prima delle trasmissioni annuali del giorno di Natale. Ciò che abbiamo ascoltato è assolutamente autentico, è la voce della Regina – ha spiegato Lewis -. Lei vuole essere soddisfatta al 100% del tono e dei messaggi, ciò che dice deve essere assolutamente perfetto e Filippo sa consigliarla per raggiungere questo obiettivo“. E pensare che, visti i precedenti storici, c’era chi era pronto a scommettere che Elisabetta II avesse indetto il discorso straordinario per annunciare la morte del quasi 99enne principe consorte. D’altra parte il Duca di Edimburgo era stato ricoverato in ospedale ai primi di dicembre 2019 a causa di una brutta polmonite sorta come complicazione a quella che sembrava essere una comune influenza e ora l’età lo espone particolarmente ai rischi del coronavirus, contratto anche dal figlio Carlo. Ma c’è anche un altro retroscena su discorso del 5 aprile. Per l’occasione la sovrana ha sfoggiato una simbologia ben precisa, nascosta come spesso accade nei suoi look. L’abito di seta da lei indossato era verde, colore usato non solo come messaggio di speranza ma anche come rimando ai camici indossati dai medici impegnati in prima linea negli ospedali, di cui aveva l’esatta tonalità. Non solo, oltre all’immancabile collana di perle a tre giri in pendant con gli orecchini, Elisabetta ha scelto di portare una spilla di diamanti con al centro un turchese, pietra che oltre a richiamare anch’essa nei toni le divise del personale sanitario, era prediletta da sua sorella Margaret che ne aveva una parure completa, con tanto di diadema. D’altra parte il suo testo era pervaso da riferimenti a quel al suo primo discorso (radiofonico) pronunciato quando era solo una giovane principessa assieme a Margaret agli sfollati del 1940, in piena Seconda Guerra Mondiale. Come spesso nelle grandi occasioni, Sua Maestà ha lasciato dire al suo corpo quello che non poteva dire a parole, ovvero la sua vicinanza e comprensione alla drammatica situazione che gli operatori sanitari si stanno trovando ad affrontare ma anche il rammarico e i sensi di colpa per quella sorella vissuta nella sua ombra, incapace di trovare pace e serenità per l’invidia di quel ruolo che a lei non era stato concesso.

Harry e Meghan: la reazione a sorpresa dopo il discorso della Regina. Linda il 07/04/2020 su Notizie.it. Secondo fonti certe, Harry e Meghan hanno assistito al discorso della Regina Elisabetta rivolto alla Nazione: ecco dunque la loro reazione. Il principe Harry e la consorte Meghan Markle hanno davvero “divorziato” dalla Casa Reale? Secondo quanto emerse, anche i “ribelli” di Sussex hanno di fatto assistito al discorso della Regina Elisabetta, avvenuto il diretta nazionale il 5 aprile 2020. In esso sua maestà ha invitato tutti i cittadini britannici a restare forti nella lotto contro il Coronavirus, con un invito che ha commosso tutta la Gran Bretagna. A quanto pare, ad ogni modo, anche la contestata coppia è rimasta molto toccata dal discorso, così come rivelato da Omid Scobie. “L’hanno percepito non solo come una dimostrazione di leadership esperta, ma anche come un messaggio di calore, conforto e rassicurazione”, ha precisato l’editor reale. Dopo il toccante videomessaggio alla Nazione, la Regina avrebbe anche sentito per telefono il nipote Harry. Stando inoltre a quel che è stato riportato da una fonte, il principe avrebbe persino offerto alla nonna il proprio personale supporto prima della trasmissione. Nonostante tutto, quello del duca di Sussex appare dunque certamente come un bel gesto. Nel mentre, in attesa di conoscere i loro nuovi progetti professionali, la coppia pare abbia preferito sparire dalla circolazione. Sembra infatti che i due abbiano anche chiuso i loro profili social e stiano pensando di trovare casa a Malibu. Ricordiamo che la Regina Elisabetta ha vietato loro l’uso del marchio Royal Sussex. Intanto, però, forse la ritrovata certezza di avere comunque un’entrata economica grazie al principe Carlo li ha tranquillizzati entrambi.

Virus, paura per William e Kate: morto operatore sanitario incontrato pochi giorni fa. I duchi di Cambridge, il primo aprile, hanno visitato due ospedali di Londra e oggi si scopre che un operatore sanitario entrato in contatto con loro è deceduto per complicazioni da Covid-19. Novella Toloni, Lunedì 06/04/2020 Il Giornale. Da circa due settimane il principe William e Kate Middleton sono in prima linea nella battaglia al coronavirus, sostenendo l’operato degli operatori sanitari. Il 20 marzo i duchi di Cambridge hanno fatto visita alla sede dell’NHS 111, il servizio di primo soccorso che raccoglie le chiamate di emergenza, mentre il primo aprile hanno visitato due ospedali di Londra per sostenere medici e infermieri. A pochi giorni dall’incontro, però, William e Kate sono stati informati che un operatore sanitario con il quale erano entrati in contatto è deceduto per complicazioni da Covid-19. Con la regina Elisabetta II isolata al Castello di Windsor in via precauzionale e il principe Carlo risultato positivo al tampone, il principe William ha preso in mano le redini della famiglia reale. Il primogenito di Carlo e Diana ha fatto le prime prove tecniche da re, esponendosi in prima persona tra visite in prima linea e sostegno all’operato del Servizio Sanitario britannico, sempre più sotto stress con l’aumentare dei contagi e dei decessi. Negli ultimi quindici giorni William e Kate hanno visitato i servizi chiave inglesi di prima assistenza, parlando con molti operatori e supportando il loro lavoro in questo difficile momento. Nell’ultima visita dello scorso primo aprile, però, i duchi di Cambridge sarebbero entrati in contatto con un medico in seguito deceduto per il coronavirus. Come riporta il quotidiano britannico Express, poco meno di una settimana fa il principe e la principessa hanno parlato con il personale di due ospedali di Londra, tra cui il Queen's Hospital di Burton, dove purtroppo si è registrato il primo caso di medico morto dopo aver contratto il virus. Non è chiaro se i duchi siano entrati in contatto diretto con il sanitario in seguito deceduto, mettendo dunque a rischio la loro salute, ma le dovute indagini sarebbero in corso. Nonostante la brutta notizia William e Kate hanno confermato il loro impegno a sostegno dell’SSN durante questa pandemia anche se questo dovesse significare farlo attraverso un telefono. Intanto domenica 5 aprile la regina Elisabetta II ha tenuto il suo discorso ufficiale alla nazione, il quarto da reggente. Sua maestà ha inviato un messaggio di sostegno e vicinanza ai britannici e con voce ferma e confortante ha affermato: "Potremmo avere ancora molto da sopportare ma torneranno giorni migliori: saremo di nuovo con i nostri amici, saremo di nuovo con le nostre famiglie, ci rivedremo sicuramente".

Da ilfattoquotidiano.it il 26 marzo 2020. “Il Principe Filippo è morto. Ma la Regina Elisabetta è costretta al silenzio”. È questa l’indiscrezione che nelle ultime ore sta facendo il giro dei tabloid britannici, creando grande dibattito sui social network. C’è chi dice che “la Regina Elisabetta sta mantenendo il riserbo perché fare i funerali ora sarebbe troppo pericoloso con il Covid-19” e chi invece smentisce tacciando la cosa come una fake news. Tutto nasce dal fatto che con i suoi 98 anni Filippo è sicuramente esposto alla minaccia del coronavirus, soprattutto contando che lo scorso dicembre il principe consorte era stato ricoverato in una clinica ospedaliera a causa di alcuni problemi di salute. Nell’autunno del 2019 infatti, il Duca era stato colpito da una brutta sindrome influenzale che, trascinatasi per settimane, lo aveva costretto al ricovero ospedaliero poco prima di Natale. Così, in molti ipotizzano che sia deceduto in questi giorni e che la regina Elisabetta con tutta la famiglia reale stia temporeggiando a dare la notizia perché con l’emergenza sanitaria in corso, infatti, non è più possibile celebrare i funerali, neanche nel Regno Unito. Ipotesi che ha ripreso corpo in queste ore dopo l’annuncio ufficiale di Buckingham Palace sul fatto che il principe Carlo è risultato positivo al tampone del Covid-19. E la Bbc ha fatto sapere che a corte si sta valutando un l’ipotesi di mandare in onda un messaggio televisivo straordinario della Regina alla nazione: l’ultima volta che la Sovrana parlò “a sorpresa” ai suoi sudditi fu quando morì sua madre, nel 2002, a 101 anni d’età. Non solo. Come riporta il tabloid britannico Express, le disposizioni sulle esequie del principe Filippo sono già state stabilite da tempo, ma negli ultimi giorni il consorte di sua Maestà avrebbe fatto nuove richieste. Il rito funebre si dovrebbe tenere alla presenza della famiglia, degli amici e dei capi di Stato dei paesi del Commonwealth, che si raduneranno attorno al feretro nella cappella di San Giorgio a Windsor Castle, secondo lo stile di un funerale militare inglese. E non solo: il 98enne vorrebbe essere sepolto nei giardini di Frogmore, nel parco del Castello di Windsor, dove già riposano le salme della Regina Vittoria e del Principe Alberto, e non nella cappella di Westminster dove sono sepolti molti altri esponenti della Famiglia Reale. Se il principe Filippo dovesse venire a mancare prima della regina Elisabetta II, il protocollo reale prevede che quest’ultima osservi un periodo di lutto di otto giorni.

La morte del principe Filippo e il silenzio della regina: giallo a Buckingam Palace. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. Il duca di Edimburgo Filippo sarebbe morto ma la regina Elisabetta, sua consorte, non potrebbe rivelarlo. È la spy story che da giorni affolla le pagine dei tabloid inglesi e che vorrebbe il 98enne marito della sovrana d’Inghilterra deceduto e lei costretta al silenzio a causa della prescrizione a celebrare funerali per via del Coronavirus.

Complice l’età, gli ultimi ricoveri del duca e la situazione di emergenza sanitaria in cui è piombato anche il Regno Unito, l’indiscrezione sul possibile decesso di Filippo è già salita agli onori delle cronache in precedenza ma, finora, era sempre arrivata pronta la smentita di Buckingham Palace. L’ultima volta era stata una settimana fa quando dal palazzo reale fecero sapere che il principe era “still alive”, ancora vivo. Secondo la stampa scandalistica britannica, però, questa volta la smentita potrebbe non arrivare. La Regina, infatti, sta preparando dal suo isolamento a Balmoral, in cui è tenuta sotto strettissima osservazione, un discorso alla nazione. Fatto salvo quelle tenuto nel giorno di Natale, la sovrana d’Inghilterra ha parlato al popolo solo quattro volte durante il suo lungo regno e le ultime due furono rispettivamente, per la morte di Lady Diana e della Regina madre. A queste indiscrezioni si aggiunge poi la notizia, quella sì ufficiale, che già il 12 marzo, giorno dell’ultimo incontro tra il principe Carlo, positivo al Covid-19, e la regina il principe Filippo non era presente.

DAGONEWS il 25 marzo 2020. Trema la corona inglese. La notizia della positività al coronavirus del principe Carlo mette in angoscia gli inglesi preoccupati non solo per le sorti del futuro erede al trono, ma soprattutto per la possibilità che abbia potuto incontrare la Regina e il principe Filippo. C’è infatti il rischio che il principe fosse già contagiato quando ha incontrato, seppur per breve tempo, la madre lo scorso 13 marzo. Ma quali sono stati i movimenti di Carlo degli ultimi giorni? E soprattutto da dove arriva il contagio? Sui media inglesi si fa sempre più insistente l’ipotesi che il contagio sia avvenuto il 10 marzo tramite il principe Alberto di Monaco, risultato positivo quattro giorni fa. Negli ultimi 16 giorni Carlo ha partecipato ad almeno sei impegni pubblici incontrando centinaia di persone tra cui una serie di star durante il Prince's Trust alla Royal Albert Hall due settimane fa. Il Principe di Galles è andato a Buckingham Palace l’ultima volta il 12 marzo per svolgere investiture per conto della Regina, che ha anche "brevemente" incontrato. Non ha visto, invece, il padre, il 98enne principe Filippo, che si trova al Castello di Windsor dove è stato raggiunto pochi giorni fa anche dalla sovrana. L’ultima volta che Carlo ha visto Filippo pare sia stato durante i colloqui della Megxit. William e Kate sono ad Anmer Hall a Norfolk, mentre Harry e Meghan sono tornati in Canada. Entrambe le coppie hanno visto Carlo al Commonwealth Service nell'Abbazia di Westminster lo scorso 9 marzo. Due giorni dopo, l'11 marzo, Carlo ha anche incontrato una serie di celebrità al “Prince's Trust Awards 2020” a Londra, a cui hanno partecipato Ant e Dec, Philip Schofield, Fearne Cotton, Pierce Brosnan, Richard E Grant, Ronnie Wood, Dina Asher-Smith e Craig David. La sera del 12 marzo, dopo le investiture a Buckingham Palace, il Principe di Galles ha avuto una cena alla Mansion House di Londra con il Lord Mayor della City di Londra e l'Alto Commissario per l'Australia. Questo è il suo ultimo impegno pubblico. Tuttavia da allora ha avuto anche una serie di incontri privati. Ora è a Birkhall, la sua casa Balmoral, con Camilla. Il 22 marzo ha iniziato a sentirsi male. Lunedì è stato sottoposto al tampone e oggi è stata divulgata la notizia della sua positività al Covid-19.

Coronavirus, il principe Carlo d'Inghilterra positivo al test. In questo momento avrebbe soltanto "sintomi leggeri" della malattia. E' già in auto-isolamento insieme a sua moglie, la duchessa della Cornovaglia Camilla, che tuttavia è risultata negativa al test. Antonello Guerrera il 25 Marzo 2020 su La Repubblica. Il principe Carlo, 71 anni, è risultato positivo al Coronavirus. La notizia è stata confermata dalla residenza di Clarence House. Il principe del Galles starebbe bene, avrebbe soltanto "sintomi leggeri" della malattia ed è già in auto-isolamento insieme a sua moglie, la duchessa della Cornovaglia Camilla, che tuttavia è risultata negativa al test. Carlo e Camilla si trovano in questo momento nella loro tenuta in Scozia e la positività del principe è stata testata in un ospedale pubblico nell'Aberdeenshire. Secondo il suo portavoce, non è chiaro come Carlo abbia contratto la malattia, in quanto "negli ultimi tempi il principe ha presenziato numerosi eventi pubblici". Il pensiero corre immediatamente alla salute dei suoi genitori, ossia la 93enne Regina Elisabetta e suo marito, il cagionevole e 98enne principe Filippo. Entrambi da giorni sono riparati nella loro tenuta di Windsor e già da tempo erano scattate misure a loro protezione: per questo hanno lasciato di recente il più affollato e potenzialmente pericoloso Buckingham Palace. Un comunicato ufficiale dei reali fa sapere ora che la "Regina è in buona salute" e che l'ultima volta che Carlo è venuto in contatto con la madre sovrana è stato lo scorso 12 marzo durante una cerimonia di riconoscimenti pubblici a Buckingham Palace. Lo stesso giorno tra l'altro il principe del Galles ha avuto anche il suo ultimo evento pubblico, una cena di beneficenza relativa agli incendi in Australia, a Londra. Prime polemiche anche sul presunto trattamento di favore ricevuto da Carlo: in Regno Unito per le persone normali è praticamente impossibile sottoporsi al test del coronavirus a meno che ci si ritrovi in gravi condizioni di salute. Il principe del Galles invece, come da comunicato ufficiale, sinora ha mostrato solo "sintomi lievi". Condizione di norma assolutamente non sufficiente per farsi testare dalla sanità pubblica britannica. 

Chi ha contagiato il principe Carlo? Alberto di Monaco potrebbe essere il "colpevole". I due principi hanno partecipato all'evento organizzato dall'Ong WaterAid. Erano seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all'altro. Sono risultati entrambi positivi al coronavirus. Marina Lanzone, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. Solo un giorno fa Clarence House ha annunciato che il Principe Carlo era risultato positivo al Covid-19. Sebbene le condizioni di salute dell’erede al trono non preoccupino gli esperti (Carlo presenta solo dei "lievi sintomi"), tutto il popolo inglese è in forte apprensione e vorrebbe capire come si sia verificato il contagio. Il giornale francese "Gala" ha una teoria, secondo cui "l’untore" del prossimo monarca inglese possa essere il futuro collega Alberto di Monaco. Non è il solo a pensarlo: purtroppo c’è più di una coincidenza che renderebbe la cosa plausibile. Il dubbio si è diffuso quando su internet ha iniziato a circolare una foto che mostrava Carlo e Alberto seduti allo stesso tavolo, uno di fronte all’altro, in occasione del summit organizzato dall’ONG WaterAid. L’evento si è tenuto il 10 marzo, e i due principi, molto attenti alle questioni ambientali, erano entrambi presenti. Solo nove giorni dopo, lo staff del principato di Monaco ha comunicato che Alberto aveva presentato i primi sintomi del Covid-19. È possibile che il 10 marzo, quando Alberto di Monaco è arrivato all’evento, avesse già contratto il virus. L’idea sarà balzata in mente anche allo staff di Clarence House, che però ha subito voluto specificare che "non è possibile sapere da chi sia stato contaminato il principe a causa della moltitudine di impegni onorati dalla sua altezza nelle ultime settimane", evitando così l’incidente diplomatico. D’altronde, se così fosse, Alberto di Monaco si è presentato all’evento sano come un pesce e di certo non poteva immaginare, che da lì a pochi giorni, sarebbe finito in quarantena e sotto stretto controllo medico per colpa del coronavirus. All’evento erano presenti molte persone e la situazione di promiscuità potrebbe aver favorito il contagio del principe del Galles. C’è da ricordare, inoltre, che anche un lavoratore di Buckingham Palace è risultato positivo e che, quindi, il virus circolava a Palazzo. Non è escluso che il dipendente avesse avuto contatti con il principe. Proprio il 9 marzo, Carlo ha incontrato sua madre e il resto della famiglia per l’ultima volta. Erano presenti anche Harry e Meghan, volati a Londra prima della Megxit in occasione del Commonwealth Day, e ritornati in Canada il giorno dopo. Comunque sia andata, la caccia alle streghe non giova a nessuno, men che meno alla salute dei principi. Entrambi stanno abbastanza bene, e sembra che le loro condizioni siano stabili. Sono stati messi in quarantena, lontani dalle rispettive famiglie. Fortunatamente, sia Camilla sia Charlene e i gemelli di 5 anni, Jacques e Gabriella sembrano non aver contratto il virus. I tamponi sono risultati al momento tutti negativi. Il trono del Regno Unito, così come quello del Principato di Monaco, sembrano essere salvi.

L'indiscrezione: "Camilla veglia sul principe Carlo ma è preoccupata per la sua salute". Come riportano le fonti interne di palazzo, Camilla è in apprensione per la salute del principe Carlo risultato positivo al virus qualche giorno fa. Carlo Lanna, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. La situazione nel Regno Unito è in continuo movimento. La notizia del contagio da parte del Principe Carlo ha scosso nelle fondamenta la calma apparente di tutta la famiglia reale. Con il virus che continua a dilagare a Londra e in tutto il resto del Paese, ora la paura serpeggia anche tra le mura di palazzo mettendo in serio pericolo l’incolumità dei Windsor. Il contagio pare essere circoscritto e non avrebbe fatto altri danni in famiglia, ma tutti conosciamo le insidie del coronavirus. Quindi ognuno può essere a rischio. Sulla questione del principe Carlo che è esplosa con veemenza ad inizio settimana, ha preso la parola una fonte interna di palazzo. E tra le pagine di People ha cercato di rassicurare tutti sulle condizioni di salute del figlio di Elisabetta. La salute di Carlo è stabile, ha avuto solo dei lievi sintomi. Ha scelto di sottoporsi al tampone per "l’incolumità delle persone a lui care". Ma non è finita qui. Ora è in quarantena nella sua dimora del Galles e, per fortuna, può contare sulle attenzioni di Camilla. La Duchessa di Cornovaglia che, stranamente, non è stata contagiata (almeno per ora) pare che sia una vera e propria ancora di salvezza per il Principe. Non può stare a contatto con il marito ma resta comunque una fonte inesauribile di coraggio e di buona speranza. "Camilla è molto preoccupata per la salute del Principe –esordisce la gola profonda-. Resta comunque molto ottimista sulla questione. È consapevole del pericolo, ma cerca di infondere coraggio a se stessa e al marito. Anzi, Camilla ha affermato che Carlo in questi giorni non ha perso la sua dose di buon umore". E a dirla tutta, forse è l’unico modo per fronteggiare l’emergenza sanitaria che sta strozzando tutto il mondo. A Londra la situazione è critica ma, come in molti altri paesi, si stringono i denti. Per fortuna, prima ancora che il Principe Carlo risultasse positivo, tutta la royal family aveva già annullato gli impegni e si era già isolata in quarantena. La Regina è a palazzo, mentre William è in isolamento ad Anner Hall. "Carlo è monitorato e per ora sta bene", continua la fonte. "Camilla è in apprensione ma è una donna forte. È straordinaria – aggiunge-. Si è dimostrata un valido supporto sia per Carlo che per la sovrana". I due si sono sposati nel 2005 dopo una lunga relazione che è iniziata negli anni ’70.

Da tg24.sky.it il 28 marzo 2020. La pandemia di coronavirus si sta espandendo nel Regno Unito dove si superano i mille morti con Covid-19. Solo nell'ultima giornata i nuovi decessi sono stati 260, portando il totale a 1.019 mentre i contagi nel Paese sono 17.089.

Il Governo aumenta il numero di test per il personale ospedaliero. L'esecutivo inglese, da quanto riporta la Bbc, sta aumentando il numero di test per il personale ospedaliero in prima linea che ha sintomi o che vive con persone che hanno sintomi. I medici e gli infermieri in terapia intensiva avranno priorità. Intanto, nel numero delle nuove vittime sono incluse 246 persone in Inghilterra, con pazienti di età compresa tra i 33 e i 100 anni.

Il bilancio in Scozia e Irlanda del Nord. La Scozia ha registrato altri sette decessi, portando il suo totale a 40, mentre altre quattro persone sono morte in Galles, per un totale di 38. Nell'Irlanda del Nord, altre due persone sono rimaste vittime del Covid-19 per un totale di 15 deceduti.

Gianluca Perino per il Messaggero il 28 marzo 2020. Prima la teoria sull'immunità di gregge, poi la frase choc sui cittadini britannici («perderete molti dei vostri cari»), infine la repentina retromarcia con la chiusura di scuole, uffici, ristoranti e pub. La strategia sulla gestione dell'emergenza Coronavirus da parte di Boris Johnson, da ieri anche lui contagiato e in quarantena con altri ministri, aveva già sollevato le perplessità di molti paesi europei, compresa l'Italia. Ma ieri per il primo ministro è arrivata un'altra stoccata pesante. A lanciarla il direttore della prestigiosa rivista scientifica The Lancet, Richard Horton, che ha definito uno «scandalo nazionale» la risposta del governo britannico all'emergenza coronavirus, affermando che la strategia messa in atto ha «fallito». E «ha fallito, in parte, perché i ministri non hanno seguito in consiglio dell'Oms di fare "test, test, test" a ogni caso sospetto. Non hanno isolato e non hanno messo in quarantena. Questi principi di base della sanità pubblica e del controllo della malattia infettiva sono stati ignorati, per ragioni che restano poco chiare», ha scritto Horton in un articolo pubblicato oggi.  «La Gran Bretagna ha oggi un nuovo piano. Ma questo piano, concordato troppo tardi mentre l'epidemia era in corso, ha trovato il sistema sanitario nazionale completamente impreparato a curare i tanti pazienti gravemente malati che arriveranno presto», ha aggiunto.

Boris Johnson positivo al coronavirus. Il primo ministro britannico ha accusato lievi sintomi e si trova ora in auto isolamento. Il Dubbio il 27 marzo 2020. Il primo ministro britannico Boris Johnson positivo al Coronavirus. A darne notizia è lui stesso con un tweet, con il quale ha assicurato che continuerà a guidare la nazione da casa. «Ho sviluppato lievi sintomi del coronavirus», con febbre lieve e tosse persistente, ha dichiarato Johnson in un video pubblicato sul suo account Twitter. «Su consiglio del medico, ho fatto un test ed è risultato positivo. “Lavoro da casa e mi trovo ora in autoisolamento. È assolutamente la cosa giusta da fare – ha sottolineato -. Posso continuare, grazie alla magia della tecnologia, a comunicare con il mio team  e a guidare la lotta nazionale contro il virus». Così, in diretta web, ha consigliato ai cittadini di rimanere a casa e prendersi cura della propria salute. Johnson è stato a lungo scettico prima di realizzare la gravità della diffusione del virus, diventato nel giro di poco tempo una pandemia. La prima riunione del comitato di emergenza, infatti, è stata convocata soltanto  il 3 marzo e per lungo tempo le misure di contenimento consigliate ai cittadini si sono limitate al lavarsi spesso le mani e auto-isolarsi per una settimana in caso di sintomi. La Gran Bretagna è stata dunque l’ultima a disporre la chiusura delle scuole e dei locali pubblici. La decisione più contestata è stata quella di fare i tamponi solo a chi mostrava sintomi gravi, nel tentativo di rallentare la diffusione del virus, anziché alla sua scomparsa, per raggiungere l’obiettivo di una benefica “immunità di gregge”. Le critiche feroci della popolazione hanno però costretto il Governo a fare marcia indietro, smentendo la notizia di voler far morire una minoranza di cittadini per salvarne la maggior parte. Ora l’obiettivo è aumentare il numero di test, così come consigliato dall’Organizzazione mondiale della Sanità.

Coronavirus, fonti mediche: Boris Johnson, situazione precipitata mentre era in ospedale. Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Il mondo col fiato sospeso per Boris Johnson, grave e in terapia intensiva all'ospedale St Thomas di Londra. Un ricovero avvenuto domenica sera, quasi a ridosso del discorso della Regina Elisabetta. Si era parlato di controlli di routine, lui stesso lunedì mattina aveva twittato dal letto d'ospedale. Poi le notizie dalla Russia: "È attaccato a un ventilatore". Dunque le smentite di rito. Poi la tragica conferma: è in terapia intensiva, la situazione è precipitata. E in queste ore, dal Regno Unito, trapelano informazioni da ambienti medici di alto livello: si ritiene che BoJo in un primo momento sia stato sottoposto a una radiografia al torace, o a una Tac, per verificare lo stato dei suoi polmoni. E proprio mentre venivano monitorate le condizioni cardiache, il livello di ossigeno nel sangue e quello dei globuli bianchi e degli altri organi vitali, la situazione sarebbe precipitata. Insomma, una versione parzialmente vera, quella fornita inizialmente da Downing Street. E poi la fortuna di trovarsi in ospedale proprio mentre tutto capitolava. Le cose sono davvero andate così?

Boris Johnson ricoverato in ospedale per il coronavirus. Il premier britannico è alla sua seconda settimana di quarantena a causa del Covid-19. Antonello Guerrera il 05 aprile 2020 su La Repubblica. È il primo leader mondiale a essere ricoverato per coronavirus. E ora la situazione diventa preoccupante. Boris Johnson stasera è stato ammesso in un ospedale di Londra "in via precauzionale" per sottoporsi ad alcuni "esami medici". Ma il problema alla base è serio: al premier britannico è stato diagnosticato il virus dieci giorni fa e da allora Johnson non ha mostrato alcun segno di miglioramento. La febbre, piuttosto alta, rimane, pure la tosse non va via e allora il suo medico personale non ha avuto altra scelta. Niente più auto-isolamento al numero 11 di Downing Street. Si va in ospedale. Proprio oggi il Mail on Sunday metteva in fila le ultime foto di Boris Johnson nelle sue sei apparizioni pubbliche da quando ha ammesso di aver contratto il Covid-19, in video o all'aperto a Downing Street per applaudire dottori e infermieri della sanità pubblica in prima linea contro il coronavirus. Titolo del montaggio fotografico "Il virus ha distrutto Boris come un martello", evidenziando le occhiaie, il pallore e la brutta cera sempre più crescenti sul volto del premier. Il giornale è stato terribilmente profetico. Johnson, che fino a qualche tempo fa si vantava di "stringere le mani a tutti" nonostante la minaccia del coronavirus, stasera ha dovuto arrendersi perché essersi rinchiuso in casa da solo, come consiglia ai britannici con gli stessi sintomi, sinora non è bastato a guarire, dopo quasi due settimane. Dunque, bisognerà vedere se nel frattempo sono sorte altre pericolose complicazioni nel suo organismo. Anche la sua fidanzata e futura moglie, Carrie Symonds, incinta al sesto mese del quinto figlio ufficiale del premier, ha ammesso ieri di aver avuto i sintomi da coronavirus per una settimana, ma di stare meglio dopo essersi trasferita nella residenza estiva dei capi di governo britannico, a Chequers. Ma Carrie ha 32 anni e pare abbia superato il coronavirus piuttosto agevolmente. Boris invece 55. Anche per questo, dopo dieci giorni di relativa agonia, stasera si è deciso il ricovero. Proprio mentre la 93enne Elisabetta parlava alla nazione.

Corriere.it il 6 aprile 2020. Boris Johnson è grave: è in terapia intensiva all’ospedale St Thomas di Londra, dove era stato ricoverato domenica sera per coronavirus. Il suo posto alla testa del governo britannico è stato preso dal ministro degli esteri Dominic Raab. È un precipitare della situazione che ha colto tutti di sorpresa, anche se gli interrogativi sulle sue reali condizioni di salute crescevano di ora in ora. Ieri mattina il premier ha fatto sentire la sua voce, via Twitter, dall’ospedale: ma i suoi portavoce non erano riusciti riescono a fugare i dubbi e le preoccupazioni sul suo stato reale. «La scorsa notte, su consiglio del mio dottore — aveva fatto sapere lo stesso Boris - sono andato in ospedale per alcuni esami di routine, poiché ho ancora i sintomi del coronavirus. Sono di buon umore e resto in contatto col mio team». Downing Street insisteva a dire che non si trattava di un ricovero di emergenza, ma intanto Boris si accingeva a trascorrere una seconda notte in ospedale. I portavoce del governo avevano bollato come «disinformazione» le voci rimbalzate dalla Russia, secondo cui Johnson sarebbe attaccato a un ventilatore polmonare: ma non avevano escluso un rischio di polmonite e neppure hanno più definito i suoi sintomi come «lievi», bensì «persistenti», inclusi «febbre e tosse». Gli esperti medici britannici ritengono che Boris in un primo momento sia stato probabilmente sottoposto a una radiografia al torace, se non a una Tac, per verificare lo stato dei suoi polmoni, mentre vengono monitorate le condizioni cardiache, il livello di ossigeno nel sangue e quello dei globuli bianchi, oltre che lo situazione degli altri organi vitali. Ma poi la situazione è precipitata. I portavoce del governo assicuravano di essere «del tutto trasparenti» sulle condizioni del premier: una finzione, con ogni probabilità. In mattinata un ministro aveva specificato che Boris restava nel pieno delle sue funzioni, anche dal letto di ospedale, dove continuava a ricevere documenti. Pure il ministro degli Esteri Dominic Raab, che è la seconda autorità nell’esecutivo e ieri mattina ha presieduto al posto di Johnson la riunione del comitato di emergenza sull’epidemia, aveva sottolineato che Boris «continua a guidare il governo»: ma aveva suscitato sconcerto quando aveva ammesso di non aver più parlato col premier da sabato scorso. Sarebbe proprio Raab a subentrargli come primo ministro ad interim: ma girano le voci secondo cui le redini del Paese sarebbero state prese in mano ufficiosamente da Dominic Cummings, l’onnipotente super-consigliere di Johnson. Il mancato recupero di Boris, sofferente ormai da più di dieci giorni, viene spiegato col fatto che non si è concesso un minuto di riposo: e c’è chi dice che volesse emulare il suo idolo, Winston Churchill, che continuò a lavorare da Downing Street pur colpito da una polmonite. Sul fronte del contagio del Paese, ieri è stata una giornata di speranza: i nuovi casi e i decessi sono scesi di un terzo rispetto ai giorni precedenti (il totale adesso è di 51.608 positivi e 5.373 morti). Ma il governo continua a dire che è troppo presto per poter parlare di ripartenza.

Boris Johnson dimesso dall’ospedale: “Devo la vita ai medici”. Il premier britannico non tornerà subito al lavoro. Il Dubbio il 12 aprile 2020. Dopo una settimana di ricorvero, il premier britannico Boris Johnson è stato dimesso dal St. Thomas Hospital di Londra. L’annuncio è stato dato oggi da Downing Street. Il premier ora dovrà osservare un periodo di recupero dal contagio, dunque non tornerà immediatamente al lavoro. Johnson, però, ha già espresso la sua gratitudine per i medici con un tweet: “È difficile trovare le parole per esprimere il mio debito con il sistema sanitario nazionale per avermi salvato la vita. L’impegno di milioni di persone in questo Paese per restare a casa, vale la pena. Insieme supereremo questa sfida, poiché abbiamo superato tante sfide in passato. #StayHomeSaveLives”. Il premier britannico ha passato momenti complicati in ospedale, con alcuni giorni di ricovero anche in terapia intensiva. Secondo indiscrezioni giornalistiche, sembra che i medici abbiano temuto anche per la sua vita.

Da "Ansa" il 4 aprile 2020. Allarme coronavirus anche per Carrie Symonds, compagna e promessa sposa 31enne di Boris Johnson, da qualche mese in attesa di un figlio dal premier conservatore britannico. Symonds, riferisce Sky News, è in isolamento a letto da una settimana con i sintomi del Covid-19, anche se a differenza di Johnson non è stata al momento testata. Il premier è a sua volta auto-isolato da otto giorni con sintomi "lievi" ma persistenti dopo il tampone risultato positivo. La coppia vive al momento in alloggi separati a scopo precauzionale.

 (ANSA il 7 aprile 2020) - Nuovo colpo per il governo britannico sullo sfondo dell'emergenza coronavirus: anche Michael Gove, numero tre della compagine, cancelliere del ducato di Lancaster e ministro dell'Ufficio di Gabinetto, è da oggi in auto-isolamento precauzionale a casa non perché contagiato in prima persona, ma perché un familiare ha manifestato sintomi compatibili con il Covid-19. Lo riferisce la Bbc. L'isolamento di Gove colpisce una figura chiave dell'esecutivo Tory proprio mentre il premier Boris Johnson è in terapia intensiva. Condizioni "invariate" per il premier britannico Boris Johnson, dopo la prima notte trascorsa nel reparto di terapia intensiva del St Thomas hospital di Londra in seguito al peggioramento dei sintomi del suo contagio da coronavirus. E' questo il messaggio diffuso stamattina dai media britannici sulla base delle ultime informazioni raccolte e in attesa del previsto bollettino ufficiale di Downing Street. Secondo Sky News, Boris Johnson resta alle prese con "difficoltà respiratorie" e ha ricevuto ossigeno durante la notte. Il ministro Michael Gove - numero tre del governo Tory dopo il premier e il titolare degli Esteri Dominic Raab, incaricato da ieri di esercitare la supplenza di Bojo - aveva da parte sua confermato in precedenza in un'intervista radiofonica la somministrazione di ossigeno a Johnson, negando tuttavia per ora la necessità di un ricorso al ventilatore polmonare.

Sabrina Provenzani per il “Fatto quotidiano” il 7 aprile 2020. Il premier Boris Johnson ieri sera è stato trasferito in terapia intensiva al St Thomas hospital dopo che le sue condizioni sono peggiorate; era stato ricoverato domenica per il coronavirus. Il ministro degli Esteri Dominic Raab gli subentra alla guida del governo, almeno per il momento. Ciò che è avvenuto spazza via le cautele che Downing Street ha avuto su Johnson costretto ad andare in ospedale per i suoi sintomi.

La prima versione: il primo ministro britannico è stato ricoverato per precauzione in ospedale perché continuava ad "avere sintomi persistenti di coronavirus 10 giorni dopo l' esito positivo del tampone". Per l' agenzia di stampa di Stato russa Ria Novosti, che cita due fonti ospedaliere, Johnson sarebbe invece in terapia intensiva, attaccato a un respiratore. Notizia smentita subito da Downing Street. Ma se non c' era alcuna emergenza, perché ricoverare il primo ministro alle 20 di sera, quasi in contemporanea con il discorso alla nazione della Regina Elisabetta, studiato nei dettagli per rinfrancare e unire il Regno?

Ieri mattina ufficiale su Twitter, Johnson o chi per lui, ha inviato un messaggio rassicurante: "Sono di ottimo umore e in contatto con il mio team, per lavorare insieme nella lotta a questo virus e per proteggervi tutti". E ancora: "Vorrei ringraziare il brillante staff dell' Nhs che si sta prendendo cura di me e di altri in questo periodo difficile. Siete la parte migliore del Paese". Un riconoscimento quasi obbligato, sulla scia dell' omaggio già presente nel discorso di Elisabetta e della ondata di sostegno al servizio sanitario che sta attraversando il Regno Unito. Ma accanto alle parole di gratitudine e agli applausi per medici e infermieri che uniscono i britannici ogni giovedì alle 8 di sera, c' è la rivolta del personale medico, mandato al fronte senza maschere, guanti, visori. Il 23 marzo scorso, quando Johnson non risultava ancora infetto, 4.000 fra infermieri e medici gli avevano rivolto un appello pubblico chiedendo l' invio di materiale protettivo. Che, malgrado grandi promesse del governo, dopo due settimane non è ancora arrivato in molti ospedali. L' Nhs, il primo servizio sanitario pubblico della storia, è una creatura laburista di cui i britannici vanno fierissimi. È anche una delle grandi vittime di una lunga stagione di austerità, gestita da successivi governi conservatori. Anni di tagli, ridimensionamenti, stipendi congelati, scontri fra il governo e il personale, manifestazioni di piazza.

Nel 2017 proprio Johnson, come l' attuale ministro della Salute Matt Hancock e i conservatori più in vista che oggi applaudono l' Nhs, votarono contro la proposta laburista di sbloccare gli stipendi pubblici, compresi quelli del personale infermieristico, e alcuni gioirono sguaiatamente della sconfitta di quella proposta, con commenti del livello: le infermiere non arrivano a fine mese perché non sanno gestire i soldi. Johnson ha strumentalizzato la crisi dell' Nhs, prima durante la campagna per il Leave al referendum su Brexit, quando si faceva campione della promessa di liberare, una volta usciti dall' Ue, 350 milioni a settimana per la Sanità. Poi, durante la marcia per le politiche vinte a dicembre, promettendo grandi risorse al sistema sanitario.

Promesse non ancora mantenute. La responsabilità, oggi, dell' impreparazione dell' Nhs è politica, e che ora la vita di Johnson dipenda da un sistema sanitario che ha contribuito a scarnificare è una svolta beffarda. Intanto i morti in ospedale alle cinque di pomeriggio di ieri erano 5.373, un aumento di 439 sul giorno precedente, in calo rispetto al picco di 708 sabato. Ma nella conferenza stampa giornaliera il Chief Medical Officer Chris Whitty, uscito guarito dall' isolamento, ha dichiarato di non sapere quando aspettarsi il picco di decessi.

Il medico calabrese nello staff che cura il premier inglese dal coronavirus: a Catanzaro la sua formazione. Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2020. C’è anche un medico calabrese nello staff di esperti che sta seguendo le condizioni cliniche del premier inglese Boris Johnson, ricoverato a Londra dopo essere risultato positivo al coronavirus. Luigi Camporota è uno specialista in ventilazione polmonare e lavora nell’ospedale St. Thomas di Londra, proprio dove da lunedì è ricoverato il primo ministro inglese. Camporota è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Catanzaro, quindi ha svolto un dottorato in Inghilterra. Proprio nel capoluogo calabrese, dove è nato e cresciuto, Camporota si è formato sotto la guida attenta di uno specialista del settore, il professore Serafino Marsico.

L’italiano che cura Boris Johnson: “Per me i pazienti sono tutti uguali”. Il Dubbio l'8 Aprile 2020. Luigi Camporota, il camice bianco di origini calabresi che fa parte dell’équipe di terapia intensiva del St Thomas’ Hospital di Londra. “Scusi, devo andare. Sono di turno in Ecmo e sono con un paziente”. E’ schivo ma gentile Luigi Camporota, il camice bianco di origini calabresi che fa parte dell’équipe di terapia intensiva del St Thomas’ Hospital di Londra, dove in questi giorni è ricoverato il primo ministro britannico Boris Johnson. Un paziente fuori dal comune? “Per noi tutti i pazienti sono importanti”, si schermisce il professore. Sono tutti Boris? “Sì. Ne abbiamo tanti, anche pazienti giovani”, dice all’AdnKronos Salute. Camporota, 50 anni, ogni volta che non può rispondere si trincera dietro una composta risata. “Non posso parlare di questo”, ripete quando gli si chiede delle condizioni di salute del premier Gb. Anche quando si prova a fargli notare che il primo ministro che passerà alla storia per la Brexit è seguito da un’équipe ricca di specialisti non britannici. Anzi alla domanda se è cambiato qualcosa con il concretizzarsi del progetto di uscita dall’Ue, la replica è: “Per me personalmente non è cambiato nulla”. Il camice bianco italiano in effetti ha messo radici nel Regno Unito e ha anche una “moglie inglese”. Super esperto di terapia intensiva e di Ecmo, appunto, cioè quella macchina che supporta le funzioni vitali, il Regno Unito è ormai la sua casa. “Sono qui al momento”, puntualizza. In realtà è in Gran Bretagna “da 23 anni – ammette – e qui si è svolta la maggior parte della mia carriera, tra Oxford prima e Londra adesso”. Tanto che la procedura che molti italiani hanno dovuto seguire per restare, “in realtà a me non si applica”, dice. “Se sono come un cittadino inglese? Più o meno”, sorride. Nato a Catanzaro, Camporota precisa che “alcune informazioni circolate al mio riguardo non erano del tutto rispondenti al vero. Ho studiato a Catanzaro”, quando l’università di medicina dipendeva da Reggio Calabria, “ma solo per una prima parte. Poi mi sono mosso e sono andato a Southampton”. Camporota si occupa pazienti critici. “E’ un lavoro che dà soddisfazioni”, spiega, in grado di fare la differenza fra la vita e la morte. Quanto all’ondata di casi di Covid-19 che ha colpito l’Europa e il mondo, Camporota, che ha avuto modo di affrontare l’argomento in vari incontri fra specialisti evidenziando fra le altre cose la caratteristica della lunga durata della fase critica, definisce “positivo il lavoro di équipe incredibile che si sta facendo qui. Si lavora al massimo, e bene. Si lavora insieme in maniera eccezionale e va dato credito al sistema sanitario per questo”. Con l’Italia resta un legame. “Torno qualche volta, non spesso – ammette – Sono in contatto con tanti professori italiani molto bravi che mi tengono aggiornato. Da alcuni di loro ho imparato molto”.

Chi è Luigi Camporota, medico calabrese che sta curando Boris Johnson. Redazione de Il Riformista il 8 Aprile 2020. La salute di Boris Johnson è anche in mani italiane. Tra i medici che si stanno occupando del primo ministro inglese, ricoverato da lunedì all’ospedale St Thomas di Londra per il peggioramento dei sintomi da coronavirus, c’è anche Luigi Camporota, considerato dal Times tra i massimi esperti di terapia intensiva e difficoltà respiratorie. Ieri un portavoce di Downing Street aveva precisato che il premier conservatore stava ricevendo “cure con l’ossigeno standard” respirando “senza assistenza di ventilatori polmonari”, mentre i medici non gli hanno diagnosticato alcuna polmonite. Tra questi c’è Camporota, che dopo aver terminato gli studi nel 1995 a Reggio Calabria ha successivamente ottenuto un dottorato presso l’università di Southampton. Nel tempo Camporota è diventato una “autorità” nel ramo della respirazione, sulla gestione dell’emergenze respiratori e sui macchinari da utilizzare, tanto che i suoi studi sono regolarmente pubblicati sulle più importanti riviste mediche britanniche.

CAOS NEL GOVERNO INGLESE – Intanto la stampa inglese sta già massacrando la gestione dell’emergenza del governo, ora ancora più in difficoltà col premier ricoverato in terapia intensiva. Il suo sostituto,  il ministro degli Esteri Dominic Raab, viene descritto come indeciso e non supportato per altro da un esecutivo più diviso che mai. Lunedì inoltre terminerà il periodo di lockdown inizialmente indicato da Johnson e i mediati si chiedono chi possa assumere oggi la decisione di prolungare, come tutti si aspettano, la ‘chiusura’ del Paese o addirittura nuove misure ancora più restrittive. Il gabinetto è tutt’altro che concorde, anzi, sembra che proceda in totale ordine sparso. Senza la leadership, per quanto controversa, di Boris Johnson, nessuno dei ministri sembra avere la taratura necessaria né l’appoggio dovuto. Non solo, in Gran Bretagna non c’è nemmeno una Costituzione che preveda meccanismi automatici di supplenza alla premiership. Tutto il castello si basa su convenzioni. Se Johnson dovesse, come purtroppo probabile, assentarsi per troppo tempo dal suo posto di comando si porrà il dilemma di come sostituirlo. Sarebbe in questo caso l’Esecutivo stesso, ma c’è chi sostiene il Gruppo Conservatore, ad indicare un premier ad interim che dovrebbe recarsi dalla Regina per ricevere formalmente l’incarico. Buio totale su chi potrebbe essere il prescelto. Le prospettive fosche oltremanica non sono mai buone notizie per il Continente.

Tottenham, allenamento al parco. Mourinho: "Chiedo scusa, ho sbagliato". Il tecnico portoghese è stato pizzicato nella zona nord di Londra mentre dirigeva una mini sessione con alcuni giocatori. La Repubblica l'8 aprile 2020. Da un uomo attento a qualsiasi dettaglio come Mourinho, uno scivolone simile davvero non ce lo si aspettava. Il tecnico portoghese è stato infatti pizzicato mentre dirigeva una mini sessione di allenamento ad Hadley Common (un parco nella zona nord di Londra) con alcuni giocatori del Tottenham. Peccato che le autorità britanniche permettano l'attività fisica all'aperto soltanto in presenza di un membro familiare e con una distanza sociale di almeno due metri, direttiva non rispettata dai tesserati degli Spurs.

Nota club: "Ribadiremo importanza distanziamento". I giocatori presenti al parco erano Aurier, Ndombele, Sanchez, Sessegnon e, come riporta il Daily Mail, durante una corsa non c'era la distanza minima per evitare rischi di contagio del covid-19. Facile immaginare come il Tottenham non abbia gradito questo comportamento. Non a caso la società londinese ha immediatamente diffuso una nota in cui rimarca di rispettare le norme: "A tutti i nostri tesserati è stato ribadito di rispettare il distanziamento sociale quando fanno attività all'aperto. Continueremo a rinforzare questo messaggio". Questo episodio arriva dopo le polemiche legate al party di Walker, terzino del City, beccato con due prostitute e all'invito del capitano dell'Aston Villa, Grealish, di restare a casa, salvo poi rimanere coinvolto in un incidente d'auto dopo una festa notturna. Certamente non l'esempio migliore in un periodo così drammatico.

Le scuse di Mou: "Mia azione sbagliata". "Riconosco che le mie azioni non erano in linea con il protocollo governativo - arriva successivamente l'ammissione di colpa di Mourinho -. Dobbiamo limitare i contatti ai membri delle nostre famiglie. E' vitale che noi tutti facciamo la nostra parte nel seguire le indicazioni del governo, per sostenere gli eroi del servizio sanitario nazionale che stanno salvando vite umane".

Da corrieredellosport.it l'8 aprile 2020. Stanno facendo discutere le immagini catturate martedì da alcuni passanti, in cui si vedono immortalati i giocatori del Tottenham, compreso il tecnico José Mourinho, intenti ad allenarsi all'aperto. Il portoghese e alcuni membri degli Spurs sono stati infatti sorpresi troppo vicini, senza rispettare le regole del distanziamento sociale obbligatorio disposte nel Regno Unito per via della pandemia del coronavirus. La norma prevede che tutte le persone debbano restare a due metri di distanza l'una dall'altra in ogni momento e che l'esercizio all'aperto possa essere fatto in coppia solo ed esclusivamente insieme a una persona convivente. Dalle immagini, però, è evidente che Mourinho e la sua squadra non stiano seguendo le disposizioni di sicurezza. Dalle foto si può vedere il lusitano insieme a Davinson Sanchez, Ryan Sessegnon e Tanguy Ndombelé. E a queste foto si sono aggiunti anche dei video: uno direttamente postato su una story di Instagram da Aurier, che si è ripreso correndo insieme a un amico, e un altro invece (girato da un video amatore) in cui si vedono Davinson Sanchez e Ryan Sessegnon lavorare fianco a fianco. Un portavoce del Tottenham ha commentato: "A tutti i nostri giocatori è stato ricordato che devono rispettare le distanze sociali quando si esercitano all'aperto. Continueremo a rafforzare questo messaggio".

"Io, italiana a Londra. Ora sogno la carbonara e non trovo neanche un chilo di farina". Il passaggio dal "non preoccupatevi" al lockdown. Il lavoro nel settore della ristorazione perso a causa dell'emergenza. E l'indecisione sul tornare o meno a casa. Ci scrive una lettrice dalla capitale inglese. Federica Fedeli il 16 aprile 2020 su L'Espresso. Questa testimonianza di un italiano all'estero è stata raccolta grazie alla collaborazione di Giovani Italiani nel mondo. Ciao amici, Vivo qui dal 2013 ormai, trasferita a 18 anni e alla fine tra una cosa e un altra, dopo aver lavorato come cameriera mentre studiavo comunicazione e pubbliche relazioni sono qui da praticamente 7 anni, lavoro in un ufficio stampa che si occupa di ristoranti, hotel e brands e c’è da dire che la ristorazione è stato il primo settore, almeno qui a Londra, veramente colpito dal COVID. Siamo quasi alla fine della seconda settimana di "lockdown" e il peso di stare a casa si comincia a fare sentire. Sembra una vita fa quando le mie colleghe (tutte inglesi) continuavano a dire "non è niente, non preoccupiamoci troppo" mentre io piangevo pensando a mia nonna di 84 anni chiusa in casa da sola senza poter andare al suo amatissimo cinema o a comprarsi le polpette. Sembra passata una vita dal non è niente, dall’immunità di gregge, dal preparatevi a perdere i vostri cari... a Boris Johnson che chiude tutti i ristoranti e io che mi ritrovo in meno di una settimana in "unpaid leave" continuandomi a chiedere se tornare a casa o rimanere a Londra con le mie coinquiline. Sembra passata una vita da quando tutte le mattine mi svegliavo alle 7.30 per andare in ufficio, prendevo la metro, alle 6 mi fermavo al Pub a bere una birra o provavo un nuovo ristorante. Adesso il ristorante è la cucina del nostro flat a Streatham dove non si trova più 1 chilo di farina per fare un po’ di pizza. Casa (Roma) non è mai sembra così lontana e anche se gli aerei continuano a volare, prendere una decisione sul da farsi è sempre più difficile. Sono sicura che quando tornerò a casa, magari a quarantena finita, la carbonara avrà un sapore più buono, l’abbraccio di mamma e papà sarà più speciale e il sorriso delle mie amiche ancora più contagioso. Vedi caro amico cosa si deve inventare. Per poterci ridere sopra, Per continuare a sperare. Federica, 25, Londra

"Io italiano a Londra. Dove ci si è mossi in ritardo e il governo pensa ancora alla Brexit". Il Regno Unito ha finalmente applicato le misure di contenimento del virus, dopo aver sottovalutato la sua pericolosità. Tra queste, il salario garantito per chi non può lavorare. Ma l'esecutivo non vuole che la pandemia rallenti il processo di uscita dall'Europa. Gabriele Lignani il 27 marzo 2020 su L'Espresso. Cara Italia, Vivo a Londra con mia moglie Dora da sei anni e fino ad ora non mi era mai capitato di sentire l’Italia così lontana e fragile, senza avere la possibilità di tornare per essere d’aiuto o anche solo per essere li con le persone a me care. Non avrei mai pensato di trovarmi in isolamento a casa per una terribile pandemia che sta affliggendo la nostra società moderna. Soprattutto in un paese straniero, sapendo amici e famigliari preoccupati (giustamente), e isolati nella mia Italia. La situazione COVID-19 qui nel Regno Unito è ancora in una fase iniziale rispetto all’Italia (2 settimane di ritardo stimate relativamente al numero di casi positivi), ma ovviamente ascoltando e seguendo quello che sta accadendo in Italia, si può già prevedere la molto probabile progressione della pandemia anche qui. Io mi sono isolato a casa da una settimana (uscendo solo per motivi essenziali quali la spesa) tenendo le dovute misure precauzionali suggerite dagli esperti nel settore epidemiologico. Ho chiuso il mio laboratorio (come tanti hanno fatto, ancora prima delle direttive universitarie) lasciando la libertà alle persone nel gruppo di poter raggiungere i loro cari e i loro paesi di origine nel caso avessero voluto. Sono sorpreso positivamente delle misure prese a livello delle singole Università che, ancora prima delle linee guida del governo, avevano già messo in atto politiche di smart working e di riduzione del flusso di personale negli edifici (come per esempio la sospensione delle lezioni), fino alla chiusura completa degli edifici e della ricerca per poter dedicare le risorse e personale all’emergenza internazionale per contrastare la pandemia. Sebbene inizialmente le dichiarazioni di Boris Johnson e dei suoi consulenti siano state a dir poco discutibili, non scientificamente robuste (vedi immunità di gregge), e molto pericolose visto quello che è successo in Cina, Sud Corea e Italia, la tradizione nazionale inglese di seguire linee guida dettate dalla Scienza per questioni medico sanitarie è stata poi per fortuna nuovamente alla base delle direttive governative (uno su tutti il modello predittivo ottenuto dall’Imperial College). A conti fatti il Regno Unito ha attuato le misure di contenimento relative al social distancing e la chiusura di ristoranti, pub, bar, musei e altri posti di aggregazione una settimana prima rispetto all’ Italia (relativamente ai numeri di casi positivi per COVID-19), mentre la chiusura delle scuole è arrivata con una settimana di ritardo. Sicuramente le misure di contenimento del virus dovevano essere attuate prima, ma probabilmente l’orgoglio britannico di non voler cedere a misure troppo restrittive alla libertà personale e il potenziale danno economico della vicenda, hanno ritardato pericolosamente la messa in atto di vere e decise misure. Allo stesso tempo, al momento dell’attuazione, le norme sono state supportate da robuste misure sociali ed economiche per sostenerle (inaspettatamente per il sottoscritto, e tutte da verificare a lungo termine). Un esempio è la chiusura delle attività di ristorazione in parallelo a ingenti misure di protezione dei posti di lavoro per i dipendenti (80% salario garantito dal governo) e per le attività imprenditoriali. Inoltre si è avuto anche il tempo nelle scorse settimane di potenziare il livello del sistema sanitario nazionale (carente in infrastrutture per questa emergenza) e di poter allertare e istruire i medici per quello che avverrà nei giorni a venire. Dal punto di vista sociale hanno, per esempio, avvertito gli anziani e le persone con problemi di salute di restare a casa per 12 settimane, ma in parallelo hanno anche reso disponibili servizi di spesa online dedicati e un orario protetto per la spesa nei supermercati. Il sistema sanitario nazionale (National Health System, NHS) è sempre stato l’orgoglio dei cittadini inglesi (nonostante i recenti problemi legati alla mancanza di fondi) e, più importante, le persone che lavorano per esso (tra cui mia moglie) sono sempre state considerate con riguardo dalla politica e dalla popolazione (ieri sera ci sono stati applausi alla finestra sincronizzati in tutto UK per ringraziare il personale al lavoro negli ospedali). Per questo motivo molti negozi stanno facendo sconti e promozioni per i dipendenti dell’NHS, e anche i supermercati hanno delle fasce orarie per fare la spesa dedicate solo a loro. Obbiettivamente il governo sta facendo qualcosa (meno male) sia a livello sociale, sanitario e sia a livello economico per trovarsi pronto quando la situazione andrà a peggiorare. Se questo sarà abbastanza nel momento del picco pandemico è difficile da prevedere. Grazie al loro forte senso civico, la popolazione sembra si stia rendendo conto finalmente del pericolo anche qui, anche se per esempio nei supermercati e nelle farmacie le regole di distanza sono entrate in vigore da pochissimo. Camminando per le strade si nota che le persone cercano di evitare contatti ravvicinati ma pochi giorni fa non essendoci una propria legge effettiva non tutti sono stati così sensibili da interpretare correttamente i suggerimenti del governo. Ad oggi multe salatissime (all’inizio si parlava solamente di 30 sterline di multa) sono previste per i trasgressori. Mi immagino, e auguro, che misure sempre più aspre siano introdotte a breve perché altrimenti una massiva diffusione del virus sarà inevitabile. Londra, ancor di più, con i suoi 10 milioni di abitanti provenienti da tutto il mondo e con la caratteristica di essere sempre “sveglia”, potrà subire le ripercussioni maggiori senza regole stringenti. Anche perché i mezzi pubblici sono stati diminuiti drasticamente, ma molte persone vanno ancora a lavorare creando degli scenari pericolosissimi nelle poche metro presenti. In tutto questo, la sempre più vicina Brexit sarà un’altra surreale situazione a cui dovremo partecipare, anche perché Boris Johnson ha già chiaramente avvertito che non vuole ritardi ulteriori per uscire dall’Europa. Nemmeno questo pericolo mondiale, in cui la collaborazione internazionale sarà alla base di un finale positivo e della messa in atto di misure preventive per scongiurare nuove pandemie, è riuscito a far rinsavire il governo da questa assurda linea politica. Addirittura oggi sembra che l’UK abbia rifiutato (o mancato la scadenza) aiuti Europei per ricevere ventilatori extra, con conseguente imbarazzo del governo nei confronti della popolazione. Si preannunciano mesi bui per questo paese. Il mio dispiacere per l’Italia è che si è trovata in prima linea in questa pandemia non essendo per niente preparata. E nonostante ciò sta combattendo con tutte le sue forze e con lo sforzo immenso del personale medico e di assistenza (dopo tagli immensi negli ultimi anni) che ha fatto ritrovare uno spirito di unità nel paese ultimamente minato da inutile razzismo e “guerra” sociale. A mio parere il problema maggiore dovuto all’impreparazione, a parte il sistema sanitario al collasso, sarà a livello economico e sociale una volta finita (e finirà) questa emergenza sanitaria. Pensandoci bene questa situazione era difficile da prevedere anche per i più accaniti complottisti, ma sicuramente ci aiuterà a essere più preparati in futuro non solo a livello locale ma internazionale. Ho sempre pensato di voler tornare in Italia ad un certo momento della mia vita, non sono ancora sicuro di quando ma succederà sicuramente. La mancanza di quel senso di felicità nel gustare i sapori e assaporare l’odore del mare (di Genova) che hanno segnato la mia vita per più di 30 anni, si fa sempre sentire. Forse l’attuale situazione mi ha fatto venire ancora di più nostalgia di casa (quella vera) e mi ha fatto pensare più concretamente a tornare. Mi sono trasferito qui per poter fare il lavoro che mi piace, un lavoro in cui l’esperienza maturata in altri paesi è fondamentale ma spero che l’Italia si rialzi presto da questa situazione e che ci siano nuove e stimolanti opportunità per poter tornare ad esercitare la mia professione nel mio paese. Sicuramente non vorrei ritrovarmi in una situazione simile in futuro, ancora una volta lontano da casa.

Gabriele Lignani, 37 anni, di Genova, è un Ricercatore in Neuroscienze all’University College London, dove coordina un gruppo di ricerca che sviluppa nuove terapie geniche per malattie neurologiche.

DAGONEWS il 26 marzo 2020. Con la situazione che precipita di ora in ora, la Gran Bretagna è a caccia del paziente zero, colui che ha portato per primo il coronavirus nel Paese. Adesso i giornali si sono concentrati su Daren Bland, 50 anni, di Maresfield, nell'East Sussex, che ha raccontato al Telegraph di essere stato male a gennaio dopo il suo ritorno dalla località sciistica di Ischgl, l’Ibiza delle Alpi, che nelle scorse ore è stato individuato come uno dei focolai del coronavirus. Daren ha raccontato di essere tornato dalla vacanza con alcuni amici e di aver contagiato la moglie Sarah e i figli mentre  in queste ore continuano a emergere video delle feste nei resort in cui la gente si ammassava come sardine. Bland era lì dal 15 al 19 gennaio insieme a tre amici, due danesi e un uomo del Minnesota: tutti hanno avuto la febbre al rientro.  «Siamo stati al Kitzloch che era strapieno di gente che cantava e ballava sui tavoli. Persone accaldate e sudate si muovevano a stento nel locale mentre i camerieri si facevano spazio per servire centinaia di drink. Non potresti trovare una casa migliore per un virus. Sono stato malato per 10 giorni. Non riuscivo ad alzarmi, non riuscivo a lavorare, ero senza fiato». Tuttavia Bland e la sua famiglia non sanno se hanno contratto il virus perché non hanno fatto il tampone. Adesso si sottoporranno a tutti gli esami del caso per capire se avevano contratto il coronavirus. Ufficialmente il primo caso registrato nel Regno Unito è stato il 31 gennaio, ma adesso si attendono i risultati sulla famiglia.

Coronavirus, "Una scusa per gli italiani per non fare niente": il commento infelice di un presentatore britannico. Lui è Christian Jessen, medico e presentatore di programmi "spazzatura". La battuta inopportuna l'ha pronunciata premettendo che può  "essere un po' razzista". Di Maio: "Qualcuno ha confuso la pandemia con uno show". Enrico Franceschini il 13 marzo 2020 su La Repubblica.  "Il coronavirus? Una scusa degli italiani per prolungare la loro siesta". Un commento a dir poco vergognoso, specie davanti a 15mila malati e oltre mille morti nel nostro Paese, quello del dottor Christian Jessen, 43enne medico britannico, scrittore e presentatore televisivo di show stile tabloid, come "Embarassing  bodies" (Corpi imbarazzanti) e "Supersize vs Superskinny" (Supergrassi contro supermagri). Ha anche prodotto e narrato un documentario intitolato "Cure me, I am gay" (Curatemi, sono gay), su presunte terapie per "curare l'omosessualità". Che le sue parole siano imbarazzanti è lui stesso ad ammetterlo, durante l'intervista radiofonica alla rete Fubar, secondo quanto riporta il quotidiano Independent: "Quello che dico potrebbe essere un po' razzista, e mi toccherà scusarmi, ma non pensate che il coronavirus sia un po' una scusa? Gli italiani, sappiamo come sono, per loro ogni scusa è buona per chiudere tutto, interrompere il lavoro e fare una lunga siesta". Usa proprio il termine spagnolo, "siesta", diffuso anche in inglese, alludendo a un prolungato riposino pomeridiano, ovvero nelle ore lavorative. A quel punto il conduttore gli domanda se è d'accordo con la decisione di Boris Johnson di ritardare la chiusura delle scuole. "Concordo in pieno", risponde il dottor Jessen. "Penso che sia un'epidemia vissuta più sulla stampa che nella realtà. In fondo anche l'influenza uccide migliaia di persone ogni anno". Il che è vero: le vittime della normale influenza sono circa 8mila l'anno soltanto in Gran Bretagna. Ma a parte che il coronavirus a detta di medici e scienziati non sembra una "normale" influenza, l'intervistatore gli fa notare che comunque già 10 persone sono morte nel Regno Unito per l'infezione arrivata dalla Cina. "Lo so, è tragico per le persone coinvolte, ma non si tratta di grandi numeri. Non colpisce le madri, non riguarda le donne incinte, e nemmeno i bambini per quanto sappiamo, perciò perché questo panico di massa? Diciamo la verità, è solo un brutto raffreddore. Non è una vera epidemia, o meglio, ovviamente lo è, ma ci preoccupiamo troppo. Beh, spero di non dovermi rimangiare queste parole!" Laureato in medicina al prestigioso University College London, il dottor Jessen ha una specializzazione proprio alla London School of Hygiene & Tropical Medicine, la facoltà che studia i nuovi virus. Esercita tuttora la professione di medico presso una clinica privata di Harley Street a Londra, anche se il suo principale mestiere è diventato fare la star delle tivù sensazionale. Questa sera è arrivata, sulla sua pagina Facebook, la reazione del ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio: “Qualcuno ha confuso il coronavirus per uno show. E personalmente provo imbarazzo per queste persone. Dopo l’insulto alla pizza italiana (su cui poi sono arrivate le scuse della tv francese), ora arriva l’ultimo dei conduttori televisivi, tale Christian Jessen, inglese, già noto per i suoi programmi di grande approfondimento culturale come “Malattie imbarazzanti”... Questo straordinario statista, in merito all’emergenza che stiamo vivendo, ha detto che 'gli italiani usano delle scuse per chiudere tutto e smettere di lavorare per un po’, per avere una lunga siesta'. Io non lo commento nemmeno. E stavolta, sono sincero, non ci servono nemmeno le scuse, ancor meno le sue. È un piccolo uomo, lasciamolo alle sue farneticazioni e guardiamo avanti. Con dignità, come abbiamo sempre fatto”.

Eleonora D'Amore per fanpage.it il 24 marzo 2020. Era lo scorso 13 marzo quando il dottor Christian Jessen, medico e conduttore del programma inglese Malattie imbarazzanti, affermò che gli italiani stavano usando la pandemia di coronavirus come scusa per avere una "lunga siesta", riconoscendo che i suoi commenti potevano sembrare "un po' razzisti". A pochi giorni da quella frase infelice, arriva il suo commento sui social, nel quale si scusa per aver offeso l'Italia e chiunque stia affrontando questo momento di forte sofferenza: Per quanto riguarda i miei commenti sull’epidemia di coronavirus in tutto il mondo e la situazione dell’Italia: Ho sbagliato, lo ammetto. Ho cercato di sdrammatizzare il panico. Tuttavia, col senno di poi riconosco che la mia osservazione era insensibile e devo scusarmi per qualsiasi turbamento io abbia causato. Capisco perché sia stato offensivo e spero possiate perdonarmi. Come medico, il mio lavoro è essere onesto e cercare di portare luce nella vita delle persone. Vorrei assicurarvi che i miei pensieri sono rivolti a tutti coloro che sono colpiti dal virus e a coloro che stanno lavorando duramente per aiutare tutti a superare questo momento difficile. Infine, al momento non sto usando molto i social media, quindi tenete presente che forse non vedrò le vostre risposte. Ripeto che adesso non userò i social media perché sto lottando con la mia salute mentale e Twitter non è sempre il posto migliore dove trovarsi in tali circostanze. Tornerò quando starò meglio.

DAGONEWS il 21 marzo 2020. Noncuranti delle regole e del rischio contagio, centinaia di cittadini britannici sono andati a ubriacarsi nei pub del Regno per l’ultima volta: da oggi infatti entrano in vigore le nuove norme decise ieri da Boris Johnson, che dopo aver minimizzato l’epidemia ora è costretto a prendere misure ‘italiane’. Tutti i bar, i ristoranti e le palestre saranno chiuse. E il popolo ha risposto con il panico, affollandosi nei locali per l’ultima sbronza e assaltando i supermercati in cerca di alcol.

Da "tg24.sky.it" il 25 marzo 2020. Le indicazioni del governo di Boris Johnson sull'allerta coronavirus sono cambiate drasticamente, con l'ordine di lockdown generale nel Regno Unito di ieri sera; ma la testa di numerosi londinesi ancora no. Lo confermano le immagini di stamattina di alcune linee della 'tube', la popolare e tentacolare metropolitana della capitale britannica, affollate di gente nei tradizionali orari di punta malgrado la direttiva del premier di restare a casa salvo limitatissime eccezioni. Molte foto sono rimbalzate sul web, fra commenti di sdegno, di sorpresa, ma anche d'ironia. Critiche al sindaco Khan: "Ha ridotto le corse". Ironia fuori posto, avverte il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ricordando che i trasporti pubblici vanno usati solo da chi si deve spostare per motivi di lavoro davvero indispensabili e non puo' lavorare da casa. Altrimenti ci saranno "più persone che moriranno", ammonisce. Fra i passeggeri c'è chi lamenta tuttavia come la riduzione del numero di treni, servizi e stazioni disponibili decisa fin dai giorni scorsi dallo stesso Khan stia contribuendo ad accrescere l'affollamento invece che scoraggiarlo.

Alfonso Bianchi per “la Stampa” il 25 marzo 2020. Boris Johnson potrebbe presto ritrovarsi ad essere figlio di un «mangia rane», un francese, così i britannici chiamano scherzosamente i loro vicini d' oltremanica (che a loro volta li chiamano rosbifs, da roast beef, il piatto tipico britannico della domenica). Stanley Johnson, suo padre, ha avviato la pratica per ottenere un secondo passaporto per non perdere i diritti legati all' appartenenza dell' Unione europea. L' uomo, anche lui politico conservatore, eurodeputato dal 1979 al 1984, a differenza di suo figlio è stato un acceso sostenitore del Remain nel referendum del 2016. Il tema della Brexit ha diviso profondamente la famiglia Johnson, con l' attuale premier che è stato l' unico sostenitore del divorzio. Anche suo fratello Jo e sua sorella Rachel avrebbero invece voluto restare nella grande famiglia comunitaria. Una famiglia divisa Lo scorso settembre Jo addirittura lasciò il posto di ministro junior all' Economia nel governo guidato da suo fratello Boris, parlando di una «tensione irrisolvibile» tra la lealtà verso la famiglia e l' interesse nazionale. «È meglio che altri assumano il mio ruolo di deputato e ministro», scrisse su Twitter nel rendere pubblica la sua decisione. Con la Brexit ormai alle porte (pandemia di coronavirus permettendo), adesso Stanley ha chiesto di diventare cittadino francese, di prendere un secondo passaporto, sfruttando il fatto che sua madre Irene è nata a Versailles. A rivelarlo è stata sua figlia nel suo nuovo libro, «Rake' s Progress». Rachel, giornalista e scrittrice, che ha collaborato con il Financial Times ed ha diretto la storica rivista The Lady, un tempo anche lei conservatrice passò con i Liberal democratici nel 2017, in protesta contro le posizioni del suo partito sulla Brexit, e alle scorse elezioni europee si è candidata, senza successo, con Change Uk, il piccolo e sfortunato tentativo di creare una nuova formazione politica moderata con fuoriusciti dal partito dei Tory e soprattutto del Labour di Jeremy Corbyn. È stata proprio lei a settembre a tranquillizzare tutti che nonostante le dimissioni di suo fratello, e la diversità di opinioni sul tema Brexit, la famiglia restava comunque unita. «Ho spiegato ieri sera, parlando a un evento di un' associazione di beneficenza, che la famiglia evita il tema della Brexit, specialmente a tavola durante i pasti, dato che non vogliamo saltare addosso, in gruppo, al primo ministro», scherzò su Twitter.

Coronavirus, Regno Unito in lockdown. Johnson: “Vivamo la più grande minaccia da decenni”. Redazione de Il Riformista il  24 Marzo 2020. Breve e drammatico discorso televisivo da parte del Premier Boris Johnson. “Da questa sera devo dare al popolo britannico un’istruzione molto semplice: dovete stare a casa”. Il Regno Unito quindi chiude tutto, fatta eccezione per le attività necessarie. E segue l’esempio dell’Italia, nell’adozione di misure di contrasto alla diffusione del coronavirus. La giravolta di Johnson è completa. Soltanto il 13 marzo il premier si era reso protagonista di un’uscita che aveva fatto molto discutere. “Abituatevi a perdere i vostri cari”, aveva detto e poi aggiunto che il Paese avrebbe affrontato la diffusione del Covid-19 sviluppando l’immunità di gregge. Ma i numeri della pandemia devono aver fatto cambiare idea al premier e al governo e da oggi il Regno Unito è in lockdown. Nelle parole dell’ex-sindaco di Londra poca retorica, nessuna lungaggine, nessuno scivolone. “Il coronavirus è la più grande minaccia che questo paese abbia affrontato da decenni, e non siamo i soli. In tutto il mondo stiamo vedendo gli effetti devastanti di questo assassino invisibile”, ha esordito Johnson. “È fondamentale fermare la diffusione della malattia tra le famiglie. È vitale rallentare la diffusione del virus, ridurre il numero di persone che necessitano di cure ospedaliere, in modo da poter proteggere la capacità del sistema sanitario nazionale di salvare più vite umane possibile”. Quella del sistema sanitario è la questione principale dell’intervento: “Nessun servizio sanitario al mondo potrebbe farcela; perché non ci saranno abbastanza ventilatori, abbastanza letti di terapia intensiva, abbastanza medici e infermieri” e perciò “se troppe persone si ammalano contemporaneamente, il sistema sanitario nazionale non sarà in grado di curarle, il che significa che più persone rischiano di morire, non solo per il coronavirus”. Johnson ha chiesto ai cittadini di collaborare all’enorme sforzo nazionale. “Abbiamo prodotto – ha detto – un programma enorme e senza precedenti di sostegno sia per i lavoratori che per le imprese. Al momento la strada da percorrere è difficile, ed è vero che molte vite ancora saranno tristemente perse”. Da oggi saranno quindi chiusi i negozi – anche di abbigliamento ed elettronica, biblioteche, parchi giochi, luoghi di culto – che non offrono servizi o merce non essenziale; sarà concesso fare sport ma soltanto nei pressi della propria abitazione e una volta al giorno; sarà possibile uscire per assistenza medica o per prestare assistenza a una persona vulnerabile; sarà permesso il pendolarismo lavorativo qualora non dovesse essere possibile lavorare da casa; sarà possibile andare al parco per fare attività fisica ma saranno dispersi gli assembramenti. La polizia potrà sciogliere infatti i gruppi di persone e chiedere spiegazioni su comportamenti non in linea con le nuove disposizioni. Restano i collegamenti – e la cosa ha destato qualche critica – con l’estero via mare e via aerea, anche con i Paesi più colpiti dal contagio; il prossimo passo potrebbe essere quello di vietare anche quelli. Il Regno Unito, secondo dati della Johns Hopkins University & Medecine, conta a oggi 6.650 casi di contagio e 335 decessi.

Antonelo Guerrera per repubblica.it il 24 marzo 2020. Boris Johnson ha deciso: Londra e il Regno Unito da stasera sono in "lockdown", in blocco totale. Una decisione drammatica, mai vista nella storia recente del Regno Unito, "ma necessaria". Per sconfiggere il coronavirus, il governo britannico ha ora imposto misure draconiane e molto severe come quelle italiane: tutti i negozi e locali chiusi, esclusi quelli essenziali come supermercati e farmacie; libertà di movimento molto limitata, obbligo praticamente continuo di rimanere a casa; concesse brevissime uscite solo per fare la spesa, andare in farmacia o fare una corsa o una passeggiata al giorno; escluso ogni incontro in casa con persone (amici o familiari) che non abitino nella stessa abitazione; vietato ogni assembramento pubblico superiore a due persone, obbligo di lavoro da casa esclusi casi estremi e necessari; chiusi anche luoghi di culto e biblioteche. Insomma: Londra e tutto il Regno Unito sono andati ufficialmente in "lockdown", in "blocco totale". "Dovete rimanere a casa. Perché il coronavirus", ha detto stasera il premier in un discorso alla nazione da Downing Street, "è una delle sfide più grandi degli ultimi decenni. La nostra sanità pubblica, come qualsiasi altra del mondo, verrebbe travolta da questo virus. Per questo ora è vitale ridurre il contagio. Se non rispetterete le regole, interverrà la polizia, anche con multe" (si parla di trenta sterline). "Nessun primo ministro vorrebbe mai annunciare simili norme", ammette Johnson, "immagino i disagi che creeranno. Ci aspettano tempi difficili e molti purtroppo moriranno", ripete. "Ma ora non abbiamo scelta: tra tre settimane vedremo se potremo allentare qualche misura". Eppure fino a un paio di settimane fa il governo britannico, per bocca del suo massimo consigliere scientifico, aveva come "piano A" l'immunità di gregge. Ossia, far contagiare un congruo numero di residenti in Regno Unito ("circa il 60%") per evitare una seconda ondata di contagio il prossimo inverno e "stabilizzare" la pandemia. Poi è venuto lo studio dell'Imperial College che ha fatto cambiare idea non solo a Johnson, ma anche a Trump e Macron; infine, l'allarme rosso nel governo britannico per una sanità pubblica tanto lodata ma che rischia di essere sommersa dai pazienti sempre più numerosi per coronavirus. Così l'immunità di gregge è passata in secondo piano. Ora bisogna salvare solo più vite possibili. Johnson non voleva prendere delle decisioni simili. "Non nella terra delle libertà", ripeteva nei giorni scorsi. Il premier britannico ha sempre considerato il "lockdown" come extrema ratio. Ma oggi c'è stata anche una rivolta di alcuni ministri nel suo governo per adottare misure più draconiane. E lo tsunami del coronavirus sta arrivando e di certo mieterà migliaia di vittime secondo il governo e metterà sotto un'enorme pressione il sistema sanitario britannico. Quindi non c'era altra scelta. Il ministero degli Esteri ha oggi richiamato tutti i britannici: "Tornate immediatamente in patria". "I britannici affronteranno questa battaglia", ha concluso il suo discorso Johnson, "ne usciremo più forti di prima. Sconfiggeremo il coronavirus e lo sconfiggeremo insieme. Ma ora restate in casa, proteggiamo la nostra sanità pubblica e salviamo vite".

Alfonso Bianchi per europa.today.it il 24 marzo 2020. Boris Johnson comincia ad essere preoccupato. Con il numero dei nuovi casi di coronavirus, e dei morti, che nel Regno Unito si avvia a diventare presto come quello dei bollettini di guerra a cui ormai siamo tristemente abituati in Italia (al momento sono 1.546 contagiati e 25 decessi), il premier ha deciso di passare dall'appello all'ordine, seppur non coercitivo. Johnson prova ancora a non imporre la quarantena dall'alto, ad affidarsi alla disciplina dei britannici, ma sente che presto potrebbe non bastare più. Il servizio sanitario nazionale potrebbe essere “sopraffatto” come quello italiano in sole due settimane, per questo tutti devono “stare a casa”, allo scopo di “salvare letteralmente migliaia di vite”, ha detto ieri nella consueta conferenza stampa per l'aggiornamento quotidiano sull'emergenza. Il messaggio deve arrivare più forte. Anche sul podio la scritta è chiara e a caratteri cubitali: STAY HOME, PROTECT NHS, SAVE LIVES. Stai a casa, proteggi il sistema sanitario, salva vite. Per provare a far capire la gravità della situazione fa l'esempio dell'Italia, il Paese più colpito, preso alla sprovvista da un virus che ha cominciato a mietere vittime più presto, e più in fretta, che in altre parti del mondo, e che ora sta diventando un esempio da studiare, se non da seguire. “Gli italiani hanno un sistema sanitario superbo. Eppure i loro dottori e i loro infermieri sono stati completamente sopraffatti dal numero dei casi. Il bilancio delle vittime è già di migliaia di persone e sta salendo. A meno che non agiamo insieme, a meno che non facciamo uno sforzo nazionale eroico e collettivo per rallentare la diffusione, allora è fin troppo probabile che il nostro sistema sanitario sarà ugualmente sopraffatto ”. E oggi, nel giorno della loro festa, Johnson ha chiesto di non andare a trovare le proprie mamme, per loro potrebbe essere un rischio. Il social distance tocca anche gli affetti familiari. Per questo il premier ha chiesto di accelerare l'applicazione di questa pratica, di stare almeno a due metri di distanza dagli altri per strada. Le strade del centro sono già quasi completamente deserte. Il London Bridge sembra sempre più quello della scena iniziale di “28 giorni dopo” di Danny Boyle, quando il protagonista Jim si risveglia dal coma in ospedale e trova la capitale britannica deserta. Ma nei quartieri periferici la gente continua ad affollare le strade e i parchi. Si vedono molte più mascherine ma in strada ci sono ancora troppe persone, mentre nei supermercati c'è sempre meno roba. Gli scaffali vengono saccheggiati ormai quotidianamente da una popolazione che si prepara al peggio. Negli ospedali intanto fervono i preparativi per il picco: reparti riconvertiti, ospedali da campo, patti con il servizio sanitario privato e pensionati richiamati in servizio. Ma anche qui, come in Italia, i medici cominciano a denunciare la mancanza di Dpi, i dispositivi di protezione individuale, mascherine e guanti in primis. E siamo appena all'inizio della crisi. Ma il Paese sembra voler fare la sua parte. Il segretario di Stato alla Salute, Matt Hancock, ha annunciato che a seguito della chiamata alle armi dei pensionati (ovviamente quelli recenti, non certo i 70enni e più che sono categorie a rischio), ben 4mila infermieri e 500 medici si sarebbero detti disposti a tornare momentaneamente al servizio sanitario nazionale nelle prime 48 ore. Alcuni di loro potrebbero dover solamente rispondere all'111, il numero di emergenza, e fare diagnosi telefoniche, la prima scrematura dei casi insomma. Ma così liberano energie necessarie negli ospedali, dove cominciano ad arrivare i primi allarmi e la paura del sovraffollamento. Anche tra i cittadini si moltiplicano le iniziative di solidarietà. Nelle cassette della posta arrivano volantini con i contatti di volontari disposti a portare la spesa, ed eventualmente medicine, ad anziani e malati in quarantena. Ma tutto questo potrebbe non bastare, l'impressione è che le maniere forti potrebbero presto essere necessarie, soprattutto a Londra, la capitale di oltre 10 milioni di abitanti, che sarà l'epicentro dell'epidemia, il focolaio più forte. La Wuhan britannica. “Il mio messaggio è semplice: la vita è cambiata, dobbiamo fare le cose in modo diverso per un po' di tempo. L'interazione sociale porta alla diffusione della malattia, porta alla morte delle persone. Non dovete uscire di casa a meno che non sia veramente necessario”, ha detto il sindaco Sadiq Khan, laburista. Insieme ai conservatori il partito guidato ancora, ma momentaneamente, da Jeremy Corbyn, sta ha affrontato la situazione fin dall'inizio con un grande spirito di unità nazionale. Zero polemiche, solo critiche, ma composte, quando ritenuto necessario. Ed è proprio Khan a fare la voce dura, ma non con il governo (che non farebbe abbastanza secondo tanti), ma con i suoi concittadini. “È davvero importante che la polizia si concentri sulle priorità che ha, tra cui contrastare i crimini violenti e altre questioni, ma chiaramente, se le persone continueranno ad agire in un modo che porta alla diffusione di questa malattia, allora dovranno essere prese in considerazione altre misure”. L'avvertimento è chiaro.

Londra teme una curva italiana: i casi crescono più che a Bergamo. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Ora Boris Johnson comincia a preoccuparsi: e avverte che la Gran Bretagna rischia uno scenario italiano se la gente non se ne sta a casa. «I numeri sono molto netti e stanno accelerando - ha detto il premier britannico in un drammatico intervento sabato sera -. Siamo solo qualche settimana, due o tre, indietro rispetto all’ Italia. Gli italiani hanno un sistema sanitario eccezionale. E tuttavia i loro medici e infermieri sono stati completamente travolti: il loro conto dei morti ha raggiunto le migliaia e continua ad aumentare». Cosa ha spinto Johnson a cambiare i toni? Ci sono dei grafici che raccontano una realtà inequivocabile: la curva di crescita dei decessi in Gran Bretagna sta salendo più rapidamente di quella italiana. In particolare Londra, epicentro della crisi, registra un tasso di aumento dei contagi superiore a quello di Milano o di Bergamo. In tutto il Paese le persone infettate sono oltre cinquemila e ieri pomeriggio i morti avevano raggiunto quota 281. E allora Boris fa appello a tutti a «stare a casa» per salvare «letteralmente migliaia di vite». «A meno che non agiamo assieme - ha concluso il premier - a meno che non facciamo uno sforzo nazionale, eroico e collettivo, per rallentare la diffusione - allora è del tutto probabile che il nostro sistema sanitario sarà travolto allo stesso modo» di quello italiano. È per questo che Boris ha invitato i connazionali a non andare a far visita ai genitori in occasione della festa della mamma, che in Gran Bretagna si celebrava ieri: «Il miglior regalo che possiamo fare alle nostre madri - ha scritto sul Sunday Telegraph - è risparmiare loro il rischio di contrarre una malattia molto pericolosa». Purtroppo però i britannici non sembrano ancora aver assimilato il messaggio. Ieri, approfittando dell’ assaggio di primavera, hanno riempito spiagge e parchi: il lungomare di Brighton, così come quello di Bournemouth, appariva affollato come sempre, mentre a Londra tanta gente passeggiava negli spazi verdi o si accalcava al mercato dei fiori di Columbia Road. Sono soprattutto i giovani quelli che non sembrano darsene per inteso, mentre agli ultra-settantenni e a un milione e mezzo di persone con patologie gravi è stato ordinato di non uscire di casa per i prossimi tre mesi (e il governo ha messo in campo l’ esercito per portare loro cibo e medicine). Il problema è che la Gran Bretagna è ancora molto lontana dall’ adottare misure drastiche sull’ esempio dell’ Italia. È vero che da venerdì sono state chiuse le scuole, così come tutti i luoghi di svago - dai pub ai ristoranti, dai cinema ai teatri, dalle palestre ai musei - ma non sono state imposte limitazioni ai movimenti delle persone: si incoraggia il lavoro da casa e si invita a rispettare la «distanza sociale», cioè a non affollarsi e a evitare contatti inutili, ma non sono stati imposti divieti specifici. Anche se, di fronte alla «disobbedienza incivile», non si sa quanto potranno reggere. Intanto, un altro problema che sta emergendo è quello delle scorte alimentari: infuria la corsa all’ accaparramento nei supermercati, tanto che in tre settimane i britannici sono riusciti a fare incetta di cibo per il valore di un miliardo di sterline. In molti negozi gli scaffali sono vuoti: a Londra non si trova carta igienica, pasta o riso e dopo la chiusura dei pub ha cominciato a sparire pure la birra. Ha fatto il giro del web e delle tv il video di una infermiera in lacrime che a fine turno non riusciva a trovare da mangiare: e perfino l’ arcivescovo di Canterbury ha lanciato un appello alla moderazione. Ma finora è rimasto inascoltato.

Coronavirus, Johnson si arrende e chiude tutto: «Fuori solo per cibo, medico o sport». Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Alla fine Boris Johnson si è dovuto arrendere. La Gran Bretagna chiude: come l’Italia. Da oggi restano in funzione solo i negozi alimentari e le farmacie: ma soprattutto si potrà uscire solo per i bisogni essenziali, come cibo o medicinali. Per il resto, tutti a casa. La svolta è stata annunciata in tv con un drammatico messaggio alla nazione del primo ministro: «Abbiamo l’obbligo di combattere insieme, sarà dura ma ce la faremo». A determinarla, la constatazione che i britannici non stavano seguendo il consiglio di limitare al massimo i contatti: domenica, complice il sole, la gente aveva affollato parchi, spiagge e mercati.Da oggi tutto questo finisce. Si potrà uscire solo per procurarsi beni di prima necessità (e con parsimonia); si è autorizzati a fare esercizio fisico all’aperto, ma un volta al giorno e da soli. Niente visite ai familiari o agli amici. Solo i lavoratori essenziali potranno andare in ufficio o in fabbrica, gli altri svolgeranno i loro compiti a distanza. La scorsa settimana Johnson aveva già chiuso le scuole e i luoghi di aggregazione, dai pub ai ristoranti, dai cinema ai musei. Ma non era sufficiente: la curva dei contagi e dei decessi cresceva a un ritmo «italiano», se non peggiore. Di qui la serrata totale: la polizia avrà il potere di disperdere gli assembramenti e fare multe ai cittadini riottosi. Per Boris Johnson è una resa. Lui all’inizio aveva sperato di non dover seguire la strada degli altri Paesi europei: il premier britannico è al fondo un liberale — anzi, un libertario, «sono contrario al divieto dì alcunché», aveva detto una volta in passato — e dunque l’idea di sbarrare la società andava contro i suoi istinti più profondi. Ancora dieci giorni fa i suoi consiglieri scientifici avevano affacciato l’idea dell’immunità di gregge per rallentare la diffusione del virus: ma poi la situazione ha cominciato a precipitare. I ricercatori dell’Imperial College hanno presentato proiezioni in base a cui la Gran Bretagna rischiava 500 mila morti. E allora la strategia di affidarsi ai consigli e al buon senso della gente non ha retto alla prova. Boris spera ancora che questa situazione sia temporanea: le misure annunciate ieri sera dovrebbero restare in vigore per tre settimane. Ma ormai forse non ci crede neppure lui: la Gran Bretagna è entrata in una situazione che non aveva conosciuto neppure durante la Seconda guerra mondiale. E non sa quando e come ne uscirà.

Coronavirus, il Regno Unito chiude pub, bar e ristoranti. Da tgcom24.mediaset.it. A seguito di un accordo raggiunto tra le quattro nazioni di cui si compone il Regno Unito, tutti i pub, bar e ristoranti del Paese chiudono dalla sera del 20 marzo per l'emergenza coronavirus. Lo ha annunciato il premier Boris Johnson. E' stata disposta la chiusura anche di discoteche, teatri, palestre, cinema e locali d'intrattenimento. Lo stop viene imposto in tutto il Paese e a tempo per ora indeterminato, anche se il governo s'impegna a rivedere la misura restrittiva di mese in mese. Al contempo il premier ha confermato di non voler al momento immobilizzare il sistema dei trasporti, peraltro in via di severa riduzione a Londra, né bloccare i servizi a domicilio. Johnson ha indicato la necessità di un'ulteriore stretta "nell'interazione sociale", annunciando aiuti molto estesi ai lavoratori e al business, ma insistendo che "le persone" e la loro salute "vengono prima" dell'economia. Sconsigliati pure i raduni in case che il premier ha peraltro ammesso di non potere o voler controllare. Governo garantisce 80% degli stipendi Il cancelliere dello Scacchiere, Rishi Sunak, ha promesso che il governo garantirà il pagamento dell'80% dello stipendio fino a 2500 sterline al mese a tutti i dipendenti britannici costretti a casa dal coronavirus. "Per la prima volta nella nostra storia" lo Stato interverrà per contribuire a redditi e salari, ha detto Sunak nella quotidiana conferenza stampa del premier Boris Johnson, annunciando anche un congelamento dell'Iva fino al 30 giugno (30 miliardi), aiuti alle imprese e incrementi allo schema del credito universale.

ALFONSO BIANCHI per lastampa.it il 21 marzo 2020. Gli italiani nel Regno Unito, non tutti ovviamente, ma molti, moltissimi, non si fidano di Boris Johnson e della sua maniera di affrontare l'epidemia di coronavirus che si sta avviando vero il suo picco, e stanno per questo cercando di tornare a casa. Molti hanno paura che davvero il premier possa tirare troppo la corda e mettere in pericolo la sua stessa popolazione, altri non vogliono restare in quarantena in una nazione che non sentono la propria o comunque nella quale presto rischiano di perdere il lavoro. Le ragioni sono tante, avere il cuore e la mente in Italia causa confusione in chi si trova all'estero. Fatto sta che Alitalia per far fronte alla forte richiesta ha aggiunto dei voli sulla tratta da Londra a Roma. Il primo disponibile sul sito è per domenica 22 e costa 200 euro. Il Regno Unito non è «zona rossa» e chi ha ancora la residenza in Italia può quindi tornare. Fino a quando sarà permesso volare su questa tratta ovviamente non si sa, le certezze non ci sono, si vive alla giornata. L'ambasciata del nostro Paese è stata tempestata di telefonate e email di persone che volevano capire se era possibile tornare dai propri cari e in che modo. In tanti scrivono su Facebook o Twitter. «Da venerdì abbiamo ricevuto circa settemila telefonate e diecimila email. Stiamo cercando di rispondere a tutti», ha spiegato l'ambasciatore italiano a Londra, Raffaele Trombetta, in un messaggio su YouTube in cui spiega come fare a tornare a casa, e cosa fare appena si arriva. Per il momento tornare è ancora permesso, si arriva all'aeroporto di destinazione con l'autocertificazione per muoversi, e ci si va a mettere in quarantena. È una scelta sofferta. In Italia c'è tanta paura e queste persone temono di sentirsi trattare da untori. E temono anche per i propri cari ovviamente, la percezione di molti è che ormai chiunque vive in Gran Bretagna sia infetto. Le cose ovviamente non stanno così ma le notizie che arrivano tramite i giornali, ma soprattutto tramite il passaparola sui social, non sono rassicuranti. La polemica sulla famosa ricerca dell'immunità di gregge ha fatto credere a tanti che il governo di Londra sarebbe addirittura disposto a sacrificare centinaia di migliaia di vite, in realtà si è trattato di una esagerazione e ora Johnson ha fatto dietro front e sta cominciando a introdurre, seppur gradualmente, misure di distanza sociale. Ultra 70enni e persone a rischio in quarantena, a tutti gli altri si chiede di evitare i contatti sociali “non necessari”, e di mettersi in quarantena da soli in caso di sintomi simili a quelli del Covid-19. Scuole chiuse, metro a corse ridotte, eventi pubblici annullati. Ma per molti non basta. Anche Fabio Cannavaro ha raccontato nei giorni scorsi di aver fatto tornare a casa suo figlio. «Sta studiando a Londra. Ho preferito farlo rientrare a Napoli: mi fido di più del nostro sistema sanitario rispetto a quello inglese», ha raccontato alla Gazzetta dello sport. Molti però non tornano per la paura del contagio, ma per quella della disoccupazione e di condizioni di vita difficili. I nostri connazionali lavorano in gran parte nella ristorazione e spesso a nero. Ristoranti e pub saranno presto chiusi, chi lavora nelle grandi catene verrà, sembra, tutelato, ma per la maggior parte potrebbero non esserci ammortizzatori sociali. La prospettiva di restare senza lavoro in una città in cui una stanza in una casa condivisa può costare oltre 700 sterline non piace a nessuno. Nel gruppo Facebook Italiani a Londra si cerca di darsi sostengo e coraggio a vicenda. La stragrande maggioranza dei nostri connazionali resterà nella capitale britannica, che resta comunque “la quinta città” del nostro Paese con 250mila italiani che ci vivono. Antonella (nome di fantasia) è tra quelli che sono riusciti a fare il biglietto. «Sono una ricercatrice e tra un mese la mia esperienza di lavoro qui sarebbe finita comunque. Vivo in una stanza grande poco più del mio letto in una casa con una coppia di italiani, tra l'altro lei una delle infermiere che si stanno confrontando con la crisi». Sua madre è malata e sa che potrebbe metterla a rischio, ma ovviamente non sta andando da lei. «Oggi per amore devo restarle lontano, è la contraddizione dei nostri tempi. Ma vado a stare con il mio ragazzo, che è giovane e non è una categoria a rischio, dall'aeroporto dritta a casa con l'autocertificazione. Anche se non ho nessun sintomo naturalmente mi metterò in quarantena».

DAGONEWS il 21 marzo 2020. Sadiq Khan oggi ha tirato le orecchie dei londinesi, affermando che ci sono ancora "troppe" persone che usano i trasporti pubblici dopo essere stato criticato per aver tagliato le corse della metro, costringendo tanti pendolari ad ammassarsi. A mezzogiorno a Londra c’erano 17 stazioni chiuse, ma il sindaco ha insistito che l’affollamento in metro dipende da quei londinesi che continuano ad adoperare i mezzi pubblici, ma non sono considerati “lavoratori chiave”. «Le nostre libertà e diritti umani devono cambiare, essere ridotte, essere violate - usate qualunque parola voi vogliate. Sono preoccupato per le persone che non seguono i consigli. Ci sono ancora troppe persone nelle nostre strade, nei nostri bar, nei nostri caffè, che usano la metropolitana, che usano i nostri autobus». Khan aveva precedentemente sollecitato le persone a non viaggiare «in alcun modo, a meno che non fossero davvero necessario». Ieri La società Transport for London ha annunciato che chiuderà fino a 40 stazioni della metropolitana e ridurrà il servizio di metropolitana e autobus. Il sindaco Sadiq Khan ha affermato che il servizio ridotto «permetterà ai lavoratori di effettuare i viaggi essenziali». I britannici sono stati invitati a lavorare da casa ed evitare bar, negozi e ristoranti per rallentare la diffusione del coronavirus. Ma a differenza di paesi come l'Italia e la Francia, la Gran Bretagna non ha ordinato ai bar di chiudere o limitato i movimenti delle persone. Boris Johnson ha affermato che a Londra potrebbero essere necessarie misure «ulteriori e più rapide» se le persone non praticano il distanziamento sociale. «Non escludiamo nulla» ha detto.

Coronavirus, Regno Unito: Johnson chiude pub, ristoranti e discoteche. E ora la sanità è a rischio. Il premier impone da stasera la chiusura immediata anche di rstoranti, club, discoteche, palestre, centri di scommesse e massaggi, cinema, teatri, piscine e casinò. Restano aperti supermercati, negozi e farmacie, mentre il trasporto pubblico, seppur ridotto, "non sarà toccato". Antonello Guerrera su La Repubblica il 20 Marzo 2020. Il volto di Boris Johnson ieri in conferenza stampa era piuttosto rilassato, tanto da concedersi pure risate e battute su noi giornalisti presenti per il primo esperimento di "distanza di sicurezza" nella dorata Dinner Room di Downing Street. Oggi, nello stesso luogo, alla stessa ora (le 17), è cambiato tutto. Sono scomparsi dai tre leggii le vecchie scritte che rimandavano al sito del governo sull'emergenza coronavirus; al loro posto ecco "State a casa", "proteggi l'Nhs", la sanità pubblica britannica, "salva le vite degli altri". Mentre il viso del premier britannico oggi era visibilmente contratto, preoccupato, mentre annunciava le nuove misure restrittive "contro questa malattia che sconfiggeremo, ne sono certo. Ma tutti, tutti dobbiamo dare il nostro contributo".

Gli inglesi senza pub. E così il premier, nella sua politica anti Corona "step by step", un passo alla volta, oggi ha fatto un balzo importante. Johnson ha imposto da stasera la chiusura immediata di tutti i pub, ristoranti, club, discoteche, palestre, centri di scommesse, centri di massaggi, cinema, teatri, piscine e casinò. Non solo nella capitale Londra, il focolaio di questa "peste contemporanea", ma in tutto il Regno Unito. Restano aperti supermercati, negozi e farmacie, mentre il trasporto pubblico, seppur ridotto, "non verrà toccato mai", assicura il premier, così come per il momento "non sono previste restrizioni ai movimenti" e ma resta l'invito, pressante, a "limitare al massimo i contatti sociali". Johnson ha persino modificato il suo nome su Twitter ieri con #StayhomeSaveLive, "rimanete a casa e salvate vite". Come in Italia, da qualche orrendo tempo.

"I sacrifici enormi". "Lo so, sto chiedendo enormi sacrifici, e so quanto sia difficile per i britannici rinunciare a bere al pub", racconta Johnson, "ma questo virus si sconfigge soltanto se agiamo collettivamente. Dobbiamo appiattire la curva dei contagi il prima possibile. Di mese in mese vedremo se allentare o inasprire le misure, o quando necessario. Per favore", si appella Johnson, "non prendete questo virus sottogamba. Non siete invincibili, neanche voi giovani. Purtroppo moriranno molti cari, come ho detto in precedenza, ma insieme sconfiggeremo questo virus".

Da dove arriva la svolta. Che cosa è cambiato dal Johnson che soltanto ieri aveva detto "in 12 settimane invertiremo la tendenza" e che fino a un paio di settimane fa, nella stessa Dining Room, si vantava di stringere le mani a chiunque gli capitasse a tiro? È un po' la sindrome di Donald Trump, che ha sottovalutato il coronavirus per poi varare l'emergenza nazionale. La controversa immunità di gregge resta un obiettivo a lungo termine (l'unico possibile perché il vaccino con il virus non arriverà prima di anno). Inoltre, raccontano fonti di Downing Street, la quota (rivelata da Repubblica) del 20-30% tollerata di "ribelli", cioè coloro (soprattutto giovani) che continuavano ad andare al pub e vivere come se niente fosse ignorando gli inviti del premier a restare a casa, in questi giorni è ampiamente debordata, oltrepassando il 50%, pare. E ora c'è la sanità pubblica, la "gloriosa" Nhs, in grave pericolo. Perché rischia di essere travolta dal coronavirus.

Perché la sanità è a rischio. Proprio la possibile catastrofe della sanità hanno stravolto i piani di Johnson nelle ultime 24 ore. L'Nhs in Regno Unito è un orgoglio nazionale, ma così come stanno le cose rischia davvero di capitolare di fronte all'aumento del numero di casi e di morti, a oggi rispettivamente 3.983 e 177. Lo stesso ministro della Salute qualche giorno fa ammetteva ai suoi collaboratori: "Non siamo pronti". Il tempo stringe. Il Regno Unito ha una grave carenza di posti letto per la terapia intensiva: non si hanno cifre certe, ma fino a qualche giorno fa, erano circa 4mila, di cui l'80 per cento apparentemente già occupati. L'Italia è su numeri leggermente superiori e in questi tremendi giorni sta provando a superare quota 6100. Insomma, quando la vera furia del coronavirus (oramai è solo questione di tempo) si abbatterà anche sul Regno Unito tra una decina di giorni, tutto il sistema sanitario britannico rischierebbe di capitolare.

Respiratori cercansi. Come accaduto all'Italia e agli altri paesi, in poche ore il governo Johnson si è reso conto di essere entrato in una spirale dalle conseguenze nefaste. Nella zona sud di Londra i pazienti positivi al Covid-19 ricoverati in terapia intensiva sono saliti da 7 (il 6 marzo) a ben 93 (martedì scorso), e di questi 86 attaccati a un respiratore, strumento di cui il Regno Unito ora scopre di avere una carenza inquietante: al momento ne ha soli 5.900 mentre nello scenario peggiore della crisi del coronavirus ne avrebbe bisogno del triplo. Il solo stato di New York, per esempio, ne tra 3mila. Due giorni fa è passata quasi inosservata una preoccupante intervista della Reuters ad Andreas Wieland, ceo di Hamilton Medical, una delle aziende leader del settore dei respiratori, secondo il quale il "Regno Unito ha una carenza spaventosa di respiratori, macchinari sui quali ha investito pochissimo negli ultimi ani, causa austerity". Non a caso, Johnson e il ministro Hancock da giorni stanno quasi implorando numerose aziende, persino Rolls-Royce e Jaguar, di fornire al Paese il prima possibile il massimo numero di ventilatori possibili.

Quando è precipitata la situazione. Una corsa contro il tempo, letteralmente. La situazione è precipitata in tarda mattinata quando il governo Johnson è venuto a sapere che almeno due ospedali di Londra, tra cui il Northwick Park Hospital nel quartiere di Harrow, già oggi si sono dichiarati quasi allo stremo nella cura dei malati gravi di coronavirus. Tutto ciò a uno stadio ancora primordiale dell'emergenza che verrà e in una capitale che in teoria avrebbe la massima capacità per fronteggiarla (figuriamoci il resto del Paese). Per questo oggi a Downing St e Whitehall è scattato l'allarme rosso. E così anche il Regno Unito si prepara al peggio.

Antonio Riello per Dagospia il 19 marzo 2020. L'ultimo intervento del Premier Britannico (16 Marzo) sul problema del "Coronavirus" ha suscitato nuove perplessità in patria (e soprattutto all'estero) sul discusso personaggio. Non ha cancellato lo smarrimento causato dal suo primo drammatico discorso (quello del 2 Marzo che parlava biecamente di "immunità di gregge") e piuttosto suggerisce un pressapochismo tutt'altro che rassicurante e pieno di contraddizioni. Il detestato e goffo Johnson non convince granchè infatti, secondo il "Guardian", sembra che solo il 36% degli intervistati gli creda davvero, almeno su questa questione. BoJo a parte, va osservato che la mentalità anglosassone ha sempre gestito le emergenze con una sua peculiarità assai diversa dalla sensibilità latina. Qualcuno sulla stampa italiana, pochi giorni fa, ha giustamente citato in proposito due espressioni tipiche: "stiff upper lip" (in gergo significa l'impassibilità di fronte alle difficoltà opportunamente accompagnata dalla capacità di dissimulare fatica e dolore) e "grace under fire" (la dote di affrontare qualsiasi pericolo con aplomb e estrema compostezza, quasi con eleganza). In poche parole: la catechesi di James Bond. Il culto del coraggio (inteso non solo in senso militare ma in generale come una condizione normale dell'animo) è assolutamente fondamentale per i britannici. Non a caso un verso memorabile nell'immaginario d'oltremanica è "...dangers are to me indifferent..." (pronunciato da Cassio nella prima parte del "Julius Caesar" di Shakespeare). E' un valore che va  assolutamente misurato però su scala collettiva: è sempre un gruppo/squadra di uomini che si organizza e condivide questo coraggio (assai di rado viene considerata una esperienza solitaria). Potremmo dire che è un po' all'opposto delle italiche virtù che, di solito, si sono espresse al meglio individualmente. Noi siamo abituati all' "Eroe" loro alle "Imprese Eroiche". Non dire mai bugie è un altro pilastro fondante dell'"Etica British" dove quasi tutto viene perdonato, ma certamente non il mentire. La fiducia reciproca (e quindi la coesione sociale) sono basate su questo semplice presupposto. La scontata missione del popolo britannico è, nella propria visione tradizionale, appunto quella di portare nel mondo giustizia ma soprattutto verità. Che poi gli inglesi affermino una verità formale supportata molto spesso da poca sincerità e invece gli italiani mentano tranquillamente, ma con una loro disarmante e trasparente onestà di fondo, questa è un' altra paradossale faccenda. Nella cultura degli albionici c'è un ulteriore elemento distintivo: una visione di fondo molto darwiniana che talvolta si è anche tinta sinistramente di cinismo sociale ed economico. Insomma, sostanzialmente in questo contesto i deboli devono "darsi da fare" per risolvere la loro situazione, se non ce la fanno sarà la carità di qualche anima buona ad occuparsene, ma non devono pesare (non troppo almeno) sulla comunità. In questa terra anche i progressisti illuminati, sicuramente animati dalle migliori intenzioni, ne sono in qualche modo condizionati. Un pragmatismo affaristico con tendenze economico-eugenetiche, corretto ma spietato, permea comunque da secoli ogni aspetto della vita sociale britannica. Il motto è sempre quello: "business as usual". D'altra parte, l'etica Cattolica che invece ha impregnato profondamente tutti i contesti della visione politica italiana, non importa di quale tipo o colore, qui è sempre stata vista, ovviamente, come una imperdonabile debolezza mediterranea e "papista". C'è infine un senso del corpo (forse un persistente retaggio barbarico...) che è completamente diverso dal nostro. Si gira scalzi appena si può e al primo raggio di sole (anche pallido e invernale) si cerca di spogliarsi. La nudità, che in Italia viene sempre vista con una certa preoccupazione, qui è una forma di normale ricongiungimento alla Natura. Il corpo va comunque temprato e irrobustito fin da piccoli, naturalmente con lo sport ma anche con piccole privazioni e veri e propri rituali di passaggio. Attitudini di stampo decisamente spartano al limite dell'inquietante. Anche nelle cliniche mediche più costose di Londra il comfort è piuttosto rude e sbrigativo, le attenzioni e la gentilezza degli ospedali italiani qui semplicemente se le sognano. Non è tanto una questione di "Mutua" (in loco si chiama NHS) ma piuttosto l'idea che vanno evitate "pericolose mollezze" che possano, secondo loro, minare la salute del fisico e della mente. Si ride infatti degli Italiani che sembrano qui soffrire sempre il freddo (in effetti già sotto i 15 gradi tendiamo a bardarci come degli esquimesi...). Quello che sta capitando nelle ultime settimane sembra quasi una attacco terroristico su scala planetaria organizzato da "Madre Natura" stessa, tanta è l'ansia che ci attanaglia e l'impatto devastante sulle nostre abitudini quotidiane e sul nostro lavoro. La maggior parte delle persone oscillano tra l'incredulo/sbalordito e il seriamente preoccupato. Poi ci sono anche quelli che vanno fuori di testa perchè non resistono alla tensione. Per chi invece possiede un temperamento complottista (ce ne sono sempre tanti....) il colpevole va cercato al solito in qualche servizio segreto, tra le multinazionali e ovviamente tra gli Ebrei (non mancano mai gli antisemiti soprattutto nei momenti difficili e confusi). C'è perfino, stavolta, chi ce l'ha curiosamente con Bill Gates (?!). Una risposta seria sul come e il perchè di questa "Peste della Tarda Modernità" purtroppo non c'è ancora. Il filosofo Andreas Philippopoulos-Mihalopoulos, che insegna alla Westminster University, parla di "Virocene" immaginando una nuova drammatica fase della vita sul pianeta. L'unica certezza sta nell'altissimo grado stress a cui sono sottoposti tutti i sistemi sanitari ed economici dei paesi Europei. E' il cosiddetto "acid test" estremo del welfare che conosciamo. Per quanto spavaldi si mostrino i Britannici le circostanze e la necessità, con buona probabilità, piegheranno il governo del Regno Unito verso decisioni non molto dissimili da quelle adottate dall'Italia e dagli altri paesi travolti dalla pandemia (in realtà sta già succedendo di fatto e comunque i supermercati così svuotati meticolosamente fino all'ultimo articolo si sono visti forse solo in UK...). Insomma, anche se scandalosamente freddolosi, gli abitanti dello stivale stanno dimostrando di saper soffrire con grande dignità e soprattutto di aver la coesione, la determinazione e l'organizzazione per saper risolvere (collettivamente !!) grandi, enormi, sfide. Come e meglio dei Britannici.

Boris ostinato e contrario:  gli stop possono attendere,  ai britannici solo «consigli». Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ippolito. Dal nostro corrispondente Londra Non faremo come a Milano, la capitale britannica non chiude. Dopo una giornata di febbrili speculazioni, quando sembrava ormai imminente l’annuncio di una serrata totale della metropoli sul Tamigi, il governo di Boris Johnson ha di nuovo rifiutato di imporre quelle misure che sono ormai in atto in tutta Europa, a partire dall’Italia. Dunque la Gran Bretagna continua a seguire la sua strada, in (splendido?) isolamento. E se è vero che mercoledì è stata annunciata la chiusura delle scuole a partire da oggi, dall’altro lato pub e ristoranti, cinema e discoteche restano aperti, né vengono imposte restrizioni ai movimenti delle persone. Quello che vale è il «forte consiglio» a evitare i luoghi affollati: ma nessun divieto è stato fatto calare dall’alto. La speranza di Johnson è che la gente si attenga da sé alle indicazioni del governo: se così fosse, ha detto, possiamo «invertire la tendenza nel giro di 12 settimane» e «battere il virus». Anche la regina Elisabetta, in un breve messaggio scritto alla nazione, ha sottolineato che «ciascuno ha un ruolo importante da svolgere» e si è detta fiduciosa che «saremo all’altezza della sfida». Il premier non ha negato che, nel caso in cui i cittadini disobbediscano in massa ai consigli, il governo possa essere costretto a introdurre misure più stringenti: ma per il momento non sembra questo il caso. In particolare, Boris ha escluso che possa essere bloccata la rete di trasporti londinesi: anche se i vagoni della metropolitana, che fino allo scoppiare dell’epidemia trasportavano due milioni di persone al giorno, sono l’incubatore ideale per il virus. Di loro iniziativa, le autorità cittadine hanno chiuso ieri 40 stazioni della metro (su 270) e ridotto le corse degli autobus: ma questo soprattutto perché ormai c’è molta meno gente in giro. Grosso modo i londinesi stanno dando retta a Boris: le strade, soprattutto in centro, appaiono svuotate mentre bar e ristoranti restano semideserti. Diversi teatri hanno chiuso i battenti e lo stesso hanno fatto vari musei, dalla National Gallery alla Tate Modern al Barbican. I mitici club privati della capitale, invece, continuano a operare, seppure a scartamento ridotto. Qual è allora la strategia del governo britannico, che vista dall’Europa può apparire come una follia? Loro puntano a contenere il picco dell’infezione più che ad arrestarla, in modo che il sistema sanitario sia in grado di gestire l’emergenza. Ma è una scommessa rischiosa: la Gran Bretagna è indietro di qualche settimana rispetto all’Italia nella curva dei contagi e l’efficacia delle attuali (non-)misure potrà essere verificata solo fra due-tre settimane. Quando potrebbe essere troppo tardi: mentre il tasso di mortalità qui sta già crescendo a un ritmo più elevato di quello italiano. Nel frattempo, il governo mette le mani avanti: ieri è stata pubblicata la legislazione di emergenza che consente di detenere e sottoporre a test forzati i sospetti ammalati, con la possibilità di confinarli in centri sicuri. E ventimila soldati sono stati messi in stato di allerta. Ieri Johnson ha fatto anche appello alla popolazione a evitare l’assalto ai supermercati: ma è un’esortazione che finora è caduta nel vuoto. A Londra ormai è difficile trovare la carta igienica — anche a Downing Street sono arrivate le scorte d’emergenza — e dai supermercati sono spariti pasta, riso e alimenti a lunga conservazione, tanto che quasi tutti i grandi magazzini hanno introdotto misure di razionamento. Per Boris è il test politico più difficile e inaspettato, a soli tre mesi dal trionfo elettorale. Lui sta dando prova di gravitas e trasparenza, con una conferenza stampa allestita ogni pomeriggio a Downing Street: ma intanto la notizia che Michel Barnier, il capo negoziatore europeo per la Brexit, ha contratto il virus, ha imposto una battuta d’arresto ai colloqui Londra-Bruxelles. E a questo punto, anche se Johnson lo nega, sembra difficile non rinviare la transizione oltre il 31 dicembre.

Paola De Carolis per "corriere.it" il 19 marzo 2020. La paura del coronavirus arriva anche in Gran Bretagna, «un paese che crede nella libertà», nelle parole del primo ministro Boris Johnson, ma dove le abitudini e il tran tran quotidiani ieri si sono bruscamente interrotti. Le scuole del Regno Unito chiuderanno venerdì pomeriggio a tempo indeterminato, anche se continueranno a prendersi cura dei figli del personale medico e dei bambini a rischio. Gli esami pubblici che valgono per l’ammissione all’università sono stati cancellati. I musei hanno sbarrato le porte, i teatri anche. Le associazioni culturali mandano email implorando il pubblico di fare una donazione. La Bbc ha smesso di girare le soap che riuniscono il paese di fronte al piccolo schermo e i supermercati sono stati presi d’assalto così che tanti scaffali sono vuoti. E il messaggio per tutti è di stare a casa. Johnson, che nell’emergenza parla al Paese ogni pomeriggio con una conferenza stampa, ha sottolineato che non vuole invocare poteri speciali per obbligare la gente a non uscire, ma non esclude «di ricorrere a nuove misure nel prossimo futuro», soprattutto a Londra, dove è concentrata la maggioranza dei casi. Chi ha sintomi deve autoisolarsi per 14 giorni, assieme a tutta la famiglia. A chi è sano viene chiesto di lavorare da casa se possibile e di ridurre o meglio azzerare il contatto con gli altri. Il consigliere medico del premier, Patrick Vallance, sottolinea che la posizione del governo «non deve essere considerata una raccomandazione, ma un ordine». «Chi non rispetta le indicazioni mette a repentaglio gli altri e soprattutto rischia di contagiare i più deboli». Il virus avanza, inesorabile. 104 decessi, tutti tra i 59 e i 94 anni, e 2626 casi confermati, ma la realtà potrebbe essere molto diversa: i test sino a ieri venivano effettuati solo sui malati gravi o i pazienti con complicazioni. Johnson mira ad aumentare le capacità sino ad effettuare 25.000 tamponi al giorno, ma al momento non sono sottoposti ai test neanche i medici e gli infermieri del sistema sanitario che sono in prima linea e che, lamentano, non hanno tute, mascherine o protezione per gli occhi. L’Nhs è una priorità, ha sottolineato Johnson. «Stiamo lavorando sodo per aumentare la produzione degli strumenti necessari». In particolare i respiratori e i letti di terapia intensiva. Sono stati disdetti così tutti gli interventi non necessari a partire dal 15 aprile. L’obiettivo è di fare posto ai malati di Covid-19, che, come era inevitabile, coinvolgono anche Downing Street. Diversi membri dello staff sono in autoisolamento, così come Neil Ferguson, il professore autore dello studio dell’Imperial College di Londra che ha portato il governo a cambiare tattica dall’immunità di gregge alla soppressione dei contagi. Anche la fidanzata del primo ministro, Carrie Symonds, che è incinta, si è autoisolata, ma il timore è che a Londra la gente continui ad andare al lavoro: la metropolitana è piena. L’economia e l’impatto del virus sui bilanci delle grandi industrie così come sui portafogli delle famiglie rimane un’incognita che per i britannici è terrificante quanto il numero delle vittime. La sterlina è precipitata, la Honda chiuderà la fabbrica di Swindon, le linee aeree annunciano che dovranno rinunciare a una fetta di personale e che il futuro è incerto. I lavoratori autonomi non sanno come pagare l’affitto e le misure annunciate solo due giorni fa dal cancelliere dello scacchiere, pari a prestiti per 330 miliardi di sterline e 20 miliardi di liquidità, sembrano già poco più di un cerotto temporaneo. Tra le chiusure e il bilancio dei decessi, una buona notizia. Esiste un test per gli anticorpi. «Lo abbiamo e stiamo valutando come farlo arrivare alla popolazione», ha sottolineato Johnson, così che chi avrà sviluppato l’immunità «avrà luce verde» per continuare a lavorare e aiutare gli altri.

Panico a Londra, Johnson cambia piano: scuole chiuse a tempo indeterminato. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Paola De Carolis. La paura del coronavirus arriva anche in Gran Bretagna, «un paese che crede nella libertà», nelle parole del primo ministro Boris Johnson, ma dove le abitudini e il tran tran quotidiani ieri si sono bruscamente interrotti. Le scuole del Regno Unito chiuderanno venerdì pomeriggio a tempo indeterminato, anche se continueranno a prendersi cura dei figli del personale medico e dei bambini a rischio. Gli esami pubblici che valgono per l’ammissione all’università sono stati cancellati. I musei hanno sbarrato le porte, i teatri anche. Le associazioni culturali mandano email implorando il pubblico di fare una donazione. La Bbc ha smesso di girare le soap che riuniscono il paese di fronte al piccolo schermo e i supermercati sono stati presi d’assalto così che tanti scaffali sono vuoti. E il messaggio per tutti è di stare a casa. Johnson, che nell’emergenza parla al Paese ogni pomeriggio con una conferenza stampa, ha sottolineato che non vuole invocare poteri speciali per obbligare la gente a non uscire, ma non esclude «di ricorrere a nuove misure nel prossimo futuro», soprattutto a Londra, dove è concentrata la maggioranza dei casi. Chi ha sintomi deve autoisolarsi per 14 giorni, assieme a tutta la famiglia. A chi è sano viene chiesto di lavorare da casa se possibile e di ridurre o meglio azzerare il contatto con gli altri. Il consigliere medico del premier, Patrick Vallance, sottolinea che la posizione del governo «non deve essere considerata una raccomandazione, ma un ordine». «Chi non rispetta le indicazioni mette a repentaglio gli altri e soprattutto rischia di contagiare i più deboli». Il virus avanza, inesorabile. 104 decessi, tutti tra i 59 e i 94 anni, e 2626 casi confermati, ma la realtà potrebbe essere molto diversa: i test sino a ieri venivano effettuati solo sui malati gravi o i pazienti con complicazioni. Johnson mira ad aumentare le capacità sino ad effettuare 25.000 tamponi al giorno, ma al momento non sono sottoposti ai test neanche i medici e gli infermieri del sistema sanitario che sono in prima linea e che, lamentano, non hanno tute, mascherine o protezione per gli occhi. L’Nhs è una priorità, ha sottolineato Johnson. «Stiamo lavorando sodo per aumentare la produzione degli strumenti necessari». In particolare i respiratori e i letti di terapia intensiva. Sono stati disdetti così tutti gli interventi non necessari a partire dal 15 aprile. L’obiettivo è di fare posto ai malati di Covid-19, che, come era inevitabile, coinvolgono anche Downing Street. Diversi membri dello staff sono in autoisolamento, così come Neil Ferguson, il professore autore dello studio dell’Imperial College di Londra che ha portato il governo a cambiare tattica dall’immunità di gregge alla soppressione dei contagi. Anche la fidanzata del primo ministro, Carrie Symonds, che è incinta, si è autoisolata, ma il timore è che a Londra la gente continui ad andare al lavoro: la metropolitana è piena. L’economia e l’impatto del virus sui bilanci delle grandi industrie così come sui portafogli delle famiglie rimane un’incognita che per i britannici è terrificante quanto il numero delle vittime. La sterlina è precipitata, la Honda chiuderà la fabbrica di Swindon, le linee aeree annunciano che dovranno rinunciare a una fetta di personale e che il futuro è incerto. I lavoratori autonomi non sanno come pagare l’affitto e le misure annunciate solo due giorni fa dal cancelliere dello scacchiere, pari a prestiti per 330 miliardi di sterline e 20 miliardi di liquidità, sembrano già poco più di un cerotto temporaneo. Tra le chiusure e il bilancio dei decessi, una buona notizia. Esiste un test per gli anticorpi. «Lo abbiamo e stiamo valutando come farlo arrivare alla popolazione», ha sottolineato Johnson, così che chi avrà sviluppato l’immunità «avrà luce verde» per continuare a lavorare e aiutare gli altri.

Da "ansa.it" il 18 marzo 2020. Boris Johnson si è impegnato oggi nel Question Time alla Camera dei Comuni a garantire "ulteriori misure" a tutela dei lavoratori britannici "di ogni tipo" costretti a restare a casa dal coronavirus, e ha ribadito che il governo Tory intende stanziare "tutto ciò che serve" (whatever it takes) per i lavoratori e il sistema sanitario, a fronte di un'emergenza che costringe a restrizioni "senza precedenti in tempo di pace". Il laburista Jeremy Corbyn lo ha incalzato a entrare nel dettaglio e anche a calmierare gli affitti. Camera dei Comuni semivuota oggi a Londra, per il tradizionale Question Time del mercoledì del premier conservatore Boris Johnson avviato come sempre dal botta e risposta - interamente dedicato all'emergenza coronavirus - con il leader dell'opposizione laburista, Jeremy Corbyn. Il dibattito, non privo di qualche contestazione, ma in tono di riconoscimento reciproco della volontà di cooperare di fronte a una crisi nazionale, ha visto presenti solo una rappresentanza del governo e del governo ombra e poche decine di deputati delle 'retrovie', sulla scia di un'indicazione concordata dallo stesso esecutivo con gli altri partiti e con lo speaker della Camera a scopo precauzionale. L'indicazione, accolta dai parlamentari, invitava "rispettosamente gli onorevoli membri" a non essere in aula, per non affollarla, se non prenotati per fare domande al premier. Una cautela elogiata fra gli altri dal deputato Tory Michael Fabricant che in tweet ha definito Westminster un "grande hotspot di contagio da covid-19". Il governo britannico è deciso a portare il numero dei test eseguiti a livello nazionale "a 25.000 al giorno", contro l'obiettivo dei 10.000 indicato finora. Lo ha detto alla Camera dei Comuni il premier conservatore, Boris Johnson, incalzato dall'opposizione laburista, annunciando "uno sforzo massiccio" su questo fronte, come su quello per una produzione extra di "ventilatori" ed "equipaggiamento" di emergenza per gli ospedali. Caos supermercati in Gran Bratagna dove si assiste allo stesso scenario italiano di poco più di una settimana fa: code davanti ai supermarket e scaffali vuoti. Proprio per questo ogni catena di supermercati sta mettendo in piedi diversi strategie in questa situazione d’emergenza. La catena "Island" permette la spesa dalle 9 alle 11 solo agli anziani mentre "Sainsbury ha razionato la vendita di alcuni prodotti per permettere a tutti di portare la spesa a casa: massimo tre articoli di drogheria e due pacchi, ad esempio, di rotoli di carta igienica. Nonostante le nuove  misure, gli scaffali di "Tesco" e "Asda" erano già vuoti poche ore dopo l’apertura. Chiusi i caffè, i banchi della carne, del pesce e della pizza. I clienti con problemi motori vengono privilegiati nelle consegne a domicilio. "Morrisons" ha in programma di creare 3.500 nuovi posti di lavoro e di espandere le operazioni di consegna a domicilio per far fronte alle crisi. Il segretario ai trasporti ha allentato le regole per permettere ai conducenti dei mezzi pesanti di viaggiare senza limitazioni. Non sono confortanti nemmeno le immagini che arrivano dai locali  notturni e dai pub della Gran Bretagna: la gente continua ad affollarsi nonostante il monito del governo di mantenere le distanze din sicurezza. Qualche locale di propria iniziativa ha chiuso i battenti, ma nella stragrande maggioranza si continua a vivere come se il virus non esistesse. I governi locali di Scozia e Galles, guidati rispettivamente dall'opposizione indipendentista dell'Snp e da quella del Labour, hanno annunciato la chiusura di tutte le scuole nei due territori a partire dalla fine di questa settimana a causa del coronavirus e come un'estensione delle vacanze di Pasqua. Lo hanno reso noto i due first minister, Nicola Sturgeon e Mark Drakeford, in forza dei poteri della devolution. Finora il governo nazionale di Boris Johnson non ha invece decretato lo stesso per tutto il Regno Unito. Gli annunci di Scozia e Galles appaiono comunque solo il frutto di un'operazione di pubbliche relazioni, preparata giusto per anticipare di qualche ora la decisione di una chiusura generale delle scuole già presa per tutto il territorio nazionale anche dal governo di Boris Johnson, secondo le anticipazioni dei media. Decisione che dovrebbe essere ufficializzata in uno statement alla Camera dei Comuni del ministro dell'Istruzione, Gavin Williamson, annunciato per le 17,30 locali, e poi confermata dallo stesso primo ministro Tory.

Alfonso Bianchi per "la Stampa" il 17 marzo 2020. È finito il tempo del «lavatevi le mani», anche il Regno Unito si prepara al lockdown, la quarantena. Nonostante la dimostrazione di forza di venerdì scorso le cose sono precipitate più velocemente del previsto, ed è arrivato il momento al quale Boris Johnson aveva detto di prepararsi: quello in cui «molte famiglie perderanno i loro cari». Con il conteggio dei morti che è arrivato a 55, su 1.543 casi, il premier ha lanciato la chiamata alle armi, BoJo ha chiesto quello che nessun premier aveva mai chiesto finora in tempi di pace: state a casa.  «I dati mostrano che il picco si sta avvicinando» e che l' epicentro sarà proprio la capitale, Londra. Quindi adesso servono «azioni drastiche» che hanno lo scopo di «ridurre le vittime e aiutare il sistema sanitario», l' Nhs. Per chiunque abbia sintomi la quarantena passa da 7 a 14 giorni, e adesso includerà tutti quelli che vivono in casa con lui. A tutte le persone di più di 70 anni, a chi ha gravi malattie e alle donne incinte viene chiesto di mettersi in quarantena, chi non ha sintomi potrà aiutarli e andare a casa loro, ma senza avvicinarsi troppo. A tutti i cittadini viene chiesto di evitare i contatti sociali «non essenziali» per evitare di diffondere il contagio: basta pub, ristoranti e concerti. Tutti quelli che possono devono passare al telelavoro. Le misure non sono obbligatorie per ora, ma presto potrebbero diventarlo. È una corsa contro il tempo per salvare vite sì, ma soprattutto l' economia. Per ora Londra vuole tirare ancora un po' la corda, in una gara con la Germania per chi riuscirà a resistere più tempo. Per il momento si fa appello solo al senso civico, e c' è già chi risponde. In tutto il Paese stanno nascendo delle brigate di solidarietà, su Twitter si fa largo l' hashtag #viralkindness, gentilezza virale. Tra gli italiani tantissimi però sono spaventati, i voli Alitalia verso il nostro Paese di oggi e domani sono pieni. Intanto l' Nhs si prepara. Uno studio del governo, ottenuto dal Guardian, afferma che l' epidemia potrebbe durare oltre un anno. Quasi come l' influenza spagnola che durò dall' ottobre del 1918 al dicembre 1920, ma che ovviamente è molto meno mortale. Gli esperti del governo insistono che dovrebbe essere inferiore all' 1%. Ma non per tutti. Per questo, insiste Johnson che ora prova a mostrare anche un lato umano: «Dobbiamo concentrarci sui più vulnerabili». Per proteggerli l' Nhs è chiamato a uno sforzo straordinario. Alcuni reparti di ospedali non necessari stanno già venendo riconvertiti per far spazio ai pazienti covid-19. Il governo sta acquistando respiratori e chiede all' industria del settore uno «sforzo nazionale» per aumentare la produzione. Al momento ce ne sono circa 6mila, ma potrebbero servirne fino a 20mila. «Se producete respiratori noi li compreremo», ha detto il Segretario di Stato alla Salute, Matt Hancock. Sul Daily Mail, il tabloid della destra pro Brexit, e sul Mirror, quello dei laburisti, ieri il grido era uno solo: salviamo gli anziani.

Coronavirus, Boris Johnson fa retromarcia sull’immunità di gregge: Gran Bretagna in semi-quarantena. Misure speciali per Londra. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo De Carolis. Anche la Gran Bretagna è in semi-quarantena. Nella prima conferenza stampa della nuova era – l’emergenza del Covid-19 ha portato Downing Street a instaurare un incontro quotidiano con la stampa – il premier Boris Johnson ha sottolineato che è arrivato il momento di adottare “misure draconiane’’. Chi ha sintomi o ha in famiglia qualcuno con sintomi, così, ha adesso l’obbligo di autoisolarsi per 14 giorni. Johnson ha chiesto a tutti, inoltre, di limitare i contatti sociali, di lavorare da casa laddove possibile, di non frequentare pub, ristoranti, teatri o musei. “Questo è di particolare importanza per chi ha più di 70 anni, chi ha problemi cronici di salute e chi è incinta’’. Particolari misure per Londra, dove è concentrata la maggioranza dei casi. La capitale britannica è avanti di due settimane rispetto al resto del paese nella marcia inesorabile verso il picco delle infezioni, ha detto il primo ministro. Di conseguenza le indicazioni sono di ridurre al minimo le uscite e i contatti con gli altri. Chris Whitty, coordinatore della sanità pubblica, ha sottolineato che “le prossime 12 settimane saranno particolarmente difficili per i colleghi della sanità, siamo estremamente orgogliosi di ciò che stanno facendo’’. Per quanto riguarda i tamponi – la Gran Bretagna è stata criticata per la mancanza di test – Whitty ha sottolineato che a livello nazionale sono stati effettuati 45.000 esami. Mentre teatri, musei e sale da concerto saranno costretti a chiudere, le scuole per ora rimangono aperte e non sono per ora previste sanzioni criminali a chi viola le indicazioni sull’autoisolamento e i contatti sociali.

Da "Ansa" il 16 marzo 2020. Crescono le restrizioni anche in Gran Bretagna per favorire il distanziamento sociale contro la diffusione del coronavirus. Lo ha annunciato oggi il premier Boris Johnson, durante una conferenza stampa, indicando una svolta rispetto alla sua linea e raccomandando lo stop di tutti i viaggi non necessari, il lavoro da casa «per chiunque possa» e la rinuncia a contatti sociali pubblici. «Da ora dovete evitare pub, teatri, club e altri luoghi di ritrovo», ha detto il primo ministro Tory rivolgendosi alla popolazione. Dalle parole di Johnson non emerge ancora un bando generalizzato degli eventi pubblici. Il premier tuttavia sottolinea che da oggi in avanti il governo «non sostiene più» lo svolgimento di manifestazioni collettive e raccomanda di evitare ogni «contatto sociale non essenziale». Spiega quindi che «la curva di crescita» della diffusione del virus si sta «avvicinando» al picco e che «senza misure drastiche» i contagi potrebbero raddoppiare ogni 5-6 giorni. Le nuove indicazioni essenziali, oltre al distanziamento sociale e all'invito al lavoro da casa ovunque possibile, prevedono l'estensione dell'auto-isolamento in quarantena a domicilio da una settimana a due per chiunque abbia febbre o tosse persistente e anche a chiunque viva con persone che manifestino tali sintomi. Il consigliere scientifico di Downing Street, Patrick Vallance, ipotizza per il prossimo futuro come necessaria anche la chiusura di un certo numero di scuole (per ora non annunciata). Mentre il chief medical officer Chris Whitty avverte che non bisogna illudersi sulla durata delle misure precauzionali: «non due settimane», ma «un tempo prolungato». L'accelerazione della strategia britannica contro il coronavirus ha «un singolo obiettivo»: quello di ridurre il numero di morti che comunque ci saranno. Lo ha detto il professor Chris Whitty, chief medical officer del Regno, dopo le polemiche sull'auspicio dei giorni scorsi dei consiglieri scientifici di Boris Johnson della prospettiva di una cosiddetta «immunità di gregge» a fronte di un contagio vasto giudicato inevitabile. La quota di decessi diretti legati al Covid-19 è stimata come bassa, ha notato Whitty, ma «un numero significativo» di pazienti morirà a causa del prevedibile «sovraffollamento» degli ospedali. Di qui la necessità di misure via via più drastiche mirate ad «abbassare assai significativamente» il picco di contagi e l'impatto dell'epidemia sul servizio sanitario nazionale (Nhs), ha proseguito Whitty. Non senza ammettere che tali misure potranno avere effetti collaterali «negativi sulla salute» psico-fisica della popolazione, ma restano comunque necessarie per frenare e diluire la diffusione del virus.

Elena Tebano per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2020. Anche Boris Johnson alla fine si è dovuto arrendere alla «matematica del contagio»: c' è uno studio che quantifica in 250 mila morti il costo umano della strategia inizialmente annunciata dal premier britannico per affrontare l'epidemia di coronavirus. E cioè far «sfogare» l' infezione, provando a isolare solo gli anziani a più alto rischio. Per questo Johnson, secondo i media britannici, ha abbandonato l'approccio più graduale a favore di quello dell' isolamento e distanziamento sociale sul modello italiano, suggerito anche dall'Organizzazione mondiale della sanità. Lo stesso studio, elaborato dal team di risposta al Covid-19 istituito dell'Imperial College sotto la guida dell' epidemiologo Neil Ferguson, calcola che negli Usa in assenza di azioni per rallentare la diffusione del virus potrebbero morire 2,2 milioni di persone. Secondo Ferguson, l'impatto potenziale del coronavirus è infatti comparabile a quello dell'«influenza spagnola» del 1918 e senza misure di contenimento c'è il rischio che stravolga il sistema sanitario di «qualsiasi Paese sviluppato, inclusi gli Stati Uniti». Per capire come si diffonde il virus senza misure di contenimento, il Washington Post ha pubblicato un simulatore grafico che rende visibile la «matematica del contagio» descritta da Paolo Giordano sulle pagine del Corriere : ricostruisce le dinamiche di trasmissione di una malattia inventata (la «stimulitis») in quattro scenari diversi: 1. senza alcuna misura di contenimento; 2. con la quarantena assoluta (che comunque fa «scappare» qualche infetto); 3. con forme di isolamento e «distanziamento sociale» che permettono di uscire solo a un cittadino su quattro; 4. se esce solo un cittadino su otto. E mostra perché è fondamentale stare tutti a casa, da subito. L' ipotetica «stimulitis» è estremamente contagiosa: basta che una persona sana entri in contatto con una persona malata e si infetterà. Dai vari scenari si ricava una curva dei contagi: più la curva è alta, più sono i malati in contemporanea, più è difficile per il sistema sanitario prendersene cura. Senza misure la curva è altissima, con l' isolamento totale si riesce ad abbassare una curva già iniziata, col distanziamento sociale si tiene la curva molto bassa a lungo. Secondo gli esperti le varie strategie vanno usate in momenti e luoghi diversi. Ma il messaggio è chiaro: l'«isolamento sociale» è fondamentale per contenere l' epidemia e migliorare la risposta sanitaria. Perché funzioni, però, ognuno deve prendersi la responsabilità di seguire sempre le misure di cautela necessarie. Altrimenti non serve a niente. Tra le misure più importanti, secondo gli esperti, c' è l'autoquarantena di 14 giorni se si sospetta di aver avuto contatti con un positivo.

Da liberoquotidiano.it il 17 marzo 2020. Tale padre, tale figlio. Hanno fatto discutere le parole di Boris Johnson, quel suo "dovete abituarvi all'idea che molti perderanno i loro cari". Il primo ministro inglese si riferiva all'emergenza coronavirus e alla linea del Regno Unito, ovvero quella dell'inazione e dell'immunità di gregge (linea che sta già vacillando, con i primi provvedimenti imposti dallo stesso Boris Johnson). E dopo le parole del figlio, fanno discutere la parole del papà di BoJo. Mister Stanley Johnson, 79 anni, ergo soggetto a rischio coronavirus, non ha alcuna intenzione di rispettare gli obblighi imposti dal figlio: "Continuerò ovviamente ad andare al pub se ho bisogno di andarci", ha tuonato parlando con Itv. Dunque si è detto convinto che il governo del figlio annuncerà un "robusto pacchetto finanziario" di sostegno alle attività che le raccomandazioni del governo britannico stanno svuotando o costringendo a chiudere.

Paolo Guzzanti per il Riformista il 17 marzo 2020. Boris Johnson si e intrappolato in una situazione insostenibile e sta cercando il modo per uscirne senza perdere la faccia. E successo quando si e reso conto che cresce, scardinando le previsioni statistiche, il numero dei morti giovani per il Corona virus e che la dannata Brexit ha tagliato fuori il Regno Unito dall’accesso ai respiratori. Le fabbriche inglesi che li producevano sono state da tempo dismesse ed e difficilissimo rimetterle in linea, mentre l’Europa le produce o le acquista con maggior facilita nelle pieghe del mercato cinese, momentaneamente in sovrapproduzione. Non sarà facilissimo per Johnson correggere la sua prima dichiarazione shock, ma il suo ministero della Salute ha già confidato alla stampa britannica che “Secondo le informazioni giunte dai leader mondiali nella materia le cose non stanno purtroppo, o per fortuna, come il Prime Minister pensava. Quel che e successo in Italia e le contromisure che nel nostro Paese si vanno costruendo in progress (all’inizio farraginose, poi più lineari) sono state determinanti per convincere l’entourage del primo ministro del fatto che la linea va corretta. Questo e importante, ma a nostro parere non e meno importante il motivo ideale se non ideologico che Johnson ha fin dall’inizio dichiarato e persino esaltato: quello secondo cui non si possono abolire per decreto-legge e da un giorno all’altro tutte le liberta civili, di riunione, di vita sociale e di qualsiasi genere, senza aver prima garantito ai cittadini la difesa estrema e il ripristino di queste liberta e aver condiviso con il popolo il peso delle scelte. E poi, l’economia: Boris Johnson sta reggendo un Paese che quest’anno deve uscire fuori dalle corde e dai vincoli europei e che ha bisogno di vitalità, liberta e un grano di follia. Intanto, la marcia indietro e già cominciata. Molte zone del Paese hanno preso decisioni autonome di autodifesa “all’italiana” così come molte scuole hanno deciso di chiudere per propria iniziativa. Adesso il problema è politico. Soltanto politico.? E al numero 10 di Downing Street si stanno scervellando per farne uscire fuori il Prime minister e il suo governo. Matt Hancock, ministro della Salute di Boris Johnson, è un tipo da anni Settanta, basetta lunga, cravatta rosa, è molto tentennante davanti ai microfoni della Bbc quando ripete con decrescente convinzione la formula varata una settimana fa dal suo capo e primo ministro: «Gli anziani farebbero bene a starsene a casa per almeno quattro mesi. È l’unica cosa che possa proteggerli, non ce n’è un’altra. Ma proprio perché si tratta di una cosa molto lunga, noi non ce la sentiamo di impartire ordini al- la gente per imporre come comportarsi. Gli anziani vanno aiutati e sostenuti nel loro isolamento perché sono loro la quota di popolazione che rischiamo di perdere». Ma intanto la curva dei casi mortali si impenna falciando persone appena oltre la quarantina dopo un inizio che aveva permesso allo zazzeruto Boris di fare una dichiarazione alla quale i commentatori di tutto il mondo lo avrebbero impiccato: «Abbiamo un vantaggio di tre settimane sull’Italia e dobbiamo usare saggiamente questo periodo di tempo. E non faremo quel che fanno l’Italia e gli altri Paesi europei». Il primo ministro inglese, come accade a Donald Trump, è detestato dalle sinistre ed è un personaggio spiazzante e politicamente scorrettissimo, cosa che ce lo rende istintivamente simpatico. Ma la simpatia non basta di fronte a una questione di vita o di morte. Ci siamo promessi di spiegare al meglio l’idea del primo ministro Inglese e poi come questa idea sia già in fase di demolizione.? Cominciamo dall’idea di Boris? Johnson che proviamo a riassumere: quella del corona virus – ha detto - è una epidemia maledetta che segna un’intera generazione e che coglie tutti impreparati. Un vaccino arriverà, ma ci vorrà più di un anno. Intanto, che fare?? Certi Paesi come l’Italia si sono barricati in casa chiudendo scuole e fabbriche nella speranza di affamare il virus che non troverà più prede e dovrà morire. Ma noi sappiamo dalle statistiche che questo virus è mortale soltanto per le persone anziane, tutte più meno malridotte per qualche malattia che hanno avuto. I più giovani non avranno grandi danni da questa epidemia, al massimo qualche linea di febbre, ma in compenso si immunizzeranno. Io invito tutti a mantenere isolati i loro anziani perché molti di loro moriranno e le famiglie dovranno prepararsi a parecchie perdite immature. I nostri ospedali faranno tutto il possibile per salvare chi sta male, ma non pensiamo che si debba bloccare un’intera nazione, la sua economia, la sua vita sociale, soltanto per impedire un alto tasso di morte fra anziani, che ci sarà comunque fra quelli che si esporranno e che io invito a chiudersi in casa senza vedere i nipoti. Quelli che si prenderanno la malattia nella sua forma blanda acquisteranno una immunità collettiva che gli epidemiologi chiamano “a gregge”. Quest’espressione - “a gregge” - ha scioccato il mondo. Come si permette questo reazionario cinico e sfrontato di trattare la gente come un gregge e di affidare la selezione naturale ai capricci di un virus? È stato certamente un gravissimo errore di comunicazione, non di Johnson ma del suo guru sanitario Sir Patrick Vallance, che ha detto a Sky News di valutare come ragionevole una percentuale del 60 per cento di infettati fra gli inglesi e altrettanto ragionevole lasciare che le cose vadano naturalmente come devono andare, visto che non c’è nulla da fare, salvo stare attenti e lavarsi le mani. Visto che un vaccino da somministrare non esiste, questa l’idea, lasciamo che si somministri da solo quello naturale prodotto da ciascun individuo visitato dal virus e che reagirà con le proprie capacità immunitarie. Questa la spregiudicata idea, non priva di senso ma estremamente ardua da digerire e far capire, nella sua realistica brutalità: molti moriranno, fra i vecchi, a meno che non provvediate voi ad averne una cura scrupolosa nascondendoli nelle loro case fino e oltre l’estate. Ci saranno anche un po’ di morti tra la gente più giovane, ma entro fasce statistiche accettabili perché sono più o meno quelle comuni alle influenze. Di conseguenza non fermiamo il Paese, e tanti auguri a tutti. Ma la virata in senso opposto è già cominciata e non sarà resa pubblica prima che possa arrecare danni gravi al Primo Ministro cultore e biografo di Churchill.

Francesco Guerrera per “la Stampa”, Direttore di Barron's Group in Europa, il 16 marzo 2020. «Vaffanculo coronavirus». Così, in maniera poco British, Ant Middleton, ex-soldato dei marines britannici e, da anni, celebrità televisiva, ha annunciato su Instagram che continuerà a viaggiare, abbracciare i fan e stringere le mani di perfetti sconosciuti. Le parolacce di Ant sono musica per le orecchie di Boris Johnson. Il premier britannico sta adottando una strategia unica al mondo: invece di fare tutto il possibile per evitare il contagio, come in Cina e Italia, il governo di Londra vuole che il contagio avvenga. Anzi, nei piani di Johnson, sarebbe ideale che il 60-80% dei sudditi di Sua Maestà si prenda il coronavirus. È per questo che il governo inglese non ha promulgato nessuna misura di isolamento e che invece delle strade deserte, i teatri chiusi e gli autobus vuoti dell' Italia (e Francia, Spagna, Polonia, ecc...), questo weekend Londra si è trasformata nella propria versione cinematografica. Come in Notting Hill o Sliding Doors, un po' meno gente, più pulita e ordinata della «vera» capitale, ma sempre vivace, frettolosa e non certo pronta a rispettare le regole dell' Oms. A prima (e seconda) vista, il progettto di Johnson sembra un' idea assurda, crudele e pericolosa. E allora ho chiamato (gli incontri di persona per un po' non si fanno) varie fonti per capire se, a dirla con un inglese più educato di Middleton, ci fosse del metodo nella sua follia. Questo ho capito: il piano di Downing Street è più complesso e sofisticato degli schemi sino-italiani e potrebbe portare a risultati migliori. Ma è anche più rischioso perché basato su una serie di premesse teoriche mai comprovate in pratica. I britannici partono dal presupposto che moltissime persone verranno contagiate, a prescindere da cosa decidano le autorità. Il loro obiettivo non è, come in Italia, fermare l' epidemia, ma far sì che le risorse limitate dell' infrastruttura sanitaria siano capaci di assorbirne il picco e curare chi sta peggio. L' idea-chiave è quella dell'«immunità del branco» - basata sul fatto che chi sopravvive al virus non può contagiare. Secondo stime interne del governo, la protezione collettiva della Gran Bretagna si raggiungerebbe quando almeno il 60% della popolazione (circa 41 milioni di persone) avrà il virus. Prima di allora, ci sono due obiettivi: controllare il tasso d' infezione in maniera che ci siano abbastanza letti, dottori ed infermieri; e cercare di «far ammalare» chi ha meno chance di morire. È così che si spiega la decisione - criticatissima - di Johnson di non chiudere scuole e non vietare assembramenti di massa come i concerti: il virus non è letale per gran parte di bambini e giovani. I burocrati britannici parlano male della «ricetta italiana» di chiudere tutto. Secondo loro, misure così drastiche non possono durare a lungo prima che la gente si ribelli e ricominci a uscire, facendo impennare di nuovo il numero di casi. Gli esperti inglesi parlano di «equilibrio tra infezione e ospedalizzazione». Ma, anche con questo «equilibrio», i morti nel Regno Unito potrebbero essere tra gli 80.000 e il mezzo milione. Sono cifre raccapriccianti (il totale mondiale sinora è circa 6.400 deceduti) ma, per Downing Street, questo è il modo migliore per risolvere la crisi una volta per tutte con le risorse sanitarie a disposizione. È una visione di «libero mercato della vita» che non sarebbe dispiaciuta a George Darwin o Adam Smith (entrambi britannici). Per molti è pura pazzia. Pierre Andurand, hedge fund manager di spicco, ha detto su Twitter, che la politica di Johnson è «un omicidio di massa». Per chi in Gran Bretagna ci vive, o per chi ha amici e parenti qui, questi sono giorni di ansiosa attesa: un branco sospeso tra la speranza dell' immunità e la paura della strage.

Da leggo.it il 27 febbraio 2020. «Il nostro paese ha fatto tantissimi tamponi, ma non siamo pronti a fronteggiare una eventuale emergenza per il Coronavirus. Non abbiamo mezzi né personale e il governo sta mentendo sulle potenzialità del sistema sanitario nazionale». In Gran Bretagna l'allerta per il Covid-19 sta facendo molto discutere, specialmente dopo la denuncia di alcuni dirigenti medici e primari. Se finora l'azione dei vertici della sanità britannica era stata encomiabile, visto il rigido monitoraggio dei contagi attraverso migliaia di tamponi, ora i medici denunciano un comportamento scorretto da parte del governo presieduto da Boris Johnson e lanciano l'allarme: «Se dovesse esplodere una epidemia nel paese, non saremmo in grado di fronteggiare l'emergenza. Non ci sono abbastanza posti letto per la terapia intensiva e i medici sono pochi, potremmo essere costretti a dover scegliere chi ricoverare tra i pazienti contagiati dal Coronavirus e quelli che si trovano in rianimazione per altre patologie». Lo riporta l'Independent. Diversi medici, in tutto il Regno Unito, hanno poi aggiunto: «Il governo ha mentito in maniera spudorata sulla preparazione del nostro sistema sanitario. Dal 2009, anno dell'influenza suina, esiste un protocollo rigido su come affrontare ogni pandemia ma i tempi sono cambiati da allora. Il protocollo dei "tre saggi", come viene chiamato, è efficace per affrontare ogni anno l'influenza stagionale, ma di fronte alla pandemia sarebbe assolutamente inutile e insensato, anche perché il sistema sanitario non è più quello di un decennio fa. Negli ultimi anni, un po' tutti i governi hanno fatto tagli drastici e scandalosi alla sanità e mancano posti letto per la terapia intensiva». Altri medici, invece, hanno voluto sottolineare l'aspetto umano rispetto a quello professionale: «Di fatto, saremo costretti a decidere delle vite degli altri perché non abbiamo abbastanza risorse sotto ogni punto di vista, ma non è questa la missione della nostra professione. Il governo, anche tramite i media, ha ribadito che il sistema sanitario è ben preparato, ma non è la verità. Se dovesse esserci una pandemia, potremmo solo sperare che i contagi interessino persone sane e giovani, altrimenti sarebbe una vera e propria strage». Di fronte alle allarmanti denunce dei medici, un portavoce del governo britannico ha risposto così: «Il Regno Unito è uno dei leader mondiali nel preparare e gestire emergenze sanitarie e il nostro approccio sarà sempre guidato dagli esperti medici. Siamo consapevoli delle difficoltà che potremmo incontrare di fronte a una pandemia globale, ma ci stiamo preparando per ogni eventualità grazie ad un team di esperti proprio perché la sanità pubblica è la nostra priorità».

(ANSA il 28 febbraio 2020.) - E' morto un britannico che si trovava a bordo della nave da crociera Diamond Princess e che era stato trovato positivo al coronavirus. Lo riferisce l'agenzia giapponese Kyodo. Il Foreign Office non ha ancora commentato. Si tratta del primo cittadino britannico vittima dell'epidemia. Il Foreign Office ha fatto sapere a caldo di star controllando la notizia, ma la conferma del ministero della Sanità del Giappone toglie ogni dubbio. La viceministra britannica della Sanità, Jo Churchill, ha da parte sua confermato alla Bbc di essere stata informata fin da ieri che l'uomo - un anziano, a quanto se ne sa - era "in condizioni molto, molto precarie". "I miei pensieri sono per la sua famiglia in questo momento", ha aggiunto Churchill, a nome anche del governo.

DAGONEWS il 28 febbraio 2020. Poi siamo noi gli allarmisti! Il Regno Unito è sull'orlo di una crisi di panico per il coronavirus. Mentre il paese registra il primo morto (un uomo che si trovava a bordo della crociera “Diamond Princess”) i tabloid britannici - tra cui il popolarissimo Daily Mail - stanno facendo una campagna mediatica durissima contro l’Italia e gli italiani. Oggi a finire nel mirino è l’aeroporto di Heathrow, dove i passeggeri in arrivo dall’Italia non vengono sottoposti a controlli sanitari, nonostante “uno dei pazienti affetti da Coronavirus abbia preso la malattia in Italia senza aver visitato le città focolaio del Nord Italia”. Un reporter della trasmissione di iTv “Good Morning Britain” ha condiviso un video su Twitter di lui che arriva nell’aeroporto londinese da Milano senza essere sottoposto ad alcun controllo o termoscanner. Dalla città della Madonnina al più frequentato scalo londinese ci sono decine di voli giornalieri e quindi - è il timore dei giornali d’Oltremanica - è molto facile che qualche contagiato stia arrivando o arrivi presto. Ma più che agli italiani dovrebbero guardarsi in casa: in Gran Bretagna - Italia o no - ci sono 19 casi confermati. E stanno pensando di chiudere le scuole per due mesi (sic!) e di sospendere la Premier League. Provvedimenti che nemmeno “Giuseppi” con il pullover o Fontana con la mascherina si sono mai sognati di prendere. Non sarà che l’epidemia è già arrivata e non sanno come contenerla?

DAGONEWS l'11 marzo 2020. Caos in Gran Bretagna dove le persone che tornano dall’Italia non solo non vengono sottoposte alla misurazione della temperatura, ma non sanno nemmeno di doversi mettere in quarantena nelle due settimane successive al viaggio. British Airways e Jet2 hanno sospeso tutti i voli da e verso l’Italia, ma alcuni aerei di easyJet e Vueling hanno continuato ad atterrare a Heathrow, Stansted, Gatwick, Manchester ed Edimburgo. Circa 20.000 turisti britannici rischiano di rimanere bloccati in Italia dopo che tutte le principali compagnie aeree hanno cancellato i voli, lasciandoli alla ricerca disperata di un’alternativa per tornare a casa. Francesco Stabile, autista Uber che vive a Herts da 16 anni ed è atterrato a Stansted di ritorno dall’Italia, ha raccontato: «Non avevo idea di dovermi mettere in quarantena. Vado in Italia ogni due settimane, ma nessuno mi ha comunicato che doveva isolarmi. Al momento sto bene». Anna De Luca, 30 anni, che vive a Brighton ed è atterrata a Gatwick da Napoli, ha detto: «È semplicemente folle. In realtà sono piuttosto scioccato, non ci sono controlli. A Napoli facevano i controlli per farci stare a un metro di distanza in aeroporto. Ho appena chiesto a un uomo che lavora qui, ha detto che forse dovresti telefonare il numero 111, ma non mi è stato fatto alcun controllo». Patrick Vallance, il principale consulente scientifico del governo, ha parlato ieri del perché i passeggeri che arrivano sui voli dall'Italia non vengono regolarmente sottoposti a screening per i sintomi: «Lo screening della temperatura in aeroporto non ha molto senso». E Boris Johnson ha aggiunto: «Come ha affermato Patrick, ciò che sta accadendo in altri paesi non rispecchia necessariamente ciò che sta accadendo qui nel Regno Unito ed è per questo che stiamo seguendo le indicazioni sulla base delle prove scientifiche che abbiamo».

Coronavirus, gli italiani dalla Gran Bretagna: “Qui non prendono misure, aiutateci!”. Le Iene News il 17 marzo 2020. Ci state scrivendo in tantissimi dalla Gran Bretagna e qui vedete alcuni degli appelli video. I nostri connazionali che vivono nel Regno Unito ci chiedono aiuto perché il governo di Boris Johnson lascia tutto aperto, dai pub alle scuole. “Negozi aperti, no mascherine, no distanziamento: nessun cambiamento dalle settimane passate”, “Siamo molto impauriti”, “Ci dicono che siamo esagerati perché ci manca la mamma”, “Siamo italiani anche noi, non abbandonateci”. In tantissimi ci state scrivendo da Londra e tutta la Gran Bretagna. Qui sopra vedete e sentite le voci di alcuni degli italiani in Gran Bretagna, in alcuni dei video che ci avete mandato. Dall’unico Paese europeo e forse del mondo che non prende misure decise per contenere i contagi da coronavirus. Il premier Boris Johnson fino a tre giorni fa di fatto non aveva preso proprio nessuna misura. Aveva detto che “tanti avrebbero dovuto prepararsi a perdere prematuramente molti dei propri cari”. Si puntava sull’“immunità di gregge”, ovvero, come ha detto il consigliere scientifico del governo Patrick Vallance, sul momento ancora molto lontano in cui le persone già guarite o contagiate dal virus avrebbero raggiunto il 60% della popolazione e fatto finire l’epidemia, dopo però magari migliaia di morti. Boris Johnson ha fatto ieri una parziale marcia indietro invitando i britannici "a uscire di casa solo per i servizi necessari o per esercizi fisici distanziati dagli altri, a ridurre gli spostamenti, a lavorare da casa e a limitare i contatti”. Pub, cinema, teatri, locali pubblici e tutte le scuole restano però, ancora aperti. E come vedete tutto sembra ancora normale. Mentre i casi di coronavirus nel Regno Unito continuano ad aumentare. L’ultimo bilancio è di 1.551 contagiati con 56 morti e anche a Downing Street dicono di sapere di essere “a tre settimane di distanza dalla situazione italiana”. Mentre risuona ancora triste e inquietante alle orecchie l’infelice battuta del presentatore tv inglese Christian Jensen: "Il coronavirus? Una scusa per gli italiani per non fare niente".

Coronavirus, l'appello degli italiani all'estero: "Qui non capiscono il pericolo, chiudete in casa anche noi". Con l'hashtag #covidhasnoborder vola sui social un appello rilanciato dalla Spagna alla Francia, dalla Germania all'Olanda. Blogger e influencer danno il loro contributo. Alessandra Ziniti il 13 marzo 2020 su La Repubblica. L'iniziativa è partita ieri dal gruppo italiani a Barcellona ma l'hashtag #covidhasnoborder sta volando sui social dalla Spagna alla Francia, dall'Olanda alla Germania arricchita da videoappelli e rilanciata anche da alcuni influencer. Gli italiani all'estero, e tra loro anche tanti ragazzi, ovviamente bene informati delle misure prese in Italia e spaventati dalla lentezza se non dalla totale assenza di provvedimenti delle autorità dei Paesi in cui vivono dove pure il coronavirus sta galoppando, chiedono di essere messi nelle condizioni di poter vivere e lavorare al sicuro. "Siamo preoccupati - scrivono - come molti italiani all'estero per la leggerezza con cui gli altri stati stanno affrontando la situazione. Pur seguendo autonomamente le direttive italiane è difficile mantenere un metro di distanza, andare a lavoro a piedi invece che con i mezzi e convincere le persone che non si tratta di una normale febbre". Rilanciano anche i genitori dei ragazzi italiani. Scrive Linda Maresca: "Sono la mamma di un ragazzo che vive e lavora a Barcellona, all'hospital clinic ed è chirurgo, quindi potete solo immaginare...proteggetevi, vi prego, non date ascolto a chi dice che non è grave. Se potete restate a casa e se uscite guanti e mascherine. Non andate in nessun bar, pub e restate 2 metri lontano da chiunque. Fatelo per favore che ho la sensazione che il governo spagnolo non si è reso conto ancora della situazione". Sulle storie di Instagram rilanciano influencer come Mousta chic e Martina Failla e il blogger Marcocartasegna su Instagram che in un video dice: "Il mondo ha bisogno di capire che il virus non conosce confini. Per favore prendete esempio dall'Italia e prendete provvedimenti nei vostri Paesi perché se no la catastrofe è molto vicina".

Buckingham Palace si prepara ad annullare i Garden Parties della regina per motivi di sicurezza. Anche la famiglia reale sta seguendo le indicazioni di governo ed esperti per limitare il diffondersi del virus e sarebbe pronta a cancellare alcuni eventi mondani in programma nei prossimi mesi. Novella Toloni, Lunedì 09/03/2020, su Il Giornale. Ai tempi del coronavirus anche la famiglia reale è costretta a rivedere protocolli e occasioni mondane per evitare il diffondersi dei contagi. Mentre nel Regno Unito si moltiplicano i casi, i tabloid britannici hanno fatto sapere che la regina Elisabetta II sta rivendendo alcuni impegni dei prossimi mesi. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, sarebbe stato consigliato a sua Maestà di annullare le famose feste annuali in giardino per ridurre la diffusione del coronavirus. Che i tempi stessero cambiando lo si era intuito alcuni giorni fa. Durante una cerimonia ufficiale a Buckingham Palace la regina Elisabetta ha indossato, in via straordinaria, i guanti. Una precauzione sensata e dovuta, vista l'età della reggente che tra poche settimane compirà 94 anni, per limitare la sua esposizione a un possibile contagio. Si è trattato di un evento inconsueto, visto che mai la regina aveva indossato guanti durante una cerimonia di investitura. Alla luce dell'emergenza sanitaria in atto in tutto il mondo, gli esperti avrebbero consigliato alla famiglia reale di ridimensionare il calendario degli appuntamenti mondani che li vedono protagonisti. In particolare quelli dove potrebbero esserci maggiori concentrazioni di persone. Buckingham Palace si starebbe dunque preparando ad annullare le feste del Queen's Garden previste per il mese di maggio, dopo che gli esperti e i medici del governo inglese hanno avvertito che potrebbe essere necessario un ridimensionamento degli impegni pubblici. Le feste di primavera in giardino organizzate dalla regina Elisabetta radunano, ogni anno, oltre 30mila persone di ogni estrazione sociale tra la dimora di Buckingham Palace e quella di Holyroodhouse. Una tradizione, portata avanti dal lontano 1860, che rischia di interrompersi proprio per colpa del coronavirus. La preoccupazione maggiore è infatti legata al raduno di massa che queste feste comportano, eventi dove si consumano migliaia di bevande e pasti che potrebbero veicolare con maggiore forza i contagi. Secondo i tabloid britannici, infatti, il picco epidemico sarebbe previsto per maggio, mese nel quale si svolgono le famose feste nei giardini reali. I party reali sono "probabilmente vulnerabili alla cancellazione", dicono fonti vicine al portale inglese Daily Mail, visto che il governo "sta valutando misure di emergenza per vietare e limitare le riunioni di massa". Da Buckingham Palace però arrivano anche notizie di rassicurazioni da parte della famiglia reale e della sovrana che sarebbe determinata a dare l'esempio "mantenendo la calma e proseguendo fino a quando possibile con gli impegni programmati". La Regina Elisabetta e gli altri esponenti della royal family non rinunceranno dunque, per il momento, ai loro impegni istituzionali in giro per il paese e per il mondo, almeno fino a quando il governo inglese non varerà misure drastiche di contenimento.

·        …in Albania.

Da "agenzianova.com" il 17 aprile 2020. Il parlamento albanese si è riunito oggi in seduta straordinaria per approvare alcuni interventi proposti dal governo del premier Edi Rama quale parte delle misure per prevenire la diffusione del coronavirus. Al centro dei dibattiti in aula dove i deputati si sono seduti a distanza di sicurezza uno dall'altro, con le mascherine indosso, sono state le modifiche al codice penale per chi non rispetta le restrizioni adottate in situazioni di emergenza o di pandemia. Previste sanzioni che partono da multe fino alla reclusione. La violazione della quarantena verrà punita dai 2 fino a 3 anni di reclusione. Chi invece, sa di essere contagiato e consapevolmente commette azioni che possono provocare il decesso di altre persone, la condanna prevista è da 3 fino a 8 anni di reclusione. La maggioranza aveva proposto inizialmente sanzioni più dure, contestate dalle organizzazioni della società civile albanese e quelle per la tutela dei diritti dell'uomo. Critiche sono state avanzate anche dal presidente Ilir Meta il quale ha chiesto al Parlamento di tenere conto anche del rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione. La versione approvata infatti, è simile a quella proposta da Meta. "I nostri esperti e anche quelli del capo dello Stato hanno concordato infatti una variante armonizzata che ha indirizzato anche le preoccupazioni legittime di altri attori", ha spiegato Rama ai media al termine della seduta, secondo il quale "il codice penale dell'Albania, è forse l'unico ad avere avuto sanzioni in casi di epidemie". Il premier si è detto soddisfatto del modo in cui è stata affrontata fino adesso l'emergenza, annunciando che nelle prossime settimane le misure restrittive saranno gradualmente allentate.

·        …in Romania.

Scandalo in Romania: dal governo l'appalto delle mascherine a una cuoca prestanome. Catalin Prisacariu l'8/4/2020 su L'Espresso. I giornalisti di inchiesta del consorzio EIC, di cui L'Espresso fa parte per l'Italia, raccontano la situazione nel loro paese. A pochi chilometri dalla periferia meridionale di Bucarest, capitale della Romania, c’è il comune di Calugareni. È un nome che ogni romeno, a prescindere da dove viva, non può non aver sentito a un certo punto della sua vita. È a Calugareni, infatti, che nel 1595 il prode Michele il Coraggioso, re di Valacchia, affrontò e sconfisse un enorme esercito ottomano, come riportano tutti i testi romeni di storia. A distanza di quattro secoli, Calugareni è tornata a fare notizia quando la star Steven Seagal ha girato un film da quelle parti. Nel novembre 2013, il Daily Express ha raccontato che “l’attore hollywoodiano durante le riprese in Romania ha fatto visita a un canile locale per adottare un cane randagio". Il canile è noto come “Dog Town”, ed è situato a Uzunu, una frazione del comune di Calugareni. Nel marzo 2019, proprio a Uzunu, la signora Maria Cristian, una cinquantenne che non è mai uscita da quella piccola comunità, ha aperto una società a responsabilità limitata. All’epoca nessuno dei suoi compaesani sapeva che la società era ubicata presso casa sua e, in fondo, neanche lei ha fatto qualcosa di diverso dal solito: ha continuato a cucinare per un ristorante locale come fa da anni. Secondo i documenti ufficiali, l’attività principale della sua azienda è occuparsi di cibi e bevande venduti al dettaglio in chioschi e bancarelle. Anche il nome della società è calzante: Romwine & Cofee (con una sola “f”). Per un altro anno non è accaduto nulla di rilevante per la piccola società. Poi, nel marzo 2020, all’improvviso tutti hanno iniziato a parlare di Uzunu. Ci si potrebbe aspettare che Uzunu sia diventato un focolaio, che tutti gli abitanti siano contagiati e che le sale mortuarie siano affollate da centinaia di cadaveri. Ebbene, niente di tutto questo. In verità, però, un collegamento con l’epidemia da coronavirus c’è: a Romwine & Cofee sono stati assegnati due appalti pubblici per la fornitura di mascherine chirurgiche di tipo FFP2 e FF3. La gara è stata gestita dall’Ufficio nazionale per gli approvvigionamenti pubblici, un ente istituito per garantire la fornitura di materiali indispensabili a contrastare la pandemia. Vale la pena sottolineare che le consuete regole per candidarsi alle gare d’appalto sono state abrogate in seguito allo stato d’emergenza dichiarato in Romania alla metà di marzo, e quindi l’assegnazione degli appalti è stata più snella. E anche molto redditizia: i due contratti assegnati alla società di vendita al dettaglio di cibo e bevande con sede a Uzunu raggiungono i 56 milioni di leu romeni, circa 11 milioni di euro per la produzione di 1,75 milioni di mascherine. In media, una mascherina costava circa 6,5 euro, ovvero una cifra di quattro o cinque volte superiore al prezzo effettivo. Quando i giornalisti si sono precipitati a Uzunu e hanno scoperto il quartiere generale della società (la casa della cuoca Maria Cristian del ristorante locale, come detto sopra), i suoi increduli compaesani hanno appreso che la donna era un vero squalo del mondo degli affari. Il giorno dopo, però, il mistero è stato risolto: mentre gli articoli di giornale si moltiplicavano e il Primo ministro Ludovic Orban prometteva di avviare un’inchiesta sulla concessione degli appalti, un uomo d’affari ha deciso di farsi avanti. Si tratta di Catalin Robertino Hideg, un vero tycoon nella fornitura di apparecchiature sanitarie, proprietario dell’azienda Sanimed International. Hideg, ex studente di dottorato in intelligence presso l’Accademia nazionale d’intelligence del servizio segreto romeno, ha ammesso in televisione in prima serata che Maria Cristian è soltanto un prestanome. Hideg ha detto che Romwine & Cofee è soltanto una società che distribuisce le forniture sanitarie di Sanimed Internazional e ha presentato un’offerta per l’appalto di mascherine supportata da Sanimed. Ma perché è stata necessaria una cosa del genere? Sanimed non ha potuto dimostrare di aver pagato l’IVA (uno dei prerequisiti per candidarsi), ma Hideg ha anche aggiunto che in verità si tratterebbe solo di un gigantesco malinteso, in quanto la sua società deve ricevere soldi dal Tesoro e non versarli. A prescindere dalle motivazioni del caso, tuttavia una cosa è certa: il coronavirus ha già fatto la fortuna di pochi privilegiati. Diventati maledettamente ricchi. Traduzione di Anna Bissanti

·        …in Polonia.

ANSA-AFP il 17 marzo 2020) - L'intero governo polacco è stato messo in quarantena dopo che un ministro è risultato positivo al coronavirus. Il vice capo del comitato olimpico giapponese è risultato positivo al coronavirus. Lo ha annunciato lo stesso comitato in una nota. Il governo giapponese aveva detto stamane di voler continuare con la preparazione delle Olimpiadi di Tokyo, confermando la data di inizio prevista per questa estate. Il nuovo coronavirus ha fatto almeno 7.063 morti nel mondo dalla sua comparsa in dicembre, secondo un bilancio compilato questa mattina dall'Afp in base a dati ufficiali. I casi di contagio sono oltre 180.090 in 145 Paesi. Da ieri nel mondo si sono verificati 56 nuovi decessi e 4.569 nuovi casi.

·        …in Svizzera.

Coronavirus/ In Svizzera hanno deciso: niente cure per gli anziani. I Nuovi Vespri il 30 ottobre 2020. La Svizzera, sicuramente un Paese civile, subissata dal Covid-19 , a fronte poi di risorse mediche insufficienti, ha deciso scientemente di lasciare morire i propri vecchi a favore delle generazioni giovani. Il testo integrale della direttiva adottava dalla Svizzera di Nota Diplomatica. Dev’essere una sorta d’inflazione. Ciò che è raro è spesso prezioso, viene valorizzato e protetto mentre il bene troppo comune perde di valore. Ancora a memoria d’uomo, gli anziani – una volta pochi, ma ormai molti -erano stimati e protetti, anche per il loro valore sociale come garanti delle tradizioni e portatori di saggezza. Nelle piccole comunità comandavano loro, non per la potenza fisica ma perché sapevano meglio di tutti come girava il mondo. Ora la Svizzera, sicuramente un Paese civile, ma subissata dal Covid in proporzione marcatamente più grave dell’Italia e della Germania – a fronte poi di risorse mediche almeno potenzialmente insufficienti – ha deciso scientemente di lasciare morire i propri vecchi a favore delle generazioni giovani. Una direttiva emessa dall’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche e dalla Società Svizzera di Medicina Intensiva, dal titolo “Triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse”, risponde esplicitamente a una domanda che viene posta in molti ospedali, precisando le tipologie di pazienti destinati a non essere soggetti ad “alcuna rianimazione cardiopolmonare” in caso di scarsità di posti in Terapia Intensiva: “Età superiore a 85 anni o età superiore a 75 anni se accompagnata da almeno uno dei seguenti criteri: cirrosi epatica, insufficienza renale cronica stadio III, insufficienza cardiaca di classe NYHA superiore a 1 e sopravvivenza stimata a meno di 24 mesi”. Pure altre condizioni incurabili, come la “demenza grave”, possono bloccare l’accesso alle cure. Il triage arriva dalla medicina militare ed è utilizzato come meccanismo per assegnare le priorità ai pazienti sui quali intervenire quando non tutti possono ricevere cure, come appunto in una guerra. In brutale sostanza, in combattimento ciò significa dividere i feriti in tre gruppi: “gli spacciati”, “i feriti minori” e, in mezzo, quelli che si può forse salvare con le risorse disponibili, lasciando gli altri ai rispettivi destini. Brutto a dirsi, ma di una logica cristallina, senonché le risorse disponibili per salvare un generale rispetto a un soldato semplice potrebbero essere maggiori. I generali sono “più rari”…Gli anziani oggi sono invece meno rari e meno preziosi, forse perché sono tanti. Può darsi anche che l’ampliamento della categoria attraverso l’accresciuta speranza di vita ne abbia pure minato il livello “qualitativo”. La demenza pare più comune di una volta: si pensa soprattutto perché più gente arriva all’età per soffrirne. Con il declino della prosperità in Occidente, alle generazioni più giovani i vecchi paiono sempre più un ostacolo, un tappo di bottiglia. L’americano Alexander Rose, dell’influente Long Now Foundation – fondazione dedicata alle previsioni sociali a lungo termine – riassume il concetto quando si preoccupa della prospettiva di un mondo “largamente popolato da anziani che si accaparrano le ricchezze, lavorano poco e non offrono gli enormi contributi creativi dei ventenni”…L’attuale epidemia – come l’ansia globale che provoca – porta al pettine tanti nodi sociali e politici. Gli svizzeri non hanno colpe solo perché hanno detto le cose chiaramente. Pare però che l’ultimo contributo che possiamo attenderci dall’attuale generazione più anziana sia quello di levarsi di torno, di lasciare lo spazio agli altri, anche nei letti d’ospedale.

QUI DI SEGUITO IL TESTO INTEGRALE DELLA DIRETTIVA ADOTTATA DALLA SVIZZERA

Pandemia Covid-19: triage dei trattamenti di medicina intensiva in caso di scarsità di risorse.

Indicazioni per l’attuazione del capitolo 9.3 delle direttive dell’ASSM «Provvedimenti di medicina intensiva» (2013)

I. Situazione

II. Direttive

1. Ambito di applicazione

2. Principi etici fondamentali

3. Criteri per il triage (ricovero e permanenza) nel reparto di terapia intensiva e nei reparti di Intermediate Care in caso di scarsità di risorse

4. Decisioni a livello di triage

4.1. Fasi

4.2. Inasprimento dei parametri

4.3. Triage iniziale: criteri per il ricovero nei reparti di terapia intensiva

4.4. Triage durante il ricovero in terapia intensiva

5. Processo decisionale

III. Appendice

1. Letteratura

2. Note sull’elaborazione delle presenti direttive

I. Situazione

A causa della rapidità di diffusione del coronavirus (SARS-CoV-2) si è venuta a creare una situazione straordinaria che determinerà un massiccio afflusso di pazienti negli ospedali per malattie acute. In una prima fase si può far fronte a questa situazione limitando gli interventi di elezione, trasferendo i pazienti nelle unità di cure intermedie, incrementando il numero di posti letto dotati di respirazione assistita e rinunciando ai trattamenti che richiedono un considerevole impiego di personale. Se le risorse a disposizione non sono sufficienti, occorre prendere decisioni di razionamento. In questa situazione il personale medico si trova a gestire un carico di lavoro enorme, pertanto è assolutamente fondamentale che in tutta la Svizzera vengano applicati criteri uniformi per il ricovero e la permanenza dei pazienti in terapia intensiva. Le presenti direttive creano una base di riferimento a tal fine. Gli editori provvederanno a modificare le direttive qualora dovesse risultare necessario alla luce dell’esperienza pratica e di nuove conoscenze scientifiche. La versione più aggiornata sarà sempre disponibile su assm.ch/fr/coronavirus.

1 L’ordinanza 2 sui provvedimenti per combattere il coronavirus (COVID-19) del 13 marzo 2020 (versione del 16 marzo 2020) si basa sull’articolo 7 della legge sulle epidemie, che disciplina la situazione straordinaria.

2 Cfr. ordinanza 2 COVID-19, art. 10a cpv. 2. Le strutture sanitarie quali ospedali e cliniche, studi medici e dentistici devono rinunciare a interventi medici e terapie non urgenti. Benché nei testi i gruppi di persone menzionati vengano citati solo nella forma maschile, si fa riferimento sempre a entrambi i sessi. Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva».

II. Direttive

1. Ambito di applicazione. Le seguenti direttive trovano applicazione nel momento in cui sussiste una scarsità di risorse che impone la necessità di prendere decisioni di razionamento e sono valide per tutte le categorie di pazienti. Le persone affette da Covid-19 e gli altri pazienti che necessitano di cure intensive vengono trattati in base ai medesimi criteri. Le presenti direttive integrano le direttive dell’ASSM «Provvedimenti di medicina intensiva» e riguardano solo una piccola parte dei pazienti affetti da coronavirus, in particolare la categoria dei pazienti più gravi, che necessitano di trattamenti di terapia intensiva.

2. Principi etici fondamentali. I quattro classici principi medico-etici (beneficenza, non maleficenza, rispetto dell’autonomia e giustizia) sono determinanti anche in caso di scarsità di risorse. È importante chiarire preliminarmente la volontà del paziente riguardo ai trattamenti d’urgenza e di terapia intensiva, soprattutto se la persona rientra in una categoria a rischio. Le scarse risorse a disposizione non devono in alcun caso essere utilizzate per curare un paziente che non desidera essere assistito. Se le risorse non sono sufficienti per curare tutti i pazienti in maniera ottimale, occorre applicare questi principi fondamentali in base alle seguenti regole di preferenza: Equità: le risorse disponibili devono essere distribuite senza operare discriminazioni, ovvero senza disparità di trattamento ingiustificate legate a età, sesso, luogo di residenza, nazionalità, confessione religiosa, posizione sociale, situazione assicurativa o invalidità cronica. La procedura di allocazione deve essere equa, obiettivamente motivata e trasparente. Rispettando il principio di equità nella suddetta procedura, si evita soprattutto di prendere decisioni arbitrarie. Salvare il maggior numero possibile di vite umane: in condizioni di forte scarsità di risorse, tutte le misure devono rispondere all’obiettivo di ridurre al minimo i casi di decesso. Le decisioni vanno prese nell’ottica di contenere il più possibile il numero di malati gravi e morti. Protezione degli specialisti coinvolti: questi soggetti sono particolarmente esposti al rischio di contrarre il coronavirus. Qualora dovessero infettarsi e fossero quindi costretti ad assentarsi dal lavoro, una forte carenza di personale comporterebbe un numero ancora maggiore di decessi. Per questo il personale sanitario va protetto il più possibile dai contagi, nonché da un esaurimento psicofisico. Gli specialisti per cui un possibile contagio da coronavirus comporta un rischio sanitario particolarmente elevato vanno tutelati con misure specifiche, evitando di impiegarli nell’assistenza di pazienti affetti da Covid-19.

4 Per informazioni dettagliate sui principi etici fondamentali, cfr. le direttive «Provvedimenti di medicina intensiva», cap. 2.

5 Cfr. anche Piano svizzero per pandemia influenzale, Strategie e misure di preparazione a una pandemia influenzale, 5ª edizione 2018, cap. 6.1. e in particolare la Parte III del Piano pandemico svizzero 2006 «Questioni etiche», parere della Commissione nazionale d’etica per la medicina NEK-CNE n. 12/2006.

6 I posti letto liberi in terapia intensiva devono essere notificati tramite la piattaforma nazionale SII (Sistema d’informazione e d’impiego).

7 Naturalmente vale un principio analogo per tutte le persone che a causa dell’attività professionale che svolgono sono esposte a un rischio di contagio particolarmente elevato (ad es. addetti alle vendite, personale delle farmacie e congiunti curanti). Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva».

3. Criteri per il triage (ricovero e permanenza) nel reparto di terapia intensiva e nei reparti di Intermediate Care in caso di scarsità di risorse. Fintanto che le risorse disponibili sono sufficienti, i pazienti che necessitano di un trattamento di medicina intensiva vengono ricoverati e curati secondo criteri convenzionali. Gli interventi che richiedono un impegno particolarmente elevato in termini di risorse andrebbero eseguiti solo nei casi in cui la loro utilità sia chiaramente comprovata. Il ricorso all’ECMO8 andrebbe evitato per i pazienti affetti da Covid-19. In casi motivati e dopo aver attentamente soppesato le risorse necessarie in termini di personale, si può comunque decidere di effettuare tale trattamento. È importante chiarire anticipatamente la volontà dei pazienti, se essi sono in grado di esprimerla, rispetto all’eventualità di complicanze (stato di rianimazione ed entità della terapia intensiva). Se si rinuncia a provvedimenti di medicina intensiva, si devono garantire cure palliative adeguate. Se a causa di un totale sovraccarico del reparto specializzato si rende necessario respingere pazienti che necessitano di un trattamento di terapia intensiva, il criterio determinante a livello di triage è la prognosi a breve termine: vengono accettati in via prioritaria i pazienti che, se trattati in terapia intensiva, hanno buone probabilità di recupero, ma la cui prognosi sarebbe sfavorevole se non ricevessero il trattamento in questione; in altri termini, la precedenza viene data ai pazienti che possono trarre il massimo beneficio dal ricovero in terapia intensiva. L’età in sé e per sé non è un criterio decisionale applicabile, in quanto attribuisce agli anziani un valore inferiore rispetto ai giovani e vìola in tal modo il principio costituzionale del divieto di discriminazione. Essa, tuttavia, viene considerata indirettamente nell’ambito del criterio principale «prognosi a breve termine», in quanto gli anziani presentano più frequentemente situazioni di comorbidità. Nelle persone affette da Covid-19, peraltro, l’età rappresenta un fattore di rischio a livello di mortalità, occorre quindi tenerne conto. Valutazione di ulteriori criteri. In letteratura si discute circa l’opportunità di applicare ulteriori criteri quali l’estrazione a sorte, il principio «first come, first served», la priorità a persone con un elevato valore sociale ecc. Tali criteri non vanno presi in considerazione.

8 ExtraCorporeal Membrane Oxygenation (in italiano «ossigenazione extracorporea a membrana»).

9 Cfr. MacLaren G, Fisher D, Brodie D. Preparing for the Most Critically Ill Patients With COVID-19. The Potential Role of Extracorporeal Membrane Oxygenation. Jama, pubblicato il 19 febbraio 2020.

10 Cfr. le linee guida di palliative.ch: Mesures thérapeutiques chez les patients atteints de COVID-19 avec pronostic défavorable attendu.

11 Cfr. per maggiori dettagli il cap. 5.1 (Prognosi) delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva».

12 Cfr. ad es. Persad G, Wertheimer A, Emanuel EJ. Principles for allocation of scarce medical interventions. Lancet 2009; 373: 423-31.

Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva»

4. Decisioni a livello di triage

4.1. Fasi

– Al momento del ricovero: entità e durata della terapia, determinazione del percorso del paziente (ad es. trattamento in terapia intensiva, Intermediate Care, cure palliative).

– Dopo 2-3 giorni: prosecuzione del trattamento, limitazione dell’intensità o della durata del trattamento, cambiamento dell’obiettivo terapeutico e cure palliative.

4.2. Inasprimento dei parametri. Se le risorse del reparto e i letti ubicati fuori reparto non sono più sufficienti per accogliere tutti i pazienti che necessitano di un trattamento di terapia intensiva, il primo provvedimento da adottare è l’inasprimento del parametro della prognosi a breve termine. L’obiettivo è quello di massimizzare l’utilità per il singolo paziente e per la totalità dei pazienti, ossia decidere in modo tale da salvare il maggior numero possibile di vite. In questo contesto, il criterio della prognosi favorevole a breve termine acquisisce un’importanza (ancora) maggiore. In una situazione di afflusso di massa, vengono ricoverati in base ai criteri di seguito descritti solo i pazienti che necessitano di ventilazione meccanica (o di un altro trattamento specifico di terapia intensiva, come ad es. supporto emodinamico con vasoattivi o terapia sostitutiva renale continuativa). In tale situazione non è raccomandabile la rianimazione in caso di arresto cardiocircolatorio. In funzione dell’evolversi della situazione di sovraccarico nelle strutture sanitarie e dell’entità dell’afflusso di pazienti, si distinguono due livelli di criteri decisionali per il triage:

Livello A: letti in terapia intensiva disponibili, ma risorse limitate à triage per il ricovero / gestione delle risorse mediante decisioni circa l’interruzione dei trattamenti.

Livello B: indisponibilità di letti in terapia intensiva à triage per il ricovero / gestione delle risorse mediante decisioni circa l’interruzione dei trattamenti. Al livello B non andrebbe effettuata alcuna rianimazione cardiopolmonare. Fanno eccezione misure di rianimazione molto brevi qualora insorga un arresto cardiocircolatorio nell’ambito di un intervento medico (ad es. asistolia in caso di anestesia spinale).

13 Cfr. anche le raccomandazioni della Società Svizzera di Medicina d’Urgenza e di Salvataggio SSMUS «Prähospitale Triage und Versorgung bei Ressourcenknappheit im Hospitalbereich (spez. Intensivmedizin) während der COVID-19-Pandemie» (Triage preospedaliero e assistenza in caso di scarsità di risorse in ambito ospedaliero (specialmente in medicina intensiva) durante la pandemia COVID-19).

Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva».

4.3. Triage iniziale: criteri per il ricovero nei reparti di terapia intensiva.

Fase 1:

Il paziente presenta uno dei seguenti criteri a favore del ricovero?

– Necessità di ventilazione meccanica invasiva

– Necessità di supporto emodinamico con vasoattivi (dose equivalente di noradrenalina >0,1 μg/kg/min). Se sussiste un criterio per il ricovero à fase 2

Fase 2: Il paziente presenta uno dei seguenti criteri a sfavore del ricovero? Livello A (cfr. box sopra)

– Volontà del paziente (direttive del paziente ecc.)

– Arresto cardiocircolatorio non osservato, arresto cardiocircolatorio ricorrente, arresto cardiocircolatorio senza ROSC

– Malattia oncologica con un’aspettativa di vita < 12 mesi – Malattia neurodegenerativa allo stadio finale – Danno neurologico centrale grave e irreversibile – Malattia cronica: – insufficienza cardiaca di classe NYHA IV – COPD GOLD 4 (D) – cirrosi epatica con stadio Child-Pugh >

– demenza grave

– Grave insufficienza circolatoria resistente alle terapie nonostante l’aumento dei vasoattivi (ipotensione e/o persistenza di perfusione organica insufficiente).

– Sopravvivenza stimata < 12 mesi Livello B (cfr. box sopra) È prevista l’applicazione dei seguenti criteri supplementari: – Trauma grave – Ustioni diffuse (BSA > 40%) con inalazione

– Gravi deficit cerebrali in seguito a ictus

– Malattia cronica:

– insufficienza cardiaca di classe NYHA III o IV

– COPD GOLD 4 (D) o COPD A-D con: FEV1 < 25% o cuore polmonare o ossigenoterapia domiciliare (LOT) – cirrosi epatica con ascite refrattaria o encefalopatia > stadio I

– insufficienza renale cronica stadio V (KDIGO)

– demenza medio-grave comprovata

– Età15 > 85 anni

– Età > 75 anni e presenza di almeno uno dei seguenti criteri:

– cirrosi epatica

– insufficienza renale cronica stadio III (KDIGO)

– insufficienza cardiaca di classe NYHA > I

– Sopravvivenza stimata < 24 mesi

In presenza di uno dei criteri a sfavore del ricovero, il paziente non viene accettato nel reparto di terapia intensiva.

14 Cfr. Christian MD, Hawryluck L, Wax RS, et al. Development of a triage protocol for critical care during an influenza pandemic. CMAJ 2006; 175: 1377–81. 15 Secondo i dati di cui si dispone, l’età è un indicatore per la prognosi, cfr. Zhou F. et. al. Clinical course and risk factors for mortality of adult inpatients with COVID-19 in Wuhan, China: a retrospective cohort study.

Lancet 2020 Mar 11. pii: S0140-6736(20)30566-3. doi: 10.1016/S0140-6736(20)30566-3.

Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva»

4.4. Triage durante il ricovero in terapia intensiva. I criteri di seguito specificati sono rilevanti per decidere in merito al prosieguo del trattamento in terapia intensiva. La valutazione dei pazienti ricoverati in reparto deve essere effettuata con cadenza regolare (almeno ogni 48 ore) e a livello interprofessionale. Qualora lo stato di salute non migliori o subentri un peggioramento, occorre decidere se proseguire il trattamento o modificare l’obiettivo terapeutico e passare a cure palliative. Ciò vale anche per tutti gli altri pazienti (non affetti da Covid-19) ricoverati in terapia intensiva in una situazione di totale esaurimento delle risorse su cui può contare il reparto. I criteri di seguito specificati vengono applicati in maniera tanto più restrittiva quanto più scarsa è la disponibilità di risorse.

Fase 1. Presenza di un criterio per la dimissione dal reparto: – paziente estubato o in condizioni di respirazione spontanea (o parziale supporto respiratorio) in seguito a tracheotomia à il paziente lascia il reparto.

Fase 2. Presenza dei due criteri seguenti:

– stabilizzazione o miglioramento di ossigenazione e ventilazione, o della disfunzione d’organo soggiacente

– stabilizzazione o miglioramento delle condizioni emodinamiche. Entrambi i criteri sono necessari per la prosecuzione del trattamento in terapia intensiva.

Fase 3. Presenza di uno dei seguenti criteri che indicano l’assenza di prospettive in relazione al trattamento di terapia intensiva: Livello A (cfr. box sopra)

– insorgenza di un arresto cardiocircolatorio durante la permanenza in reparto, a meno che la rianimazione mediante defibrillazione abbia successo

– persistenza o sviluppo di una significativa disfunzione di tre organi. Livello B (cfr. box sopra)

– nessun miglioramento delle condizioni respiratorie o emodinamiche o della disfunzione d’organo soggiacente

– insorgenza di un arresto cardiaco durante la permanenza in reparto

– persistenza o sviluppo di una significativa disfunzione di due organi. La presenza di uno dei criteri porta a stabilire che la prosecuzione del trattamento di medicina intensiva non è più indicata, pertanto il paziente viene assistito con cure palliative.

5. Processo decisionale. Quando si prendono decisioni di triage, la fiducia va preservata anche nelle situazioni più gravi. Per questo è importante applicare sempre in modo trasparente criteri di razionamento e processi ispirati a principi di equità. Le motivazioni per la concessione o la mancata concessione di determinate priorità devono essere documentate descrivendole con chiarezza, nonché aggiornate man mano che la situazione evolve. Lo stesso vale per i processi tramite i quali vengono prese tali decisioni. Ogni singola decisione deve essere verificabile, ovvero documentata per iscritto indicando la motivazione e il nome di chi è stato chiamato a decidere.

Qualsiasi deroga dai criteri stabiliti deve essere documentata in maniera analoga. Inoltre, è opportuno prevedere meccanismi per gestire eventuali conflitti a posteriori. Indicazioni per l’attuazione del cap. 9.3 delle direttive «Provvedimenti di medicina intensiva». Il processo decisionale deve essere diretto da persone esperte. Nei limiti del possibile, le decisioni vanno sempre prese all’interno di équipe interprofessionali. In ultima istanza, tuttavia, ne risponde direttamente la persona in loco più in alto nella gerarchia. Gli organi (ad es. supporto etico, équipe multiprofessionale) che affiancano le équipe curanti possono fornire un valido aiuto. Ciò nonostante, il reparto di terapia intensiva deve essere in grado in ogni momento di decidere autonomamente e in tempi rapidi riguardo ai pazienti da ricoverare e da trasferire. Vanno rispettate le prescrizioni di legge16 relative all’obbligo di notificare regolarmente il numero totale e l’occupazione dei posti letto ospedalieri di cure intense.

Dagospia il 27 marzo 2020. Cherubino Di Lorenzo, ricercatore dell'Università La Sapienza di Roma, su Facebook: Nessuno ne parla, ma la situazione in Svizzera è decisamente preoccupante. Hanno la più alta prevalenza di casi al mondo, pur facendo meno tamponi che da noi, e non applicano alcun contenimento, se non blandamente in Ticino. La Confederazione Elvetica potrebbe insomma diventare il serbatoio delle future ondate di ritorno e vanificare tutte le chiusure che il resto d'Europa sta attuando.

Dagospia il 27 marzo 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Ho appena letto l'articolo riguardante Corona-Virus in  Svizzera e non me la sento di non informarvi. non é vero, che non applichino nessun contenimento. Tutte le scuole sono chiuse, aperti solo i negozi di merce di prima necessità, chiusi gli enti al pubblico ecc. Non é permesso stare fuori insieme, se non a distanza di 2 metri l'uno dall'altro, vietati anche qui tutti i tipi di attività di gruppo, che siano pubbliche o private.  io lavoro per le forze dell'ordine (polizia di stato) e so che vengono contate e protocollate le violazioni e che lo stato si regola secondo questi numeri. Appena oggi il governo svizzero ha pubblicamente dichiarato che controllano, anonimamente, gli spostamenti delle persone tramite i cellulari. Non abbiamo lo shutdown totale perché evidentemente siamo più disciplinati, ma ci aspettiamo che arrivi se questa disciplina venisse a mancare. Quindi, per cortesia, non pubblicate castronate piantate in aria. Rosella Gmünder-Vitto

Claudio Del Frate per corriere.it il 3 aprile 2020. Alla Svizzera potete togliere tutto ma non la democrazia. E così, mentre mezzo pianeta è in lockdown causa pandemia, domenica prossima a Ginevra si terrà regolarmente il secondo turno delle elezioni amministrative. L’immagine rende bene il paradosso del Paese elvetico, uno tra quelli colpiti più duramente dal coronavirus ma che fino a oggi ha messo in campo misure meno stringenti rispetto ad altri paesi europei, a cominciare dall’Italia. Si confida sul senso di responsabilità della popolazione e si tiene conto del fatto che, in vista di un ritorno alla normalità il motore della nazione, specie quello economico, non possa paralizzarsi del tutto.

I numeri del contagio. Fino a giovedì sera in Svizzera 18,827 persone si erano ammalate di Covid-19 e 536 erano morte. Con una popolazione di appena 8,6 milioni si tratta del peggior indice nel rapporto tra contagi e abitanti, un malato ogni 480 individui: solo la Spagna fa peggio in questo momento. Il virus, tuttavia, si è diffuso in maniera molto irregolare sul territorio; il fatto che le zone più colpite (Ginevra, Zurigo, Canton Ticino) siano anche quelle dove maggiore è il viavai di frontalieri (i lavoratori pendolari provenienti da Francia, Germania, Italia) ha alimentato per l’ennesima volta le polemiche sul ricorso alla manodopera straniera.

Freno e acceleratore. Per fronteggiare questa situazione il governo di Berna ha chiuso tutte le attività ritenute non essenziali (a cominciare da bar, ristoranti e strutture turistiche) e ridotto al minimo i trasporti. Ha inoltre vietato manifestazioni pubbliche e assembramenti superiori a 5 persone; non ha però chiuso in casa le persone e prevede per i trasgressori multe fino a 100 franchi ma non denunce penali. Nella notte tra l’8 e il 9 marzo sono stati chiusi i confini nazionali (benché la Svizzera aderisca al trattato di Schengen) ma su esplicita richiesta del ministro degli esteri Ignazio Cassis è stato consentito l’accesso dei frontalieri dalla Lombardia, la regione più infetta d’Europa. Misura indispensabile, altrimenti l’economia del territorio si sarebbe fermata, a cominciare dal settore sanitario che fa ricorso a 5.000 addetti provenienti dall’Italia.

Come la Guerra Fredda. Tali restrizioni inizialmente dovevano rimanere in vigore fino al 19 aprile ma Alain Berset, ministro della sanità ha già dichiarato di ritenere illusorio il rispetto di quella scadenza. Guy Parmelin, suo collega al dicastero dell’economia si è detto invece soddisfatto di come la popolazione ha rispettato le prescrizioni. Alcuni cantoni però hanno ritenuto utile inasprire le misure nazionali: il Ticino ha vietato agli over 65 di uscire di casa. E’ stata rispolverata anche una vecchia norma risalente ai tempi della Guerra Fredda che invitava le famiglie svizzere, le cui abitazioni molto spesso sono dotate di bunker antiatomico) a fare scorte di eni essenziali (acqua, cibo a lunga conservazione, medicinali di base, utensili). Tuttavia è stato raccomandato di non dare l’assalto ai supermercati.

La bufala di Salvini. «In Svizzera basta che compili un modulo e ti danno 500.000 euro» aveva dichiarato qualche giorno fa Matteo Salvini per accusare il governo italiano di immobilismo di fronte alla crisi economica avanzante. Una bufala talmente grossa da indurre la Rsi (il canale della tv pubblica di lingua italiana) a trasmettere un servizio ad hoc per smentirla. E’ vero dì’altra parte che il governo federale ha azionato un «bazooka» a difesa delle sue imprese: il provvedimento pubblicato sul sito ufficiale del consiglio federale parla di un pacchetto di 40 miliardi di franchi (poco meno la stessa cifra in euro) a sostengo delle azienda. Fondi che andranno in misure sociali a favore dei lavoratori o alle imprese. Una norma prevede prestiti a tasso zero (non a fondo perduto) e a seconda del fatturato fino a 500.000 franchi.

Con il segno più. A proposito di economia, gli analisti non rinunciano a un cauto ottimismo. Anche se un sondaggio rivela che il 75% delle imprese elvetiche registrerà un brusco calo di fatturato nel secondo trimestre dell’anno, per la fine del 2020 l’ufficio studi di Credit Suisse a metà marzo vedeva ancora una crescita del Pil nazionale dell’1%. Più cauto è invece il politecnico di Zurigo che abbassa quel limite a un +0,3% .

Coronavirus, l'anomalia dei frontalieri: finora noi un pericolo per l'Italia. Le Iene News il 17 marzo 2020. Il coronavirus arriva in Svizzera, dove già si contano oltre 2.000 contagi e i primi morti, e finalmente il paese elvetico ha adottato le misure di contrasto. A Iene.it alcuni frontalieri ci scrivono come ogni giorno superano il confine, anche per la Francia, per andare a lavorare con poche precauzioni: “E la sera si torna a casa in Italia”. Finalmente da oggi e fino al 19 aprile anche la Svizzera corre ai ripari contro il coronavirus, e adotta divieti simili a quelli italiani. Ma dall'approvazione del primo decreto dell'8 marzo che ha stabilito la regione Lombardia insieme ad altre province come zona rossa, i frontalieri che ogni giorno lavorano in terra elvetica hanno continuato a fare avanti e indietro. Potenzialmente rischiando loro stessi e mettendo in pericolo le persone intorno a loro. Sono tantissime le segnalazioni arrivate a Iene.it per denunciare questa situazione. “Il nostro comportamento ha azzerato tutti gli sforzi fatti in Lombardia e in tutta Italia”, ci ha scritto Ivan. Lui, come altre centinaia di frontalieri, ha continuato a superare i confini nonostante la zona rossa. Fino a oggi, quando finalmente anche in Svizzera sono stati presi provvedimenti per limitare i contagi. La decisione del governo elvetico, infatti, è stata quella di lasciare aperte le frontiere. I numeri infatti sono impietosi. Finora i casi accertati da coronavirus in Svizzera sono oltre 2.200 con 20 morti. In Ticino invece sono 330 i positivi, tra loro 94 sono in ospedale: 17 in cura intensiva. 8 invece sono i morti. Dalla decisione di trasformare la Lombardia in una regione zona rossa a oggi sono trascorsi ben 9 giorni. Un periodo in cui i frontalieri hanno continuato a recarsi in Svizzera per lavoro, e a frequentare quindi un paese che continuava a vivere come se nulla fosse: bar, ristoranti e negozi aperte, senza alcun rispetto delle distanze di sicurezza. Una situazione che ci ha segnalato anche Ilaria, frontaliera da Ventimiglia in Francia. Ci racconta che lavora in una fabbrica con altri 178 operai, dove non sono rispettate le distanze di sicurezza. Peggio ancora sui mezzi pubblici. “Partiamo da Ventimiglia su treni gremiti di italiani e francesi”. Da qualche ora anche la Francia ha adottato le prime misure sul modello italiano per combattere il coronavirus, ma nel frattempo i frontalieri, anche in questo caso, hanno continuato a rientrare nelle loro case dopo essere stati a contatto con tantissime persone. "Per noi pendolari finora è stato come giocare ogni giorno alla roulette russa", ci spiega una nostra segnalatrice. "Speriamo che da oggi non sia più così. Finora, però, la nostra quarantena è valsa ben poco. Il virus non mostra i documenti al confine e la sera si torna a casa in Italia”. 

·        …in Austria.

Paolo Valentino per corriere.it  l'1 aprile 2020. Il Land austriaco del Tirolo deve affrontare la prima «class action» della pandemia da Coronavirus. 2500 turisti contagiati dal Covid-19 hanno fatto causa contro le autorità tirolesi e la Repubblica d’Austria, per le gravi negligenze sulla gestione dell’epidemia a Ischgl, la popolare stazione sciistica alpina diventata uno dei principali focolai dell’infezione in Europa. Già la scorsa settimana, la procura di Innsbruck aveva aperto un fascicolo sulla vicenda, per verificare eventuali responsabilità penali. Poi la Vsv, l’Associazione austriaca per la protezione dei consumatori ha lanciato un appello sul suo sito internet, comunicando che chiunque si trovasse in vacanza a Ischgl o in uno dei villaggi vicini a partire dal 5 marzo e dopo è stato trovato positivo al Coronavirus, potrebbe «avere il diritto di chiedere un risarcimento danni al Tirolo o all’Austria, a condizione che possa produrre prove di negligenza attraverso relazioni appropriate o in un procedimento penale». In poche ore, sono state appunto oltre 2500 le segnalazioni arrivate, che hanno permesso alla Verbraucherschutzverein di presentare una denuncia collettiva contro il governatore del Tirolo. Come aveva per primo raccontato il Corriere lo scorso 22 marzo, tutto era cominciato a fine febbraio, quando un Boeing della Iceland Air proveniente da Monaco di Baviera era atterrato a Reykjavik. A bordo erano in maggioranza turisti islandesi, giovani soprattutto, di ritorno da una settimana bianca a Ischgl, il borgo di 1500 tirolese noto come il paradiso del dopo-sci. Sottoposti al test del Coronavirus, l’Islanda era già in modalità emergenza, molti di loro risultarono positivi. Immediatamente il governo islandese dichiarò il Land dell’Austria area a rischio. Bastarono pochi giorni per capire come quello islandese non fosse un caso isolato. Una dopo l’altro, notizie di persone contagiate dal Covid-19 dopo essere state in vacanza a Ischgl cominciarono a rimbalzare in tutto il Nord-Europa, da Amburgo alla Danimarca. Il 7 marzo le autorità norvegesi sottoposero al test un gruppo di turisti che erano stati in Austria nella seconda metà di febbraio. Il giorno dopo Oslo fece un annuncio inquietante: 491 dei 1198 infettati della Norvegia erano stati a sciare in Tirolo, la maggioranza a Ischgl. Eppure, le autorità tirolesi per oltre una settimana avevano negato tutto con cinismo e arroganza: »Dal punto di vista medico – dichiarava il direttore sanitario del Land, Franz Katzgraber – non è verosimile che il Tirolo sia stato focolaio di infezione». La stagione sciistica doveva continuare. Nonostante l’allarme dei virologi, che da giorni mettevano in guardia da una catastrofe in fieri. Solo il 7 marzo, di fronte all’evidenza norvegese e al primo caso ufficiale di Coronavirus nel villaggio, ammisero la possibilità. Il contagiato era un tedesco di 36 anni che lavorava come barman al Kitzloch, la più celebre baita della movida locale. Passarono però ancora tre giorni, prima che il locale venisse chiuso. Quanto al resto del villaggio, business as usual: piste aperte, ski-lift operativi, alberghi in funzione. Fu necessario aspettare il 14 marzo perché da Vienna arrivasse l’appello a chiunque dal 28 febbraio si fosse trovato in Tirolo a mettersi in quarantena. Incredibile ma vero, per tutto il fine settimana di domenica 15 marzo, gli impianti di Ischgl hanno continuato a funzionare. Da settimane il paesino è sigillato, non si entra e non si esce. Ma è troppo tardi. A Ischgl si registrano oltre 500 contagi, il doppio di quelli di Vienna che ha 2 milioni di abitanti. E sono centinaia, sicuramente più di mille gli europei infettatisi direttamente nella valle alpina: la metà dei casi in Norvegia, un terzo di quelli in Danimarca, un sesto di quelli in Svezia. Incalcolabile è invece il numero di coloro che in tutta l’Europa sono stati contagiati da chi era stato a sciare nella valle tirolese e a far baldoria al Kitzloch. »Il terreno di coltura», ha ribattezzato Der Spiegel la cittadina. »L’avidità di denaro ha sconfitto la responsabilità per la salute delle persone e degli ospiti», è stato il commento durissimo di Der Standard, il più autorevole quotidiano austriaco, secondo il quale il governo tirolese ha voluto far cassa con la stagione turistica fino all’ultimo, lasciando aperti impianti, alberghi e locali a dispetto della gravissima evidenza. Ora la class action potrebbe costare al Tirolo molto più cara.

Coronavirus, il villaggio tirolese che ha infettato mezza Europa. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. Lo scorso 29 febbraio un Boeing della Iceland Air proveniente da Monaco di Baviera atterrò a Reykjavik. A bordo erano in maggioranza turisti islandesi, giovani soprattutto, di ritorno da una settimana bianca in Tirolo, più precisamente a Ischgl, un borgo di 1500 abitanti della regione dell’Austria noto come il paradiso del dopo-sci. Sottoposti al test del coronavirus, l’Islanda era già in modalità emergenza, molti di loro risultarono positivi. Immediatamente il governo islandese dichiarò il Tirolo area a rischio. Bastarono pochi giorni come per capire che quello islandese non fosse un caso isolato. Uno dopo l’altro, notizie di persone contagiate dal Covid-19 dopo essere state in vacanza a Ischgl cominciarono a rimbalzare in tutto il Nord-Europa, da Amburgo alla Danimarca. Il 7 marzo le autorità norvegesi sottoposero al test un gruppo di turisti che erano stati in Austria nella seconda metà di febbraio. Il giorno dopo Oslo fece un annuncio inquietante: 491 dei 1198 infettati della Norvegia erano stati a sciare in Tirolo, la maggioranza di loro a Ischgl. Eppure, le autorità tirolesi per oltre una settimana negarono tutto con cinismo e arroganza: «Dal punto di vista medico – dichiarava il direttore sanitario del Land, Franz Katzgraber – non è verosimile che il Tirolo sia stato focolaio di infezione». La stagione sciistica doveva continuare. Nonostante l’allarme dei virologi, che da giorni mettevano in guardia da una catastrofe in fieri. E nonostante l’Austria, primo fra i Paesi europei, annunciava la chiusura unilaterale delle sue frontiere a Sud. Soltanto il 7 marzo, di fronte all’evidenza norvegese e al primo caso ufficiale di coronavirus nel villaggio, ammisero la possibilità. Il contagiato era un tedesco di 36 anni che lavorava come barman al Kitzloch, la più celebre baita della movida locale. Passarono però ancora tre giorni, prima che il locale venisse chiuso. Quanto al resto del villaggio, business as usual: piste aperte, ski-lift operativi, alberghi in funzione. Non bastò neppure che anche la Germania il 13 marzo dichiarasse il Tirolo zona a rischio, dopo che le autorità di Ostalb, nel Baden-Wuerttenberg avevano lanciato un disperato allarme: 200 persone che erano state in autobus a Ischgl erano risultate positive al test. Fu necessario aspettare il 14 marzo perché da Vienna arrivasse l’appello congiunto dei ministri della Salute e dell’Interno a chiunque dal 28 febbraio si fosse trovato in Tirolo a mettersi in quarantena. Incredibile ma vero, per tutto il fine settimana conclusosi domenica 15 febbraio, alcuni impianti di Ischgl hanno continuato a funzionare. Scene di caos sono state registrate una settimana fa, con centinaia di turisti stranieri che dopo l’annuncio si accalcavano sui pochi bus a disposizione in partenza da Ischgl. Nessuno di loro è stato sottoposto a test. Molti hanno dormito domenica notte a Innsbruck, senza nessuna misura precauzionale di isolamento. Ora finalmente il paesino è sigillato, non si entra e non si esce. Ma è tardi, troppo tardi. A Ischgl si registrano quasi 400 contagi, il doppio di quelli di Vienna che ha 2 milioni di abitanti. Soprattutto sono centinaia, sicuramente più di mille gli europei infettatisi direttamente nella valle alpina: la metà dei casi in Norvegia, un terzo di quelli in Danimarca, un sesto di quelli in Svezia, un centinaio di quelli di Amburgo. Incalcolabile è invece il numero di coloro che sono stati contagiati a loro volta da chi era stato a sciare nella valle tirolese e a bere al Kitzloch, contagiando a loro volta migliaia di altre donne e uomini in tutta l’Europa. «Il terreno di coltura», ha ribattezzato Der Spiegel la cittadina. «L’avidità di denaro ha sconfitto la responsabilità per la salute delle persone e degli ospiti», è stato il commento durissimo di Der Standard, il più autorevole quotidiano austriaco, secondo il quale il governo tirolese ha voluto far cassa con la stagione turistica fino all’ultimo, lasciando aperti impianti, alberghi e locali a dispetto della gravissima evidenza. La difesa è molto debole. Il governo del Land «respinge le critiche sul ritardo delle misure». Ma l’ombra di una stagione sciistica che ogni anno porta 600 mila vacanzieri in Tirolo è più di un indizio del colpevole ritardo con cui è stato riconosciuto e alla fine affrontato il problema.

Coronavirus, zona rossa il paesino che ha infettato mezza Europa. Più di mille turisti provenienti dal Nord-Europa si sono infettati nel villaggio tirolese. Non si voleva compromettere la stagione sciistica. Valentina Dardari, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. Con notevole ritardo dall’inizio del contagio coronavirus, il paesino tirolese di Ischgl, 1.500 anime, è stato finalmente dichiarato zona rossa. Secondo quanto emerso sarebbero più di mille i turisti Nord-europei che da febbraio avrebbero contratto il Covid-19 proprio tra le sue piste innevate. Adesso le autorità locali sono finite sotto accusa per non aver preso provvedimenti in tempo. Sembra che alla base dei ritardi ci sia stata la preoccupazione di andare a compromettere la stagione sciistica.

Il coronavirus nel paesino innevato. Ischgl è infatti una meta molto frequentata e ambita da sciatori e non. Un posto glamour dove trascorrere la settimana bianca, sciando e ascoltando concerti di artisti internazionali. Fatto sta che la chiusura degli impianti è arrivata solo domenica scorsa, 15 marzo, quando ormai il danno era stato fatto. I primi contagi infatti risalgono ad almeno due settimane fa. Il 29 febbraio erano infatti rientrate in Islanda 15 persone risultate positive al coronavirus. E tutte erano state a sciare a Ischgl. Chi frequenta i paesi di montagna sa che l’appuntamento giornaliero a cui non si può rinunciare è quello di ritrovarsi in uno dei bar principali per l’apres ski. In questo caso si tratta della baita Kitzhloch, che guarda caso era stata frequentata da coloro positivi al tampone. Il locale in questione è stato chiuso il 9 marzo perché un barman tedesco 36enne è risultato contagiato. Il resto del paese ha continuato a vivere come se niente fosse. L’Islanda aveva subito dichiarato il Tirolo zona a rischio ma non era stata ascoltata dalle autorità austriache.

Le autorità avevano minimizzato. I casi non erano isolati solo tra i viaggiatori islandesi, poco dopo hanno iniziato ad ammalarsi anche danesi, tedeschi, svedesi e norvegesi. Tutti accomunati da una vacanza a Ischgl. Lo scorso 7 marzo, come ricorda ilCorriere, Oslo dichiarò che 491 dei 1198 infettati della Norvegia erano stati a sciare in Tirolo, la maggioranza di loro a Ischgl. Ma niente, neanche davanti all’evidenza, le autorità tirolesi avevano ammesso quanto avvenuto e anzi, avevano risposto che “dal punto di vista medico non è verosimile che il Tirolo sia stato focolaio di infezione” come dichiarato dal direttore sanitario del Land, Franz Katzgraber. E intanto la stagione sciistica continuava senza intoppi, almeno evidenti. In soldoni, gli affari invernali erano salvi. Quando poi la situazione ha iniziato a degenerare, il 13 marzo sono state individuate due zone rosse e il cancelliere Kurz ha annunciato l'isolamento della Paznauntal, coadiuvato dall'intervento dell'esercito. Quando però ormai il paesino di montagna era diventato il focolaio che aveva infettato mezza Europa. In Lombardia gli impianti sono stati chiusi sabato 7 marzo. Nel resto del Paese tre, quattro giorni dopo.

·        …in Germania.

Perchè in Germania il virus uccide di meno? I tre «segreti» del modello Merkel. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 14/11/2020. Tamponi a tappeto, grande spesa in sanità, posti letto in terapia intensiva quasi raddoppiati. Ecco cosa fa dire alla sanità tedesca «La situazione è grave, ma non siamo impotenti». Sono stati 23.542 i nuovi contagiati da Covid-19 e 218 le persone decedute nelle ultime 24 ore in Germania. È un’incidenza pari a circa 140 nuove infezioni ogni 100 mila abitanti nell’arco di una settimana (in quella precedente era stata di 125). Il tasso di contagio, cioè il numero di persone che ogni malato infetta a sua volta, rimane intorno a 0,9. A dispetto del lockdown soft in vigore dai primi di novembre, «il numero dei casi e anche quello dei morti sono destinati a salire, dice il direttore del Robert Koch Institut Lothar Wieler, che mette in guardia dalla concreta possibilità che in certe aree il virus si diffonda in modo incontrollato. È cambiato qualcosa nella Repubblica Federale, uscita a testa alta dalla prima ondata della pandemia e indicata in tutto il mondo come modello di una strategia molto ben pensata ed efficace contro il Covid-19. Una felice combinazione di test di massa, forte attrezzatura ospedaliera e flessibilità della governance grazie al federalismo aveva consentito a fine maggio di limitare i danni della pandemia a 180 mila casi e poco più di 8.500 decessi. Ma come altrove in Europa e nel mondo, l’illusione è durata una sola estate. E i tedeschi tornati in Germania dalle vacanze si sono rivelati il principale innesco della nuova ondata, che all’inizio ha colto di sorpresa sia i Länder, titolari della Sanità, sia il governo di Berlino. In poche settimane, l’aumento esponenziale dei contagi ha fatto temere il peggio: un sistema in affanno soprattutto nella capacità di tracciamento, scontento diffuso, focolai improvvisi. Già il 15 ottobre è stato superato il picco di aprile con 6.294 nuovi infettati in un solo giorno, che sono schizzati a 14.700 dieci giorni dopo e hanno per la prima volta superato quota 20 mila il 6 novembre. Anche il numero dei decessi è salito fino a superare i 200 al giorno. Al momento in cui scriviamo, dall’inizio della pandemia ci sono stati in Germania 751 mila casi di Coronavirus, pari a circa 8.600 per ogni milione di abitanti, il che la pone più o meno a metà della graduatoria di 217 Paesi del mondo. I morti sono stati 12.200, cioè circa 140 per un milione di abitanti e in questo caso la Germania è molto più sotto nella classifica, tra il 65mo e il 70mo posto. «La situazione è seria», non si stanca di ripetere la cancelliera Angela Merkel, di nuovo nel suo ruolo di madre della Nazione, che non ha mai smesso di ricordare ai tedeschi i rischi legati a una perdita di controllo della pandemia, invocando la scienza come bussola della sua azione. Eppure Lothar Wieler si dice «cautamente ottimista»: «La situazione è grave ma non siamo impotenti». In effetti negli ultimi giorni si è notato un rallentamento dell’impennata della curva. Ma il dato più interessante, che fa della Germania un caso a parte, è quello dei decessi: stando almeno alle cifre ufficiali, nella Repubblica Federale di Covid-19 si muore di meno che altrove. Perché? Qual è, se esiste, il segreto della Germania di fronte alla pandemia? Ricominciamo dall’inizio e vediamo le componenti essenziali di breve e di lungo periodo della strategia tedesca e i suoi risultati nell’anno del Covid-19.

I test. La Germania è stata fortunata a essere investita dalla pandemia con un ritardo di un mese rispetto ad altri Paesi europei, in primis l’Italia. Il che le ha permesso di prepararsi e limitare gli errori. Sin dall’inizio l’early tracking è stato decisivo: i tamponi, che a marzo venivano effettuati a 160 mila la settimana, a maggio erano saliti a 400 mila. Questo rendeva possibile individuare i contagiati in una fase della malattia ancora non avanzata e curarli per tempo. Questa capacità di fare test è diventata impressionante dopo l’estate: ai primi di ottobre i tamponi erano oltre un milione la settimana, oggi 1,6 milioni. Poco meno del 7% risulta positivo.

Il sistema ospedaliero e le terapie intensive. È il vero pilastro del modello. In Germania ci sono 1.925 ospedali, non sempre efficienti a causa di un sistema semipubblico basato su centinaia di casse mutue in concorrenza fra di loro. Ma con i suoi circa 500 mila posti letto, è una rete capillare che nell’emergenza ha fatto la differenza. I posti di terapia intensiva, che all’inizio della pandemia erano 28 mila, ora sono circa 40 mila di cui 30 mila con respiratore. Attualmente nei sedici Länder ci sono 3.300 mila ammalati di Covid-19 in terapia intensiva, e di loro più di 1.800 hanno bisogno di un supporto respiratorio. Tenendo conto di quelli occupati da persone con altre patologie, i letti di terapia intensiva liberi per eventuali nuovi casi di Covid sono quasi 6.700. C’è tuttavia una carenza di personale, soprattutto in alcuni Länder , come ad esempio Berlino, dove molti ospedali sono stati costretti a rinviare operazioni meno urgenti e richiamare personale da poco andato in pensione.

I tracciatori. Perno imprescindibile del sistema sono i quasi 380 Gesundheitsämter, equivalente delle nostre Asl (che però sono appena un centinaio) e che vengono da alcuni considerati l’arma segreta della guerra alla pandemia, la prima linea di difesa della popolazione. Una presenza capillare nel territorio, che serve a raccogliere i dati e soprattutto a tracciare i contagi: a maggio ci lavoravano 17 mila persone, in agosto 22.900 e quasi tutti i nuovi assunti sono impegnati esclusivamente nel tracciamento. Eppure, l’esplosione della seconda ondata li ha colti di sorpresa, e in ottobre non riuscivano più a seguire i contagi. La stessa cancelliera ha lanciato l’allarme: «I numeri sono troppo alti».

Il secondo lockdown. Il 14 ottobre, al vertice tra governo e Länder, i premier regionali si sono presentati in ordine sparso e nessuna vera misura restrittiva erga omnes è stata varata. È stata Merkel a metterli in riga, prima rivolgendo un appello accorato alla popolazione: «Non facciamo abbastanza per tenere il male lontano». Poi, due settimane dopo, imponendo il lockdown soft. In vigore fino alla fine del mese, prevede la chiusura di bar, ristoranti, palestre, piscine, teatri, cinema, centri estetici e bordelli in tutto il Paese. Il divieto di riunioni private con più di 10 persone, che devono appartenere al massimo a 2 famiglie. Il bando agli eventi di massa e il divieto di viaggiare dentro il Paese per ragioni turistiche. L’obbligo della mascherina per strada nelle situazioni di affollamento. In compenso, con una scelta di grande coraggio e civiltà, rimangono aperte scuole e asili nido.

Le misure economiche. Oltre al doppio bazooka (353 miliardi di euro, più oltre 800 miliardi di garanzie su prestiti) varato a diverse riprese tra marzo e giugno, per far fronte alle conseguenze economiche della pandemia, il governo federale ha accompagnato il nuovo lockdown con un pacchetto di ammortizzatori di altri 10 miliardi di euro, che potrebbero arrivare a 15 e andranno alle aziende colpite dalle chiusure. Quelle con meno di 50 dipendenti riceveranno in novembre il 75% dei loro incassi nello stesso mese del 2019. Inoltre, artisti e lavoratori autonomi dello spettacolo avranno accesso a prestiti di emergenza quasi senza interesse. È stata anche prolungata fino a gennaio l’indennità di disoccupazione, che viene erogata per pagare le ore non lavorate a causa delle chiusure o dei tagli di produzione e che compensa fino all’80% del salario di ogni dipendente. Gli ammortizzatori economici sono un fattore decisivo dell’accettazione delle misure restrittive da parte della società tedesca, dove le manifestazioni negazioniste rimangono marginali.

Il fattore Merkel. La forza tranquilla di Angela Merkel è stata cruciale. Letteralmente rigenerata dall’emergenza, ha dato il meglio di sé, senza mai tentennare o cedere alla demagogia. La sua stella polare è stata la comunità scientifica. Anche nei momenti in cui il peggio è apparso alle spalle, la cancelliera non ha mai abbassato la guardia. Anche ora avverte: «Non ci sono le condizioni per riaprire i ristoranti il 1° dicembre». Il 75% dei tedeschi approva il suo operato. La cultura del consenso di un Paese che vede nel rispetto della norma l’antidoto al caos ha fatto il resto. Merkel non lo farà, ma se decidesse di candidarsi una quinta volta, verrebbe probabilmente rieletta a furor di popolo.

Tutto oro quel che luce? La Germania ha avuto all’inizio della pandemia un infelice riflesso nazionalistico, con il blocco delle frontiere e il divieto di esportazione di mascherine e materiale sanitario verso gli altri Paesi europei, poi fortunatamente corretto. Sul piano interno ha dovuto affrontare una preoccupante penuria di mascherine durante la primavera. Il sistema federale non ha sempre funzionato a dovere e spesso i capi dei Länder hanno fatto ognuno per conto loro, con esiti diversi da regione a regione. Ci sono stati casi, come i focolai nei mega-mattatoi dove viene lavorata la carne, che hanno svelato realtà di sfruttamento e totale assenza di rispetto delle più elementari regole igieniche. Sul fondo, dal 1993 al 2017, la spesa sanitaria tedesca è più che raddoppiata e oggi è pari a 230 miliardi di euro l’anno, il 12% del Pil. Ma i soldi non vengono spesi tutti nel modo giusto e il sistema delle Krankenkasse non è un modello di best practice. Ancora nel 2019, uno studio della Fondazione Bertelsmann suggeriva di chiudere centinaia di piccoli ospedali assolutamente al di sotto degli standard internazionali di qualità. L’emergenza ha rovesciato i parametri. E la massa critica del sistema sanitario tedesco nella pandemia si è dimostrata un frangiflutti. Repetita juvant: in Germania, per il Coronavirus, si muore di meno. (Ha collaborato Christina Ciszek)

Ecco cos'è il lockdown-salame: come funziona e chi lo sta testando. In quarantena ci sono 300mila gli alunni e 30mila gli insegnanti. Il lockdown interessa "fette" del mondo scolastico. Valentina Dardari, Mercoledì 11/11/2020 su Il Giornale. Gli esperti lo hanno chiamato lockdown-salame. Nelle scorse ore l'associazione federale insegnanti ha reso noto che in Germania ci sono 300mila alunni e 30mila docenti in quarantena a causa del Covid-19. Il quotidiano tedesco Bild ha spiegato che il lockdown è stato indicato con questo particolare soprannome perché si riferisce non a tutto il mondo scolastico ma solo a delle “fette”.

Mascherine in tutte le classi. La Germania, dopo l’estate, aveva preso la decisione di tenere il più a lungo possibile gli studenti in classe (con lezioni in presenza), nonostante il continuo aumento dei contagi. Con l’obiettivo di non andare a penalizzare e creare problemi a bambini e ragazzi, già molto provati e destabilizzati a causa della pandemia in atto. Anja Karlikzek, ministra dell’Istruzione federale, nella giornata di ieri, martedì 10 novembre, si è espressa a favore dell’utilizzo delle mascherine in classe, anche alle elementari. Questa scelta è ancora molto discussa, e in Germania, dove ci sono ci sono 40mila scuole, 11 milioni di scolari e 800mila docenti, solo il 50% della popolazione sarebbe favorevole. Anche nel nostro Paese sono ormai un obbligo, le uniche a essere esonerate sono le scuole dell’infanzia. In Germania la metà dei genitori sarebbe quindi contraria, e preferirebbe una didattica in presenza ma senza l’uso della mascherina in classe, almeno per quanto riguarda gli alunni più piccoli.

Il lockdown-salame alla tedesca. La cancelliera Angela Merkel, lo scorso 29 ottobre aveva assicurato che avrebbero fatto tutto il possibile per mantenere aperte le scuole e gli asili nido. E fino a oggi sono riusciti a mantenere la parola. In Germania ci sono 40mila strutture scolastiche, 11 milioni di studenti e 800mila insegnanti. Nella zona del grande Land del Nord Reno-Westfalia ci sono circa 50mila alunni in quarantena. A fine settembre erano più o meno 50mila gli allievi in quarantena in tutta la Nazione. Da inizio novembre in Baviera sono state chiuse oltre 100 scuole. Nella città di Amburgo 90 classi sono in quarantena. Il presidente dell'associazione degli insegnanti, Heinz-Peter Meidinger, ha detto alla Bild che al momento stanno vivendo un lockdown-salame nelle scuole e che la politica ha quindi fatto un passo indietro. Meidinger ha fatto richiesta a chi governa di creare un sistema attraverso il quale le scuole possano segnalare ogni giorno quanti alunni e quanti docenti si trovano in quarantena. Il leader della CDU di Amburgo si è detto contrario al lockdown-salame permanente perché “causa grande incertezza per le famiglie”. Vorrebbe invece che al più presto tutte le aule venissero dotate di sistemi di ventilazione e pareti divisorie in plexiglas.

Perché in Germania si stanno registrando meno casi? Andrea Muratore su Inside Over il 20 ottobre 2020. Il coronavirus corre veloce nel Regno Unito, inizia ad acquisire nuovamente dimensioni preoccupanti in Francia, ha già portato alla paralisi della capitale Madrid in Spagna e mette nuovamente alla prova la resistenza del sistema sanitario in Italia. Tra i maggiori Paesi europei, quello che stando alle statistiche per ora se la sta cavando meglio è la Germania, ove non mancano scenari di criticità come quelli della capitale Berlino ma in cui la pandemia non sta galoppando, per ora, ai ritmi degli altri Stati di riferimento del Vecchio Continente. La Germania appare messa molto meglio degli altri Paesi, per ora, in quanto a numero di contagi e da più parti è sorto un interrogativo circa l’enigma tedesco, nuovamente legato al minor impatto che il Covid-19 ha avuto nel Paese rispetto agli Stati limitrofi. Uno scenario molto simile a quello della primavera, ma come è possibile spiegarlo? La Germania ha infatti registrato solo di recente un sensibile aumento dei contagi registrati, con l’aumento giornaliero del 17 ottobre che è stato pari a 7.830 nuovi positivi; i numeri per milione di abitanti continuano a restare inferiori a quelli dei partner europei, come testimoniato dai dati raccolti dal Financial Times. E non si può dire che questo sia imputabile a una mancanza di capacità di tracciamento dei focolai: in Germania, infatti, al 10 ottobre risultavano esser stati effettuati circa 15 milioni di tamponi, il 50% in più rispetto che in Italia, e il Robert Koch Institute, centrale organizzativa principale della risposta sanitaria nazionale, pubblica giornalmente dei dettagliati report sull’evoluzione non solo demografica ma anche geografica del contagio. Dunque, la motivazione per il più lento procedere della “seconda ondata” di Covid-19 nel Paese è più complessa. In primo luogo, gioca un ruolo sicuramente il fatto che la Germania, non essendo stata investita con la medesima virulenza dalla prima ondata di contagio, ha potuto incassare il colpo partendo da una posizione di maggiore solidità. Il Rki ha pubblicato nella giornata del 13 ottobre la più aggiornata delle sue strategie sanitarie, fondata in primo luogo su un’importante premessa: non ha senso pensare all’imminente arrivo di un vaccino come alla panacea definitiva per il superamento del Sars-Cov-2, ma serve operare strategicamente tamponando i focolai, inseguendo e tracciando i contagi e potenziando le cure tenendo conto lo scenario attuale, in cui l’ingresso in campo del vaccino è ancora tutto da dimostrare. A ciò si unisce una strategia politica che ha puntato con forza a giocare d’anticipo: già a fine agosto la Cancelliera Angela Merkel ha preparato i tedeschi alle sfide sanitarie (ed economiche) dell’autunno, non abbassando la guardia riguardo la prevedibile ripresa dei contagi e proseguendo nella linea che già a marzo e aprile, complice il mancato scatenamento del Paese di una tempesta paragonabile a quella che ha travolto la Lombardia, Berlino aveva seguito: rigoroso monitoraggio di parametri ritenuti veri e propri livelli di guardia, controllo della comunicazione dal governo ai cittadini per enfatizzare la logica della prevenzione, coordinamento con i Lander per modulare eventuali restrizioni locali. Nei suoi rapporti il Rki monitora con attenzione i parametri-soglia fissati dalla Cancelleria, l’indice di replicazione Rt (che si mira a contenere sotto quota 1 nei singoli scenari locali) e il tasso di contagiati per 100mila abitanti: sopra la soglia dei 50 casi per 100mila abitanti, registrati al 17 ottobre in 84 distretti sanitari su 412, parte un ulteriore livello di guardia che può lasciar prefigurare restrizioni. La Germania ha dunque potuto operare con una logica di prevenzione e il fatto che la Merkel abbia annunciato presto “limitazioni nei contatti nelle zone dove le nuove infezioni superano i 50 nuovi contagi per 100mila abitanti sia in pubblico che in privato” è in tal senso comprensibile in quest’ottica: meglio operare prima, e su scala locale, che imporre misure di valore nazionale che rischiano di causare spaesamento e di dimostrare di esser costretti a andare non in controllo ma all’inseguimento del virus. Confrontando le curve pandemiche della Germania con quelle degli altri Paesi, si nota infatti che il numero di casi per milione di abitanti, che si attesta nelle ultime settimane tra i 50 e gli 80 per milione di abitanti, sta gradualmente acquisendo un tasso di crescita paragonabile a quello avuto a fine settembre nel Regno Unito e attualmente in sviluppo in Italia. Ogni giorno guadagnato nell’implementare strategie ben coordinate significa una riduzione del rischio di un boom autunnale e, soprattutto, di un rovinoso restringimento nazionale alla libertà di movimento. Che risulterebbe devastante per il sistema sociale ed il tessuto economico. La Germania se la sta cavando meglio, dunque, per ragioni connesse alle tempistiche della seconda ondata (partita più tardi in terra tedesca), per una maggiore allerta e per un’oggettiva capacità politica di prendere in tempo le misure adatte a prevenire l’esplosione del Covid-19. Queste – lo ripetiamo – hanno come obiettivo di fondo scongiurare un lockdown nazionale ma risultano funzionali solo se ben mirate nelle zone in cui i parametri più preoccupanti, indice di replicazione e percentuali di contagi. Nessun complotto tedesco, dunque: ma nemmeno la Germania può dirsi pienamente al sicuro. Il Covid ha dimostrato da tempo di essere un nemico, troppo spesso, imprevedibile e difficile da affrontare.

Carlo Tarallo per "La Verità" il 17 ottobre 2020. Un vero e proprio smacco per il Senato di Berlino, organo esecutivo del governo della città-stato della capitale tedesca, e per il governo federale guidato da Angela Merkel. Il Tribunale amministrativo locale, infatti, ha accolto il ricorso presentato da circa una dozzina di titolari di bar e ristoranti berlinesi, e ha quindi annullato il regolamento entrato in vigore, per decisione del Senato, una settimana fa, che prevedeva la chiusura dei bar e dei ristoranti a partire dalle 23 e fino alle 6 del mattino, con divieto di vendita di alcolici e di riunione di più di cinque persone all'aperto dopo le 23. La decisione era stata motivata con la necessità di evitare assembramenti, nell'ottica del contrasto alla diffusione dell'epidemia da coronavirus. Il Tribunale amministrativo, accogliendo il ricorso degli imprenditori, ha stabilito che la chiusura dalle 23 di bar e ristoranti è un provvedimento sproporzionato. Contro la decisione del Tribunale, sarà possibile presentare un ulteriore ricorso all'Alta corte amministrativa di Berlino-Brandeburgo. La motivazione dei ricorrenti, accolta dai giudici, è destinata a fare scuola: i titolari di bar e ristoranti hanno infatti sostenuto che la chiusura alle 23 dei locali non fa altro che spingere i giovani ad assembrarsi in altri luoghi, magari nelle strade e nelle piazze, dove le misure di sicurezza e di igiene sono ridotte rispetto a quelle garantite dagli esercizi commerciali. Per rafforzare la propria decisione, i giudici amministrativi berlinesi hanno citato uno studio del Robert Koch Institute, l'organizzazione responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive in Germania, facente parte del ministero federale della Salute tedesco. Il rapporto del Rki segnala che il contagio da coronavirus si sta sviluppando in particolare nelle feste in famiglia o tra amici, nelle case di cura per anziani, negli ospedali, oppure in occasione di viaggi all'estero nelle zone a rischio. La vittoria legale dei titolari di bar e ristoranti che si oppongono al coprifuoco darà certamente il via a altri ricorsi dello stesso genere, e del resto le motivazioni dei giudici amministrativi sembrano all'insegna del puro buonsenso. Oltretutto, una città come Berlino, che vive di turismo e movida notturna, economicamente non può sopportare una stretta come quella imposta dal senato e cancellata dal tribunale amministrativo. «Sono molto dispiaciuto», ha commentato il ministro della Salute tedesco Jens Spahn in conferenza stampa, «che l'orario di chiusura dei bar e dei ristoranti alle 23 deciso a Berlino sia stato sospeso dal Tribunale. Abbiamo osservato che nelle grandi città, nelle ore notturne, il consumo di alcool influisce sul comportamento sociale, sia in privato che in pubblico, e questo è un motore del processo infettivo. Per questa ragione», ha aggiunto Spahn,«le grande città devono poter reagire, nel caso di un'incidenza alta di infezioni, poiché se vogliamo mantenere normalmente le scuole e gli asili in funzione, così come l'economia, dobbiamo poter introdurre misure di contenimento in altri ambiti». Sempre in Germania, si registra un altro importante dietrofront: il Land della Baviera ha infatti stabilito di sospendere il divieto di pernottamento attualmente in vigore per chi proviene da zone ad alto rischio epidemico e non può presentare un tampone per coronavirus di esito negativo. La decisione è stata congelata in attesa che venga assunta una linea di condotta comune sull'epidemia in tutto il territorio tedesco.

Quel dito medio ai no mask: è polemica a Berlino. "C'erano modi meno infelici per attirare l'attenzione" ha detto il primo cittadino, Michael Mueller. La campagna non è stata commissionata dal Senato. Valentina Dardari, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Il sindaco di Berlino, Michael Mueller, ha definito “imbarazzante” la campagna uscita a settembre, che è stata diffusa e pubblicata sui giornali locali della Capitale tedesca, con l’obiettivo di incitare la popolazione a indossare la mascherina. L’immagine scelta è chiara e diretta: si vede un'anziana signora con maschera che solleva il dito medio e lo slogan: “Medio alzato contro tutti quelli che non indossano la mascherina. Noi rispettiamo le regole”. Ovviamente il messaggio è diretto a tutti i negazionisti e ai no mask che si rifiutano di usare le protezioni per naso e gola anche nei luoghi pubblici perché non credono che il coronavirus abbia realmente una carica mortale. La foto, originale è originale anche se, a qualcuno non è piaciuta. Subito sono nati dibattiti e polemiche sui social. “Con la campagna lanciata a settembre, lo Stato di Berlino vuole sensibilizzare sulle regole del coronavirus e promuovere il rispetto delle stesse. Considerato il crescente numero di infezioni, questo atteggiamento al momento è fondamentale. Perché dev’essere chiaro a tutti: la situazione è ancora molto grave. Pertanto consideriamo importante questa campagna pubblicitaria” si era difeso nei giorni scosri il Senato di Berlino. Il sindaco della città, Michael Mueller, in televisione ha negato che la campagna incriminata sia stata commissionata dal Senato. Mueller ha sottolineato che "c'erano modi meno infelici per attirare l'attenzione". L’idea di utilizzare una tale immagine forte, proprio nella città dove il virus si sta diffondendo molto velocemente, in alcune zone di Berlino si registrano 50 casi per 100 mila abitanti, in altre addirittura oltre i 100, è venuta all’agenzia turistica Visit Berlin. A difendere la scelta è stato lo stesso portavoce, Christian Taenzler, che ha tenuto a sottolineare il successo riscontrato dalla campagna: “Abbiamo usato un linguaggio che in qualche modo si addicesse ai berlinesi, per scuoterli e per sottolineare la drammatica situazione e ci siamo riusciti”. Forse è davvero necessaria una comunicazione così violenta, visto che oggi il bollettino dell'Istituto Robert Koch parla di 6.638 contagi confermati nelle ultime 24 ore in Germania (e di altri 33 decessi). C’è però da dire che a molti berlinesi i toni duri della campagna sono piaciuti. E non solo ai cittadini della Capitale tedesca. In effetti, l’immagine del dito medio alzato contro i no mask, in poco tempo ha varcato i confini dell'Europa ed è approdata Oltremanica. Sicuramente non è passata inosservata.

Dai ristoratori tedeschi un premio di 500 euro a chi denuncia violazioni. Invito alla delazione in Germania. Nino Materi, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Ecco la prima taglia (500 euro) sui «furbetti del contagio»: cioè quei ristoratori «rei» di non rispettare gli orari di chiusura previsti dal coprifuoco anti-Coronavirus. Accade in Germania, tra l'indifferenza dei media locali e il tentativo da parte di forze dell'ordine e istituzioni di censurare il «manifesto della vergogna». Si tratta di un «avviso pubblico» comparso ieri in un quartiere-focolaio di Berlino e di cui Il Giornale è venuto in possesso grazie alla segnalazione di un italiano che vive e lavora nella capitale tedesca. La sua testimonianza su Facebook, rilanciata dal sito angeloma.it, apre uno scenario nuovo sui livelli parossistici cui rischia di arrivare la sindrome della «caccia all'untore-Covid». Un'iniziativa lanciata dalla Dehoga, l'associazione federale degli hotel e ristoranti tedeschi; per essere in pieno Far West manca solo la dicitura Wanted, ma ci manca poco. La locandina recita testualmente: «Cari cittadini, Il rispetto della chiusura dalle 23 alle 6 vale ai fini dell'arginamento della pandemia. Vi preghiamo di comunicarci i locali che sono aperti dopo le 23. Le regole in vigore salvano vite. Il vostro non rispetto delle regole è un reato, non una trasgressione perdonabile. Vi preghiamo di comunicarci le infrazioni al num.(030) 4664-4664. La Dehoga, scesa affianco al Governo in questa lotta, ha offerto una ricompensa fino a 500 euro per ogni dimostrazione di colpevolezza». Insomma, in Germania siamo ben oltre le «segnalazioni» ipotizzate (e smentite) dal nostro ministro della Salute, Roberto Speranza; ben al di là dei «controlli di polizia» (anch'essi ipotizzati e smentiti) nelle case degli italiani per controllare se venga sforato il quorum dei partecipanti a colazioni, pranzi, cene e merende. Per non parlare delle feste private dal numero contingentato, mentre sui mezzi pubblici rimane consentito viaggiare come su un carri bestiari. Una situazione paradossale ben rappresentata ieri da una vignetta di Ellekappa con uno che fa: «Non si può fare una festa con più di sei persone», e l'altro che gli risponde: «Se vuoi una cosa in grande organizzala su un autobus».

Articolo di “The Guardian", dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'1 ottobre 2020. I tedeschi ufficializzano l'aria fresca come metodo per respingere il coronavirus. La ventilazione delle stanze è stata aggiunta alla formula del governo tedesco per la lotta contro il coronavirus, in una notizia rinfrescante per gli esperti di igiene dell'aria del paese che da mesi ne chiedono l'ufficializzazione – scrive The Guardian. L'usanza è una sorta di ossessione nazionale, con molti tedeschi che abitualmente aprono le finestre due volte al giorno, anche in inverno. Spesso il requisito è inserito come clausola legalmente vincolante nei contratti di locazione, soprattutto per proteggere dalla muffa e dai cattivi odori. Ma mentre alcuni possono liquidare il metodo come primitivo, "può essere uno dei modi più economici ed efficaci" per contenere la diffusione del virus, Angela Merkel ha insistito martedì. La cancelliera tedesca ha spiegato che le linee guida del governo per affrontare il virus, racchiuse nell'acronimo AHA, che sta per distanziamento, igiene e copertura del viso, saranno estese fino a diventare AHACL. La "C" sta per l'app governativa di avvertimento del coronavirus, e la "L" per Lüften o l'aerazione di una stanza. "Una regolare ventilazione d'impatto in tutti i locali privati e pubblici può ridurre notevolmente il pericolo di infezione", spiega la raccomandazione del governo. La ventilazione d'impatto, o Stosslüften, che necessita di una spiegazione per la maggior parte delle persone che non hanno familiarità con la Germania, ad eccezione degli esperti di igiene dell'aria, comporta l'apertura di una finestra al mattino e alla sera per almeno cinque minuti per consentire la circolazione dell'aria. Ancora più efficiente è il Querlüften, o ventilazione incrociata, in cui tutte le finestre di una casa o di un appartamento vengono aperte lasciando uscire l'aria viziata e far entrare aria fresca. Il principale esperto di coronavirus del Paese, Christian Drosten, capo virologo dell'ospedale Charité di Berlino, ha già dedicato un'edizione del suo podcast di successo sulla pandemia all'importanza della Luftverdünnung e della Luftbewegung - rarefazione e movimento dell'aria - in cui esalta le lodi delle frequenti ventilazioni, mentre il settimanale Die Zeit ha pubblicato un articolo di 10 pagine sulla ventilazione, inclusa la scienza che c'è dietro e, soprattutto, su come farlo in inverno. Anche senza coronavirus, Martin Kriegel, ingegnere e analista di correnti d'aria all'Università Tecnica di Berlino, ha detto a Die Zeit, "ci sono chiare prove che la qualità dell'aria negli uffici è correlata al numero di giorni di assenza per malattia dei lavoratori". Le scuole, che sono state sempre più considerate un banco di prova per capire come la società può imparare a convivere con la malattia, hanno da tempo adottato questa pratica. Un recente incontro dei ministri dell'Istruzione dei 16 stati tedeschi è stato dedicato a come arieggiare un'aula. Cinque esperti, dalla meccanica dei fluidi agli igienisti dell'aria interna e agli aerodinamici, hanno rafforzato l'importanza di arieggiare un'aula ogni 15-20 minuti, per cinque minuti in primavera e in autunno e tre minuti in inverno.

Elena Tebano per il “Corriere della Sera” il 22 agosto 2020. «Ogni giorno in cui non viene chiusa nessuna scuola è un buon giorno» dice Philipp Bender, portavoce del Ministero della Cultura dell'Assia, in Germania, dove le lezioni sono riprese lunedì scorso. Non ce ne sono molti: l'anno scolastico tedesco è ricominciato ufficialmente tre settimane fa, anche se gli studenti sono tornati in classe al momento solo in 9 Länder su 16 (in base all'autonomia scolastica ognuno può scegliere la data di inizio). Ma sono già almeno un centinaio gli istituti chiusi completamente o parzialmente. A cui vanno aggiunti gli asili. Le chiusure sono state necessarie in particolare nelle zone più densamente abitate: Nord Reno Vestfalia (4 scuole del tutto chiuse e 31 solo «in parte»), la regione con più contagi, Berlino (41 istituti in quarantena su 825), ma anche Amburgo e Francoforte sul Meno. Le scuole hanno l'obbligo di avvertire le autorità sanitarie quando riscontrano casi e sono poi queste a decidere, di volta in volta, quale misure applicare. Possono decidere di tenere in quarantena anche soltanto alcune classi. Tutti gli alunni e il personale delle scuole tedesche hanno normalmente l'obbligo di mantenere la distanza di sicurezza di un metro e mezzo e di portare le mascherine all'interno degli istituti, ma non durante le lezioni. Nelle zone dove l'epidemia è tornata a diffondersi di più, come il Nord Reno Vestfalia, l'obbligo è stato invece esteso alle lezioni: una misura che ha provocato le proteste dei negazionisti del virus. Giovedì scorso il Tribunale amministrativo superiore di Münster ha respinto una richiesta urgente di tre alunni del distretto di Euskirchen che avevano fatto ricorso contro le nuove regole, stabilendo che il provvedimento è «proporzionato» ai rischi e non costituisce un pericolo per la salute degli studenti. «Lo so che è faticoso. Lo è per tutti, ma al momento non c'è alternativa alla mascherina» ha detto la ministra dell'Istruzione Anja Karliczek, secondo cui «il funzionamento ordinario è partito bene». In generale le autorità tedesche, nonostante le chiusure, al momento non mostrano particolare preoccupazione. Secondo il primo rapporto dell'Amministrazione scolastica di Berlino, pubblicato ieri dalla Berliner Zeitung , i casi di positività al coronavirus registrati finora nelle scuole della capitale tedesca «non rappresentano una minaccia per la loro piena operatività». Nella maggior parte dei casi rilevati, sono state trovate solo singole persone infette, tra alunni, insegnanti o personale scolastico, e sono state disposte quarantene cautelative. «Le scuole non sono focolai. Le infezioni di solito vengono portate negli istituti dall'esterno», ha confermato Sandra Scheeres, responsabile berlinese per l'Istruzione. La Germania sembra aver messo in conto questi stop and go continui, come un prezzo che è necessario pagare per non bloccare i percorsi educativi. «È meglio l'obbligo di mascherina piuttosto che richiudere le scuole» ha sintetizzato nei giorni scorsi la cancelliera Angela Merkel. Che però ha convocato giovedì i ministri presidenti dei vari Länder in videoconferenza per fare il punto sull'epidemia: ieri sono stati registrati 1.427 nuovi infetti, in lieve calo rispetto alle 1.707 infezioni segnalate ieri, che rappresentavano il livello più alto dalla fine di aprile. Ma il governo vuole prevenire una possibile seconda ondata. L'ipotesi al momento è nuovi divieti per feste private e assembramenti, e l'estensione dell'obbligo della mascherina. Di uno stop all'anno scolastico non parla nessuno.

Da lastampa.it il 16 agosto 2020. Dopo mesi di chiusura dovuta all'epidemia di coronavirus, riparte in Germania una delle industrie più refrattarie al distanziamento sociale, quella del sesso a pagamento. Dalla settimana scorsa le case chiuse di Berlino hanno ricominciato le attività ma con una significativa limitazione. I clienti dovranno accontentarsi di massaggi erotici e i rapporti sessuali veri e propri saranno proibiti almeno fino al 1 settembre. In Germania la prostituzione è legale e regolata: sono 40 mila le persone registrate come operatrici del sesso, con il diritto a contratti di lavoro regolari e misure di sicurezza sociale. Mesi di lockdown hanno però costretto molte prostitute a esercitare in nero per sopravvivere e in alcune grandi città, come Berlino e Amburgo, le addette del settore sono scese in piazza contro le restrizioni che impedivano loro di sbarcare in lunario. A luglio, nella capitale, decine di prostitute, armate di bambole gonfiabili, avevano inscenato una protesta fuori dall'edificio che ospita il Bundesrat, la Camera alta tedesca. Molte strutture, dopo aver riportato perdite a sei cifre, sono ora costrette a nuovi investimenti per rispettare le nuove regole sanitarie imposte dalla pandemia. I clienti devono riempire un modulo con le loro generalità, che verrà chiuso in una busta sigillata, e sono sottoposti all'obbligo di mascherina. «Proprio come al supermercato, dal benzinaio o in metropolitana», spiega Aurel Johannes Marx, un imprenditore del settore "quello che non funziona molto bene e' che molti clienti vengono con l'aspettativa di poter fare del sesso". Rigide norme igieniche rimarranno in vigore anche quando i rapporti sessuali saranno di nuovo possibili. Jana, una prostituta di 49 anni intervistata da France Presse, non teme il contagio: «Quando fai questo lavoro da 20 anni e hai i tuoi clienti fissi, puoi scegliere con chi andare. Se non ti piace, lo rimandi indietro. Non ho nessuna paura».

Da "ansa.it" il 13 agosto 2020. L'anno scolastico è ricominciato lunedì scorso, e nel giro di meno di una settimana sono già diversi i contagi da Coronavirus, segnalati negli istituti di Berlino: c'è anche il caso di una prima scuola che ha deciso di richiudere i battenti. È la Berliner Zeitung, uno dei tabloid della capitale, a elencare le sette scuole (in quattro quartieri) in cui si sono registrati i casi (singoli a quanto si sa per ora) di infezione. Gli istituti hanno reagito per lo più mettendo gruppi di studenti o classi in quarantena.Intanto, proprio oggi in cancelleria, Angela Merkel incontra la leader dell'SPD Saskia Esken e diversi ministri dell'Istruzione dei Laender, per fare il punto della situazione. La gestione del settore fa capo alle regioni, e nella città-Stato di Berlino il senato locale ha deciso di far ripartire le lezioni, abolendo perfino la regola del distanziamento in aula. Gli scolari sono tenuti però a portare la mascherina negli edifici scolatici (ma non seduti ai banchi). La disinvoltura della politica locale ha sollevato pareri discordanti e polemiche. Il sindacato del settore GEW ha fatto presente che sarebbe stato meglio ripartire alternando lezioni in presenza e online, mantenendo la divisione in gruppi, come accadeva nel mese di giugno. In Germania, il Covid ha ricominciato a diffondersi in modo preoccupante, con oltre mille casi nuovi di infezione al giorno: oggi sono 1445, stando ai dati del Robert Koch Institut; mentre a Berlino sono stati riportati 125 positivi in più, rispetto al giorno precedente. E mentre l'AFP segnala che ha superato la soglia dei 750 mila il bilancio dei morti per coronavirus nel mondo, 200.000, ben oltre i 166.038 conteggiati dalla Johns Hopkins University sarebbero nei soli Stati Uniti.  A fare i conti e' il New York Times, secondo il quale molti stati sono indietro di settimane se non di mesi nel riportare il numero dei morti.

La pandemia di Covid-19 continua a far tremare la Germania. Andrea Walton il 2 agosto 2020 su Inside Over. Lothar Wieler, presidente del Robert Koch Institute (la massima autorità sanitaria tedesca), si è dichiarato molto preoccupato per l’aumento di casi di Covid-19 in Germania, che sono stati in media 557 al giorno nella settimana appena trascorsa contro i 350 di inizio giugno . Wieler ha invitato i tedeschi ad indossare la mascherina protettiva anche all’aperto qualora non sia possibile rispettare la distanza di sicurezza interpersonale di un metro e mezzo (in precedenza le indicazioni erano di adoperare lo strumento al chiuso) ed ha affermato che gli abitanti del Paese devono rispettare le misure d’igiene per impedire che il virus torni a diffondersi “rapidamente ed in maniera non controllata”. Wieler, pur ottimista, ha affermato come non si possa essere certi che quella in corso non sia l’inizio di una seconda ondata.

Berlino è a rischio. Helge Braun, a capo dello staff della Cancelliera Angela Merkel, ha chiarito come l’aumento delle infezioni negli ultimi giorni sia “motivo di preoccupazione” ed ha spiegato come le cause di questo fenomeno siano da ricercare nei focolai sviluppatisi tra i lavoratori stagionali, quelli impiegati nella lavorazione e produzione della carne, nelle riunioni familiari, tra i viaggiatori e nell’ambito di attività di svago. Le parole della Braun sembrano trovare conferma in quanto accaduto nel Land della Baviera: qui è stata messa in quarantena una fattoria dove sono impiegate 500 persone dopo che 174 di loro sono risultati positivi al Covid-19. Secondo Michael Kretschmer, esponente dell’Unione Cristiano Democratica e premier della Sassonia, la seconda ondata di coronavirus sarebbe già arrivata dato che “ogni giorno ci sono nuovi cluster d’infezione che hanno il potenziale di moltiplicare significativamente il numero di casi”. Più del 60 per cento dei nuovi casi è dovuto ad un aumento delle infezioni negli Stati della Renania Settentrionale-Vestfalia e del Baden-Württemberg.

Correre ai ripari. Le autorità tedesche, nel tentativo di frenare l’arrivo di una seconda ondata, hanno deciso di offrire test gratuiti ai viaggiatori negli aeroporti del Paese. Secondo Dilek Kalayci, ministro della Salute del Land di Berlino, i test saranno inizialmente non obbligatori e lo Stato ne coprirà i costi. “Coloro che tornano da aree ad alto rischio“, ha affermato la Kalayci, “dovrebbero essere testati ma anche chi arriva da Stati non a rischio avrà questa possibilità”.  Chi rifiuterà di farsi testare e chi risulterà positivo dovrà sottoporsi a due settimane di quarantena obbligatoria. Gli aeroporti di Francoforte, Colonia/Bonn e Monaco hanno già implementato questa misura. Questa decisione è stata assunta nel timore che il turismo estivo possa facilitare una crescita dei casi di Covid-19 nel Paese.

Il ruolo della Merkel. La pandemia ha avuto l’effetto di rafforzare la Cdu di Angela Merkel che, secondo i sondaggi, oscilla tra il 36 ed il 38 per cento dei voti. Dal punto di vista politico sembra non esserci partita dato che i Verdi, i rivali più vicini (o meno lontani), non superano il 20 per cento delle intenzioni di voto. La cancelliera sta giocando una partita complessa in cui il suo peggior rivale può essere proprio lei stessa. Guidare la nazione in un momento complesso potrebbe rivelarsi, nel medio periodo, particolarmente rischioso. Non ci sono, infatti, seconde chance ed il ruolo guida esercitato dalla Germania in Europa potrebbe essere a rischio.

Il motore produttivo del Paese. L’economia ha iniziato a mostrare i primi, timidi segnali di ripresa: secondo l’istituto economico Diw, infatti, il Prodotto Interno Lordo è in crescita del 3 per cento nel trimestre in corso se comparato con quello appena passato. Gli indicatori sembrano dunque puntare ad una ripresa ma ci vorranno almeno due anni per superare gli effetti del crollo storico registrato in primavera. L’economia tedesca, secondo quanto riferito dal Ministero dell’Economia, avrebbe comunque superato la fase più dura del tracollo, come mostrato dai dati provenienti dall’industria manifatturiera che, nel mese di maggio, ha incrementato la produzione del 10,3 per cento rispetto ad aprile ed ulteriori miglioramenti sono attesi per giugno.

Da huffingtonpost.it l'1 agosto 2020. Migliaia di persone, senza mascherina e non a distanza di sicurezza, si sono radunate a Berlino, sul viale di Unter den Linden, per manifestare contro le misure di contenimento del coronavirus per il “giorno della libertà”. Secondo i media locali, sarebbero state circa in 15mila a contestare le misure prese dal governo. Una manifestazione molto partecipata, anche se interrotta dalla polizia, a causa del mancato rispetto delle regole che stavano contestando. Anche la Germania, quindi, ha i suoi gilet arancioni. Rispetto alle manifestazioni italiane, però, c’è stata molta più partecipazione, ma anche più contestazione. Infatti, a Berlino ci sono state alcune contro-manifestazioni, tra cui quella dell’associazione “nonne contro la destra”. Così come nella manifestazione italiana, le forze dell’ordine hanno presentato una denuncia penale contro gli organizzatori dell’evento, cioè il gruppo “Iniziative Querdenken” - iniziativa pensiero trasversale -, fiancheggiati, secondo la Build, da gruppi neonazisti, che hanno invitato alla partecipazione. Per i manifestanti, le misure di lockdown sono una insopportabile violazione dei diritti umani. I cori più diffusi sono stati “Corona, falso allarme”; “siamo costretti a indossare una museruola” e ”è la pandemia la più grande teoria cospirazionista”. “La nostra richiesta è di tornare alla democrazia. Via queste leggi che ci sono state imposte, via le mascherine che ci rendono schiavi”, ha detto una dimostrante alla Bbc. I politici tedeschi hanno lanciato dure critiche contro l’evento: “A migliaia festeggiano la seconda ondata, senza mascherina, senza distanza. Mettono in pericolo i nostri successi contro la pandemia e per la ripresa economica. Irresponsabile!”, ha scritto su Twitter Saskia Esken, leader dell’Spd. Dello stesso tenore il commento di Jan Redmann della Cdu:  “A Berlino si torna a manifestare contro le misure di contenimento mentre registriamo 1000 nuove infezioni al giorno. Questa pericolosa stupidaggine non ce la possiamo più permettere”. Anche Paolo Gentiloni ha commentato la vicenda: “Oggi a Berlino. Chiedono di essere liberi dalle mascherine. Un’idea di libertà che non fa ridere. Fa paura”, ha scritto su Twitter l’ex Presidente del Consiglio.

Berlino, marcia dei "no-mask" "Derubati della nostra libertà". Circa 17mila persone sono scese in strada oggi per manifestare contro le misure restrittive imposte dal governo, fra loro no-vax e rappresentanti dell'estrema destra: "Costretti ad indossare la museruola, derubati della nostra libertà". Federico Garau, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. Migliaia di persone hanno manifestato oggi a Berlino contro le misure imposte dal governo tedesco per evitare la ripresa dei contagi da Coronavirus. Definiti da gran parte delle stampa come "negazionisti", i cittadini partecipanti al corteo hanno sfilato per le strade per gridare il proprio dissenso contro misure considerate ormai fuori luogo, se non addirittura eccessive. "Corona, falso allarme" e "Siamo costretti a indossare una museruola”, sono solo alcuni degli slogan scritti sui cartelli portati dai manifestanti. “Siamo qui e siamo rumorosi, perché veniamo derubati della nostra libertà!" è il motto ripetuto dai partecipanti al corteo, decisi a protestare contro le limitazioni che devono ancora essere rispettate.

I casi superano i 16 milioni. A Berlino 174 in una fattoria. Secondo quanto riferito dalla polizia tedesca, sarebbero circa 17 mila le persone che nel corso di questa giornata hanno deciso di esprimere il proprio dissenso percorrendo le strade del centro di Berlino. A prendere parte alla protesta numerose realtà, fra cui no-vax, rappresentanti dell’estrema destra e “cospirazionisti”. La manifestazione nominata “La fine della pandemia - Giornata della libertà”, è stata contestata anche da gruppi antagonisti, che si sono opposti al corteo, cantando"Nazis out!". Ad oggi la Germania ha una media di circa 1000 contagi al giorno. Secondo i manifestanti non vi è tuttavia alcuna ragione per proseguire con le misure restrittive, per questo si oppongono con forza al futuro vaccino. “Siamo la seconda ondata!”, hanno urlato i manifestanti. “Difesa naturale invece della vaccinazione", hanno chiesto a gran voce, come riportato da “AbcNews”. Nel mirino non solo il governo tedesco, ma anche le multinazionali del farmaco e l'imprenditore milionario statunitense Bill Gates, che tanto si è adoperato perché venisse trovato al più presto un vaccino contro il Coronavirus. La folla ha marciato fino alla Porta di Brandeburgo, per poi essere bloccata dalla polizia, che ha più volte richiamato i manifestanti con i megafoni. A preoccupare il fatto che nel corso del corteo non sia stato rispettato il distanziamento, e che la maggior parte dei partecipanti non indossasse mascherine. Una protesta che è stata duramente condannata sul web. Saskia Esken, del partito socialdemocratico tedesco alleato del governo Merkel, avrebbe soprannominato i partecipanti “Covidiots”. La polizia tedesca, invece, ha fatto sapere di aver denunciato l'organizzatore del raduno, reo di non aver rispettato le norme igieniche. Attualmente in Germania le misure restrittive sono state allentate, ma permane l'obbligo del distanziamento, così come quello di indossare la mascherina nei negozi o sui mezzi pubblici.

Rischio peste suina: la Germania blinda i confini. Andrea Massardo il 20 luglio 2020 su Inside Over. Dopo aver chiuso negli scorsi mesi i propri confini a causa della pandemia di coronavirus, adesso la Germania ha deciso di blindare nuovamente le frontiere con Varsavia a causa dell’aumento dei contagi della peste suina nel territorio polacco. Come si apprende dal quotidiano francese Le Monde, infatti, l’incremento dei cinghiali positivi in Polonia avrebbe allarmato il governo federale di Berlino anche a causa della vicinanza dei focolai riscontrati – si parla di episodi avvenuti a meno di 200 chilometri dal confine. E in questo scenario – soprattutto per tutelare la propria fauna e gli importantissimi allevamenti di suini della Germania – l’esecutivo tedesco ha deciso di prendere in mano le redini della situazione, fermando ancora una volta i confini terrestri.

Il pericolo della peste suina. Contrariamente a quanto accaduto in passato con l’influenza, la peste suina non può essere trasmessa all’uomo – almeno secondo le rilevazioni effettuate negli anni sino a questo momento. Tuttavia, tra i suini essa è risultata essere altamente contagiosa e con un alta percentuale di mortalità, in grado di mettere in ginocchio interi allevamenti di maiali e di cinghiali. Il più grande pericolo dettato dal patogeno, dunque, è “limitato” al mondo animale ed alle ripercussioni che avrebbe sugli allevamenti intensivi della Germania: uno dei principali produttori mondiali e fornitore privilegiato del mercato cinese. Per cercare di scongiurare una crisi del settore che potrebbe essere devastante nel difficile periodo attraversato, dunque, la decisione di Berlino può essere considerata una misura protezionistica di salvaguardia economica. In modo particolare, per evitare che la malattia si trasmetta dapprima tra gli animali selvatici e, in un secondo momento e dopo il contatto con gli allevamenti, anche ai suini presenti negli allevamenti tedeschi.

La Germania vuole blindarsi. Già rilevata in 11 Paesi dell’Unione europea, la peste suina è arrivata a colpire anche Paesi come il Belgio negli scorsi mesi, situato anch’esso ai confini della Germania. Altamente infettivo. è stato già causa nel corso della scorsa primavera dell’abbattimento di oltre 30mila suini appartenenti a due allevamenti differenti in Polonia. In uno scenario che, a suo modo, potrebbe causare delle enormi perdite per il settore qualora la minaccia non venga celermente limitata. Secondo quanto riportato dalle fonti francesi, infatti, la Berlino starebbe già da mesi lavorando a una soluzione volta a limitare il passaggio dei suini selvatici infetti dalla Polonia. L’idea, come riferito dal ministro dell’agricoltura tedesca Till Backhaus, sarebbe quella di costruire una barriera elettrificata lungo le sponde del fiume Neisse, confine naturale che divide la Germania dalla vicina Polonia. In una soluzione che – e proprio in concomitanza con i difficili mesi segnati dalla pandemia – porterebbe alla costruzione di un nuovo confine artificiale volto a limitare il passaggio tra i due Paesi aderenti all’Unione europea. Secondo l’opinione di molti allevatori tedeschi però una fragile barriera elettrificata di confine non sarebbe sufficiente e la soluzione sarebbe da ricercarsi in un muro invalicabile e definitivo, nonostante le difficoltà che esso comporta. E in questo scenario, nei prossimi giorni, sarà chiamato a rispondere lo stesso Bundestag di Berlino, al fine di trovare una soluzione che possa salvaguardare la produzione suina tedesca.

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 24 giugno 2020. "Come a marzo". Per circa 600mila tedeschi dei circondari di Gütersloh e Warendorf si torna alla casella di partenza. All'incubo della clausura in casa, delle saracinesche abbassate, delle attività vietate. Il governatore del Nordreno- Westfalia, Armin Laschet, ha deciso di blindare l'area intorno al nuovo super focolaio tedesco, il mattatoio Toennies dove è riesplosa la pandemia che ha infettato più di 1.500 lavoratori. «Lo scopo è ampliare i test per capire se il virus si è diffuso anche nella popolazione», ha puntualizzato ieri, annunciando tamponi a tappeto per tutti gli abitanti dell'area. Al di fuori del macello dove era ricomparso il virus, i contagiati sembrano limitati a due dozzine, finora. Ma si tratta del "più importante" focolaio scoperto in questa fase di allentamento delle restrizioni, come ha sottolineato il governatore del land più popoloso della Germania. E il Paese di Angela Merkel si è trovato ieri costretto, per la prima volta, a decidere un nuovo lockdown. Sino alla fine del mese varranno di nuovo le regole del picco della pandemia, niente picnic, chiusi i bar, le palestre, le piscine e i negozi, e si potrà girare solo in due, ad eccezione dei conviventi o dei familiari stretti. Le scuole erano state chiuse già la scorsa settimana, allo scoppiare del caso Toennies. Ma uno dei problemi principali sembra essere, per le autorità della Westfalia, rintracciare tutti i lavoratori e assicurarsi che si attengano alla quarantena imposta dalla regione. Sembra che siano distribuiti anche oltre la regione in lockdown - persino a Hamm o a Bielefeld. Molti sembrano anche scappati nei Paesi di origine, in Polonia o in Romania. Un altro dilemma, alla vigilia delle vacanze in Nordreno-Westfalia che scattano da venerdì, riguarda il divieto o meno di uscire dal circondario. Laschet è stato contraddittorio, sul punto, sostenendo che si possa viaggiare. Ma poi ha intimato agli abitanti delle zone in lockdown a non muoversi e ha puntualizzato che "ci saranno controlli". E intanto alcuni residenti della zona che se n'erano andati nel Mar Baltico a passare una vacanza sull'isola di Usedom, come ha raccontato ieri Bild , si sono ritrovati la polizia in albergo che li ha invitati a tornarsene a casa. Monta la rabbia contro il re delle carni, Clemens Toennies, accusato da Laschet di scarissima collaborazione con le autorità. Sembra che l'azienda non sia riuscita neanche a fornire tutti gli indirizzi dei lavoratori del mattatoio-focolaio di Rheda-Wiedenbrück che ha costretto la regione al lockdown. Toennies, che produce carne a basso costo per molte catene di supermercati e subappalta la gestione dei suoi lavoratori, nella stra grande maggioranza provenienti dall'Est Europa, si è scusato sabato. Ma le parole gli venivano fuori a fatica. Clemens Toennies è una delle figure più controverse del Paese. Figlio di un macellaio di Rheda-Wiedenbrueck, a 14 anni confessò di voler fare il tecnico della radio. Due schiaffoni del padre lo convinsero altrimenti. Con il fratello Bernd fondò poi l'azienda di commercio delle carni che lo ha reso ricco - secondo Forbes ha un patrimonio personale di 1,4 miliardi di euro. Patron di una delle squadre più amate della Germania, lo Schalke 04, Toennies è detestato dai tifosi, che lo accusano di essere responsabile del declino inarrestabile della squadra. E di aver insistito per un discutibile sponsor come Gazprom. Quando osservò di recente che «bisognerebbe costruire tante fabbriche in Africa in modo che gli africani di notte smettano di fare figli », la sua notorietà è esplosa ben oltre i mattatoi e le curve degli stadi. E non ha certo contribuito a migliorarne la reputazione.

Il focolaio di Gutersloh minaccia il futuro della Cdu. Andrea Walton il 23 giugno 2020 su Inside Over. Il distretto tedesco di Gütersloh, epicentro di un focolaio di Covid-19 scoppiato in un mattatoio di proprietà dell’azienda Tonnies, è di nuovo in lockdown. Il provvedimento restrittivo resterà in vigore almeno sino alla fine di giugno e porterà alla chiusura di palestre, cinema e bar ed alla cancellazione degli eventi culturali programmati. I settemila lavoratori dell’impianto saranno  sottoposti ad una quarantena domiciliare: almeno millecinquecento di loro sono risultati positivi al coronavirus. Le misure restrittive, secondo quanto riferito da Armin Laschet, governatore del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, saranno piuttosto simili a quelle già sperimentate dalla Germania nel mese di marzo. In quel periodo era stato consigliato ai tedeschi di stare in casa il più possibile ed erano stati vietati gli incontri tra non conviventi in privato.

Un contenimento precario. Il ritorno del lockdown è il primo  in Germania dall’allentamento delle restrizioni nazionali nel mese di maggio. Il morbo potrebbe iniziare a diffondersi anche tra la popolazione locale e non solamente tra i lavoratori dell’impianto. I casi di positività tra gli abitanti del distretto sono, al momento, ventiquattro: un numero che potrebbe però crescere nelle prossime ore fino a costituire una minaccia per la salute pubblica. i fatti di Gütersloh si accompagnano ad un più generale peggioramento della situazione epidemiologica tedesca: Lothar Wieler, a capo del Robert Koch Institute ( l’ente sanitario del Paese), ha reso noto che la Germania rischia una seconda ondata di infezioni sebbene sia ancora possibile prevenirla. L’indice di riproduzione del virus (R0) è schizzato in alto e si è attestato a 2.76 a causa di alcuni focolai localizzati. I distretti di Gütersloh e Warendorf (situati entrambi nella Renania Settentrionale-Vestfalia), la città di Magdeburgo ed il distretto berlinese di Neukölln hanno fatto registrare un forte aumento dei contagi.

Le conseguenze sulla Cdu. Il focolaio del mattatoio potrebbe avere serie conseguenze politiche sugli equilibri interni della Cdu, il partito guidato dalla Cancelliera Angela Merkel, che è attualmente alla ricerca del suo successore. Armin Laschet è uno dei candidati e le sue posizioni politiche centriste rappresentano la continuità con il Cancellierato della Merkel. Gli si oppongono Norbert Roettgen,  presidente della Commissione Esteri del Bundestag ed espero di geopolitica e, soprattutto, Friedrich Merz, schierato su posizioni più radicali ed in favore di una più marcata svolta a destra. Laschet si è già inimicato il Partito Socialdemocratico, partner di coalizione a Berlino, dopo aver accusato i lavoratori bulgari e romeni della Tonnies di aver portato il virus in Germania e di aver dunque provocato il focolaio. Il Ministro degli Esteri Heiko Maas ha definito i commenti “pericolosi” ed ha preteso le scuse mentre il segretario socialdemocratico Lars Klingbeil ha dichiarato che Laschet non è adatto per il ruolo di Cancelliere. Secondo il politico locale Sebastian Hartmann, invece, il governatore dello Stato sarebbe corresponsabile di quanto accaduto e lo ha accusato di aver agito con eccessivo ritardo.

Le elezioni federali. Le primarie della Cdu, rinviate a data da destinarsi (probabilmente si svolgeranno entro fine anno) a causa dell’emergenza Covid-19, anticiperanno di qualche mese le elezioni federali previste per l’agosto-ottobre del 2021. I sondaggi premiano, attualmente, la Cdu, che oscilla tra il 37 ed il 40 per cento dei voti e che è seguita, a grande distanza, dai Verdi, tra il 17 ed il 20 per cento dei consensi stimati. Molto lontani gli altri partiti tra cui i Socialdemocratici, 14-16 per cento e la destra radicale dell’Afd, 8-10 per cento. L’esito degli scrutini è legato alla capacità del governo di far ripartire l’economia e di contenere, quanto più possibile, la diffusione del virus. Se le cose non andranno in questo modo i cittadini potrebbero mutare, radicalmente, idea e decidere di affidarsi ad altri schieramenti. Angela Merkel, che ha dichiarato da tempo che quello in corso è il suo ultimo mandato da Cancelliera, si ritrova nell’inedito ruolo di traghettatrice verso un salto nel buio che potrebbe rivelarsi particolarmente pericoloso. In caso di vittoria di Friedrich Merz, inoltre, la sua eredità politica potrebbe scomparire senza lasciare traccia.

Da "repubblica.it" il 10 maggio 2020. La diffusione del coronavirus in Germania potrebbe registrare un'accelerazione dal momento che gli ultimi dati ufficiali diffusi oggi dall'Istituto Koch indicano che l'indice RO - che misura la capacità di contagio - è salito a 1,1, ciò vuol dire che una persona positiva al Covid 19 ne contagia in media 1,1. Perché l'epidemia sia considerata sotto controllo l'indice Ro deve rimanere sotto l'1. Solo lo scorso mercoledì il RO in Germania si era assestato allo 0,65, inducendo la cancelliera Angela Merkel ad affermare che il Paese si era lasciato alle spalle la fase uno.

Paolo Valentino per corriere.it il 2 giugno 2020. Sono bastate poche settimane a trasformare Christian Drosten, 48 anni, da sconosciuto ma stimato virologo della Charité, il più grande policlinico di Berlino, a figura di primo piano della ribalta nazionale. Non più solo accademico chiuso nella torre d’avorio della ricerca, ma consigliere del principe in questioni che riguardano la vita e la morte dei cittadini, divulgatore ascoltato da milioni di persone, ospite conteso da tutti i talkshow, navigatore instancabile dei social media dove viene spesso acclamato come un «eroe». È il principale effetto collaterale del Coronavirus, la pandemia che lega due sistemi di regola poco connessi: la politica e la scienza. Divise dai tempi e dagli obiettivi — la prima chiamata ad agire e decidere in tempi brevi, la seconda a provare, eventualmente a smentirsi e spiegare — politica e scienza al tempo della crisi vivono costrette come in un esperimento: alle prese con un virus mortale, i policy maker vorrebbero impossibili certezze scientifiche a tempo di record in grado di giustificare le loro scelte su temi esistenziali come la salute, il benessere, la libertà. Ma le conseguenze possono essere paradossali e drammatiche. E Christian Drosten lo sta sperimentando a sue spese. Considerato un genio nel suo campo, nel 2003 all’Istituto per le Malattie Tropicali Bernhard Nocht di Amburgo ha guidato il team che isolò il virus del Sars-Coronavirus, parente dell’attuale Sars-COV-2, sviluppando anche immediatamente un test diagnostico. Un successo che gli valse a soli 32 anni il Bundesverdienstkreuz, la più alta onorificenza civile della Repubblica federale. Dopo un passaggio alla guida dell’Istituto di Virologia dell’Università di Bonn, dal 2017 dirige quello della prestigiosa Charité berlinese. Ora Drosten è nella bufera. Ad attaccarlo con durezza e in modo proditorio è stata la Bild Zeitung, che ne ha addirittura messo in dubbio l’integrità accademica, accusandolo di aver servito gli interessi della politica. Secondo il quotidiano popolare, Drosten avrebbe usato metodi e criteri discutibili in uno studio sugli effetti del Covid-19 sui bambini, nel quale si afferma che la loro contagiosità è pari a quella degli adulti. Anche sulle indicazioni di quella ricerca si è basata la decisione del governo e dei Laender tedeschi di tenere chiuse almeno per ora le scuole e gli asili nido anche in questa fase di riaperture. Uno dei punti deboli sarebbe il basso numero di bambini visitati per l’indagine. Citando i dubbi di altri ricercatori, fuori contesto e alcuni senza averli neppure sentiti, la Bild ha bollato lo studio come truffaldino sfidando Drosten a produrre «entro un’ora» argomenti in sua difesa. «Ho cose più importanti da fare, che rispondere a un articolo tendenzioso della Bild», ha risposto il virologo via Twitter. Nel frattempo, anche gli scienziati citati in appoggio del suo attacco dalla Bild, hanno preso le distanze. Anche perché lo studio non era stato pubblicato ufficialmente, ma messo a disposizione della comunità scientifica perché facesse le sue osservazioni. La polemica continua. Da eroe, Christian Drosten è diventato capro espiatorio. Anche perché nel frattempo, aizzati da Bild, gli usual suspects della galassia complottista e i seminatori di odio hanno scatenato contro di lui una feroce campagna, accusandolo di ogni nefandezza. Sul tavolo del suo ufficio alla Charité ha perfino trovato la provetta originale di un test da Covid-19 con la scritta «positivo» e un biglietto: «Bevilo, così sarai immune». Della vicenda si sta già occupando la polizia.

Alta tensione in Germania: estremisti in piazza contro le restrizioni anti-contagio. Redazione su Il Riformista il 10 Maggio 2020. Alta tensione in Germania. In diverse città si sono verificati degli scontri e delle proteste animati da gruppi estremisti, contrari alle restrizioni imposte dal lockdown per prevenire la diffusione del coronavirus. Alcuni di questi gruppi agitano anche una teoria complottista, secondo la quale il virus è innocuo ed è soltanto una cospirazione di ampiezza globale. A Berlino la polizia ha fatto sapere di aver arrestato 86 persone dopo il lancio di bottiglie verificatosi contro gli agenti nella centralissima Alexanderplatz. Altre 45 persone sono state arrestate per gli scontri verificatisi nei pressi del Reichstag. Due agenti sono rimasti feriti nelle manifestazioni. A Dortmund un uomo ha attaccato una troupe televisiva durante una protesta: è la terza volta che succede. L’aggressore, 23 anni, è stato arrestato. A Colonia la polizia ha espresso indignazione perché alcuni di questi manifestanti invitano le persone a togliere la mascherina prima di entrare nei negozi. “Sembra che queste persone non abbiano ancora capito che non si tratta solo della loro salute ma anche della vita di altri”, ha dichiarato il capo della polizia. La tensione si sta alzando in tutto il Paese. A scuotere la Germania la notizia dell’R0, l’indice di contagiosità, che nell’ultima settimana ha superato di nuovo la soglia di 1, arrivando a 1,10. Mercoledì scorso era di 0,65. E quindi più di una persona sarebbe potenzialmente a rischio contagio da parte di un positivo al Covid. A farlo sapere il Robert Koch Institute (Rki), agenzia governativa tedesca per il controllo e la prevenzione delle malattie. Il risultato arriva dopo i primi allentamenti delle misure restrittive. Che comunque non hanno fermato il malcontento visto che proteste si sono verificate in tutto il Paese. La più grande a Stoccarda. A Berlino e Monaco, già in settimana, i manifestanti erano stati dispersi dalle forze dell’ordine. Ancora non è chiaro se all’aumento dell’R0 stia coincidendo un aumento dei contagiati. “L’aumento nell’indice di contagio stimato rende necessario esaminare gli sviluppi molto attentamente nei prossimi giorni”, ha scritto l’Rki in una nota. Preoccupa in particolare la situazione dei mattatoi. Secondo diverse fonti e un’inchiesta del giornale Spiegel sarebbero questi i nuovi probabili focolai. L’inchiesta contava circa 600 lavoratori dei macelli risultati positivi al Covid, di cui una trentina solo nel Mueller Fleisch di Pforzheim, nel Badem Wuerttemberg. Attenzione alta anche per la Westfleisch a Coesfeld, nel Nord-Reno Vestfalia, dove sarebbero oltre 200 i positivi, e nello Schleswig Holstein, nel Nord, dove i contagiati sarebbero oltre 100 solo nel macello di Bad Bramstedt della società Vion. La criticità principale del settore sarebbe quella di non riuscire a mantenere le distanze di sicurezza. Tra i lavoratori si registra una consistenze quota di immigrati dall’est, soprattutto Romania e Bulgaria.

Dario Ornaghi per  "tio.ch" il 10 maggio 2020. Berlino, Monaco, Stoccarda, Brema, Dortmund e Colonia: non solo la Svizzera è stata teatro di proteste contro le restrizioni anti coronavirus. Sabato, anche in Germania migliaia di persone sono scese in piazza per dire basta alle limitazioni dettate dalla pandemia. Ad Alexanderplatz, nella capitale tedesca, più di mille dimostranti hanno preso parte a una manifestazione non autorizzata, ai margini della quale si sono registrati scontri tra la polizia in tenuta antisommossa e i contestatori. Come riporta la Welt, 86 persone sono state fermate. Almeno 30 fermi anche davanti al Reichstag. A Berlino sono vietati gli assembramenti di più di 50 persone.  A Monaco, secondo stime della polizia, circa 3mila dimostranti si sono raccolti nella centrale Marienplatz. Data la natura «emozionale, ma in sé pacifica» della manifestazione, la polizia ha deciso di non intervenire, nonostante nella capitale bavarese il limite per gli assembramenti sia fissato a 80 partecipanti. Almeno altri sette capannelli di protesta si sono registrati in altri punti del centro città. Diverse centinaia di contestatori anche davanti al duomo a Colonia. La polizia si è limitata a prendere le generalità della presunta organizzatrice della dimostrazione e di altre persone presenti, ma ha tenuto a precisare: «Buona parte dei manifestanti ha chiesto a più riprese ai passanti di togliersi la protezione naso-bocca ed entrare senza mascherina nei negozi - ha dichiarato il capo della polizia Uwe Jacob, citato in un comunicato -. Non abbiamo alcuna comprensione per questo». In Germania, l'uso della mascherina è obbligatorio nei commerci e sui mezzi pubblici. Manifestazioni con alcune centinaia di partecipanti e per lo più pacifiche hanno avuto luogo anche a Stoccarda, Brema, Dortmund e Gera, in Turingia. "Noi siamo il popolo", "Libertà, libertà", "Resistenza" e "Basta politica del panico" sono tra gli slogan che sono stati scritti o scanditi. La richiesta più diffusa è il rispetto delle libertà fondamentali sancite dalla costituzione. Almeno a Berlino e Dortmund, tra i dimostranti si contavano anche estremisti di destra con messaggi di stampo nazista come "Traditori del popolo" e non mancavano i complottisti. Da qualche giorno, la Germania ha avviato l'allentamento delle misure anti coronavirus, che è di responsabilità dei Länder. Tra le disposizioni ancora valide a livello nazionale, c'è l'obbligo di tenere una distanza sociale di almeno 1,5 metri e portare la mascherina nei negozi e sui mezzi pubblici.     

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020. Sin dal Basso Medioevo, la processione del martedì di Pentecoste a Echternach, al confine tra la Germania e il Lussemburgo, procede per salti, avanzando due passi avanti e uno indietro, a tratti due avanti e due indietro, altre volte uno avanti e due di lato. È una buona metafora di com'è costretta a muoversi politicamente Angela Merkel in queste settimane, in Germania e in Europa. L' emergenza del coronavirus ha prodotto l' ennesima resurrezione della cancelliera, che ancora due mesi fa sembrava se non ai margini, in posizione defilata della vita politica tedesca. Nessuno in febbraio scommetteva molto sulla sua capacità di arrivare in fondo al quarto mandato, nel 2021, quando ha detto di non volersi più candidare alla guida della Germania. Due mesi, due secoli fa. Nello tsunami sanitario, economico e sociale provocato dalla pandemia, Merkel ha ancora una volta dimostrato come nelle crisi dia il meglio di sé stessa. Confermandosi madre della nazione, ha preso per mano il Paese conducendolo con fermezza e determinazione nell' ora più buia degli ultimi 75 anni. I tedeschi si sono affidati alla sua «forza tranquilla», al punto che oggi, quindici anni dopo l' elezione a cancelliera, otto su dieci si dicono molto soddisfatti della sua azione di governo. A rilanciarla al centro della scena tedesca ed europea, oltre all' evidenza di un contenimento fin qui riuscito dell' epidemia, con uno dei più bassi tassi di letalità del mondo, è stata un' irripetibile combinazione di fattori. Dove la capacità di spiegare con chiarezza ed empatia la gravità della situazione - «È seria e dovete prenderla sul serio» - si è accompagnata alla padronanza di ogni dettaglio tecnico. Scienziata di formazione, Merkel ha trasmesso una rassicurante autorevolezza: esemplare la conferenza stampa del 17 aprile, quando fece una piccola lezione sul R0, il tasso di contagio e il suo impatto sul sistema sanitario tedesco: un capolavoro di semplicità e competenza. Eppure, fedele alla mistica di Echternach, la cancelliera ha dovuto equilibrare e ritarare le sue scelte. Lo ha fatto in Germania, dove la sua indole cauta e l' impostazione accademica che le fa ascoltare in primis i virologi, hanno dovuto fare i conti con la crescente tentazione dei Länder a far da sé, soprattutto sul tema delle riaperture. E lo ha fatto in Europa, dove tra il no ai coronabond e qualche surplace tattico, ha aperto un varco alla solidarietà finanziaria, impensabile per la Germania ancora un mese fa. Ora però il vento è cambiato. E la cancelliera d' improvviso sembra «Angela nella tempesta», sottoposta a pressioni e imprevisti che ostacolano la sua danza di Echternach. Il terreno sotto i suoi piedi si fa più friabile. La rivolta cova nell' odierna conferenza settimanale con i premier dei Laender, alcuni dei quali (forti dei poteri del sistema federale) hanno già annunciato ripartenze autonome, siano la libertà d' incontro in piccoli gruppi, la riapertura degli asili nido o quella dei ristoranti, che metterebbero a rischio l' intera strategia del governo. Colpisce che a criticare Merkel siano anche i governatori della sua Cdu e che lei stessa abbia perso la pazienza, definendo quelle sulle riaperture «orge di discussioni». E sempre da uno dei padri nobili della Cdu, il presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble, è partito un dibattito serio ma molto divisivo, se sia giusto nella lotta al Covid-19 dare priorità assoluta alla difesa della vita umana, ovvero privilegiarne la «dignità», cioè il rispetto dei diritti fondamentali in questo momento parzialmente sospesi, come sostiene Schäuble riferendosi alla Costituzione tedesca. Anche la Corte Suprema è intervenuta, bollando come anticostituzionale il divieto di riunione all' esterno, sfidato da affollate manifestazioni da Stoccarda a Berlino. E ancora da Karlsruhe è giunta ieri la sentenza di parziale incostituzionalità del «Quantitative Easing» della BCE, che pone alla cancelliera un altro problema, sia pure non immediato, a casa e in Europa. Cosa succederà se i giudici in rosso fra tre mesi non accetteranno le giustificazioni richieste alla Banca Centrale Europea? Basterà ad Angela Merkel la danza di Echternach - due passi avanti, uno indietro, due di lato - ad attraversare questa ennesima linea d' ombra? È l' interrogativo dei prossimi mesi. Dalla risposta potrebbero dipendere molte cose. Perfino l' ipotesi, ormai apertamente discussa dentro la Cdu, di una quinta candidatura alla cancelleria. Merkel forever.

Articolo di “The Guardian” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 4 maggio 2020. Dal Guardian: In Germania le persone che potrebbero essere state infettate dal coronavirus potrebbero essere 10 volte tanto, hanno detto i ricercatori. I ricercatori dell'Università di Bonn hanno reso noti alcuni dati del loro studio preliminare, basato sul lavoro sul campo nella città di Gangelt, che aveva uno dei più alti indici di morte del paese. I ricercatori hanno concluso, su un campione casuale di 919 persone, che circa il 15% della popolazione di Gangelt è stato infettato, con un tasso di mortalità dello 0,37%. Traslandolo a livello nazionale, hanno affermato che circa 1,8 milioni di persone che vivono in Germania possono essere state infettate, contro i 160.000 casi confermati finora. Circa un infetto su cinque non aveva sintomi, hanno detto, sottolineando l'importanza della distanza fisica e dell'igiene di base per tenere a bada la malattia.

Daniel Mosseri per “Libero quotidiano” il 24 aprile 2020. La corsa all' accaparramento dei generi di prima necessità in Germania sembra essere finita. Secondo l'ufficio federale di statistica (Destatis), le vendite di pasta, riso e passata di pomodori hanno segnato un calo. A sorpresa, sugli scaffali dei supermercati è tornata anche la carta igienica, per settimane introvabile oggetto del desiderio dei tedeschi alle prese con i primi lockdown e quarantene: le vendite del prodotto per l'igiene intima sono state inferiori di circa due terzi rispetto al volume medio calcolato per il periodo da agosto 2019 a gennaio 2020. Con le dispense piene e il mobile del bagno che scoppia, gli abitanti della Repubblica federale non hanno però smesso di fare acquisti, gradita occasione per uscire di casa. Orfani della prossima edizione dell' Oktoberfest, cancellata dal governo bavarese a causa dell' epidemia di coronavirus, i consumatori si sono buttati sulla birra, le cui vendite sono cresciute del 26%, staccando di molte lunghezze il vino (+3%). In queste ore Angela Merkel ha strigliato deputati e governatori dei Länder, invitandoli a non abbassare la guardia. Certo, il governo federale sta lentamente allargando le maglie del lockdown con la riapertura (parziale) delle scuole e (quasi totale) dei negozi «ma stiamo camminando su ghiaccio finissimo», ha affermato la cancelliera al Bundestag, ribandendo che «non siamo nella fase finale della pandemia». Mercoledì scorso il Paul Ehrlich Institute (Pei) ha dato luce verde alla sperimentazione di un vaccino su 200 volontari, ma la strada è ancora lunga. E i cittadini-consumatori, dimostratisi più assennati dei loro rappresentanti che invocano la fine del lockdown, hanno ben pensato di far crescere del 6% le vendite di preservativi nei giorni precedenti alla Pasqua. Un primo, forte incremento nelle vendite dei profilattici si era già registrato fra 12 al 22 marzo (+56%), quando sono state introdotte in Germania molte delle restrizioni sui movimenti delle persone.

Da "repubblica.it" il 21 aprile 2020. Niente Oktoberfest: il "rischio è troppo elevato". Il governatore Markus Soeder (Csu) ha appena annullato, causa coronavirus, la festa popolare più famosa nel mondo. Troppo complicato, ha spiegato il leader cristianosociale, mantenere le distanze di sicurezza al Wiesn, come lo chiamano i bavaresi, impossibile imporre le mascherine. Anche ipotesi di feste più ristrette sarebbero state scartate: "il Wiesn o si fa per bene o non si fa affatto", ha dichiarato Soeder.  L'Oktoberfest si sarebbe svolto quest'anno tra il 19 settembre e il 4 ottobre. Ogni anno attira turisti da tutto il mondo - e moltissimi italiani - e garantisce alla città di Monaco introiti enormi. Circa un milione di visitatori occupano gli alberghi del capoluogo bavarese nelle settimane della festa popolare che ha oltre due secoli di tradizione. Il giro d'affari si aggira intorno ai 450 milioni di euro. Non è la prima volta che il Wiesn viene cancellato per un'epidemia: nel 1854 e nel 1873 fu il colera a fermare la festa. Dalla sua fondazione, nel 1810, l'Oktoberfest è stato annullato una ventina di volte, in genere durante le guerre.

Dagospia il 21 aprile 2020. Corrado Formigli su Facebook: Questa fotografia è stata scattata alle ore 15 di oggi, sabato 18 aprile 2020, sulle sponde dell'Isar, nel cuore di Monaco di Baviera. È un'immagine che si presta a una serie di osservazioni. Innanzitutto notiamo che non ci sono anziani, i più fragili e vulnerabili. Le persone si raggruppano per nuclei familiari, per il resto si distanziano quel che serve. In sintesi, i cittadini si regolano sulla base del proprio senso di responsabilità, senza autocertificazioni cartacee. La presenza della polizia è molto discreta. Com’è possibile? È noto che la Germania ha saputo gestire il contagio piuttosto bene. I contagiati ufficiali oggi sono oltre 142 mila, i morti complessivi circa 4300. L'età media dei malati è molto più bassa che in Italia, secondo gli esperti per via della peculiarità della società tedesca dove i ragazzi vanno a vivere da soli presto e frequentano poco gli anziani (e dove il contatto fisico è molto meno accentuato che da noi). Inoltre, l'alto numero di tamponi eseguiti tempestivamente ha permesso di mappare rapidamente il territorio e isolare i contagiati con più efficacia. Per fare tanti tamponi, la Germania si è avvantaggiata di un piano pandemico ben organizzato e di ottime scorte di reagenti chimici, quegli stessi reagenti di cui l'Italia si trova drammaticamente a corto. Stesso discorso vale per i Dpi, i dispositivi di protezione, distribuiti efficacemente al personale sanitario, e per i respiratori, abbondanti in Germania dove ci sono alcuni dei più importanti produttori al mondo di ventilatori polmonari. A tutto questo aggiungiamo che la Germania aveva prima del contagio cinque volte i posti di terapia intensiva dell'Italia (con una volta e mezzo degli abitanti), numero ulteriormente aumentato durante l'epidemia. Insomma, i tedeschi non si sono mai lontanamente trovati con le terapie intensive esaurite come purtroppo è accaduto in Lombardia. Le aziende tedesche non sono mai state chiuse e i parchi sono sempre stati tenuti a disposizione dei cittadini pur nel rispetto delle regole di distanziamento. Ora, senza ombra di polemica, prima di sputare sui tedeschi additandoli come i "nipotini di Hitler" (come ha fatto uno sciagurato senatore della Repubblica che neppure è degno di essere nominato) e attribuire l'esplosione del contagio e il numero dei morti in Lombardia alla “sfiga” magari studiamo un po' meglio chi è stato più bravo di noi. Perché l'Italia sarà anche stata sfortunata. Ma la mancanza di Dpi, la scarsità di terapie intensive, la mancanza di scorte di reagenti chimici, il poco personale sanitario, l'insufficiente coordinamento fra Stato e Regioni, la mancanza di produttori nazionali di materiale sanitario cruciale in caso di epidemie, l’indebolimento dei presidi sanitari territoriali, ecco: quella non è sfiga. È il segno di un Paese preso enormemente alla sprovvista dal Covid 19 e che dovrà umilmente imparare molte cose da chi ha fatto meglio di noi. Se non altro, per rispetto delle 23 mila vittime di questo disastro.

Sul coronavirus non c'è partita: Italia - Germania finisce 0-4. I tedeschi hanno dimostrato di saper gestire meglio di tutti l'emergenza Covid 19. Grazie a una sanità che non ha rivali, una classe dirigente all'altezza e una catena di comando compatto. Il “modello italiano” invece arranca. E ora il match Conte-Merkel sugli eurobond. Emiliano Fittipaldi il 21 aprile 2020 su L'Espresso.  A due mesi dall'inizio della pandemia, la risposta della Germania all'emergenza coronavirus sembra essere quasi perfetta. Almeno in confronto a quella messa in campo da altri paesi. Anche il “modello italiano”, rispetto a quello tedesco, è poca cosa. Nella gestione della crisi i nostri cugini ci hanno surclassato. Dimostrando un'organizzazione superiore nell'emergenza sanitaria, una classe dirigente all'altezza a livello nazionale e territoriale, e una catena di comando compatta. Fattori che oggi permettono a Berlino di pianificare con rapidità la “Fase 2”, quella del rilancio dell'economia nazionale. Molti gli elementi-chiave del successo tedesco. Ecco i quattro più rilevanti.

1) TEST, TERAPIE INTENSIVE E POSTI LETTO. Qualche settimana fa molti scienziati italiani spiegavano che tutte le nazioni europee avrebbero avuto, nessuna esclusa, una curva dei contagi e dei morti simile alla nostra. In Germania, invece, l'epidemia ha avuto una storia diversa. Se il numero accertato dei contagiati è di poco inferiore a quello italiano (181 mila contro 146 mila), il tasso di letalità del morbo tra i tedeschi è oggi fermo al 3,5 per cento, contro il 13 per cento del nostro Paese. In numeri assoluti, 24 mila morti contro 4.600. «La pandemia da noi è sotto controllo», può affermare soddisfatto il ministro della Salute Jens Spahn, sicuro che il Fattore R0, il tasso d'infezione, sia ormai sceso allo 0,7. Come si giustifica una difformità così marcata? La Germania, semplicemente, non era impreparata allo tsunami del Covid 19. L'Italia, sì. Al netto delle differenze sociali e culturali che hanno permesso ai teutonici di proteggere meglio gli anziani ( come spiegato dall'Espresso un mese fa ), i tedeschi hanno fatto un uso massiccio dei tamponi fin dai primi giorni della crisi - ben 350 mila a settimana in media - che hanno permesso di isolare subito i positivi e tracciare i contatti. L'Italia a oggi ne conta poco più della metà. Ma abbiamo recuperato solo ad aprile: nelle prime, decisive settimane ne abbiamo fatti troppo pochi, seguendo protocolli errati e tattiche obsolete. La Germania ha poi protetto meglio i suoi medici e infermieri attraverso una distribuzione massiccia di dispositivi di protezione di cui aveva fatto scorta in precedenza, e ha riconvertito alla svelta fabbriche nazionali per produrre mascherine in house. Dal prossimo agosto potranno distribuirne 200 milioni al mese, mentre in Italia dipenderemo ancora dai mercati esteri, diventati far west per speculatori. Gli ospedali tra Berlino e Monaco, inoltre, non sono mai andati al collasso: la telemedicina a distanza ha funzionato bene. Altro confronto impietoso è quello sul numero di terapie intensive, unica arma per salvare i pazienti Covid più gravi: all'inizio della crisi l'Italia (60 milioni di abitanti) ne aveva poco più di 5 mila, la Germania (83 milioni di abitanti) ben 28 mila, il sestuplo. Presto i tedeschi potranno contare su 40 mila unità salvavita, grazie alle industrie che producono ventilatori meccanici. In Italia ce n'è solo una, la piccola Siare Engineering. Appena 35 dipendenti e 120 pezzi prodotti al mese. Il governo ha mandato l'esercito per potenziare la produzione mensile, che – grazie all'aiuto di Ferrari e Fca – è arrivata a 500 pezzi. Troppo poco per il fabbisogno nazionale in caso di recrudescenza dell'epidemia.

2) FABBRICHE SEMPRE APERTE. In Germania il combinato disposto di investimenti massicci sul sistema sanitario nazionale, di tamponi a tappeto e di terapie intensive per ogni paziente ha permesso dunque di avere pochi decessi rispetto all'Italia. Ma, pure, di non bloccare del tutto l'attività economica. Così se il 95 per cento delle aziende tricolori che lavorano acciaio si sono dovute fermare, in Germania le aziende siderurgiche, e non solo, hanno continuato a lavorare (quasi) a pieno regime. Come ha dimostrato lo studio della Fondazione Edison sui consumi elettrici industriali delle due settimane centrali di marzo: le tabelle segnalano un calo del 25 per cento tra Lombardia e Sicilia, al 5 per cento nei lander tedeschi. Il lockdown totale all'italiana è stato evitato, e così anche il crollo dei consumi risulta essere meno drammatico: secondo uno studio di McKinsey gli italiani hanno tagliato la spesa del 40 per cento, i tedeschi del 20. Un contenimento consentito anche dal mostruoso scudo economico alzato dal governo federale: un ombrello da 1.500 miliardi di euro tra garanzie (oltre 1.200 miliardi) e nuovo debito pubblico, in modo da proteggere aziende, lavoro e salari. La recessione colpirà anche loro, ma secondo tutti gli istituti di ricerca l'impatto sarà meno devastante rispetto agli stati più colpiti.

3) COMPETENZA DELLA CLASSE DIRIGENTE. L'eccezione tedesca nel controllo del coronavirus, a due mesi dall'inizio della pandemia, è dunque un fatto assodato. Non dipende né da manipolazioni (complottisti ipotizzano che Angela Merkel nasconda le reali statistiche dei morti teutonici), né dalla dea bendata. Ma da abilità che altre nazioni, piaccia o meno ai nazionalisti, non hanno in dotazione. O, se le avevano, non hanno saputo usare. Date le circostanze e la eterogeneità della coalizione di maggioranza, in molti sostengono che Palazzo Chigi abbia fatto il massimo possibile. Che poteva andare anche peggio. Forse l'analisi è fondata. Ma è indubbio che davanti alla sfida del Covid la struttura amministrativa, la burocrazia e la qualità della classe dirigente italiana non reggono il confronto con quelle tedesche. Al netto dell'esistenza di un piano pandemico funzionale che noi non avevamo («siamo prontissimi», disse incautamente Giuseppe Conte il 27 gennaio scorso), le polemiche quotidiane tra Roma e i vari governatori sono un unicum europeo. Anche la guerra feroce tra le varie Regioni, combattuta sulle contrapposizioni Nord-Sud e destra-sinistra, è caratteristica nazionale di cui non andare fieri. In più, se in Italia non si capisce chi dispone e chi delibera, la catena di comando tedesca è sempre rimasta chiara e definita. La Germania è uno Stato federale, i lander hanno poteri e deleghe rilevanti, ma la responsabilità politica e l'onere del coordinamento finale è in capo al governo della Merkel, a capo di un partito conservatore che – non a caso – sta volando nei sondaggi verso il 40 per cento dei consensi. La baraonda di ordinanze locali è tipica della crisi Covid italiana: in Germania nessuna babele di regole ha creato confusione tra i cittadini. A Roma anche la comunicazione del rischio è stata caotica (vedi la fuga di notizie sul lockdown in Lombardia e il successivo assalto ai treni verso Sud, o le cangianti opinioni dei virologi). In Germania parla solo l'esecutivo e gli scienziati dell'Istituto Koch. La Merkel, inoltre, non ha creato tre-quattro task force diverse con centinaia di consiglieri , con conseguente contrasti di competenze e confusione decisionale. Così se in Italia i piani sulla riapertura sono ancora avvolti nel mistero (Conte ha annunciato che entro il wekeend svelerà il suo progetto), in Germania dopo un solo mese di lockdown sono già pronti. Tanto che le fabbriche strategiche, da quelle meccaniche all'industria dell'auto, sono ripartite. La Volkswagen ha riaperto ieri dopo solo un mese di stop, Audi seguirà a fine aprile. Gran parte dei negozi fino a 800 metri quadri hanno già rialzato le serrande. A sud delle Alpi la riapertura di aziende e uffici, ipotizzata i primi di maggio, sarà comunque zavorrata dalle scuole chiuse: gli studenti italiani torneranno in aula, se tutto va bene, a settembre. Quelli teutonici il 4 maggio saranno in classe a rispondere all'appello. Con i maestri in aula e le mense funzionanti, i genitori tedeschi potranno tornare al lavoro senza chiedersi a chi lasciare la prole. «La Germania ha riportato risultati parziali, serve estrema cautela. Ma la direzione è buona», ha spiegato la Cancelliera qualche giorno fa.

4) LEADERSHIP ECONOMICA. Nessuno, all'inizio della pandemia, aveva immaginato che la leadership economica e politica dei tedeschi in Europa si sarebbe confermata in tutta la sua evidenza anche nella battaglia al Covid 19. «L'Italia è due settimane avanti agli altri paesi europei, avranno tutti i nostri medesimi problemi», ripetevano da Palazzo Chigi e dal Comitato tecnico-scientifico. Per quanto riguarda la Germania, si sbagliavano. L'efficienza tedesca non sempre è applaudita come esempio virtuoso. Un pezzo della classe dirigente di M5S e della Lega soffia su italiche antipatie anti-tedesche da anni. Strategia populista agevolata da un complesso (d'inferiorità?) di una parte consistente del paese nei confronti dei ricchi e severi germanici. Per molti veri responsabili, insieme alla Ue, del declino economico dell'Italia degli ultimi vent'anni. A poche ore dal cruciale Consiglio europeo del 23 aprile, escludendo le fake news dei pasdaran grillini e dei seguaci di Matteo Salvini, molti osservatori di estrazioni diverse sono concordi nel sostenere che i tedeschi debbano adesso esercitare la loro egemonia nell'era del Covid con maggiore responsabilità rispetto a crisi recenti. Concedendo dunque una solidarietà fattiva ai partner più fragili del meridione, Spagna, Italia e Grecia in primis. In modo da salvare (e rilanciare) l'Europa unita, e l'economia comune. E proteggere, come sostiene pure l'ex cancelliere Gerhard Schroder e l'ex presidente del Bundestag Lammert, la stessa economia tedesca. Che prospera soprattutto grazie al manifatturiero, alle sue esportazioni e quel surplus commerciale citato da Conte in un'intervista polemica. La partita che si gioca nei prossimi giorni in merito agli eurobond o coronabond che dir si voglia, sul “surrogato” chiamato recovery fund, insomma sulla parziale mutualizzazione del debito e sugli aiuti per evitare il collasso delle frangibili economie mediterranee, sarà dunque decisiva. Per l'Italia, ma anche per la Germania. Vincere per 10 a zero e umiliare quelli i partner non conviene neanche ai più forti. I falli di reazione sono imprevedibili, e porterebbero conseguenze nefaste per tutti.

La Germania sta per sconfiggere l’epidemia? Andrea Muratore su Inside Over il 17 aprile 2020. Sono buone notizie quelle comunicate dal ministro della Salute tedesco Jens Spahn nella giornata odierna sulla diffusione del contagio da coronavirus in Germania. Nonostante il numero dei morti non sia affatto indifferente (oltre 4mila) Berlino ha subito un danno notevolmente minore in termini di vite umane perdute rispetto a Italia, Francia, Spagna e Regno Unito e ora può iniziare a programmare la fase del graduale e scaglionato ritorno alla normalità. Spahn, dopo aver incontrato gli esponenti dei governi federali, i Lander, si è mostrato ottimista: “possiamo dire che le misure restrittive della vita economica e sociale sono state un successo”. Il motivo è stato legato alla constatazione che l’indice R0, che misura il tasso di trasmissione del contagio, è sceso per la prima volta sotto la soglia di 1 per il Covid-19. Questo vuol dire che, mediamente, ogni persona infetta ne contagia a sua volta meno di una e che quindi in prospettiva la malattia è destinata a un graduale esaurimento. Una delle massime autorità virologiche tedesche, il direttore del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, ha definito “molto buoni” i risultati parziali della strategia messa in atto dal governo, sottolineando come l’indice R0 tedesco sia ora sceso a quota 0,7. Berlino ha saputo controllare i focolai pandemici sia per cause relativamente favorevoli della diffusione del contagio rispetto agli altri Paesi sia per una pronta e decisa risposta. Sul primo fronte, la Germania è stata favorita dal fatto che il contagio non sia “esploso” in aree paragonabili alla Lombardia interessando una popolazione in larga parte anziana, ma si sia piuttosto manifestato in maniera sparsa sui vari Lander, colpendo mediamente persone di età non superiore ai 50 anni. A inizio aprile, infatti era di 47 anni l’età media degli infetti tedeschi rispetto ai 64 di quelli italiani. Sul secondo, la maggiore disponibilità di posti letto e di terapie intensive nel Paese ha consentito ai tedeschi di non dover temere un sovraffollamento ospedaliero e di poter così ben distribuire i casi clinici da quelli che non necessitavano ricoveri urgenti. Decisiva, in particolare, la scelta di effettuare tamponi a tappeto per meglio isolare i positivi. Strategia condotta in maniera vincente in Corea del Sude risultata brillante in Italia nel caso del Veneto. Con largo anticipo sulla diffusione del virus, Berlino da fine febbraio si era messa nella condizione di poter effettuare circa 350mila tamponi a settimana, identificando, isolando e curando in maniera domiciliare, laddove possibile, gli ammalati. Il complesso di queste misure ha consentito un lockdown tutt’altro che “isterico” nel Paese. Nonostante le ipocrisie sul fronte europeo, criticabili e stigmatizzabili, va riconosciuto al governo di Angela Merkel di aver saputo dimostrare sul fronte interno capacità di programmazione economica e politica. L’austerità a lunga proclamata dogma è stata abbandonata a favore di un “bazooka” economico senza precedenti; l’uscita dal lockdown è stata programmata in anticipo e in maniera graduale. Governo e Lander hanno concordato che da lunedì riapriranno i concessionari di auto, le librerie e tutti gli esercizi commerciali di superficie inferiore a 800 metri quadri, mentre dal 4 maggio inizierà la riapertura graduale delle scuole. Un messaggio psicologicamente molto forte, per il quale l’esecutivo non ha avuto necessità nè di nominare task force dedicate nè di dover titubare a lungo. La politica ha sempre avuto il primato esecutivo: e questo ha aiutato a evitare che si creassero dei dubbi sul tema della scelta di chi avesse i titoli per rispondere alla crisi. Berlino non può ancora cantare vittoria, ma il coronavirus è sicuramente in ritirata: i guariti superano i malati e la curva si è oramai consolidata su questo trend. Ci vorrà tempo, ma la Germania supererà tra i primi in Europa la pandemia.

DAGONEWS l'8 aprile 2020. Una donna di 101 anni è sgattaiolata fuori da una casa di riposo per andare a casa di sua figlia per il suo compleanno. È successo a Braunschweig dove la donna è stata intercettata dalla polizia mentre vagava per le strade della città durante il lockdown. La donna è scappata da un’uscita di emergenza e si è incamminata verso casa della figlia, ma poco dopo si è persa. Fermata dagli agenti ha raccontato di vivere con la figlia che, però, ha rivelato che la madre viveva da due settimane nella casa di cura. «Mi manca terribilmente» ha detto l’anziana agli agenti che le hanno permesso di salutare la figlia attraverso il vetro della macchina della volante. La Germania è in lockdown e le case di riposo sono state chiuse ai visitatori per evitare il contagio. La scorsa settimana, i pubblici ministeri di Braunschweig hanno confermato che stavano indagando su una casa di riposo di Wolfsburg, dopo che 22 persone sono morte dopo aver contratto il coronavirus.

Antonio Grizzuti per “la Verità” il 18 aprile 2020. Pochi giorni dopo aver contestato pubblicamente la quarantena, un avvocato tedesco è finito rinchiuso in un reparto psichiatrico. È una folle storia quella di Beate Bahner, titolare di uno studio legale specializzato in ambito sanitario con sede a Heidelberg, ridente cittadina della Germania meridionale. La Bahner ora è tornata in libertà, ma senza dubbio le servirà del tempo per riprendersi dallo choc vissuto a cavallo del fine settimana di Pasqua. Facciamo un passo indietro al 3 aprile, giorno in cui l' avvocato annunciava pubblicamente la volontà di presentare un ricorso alla Corte costituzionale tedesca al fine di sospendere il lockdown istituito per contenere l' epidemia di Covid-19. «Le misure radicali adottate dal governo per vietare a 83 milioni di persone di uscire di casa», si legge nel comunicato stampa, «sono palesemente incostituzionali e violano una moltitudine di diritti fondamentali dei cittadini tedeschi in una maniera mai vista prima». Per giunta, aggiunge la Bahner, «paralizzano quasi l' intera economia per molte settimane e non sono giustificate dall' andamento delle cifre dei contagi, né da studi scientifici, né tantomeno da esperienze passate». Martedì 7 aprile il legale pubblica sul proprio sito personale un fitto documento, nel quale spiega in maniera dettagliata le motivazioni della sua istanza. Secondo l' avvocato, le restrizioni messe in atto dal governo centrale e dai singoli Länder mettono «in pericolo lo stato di diritto, la democrazia e l' ordinamento liberaldemocratico» garantito dalla Costituzione tedesca. L' istanza con la quale si richiede la revoca delle misure sull' intero territorio nazionale viene depositata presso la Corte di Karlsruhe il giorno successivo. È solo l' inizio delle sue disavventure. La Bahner viene presto ribattezzata dall' opinione pubblica tedesca «avvocato coronoia», dal neologismo che indica la paura irrazionale (che lei stessa denuncia e combatte) di essere stati infettati dal coronavirus. E in men che non si dica si trova, suo malgrado, al centro di una vicenda che ha dell' incredibile. Già la mattina successiva, il commissariato di Mannheim - centro del Baden-Württemberg a poca distanza da Heidelberg - dispone l' oscuramento del suo sito Internet personale, utilizzato per aggiornare i cittadini della sua iniziativa. Il testo che spiega le ragioni del dissenso viene giudicato un «ostacolo alla sicurezza pubblica». Le autorità temono che, sulla scorta delle sue idee, altri cittadini si riuniscano per protestare. Non mancano per contro gli attestati di solidarietà. Secondo Niko Härting, docente alla Berlin school of economics and law, la chiusura del sito rappresenta una «totale violazione dei poteri di cui dispone la polizia». Lo stesso Härting si dice poi «preoccupato» del fatto che il «nostro stato di diritto è lì per sopportare opinioni dissenzienti, perfino quelle esagerate ed isteriche». Forse anche per via delle numerose proteste, il blog della Bahner viene riattivato nella serata di giovedì. Scontato l' esito della Corte, che venerdì scorso rigetta le istanze del legale giudicando il ricorso poco circostanziato. I giudici di Karlsruhe ritengono che l' avvocato sia stato poco circostanziato nel definire i casi in cui il lockdown non avrebbe potuto essere applicato, come per esempio la chiusura di scuole o le limitazioni nei viaggi. Nessuna rimozione, dunque, del blocco totale. Sfinita dall' intensa diatriba dei giorni precedenti, Beate Bahner annuncia di volersi prendere qualche settimana di pausa. Ma il giorno di Pasqua, intorno alle 19, invia un messaggio vocale alla sorella: «Sono fuggita da casa perché mi sento minacciata da una coppia di individui fuori dalla mia abitazione». In preda al panico, il legale ferma un' automobile e chiede ai conducenti di chiamare la polizia. Arrivati sul posto i poliziotti però arrestano lei, e la conducono con la forza in una struttura psichiatrica. «Era in evidente stato confusionale e ha opposto resistenza, prendendo a calci un collega», dichiareranno in seguito gli agenti. La Bahner fornisce alla stampa una registrazione audio nella quale descrive il suo arresto. Mani dietro la schiena, manette ai polsi, pancia in giù, testa sbattuta per terra. Quello descritto dal legale sembra un maltrattamento in piena regola. Nella notte, poi, l' isolamento e la cena servita per terra. «Ma qua dentro mi sento più al sicuro dai poteri oscuri che mi danno la caccia». Fuori dalla clinica di Heidelberg, nel frattempo, si assiepano circa 150 manifestanti (tutti rigorosamente senza mascherina) per manifestare solidarietà all' avvocato dissidente. Nonostante l' assembramento e la trasgressione delle norme sulle distanze, le autorità stavolta preferiscono non intervenire. Mercoledì intorno all' ora di pranzo, infine, il rilascio dalla struttura. Dopo aver pronunciato un discorso, Beate Bahner abbraccia i suoi simpatizzanti. Qualcuno la definisce folle, altri ancora complottista. Senza dubbio è la protagonista dell' ennesima pagina buia della democrazia ai tempi del coronavirus.

Un italiano rischia il processo in Germania per aver spedito 5 mascherine ai genitori anziani. L'assurda storia di un ingegnere a Berlino da dieci anni. Che ora risulto iscritto al registro degli indagati per commercio illegale di dispositivi medici. Sara Dellabella il 09 aprile 2020 su La Repubblica. C'è un italiano, a Berlino, che rischia un procedimento penale per aver tentato di inviare 5 mascherine in Italia. È il 13 marzo, quando Francesco Angerosa, un ingegnere italiano residente a Berlino da oltre dieci anni, invia un pacco pieno di regali ai propri familiari in Italia: giocattoli per la nipotina, due souvenir dall'Asia e cinque mascherine. "L'intento era quello di alzare il morale a tutta la famiglia, visto che non potremo vederci per un po' - racconta - però una volta arrivato a destinazione, nel pacco al posto delle mascherine c'era un foglio della polizia di frontiera”. Angerosa lavora nel settore del trasporto ferroviario e spesso i suoi affari lo portano in India, Thailandia e Taiwain dove Deutsche Bahn è impegnata con una specifica divisione nello sviluppo della rete infrastrutturale. Fino al lockdown di mezza Europa, aveva viaggiato spesso in quell'area del mondo dove il Covid 19 ha mostrato per primo la sua ferocia e quindi in via precauzionale aveva acquistato una piccola scorta di mascherine da usare durante le trasferte. Così, mentre in Italia era partita la caccia a un dispositivo introvabile, aveva pensato di inviarne qualcuna ai suoi genitori, considerati soggetti a rischio per l'età e patologie pregresse. “All'inizio non avevo dato peso alla comunicazione che la Polizia aveva inserito nel pacco Dhl, finché il 2 aprile non ho ricevuto a casa una comunicazione in cui risulto iscritto al registro degli indagati per commercio illegale di dispositivi medici”. Angerosa ha assunto un avvocato e inviato le proprie repliche alla Polizia così come previsto dalla normativa tedesca, sperando nell'archiviazione del caso. Si tratta di una situazione kafkiana, che ha visto il nostro connazionale vittima di una normativa di emergenza emanata dal governo tedesco che il 4 marzo scorso ha proibito le esportazioni all’estero dei dispositivi di protezione personale come le mascherine, i guanti e le tute protettive. La letalità da Covid 19 del nostro Paese è la più alta del mondo. I tedeschi, che contano pure loro decine di migliaia di contagiati e una popolazione anziana come la nostra, hanno invece un tasso dello 0,3 per cento. Circa 28 volte più basso. Una differenza che dipende da fattori sociali e culturali. Dall'età media degli infettati. E dalla qualità del sistema sanitario. Le uniche eccezioni a queste regole “sono possibili in condizioni stringenti, incluso nel contesto di campagne concertate per l’aiuto internazionale” recita la legge. Una proibizione totale, che finisce per considerare cinque mascherine "corpo del reato", "considerate alla stessa stregua della droga" commenta con malcelata ironia Francesco, che in questi giorni rivela di aver scritto alle istituzioni europee per chiedere chiarimenti in merito alla sua vicenda, senza ricevere alcuna risposta. Fin dall'inizio della telefonata, l'ingegnere italiano precisa che è un europeista convinto e la cosa che lo assilla di più, non è tanto la denuncia a suo carico, ma una considerazione: “Dov'è la Comunità Europea? La prima volta che l'Europa si trova ad affrontare una crisi, gli stati si sono dimenticati tutti i principi basilari del nostro stare insieme”.

DAGONEWS il 3 aprile 2020. Anche nella delazione all’ennesima potenza i tedeschi primeggiano. Aumentano nel Paese le denunce alla polizia di persone che segnalano passanti e vicini avvistati in strada durante il lockdown per arginare l’emergenza coronavirus. In un paese in cui la denuncia era all'ordine del giorno sotto i comunisti nella Germania dell’est e i nazisti di Hitler, le forze di polizia ricevono costantemente segnalazioni per denunciare il prossimo. Dal 14 marzo, la polizia nella capitale tedesca ha ordinato la chiusura di 830 pub, bar e altri locali, registrando già 898 violazioni delle disposizioni. «Stiamo ricevendo segnalazioni dai cittadini su ristoranti aperti o grandi raduni di persone nei parchi» ha detto una portavoce della polizia, aggiungendo che gli agenti sono sempre pronti a gestire le informazioni che giungono in centrale. Stessa situazione in altre città della Germania. La polizia di Monaco ha ricevuto fino a 150 chiamate in un solo giorno per una intera settimana mentre, come riporta il Mitteldeutsche Zeitung, le autorità di Magdeburgo hanno chiesto ai cittadini di non sovraccaricare la polizia, citando le parole di un agente che si lamentava dicendo che "le persone non dovrebbero fare rapporto ogni volta che vedono tre persone sedute su una panchina del parco". Mentre molti cittadini agiscono in modo responsabile, alcuni esperti affermano che frustrazione o rancore possono prendere il sopravvento. Rafael Behr, professore di criminologia e sociologia presso l'Accademia di polizia di Amburgo, ha citato il fenomeno dei cittadini nello stato orientale del Meclemburgo-Pomerania che denunciano i berlinesi che guidano verso le case di villeggiatura nel fine settimana prendendo le loro targhe per segnalarle alla polizia. «Questa voglia di denunciare gli altri sta avvelenando un po’ la società – ha detto Behr a Reuters - Alcune persone non hanno il coraggio di confrontarsi con altre, ma denunciano alla polizia in modo anonimo» ha detto Behr, aggiungendo che persone potrebbero avere una nostalgia per come sono funzionate le cose per tre decenni quando c’era la Stasi. D’altra parte proprio la Stasi aveva schiacciato il dissenso infiltrandosi in quasi ogni aspetto della vita facendo affidamento su circa 200.000 informatori che spiavano amici, colleghi e parenti. «Spiare gli altri era molto diffuso allora ed è più facile per le persone farlo se lo hanno già fatto prima - ha detto Behr - In ogni caso, è tipicamente tedesco aspettare fino a quando non ci sarà una legge che permetta alle persone di farlo».

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2020. Il numero dei contagiati da Covid-19 in Germania ha superato quelli della Cina. Alle 22 di ieri sera erano circa 91 mila le persone infettate nei 16 Länder federali, con una curva di progressione che ormai si sovrappone quasi esattamente a quella italiana. La differenza è nel ritmo del raddoppio, che in Italia si è ormai allungato a quasi 16 giorni, mentre in Germania resta più veloce, con 11,2 giorni. Il dato tuttavia varia molto da Stato a Stato. In Baviera, che ora è il Land più colpito, gli ammalati infatti raddoppiano addirittura ogni 6 giorni. Aumenta in modo preoccupante anche il tasso di mortalità, ancora relativamente basso, ma in costante accelerazione. Giusta la contabilità del Robert Koch Institut (Rki), i decessi tedeschi sono infatti al momento più di 1.100, pari a una letalità dell' 1,2%. Meno di una settimana fa, la stessa percentuale era ancora dello 0,8%. «Dobbiamo mettere in conto che ci saranno più morti», ha ammesso ieri il direttore del Koch Institut, Lothar Wieler, secondo il quale «siamo all' inizio di un' epidemia e non dobbiamo mollare». Nella sua conferenza online quotidiana, Wieler ha ammesso anche che il numero dei decessi potrebbe essere sottostimato: «Credo siano di più di quelli ufficiali». Ma non è chiaro se si riferisse alla sola Germania o al quadro internazionale, poiché non è stato possibile fare un contradditorio. Una delle ragioni citate è che quando le autopsie si fanno dopo diversi giorni, il che accade spesso a causa dell'intasamento, non ci sono più tracce di Covid-19. Per Wieler le misure restrittive stanno avendo conseguenze positive: da qualche giorno l'erre con zero (R0), cioè il numero di persone che ogni contagiato infetta in media è sceso a 1 dai 5 di due settimane fa. Ma la cancelliera Angela Merkel, nel suo podcast settimanale, ha messo in guardia: «Non saremmo responsabili se alimentassimo false speranze: è troppo presto per identificare una sicura dinamica positiva» nella curva. Merkel ha confermato che il blocco continuerà almeno fino alla fine delle vacanze di Pasqua.

 (ANSA il 6 aprile 2020) - Sono 110.123 i casi di contagio da coronavirus in Germania e 1584 le vittime. È quello che scrive la John Hopkins University. Secondo questa fonte sono 28.700, inoltre, i pazienti ricoverati (con un sorpasso su quelli italiani). Il Robert Koch Institut segnala invece 95.391 contagiati registrati elettronicamente e 1434 morti.

Paolo Valentino per il ''Corriere della Sera'' il 6 aprile 2020. Mentre il numero dei contagiati da Covid-19 in Germania ha superato di slancio quelli della Cina avviandosi ormai verso quota 100 mila, il tasso di mortalità tedesco continua a rimanere relativamente basso. Sono infatti quasi 1300 i decessi nei sedici Laender federali. È vero che è una percentuale in costante accelerazione. Giusta la contabilità del Robert Koch Institut (RKI), la letalità della pandemia nella Repubblica Federale è ora dell’1,3%, ma era ancora dello 0,8% appena una settimana fa. Comunque lontano quindi dal nostro drammatico 12% e dal 10% di Spagna, Francia e Gran Bretagna. «Dobbiamo mettere in conto che ci saranno più morti», ha ammesso il direttore del Koch Institut, Lothar Wieler, secondo il quale «siamo all’inizio di un’epidemia e non dobbiamo mollare». Wieler ha ammesso anche che il numero dei decessi potrebbe essere sottostimato: «Credo siano di più di quelli ufficiali». Ma non è chiaro se si riferisse alla sola Germania o al quadro internazionale. Una delle ragioni di questa sottovalutazione citate dal direttore del RKI è che quando le autopsie si fanno dopo diversi giorni, il che accade spesso a causa dell’intasamento, non ci sono più tracce di Covid-19. C’è anche da ricordare anche che nelle prime settimane della crisi, i test post mortem di Covid-19 non venivano effettuati per nulla. Ma anche se i decessi tedeschi fossero di più di quelli ufficiali, l’anomalia rimane: in Germania la pandemia è meno mortifera che in altri Paesi. Perché? Ci sono diverse risposte, secondo gli esperti. Intanto, l’età media dei contagiati, che in Germania è significativamente più giovane che altrove: 49 anni contro i 62 di Italia e Francia. È chiaro che ammalati più giovani hanno più probabilità di sopravvivere degli anziani. Poi c’è la questione cruciale dei test, che agisce sia sul piano statistico che su quello sostanziale. Nessuno ha fatto tanti tamponi come la Germania, che attualmente viaggia al ritmo di quasi 400 mila test la settimana e si sta attrezzando (anche con i cosiddetti «corona taxi», che fanno i prelievi a domicilio) per arrivare a 100 mila al giorno. «Questo automaticamente abbassa il tasso di mortalità», spiega Hans-Georg Kraeusslich, capo del Dipartimento di virologia della storica Università di Heidelberg. Ma soprattutto, il testing di massa ha consentito di tracciare i contagi in fase iniziale e quindi di intervenire subito con terapie e quarantene: «Prima abbiamo una diagnosi, più alte sono le chance di sopravvivenza», dice Kraeusslich. Il testing tedesco sta ora compiendo un grande salto di qualità. Entro fine aprile dovrebbe essere operativo il piano che consentirà di verificare l’immunità dei pazienti guariti. In una prima fase saranno 100 mila la settimana. A coloro che al secondo o terzo test del sangue risultano positivi (cioè avranno gli anticorpi nel sangue), verrà consegnato uno speciale passaporto di immunità, che consentirà loro di tornare al lavoro o di essere usati come volontari nell’assistenza alle persone contagiate e isolate. Sarà come creare delle avanguardie per la progressiva ripresa dell’attività produttiva. Ma il segreto non segreto della bassa mortalità in Germania sta soprattutto nella forte capacità di assorbimento del suo sistema ospedaliero. All’inizio della crisi c’erano 28 mila stazioni di terapia intensiva nei nosocomi tedeschi, pari a 34 per 100 mila persone. Al confronto in Italia ce n’erano 12 e in Olanda 7 ogni 100 mila. Un mese dopo però, il sistema sanitario tedesco dispone di 40 mila posti di terapia intensiva. Anche se la curva comincia ad appiattirsi, Wieler ha tuttavia detto che le misure restrittive devono rimanere in vigore, per consolidarne gli effetti positivi: da qualche giorno l’erre con zero (R0), cioè il numero di persone che ogni contagiato infetta in media, è sceso a 1 dai 5 di due settimane fa. «Dobbiamo scendere sotto 1, prima di pensare a qualche forma di allentamento delle misure», ha precisato il direttore del Koch Institut. Anche Angela Merkel, nel suo podcast settimanale, ha messo in guardia i tedeschi: «Non saremmo responsabili, se alimentassimo false speranze», ha detto la cancelliera, secondo la quale è «definitivamente troppo presto per identificare una sicura dinamica positiva» nella curva dell’epidemia. Merkel ha confermato che il blocco della vita pubblica continuerà almeno fino alla fine delle vacanze di Pasqua. Probabilmente, anche la «forza tranquilla» della cancelliera sta contribuendo a tenere basso il livello di mortalità della pandemia in Germania.

Estratto dell’articolo di Angelo Allegri per “il Giornale” il 4 aprile 2020. Anche in Germania si fa la conta dei morti. E anche in Germania l'interpretazione dei numeri è affidata a ipotesi per il momento non verificabili. A colpire gli stessi tedeschi è la bassa pericolosità della pandemia, con una letalità salita ieri all'1,2% […] Il livello di mortalità è di gran lunga inferiore alla media dell'intera Europa, che è intorno all' 8%, e nemmeno paragonabile al dato italiano, che supera il 12%. A che cosa è dovuta l' enorme differenza? […] Un altro elemento da valutare e che a molti appare decisivo è l'età dei malati. In Paesi come l'Italia o la Spagna il coronavirus è la malattia degli anziani. In Germania colpisce soprattutto le persone tra i 35 e i 59 anni, e solo il 19% degli infetti ha superato i 60. Secondo le analisi condotte da un demografo, Andreas Backhaus, l' età media dei contagiati «comprovati» - ossia a cui si è potuto fare i tamponi - è molto più alta in Italia che in Germania, 63 anni contro 45. La domanda da porsi è dunque un'altra: come mai gli anziani tedeschi sono risultati per il momento meno colpiti di quelli italiani? Secondo l' interpretazione prevalente a proteggerli è il naturale «distanziamento sociale» tra le generazioni che è proprio della società tedesca. […]

Estratto dell’articolo di Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 4 aprile 2020. Angela Merkel è uscita ieri dalla quarantena, accompagnata dalla notizia che nei sondaggi è alle stelle e che la sua popolarità si sta trascinando dietro anche il partito. Tanto che qualcuno, tra i maggiorenti della Cdu, comincia a pensare che se la pandemia non mollerà la presa, potrebbe essere saggio affidarle la guida del Paese per la quinta volta, l'anno prossimo. […] […] A fronte di quasi 90mila malati - la Germania ha superato ormai la Cina - i morti sono 1.160. Un' evoluzione che il direttore dell' Istituto Koch, Lothar Wieler, aveva sempre pronosticato, quando gli si chiedeva dell' enorme differenza tra tasso italiano e tedesco. I dati si allineeranno, aveva predetto settimane fa. E il tempo sembra dargli ragione. Un secondo motivo che spiegherebbe l'abisso tra dati italiani - dove il tasso di letalità è dieci volte più alto - e tedeschi è il numero dei tamponi. Ieri l'Istituto Koch ha reso noto di averne fatto quasi un milione: per l' esattezza 918.460. Più del doppio, rispetto all'Italia. E non è un dettaglio irrilevante. Secondo molti scienziati uno dei motivi per cui in Italia il virus sembra molto più letale è che il numero degli infettati è probabilmente più alto di quello ufficiale. […] Peraltro, l'Istituto Koch ha anche precisato che i tamponi post mortem vengono fatti. Altra bufala smentita. Un terzo fattore che va considerato è l'età media dei contagiati. Anche quella sta salendo, in Germania. Era 45 anni una settimana fa, ora è 49, secondo l'Istituto Koch. Vent'anni di meno, rispetto all' età media degli infettati in Italia. Quasi tre quarti degli ammalati di Coronavirus in Germania (72%) hanno tra i 15 e i 59. La stragrande maggioranza dei morti (86%) aveva più di 70 anni; ma oltre questa soglia di età, si registra appena il 13% dei casi. La domanda è ovvia: perché in Germania si ammalano più giovani? In parte, perché in Italia vengono fatti meno tamponi tra i giovani e ne vengono intercettati di meno. Ma in parte dipende anche dai focolai. Come ha ricordato Georg-Christian Zinn, direttore di Bioscientia, molti contagiati «sono persone tornate dalle vacanze, insieme alle loro famiglie ». Molti ammalati in Germania tornavano dalla settimana bianca e sono emersi casi di focolai enormi in Tirolo, ad esempio. Altri contagi sono esplosi in Renania durante la stagione del carnevale. La sfortuna dell' Italia è stata anche l' esplosione del virus in alcuni ospedali, ossia nel luogo più pericoloso, pieno di persone infragilite da altre patologie e di anziani. Un altro dato che forse non influisce ancora sul tasso di letalità, ma che è importante citare, è che la Germania dispone anche di un multiplo dei posti di terapia intensiva rispetto all' Italia, circa 28mila. Al momento, secondo l' Istituto Koch, sono 12.500 quelli occupati.

Heinsberg, il focolaio tedesco senza contagi al supermercato o sul bus. I primi risultati sull'indagine dell'epidemiologo tedesco mostrano che non ci sono stati contagi nei supermercati o sugli autobus: "Non abbiamo bisogno di restrizioni estreme sul lungo periodo". Francesca Bernasconi, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. "Non abbiamo rilevato alcuna infezione che si sia verificata facendo la spesa o su un autobus". Parola di Hendrik Streeck, l'epidemiologo dell'Università di Bonn, in Germania, che sta cercando di capire quanti sono i contagiati reali e come funziona la catena di diffusione del Covid-19. A chiedergli aiuto, per indagare sul focolaio tedesco, è stato il ministro dello Stato del Nord Reno-Vestfalia che, come spiega il Corriere della Sera, gli ha affidato un incarico delicato: capire in quali situazioni una persona rischia maggiormente di infettarsi. L'epidemiologo ha iniziato la sua indagine prendendo in considerazione un campione della popolazione del distretto di Heinsberg, il focolaio tedesco con il più grande numero di contagi. Mille persone sono state sottoposte al tampone e al test per cercare gli anticorpi, prendendo in considerazione anche la situazione clinica pregressa. Inoltre, ad ognuno di loro sono state fatte domande sugli spostamenti e i contatti dell'ultimo periodo, in modo da riuscire a ricostruire gli spostamenti e i luoghi o le situazioni che possono aver portato al contagio. Si tratta di una vera e propria attività di indagine, sullo stile di quelle poliziesche. I focolai maggiori, spiega Streeck, "sono scoppiati sempre dopo alcuni grandi eventi": è il caso della località sciistica in Tirolo, del carnevale di Colonia o della partita Atalanta-Valencia a San Siro. Per questo, anche nei prossimi mesi, a fine emergenza, sarà necessario evitare i raduni di massa. Ma, anche in quei casi, non tutti i partecipanti sono rimasti contagiati. Ne è un esempio il caso della società in Baviera, dove la dipendente cinese avrebbe portato il virus che dalla Germania sarebbe poi passato in Italia: la donna cinese, infatti, non avrebbe infettato né gli altri passeggeri del volo, né il personale dell'hotel in cui alloggiava. I primi risultati dello studio sono sorprendenti: "Finora, non abbiamo rilevato alcuna infezione che si sia verificata facendo la spesa o su un autobus. Credo che ristoranti, negozi, supermercati e così via non presentino rischi di infezione", ha detto il ricercatore in un'intervista a Frankfurter Allgemeine. Nonostante questo, Streeck ha specificato l'importanza di mantenere le distanze. "Da questa e dalla mia precedente esperienza- ha concluso-ne consegue anche che non abbiamo bisogno di restrizioni estreme sul lungo periodo". Quindi, "personalmente ritengo le misure che abbiamo ora siano molto drastiche. È sempre drammatico quando qualcuno muore. Ma la domanda è se queste misure compromettono altri mezzi di sussistenza e quindi mettono a rischio la vita stessa". Per sconfiggere il nuovo coronavirus, invece, servirebbero più tamponi: "Se vogliamo arrivare a contenere l’epidemia, dobbiamo fare molti più test in Germania- ha precisato l'epidemiologo- La catena dell’infezione può essere rotta solo testando e isolando". Streeck sottolinea anche la necessità di proteggere le categorie più a rischio: "Suggerisco di sottoporre tutti i dipendenti di una casa di cura o clinica ogni quattro giorni ad un test di gruppo. Con questo metodo si possono analizzare dieci o più campioni contemporaneamente. Se sono tutti negativi non c’è problema. Solo quando viene rilevato il virus, è necessario eseguire degli esami individuali. Con questa procedura si potrebbero monitorare tutti gli operatori sanitari della Germania". A detta del professore, infatti, sarebbe "inaccettabile tenere segregati gli anziani per tutta la durata di questa pandemia. Perché le persone anziane hanno un bisogno estremo di contatti sociali".

Da lastampa.it il 29 marzo 2020. L’Assia è sotto choc. Nel Land tedesco di Francoforte l'assessore alle finanze Thomas Schaefer, è stato trovato morto ieri a 54 anni. Secondo la procura, il politico della Cdu, figura centrale del governo locale, dato come possibile successore dell'attuale presidente Volker Bouffier, si sarebbe tolto la vita. «Siamo tutti scioccati dalla morte inattesa di Schaefer e dobbiamo adesso elaborare questo lutto», ha detto Bouffier, il quale ha anche affermato che proprio l'emergenza del coronavirus aveva sconvolto l'assessore. «Si preoccupava moltissimo che non si sarebbe riusciti a venire incontro alle enormi aspettative di aiuto della popolazione», ha spiegato, «era assillato da questa angoscia».

Coronavirus, suicida il ministro delle Finanze dell'Assia Thomas Schäfer: "Sotto stress per crisi pandemia". Pochi giorni fa, parlando al parlamento del Land, aveva descritto l'epidemia "la sfida del secolo". Il governatore Volker Bouffier: "Le preoccupazioni lo hanno schiacciato. Non vedeva più vie d'uscita. Era disperato e ci ha lasciati". Tonia Mastrobuoni il 29 marzo 2020 su La Repubblica. Il ministro delle Finanze dell'Assia, Thomas Schäfer, si è suicidato. Il suo cadavere è stato rinvenuto sabato mattina accanto ai binari dell'Ice, il treno superveloce tedesco, nei pressi di Hochheim. E secondo il governatore del Land, Volker Bouffier, potrebbe essere il primo suicidio politico legato all'epidemia da coronavirus. Sarebbero state le preoccupazioni per il futuro della regione a "schiacciare" il politico cristianodemocratico 54enne. Schäfer lascia moglie e due figli. In una prima versione dell'articolo che dava conto della sua morte, il quotidiano Faz aveva citato una lettera d'addio in cui Schäfer non avrebbe citato direttamente il virus ma definito "senza speranza" il futuro sociale ed economico del Land. Successivamente il quotidiano ha deciso di rimuovere dal web il dettaglio della lettera d'addio, ma sui social media continuano a circolarne gli screenshot. Il governatore Bouffier ha ricordato, visibilmente commosso, che Schäfer era impegnato "giorno e notte" con la crisi attuale e ha aggiunto che "dobbiamo partire dal presupposto che fosse molto preoccupato di riuscire a soddisfare le gigantesche aspettative della popolazione - soprattutto sul fronte degli aiuti finanziari. Devo partire dal presupposto che queste preoccupazioni lo abbiano schiacciato. Evidentemente non vedeva più vie d'uscita. Era disperato e ci ha lasciati". Pochi giorni fa, parlando al parlamento dell'Assia, Schäfer aveva descritto l'epidemia da coronavirus come "la sfida del secolo".

Daniele Fiori per il Fatto Quotidiano il 31 marzo 2020.  A inizio gennaio già i primi test. Oggi una strategia per eseguire i tamponi che si basa sugli Abstrichzentrum, i centri ad hoc sparsi sul territorio: in alcuni casi, come Monaco, Bochum o Düsseldorf, con il sistema del test drive-in, eseguito direttamente dal finestrino dell’auto. Fin dall’inizio, il coinvolgimento del medico di base, riferimento principale del paziente e deputato, se in condizione di sicurezza, ad eseguire in prima persona il tampone da inviare poi ai laboratori. Così la Germania ha deciso di condurre la sua battaglia per tracciare il contagio da coronavirus nel Paese e proteggere i suoi ospedali dalla pandemia. La settimana appena cominciata rappresenta per Berlino il primo vero stress test dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Le misure di contenimento – che anche in Germania hanno bloccato la vita pubblica – sono appena state estese fino al 20 aprile. Nel frattempo i contagi complessivi hanno ormai superato quota 60mila, con un aumento di circa 5mila casi al giorno nell’ultima settimana. Grazie al gran numero di tamponi eseguiti, fino a mezzo milione a settimana, i contagi accertati però si avvicinano molto al numero di casi reali: anche così si spiega il basso tasso di mortalità in Germania. Il ministro della Salute Jens Spahn per ora ha dimostrato ottimismo, forte di questi dati e dei 28mila posti letto di terapia intensiva che il sistema sanitario ha in dote. Complice il fattore tempo, che ha permesso di migliorare la strategia prima che scoppiassero focolai nel Paese, il governo federale confida che il sistema sanitario tedesco sia preparato ad affrontare la situazione. Nella sua intervista domenicale alla Frankfurter Allgemeine Zeitung il presidente del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, ha comunque messo le mani avanti: “Non possiamo escludere che si arrivi anche qui a una situazione simile a quella italiana, ad avere più pazienti della capacità di posti e respiratori a disposizione”.

Tanti tamponi e fin da subito – Un modello matematico elaborato dalla London School of Hygiene & Tropical Medicine stima che in Germania il numero di casi positivi rilevati corrisponda al 66% dei casi reali di Covid-19. Lo stesso modello attribuisce all’Italia una capacità di tracciamento del 5%. La spiegazione l’ha fornita in un’intervista a Der Spiegel il virologo dell’ospedale universitario della Charité di Berlino, Christian Drosten. Ha spiegato che ogni settimana in Germania vengono eseguiti fino a “mezzo milione di tamponi“: una cifra superiore ai test complessivi eseguiti dall’Italia dall’inizio della pandemia. Inoltre, ha svelato lo stesso Drosten, i primi test su persone provenienti da zone a rischio risalgono già a inizio gennaio.

I test mai in ospedale – La Germania ha una vasta rete di laboratori indipendenti, molti dei quali hanno appunto iniziato i test già nelle prime settimane del 2020. Per questo è più facile eseguire un numero elevato di tamponi. Da inizio marzo inoltre sono stati creati degli appositi Abstrichzentrum dove è possibile eseguire il test tramite appuntamento, ma solo se si è stati classificati come casi sospetti dal dipartimento della salute o dal medico di famiglia. Il Robert Koch Institut ha stabilito che è un caso sospetto una persona che presenta dei sintomi ed è stata a contatto negli ultimi 14 giorni con un paziente positivo o è stata in un’area indicata come a rischio. Nella maggior parte dei centri è possibile andare in macchina ed eseguire il test direttamente dal finestrino.

Il coinvolgimento dei medici di base – Prima di marzo, o comunque nel caso in cui non sia possibile prendere appuntamento in uno dei centri, la procedura tedesca prevede che a eseguire il tampone possa essere lo stesso medico di base. È la prima persona che il paziente deve contattare in caso di sintomi e, se dispone dei dispositivi di protezione individuale necessari, può recarsi a casa del suo assistito per il test. In alternativa può contattare il dipartimento della salute che si occuperà a quel punto di eseguire il test a domicilio, direttamente sulla porta di casa.

Il fattore tempo per sistemare le carenze – Diversi media nazionali, a partire per esempio da Der Spiegel, hanno segnalato circa un mese fa diverse carenze nella catena di controllo elaborata dalla Rki (che coinvolge i medici di base, la guardia medica e i dipartimenti locali), come indicazioni contrastanti e la necessità di innumerevoli telefonate per arrivare, forse, a poter eseguire il test. Allo stesso modo, solo a inizio marzo i vari Länder hanno iniziato ad attrezzare gli ospedali con tende o container dove eseguire il pre-triage. Mentre è ancora più recente, come ha spiegato il primario bavarese Clemens Wendtner alla Deutschlandfunk, l’allestimento di reparti Covid-19 negli ospedali dove ancora non stati registrati casi, come quello di Monaco-Schwabing. Per mettere a punto e migliorare la sua strategia la Germania ha avuto dalla sua il fattore tempo: il numero attuale dei contagi complessivi, unito all’elevato numero di test, porta a dedurre che i primi focolai tedeschi si siano sviluppati molto più tardi rispetto all’Italia e agli altri Paesi europei. Berlino, nonostante gli iniziali tentennamenti sulle misure di restringimento, ha avuto modo di rimediare e proteggere gli ospedali dal contagio.

La terapia intensiva – Negli ospedali tedeschi vengono ricoverate circa il 15-20 percento delle persone positive e di queste un terzo hanno bisogno della terapia intensiva. Ad oggi non esiste un’emergenza, perché il numero di pazienti Covid-19 che hanno bisogno della rianimazione sono “una quantità che il sistema sanitario può ancora gestire“. Il ministro della Salute Jens Spahn per ora ha dimostrato ottimismo, forte dei 28mila posti letto di terapia intensiva che la Germania ha in dote. Proprio perché l’epidemia è in ritardo rispetto agli altri Paesi, le autorità sanitarie però sono già in pre-allerta perché ritengono che nella maggior parte delle persone la malattia non sia ancora in una fase avanzata. Come in Italia, tutti gli interventi chirurgici non urgenti sono stati rinviati ed è stato creato un registro nazionale dei posti occupati e disponibili. L’obiettivo del governo è arrivare a raddoppiare i posti letto di terapia intensiva.

Il pacchetto di aiuti – Anche per questo, nel pacchetto di aiuti da 156 miliardi di euro approvato definitivamente venerdì dal Bundesrat sono previsti 50mila euro di bonus per gli ogni nuovo letto di terapia intensiva creato da un ospedale, oltre a una tariffa forfettaria giornaliera di 560 euro per ogni posto di rianimazione tenuto libero e a disposizione per eventuali pazienti Covid. Per altri costi aggiuntivi come l’acquisto di dispositivi di protezione individuale, gli ospedali riceveranno un supplemento di 50 euro per paziente dal 1 aprile al 30 giugno. Il provvedimento approvato dal Parlamento prevede anche una modifica alla Infektionsschutzgesetz (la legge sulla protezione delle infezioni) che dà al governo federale maggiori competenze nella lotta contro le pandemie.

La carenza di materiale – In questo modo, il ministero della Salute può ora centralizzare la gestione dell’emergenza. Un fattore determinante anche nella distribuzione del materiale sanitario. Il quotidiano di Berlino Tagesspiegel denuncia infatti che ospedali, medici di base e cliniche hanno urgente bisogno di dispositivi di protezione individuale. La deputata locale Dilek Kalayci (Spd) ha avvertito: “Abbiamo i soldi per l’acquisto, ma non ci sono scorte“. Mancano all’appello anche sei milioni di mascherine che il ministero della Salute aveva ordinato sul mercato estero ma non sono mai arrivate.

L’ipotesi del tracciamento con app – Nonostante comincino le prime carenze anche sul fronte dei tamponi disponibili, la Germania è convinta di proseguire con la strategia aggressiva sui test. Il gruppo tedesco Bosch ha infatti appena prodotto un test veloce per il coronavirus che potrebbe dare il risultato nel giro di 2 ore e mezza. L’apparecchio che permette il test automatizzato della Bosch dovrebbe essere sul mercato all’inizio di aprile e il gruppo assicura una precisione del 95%. Intanto, un documento del ministero dell’Interno rivelato da Der Spiegel e Sueddeutsche Zeitung ha svelato l’intenzione del governo di usare i cellulari per tracciare posizione e spostamenti delle persone. Privacy permettendo, la strategia futura potrebbe essere un numero ancor più elevato di test unito al controllo di chi è in quarantena, per prevenire nuovi focolai.

Bloccò l'export di mascherine, ora la Germania organizza treni speciali per la pasta. La catena di supermercati Aldi annuncia treni speciali per rifornire di pasta i punti vendita: "Con l'emergenza coronavirus è aumentato il consumo di penne e spaghetti". Ma il mese scorso Berlino bloccò l'export di mascherine verso l'Italia. Cristina Verdi, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. "Volevamo saper cucinare la pasta come voi, bere Campari come voi, amare come voi, la dolce vita, per questo vi abbiamo sempre invidiato", scrive oggi la tedesca Bild in un messaggio di solidarietà ai "fratelli italiani", i più duramente colpiti dalla "catastrofe" del Covid-19. Ed è proprio la pasta uno dei beni di cui in Germania non si riesce a fare a meno, neppure in tempo di emergenza sanitaria, frontiere chiuse ed isolamento. Nei supermercati tedeschi pennette, spaghetti e fusilli vanno a ruba, gli scaffali spesso sono vuoti e nei magazzini la merce inizia a scarseggiare. Tanto che Aldi, nota catena di negozi di alimentari, ha deciso di approvvigionarsi con treni speciali che arrivano direttamente dal Bel Paese. Nonostante le difficoltà nel transito delle merci, il gruppo tedesco, d’accordo con la DB Schenker, il ramo della compagnia ferroviaria tedesca Deutsche Bahn che si occupa di logistica, ha trovato il modo di rifornirsi in modo "permanente" delle prelibatezze made in Italy. Per il trasporto di penne e rigatoni dei principali produttori di casa nostra, sono stati predisposti degli speciali convogli che arriveranno direttamente in Baviera. Da qui i carichi verranno smistati nei punti vendita delle principali città della Germania meridionale. "La domanda di pastasciutta e affini è aumentata in maniera drastica a causa della crisi del coronavirus", scrivono dall’azienda, constatando al tempo stesso che"sono in calo i trasporti verso l'Italia". "Vengono meno i tir e i treni per il viaggio di ritorno", spiega la società motivando la scelta di organizzare trasporti speciali per le delizie italiane. "Diversi treni speciali hanno già portato oltre 60mila pacchi di fusilli, più di 75mila pacchi di penne e 250mila pacchetti di spaghetti dall'Italia a Norimberga, come prima consegna", comunica l’azienda in una nota, con la Schenker che ha reso noto di aver consegnato finora duecento tonnellate di spaghetti, pennette e altri tipi di pasta direttamente a Norimberga. Insomma, l’Italia è sempre "nel cuore" dei tedeschi, come scrive la Bild. Eppure ha fatto discutere nelle scorse settimane la decisione di Berlino di bloccare all’interno delle proprie frontiere quasi un milione di mascherine destinate al nostro Paese. Per quei dispositivi di protezione individuale che sarebbero stati vitali negli ospedali della Penisola, e che avrebbero contribuito a consentire a medici e infermieri di operare in sicurezza, non è stato organizzato nessun trasporto speciale. Anzi, dai primi di marzo, quando le spedizioni furono bloccate in seguito alla decisione del governo di interrompere l’esportazione di prodotti essenziali per il sistema sanitario tedesco, le maschere sono arrivate a destinazione soltanto dopo quasi due settimane.

Coronavirus, bonus per lavoratori autonomi in difficoltà? In Germania lo pagano in due giorni. Le Iene News il 2 aprile 2020. Sul sito dell’Inps, andato in tilt, c’è stata una gravissima violazione di dati sensibili. Le domande per i bonus di 600 euro ai lavoratori autonomi sono poi ripartite ma i problemi continuano. E pensare che in Germania, come ci racconta Luana, ti danno da 5mila a 15mila euro in meno di due giorni. “Ho compilato il modulo online per ottenere il bonus alle 5 di pomeriggio di lunedì e mercoledì mattina alle 9 i soldi erano già sul mio conto”. A parlare è Luana, una ragazza che lavora da libera professionista come fotografa e consulente nella comunicazione e che ha richiesto e ottenuto il bonus previsto per i freelance in difficoltà per l’emergenza coronavirus. Per evitare false speranze, ve lo diciamo subito: Luana non vive in Italia, lavora da qualche anno in Germania e anche qui, come nel decreto Cura Italia, è prevista una forma di sostegno ai liberi professionisti. In Italia come tempi e cifre le cose vanno molto diversamente. Quello che è successo con il sito dell’Inps, che ha parlato di un attacco hacker, ve lo abbiamo raccontato: pagine personali che davano informazioni riservate di altri utenti e sito andato in tilt per i troppi accessi. Un fatto gravissimo, che l'avvocatessa Cathy La Torre ha definito "la più grande violazione dei dati personali mai avvenuta in Italia", annunciando che "ci sarà la più grande class action d’Italia contro l’Inps". In Germania, come ci racconta Luana, è tutta un’altra storia: “Prima della mia c’erano oltre 290mila domande e in coda altre 150mila, ma venivano evase almeno 300 richieste ogni 20 minuti. Lo Stato ha previsto aiuti variabili, dai 5mila ai 15mila euro, a seconda delle dimensioni dell’attività. In dieci minuti ho compilata la domanda online, senza avere alcun problema con il sito. Meno di due giorni dopo i 5.000 euro erano già sul mio conto corrente...”. Il sito dell’Inps intanto continua a dare problemi. Ce lo segnala l’operatore di uno dei tanti patronati italiani che compilano le domande con la delega dei loro associati: “È da stamattina che proviamo a inserire le domande, il problema è il mal funzionamento del programma che gestisce le deleghe. Se la delega non viene accettata dal sito, non possiamo continuare a compilare la domanda: solo io ne ho almeno 300 ferme, in attesa che risolvano qualcosa. Penso abbiano anche sbagliato a permettere di credere che le domande sarebbero state pagate in ordine cronologico fino alla scadenza di fondi. Ora si affrettano a dire che la misura sarà rifinanziata e che non occorre affollarsi sul sito”. Finora, ha fatto sapere l’Inps, sono arrivate oltre un milione e mezzo di richieste di bonus.

Raffaele Ricciardi per repubblica.it il 2 aprile 2020. Michele M. lavora in Germania, a Berlino: fa il montatore di video, uno dei tanti liberi professionisti che dall'Italia si è trasferito altrove. Nelle ore del bonus Inps da 600 euro, che ha fatto naufragare il sito dell'Istituto, la sua storia colpisce perché il sistema tedesco sembra reggere. La burocrazia amica, quella che racconta la comunità locale di artisti e freelance e che - nonostante qualche difficoltà iniziale - fa arrivare sul c/c degli interessati denaro sonante in pochissimi giorni. "Sollecitato da un amico - racconta Michele - venerdì ho fatto l'accesso al portale per la richiesta delle indennità riservate da Berlino ai residenti della città. Ho così prenotato la possibilità di inserire la domanda". "Via e-mail, sono stato tenuto aggiornato sulla mia posizione in coda (una coda telematica) e domenica ho avuto il via libera: attraverso il portale della banca, ho inserito poche informazioni e autodichiarato di aver subìto delle perdite di clienti per il virus. Alle nove e mezza di sera avevo chiuso la richiesta. Martedì mi sono stati accreditati 5 mila euro". Come accaduto a Michele, racconta il portale artnet News, c'è un'intera comunità di free-lance - come la popolosa cricca di artisti e attività culturali di piccolo calibro - che sta incassando meravigliata questo beneficio. Pur non essendo portato sempre come un esempio di perfezione, il sistema burocratico della capitale sta - in questi giorni - stupendo molti. Anche lì, all'inizio, non è mancato un po' di panico: racconta il portale che c'è stato un boom di accessi (60 mila in poche ore contro un conteggio annuo che oscilla tra 20 e 100 mila) e che la gente temeva di doversi prenotare per prima, per non perdere l'occasione di ricevere il sussidio. Qualcuno ha rintracciato anche falle nella privacy, con scambi di profili che ricordano quanto visto da noi all'Inps. Sembra che tutto sia rientrato nel giro di poco tempo e alla fine la sensazione raccolta per la maggiore è lo stupore per aver avuto accesso così semplice a una procedura che nel giro di poche ore ha fatto arrivare i soldi sul conto corrente. Al 31 marzo, ha spiegato al portale un portavoce del ministero della Cultura, risultavano già distribuiti 500 milioni attraverso il sistema che si appoggia alla banca locale Investitionsbank Berlin (Ibb). Il programma berlinese permette di richiedere fino a 5 mila euro per i lavoratori autonomi e le Pmi fino a 5 dipendenti a tempo pieno. Ma a questo bonus si affianca il Fondo federale (nazionale) che aggiunge altri potenziali 9 mila euro, per un totale di 14 mila. Per le imprese tra 5 e 10 dipendenti, il conto sale direttamente a 15 mila euro di fondi federali. Sono altri 50 miliardi in gioco. Per quel che riguarda le piccole imprese di taglia maggiore, il portale d'informazioni Berlin.de racconta di un fondo da 100 milioni già stanziato in favore della Ibb che gestisce le code telematiche, le richieste e gli accrediti. Altri 100 milioni sono in arrivo per lavoratori e imprese, ma le domande già pervenute portano a quota 300 milioni di richieste e si è deciso allora per uno stop temporaneo. Le procedure ripartiranno il 6 aprile, unificate probabilmente a quelle federali.

Giuliana Ferraino per il Corriere della Sera il 31 marzo 2020. Cinquemila euro, accreditatati direttamente sul conto corrente, un paio di settimane dopo aver presentato online la domanda, composta soltanto da due pagine, senza bisogno di allegare alcun documento. Zero burocrazia, tempi ridotti all' osso: ricevere il sussidio di emergenza per il coronavirus («Corona Soforthilfe») a Monaco è facile così, racconta Claudio Prisco, 50 anni, milanese trapiantato in Baviera, dove è titolare di una piccola agenzia di design insieme alla moglie Mansch, 43 anni. «L'agenzia, fondata nel 2003, è molto piccola, si chiama Amen, ed è specializzata in graphic design, branding e pubblicità. Fatturiamo circa 200 mila euro all' anno. Abbiamo due collaboratori fissi e 2 o 3 apprendisti all' anno, che dopo 6 mesi di prova pagata, spesso restano a lavorare con noi», spiega Prisco, che ora lavora da casa «di notte, perché di giorno con mia moglie mi occupo dei nostri tre figli di 3, 7 e 9 anni». Con la diffusione della pandemia il lavoro si è fermato «Un progetto per un cliente in Italia era quasi pronto, ma ci ha avvisato di bloccarlo poco prima della consegna. Anche in Germania tutti prendono tempo. L' attività per noi si è fermata. Il sussidio? «Ne abbiamo sentito parlare al telegiornale. Sono andato sul sito Internet del governo regionale della Baviera e ho presentato la domanda, davvero molto facile e veloce da compilare. Nessun documento da allegare, bisogna solo di descrivere la situazione della propria azienda. E in meno di due settimane hanno accreditato 5 mila euro sul conto dell' azienda. Mi sono stupito anche io», sostiene il designer che ora si prepara a chiedere il sussidio per i figli. «Si è parlato di un assegno di 550 euro per ogni bambino in età scolare. Ma non c' è ancora il bando, perché hanno preferito dare precedenza alle microaziende». A soffrire di più, anche in Germania, sono i «piccoli», i lavoratori autonomi, senza o fino a 10 dipendenti, che rischiano di restare a corto di liquidità a causa della chiusura forzata dell' economia. Il fattore tempo, in queste circostanze, può fare la differenza tra sopravvivenza e fallimento dell' impresa. Ecco perché i primi sussidi, stanziati dai fondi regionali dei Länder, talvolta in combinazione con i fondi del governo federale, sono già entrati nelle tasca dei lavoratori autonomi come Prisco. L' ammontare? Dipende dal Land. Si va dai 2.500 euro di Amburgo ai 5.000 euro della Baviera e di Berlino. La città-Stato di Brema offre 5 mila euro con la procedura semplificata, ma arriva a erogare fino a 20 mila euro dopo un esame più approfondito. In Saarland si va da 3 mila a 10 mila euro. Il Baden-Württemberg, il Brandeburgo e il Land del Nordreno-Vestfalia offrono fino a 9 mila euro, mentre in Assia l' assegno per i piccoli sale fino a 10 mila euro. La Sassonia Anhalt ha previsto inoltre un sussidio per artisti e scrittori indipendenti: 400 euro, al massimo per due volte a persona. Ma un «aiuto subito», traduzione letterale di «Soforthilfe», è soltanto uno dei sostegni all' economia stanziati dalla Germania. Per evitare un' enorme ondata di fallimenti, in quella che si preannuncia come la peggiore recessione dal Dopoguerra, il governo federale e quello statale hanno messo insieme misure di salvataggio senza precedenti per quasi mille miliardi. Gli aiuti si articolano a livello federale, regionale (Land) e attraverso il Kreditanstalt für Wiederaubau (o KfW), la banca pubblica che ha già distribuito credito d' emergenza per 8,2 miliardi.

Adidas non paga più gli affitti. La ministra tedesca: «Siete indecenti». Il Dubbio il 31 marzo 2020. La decisione del colosso dell’abbigliamento sportivo suscita indignazione in Germania. Anche gli svedesi di H&M annunciano che non verseranno più le quote. Il colosso dell’abbigliamento sportivo tedesco Adidas ha deciso: data l’emergenza coronavirus non pagherà più gli affitti dei centinaia di depositi rimasti inattivi a causa dell’epidemia. Una presa di posizione che in Germania sta generando violente polemiche, con praticamente tutto il mondo politico che accusa l’azienda di approfittare della situazione per risparmiare. Un’azienda che, è bene ricordarlo, solo nel 2019 ha accumulato oltre due miliardi di euro di profitti e che non è mai stata sfiorata dalla crisi economica, beneficiando di generose concessioni fiscali. Durissima la reazione della ministra della Giustizia Christine Lambrecht che si è rivolta direttamente ai vertici del marchio bavarese:«E’ indecente e del tutto inaccettabile che un impresa florida come la Adidas smetta di pagare gli affitti, sfruttando l’epidemia». L’annuncio di Adidas avviene peraltro in contemporanea al piano di aiuti stanziato dal governo tedesco proprio per salvaguardare le imprese messe in pericolo dalla pandemia. Oltre Adidas, anche il colosso dell’abbigliamento svedese  H&M ha fatto sapere che smetterà di pagare l’affitto per i suoi 460 magazzini attualmente presenti sul territorio tedesco.

Da "ansa.it" il 27 marzo 2020. Solo sei settimane di lavoro hanno consentito a Bosch, il colosso tedesco dell'innovazione e dei servizi, leader nel settore automotive, di mettere a punto, pronto per essere immesso sul mercato il tester specifico Vivalytic per la diagnosi rapida del Covid-19. Lo ha fatto attraverso la sua divisione Healthcare Solutions, che ha realizzato una versione specifica del suo tester diagnostico molecolare completamente automatizzato. Anche nella versione per il coronavirus, l'apparecchio Vivalytic può essere utilizzato direttamente da tutte le istituzioni mediche, senza ricorrere a laboratori specializzati. Altro punto di forza di Bosch Vivalytic è anche la rapidità di analisi: un'infezione da coronavirus viene rilevata in meno di due ore e mezza, tempo misurato dal momento in cui il campione viene prelevato al momento in cui arriva il risultato. Il nuovo apparecchio sarà disponibile in Germania a partire da aprile, e a seguire negli altri mercati in Europa e fuori Europa. Il nuovo dispositivo di Bosch consente, tra l'altro, di analizzare contemporaneamente in un singolo campione non solo la presenza del virus Covid-19 ma anche altre nove malattie respiratorie, tra cui influenza A e B. ''La particolarità del tester Bosch - afferma Marc Meier, presidente di Bosch Healthcare Solutions GmbH - è la capacità di offrire una diagnosi differenziale, che consente ai medici di risparmiare tempo altrimenti necessario per ulteriori test. Fornisce inoltre una diagnosi affidabile in modo rapido, in modo che possano iniziare rapidamente le cure adeguate ''. La possibilità di eseguire i test direttamente nell'ospedale - si legge nella nota di Bosch - elimina la necessità di trasportare campioni, cosa che ruba tempo prezioso. Con il nuovo tester Vivalytic i medici ottengono rapidamente certezza sullo stato di salute dei pazienti, consentendo al contempo di identificare e isolare immediatamente le persone infette. Con i test attualmente in uso, i pazienti devono in genere attendere da uno a due giorni per un risultato. ''Il tempo è essenziale nella lotta contro il coronavirus - ha ribadito Volkmar Denner, CEO di Robert Bosch GmbH - e la nostra soluzione offre il grande viaggio di una diagnosi rapida e affidabile direttamente sul posto senza spostamenti. E' un altro esempio di tecnologia Inventata per la vita''. Il tester rapido per il Covid -19 Vivalytic è il risultato della collaborazione tra Bosch Healthcare Solutions e la irlandese Randox Laboratories Ltd. ''Insieme al nostro partner Randox - ha precisato Meier - siamo riusciti a sviluppare questo innovativo test rapido in brevissimo tempo e ora siamo in grado di offrirlo al mercato. Bosch Vivalytic valuta il campione in modo sicuro e affidabile direttamente in ospedale, in laboratorio o nello studio del medico, garantendo la migliore protezione possibile per pazienti e personale sanitario''. Per il funzionamento del tester rapido Vivalytic - che soddisfa gli standard di qualità dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) - si utilizza un campione prelevato dal naso o dalla gola del paziente con un tampone. Lo si inserisce in una cartuccia, che contiene già tutti i reagenti necessari per il test, e che a sua volta viene inserita nel dispositivo per l'analisi. Il tester Vivalytic è progettato per offrire un azionamento intuitivo, così da poter essere usato anche da personale non è stato appositamente addestrato. Un solo apparecchio Bosch Vivalytic può eseguire fino a dieci test nell'arco di 24 ore, cosa che significa che bastano solo 100 dispositivi per valutare fino a 1.000 pazienti al giorno.

Da ilsole24ore.com il 26 marzo 2020. La fiducia dei consumatori in Germania crolla a 2,7 ad aprile dall'8,3 di marzo, a causa dei timori legati al coronavirus e le restrizioni associate. Lo stima GfK, rilevando il dato più basso dalla crisi finanziaria del 2009, 5,6 punti in meno rispetto a marzo. L'istituto ritiene che ci si debba attendere una recessione anche in Germania. Le aspettative dei consumatori sulla situazione economica sono scese di 20 punti a -19,2, il minimo dal 2012, nel pieno della crisi. L'indicatore che misura le aspettative di reddito scende al livello più basso in sette anni a 27,8 punti. L'indagine GfK è stata condotta nella prima metà di marzo, quando ancora molte restrizioni non erano state decise, ma anche prima del maxi-piano economico adottato da Berlino per combattere l'epidemia. Gianpaolo Rossini, Docente ordinario di Politica economica, Università di Bologna, per ilsole24ore.com del 12 luglio 2019. Anche per il nome a volte scambiato per quello di una banca centrale, Deutsche Bank (Db), prima banca tedesca, è lo specchio di errori della politica economica tedesca di questi due decenni del nuovo secolo. Errori sottovalutati dalle autorità di Eurolandia spesso influenzate da Berlino. I ricorrenti bilanci in forte perdita di Deutsche Bank dal 2014 sono segnali che fanno riflettere. Ma quali le ragioni dei conti in rosso di Db dopo la crisi fotocopia della Commerzbank, seconda banca tedesca? I punti dolenti sono due. Attività di trading-investimento in titoli esteri e tassi d’interesse negativi che dai Bund, titoli del debito pubblico teutonico, si scaricano su tutta l’economia. I grandi investimenti in titoli e derivati della Db scaturiscono dalla grande disponibilità di risparmio che non riesce a trovare impieghi in Germania la quale, per questo, soffre da quasi due decenni di un enorme surplus del conto corrente della bilancia dei pagamenti con l’estero. Uno squilibrio cronico, di cui i governi tedeschi si sono fatti vanto in passato in maniera maldestra, che ammorba i rapporti economici globali, in particolare con gli Usa. In più, impone al sistema bancario tedesco di investire sovrabbondante capitale all’estero anche in forme rischiose. Si aggiunga poi che il management delle banche tedesche non ha dimostrato negli ultimi anni una capacità di muoversi sui mercati finanziari internazionali all’altezza delle risorse gestite, commettendo costosissimi errori. Deutsche Bank perde in un solo colpo oltre un miliardo di euro in una operazione su bond americani in cui è coinvolto Warren Buffett. Ma da cosa è causato l’eccesso di risparmio tedesco che danneggia le banche ed è alla base degli squilibri commerciali? Semplice: la politica fiscale, ossessionata dallo Schwarze null (letteralmente «zero nero», è il deficit pubblico zero) che porta la Germania nel 2018 ad avere un surplus di bilancio pubblico pari all’1,5% del Pil e un surplus con l’estero vicino all’8 per cento. La rigida politica fiscale frutto di una impostazione legalista (basta vedere quanto è preponderante la presenza di giuristi nelle stanze del bottoni del potere economico pubblico tedesco) aggiunge al già eccessivo risparmio privato quello pubblico, esasperando gli squilibri finanziari. Questa politica errata comincia a presentare i conti. Commerz e Db ne sono le prime vittime. Ma la reazione Usa sui dazi vedrà come seconda vittima l’intera Ue che sopporterà il costo sul piano commerciale, Italia in primis, dell’esagerato squilibrio tedesco. Per fare un confronto la Cina ha un surplus con l’estero tra l’1,5% e il 2% del Pil. Una seconda, ma non secondaria, ragione dell’ammaloramento dei conti delle grandi banche tedesche sono i bassi tassi d’interesse scesi a livelli mai visti. Durante la grande depressione degli anni 30 del secolo scorso, i tassi sui titoli pubblici non erano mai andati in zona negativa (neppure quelli a 3 mesi e quelli a 20 anni vicini al 2%). Oggi, in Germania sono negativi i tassi su tutti i titoli con maturità fino a dieci anni. Un sano mercato di eurobond eviterebbe tutto questo. Purtroppo però Berlino non accetta di dar vita agli eurobond perché ritiene - a torto - che questi caricherebbero sui tedeschi i costi di politiche fiscali non abbastanza severe di Italia e di altri Paesi. Certo gli eurobond farebbero aumentare i tassi tedeschi e diminuire quelli sui titoli italiani e degli altri periferici affetti dagli spread. Ma questo non implica alcun esborso dei cittadini tedeschi a favore dell’Italia. Aumenterebbero solo gli interessi che le banche tedesche (e i consumatori tedeschi) percepirebbero sugli eurobond emessi da Berlino. E questo sarebbe ossigeno per le banche (e le assicurazioni) tedesche che eviterebbero eccessivi rischi. Vengono al pettine i nodi di politiche sbagliate per cui i contribuenti teutonici pagheranno per salvare le loro banche e gli europei sopporteranno i dazi Usa, figli dell’esagerato surplus tedesco.

Coronavirus, la solidarietà della Germania: altri land pronti ad accogliere pazienti italiani. Oltre la Baviera e il Nordreno-Westfalia, come anticipato da Repubblica, anche il Baden-Wuerttenberg starebbe riflettendo su un segnale concreto nei confronti del nostro Paese. E da un villaggio della Turingia di 900 abitanti dichiarato zona rossa in molti tentano la fuga. La sindaca: "La gente scappa per le mulattiere". Tonia Mastrobuoni il 24 Marzo 2020 su La Repubblica. Nelle ore in cui gli otto pazienti italiani accolti dalla Germania stanno atterrando in Sassonia, due ulteriori Land tedeschi hanno annunciato la loro disponibilità a curare malati gravi italiani di coronavirus nei loro ospedali: la Baviera e il Nordreno-Westfalia, come anticipato da Repubblica. E secondo indiscrezioni, anche il Baden-Wuerttenberg starebbe riflettendo su un segnale di solidarietà concreto nei confronti del nostro Paese. Da notare che in tutti e quattro i Land governano i conservatori. Armin Laschet (Cdu), il primo ministro del Nordreno-Westfalia, la più popolosa regione tedesca e anche la più colpita dall'epidemia, con 8.700 casi registrati ad oggi, ha confermato la decisione definendola "solo una goccia", e aggiungendo che "vogliamo dare questo segnale" all'Italia: "Non siete soli". Il governatore della Baviera, Markus Soeder (Csu) non ha fornito ancora un numero preciso, ma ha espresso anche lui l'intenzione di accogliere pazienti dall'Italia e di spedire "attrezzature mediche" negli ospedali italiani. E ha sottolineato la volontà di voler mandare "un segnale di umanità" al nostro Paese, tuttora il più flagellato dall'epidemia in Europa. Intanto in Germania il numero dei contagi sta accelerando vertiginosamente: ha superato quota 30mila secondo la Johns Hopkins University, con un bilancio di 130 morti. Secondo i dati raccolti dal settimanale Die Zeit i casi accertati sarebbero invece 31.703 e le morti 144. Negli ultimi quattro giorni il numero dei contagi che si registrano ogni giorno è raddoppiato. La gestione della crisi da parte di Angela Merkel e la scelta, concordata con i governatori, di imporre un'isolamento rafforzato ai tedeschi ma non il divieto di uscire di casa, sembra piacere ai tedeschi. Sta premiando infatti il partito della cancelliera: la Cdu registra nei sondaggi un balzo di cinque punti in una settimana: è a quota 33%, livello mai più raggiunto dopo le ultime elezioni federali. Infine, a Neustadt am Rennsteig, villaggio della Turingia di 900 abitanti dichiarato zona rossa per il virus, la polizia è alle prese da giorni con i furbi che tentano di darsela a gambe levate attraverso i sentieri di campagna. La sindaca del circondario, Petra Enders, ha commentato disperata che "la gente scappa per le mulattiere. Forse non hanno capito quanto è grave la situazione. Lo ricordo: commettono un reato". Basterà?

Io, italiano nella Berlino che inizia a chiudere. Ma c'è chi si lamenta: «Tutta una cavolata». Nella capitale tedesca si inaspriscono le misure contro il contagio. Eppure, nonostante quello che sta accadendo in Italia, non tutti credono siano necessarie. La lettera di connazionale che vive in Germania. Jonas Brambati il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Domenica, 22 Marzo 2020, Kreuzberg-Berlino. Ieri nella tarda mattinata sono andato a portare indietro una sega circolare da Bauhaus - un negozio di bricolage - nella Hermannplatz. Camminando ho osservato che ci sono meno persone sui marciapiedi e che cercano di mantenere più distanza tra loro. Le parole di Merkel e dell'istituto Robert Koch Institut hanno sensibilizzato le persone. Quando sono arrivato a Südstern ho visto molte persone al mercato all'aperto dove si possono comprare sopratutto prodotti regionali. Questo mercato è la mia fonte di verdure e frutta, sarebbe un peccato se lo chiudessero. Riprendo ad andare avanti e ogni tanto vedo negozi con cartelli che informano i clienti che staranno chiusi per l'emergenza sanitaria. Arrivato a Bauhaus vedo una fila di trenta persone distanti circa un metro e mezzo tra loro. Da pochi giorni possono entrare solo una quantità di persone alla volta. Approfitto per fare chiamate con il cellulare, intanto dietro a me un signore non rispettava le distanze di sicurezza. Gli ho indicato il cartello informativo che spiega come ci si deve comportare. "È tutta una cavolata!" risponde. Questa reazione non è la prima volta che la sento. Dopo quasi trenta minuti riesco ad entrare e a cambiare il prodotto acquistato. Ritornando a casa sono passato vicino ad un cantiere e ho visto che era operativo anche di sabato. Essendo geometra sono spesso in giro nei cantieri di Berlino e al momento non ci sono state ancora restrizioni in questo settore. Ora mi sono attrezzato per poter disegnare al computer da casa. Questa è una bella occasione per rendere più flessibile l'orario lavorativo e il luogo dove si opera. Verso sera leggo le notizie pubblicate dal sindaco Müller, gli hotel non possono più ricevere turisti e i ristoranti possono solo preparare piatti da asporto. Essendo la Germania una federazione di stati ogni stato-regionale decide autonomamente, per restare aggiornati bisogna guardare i decreti regionali. In questa situazione di emergenza il parlamento nazionale vuole settimana prossima cercare di prendere più potere decisionale sulle regioni. Prima di andare a letto mi ascolto il podcast del virologo Christian Drosten dell'istituto di virologia della Charitè di Berlino. Dal lunedì fino al venerdì pubblica in collaborazione con Ndr (radiotelevisione del nord della Germania) un podcast sulla situazione del virus. Per molte persone è diventato un punto di riferimento per tenersi aggiornati su questa tematica.

Lettera da Jonas Brambati, nato a Bologna, geometra. In passato ha lavorato alla ricostruzione dell'Aquila. Oggi vive a Berlino.

Germania, primo discorso di Merkel sul virus: «Tutto verrà messo alla prova». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Valentino. «La situazione è seria e dovete prenderla sul serio. Dal tempo della Riunificazione, anzi dalla Seconda Guerra Mondiale non abbiamo mai affrontato una sfida che dipende così tanto dal nostro senso comune di solidarietà». Lo ha detto Angela Merkel nel discorso alla nazione, il primo dall’inizio della crisi, pronunciato ieri sera a reti unificate. La Cancelliera ha fatto un appello drammatico, invitando i tedeschi a rispettare rigorosamente le regole di precauzione indicate dalle autorità per fermare l’epidemia di Covid-19, ricordando però che queste verranno continuamente aggiornate in base alla loro necessità: «Le prossime settimane saranno ancora più pesanti. La nostra idea di normalità, vita pubblica e sociale, tutto verrà messo alla prova come mai prima», ha avvertito, assicurando che il governo farà tutto il possibile «per ammortizzare le conseguenze economiche della crisi e in primo luogo per salvare i posti di lavoro». Merkel ha detto di «credere fermamente che la crisi possa essere superata, se tutti faranno di questa la loro sfida». Il discorso conferma l’aggravarsi della situazione in Germania, dove ieri il numero dei contagi da coronavirus ha superato quota 11 mila, cioè più del doppio rispetto a 2 giorni fa, mentre i decessi sono ora arrivati a 30. Di più, come ha detto il direttore del Robert Koch Institut, Lothar Wieler, «se la popolazione tedesca non si atterrà alle misure di prevenzione decise dal governo, rischiamo di avere in pochi mesi 10 milioni di contagiati». Wieler ha parlato di un’accelerazione «esponenziale dell’epidemia» nei sedici Laender federali e invitato la popolazione a ridurre ulteriormente i contatti sociali per fermare il contagio da persona a persona. Nello scenario peggiore, evocato nei giorni scorsi anche dalla cancelliera, il 60% dell’intera popolazione tedesca rischierebbe di essere contagiato: vorrebbe dire circa 50 milioni di persone. Nel suo discorso Merkel ha ricordato come la Germania abbia uno dei migliori sistemi sanitari del mondo, ma ha avvertito che gli ospedali tedeschi potrebbero entrare in crisi di fronte a troppi malati di coronavirus, concentrati in un breve arco di tempo. Per la Germania l’appello di un cancelliere al Paese è un fatto eccezionale, che di regola accompagna momenti fatali della vicenda nazionale: Helmut Schmidt lo fece una volta sola nel ’77, durante l’autunno tedesco mentre il Paese era sotto l’attacco del terrorismo della Raf, le Brigate Rosse tedesche; in sedici anni al potere Helmut Kohl usò la procedura appena due volte, il 1° luglio 1990 al momento in cui entrò in vigore il cambio 1 a 1 tra il marco dell’Ovest e quello dell’Est, e il 2 ottobre dello stesso anno alla vigilia della Riunificazione; anche Gerhard Schroeder parlò due volte ai tedeschi: il 24 marzo 1999 per spiegare l’intervento tedesco nella guerra del Kosovo, il primo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e il 20 marzo 2003 per il motivo opposto, cioè il rifiuto di partecipare all’invasione dell’Iraq decisa unilateralmente dagli Stati Uniti. Intanto il governo federale e la conferenza dei Laender hanno deciso un piano di emergenza per gli ospedali, che prevede di attrezzare una serie di strutture come centri di riabilitazioni, cliniche private, hotel di proprietà pubblica e alcune arene, dotandole anche di posti di terapia intensiva, per curare gli ammalati di coronavirus. L’obiettivo è raddoppiare le stazioni di terapia intensiva, che attualmente sono 28 mila in tutta la Germania.

Walter Rauhe per “la Stampa” il 21 marzo 2020. A partire da oggi e per due settimane anche i cittadini della Baviera devono restare a casa. Le autorità locali della seconda più grande regione tedesca hanno decretato il lockdown, la misura d' emergenza per impedire la circolazione delle persone. Ad annunciare il drastico provvedimento è stato ieri il governatore regionale Markus Söder (Csu) che in seguito ad un aumento del 35% dei contagi nelle ultime 24 ore non ha voluto attendere ulteriormente un' eventuale decisione del governo federale. «Gli appelli dei giorni scorsi al buon senso dei cittadini non sono purtroppo bastati», ha dichiarato il governatore. I 13 milioni di abitanti della regione prealpina devono da oggi rimanere a casa. Vengono chiusi tutti gli esercizi commerciali, compresi bar, ristoranti e parrucchieri. Sarà permesso uscire di casa solo per fare acquisti al supermercato o in farmacia, per recarsi da un medico o per raggiungere il proprio posto di lavoro. Passeggiate e attività fisiche restano consentite ma solo se vengono svolte da soli o al massimo in coppia. La Baviera è così il primo Land tedesco a decretare il lockdown e ad adottare misure molto simili a quelle in vigore in Italia. Decisioni che con ogni probabilità anticipano un' azione comune a livello nazionale. Domani la cancelliera Angela Merkel discuterà del tema con i 16 governatori regionali nel corso di una videoconferenza. Già da giorni gli esperti dell' istituto nazionale di immunologia «Robert Koch» di Berlino chiedono al governo di Merkel di ordinare il lockdown per l' intero Paese. Il numero delle persone contagiate è salito ieri a 19.645, ben quattromila in più in una sola giornata. E a crescere è anche il numero delle vittime: 48 in tutto. Nel Paese crescono le critiche nei confronti del governo di grande coalizione e delle sue tante esitazioni e lentezze nella gestione della pandemia. Medici e ospedali lamentano una carenza drammatica di materiale e personale, cittadini affetti da sintomi hanno difficoltà ad ottenere un test e in molte città non vengono rispettate le regole contro gli assembramenti di persone. «Dai noi imperversa il virus dell' indifferenza», titolava ieri un quotidiano tedesco. Gli appelli e i consigli ripetuti nei giorni scorsi dagli esperti e dalla stessa cancelliera Merkel non bastano più. La Germania ha perso tempo prezioso illudendosi che il virus riguardasse prima solo la Cina e poi l' Italia. La Baviera, il Land più vicino geograficamente e culturalmente al nostro Paese ha dato ieri l' esempio adottando misure più restrittive.

Merkel al supermercato: sicurezza rispettata  (e compra vino italiano). Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Irene Soave. In coda al supermercato, con lo stesso completo blu con cui poche ore prima ha pronunciato un discorso alla nazione — «Tutto, ora, sarà messo alla prova» — sola; nel carrello ha quattro bottiglie di vino e poche altre cose. Angela Merkel è stata fotografata ieri dalla Bild Zeitung, il tabloid tedesco più venduto, mentre alle 17 faceva la spesa nel supermercato vicino a casa dove è habitué, un negozio della catena Hit del quartiere Mitte, a Berlino, proprio dietro l’«isola dei musei», in Mohrenstraße. La Cancelliera non fa Hamsterkäufe, letteralmente «acquisti da criceto»: la parola è tra le più usate in questi giorni e indica le maxi-incette che tanti suoi connazionali, come un po’ in tutta Europa, stanno facendo in preda all’ansia di trovare poi gli scaffali vuoti. Quattro bottiglie di vino (bianco, italiano, etichetta Ricossa); l’immancabile pacco di carta igienica, acquisto simbolo della clausura; due confezioni di bagnoschiuma, una di amarene. Reparto frutta, gastronomia, salta qualche fila, si mette in coda. Alla cassa osserva i due metri di distanza dagli altri clienti, paga con la carta. Il suo non è solo un gesto simbolico, che sembra invitare alla calma e a una spesa razionale i tedeschi preoccupati; è anche una tra le sue abitudini più caratteristiche. I suoi fan se ne ricordano: su Twitter lo scrittore Fernando Aramburu scrive «Ecco Angela che fa la spesa, formale, in coda. Qualche anno fa ho postato (sic!) una foto simile e qualcuno non ci credeva». Invece eccola. Anche i dipendenti del supermercato Hit Ullrich, il cui motto è «Varietà e qualità», raccontano alla Bild: «Viene qui spesso», si riempie da sola le borse e non ha bisogno di aiuto a portarle. Nulla di degno di nota, insomma. Tanto che al quotidiano non resta che titolare: «Angela paga con la carta». Un gesto più normale di così, nemmeno se non fosse in corso una pandemia.

Coronavirus, Angela Merkel in quarantena. Libero Quotidiano il 22 marzo 2020. Il coronavirus  in Germania fa una "vittima" eccellente. Si tratta della cancelliera Angela Merkel che avrebbe contratto il virus dopo l'incontro con un medico poi risultato positivo. La cancelliera oggi era stata in conferenza stampa a Berlino ribadendo che lo Stato federale e i Laender prendono molto seriamente la situazione. "Il governo e i Laender hanno deciso di ridurre i contatti al minimo assoluto all'obiettivo vitale di rallentare la diffusione del coronavirus". Le nuove misure restrittive varate d'intesa con i Laender riguardano i contatti all'esterno sono possibili in Germania d'ora in poi solo con una persona che non appartiene al proprio nucleo familiare e alla propria abitazione, o con le persone che vivono nella stessa casa. La cancelliera ha aggiunto che, "sono regole non consigli la polizia e gli addetti all'ordine pubblico sorveglieranno il rispetto delle regole, e le violazioni verranno sanzionate".

Giallo Germania: pochi morti e pochi ricoveri. Ora la stampa tedesca attacca. Il Dubbio il 26 marzo 2020. Il tasso di letalità dichiarato dal Robert Koch Institut è molto più basso della media europea. Ma i media di Berlino non ci credono. Ormai se lo chiede il mondo intero: qual è il criterio con il quale la Germania conteggia i suoi contagi e le sue vittime? Come mai il tasso di letalità per il coronavirus rimane imperterrito intorno allo 0,4% (ad oggi 146 decessi contro gli oltre 6.800 dell’Italia)? Domande che ormai vengono ripetute sempre più spesso anche a Berlino, a Colonia o Amburgo: con un certo preoccupato stupore si è guardato alle ultime cifre fornite dal Robert Koch Institut (Rki), il maggiore centro epidemiologico tedesco, secondo cui stranamente oggi i contagi risultavano cresciuti di 5.000 unità, mentre nei due giorni precedenti erano solo 2.000. E perchè i conteggi forniti dalla Johns-Hopkins University e dalla Zeit on line – che incrocia i dati dello stesso Rki con quelli che via via arrivano dai Laender, anche quelli segnalati sui social network e indicati dagli ospedali – è sistematicamente più gravoso? Oggi, per esempio, c’è una differenza di oltre 5.000 casi, con il bilancio attuale intorno alle 37 mila infezioni. Le vittime accertate 186: sono 40 in più. E’ come se l’autorevole Robert Koch Institut fosse regolarmente in ritardo di diversi giorni, annota tra gli altri lo Spiegel. Il motivo va ricercato nella modalità di raccolta dei dati: normalmente l’autorità sanitaria locale segnala un caso, lo trasmette agli uffici del Land a cui appartiene, che poi lo trasferisce a sua volta all’Rki, che il giorno seguente produce la sua statistica complessiva a livello nazionale. “Ma questa cosa ormai non funziona più”, chiosa il settimanale amburghese. Intanto perchè i tempi di trasmissione dei dati – ovviamente in continua crescita – per via ufficiale vengono ulteriormente rallentati: nel fine settimana, per esempio, non tutte le autorità locali avevano inviato i loro dati, con il risultato che domenica scorsa i Koch Institut segnalava un numero minore di contagi del giorno precedente. L’effetto è stato che qualcuno già esultava per la “curva decrescente”, compreso lo Spiegel, che ha poi si è trovato costretto a rettificare. “Ci sono continui vuoti nelle cifre”, accusa il settimanale amburghese nella sua versione online. “I dati a noi trasmessi in ritardo nella giornata di lunedì sono disponibili nella statistica del martedì”, si giustifica l’istituto. Circostanza, si fa notare, difficilmente sostenibile di fronte al ritmo di crescita di una pandemia che sta terrorizzando il globo intero. “Dati attendibili sono importanti anche e soprattutto perchè rappresentano la base su cui si fondano le misure prese per contrastare la diffusione del virus”, aggiunge lo Spiegel. Che si è preso la briga di scavare nelle cifre fornite dai singoli Laender: per esempio in Nord-Reno Vestfalia, il focolaio più ampio, la distanza tra i numeri pubblicati dall’Rki e quelli reali è notevole. “Nell’area Rhein-Sieg – annota il settimanale – ci sono attualmente 300 casi confermati. Nella statistica pubblicata dal Koch Institut ne risultano solo 51”. Secco il commento dei portavoce dell’Rki: “Possiamo mettere a disposizione solo dati che ci vengono trasmessi”. Non vale lo stesso per Johns-Hopkins e la Zeit. Che parlano attualmente di oltre 37 mila contagi. E poi c’è ovviamente il grande tema della bassa, anzi bassissima, mortalità, che suscita domande sempre più rumorose anche in Germania. “Abbiamo relativamente poche vittime anche perchè sin dall’inizio abbiamo fatto eseguito molti tamponi”, ha dichiarato stamattina il presidente del Robert Koch Institut, Lothar Wieler. Il quale comunque ribadisce che “siamo solo all’inizio dell’epidemia: ovviamente il numero dei casi di decesso aumenterà. Ma ancora è del tutto da vedere come i virus si svilupperà”. La verità è che “ne sappiamo ancora troppo poco”, come confessa un esperto dell’Oms, Richard Pebody, che parla di “dati ancora misteriosi”. E’ difficile confrontare le situazioni di Paesi diversi, dove ci sono situazioni diverse sia in termini demografici che di tenuta dei sistemi sanitari. Secondo Pebody, che è citato dalla Welt, “in Paesi come l’Italia e la Spagna probabilmente l’epidemia è ad uno stadio più avanzato che in Germania, ossia il contagio è iniziato prima, quando si diffondeva nella popolazione senza che essere ancora riconosciuto”. Tuttavia, la maggior parte degli esperti concordano che ad incidere sia soprattutto l’età degli ammalati: tra i contagiati “comprovati” – ossia a cui si è potuto fare i tamponi – è evidente che l’età media è più alta in Italia che in Germania, 63 anni contro 45, come reso noto via Twitter dal demografo tedesco Andreas Backhaus. E’ un dato che salta agli occhi anche nel confronto tra il nostro Paese e la Corea del Sud, dove solo il 9% delle persone con l’infezione da Coronavirus aveva più di 70 anni, contro il 40% degli ultrasettantenni registrati in Italia. Proporzioni che cambiano di poco nella statistica del Koch Institut: calcolando i contagiati dai 60 anni in su, si tratta del 19% in Germania, la stragrande maggioranza aveva tra i 35 e i 59 anni. C’è poi l’aspetto sociale da considerare: in Cina l’80% dei contagi si e’ avuto all’interno delle famiglie, soprattutto quelle numerose. Anche l’Italia, come si sa, è caratterizzata da un’organizzazione familiare “stretta”. In Germania, la percentuale delle persone adulte che vivono con i genitori sono la metà di quelli che rimangono in famiglia in Italia. Ovvia la conseguenza: figli e nipoti, poco sintomatici o asintomatici, che contagiano genitori e nonni. Quest’ultimi soprattutto, molto più a rischio. Infine, il tema tamponi: sia le autorità sanitarie tedesche che quelle dell’Oms chiamano in causa le rilevazioni a tappeto fatti in Germania, “dove c’è una strategia nel realizzare i test sul Covid-19 molto aggressiva”, dice il coordinatore per l’emergenza dell’Oms, Michael Ryan. Ossia: si individuano prima le persone asintomatiche oppure con sintomi lievi, pertanto la diffusione presso i soggetti a rischio sarebbe più contenuto. E poi in certi Paesi, dice di nuovo Pebody, si fanno anche i tamponi post-mortem, in altri no, e anche questo cambia le statistiche: ovvero, forse non tutti i morti da coronavirus sono stati individuati. Ultimo argomento, quello della tenuta dei rispettivi sistemi sanitari. Più si diffonde la pandemia, più le strutture sono sovraccariche, più è difficile eseguire i test anti-Covid-19. Dice Michael Ryan: “Se gli ospedali sono travolti dal numero dei pazienti ricoverati, è evidente che le possibilità di offrire una cura adeguata si riducono”. E’ la Welt a fare due conti a questo proposito: “L’Italia, a fronte di 60 milioni di abitanti, prima della crisi aveva 5000 posti in terapia intensiva. La Gran Bretagna, con circa 66 milioni di abitanti, ne ha 4100. La Germania, con circa 80 milioni di abitanti, ha 28 mila posti in terapia intensiva. Un numero che, su decisione del governo di Angela Merkel, verrà ora raddoppiato.

In Italia il virus uccide, in Germania no. Il mistero della resistenza dei tedeschi. La letalità da Covid 19 del nostro Paese è la più alta del mondo. I tedeschi, che contano pure loro decine di migliaia di contagiati e una popolazione anziana come la nostra, hanno invece un tasso dello 0,3 per cento. Circa 28 volte più basso. Una differenza che dipende da fattori sociali e culturali. Dall'età media degli infettati. E dalla qualità del sistema sanitario. Emiliano Fittipaldi il 21 marzo 2020 su L'Espresso. Nella mappa dell'orrore della John Hopkins University, che ogni giorno traccia quasi in diretta il numero di infettatati e morti da coronavirus paese per paese, c'è una sorprendente anomalia. Quella della Germania. Con un ritardo di una settimana circa rispetto all'Italia, anche i cugini teutonici stanno subendo gli effetti devastanti del Covid 19, e il governo della cancelliera Angela Merkel ha seguito l'esempio italiano ordinando il lockdown di quasi tutto il paese. Eppure i dati sfornati quotidianamente dal loro istituto nazionale di ricerca, il Koch, sono assai diversi sia dai nostri, sia da quelli del resto del mondo. Se il tasso di crescita dei contagi è esponenziale (mentre scriviamo la Germania è il quarto paese al mondo per numero di infetti, in tutto 20.705), il numero dei morti assoluti resta bassissimo. Solo 72 al 20 marzo 2020. Il tasso di letalità è di conseguenza dello 0,3 per cento. È il più basso del mondo. Ancora meno grave di quello della Corea del Sud (all'1,1 per cento), di quello della Francia (12.483 casi e 450 morti, per una letalità del 3,6 per cento) e della Cina, ferma al 3,8. Ma è impressionante confrontare il dato tedesco con quello della Spagna (al 5,4 per cento) e soprattutto con quello dell'Italia, dove per Covid 19 muoiono 8,5 persone ogni 100 infettate. Un record di letalità che non ha paragoni. Da qualche giorno gli esperti di mezzo mondo si stanno così interrogando sull'eccezione tedesca. E, di riflesso, su quella italiana. L'epidemia da coronavirus è ancora agli inizi, ed è troppo presto per tirare qualsiasi conclusione. Soprattutto perché – come suggeriscono da tempo Roberto Burioni e Nino Cartabellotta – la letalità in Italia (ma non solo) è probabilmente sovrastimata, perché il numero complessivo dei contagiati (un denominatore di fatto ignoto, a causa della grande percentuale di infettati asintomatici) è probabilmente molto più alto. Ma lo spread tra Italia e Germania è ormai così ampio che qualche scienziato sta provando a proporre alcune prime ipotesi. Basate sui dati epidemiologici, certo. Ma pure su fattori sociali e culturali che potrebbero spiegare il diverso decorso dell'epidemia. Senza dimenticare le differenze dei due sistemi sanitari nazionali, e le diverse risposte dei governi e delle autorità sanitarie alla pandemia.

1) Partiamo dall'età dei contagiati. Gli esperti tedeschi del Koch Institute di Berlino segnalano che in Germania per ora si sono ammalati soprattutto i più giovani, rispetto a quello che è accaduto in Italia e Spagna. Le generazioni under 50 hanno, come sappiamo anche dalle prime statistiche cinesi, una probabilità molto più bassa di morire, intorno allo 0,4-0,3 per cento. Mentre l'esito rischia di essere letale soprattutto per gli anziani over 70. A differenza che in Corea o in Cina, dove l'età media della popolazione è più bassa che in Italia, la Germania ha una percentuale di anziani molto simile a quella italiana. Gli over 65 sono il 25 per cento dei tedeschi, in Italia (dati Istat 2019) quasi il 23. Dunque perché in Italia, e in particolare al Nord, si sono infettati così tanti anziani e in Germania no (o non ancora)? Bruce Aylward, vicedirettore generale Oms, ha ipotizzato al New York Times che le differenze tra paesi potrebbero dipendere dalle diverse strutture sociali. In Cina, per esempio, quasi l'80 per cento delle infezioni da Covid 19 si sono sviluppate in famiglia. Le famiglie numerose caratterizzano non solo Wuhan e il distretto di Hubei, ma anche l'organizzazione sociale dei paesi mediterranei. È possibile dunque che in Italia e Cina i giovani, spesso asintomatici o con sintomi blandi, abbiano poi contagiato genitori o nonni più fragili che vivono a stretto contatto con loro. In Germania, invece, giovani e anziani hanno rapporti più distanziati. Se in Italia e Cina (come ha spiegato Moritz Kuhn, docente di economia all'università di Bonn) le persone tra i 30 e i 49 anni che vivono ancora con i genitori sono più del 20 per cento, in Germania la percentuale si dimezza. Le statistiche Eurostat confortano il ragionamento del professore: in Italia la metà dei giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora con genitori, mentre i tedeschi in media vanno via di casa a 23 anni. La solitudine degli anziani tedeschi, dunque, potrebbe aver abbassato il tasso di letalità. Almeno per ora. La cautela, spiegano dal Koch, è d'obbligo, anche perché la Germania è indietro nello sviluppo dell'epidemia almeno una settimana rispetto all'Italia. Hans Georg Krausslich, virologo dell'Università di Heidelberg, ascoltato dal Financial Times ha chiarito che tutto potrebbe cambiare presto anche lì: «In Germania la stragrande maggioranza dei pazienti è stata contagiata solo nell'ultima settimana o due, e probabilmente vedremo casi più gravi in futuro. Così come un cambiamento dei tassi di mortalità».

2) Gli ottimisti, però, sono pronti a scommettere che i tedeschi avranno meno decessi di altri paesi europei. Anche grazie alla risposta rapida del loro sistema sanitario. Il basso tasso di letalità sarebbe dovuto infatti, come in Corea del Sud, all'uso massiccio dei tamponi fatto fin dai primi giorni dell'epidemia. Secondo la Federazione dei medici tedeschi anche prima di registrare i primi decessi in Germania sarebbero stati fatti decine di migliaia di test (solo 135 mila nelle prime due settimane di marzo), a cui bisogna sommare (chiosa un articolo di Le Monde) anche i tamponi fatti negli ospedali e nelle cliniche, il cui numero preciso non è ancora conosciuto. Lo screening massiccio fatto in tempi utili, insieme al distanziamento tra giovani e anziani, può aver abbassato di molto il tasso di letalità nazionale. «La capacità di fare test in Germania è molto importante» ha chiarito Lothar Wieler del Koch «Possiamo fare più di 160 mila tamponi alla settimana». In Italia i test fatti, soprattutto nelle prime settimane, sono stati molto inferiori. Non perché mancano tamponi, ma per una bassa capacità di analizzare i test da parte di cliniche private e ospedali. Solo ora Walter Ricciardi, esperto dell'Oms e consulente del governo, sta spingendo a copiare il modello coreano e tedesco.

3) Infine, il tasso di letalità potrebbe essere legato alla risposta dei vari sistemi sanitari. Quello tedesco può vantare il più alto numero di terapie intensive. In Italia all'inizio dell'epidemia avevamo poco più di 5000 ventilatori meccanici, e gli ospedali delle zone più colpite (in primis il lodigiano, Cremona, Brescia e poi Bergamo) sono andati presto in tilt. Molti anziani sono morti nelle loro case, come raccontato da medici e politici, senza la possibilità di essere intubati e, forse, salvati. In Germania ci sono ben 28 mila terapie intensive, e il governo federale punta a raddoppiarli (grazie ai produttori tedeschi) in pochi mesi. «Qui siamo all'inizio dell'epidemia» chiude Wieler «e possiamo ancora garantire che le persone gravemente malate possano essere curate in ospedale». È probabile che la Germania riesca a non saturare mai le sue strutture. È probabile dunque che il mistero del basso tasso di letalità tedesco sia frutto di diversi fattori. Anche dovuti al caso (e l'Italia è stata molto poco fortunata) e all'imprevedibilità della pandemia. Gli scienziati si aspettano pure che, con il passare del tempo, la mortalità da Covid 19 si uniformi in tutto il mondo. Ma molti esperti scommettono che i tedeschi rispetto ad altri paesi europei riusciranno a contenere le perdite. Sia umane che economiche.

DAGONEWS il 23 marzo 2020. Il tasso di mortalità relativamente basso della Germania continua a incuriosire gli esperti mentre il Covid-19 si diffonde in tutta Europa: per alcuni le discrepanze con il dato italiano dipendono dalla metodologia alla base della raccolta dei dati per altri il segreto è l’elevato numero di tamponi che viene effettuato nel Paese. Secondo i dati della Johns Hopkins University in Germania ci sono 26.220 positivi, solo 111 i morti, i guariti 266. Ciò significa che la Germania ha attualmente il tasso di mortalità più basso tra i 10 paesi più colpiti dalla pandemia: lo 0,3% rispetto al 9% dell’Italia e al 4,6% nel Regno Unito. Il contrasto con l'Italia è particolarmente sorprendente perché i due paesi hanno la più alta percentuale di cittadini di età pari o superiore a 65 anni in Europa. Un dato reso ancora più sorprendente se si pensa che, secondo il Bloomberg Global Health Index, gli italiani hanno uno stile di vita più sano dei tedeschi. Al momento i politici tedeschi e le autorità sanitarie sono riluttanti a commentare il basso tasso di mortalità. Lothar Wieler, presidente del Robert Koch Institute (RKI), l'ente centrale della sanità pubblica, ha detto di non aspettarsi una differenza significativa nei tassi di mortalità tra Italia e Germania nel lungo periodo. «È troppo presto per dire se la Germania è meglio preparata dal punto di vista medico per la pandemia di Covid-19 rispetto ad altri paesi» ha affermato Marylyn Addo, che dirige il dipartimento di infettivologia del Medical Center dell'Università di Amburgo. Una probabile spiegazione della discrepanza nelle cifre, secondo Addo, è che mentre gli ospedali del nord Italia sono invasi da nuovi pazienti, quelli tedeschi non sono ancora pieni, hanno avuto più tempo per liberare i letti, fare scorta di attrezzature e ridistribuire il personale. Ma c’è un altro aspetto rilevante: la Germania ha iniziato a fare tamponi su persone che mostravano sintomi lievi sin dall’inizio dell’epidemia. Secondo la "Kassenärztliche Bundesvereinigung (KBV)"  il paese può fare 12mila tamponi al giorno, mentre Wieler sostiene che in una settimana si può arrivare a 160mila test. Se è vero che la Germania non ha effettuato i test allo stesso alto ritmo con cui sono stati effettuati in Corea del Sud, secondo le linee guida entrate in vigore da ormai più di un mese, i pazienti vengono sottoposti a tamponi anche se hanno sintomi blandi, ma sono entrati a contatto con persone infette o sono state in zone ad alto rischio come la Lombardia o Wuhan in Cina. Un altro fattore che spiegherebbe il basso tasso di mortalità sarebbe che le persone colpite nelle prime settimane sono più giovani rispetto ad altri Paesi e sono perlopiù pazienti sani e in forma che tornavano da zone sciistiche in Austria e in Italia. «Suppongo che molti giovani italiani siano stati contagiati senza mai essere scoperti - ha detto al quotidiano Die Zeit Christian Drosten, un virologo dell'ospedale di Charité a Berlino - Questo spiega anche il tasso di mortalità presumibilmente più elevato del virus in Italia». Drosten, che ha fornito consulenza al ministero della sanità tedesco, ha anche avvertito che il tasso di mortalità della Germania aumenterà probabilmente nelle prossime settimane man mano che le aree ad alto rischio diventeranno più difficili da identificare e si allungheranno i tempi per i tamponi. «Ci sembrerà che il virus sia diventato più pericoloso, ma questo sarà solo un dato statistico, una distorsione. Rifletterà semplicemente ciò che sta già accadendo: nel conto ci mancano sempre più persone che sono già infette». La metodologia alla base della raccolta dei dati in Germania può giocare un ruolo nella discrepanza dei dati tra Italia e Germania. Se un paziente risulta positivo al Covid-19 in Germania, il medico informa l'autorità sanitaria locale, che trasferirà digitalmente i dati al Robert Koch Institute. Il ritardo in questo processo spiega perché le cifre giornaliere della RKI sono state costantemente inferiori a quelle della Johns Hopkins University, che aggiorna le sue tabelle più frequentemente. Alle 10 di domenica mattina, ad esempio, l'RKI rileva solo 55 vittime in Germania. A differenza dell'Italia, attualmente non è prevista l’autopsia sui pazienti in Germania. L'RKI afferma che coloro che non sono stati sottoposti al tampone in vita, ma si sospetta possono essere morti dopo aver contratto il coronavirus “possono” essere sottoposti all’autopsia. Ma nel sistema sanitario decentralizzato della Germania questa non è ancora una pratica di routine. Di conseguenza, è teoricamente possibile che ci possano essere persone che potrebbero essere morte in casa prima di essere testate e che non compaiono nelle statistiche. Addo, comunque, non ritiene che questo numero di casi non segnalati sia statisticamente significativo: «Le cliniche che si occupano di malattie respiratorie sono state in allerta per il virus per settimane, quindi sarei molto sorpresa se ci fosse una cifra significativa di morti non registrata». Le cifre ufficiali sulla mortalità della RKI includono sia le persone che sono morte per coronavirus, sia quelle infette e con problemi di salute pregresse, sulle quali non è stato possibile determinare la causa precisa della morte.

Coronavirus in Germania: la Baviera impone il lockdown. Francesco Ferrigno il 20/03/2020 su Notizie.it. La Germania si prepara a combattere il coronavirus. La Baviera ha deciso per il lockdown e molte altre regioni potrebbero seguirla a stretto giro. Comincia a fare paura per davvero il coronavirus in Germania: la Baviera ha già deciso per il lockdown e molte altre regioni, ovvero i “land” tedeschi, potrebbero seguirla a stretto giro. “È la sfida più grande – ha detto la cancelliera Angela Merkel – dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi”. Stop alla circolazione nell’area della Baviera, insomma, per provare a formare la diffusione del contagio da Covid-19. La Germania sta pensando anche a nuove misure per limitare gli spostamenti in altre aree del Paese e per fronteggiare la crisi economica. A prendere la decisione di “chiudere” la Baviera è stata il Governo locale. Si potrà uscire solamente per questioni di necessità come gli acquisti indispensabili, per andare in farmacia o dal medico. Sarà possibile anche aiutare persone in difficoltà, fare visita al partner o anche fare sport. Fare jogging da soli o al massimo in coppia sarà consentito. In molti hanno paragonato le misure del land della Germania sul coronavirus simili a quelle già in atto in Italia. La cancelliera Angela Merkel incontrerà i ministri responsabili delle regioni per confrontarsi sui provvedimenti attuati e da attuare in Germania contro il coronavirus. Secondo più fonti a seguito dell’incontro Merkel potrebbe dichiarare il lockdown totale del Paese. Quale impatto avrà la pandemia del coronavirus sull’economia della Germania? Il Governo sta provando a fare il punto. Contrastare un’emergenza simile potrebbe portare il Paese a rinunciare al freno al debito peraltro fissato dalla Costituzione. Le imprese tedesche saranno sostenute in tal modo.

Il coronavirus arriva in Germania: "È iniziata l'epidemia". L'allarme è stato lanciato dal ministro della Salute tedesco, Jens Spahn: "Nelle ultime ore il quadro è cambiato. Prepariamoci a una possibile epidemia". Federico Giuliani, Mercoledì 26/02/2020 su Il Giornale. La Germania ha ufficialmente annunciato “l'inizio di un'epidemia da coronavirus”. Stando a quanto riferito dal Die Welt l'allarme è stato lanciato dal ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, dopo che sono stati riscontrati sette nuovi casi di contagio all'interno del Paese. “Ci troviamo in una nuova situazione”, ha aggiunto Spahn, invitando i Land a prepararsi "per rendere operativi i piani per una possibile pandemia". "Sono obbligato a dirvi - ha infineaggiunto -che nelle ultime ore il quadro e cambiato, credo che sia importante essere pronti ad affrontare una nuova situazione" e di "qualità diversa" rispetto al passato. Sembrava che l'Italia fosse l'unica maglia nera d'Europa, con oltre 400 pazienti contagiati e il primo posto nella classifica globale degli Stati più colpiti dal Covid-19. Ma in giornata anche la Germania ha iniziato a fare i conti con un potenziale scenario d'emergenza. Questo ha spinto le autorità locali ad innalzare il livello di guardia visto che in poche ore sono diventate 23 le persone colpite dal virus sul territorio tedesco. Uno dei casi, un 40enne risultato positivo nella città di Erkelenz, vicino al confine olandese, è in condizioni critiche. L'uomo, che aveva già precedenti patologie, è stato portato in un ospedale specializzato a Duesseldorf. Stephan Pusch, che dirige l'amministrazione distrettuale di Heinsberg, dove si trova Erkelenz, ha riferito che le scuole e gli asili nella zona oggi rimarranno chiusi e ha esortato le persone sintomatiche a rimanere a casa e contattare i medici per telefono. Il quotidiano Bild ha riferito che anche la moglie dell'uomo, ricoverata il 25 febbraio nella medesima struttura, era risultata positiva ai controlli.

Il coronavirus si espande. Il marito aveva avuto contatti con un conoscente da poco rientrato dalla Cina, dove si era recato per lavoro. Le autorità sono molto preoccupate per il contagio della moglie, dal momento che la donna è impiegata in un asilo nido. Ai bambini è stato chiesto di rimanere a casa; al momento sono in corso i test e i tamponi per verificare se ci sono stati casi di contagio tra i piccoli. Come se non bastasse, nelle ultime due settimane la coppia aveva preso parte a numerosi eventi, anche in occasione del carnevale. La coppia potrebbe aver contagiato il militare della Lutwaffe in servizio presso la base aerea di Colonia-Wahn. L'infetto è stato trasportato al policlinico militare di Coblenza. Il caso di Erkelenz si aggiunte ai precedenti 14 contagiati individuati in Baviera, tra i dipendenti della ditta Webasto e i loro familiari. Altri due infetti sono cittadini tedeschi rimpatriati con un volo insieme ad altri 126 connazionali da Wuhan. Nella lista troviamo anche un uomo individuato in Baden-Wuerttemberg, tornato in patria con i propri famigliari lo scorso 23 febbraio dopo un viaggio nell'area in quarantena nella provincia di Lodi. E questo potrebbe essere solo l'inizio.

Da lettera43.it il 20 marzo 2020. Li chiamano Coronaparty e sono l’ultima moda in Germania, fra i giovanissimi. In un Paese in cui il virus ormai dilaga – i casi ufficiali sono oltre 8.200 e il sistema sanitario tocca i propri limiti – c’è chi non ha ancora capito. Un po’ come in Italia, prima dei decreti che hanno costretto la gente a restare in casa. Scuole chiuse? Tutti nei parchi, a festeggiare. Discoteche, locali notturni blindati? Si ripiega nelle abitazioni private o anche in piena notte all’aria aperta, fra litri di birra e musica. Un fenomeno diffuso, che riguarda Berlino come le città nel Sud, della Baviera. Intervistati su questa condotta, i ragazzi dimostrano di non aver compreso la gravità della situazione: «Non siamo nella fascia a rischio e abbiamo sempre con noi il disinfettante», risponde una di loro in un video postato su Twitter. E poi, dice, non «coccolerò» nessuno a fine serata. Insomma, un esercito d’inconsapevoli. Per fermare i Coronaparty, a tutela di tutti, arriva spesso la polizia, che fino a inizio settimana ha sciolto diversi assembramenti «con le buone», invitando tutti ad andare a casa. «Comportamenti del tutto irresponsabili», è la denuncia bipartisan di molti politici. L’indignazione è esplosa sul web. La Germania che richiama i medici dalle pensioni e costruisce ospedali negli hotel per raddoppiare i posti letto di terapia intensiva mal sopporta l’incoscienza dei giovanissimi. «Gli farei pagare fino a 5 mila euro di multa», commenta qualcuno su Twitter. «Per ogni Coronaparty andrebbero fatte scorrere le immagini che arrivano dall’Italia. Grazie a voi, presto così anche da noi». Lars Schaade, del Robert Koch Institut, in conferenza stampa a Berlino ha commentato: «Non ha senso chiudere le discoteche se poi si fanno le feste a casa. Lo dico perché adesso si organizzano i cosiddetti Coronaparty. Per favore non fatelo».

·        …in Francia.

Il Presidente francese Emmanuel Macron è positivo al coronavirus. Notizie.it il 17/12/2020. Dopo aver presentato i primi sintomi del coronavirus, Emmanuel Macron è risultato positivo al test per la ricerca dell’infezione. La notizia è giunta direttamente dall’Eliseo il quale ha comunicato che il Presidente francese osserverà ora l’isolamento di sette giorni previsto dai protocolli e continuerà a lavorare da remoto. Già dall’inizio della settimana Macron aveva effettuato diversi tamponi risultando sempre negativo, ma ora l’ennesimo test ha confermato la sua positività. Ancora non si sa dove potrebbe essere venuto a contatto con l’infezione né se abbia contagiato qualche suo convivente. Ciò che è certo è che il viaggio in Libano previsto per il 22 e 23 dicembre non potrà realizzarsi e verrà rinviato ad avvenuta guarigione. La moglie, Brigitte Macron, nei mesi precedenti aveva avuto contatti con un soggetto positivo senza mai aver contratto il virus. Lo stesso Macron ad ottobre aveva incontrato il presidente della Polinesia francese Edouard Fritch che, tre giorni dopo la riunione, era risultato positivo dopo essere tornato a Tahiti e aver manifestato febbre e dolori articolari. Fonti governative hanno precisato che il Primo Ministro Jean Castex nei giorni precedenti aveva cenato insieme a lui e che per questo si considera un caso di contatto. Per il momento però non presenta alcun sintomo ma presumibilmente dovrà effettuare il test per verificare l’eventuale contagio.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 18 dicembre 2020. Il Covid è entrato anche all'Eliseo. Dopo i primi sintomi, ieri mattina Emmanuel Macron è risultato positivo al tampone. «Sintomi leggeri» dicono all'Eliseo: tosse secca e febbre, un po' di stanchezza. Il presidente è apparso a fine giornata, in video, per chiudere i lavori di una conferenza umanitaria sull'epidemia. Nerovestito giacca e maglione a collo alto ha appena accennato ai «limiti dovuti alla situazione», è apparso, agli occhi scrutatori di tutti i francesi, pallido, il tono un po' spossato, sicuramente meno brioso del solito L'allerta è immediatamente scattata ai vertici dello stato. Il contact tracing si è esteso a macchia d'olio in Europa, i casi contatto, con relativo isolamento, si sono moltiplicati in Francia. L'agenda di Macron è stata passata al setaccio. Nel mirino, una cena organizzata mercoledì sera all'Eliseo: in dodici (il doppio di quanto raccomandano le autorità sanitarie) attorno al tavolo certo maestoso del salone delle feste, dal premier Castex al presidente dell'Assemblée Nationale Ferrand, al segretario generale dell'Eliseo oltre alla maggior parte dei più stretti consiglieri del Presidente. Da ieri i vertici della Francia sono in isolamento, e si governa a distanza. Nonostante un primo tampone negativo, il premier resterà, come gli altri, confinato per una settimana. Test negativo anche per Brigitte Macron, anche lei confinata all'Eliseo. Sotto i radar del contact tracing anche il pranzo organizzato lunedì per i sessant' anni dell'Ocse, presenti il presidente del Consiglio europeo Charles Michel (in isolamento) il premier spagnolo Sanchez (testato negativo, resta confinato), il segretario generale dell'Ocse Angel Gurria. Coinvolto anche il premier portoghese Costa, ricevuto all'Eliseo mercoledì, mentre il lussemburghese Bettel e il belga De Croo si sono auto-imposti l'isolamento in attesa di tampone per aver incontrato Macron al Consiglio Europeo l'11 dicembre. Cosa che non ha fatto la presidente della Commissione europea Ursula Von der Lyen, la quale, visto il rispetto del distanziamento, non si considera caso a rischio. Isolato, invece, il presidente del comitato internazionale della Croce rossa Peter Maurere, ricevuto martedì all'Eliseo. Salvo Giuseppe Conte: in un comunicato di palazzo Chigi si precisa che il presidente del Consiglio ha visto l'ultima volta Macron al Consiglio Ue dell'11 dicembre e che da allora è stato sottoposto a due tamponi, entrambi negativi. L'Eliseo ha comunque precisato che chi ha partecipato a riunioni con la mascherina e rispettando le distanze non deve essere considerato caso contatto e che dunque sono fuori pericolo i partecipanti al consiglio dei Ministri di mercoledì. Come ogni buon francese, Macron ha subito dichiarato il risultato del suo test sull'applicazione TousAntiCovid. La cosa non ha però placato le polemiche sull'organizzazione della cena di mercoledì all'Eliseo, nonostante la tavola «da quindici metri» e l'uso della maschera durante le conversazioni, la cena vera e propria è comunque durata due ore e è terminata dopo mezzanotte (in barba tra l'altro al coprifuoco in vigore dalle 20). Secondo una fonte anonima citata dal settimanale le Point, Macron aveva già un po' di tosse alla cena di mercoledì, cosa smentita da un altro partecipante: «Era in piena forma». Per l'Eliseo il contagio non sarebbe avvenuto in Francia, ma a una cena di lavoro a Bruxelles al termine del Consiglio europeo, «pare probabile», ha detto il ministro della Sanità Olivier Veran. Auguri di pronta guarigione sono arrivati da mezza Europa: il britannico Boris Johnson, (che in primavera era stato ricoverato con una forma grave di Covid) ha inviato un messaggio in inglese e in francese «al suo amico». Parole di amicizia, anche qui bilingue, tedesco e francese, dalla cancelliera Angela Merkel.

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 18 dicembre 2020. Il presidente affetto da Covid-19 è apparso alle 18 in video, per pronunciare il discorso conclusivo della Conferenza umanitaria. Maglia a collo alto, giacca, mascherina di tipo FFP2, Emmanuel Macron è sembrato forse un po' più pallido del solito, ma con respiro e voce normali. Ha detto che ci teneva a mantenere quell'impegno «nonostante le costrizioni imposte dal momento», senza fare altre allusioni alle sue condizioni di salute. Poche ore prima uno stringato comunicato dell'Eliseo ha informato il Paese che il capo dello Stato si era sottoposto al test «dopo l'apparizione dei primi sintomi» (tosse e naso che cola), ed era risultato positivo. Macron resterà per sette giorni in isolamento (compreso lunedì 21 dicembre, 43° compleanno) continuando però a lavorare a distanza. In serata il presidente ha lasciato l'Eliseo, dove resta la moglie Brigitte, per stabilirsi alla Lanterne, la residenza presidenziale di Versailles. «Presenta sintomi reali della malattia - dice il portavoce del governo, Gabriel Attal -: tosse, febbre, una fatica importante». Macron si aggiunge così all'elenco dei leader mondiali colpiti dal coronavirus, come il premier britannico Boris Johnson, il presidente americano Donald Trump, quello polacco Andrzej Duda e il brasiliano Jair Bolsonaro. A differenza di Trump e Bolsonaro il presidente francese ha sempre sottolineato la minaccia dell'epidemia, a partire dal celebre discorso televisivo del 16 marzo quando ripetè per nove volte «siamo in guerra». Ma negli ultimi giorni Macron ha moltiplicato gli impegni e i colloqui di persona. La première dame Brigitte non presenta alcun sintomo, dopo un primo test martedì e un altro effettuato ieri mattina. Ma sono tante le persone che potrebbero essere state contagiate da Macron: in particolare i partecipanti alla controversa cena di mercoledì sera all'Eliseo, ovvero i nomi chiave della sua maggioranza. C'erano una decina di persone (tutti uomini, peraltro), tra le quali il segretario generale della presidenza Alexis Kohler, che sedeva alla destra di Macron, e Richard Ferrand, presidente dell'Assemblea nazionale, alla sua sinistra. Il presidente aveva davanti il premier Jean Castex, e i capogruppo parlamentari Christophe Castaner (La République En Marche) e Patrick Mignola (MoDem). La cena si è svolta nel salone delle feste dell'Eliseo, «rispettando le distanze e i gesti barriera», dice una fonte della presidenza. I partecipanti erano così distanti da parlarsi con l'aiuto del microfono. La cena è finita a mezzanotte, ben oltre le 20 che segnano inizio del coprifuoco. Il premier Jean Castex resterà in isolamento precauzionale come altri uomini vicini a Macron. La positività del presidente provoca conseguenze in tutta Europa: dopo la contestata visita del presidente egiziano al Sisi e l'imbarazzante gran gala all'Eliseo in suo onore, la settimana passata Macron ha incontrato i leader europei al Consiglio di Bruxelles, e non sempre i gesti barriera sono stati rispettati con attenzione. La riunione si è svolta il 10 e 11 dicembre; il periodo di incubazione del Covid è ritenuto pari a sette giorni e quindi Macron poteva essere infetto già allora o altri possono averlo contagiato in quell'occasione. Secondo fonti del governo francese citate dal Figaro «esiste una probabilità importante che il presidente sia stato contaminato dal virus al Consiglio europeo». Il premier italiano Giuseppe Conte e la cancelliera tedesca Angela Merkel da allora hanno fatto il test, negativo. Dopo Bruxelles Macron ha avuto altri incontri, per esempio con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che ha cenato domenica all'Eliseo. Il premier spagnolo Pedro Sanchez e il presidente del Consiglio Ue Charles Michel (visti lunedì) e il premier portoghese Antonio Costa (incontrato mercoledì) sono da ieri in isolamento.

Da "leggo.it" il 30 ottobre 2020. Parigi, esodo di massa prima del lockdown. Anche ieri sera, nella notte tra giovedì 29 ottobre e venerdì 30, il traffico dei parigini in fuga dal lockdown era notevole, come si vede nel video. Un esodo di massa che ha coinvolto tutte le arterie principali di Parigi a poche ore dall’inizio del lockdown, che scatterà in Francia venerdì 30 ottobre. E' stato calcolato che fossero 800 i chilometri di coda provocati dalle auto in uscita. In 300mila hanno abbandonato in queste ore la capitale della Francia scossa anche dall'attentato terroristico di matrice islamica nella chiesa di Nizza di stamani che ha provocato 3 morti. Inoltre stando a diversi media in tutto il territorio francese, sono ripresi i fenomeni di accaparramento di alcuni prodotti nei supermercati, una pratica che si rivelò assolutamente inutile a marzo-aprile (non ci fu penuria di alcun prodotto, contrariamente ai timori) e che sembra esserlo ancora di più in occasione del secondo lockdown. Come ormai tradizione, a ruba carta igienica, pasta, riso e farina. 

Due virus letali scuotono la Francia: il Covid e il terrorismo. Dopo la decapitazione nella scuola, la strage di Nizza. Mentre la pandemia sembra fuori controllo. Ora il Paese dovrà  dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze. Anna Bonalume su L'Espresso il 29 ottobre 2020. Di nuovo confinata, di nuovo sotto attacco. Due settimane dopo lo shock della decapitazione di Samuel Paty, un altro attentato è avvenuto a Nizza. All’interno della Cattedrale Notre Dame de l’Assomption una donna è stata decapitata, un uomo pugnalato, mentre la terza vittima sarebbe stata uccisa in un locale davanti alla basilica, dove si era rifugiata. Il colpevole, che avrebbe ripetutamente gridato “Allah Akbar”, è stato colpito e ferito. La Procura nazionale antiterrorismo (PNAT)  ha annunciato di aver aperto un’indagine  per "omicidio e tentato omicidio in relazione a un'impresa terroristica" e "associazione di malfattori terroristica criminale". Nel 2016 Nizza è già stata colpita da un attacco terrorista realizzato con un camion che provocò 86 vittime e 458 feriti. Il sindaco di Nizza Christian Estrosi, membro del partito di destra I Repubblicani, ha scritto su& Twitter: “#Nizza06 è ancora una volta toccata nel suo cuore dall'islamofascismo, che non smetto mai di denunciare”. Il Consiglio del culto francese musulmano  ha invitato i musulmani di Francia  “ad annullare i festeggiamenti di Mawlid (commemorazione della nascita del profeta Maometto ndr) in solidarietà con le vittime” dell'attentato. Due virus letali scuotono la Francia in questo inizio d’autunno incerto : il terrorismo e il covid. Nuovi stati d’allerta e dispositivi sono stati applicati a tutto il paese per far fronte alle emergenze: prima “allerta massima” e poi “vulnerabilità elevata” per i contagi da covid in quasi tutti i dipartimenti, mentre il piano “vigipirata”, strumento di sicurezza e difesa contro il terrorismo, è stato portato al livello “urgenza attentato”. Come l’Italia, anche i vicini d’oltralpe sono soggetti alle imprevedibili evoluzioni della pandemia, ma devono confrontarsi con la difficile sfida di attacchi islamisti perpetrati da alcuni individui su tutto il territorio. Domenica 25 ottobre la Francia ha registrato un picco di contagi: più di 52.000 in 24 ore, mentre il 28 ottobre si contano  244 decessi per covid  solo negli ospedali. Mercoledì sera il presidente Macron ha annunciato un nuovo confinamento di un mese che consentirà però a lavoratori e studenti di continuare le loro attività (università escluse), permettendo anche le visite negli ospizi. A proposito dell’epidemia ha affermato che tutti in Europa “siamo travolti da una seconda ondata che sarà senza dubbio più dura e mortale”. Il ministro della salute Olivier Veran ha già parlato di una possibile “ terza ondata ”. Mentre la gestione della crisi sanitaria e la comunicazione delle decisioni strategiche del governo vengono criticate, crescono le tensioni intorno a Macron e a Charlie Hebdo. Duri attacchi provengono dal Medio Oriente dopo che il presidente francese ha difeso la libertà di caricatura del Profeta  nel corso dell’omaggio nazionale  al professore decapitato vittima di un attacco islamista. Dall’Università Sorbona di Parigi « il nostro luogo del sapere universale », « il luogo dell’umanesimo », come lui stesso l’ha definito, Macron ha evocato la difesa della libertà e dello spirito critico, affermando che « non rinunceremo alle caricature, ai disegni, anche se altri arretrano».  Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha reagito prima mettendo in discussione la "salute mentale" di Emmanuel Macron, poi invitando i cittadini a boicottare i prodotti a marchio francese. La Turchia e la Francia sono entrambe membri dell'alleanza militare della NATO, ma sono state in disaccordo su questioni quali la Siria e la Libia, la giurisdizione marittima nel Mediterraneo orientale e il conflitto nel Nagorno Karabakh. Il 12 ottobre, dopo l’Olanda e la Germania, la Francia ha annunciato di “sospendere qualsiasi progetto di esportazione in Turchia di materiale bellico che potrebbe essere usato nell'offensiva in Siria”. Di fronte alla reazione di Erdogan, Macron  ha richiamato l’ambasciatore francese ad Ankara  e diversi leader europei hanno espresso il loro sostegno al presidente francese, come il primo ministro olandese  Mark Rutte  e il portavoce della cancelliera Angela Merkel Steffan Seibert, il quale ha definito “diffamatorie” le dichiarazioni del presidente turco. Il presidente italiano Giuseppe Conte ha affermato su Twitter “le dichiarazioni del presidente Erdogan sul presidente Macron sono inaccettabili. Le invettive personali non aiutano l'agenda positiva che l'UE vuole perseguire con la Turchia, ma al contrario allontanano le soluzioni. Piena solidarietà con il Presidente @EmmanuelMacron”. I prodotti francesi sono stati tolti dagli scaffali dei supermercati di Doha, la capitale del Qatar. Sui social network sono stati diffusi video che mostravano gli scaffali dei supermercati in Giordania svuotati dei prodotti francesi o sostituiti da quelli di altri paesi. I video sono stati accompagnati dall’hashtag #FranceBoycott o #OurProphetIsARedLine ("Il nostro profeta è una linea rossa"). Lunedì il ministro iraniano degli affari esteri, Mohammad Javad Zarif, ha accusato la Francia « di alimentare l’estremismo» e di “insultare 1,9 miliardi di musulmani e i loro elementi sacri”.  Il fuoco si è riacceso quando, martedì sera, la rivista satirica francese Charlie Hebdo ha pubblicato online la nuova copertina che raffigura Erdogan in mutande mentre solleva il velo di una donna. Su Twitter Fahrettin Altun, il portavoce di Erdogan, ha accusato il giornale di " razzismo culturale " affermando che "l'agenda anti-musulmana del presidente francese Macron sta dando i suoi frutti". Dopo aver condannato l’attentato di Nizza il portavoce ha scritto “il nostro Presidente ha sempre fatto appello alla cooperazione contro il terrorismo e l'estremismo. Rinnoviamo ancora una volta questo appello mentre rifiutiamo la retorica e le azioni dannose contro la nostra religione e la nostra cultura senza badare alla sua fonte ideologica”. La Francia dovrà dimostrare di saper far fronte a una pericolosa sovrapposizione di emergenze, stretta nella doppia morsa del terrorismo e di un’epidemia che sembra fuori controllo.

Coronavirus, il coprifuoco funziona? In Francia la crescita dei casi non si è fermata. Le iene News il 26 ottobre 2020. Da oggi l’Italia intera è interessata da nuove restrizioni: dalle 18 chiusi ristoranti e bar, stop a palestre e piscine, “fortemente consigliato” non ricevere nessuno a caso al di fuori della cerchia famigliare. Ma questo coprifuoco funzionerà? In Francia, dove è stato applicato in buona parte del paese da ormai 11 giorni, i dati peggiorano più lentamente ma la pandemia continua a correre. “Chiusure, non coprifuoco”. Ha descritto così il premier Giuseppe Conte le nuove restrizioni imposte ieri dal governo: bar e ristoranti chiusi alle 18, stop all’attività di palestre, piscine, teatri e cinema, didattica a distanza al 75% alle scuole superiori. E ancora, l’invito a non ricevere in casa persone esterne alla cerchia famigliare. In più, coprifuoco vero e proprio dalle 23 nelle zone dove il contagio corre di più, come in Lombardia. Insomma, se non è un coprifuoco poco ci manca. E il motivo purtroppo è sempre lo stesso: i nuovi casi di coronavirus corrono velocissimi. Solo oggi si sono registrati 17.012 contagiati e 141 morti. I ricoverati in terapia intensiva sono 76 in più, in totale 1.284. Il 12 marzo, quando già eravamo in lockdown, erano 1.153. Le nuove misure sono state adottate per cercare di contenere questi numeri drammatici, ma sono state criticate da più parti: c’è chi ritiene ingiusta la chiusura di palestre e cinema, chi invece pensa che le restrizioni siano insufficienti allo scopo. “Il virus dilaga incontrollato, servono lockdown locali”, ha dichiarato il consulente del ministro della Salute, Walter Ricciardi. La perplessità insomma è una: queste misure saranno sufficienti a contrastare la corsa della pandemia? Per capirlo possiamo guardare all’unico esempio in cui simili restrizioni sono già state applicate da tempo: la Francia, che ormai da 11 giorni ha posto sotto pesanti limitazioni la regione di Parigi e altre importanti città come Lille, Lione, Tolosa e Marsiglia. Dalle 21 alle 6 in queste zone restano chiusi teatri, cinema, ristoranti e bar. Non è proibito circolare, ma per farlo serve una valida ragione da documentare tramite autocertificazione: insomma, misure molto simili a quelle varate dal nostro governo. La decisione del presidente Macron è stata annunciata il 16 ottobre: quel giorno, secondo i dati ufficiali forniti dal governo, la Francia ha registrato 25.086 casi. Il 25 ottobre, dieci giorni dopo l’inizio del coprifuoco e quindi dopo un periodo di tempo sufficiente a misurare i primi effetti della misura, se ne sono registrati 52.013. Più del doppio. Anche guardando i numeri degli ospedali, la situazione non sembra rosea: il 16 ottobre si contavano 10.042 ricoverati e 1.800 pazienti in terapia intensiva. Il 25 ottobre erano registrati 16.477 ospedalizzati e 2.584 persone in rianimazione. Un peggioramento che viene misurato chiaramente anche dal tasso di occupazione dei posti in terapia intensiva: il 16 ottobre era del 35.4%, il 25 ottobre ha raggiunto il 50.9%. Il coprifuoco, comunque, non è su scala nazionale ma limitato ad alcune regioni. Ma anche guardando i dati, ad esempio, di Parigi, la situazione non è migliorata significativamente: il 16 ottobre c’erano 604 ospedalizzati e 128 pazienti in terapia intensiva. Il 25 ottobre erano registrati 906 ricoverati e 186 persone in rianimazione. Una situazione che sta mettendo enormemente sotto pressione gli ospedali: il 16 ottobre il tasso d’occupazione delle terapie intensive era del 46.8%, il 25 ottobre è arrivato al 65.5%. A essere ancora preoccupante a livello nazionale è il tasso di positività dei tamponi: se il 16 ottobre ogni 100 test, 13.6 erano positivi, al 22 ottobre (ultimo dato disponibile) si era già raggiunta quota 17. Non tutti i numeri, comunque, sono negativi: per esempio dall’entrata in vigore del coprifuoco l’Rt del contagio, ovvero il numero di replicazione effettivo, è stabile intorno all’1,38%. Questo significa che la pandemia sta accelerando in modo stabile, anziché esponenziale, ed è il primo passo per riportare sotto controllo i numeri di nuovi contagiati. Un primo passo che però sembra non essere sufficiente. Il capo del comitato tecnico scientifico francese, il dottor Jean-Francois Delfraissy, ha annunciato oggi che di fronte ai numeri ancora crescenti ci sono solo due opzioni: un coprifuoco più duro e più esteso, oppure un lockdown “leggero”. Insomma, per adesso in Francia le misure prese non sono state sufficienti a contenere la pandemia. E si vede chiaramente dal grafico elaborato dalla Johns Hopkins University: negli ultimi sette giorni, tutti in coprifuoco, la curva ha continua a salire. Il nostro simil-coprifuoco sarà sufficiente a scongiurare un lockdown? Per saperlo, è necessario aspettare almeno una decina di giorni. E incrociare le dita, mentre continuiamo a rispettare tutte le misure di prevenzione.

«Noi, nella Parigi svuotata dal coprifuoco anti-covid, pensando all'estate dei turisti nomask». Da sabato scorso nella capitale francese e in altre otto città vige il coprifuoco che potrebbe durare fino a sei settimane. Abbiamo chiesto come si vive a chi ci abita. Tra app di tracciamento che hanno fallito, delusione per la politica e comportamenti sconsiderati. Claudia Chieppa e Chiara Manetti su L'Espresso il 20 ottobre 2020. Bisogna tornare al 2005 e alla rivolta delle banlieue per assistere all’imposizione di un coprifuoco a Parigi simile a quello scattato dalla mezzanotte di sabato scorso nell’Ile de France e in altre otto città. Una misura drastica che fa seguito a quella presa due settimane fa dal Governo: chiudere tutti i bar a causa dell’elevato numero di contagi che viaggiano ormai in Francia intorno ai 30mila nuovi casi al giorno. Nelle zone interessate dalla nuova misura restrittiva, dalle 21 alle 6 del mattino, i cittadini non possono circolare se non muniti di un’autocertificazione valida. Senza di essa la multa per chi viola il coprifuoco è di 135 euro, ma può arrivare fino a 3.750 in caso di tre recidive. «Nella boutique in zona Opéra dove vendo prodotti italiani, ho anche clienti che vengono a mangiare un paio di volta alla settimana, ma solitamente non si fa tardi e per le nove chiudo», racconta Amedeo all’Espresso. «Ai miei colleghi ristoratori, invece, il coprifuoco causa dei guai perché chiudere a quell’ora fa saltare tutta la serata. Molti si stanno organizzando per anticipare la cena, ma i parigini non sono abituati a mangiare così presto. È un’altra grande scossa per tutto il comparto della ristorazione, già messo a dura prova dalla diffusione dello smart working». Prima del lockdown di marzo, infatti, il quartiere intorno all’imponente Opéra Garnier era la meta immancabile dei turisti (che quest’estate hanno latitato) e degli impiegati degli uffici del IX arrondissement. «Il lavoro per come andava prima del Covid non ha mai ripreso. Ora più del 50 per cento sono in smart working per cui si è dimezzato anche il nostro introito. Io posso sfruttare il servizio d’asporto, però anche così potrò colmare solo una piccola parte delle perdite», conclude Amedeo. La pandemia sta ridisegnando il volto della capitale parigina solcato dai suoi grandi boulevard, dalle sue mille luci, dalla vita notturna intorno al Moulin Rouge o a Pigalle. Gli Champs-Elysées vuoti hanno un’aria spettrale, niente turisti ad affollare i negozi del centro. Cinema e teatri devono adeguarsi alle nuove misure e hanno chiesto (invano) che i biglietti degli spettacoli potessero essere considerati un documento giustificativo per gli spostamenti dopo le nove di sera. «Hanno cercato di ottenere una deroga in modo da provare a organizzare degli spettacoli dalle 19 alle 21, ma senza successo», dice la regista francese Anne Véron. «Il cinema può lavorare di pomeriggio anche se è di sera che si genera il maggior volume d’affari. E con le misure di distanziamento sociale possono entrare solo pochi per volta. Per i teatri e l’opera è ancora più complicato perché lavorano solo di sera». Con le sue 16 linee della metro e i suoi 2 milioni di abitanti, Parigi costringe i pochi lavoratori che ancora devono spostarsi nella capitale a fare i conti con il sovraffollamento dei mezzi pubblici. «Prima non facevo orari d’ufficio e non me ne rendevo conto, ma spesso la metro è piena e le distanze di sicurezza non vengono rispettate. Ormai, però, fa troppo freddo per andare in bici» dice Alessandro, 29 anni, da due a Parigi insieme alla sua ragazza Federica. Tuttavia nessuna delle nuove restrizioni riguarda i trasporti. Un’altra questione è quella dei tamponi: il Presidente Emmanuel Macron si è scusato nel suo discorso alla nazione di mercoledì 14 ottobre per la lentezza con cui venivano forniti i risultati e ha promesso che i più rapidi test antigenici sarebbero stati presto disponibili. Inoltre, come spiega Alessandro, che ha seguito il discorso in diretta tv dal suo appartamento, «l’applicazione “StopCovid” (l’equivalente francese di “Immuni”, nda) aveva registrato un totale di 493 positivi in tutta la Francia», contro i 22mila del Ministero della Salute. La sfiducia nei confronti di Macron continua a salire: «Dall’inizio della pandemia le istruzioni sull’uso dei dispositivi di protezione individuale sono state molto confuse e questo ha creato diffidenza nei confronti del Governo» spiega Marine, ingegnere aeronautico che vive a Vitrolles, nell’area metropolitana di Aix-Marseille, una delle zone di massima allerta colpite dal coprifuoco. Racconta che prima dell’annuncio di Macron alcuni connazionali hanno iniziato a fare scorte e si sono rifugiati in campagna. Altri hanno ignorato le misure di sicurezza. «Quest'ultima categoria era in preoccupante aumento: rifiutavano di indossare la mascherina negli spazi pubblici e stavano perdendo le abitudini di marzo». Quest’estate Marine ha fatto un viaggio nel Sud della Francia. In una situazione normale sarebbe andata all’estero, ma è incinta e la paura del contagio le ha fatto cambiare idea. Come lei molti connazionali hanno trascorso le vacanze in patria, ma «forse con più misure di contenimento, come il divieto di lasciare la propria regione, i contagi ora non sarebbero così alti. La nostra è una zona turistica, e quest’anno lo è stata ancora di più. I francesi si sono spostati qui e il virus si è spostato con loro».

Francesca Pierantozzi per ''Il Messaggero'' il 16 ottobre 2020. Una pura coincidenza sul calendario, assicurano i magistrati: «la data era fissata da tempo». Per il governo francese, non poteva essere un momento peggiore: all'indomani dell'intervento di Emmanuel Macron che ha annunciato il coprifuoco sanitario per contrastare una seconda ondata dell'epidemia quasi fuori controllo, i gendarmi dell'Ufficio Centrale per la lotta contro i danni all'ambiente e alla salute pubblica, sono entrati nelle case e negli uffici della squadra di governo per verificare se errori gravi, fatali, colpevoli, siano stati commessi nella gestione della crisi sanitaria. Ieri mattina gli agenti si sono presentati nelle case e negli uffici dell'ex premier Edouard Philippe, dell'attuale ministro della Sanità Olivier Veran, della ministra che lo aveva preceduto, Agnès Buzyn, e poi del direttore della Sanità, Jérome Salomon, della ex portavoce del Governo Sibeth Ndiaye e della direttrice generale dell'Agenzia per la Salute Pubblica Geneviève Chêne. Su tutti la Corte di Giustizia della Repubblica unica istanza a poter giudicare dei ministri ha aperto un'inchiesta il 7 luglio per determinare se siano state commesse infrazioni penali nella gestione della crisi. Il capo di accusa su cui si lavora è lo stesso per tutti: «omissione nel combattere una calamità». Gli inquirenti dovranno stabilire se i responsabili politici francesi non abbiano volontariamente omesso di prendere misure sanitarie di cui erano a conoscenza e che avrebbero potuto contrastare con più efficacia l'epidemia, che in Francia ha provocato finora più di 33mila morti. Le prime denunce sono arrivate alla Corte di Giustizia a marzo, quando la Francia si chiuse nel lockdown per far fronte alla prima ondata. Delle circa cento denunce arrivate da familiari delle vittime, infermieri, medici, personale di case di riposo, 9 sono state accolte dalla Corte. Per ora, una sola denuncia riguarda l'attuale primo ministro Jean Castex, che ha sostituito Philippe il 3 luglio per prendere in mano la fase due del deconfinamento e, adesso, anche la gestione della seconda ondata della crisi. «Vogliamo tutte le email che Buzyn scambiò con Philippe, visto che lei ha sempre sostenuto di averlo avvertito in anticipo (della gravità dell'epidemia, ndr) e vogliamo anche tutte le note che la direzione della Sanità inviò allora al primo ministro» spiega Fabrice Di Vizio, l'avvocato che ha presentato il primo ricorso. Buzyn lasciò a febbraio il ministero della Sanità a Veran per diventare candidata di En marche nella corsa a sindaco di Parigi (che ha visto la riconferma di Anne Hidalgo). Il 17 marzo, due giorni dopo il deludente terzo posto ottenuto al primo turno delle elezioni, l'ex ministra disse a le Monde di aver allertato il governo sui rischi dell'epidemia fin dall'11 gennaio. L'inchiesta dovrà verificare anche l'operato dei ministri durante la crisi, in particolare la gestione molto discussa degli stock strategici di mascherine, che si rivelarono al momento del bisogno essere quasi a zero. Nelle denunce il governo è accusato di aver preso «misure incoerenti» e di aver «ignorato le raccomandazioni dell'Oms». Il procuratore di Parigi ha comunque tenuto a precisare che l'inchiesta non «deve stabilire responsabilità politiche o amministrative, ma soltanto portare alla luce eventuali infrazioni penali». «E' la procedura normale, questo dimostra che non ci sono due giustizie a due velocità ha commentato la deputata di En marche Marie-Christine Verdier-Jouclas Ma non vorrei che questo facesse passare in secondo piano il messaggio più importante», ovvero le nuove misure per contrastare l'epidemia. Ieri il premier Castex ha spiegato le nuove modalità del coprifuoco che entrerà in vigore stasera a mezzanotte. Più di 12mila agenti dovranno controllare che i circa 20 milioni di francesi residenti nelle 8 aree metropolitane Parigi compresa coinvolti dal lockdown notturno restino a casa tra le nove di sera e le sei del mattino. Ma anche Castex ha già ricevuto la prima denuncia dal collettivo delle vittime Coronavirus France: lo accusano di «navigare a vista».

Come mai in Francia il virus dilaga (e perché in Italia è diverso). Federico Giuliani su Inside Over il 12 ottobre 2020. Non si arresta la diffusione del coronavirus in Francia, dove nelle ultime 24 ore sono stati registrati 26.896 nuovi casi positivi, con un deciso balzo in avanti rispetti ai 20.339 di ieri, quando era stata superata per la prima volta la barra dei 20mila casi. I decessi si sono invece stati 54, mentre il tasso di positività (Percentage Positive, PP) sui test effettuati è schizzato all’11%. Due sono tuttavia gli aspetti da considerare. Primo: l’elevato numero di casi dipende per buona parte anche dall’altrettanta elevata quantità di test effettuati, superiore rispetto a quella delle ultime settimane. Secondo: gli esperti sono preoccupati dal citato PP, visto che le percentuali francesi continuano ad aumentare: 9,8% giovedì, 10,4% venerdì e, appunto, 11% ieri, sabato 10 ottobre. Ricordiamo che il tasso di positività viene calcolato come nuovi test positivi sul totale dei test effettuati. Il risultato è una percentuale che mostra quanti test giornalieri sono risultati positivi rispetto alla quantità di persone testate. Solitamente il suo valore viene utilizzato per stimare l’incidenza di una malattia infettiva, ovvero quanti nuovi casi si creano in un determinato periodo. Quando il PP supera una certa soglia, definita “di allarme”, significa che il numero di test effettuati non basta a scovare tutti i casi giornalieri. Ebbene, considerando che parlando di Covid-19 tale soglia è stata piazzata attorno al 5% e leggendo gli ultimi dati francesi, appare evidente come la Francia debba fare i conti con un problema piuttosto serio. A Parigi e dintorni, infatti, il tasso di positività ha più che raddoppiato la soglia di allarme del 5%.

Gli errori francesi (da non ripetere). La Francia è stata travolta da simili numeri per varie ragioni. Intanto bisogna considerare che nel periodo estivo, un po’ come avvenuto in tutto il resto dell’Europa, i francesi hanno speso le loro ferie per andare in vacanza, tanto in patria quanto all’estero. Un discreto numero di persone si è così spostato, spesso dimenticando di rispettare le misure di sicurezza anti Covid (distanziamento sociale, mascherina, lavaggio delle mani). Il ritorno a casa ha portato, inevitabilmente, a un’impennata di positività. Il colpo di grazia, tuttavia, potrebbe essere arrivato non tanto dal turismo, settore moribondo da ripristinare al più presto, quanto da altre due motivazioni. Gli esperti puntano il dito contro il poco efficace sistema di tracciamento degli infetti attuato da Parigi, ricco di errori e ritardi, al quale si aggiunge la decisione di ridurre la quarantena da 14 a 10 giorni per chi ha il Covid ma è senza sintomi. Per alcuni ricercatori, questi soggetti asintomatici potrebbero essere ancora contagiosi. E potrebbero essere stati loro ad appesantire i bollettini sanitari francesi con diversi nuovi casi in più.

Il numero di tamponi. Oltralpe la situazione è preoccupante, non solo dal punto di vista prettamente numerico. A Parigi e nell’Ile-de-France gli slot della terapia intensiva si stanno lentamente riempiendo (siamo intorno al 50% della capacità effettiva). Il governo considera zone rosse la capitale ma anche Marsiglia, Aix-en-Provence e l’isola di Guadalupe. Lione, Lille, Saint-Etienne e Grenoble sono entrate in allerta massima, con bar e sale per feste chiusi, ingressi limitati in negozi e centri commerciali, oltre ai divieti di assembramento e il rispetto del distanziamento sociale nei ristoranti. Certo è che in tutto il Paese, al netto dell’ingente numero di tamponi, sono stati riscontrati 124 nuovi focolai nelle ultime 24, per un totale di 1362 cluster. Il governo francese ha escluso un lockdown nazionale anche se aleggia l’ombra di un lockdown locale. Quanto sta accadendo in Francia dovrebbe interessare molto all’Italia. Prendiamo il numero di tamponi effettuati dall’Italia: questo valore è inferiore rispetto a quello registrato da altri Paesi europei. Ieri i tamponi effettuati da Roma sono stati 133.084, mentre venerdì 129.471. Il tetto dei 100mila è stato sfondato soltanto il 2 settembre, dopo la media dei 59mila tamponi al giorno dello scorso agosto. Dovendo fare un confronto con i vicini dell’Italia, e prendendo i dati degli ultimi sette giorni, nel nostro Paese ogni mille persone ne viene testata una. In Germania, Spagna e Francia arriviamo a due; nel Regno Unito quasi a tre. Alla luce di tutto ciò, insomma, è lecito aspettarsi un ulteriore aumento dei contagi sul territorio italiano. Ma attenzione, perché l’andamento di un’epidemia non dipende soltanto dalla voce “nuovi positivi”.

ANAIS GINORI per repubblica.it l'8 maggio 2020. Decine di milioni di mascherine chirurgiche bruciate perché considerate scadute. A pochi giorni dall'inizio della fase 2, il quotidiano Le Monde rivela un nuovo scandalo che imbarazza il governo. Lo Stato ha distrutto negli ultimi anni le scorte di mascherine. "Erano inutilizzabili" risponde il ministro della Salute, Olivier Véran. La decisione di distruggere le mascherine sarebbe stata presa nel tempo, dopo perizie che avrebbero giudicato inservibili le vecchie mascherine, o perché non più in grado di filtrare o perché danneggiate dall'umidità. Ma buona parte di quegli stock, dicono testimoni citati nell'inchiesta, era ancora valida e sarebbe stata preziosa in un momento di grave penuria. La maggior parte delle riserve era stata comprata tra il 2005 e il 2006, come misura precauzionale dopo l'epidemia Sars in Cina. Ma dieci anni dopo, ben 616 milioni di quei prodotti sono bollate come vecchie e lentamente distrutte. A fine marzo, lo Stato scopre così di averne solo 117 milioni nei suoi depositi: 98 milioni comprati tra il 2014 e il 2016, e 19 milioni salvati alla distruzione programmata. Perché - ed è forse il dettaglio più clamoroso dell'inchiesta di Le Monde - una parte delle riserve pubbliche sono state incenerite anche quest'anno fino a primavera, con l'epidemia ormai in corso, quando medici e infermieri erano già alla disperata ricerca di dispositivi di protezione contro il virus. "Una parte delle scorte obsolete è stata recuperata al momento dell'epidemia" ammette Véran che continua a farsi scudo dal parere tecnico su mancata sicurezza a livello sanitario dei dispositivi più vecchi. Le rivelazioni fanno male, tanto più che la penuria continua e sarà ancora più forte con la ripresa che comincia lunedì. Le forze dell'ordine denunciano di non avere mascherine chirurgiche così come tanti altri funzionari pubblici. Anche i cittadini faticano a trovarne. Il governo incoraggia la produzione di mascherine alternative, di stoffa lavabili, anche se molti esperti sostengono che non hanno lo stesso livello di protezione. Il paradosso è che fino a qualche anno fa la Francia aveva costituito un'immensa riserva strategica, con 2,2 miliardi di mascherine, in seguito all'allarme della Sars e dell'influenze H1N1, salvo poi diminuirle, cancellarle nelle spending review dei governi, distruggerle nell'ottusità della burocrazia. E l'ex ministra della Sanità, Roselyne Bachelot, attaccata nel 2009 per aver deciso di ordinare i miliardi di mascherine come "scorte di precauzione", ora viene citata come esempio di lungimiranza che altri politici francesi non hanno avuto.

Quell’errore che ha condannato la Francia. Andrea Massardo su Inside Over il 6 maggio 2020. In un momento come quello che si sta vivendo attualmente, quasi tutti i Paesi del Mondo vorrebbero avere tra le loro mani un protocollo già studiato e delle procedure mediche da mettere in campo per prevenire con accuratezza sia la diffusione sia la mortalità di una pandemia. Ci sono volute settimane prima che i governi mondiali capissero in che modo ostacolare l’avanzamento nella popolazione del Covid-19, con risultati spesso altalenanti e contraddittori. E dopo tre mesi dalla comparsa – almeno accertata – del patogeno in Europa, ancora si è nel tempo del confinamento, delle mascherine e della prevenzione dal rischio di contagio. Quasi tutti i Paesi vorrebbero quel documento, ma uno di essi rimpiange in modo particolare quel profondo ed attento protocollo che avrebbe salvato la vita di migliaia di persone: il riferimento è alla Francia di Emmanuel Macron.

Quel piano segreto che è stato archiviato. Erano gli anni 2000, più o meno in concomitanza con il parente più vicino al Covid-19, la SARS, quando nella Francia di Jacques Chirac si iniziò a studiare un protocollo volto a salvaguardare la popolazione francese dallo scoppio di una pandemia. Tale documento, come riportato dall’indagine della testata giornalistica francese Le Monde, e l’applicazione delle sue procedure sia prima che durante lo scoppio della crisi avrebbe potuto mettere al riparo decine di migliaia di persone, e salvarne almeno qualche migliaio. Tuttavia, il progetto a lungo rimasto inutilizzato è stato alla fine definitivamente archiviato, all’interno delle politiche di spending review portate avanti dalle amministrazioni successive.

Guanti e mascherine per tutti. All’interno del programma di salvaguardia della popolazione dallo scoppio di una pandemia, c’era la necessità di mettere a punto un sistema sanitario da dispiegare all’occorrenza che sarebbe entrato in azione se le cose fossero sfuggite di mano. Non solo però: lo stesso Stato si sarebbe dovuto dotare di mascherine e guanti in quantità sufficiente da permettere a ogni cittadino francese di tutelare la propria persona ed i propri familiari, senza incappare nel rischio di una rottura di stock che rendesse le merci irreperibili: cosa che invece è puntualmente avvenuta nelle scorse settimane. Inoltre, stando al piano d’azione le misure dovevano essere messe in atto sin dal principio, al fine di rendere più circoscrivibili i focolai e limitarne la diffusione nel Paese. In questo modo, la parte ancora “sana” avrebbe potuto lavorare senza le imposizioni del lockdown, salvaguardando anche l’aspetto economico della vita dei cittadini francesi (e rendendo meno esosi gli interventi economici da parte della Francia).

La mancanza di un piano ha condannato la Francia. Il non aver avuto un piano studiato e ben congegnato da seguire nei primi e più cruciali giorni dalla scoperta della presenza del patogeno sul territorio francese ha segnato la condanna a morte per – al momento – almeno 25mila persone. Se tale programma segreto fosse stato mantenuto e di conseguenza attuato, si sarebbero risparmiato il tempo perso nei primi giorni per studiare un piano d’azione che alla fine è risultato comunque fare buchi da tutte le parti. E soprattutto, la scelta di proseguire con la campagna elettorale e le votazioni per le amministrative sarebbe stata messa da parte sin da subito, senza quel tentennamento iniziale che poi ha obbligato il governo di Edouard Philippe a finire il giro di consultazioni.

Sebbene l’archiviazione di tale protocollo non sia una colpa imputabile a Macron, sicuramente sul non averlo riesumato – o l’esserne stato all’oscuro nonostante la sua posizione – qualche critica sarebbe possibile muovergliela. Soprattutto, considerando il basso grado di preparazione ad una crisi sanitaria che ha dimostrato di avere il Paese e, soprattutto, a causa dell’altissimo numero di vittime che in questo momento sta piangendo la Francia – mentre la crisi non è ancora nemmeno completamente passata.

Da “Ansa” il 23 aprile 2020. Le tensioni attuali in alcune banlieue e quartieri popolari della Francia sono dovuti «all'effetto della durezza del confinamento»: lo ha detto il ministro francese dell'Interno, Christophe Castaner, sottolineando che ci sono « diverse cause» alle violenze delle ultime notte in banlieue, in particolare, nell'hinterland di Parigi. Tra le cause, ha dichiarato, c'è «l'effetto di confinamento, la durezza del confinamento per questi giovani, gran parte dei giovani». «Sono piccoli gruppi che credono sia un gioco attaccare le forze dell'ordine, incendiare cestini. Non è un gioco, è rischioso prima di tutto per loro stessi». Ponendo l'accento sulle condizioni, a volte difficili, della vita in banlieue, il ministro ha sottolineato che la «risposta giusta non è spaccare o bruciare l'auto del vicino». Ha poi garantito che le forze dell'ordine intervengono «sistematicamente» per tutelare l'ordine del pubblico e ha sottolineato la necessità che il governo «accompagni i giovani». Come ieri la portavoce dell'esecutivo, Sibeth Ndiaye, anche Castaner ha «condannato» le violenze, ribadendo che «l'ordine repubblicano deve essere presente dappertutto».

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 23 aprile 2020. Le scuole, i trasporti, le frontiere e le attività economiche, gli stock strategici di mascherine, il tracciamento dei contagi e i test: in totale sono 17 i cantieri aperti dal premier Edouard Philippe per avviare la fase due della gestione dell'epidemia in Francia. La riapertura, annunciata per l'11 maggio da Emmanuel Macron aspetta il suo piano: «tra due settimane» aveva detto il presidente il 13 aprile, «tra quindici giorni», ha ripetuto Philippe il 26, l'altro ieri fonti del Governo parlavano di «almeno un'altra settimana» per avere misure e un calendario più precisi, altri pensano che non si saprà niente prima del primo maggio. Macron non può sbagliare. La gestione per la fase uno gli vale già molte critiche: c'è il sospetto di aver nascosto la penuria di materiale sanitario e test, l'accusa di aver tergiversato sui tempi del lockdown e un bilancio dell'epidemia che ormai supera i 20mila morti. Poco importa che altri paesi sembrano aver fatto peggio. Ieri il Financial Times ha avanzato addirittura la cifra di 41mila possibili vittime nel Regno Unito (a fronte delle 18.100 ufficiali), incrociando i dati con quelli sulla mortalità generale dell'istituto nazionale di statistica. Eppure solo il 13 per cento dei francesi pensa che il governo sia riuscito a «gestire la crisi sanitaria meglio della maggior parte degli altri paesi». «Siamo sotto pressione» hanno ammesso ieri con Le Monde fonti del governo. La pressione si sente anche nei sondaggi. In un mese gli insoddisfatti per la gestione della crisi sanitaria sono passati dal 46 al 58 per cento. La popolarità di Macron, sempre molto inferiore a quella dei suoi vicini, da Merkel a Conte, ricomincia a calare ed è passata dal 43 per cento di metà marzo al 39 per cento di due giorni fa. Ma è soprattutto l'umore generale della Francia a preoccupare. Sotto la cenere di un paese chiuso in casa, cova il fuoco delle tradizionali rivolte sociali: ben il 45 per cento dice di provare rabbia per la situazione, che vede ormai oltre 10 milioni lavoratori in cassa integrazione. Il tradizionale fronte anti-Macron, cresciuto con la rivolta dei gilets jaunes e poi con il movimento contro la riforma delle pensioni, non ha perso vigore con l'epidemia: la sfiducia nei confronti del presidente e del suo governo sfiora il 70 per cento tra gli operai, i disoccupati e i piccoli imprenditori. E arriva quasi all'80 per cento all'estrema destra e all'estrema sinistra, tra gli elettori di Marine Le Pen o Jean-Luc Mélenchon. Nelle periferie più calde la tensione comincia a uscire dal confinamento. Da quattro giorni incidenti con le forze dell'ordine si moltiplicano nelle periferie nord di Parigi, e nei quartieri popolari di Strasburgo, Lione e Tolosa. La miccia è stata, sabato, lo scontro di un'auto della polizia con un motociclista a Viellenueve la Garenne, a nord ovest di Parigi. Ieri, una scuola elementare è stata incendiata poco lontano, a Gennevilliers. Dal suo letto d'ospedale, il motociclista ferito un trentenne con diversi precedenti giudiziari ha lanciato un appello alla calma. Per evitare accuse di autoritarismo e di aprire un nuovo fronte anche con l'opposizione politica, il premier Philippe ha deciso di sottoporre al voto dell'Assemblée Nationale le misure del de-confinamento e in particolare StopCovid, l'app per la gestione del contact tracing sulla quale sta lavorando il governo e che provoca non pochi malumori anche tra i deputati della maggioranza di En Marche.

EURONEWS il 16 aprile 2020. La bomba virale è stata parzialmente disinnescata con il rientro della portaerei francese Charles de Gaulle in porto a Tolone. Sulla nave, che rischiava di trasformarsi in un Lazzaretto galleggiante, 668 su 2.100 membri dell'equipaggio (1.900 della portaerei e 200 della fregata di accompagnamento) sono risultati positivi al test Covid 19. 31 sono ricoverati in ospedale, uno in terapia intensiva. I dati - diffusi dal Ministero della Difesa francese - sono approssimati e per difetto perché si attende ancora il 30% dei risultati del tampone. L'equipaggio è stato messo in quarantena nella base militare di Tolone. La ministra delle Difesa, Florence Parly, ha mandato un messaggio di sostegno ai marinai e alle loro famiglie. Le navi sono state sanificate. L’origine del contagio non è conosciuta. Le persone a bordo non erano in contatto con elementi esterni dallo scalo a Brest, dal 13 al 15 marzo. La portaerei ha interrotto la missione di tre mesi nel Mediterraneo centrale, nell'Atlantico e nel mare del Nord. Il rientro alla base è stato anticipato di una decina di giorni. Il gruppo aeronavale era in missione dal 21 gennaio e aveva passato diverse settimane nel Mediterraneo nell’ambito dell’operazione Chammal, la parte francese dell’operazione internazionale antijihad Inherent Resolve, in Iraq e Siria. Poi ha navigato nel mare del Nord e nell’oceano Atlantico in operazioni di sicurezza e di difesa di avvicinamenti marittimi europei.

Mauro Indelicato per "ilgiornale.it" il 14 aprile 2020. Sembrano lontani adesso i tempi in cui i francesi si prendevano beffa degli italiani, con lo spot sul “Corona Pizza” trasmesso su Canal+, poi prontamente rimosso ad onor del vero, in cui l’Italia era vista come “Paese untore” del coronavirus in tutta Europa. Oggi sono gli stessi francesi ad essere caduti vittime dei pregiudizi legati all’epidemia da Covid-19, con diversi episodi segnalati in cui i cittadini transalpini risultano essere stati presi di mira dai tedeschi. In particolare, è nella regione confinante del Saarland che i francesi sembrano non poter avere più vita facile. Qui le comunità dei due Paesi confinanti vivono pacificamente da diversi anni, senza particolari episodi di tensione. Diversi francesi lavorano qui e viaggiano quotidianamente come transfrontalieri, un po’ come accade ad esempio tra la Lombardia ed il Canton Ticino. Ebbene, sui social sono sempre di più coloro che denunciano di non potersi più recare dalla Francia al Saarland in quanto insultati od addirittura aggrediti dai tedeschi. Un episodio emblematico sarebbe accaduto, come si legge su Libero, in una farmacia poco oltre il confine: una cittadina francese ha denunciato che, alla richiesta di un farmaco da acquistare, le è stato rivolto dal bancone l'invito a comprare quanto desiderato in Francia. Un invito quindi a non mettere più piede nel Saarland, segno del timore dei cittadini locali di contrarre il virus a causa della presenza dei francesi. Con la Germania che ha iniziato già a discutere delle possibili manovre per la riapertura post crisi coronavirus, molti tedeschi hanno quindi visto i francesi come possibili “untori” per i contagi di ritorno. In Francia infatti la luce in fondo al tunnel dell’epidemia ancora non si vede: da giorni la curva epidemiologica sembra appiattirsi, ma lunedì sera il presidente Emmanuel Macron ha annunciato il prolungamento dello stop alle attività non essenziali fino al prossimo 11 maggio. Segno di come la situazione al momento non sia affatto sotto controllo. Ed intanto i francesi che vanno nel Saarland sono costretti a tornare indietro. Sempre sui social, sono stati segnalati lanci di uova al loro indirizzo oppure addirittura sputi da parte dei passanti. Una circostanza che ha costretto da Berlino il ministro degli esteri tedesco, Heiko Mass, ad intervenire: “Il coronavirus non ha nazionalità – si legge nelle sue dichiarazioni – e tali comportamenti non sono tollerabili, perché siamo tutti nella stessa barca”. Ad intervenire è stato anche il ministro dell’economia del Saarland, Anke Rehlinger: “Si sente dire che i francesi sono insultati e che vengono lanciate uova contro di loro – si legge nelle sue dichiarazioni su Twitter – Chiunque faccia questo offende l'amicizia tra i nostri popoli. Porgo le mie scuse ai nostri amici francesi per questi incidenti isolati”. Episodi isolati forse, ma non rari. La paura di vedere il Saarland trasformarsi in una sorta di Lombardia tedesca sotto il profilo dell’emergenza sanitaria, è tale da far ritenere i francesi come possibili untori. Una nomea che, anche ad epidemia conclusa, sarà difficile adesso scrollarsi di dosso.

Dottoressa si scaglia contro Macron: il video diventa virale in Francia. L’Eliseo è stato accusato di avere diffuso una versione “tagliata” del video, risalente al 9 aprile e girato mentre Macron visitava un ospedale. Gerry Freda, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. In Francia sta spopolando un video che ritrae il presidente Macron, in visita a un ospedale parigino, mentre viene bersagliato di critiche da una dottoressa, che denuncia la scarsità di risorse a disposizione del sistema sanitario per fronteggiare l’epidemia di Covid. Le riprese in questione risalgono al 9 aprile ed erano già state mandate in onda sulle emittenti d’Oltralpe, ma in una versione “censurata”. L’Eliseo aveva allora diffuso soltanto le immagini meno compromettenti della visita del leader di En Marche presso quel nosocomio della Ville Lumière, ossia solo quelle che immortalavano il capo di Stato mentre applaudiva il personale sanitario impiegato presso tale struttura. La versione integrale del video, ha affermato ieri il Daily Mail, è stata resa pubblica in questi giorni da un sindacato di camici bianchi francesi, l’Usap-Cgt. Nei nuovi spezzoni si nota Macron, recatosi lo scorso 9 aprile presso l’ospedale parigino di Le Kremlin-Bicetre, venire improvvisamente criticato da una voce proveniente da una balaustra installata in un atrio dell’edificio. Su quella balconata, una dottoressa, circondata da tanti suoi colleghi con indosso le tute da sala operatoria e con le braccia incrociate, viene infatti ripresa mentre si scaglia verbalmente contro l’inquilino dell’Eliseo. Il presidente francese, rivolgendosi al medico donna, comincia quindi ad ammettere che il servizio sanitario nazionale è stato vittima di un pesante sotto-finanziamento per tuti gli ultimi 15 anni, precisando però di non volere prendersi colpe non sue sempre riguardo alle carenze della sicurezza sociale d’Oltralpe. Dopo tali parole del leader di En Marche, prosegue il video descritto dal giornale britannico, la dottoressa prorompe in una forte invettiva contro il capo di Stato, invocando rispetto per la professione medica e denunciando il fatto che gli operatori sanitari transalpini si stanno sacrificando per sconfiggere il coronavirus pur essendo esposti al costante rischio di ammalarsi gravemente: “Lei sa bene che facciamo questo mestiere per vocazione. Noi lo facciamo perché semplicemente amiamo le persone. Siamo in un ospedale pubblico.” Nelle riprese in questione si vede allora Macron annuire a fronte delle prime frasi pronunciate dalla donna in piedi alla balaustra. Tuttavia, la dottoressa rincara la dose gridando le precarie condizioni economiche in cui verserebbero i camici bianchi d’Oltralpe malgrado la loro abnegazione: “Il personale sanitario vive in povertà e domani potremmo essere proprio noi stessi i nuovi malati costretti a letto. Quando abbiamo a che fare con crisi sanitarie così gravi, vorremmo potere dare una mano, ma con così poche risorse e con un personale letteralmente risicato non possiamo proprio.” Le immagini diffuse dal sindacato, spiega il quotidiano londinese, terminano con Macron che assicura alla donna arrabbiata di avere “imparato la lezione”.

Con la pubblicazione della versione integrale del filmato risalente al 9 aprile, fa sapere il medesimo organo di informazione, sono subito esplose nel Paese contestazioni all’indirizzo dell’Eliseo, accusato di avere volutamente tagliato degli spezzoni del video per non compromettere l’immagine del leader di En Marche. Isabelle Bernard, infermiera e sindacalista attiva proprio presso l’ospedale di Le Kremlin-Bicetre, ha quindi rivelato, afferma il Daily Mail, che i dipendenti del centro di cura, durante la visita del giovane capo di Stato, hanno anche provato ad avvicinarsi all’inquilino dell’Eliseo per rinfacciargli di non avere mai risposto alle denunce fatte finora dai professionisti della sanità in merito alla scarsità di fondi a disposizione di cliniche e nosocomi. La stessa sindacalista ha inoltre precisato che l’applauso immortalato dalle immagini “ufficiali” della visita a Le Kremlin-Bicetre diffuse dalla presidenza della repubblica non era per niente rivolto a Macron, ma era inteso a omaggiare l’impegno di medici e infermieri nella lotta al Covid. Ulteriori polemiche riguardo alla visita del capo di Stato attengono al fatto che, in quell’occasione, lo staff presidenziale aveva vietato ai dipendenti della struttura di scattare foto dell’evento o di fare riprese con il cellulare. Da tale rivelazione, riferisce il giornale londinese, ha preso quindi spunto l’associazione rappresentativa dei cronisti accreditati presso l’Eliseo per biasimare il leader di En Marche contestandogli di essere insofferente alla presenza di reporter e fotografi nel corso dei propri viaggi di Stato.

Leonardo Martinelli per lastampa.it il 9 aprile 2020. Claire vive un misto di ansia e dolore. Ma è anche una donna arrabbiata. Suo marito, Eric Loupiac, medico d’urgenza all’ospedale di Lons-le-Saunier, nel Jura francese, non lontano dal confine con la Svizzera, sta combattendo in rianimazione la sua battaglia contro la morte. «L’ho sentito al telefono l’ultima volta a metà marzo – racconta sua moglie -. Ha preso il coronavirus al pronto soccorso, ricevendo una signora, che poi si è rivelata positiva. Lui aveva una mascherina chirurgica, già utilizzata da tempo. E niente più». Eric era stato uno dei «volti» dell’associazione degli «urgentisti» di Francia, che nei mesi prima dell’epidemia aveva denunciato i tagli agli ospedali pubblici. Oggi Claire promette di «fare causa contro lo Stato e gli ultimi due ministri della Sanità». Lo hanno già fatto più di 600 medici o i loro familiari («Era tutto prevedibile, lo avevamo visto quello che succedeva in Italia, bisognava ordinare subito più mascherine e materiale sanitario», insiste Claire Loupiac). È in un contesto strano, tra annunci a ripetizione del Governo (i francesi sono così fieri della loro potente macchina organizzativa pubblica) e le polemiche sull’impreparazione iniziale che il Paese sta diventando uno dei grandi malati europei di Covid-19. Ieri sera, inesorabile, è caduto l’ennesimo bollettino: finora i decessi dovuti all’epidemia sono stati 10.869, ormai la Francia è dietro solo a Italia e Spagna nel Vecchio continente. Nelle ultime 24 ore negli ospedali sono morte di coronavirus 541 persone (poco meno dei 597 del giorno precedente). Ma a questi vanno aggiunte le vittime nei ricoveri per anziani, che per la giornata di mercoledì non erano disponibili per «ragioni tecniche», ha indicato il ministero della Sanità. Fino a martedì sera le morti nelle Rsa ammontavano già a 3.237. Insomma, quel bollettino di 541 decessi per l’ultimo giorno non è esaustivo. Intanto ieri le nuove ammissioni in rianimazione sono state 482, solo in lieve calo rispetto a martedì. La Francia procede a qualche giorno di distanza dietro i due grandi Paesi vicini. Ha avuto il tempo di riparare ai suoi ritardi, ma soltanto in parte. Ha ordinato due miliardi di mascherine in Cina e organizzato un ponte aereo per importarle progressivamente, ma mancano ancora negli ospedali. Pure per i test, è stato annunciato un formidabile aumento della produzione sul territorio nazionale, ma siamo ancora a 30mila al giorno (saranno 50mila solo a fine mese). Ieri, perfino nella portaerei Charles-de-Gaulle, in navigazione nell’Atlantico, sono stati segnalati una quarantina di casi sospetti, messi subito in isolamento. In Francia il coronavirus ha colpito duramente agli inizi nell’Est, in particolare in Alsazia, ma oggi la situazione più critica si registra a Parigi e nella sua regione, soprattutto nella periferia Nord, dove la popolazione è più giovane ma anche più povera. Emmanuel Macron parlerà nuovamente in diretta in televisione lunedì per annunciare il prolungamento del confinamento, al momento attuale previsto a livello nazionale fino al 15 aprile. I francesi sono preoccupati per i riflessi economici dell’epidemia. Ieri sono stati resi i dati relativi al primo trimestre dell’anno: il Pil è calato del 6%. Già aveva registrato una flessione dell’1 per cento negli ultimi tre mesi dell’anno scorso. Sì, il Paese è tecnicamente in recessione. E non finirà qui.

Da "Ansa" l'8 aprile 2020. Per la terza volta dall'inizio dell'epidemia Emmanuel Macron si rivolgerà ai francesi domani sera alle 20 con un discorso televisivo. Lo rivela Europe 1 precisando che il presidente farà il punto sullo stato del confinamento e il calendario delle misure restrittive e sulla situazione sanitaria globale in Francia. Ieri sera il paese ha superato il tetto dei 10mila morti per Covid-19. «Il confinamento deve perdurare diverse settimane a partire da ora»: è il parere del presidente del consiglio scientifico francese, Jean-Fran‡ois Delfraissy, intervistato da France Info. Oltralpe, la fine delle misure di confinamento decise dal presidente Emmanuel Macron è attualmente prevista per il 15 aprile, a circa un mese dall'entrata in vigore per debellare il cornavirus, anche se a questo punto una proroga dei blocchi sembra essere l'opzione piu probabile. «Allo stato attuale, da quanto sappiamo, possiamo discutere di quanto accadrà dopo, ma l'elemento essenziale è la continuazione di uno rigido confinamento su diverse settimane». «Ci sono elementi di ordine sanitario, di società, elementi economici. È un mix molto di difficile - ha proseguito il virologo - il sanitario ha la priorità ma non è l'unica cosa di cui si tiene conto». Per Delfraissy «tutto dipenderà anche dal tasso di tolleranza della popolazione».

Stefano Montefiori per "corriere.it" l'8 aprile 2020. La Francia supera la soglia delle 10 mila vittime ed è il terzo Paese europeo più colpito dopo Italia (17 mila 127) e Spagna (13 mila 798). Secondo il bilancio reso noto alle 20 di martedì 7 aprile le persone morte per l’epidemia di Covid-19 sono 10 mila 328, delle quali 7091 negli ospedali (597 nelle ultime 24 ore) e 3237 nelle case di riposo. Rispetto al giorno precedente le vittime nelle case di riposo sono 820 in più, una cifra notevole che secondo il direttore generale della Sanità va però messa in relazione con la difficoltà nella raccolta dei dati: «L’entità di questo aumento è probabilmente dovuto al ritardo nella contabilità dei decessi e al fatto che veniamo dal weekend appena trascorso», ha detto Jérome Salomon.

Il blocco continua. «Parlare oggi di uscita dal confinamento non ha alcun senso - ha aggiunto il professor Salomon nella consueta conferenza stampa serale in diretta tv -. Non abbiamo ancora raggiunto il picco e ci troviamo nella fase ascendente dell’epidemia, quindi dobbiamo impegnarci a rispettare il più possibile le regole del confinamento».

La situazione nelle case di riposo. È quella che allarma di più, dopo che nei primi giorni le vittime non venivano neppure conteggiate. Ora appare evidente che l’epidemia è molto diffusa negli istituti per anziani e le autorità cercano di correre ai ripari. Il direttore della Sanità ha detto che «le case di riposo hanno bisogno di rinforzi» e ha annunciato la mobilitazione della «riserva sanitaria» per fare fronte alla crisi.

Più controlli. Al 22° giorno di blocco i francesi cominciano a mostrare segni di impazienza, anche se la curva del contagio sembra seguire sempre la tendenza italiana, con 11 giorni di ritardo. Con il caldo e il bel tempo molti tendono a uscire di casa più di prima e il governo ha invitato sindaci e prefetti a prendere misure specifiche a seconda della situazione di ciascuna città. La sindaca di Parigi Anne Hidalgo ha annunciato che da mercoledì 8 aprile le strade saranno vietate ai runner dalle ore 10 alle 19. Una decisione presa per diminuire l’affollamento sui viali ma che secondo alcuni rischia di creare assembramenti prima e dopo la fascia oraria proibita. La sindaca Hidalgo ha poi annunciato che alle fermate degli autobus e della metropolitana saranno creati punti di distribuzione di gel disinfettante.

Da corrieredellosport.it il 3 aprile 2020. Il coronavirus in Francia, o almeno nei dintorni di Lione, per colpa della Juventus. La gara di Champions League dei bianconeri (andata degli ottavi di finale) sarebbe stato il "match-zero", così come Atalanta-Valencia di una settimana prima. Un moltiplicatore di contagi da evitare. Questo è almeno quello che sostiene uno responsabili dei medici della regione, come riportato dall'Equipe. "Quella partita non andava giocata, ha portato a Lione tifosi da tutta Italia, non solo dal Piemonte che per le autorità non rapprentava un territorio a rischio". Le dichiarazioni sono state rilasciate da Marcel Garrigou-Grandchamp, medico in pensione di Lione, responsabile della cellula giuridica del sindacato di categoria. Il grafico dei contagi è stato allegato all'articolo, che si basa anche sulle affermazioni del professor Walter Ricciardi, rappresentante dell’Italia all’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il quale aveva sottolineato come Atalanta-Valencia abbia avuto un ruolo importante nella propagazione del virus in Lombardia.

La smentita. Una teoria che però viene contraddetta in parte dalla stessa Equipe, che cita lo studio dell’Agenzia Regionale della Sanità di Lione: lì si precisa come le contaminazioni nei 14 giorni successivi al 26 febbraio non abbiano evidenziato legami diretti con la partita di Champions. Al contrario, Le Parisien, si sta interrogando sugli ultras che si ammassarono fuori allo stadio dopo la partita tra Psg e Borussia Dortmund. Parigi attualmente è l'epicentro dell'epidemia francese di Covid-19.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” l'8 aprile 2020. La bambina, di appena cinque anni, è all' ospedale, mantenuta in uno stato di coma artificiale. E il drammatico incidente di cui è stata vittima rischia d' infiammare la banlieue parigina, in una fase già difficile per questi quartieri, dove rispettare il confinamento negli esigui appartamenti dei palazzoni di alloggi popolari non è facile: qui il coronavirus si espande più rapidamente che nel resto del Paese. E ormai non passa notte senza che si registrino violenze e scontri con le forze dell' ordine al Noé, area dalle forti tensioni sociali di Chanteloup-les-Vignes, a una quarantina di km a nord-ovest di Parigi. Perché quella bimba sarebbe stata ferita gravemente da una pallottola sparata dalla polizia. Tutto ha avuto inizio sabato scorso. Intorno alle 18 una pattuglia, a bordo di due auto, ferma un ragazzo su una moto da cross. Non ha il casco e il mezzo lo avrebbe rubato. Sta partecipando a uno dei rodeo che i giovani organizzano nelle strade della banlieue, a velocità sostenuta e nella piena illegalità. All' improvviso le forze dell' ordine sono circondate da una cinquantina di abitanti del quartiere. Iniziano a scaraventare pietre e pezzi di cemento. I poliziotti utilizzano allora gli Lbd, potenti fucili con le pallottole di gomma, già al centro di tante polemiche ai tempi delle manifestazioni dei gilet gialli. A fatica riescono a ripartire (due sono stati feriti, ma in maniera leggera). A quel momento la bambina di cinque anni era uscita dal suo palazzo accompagnata dai genitori e altri familiari: avrebbe ricevuto in testa una pallottola: il padre e la madre l' hanno vista accasciarsi a terra all' improvviso. Inizialmente la polizia ha sottolineato che era impossibile che la bimba fosse stata ferita dai flash-ball, perché si sarebbe trovata troppo lontano dagli scontri. Ma ieri sera Maryvonne Caillibotte, procuratore di Versailles, alla quale è stata affidata l' inchiesta, ha dichiarato che uno zio della bambina ha trovato accanto a lei un residuo «che potrebbe rappresentare un pezzo di pallottola, del tipo dei flash-ball». Il magistrato ha anche sottolineato che la famiglia della piccola «non nutre alcuno spirito di vendetta: vogliono solo la verità». L' inchiesta va avanti. E la tensione a Chanteloup-les-Vignes sale sempre più.

Coprifuoco e treni per evacuare i malati: Mulhouse è la Bergamo d'Oltralpe. Misure più drastiche che in Italia nell'ex cittadina industriale dell'Alto Reno, epicentro della crisi. E i pazienti febbricitanti vengono portati verso ovest nei vagoni riattrezzati dei Tgv. Federica Bianchi su L'Espresso il 2 aprile 2020. I treni continuano a partire. Vanno nel profondo ovest, lontano verso Bordeaux; oppure a est, a pochi chilometri, in territorio tedesco. Trasportano persone, questi treni, non merci. Persone vicine alla morte, in cerca di salvezza. Mulhouse, la cittadina al cuore dell'Europa dove sembrano abbracciarsi i confini di Germania, Francia e Svizzera, è l'epicentro dell'epidemia di Covid-19 in Francia. Ma il piccolo ospedale cittadino non ha abbastanza letti né mezzi per far fronte al virus. Non qui, nella parte meridionale della regione del Grande Est che è stato per decenni l'orgoglio industriale e siderurgico del Paese, e che è ora cimitero di nere ciminiere spente e carcasse di fabbriche arrugginite. A differenza di altre zone della Francia adesso Mulhouse è sotto coprifuoco. Proprio così lo chiamano, come in tempo di guerra. Dalle 21 di sera fino alle 6 del mattino (e almeno fino al 15 aprile) nessuno può lasciare la propria abitazione. Nemmeno per portare fuori il cane. Anche chi fa le consegne a domicilio non può uscire. Solo il personale sanitario e chi sta male. Per le strade deserte i poliziotti controllano senza sosta che venga rispettato il provvedimento. Nessuna bicicletta, nemmeno in questi giorni di sole, attraversa i ponti sul Reno tra Francia e Germania. Questa è stata una regione per secoli contesa tra Parigi e Berlino, quei confini aperti dove si passava pedalando rappresentavano al meglio la pace e l'unificazione europea. Oggi sono di nuovo chiusi. In compenso gli elicotteri e gli aerei militari tedeschi stanno cambiando di senso all'immaginario collettivo che li riguarda: non più strumento di morte ma speranza di vita. Gli ospedali tedeschi, da quelli appena oltreconfine fino ad Amburgo, ospitano infatti una parte dei malati di Mulhouse, Colmar e Strasburgo, capitale vuota d'Europa, e di altre cittadine di un confine che nessuno vuole torni a dividere. Questa volta gli eserciti tedeschi e francesi lavorano uno a fianco all'altro, spostando uomini e donne e costruendo ospedali da campo, garantendo la logistica che allontana la morte. L'ospedale di Mulhouse non ha che 140 posti letto: «Non bastano mai», spiega un portavoce: «Entrano almeno 60 persone al giorno, generiamo continuamente flussi di pazienti in partenza per altri ospedali del Paese o all'estero. Ne parte uno e subito dopo il letto vuoto si riempe di nuovo. Vecchi e giovani ugualmente. L'intero ospedale è ormai dedicato alla cura del Covid, i pazienti con altre altre patologie deve rivolgersi altrove». Fuori l'esercito francese ha allestito altri trenta letto. Pochi, mai anche uno solo in più è prezioso. È da Mulhouse che si è messo in cammino il virus verso la capitale francese. Tutto è iniziato in una Chiesa evangelica, proprio come in Corea del Sud, con uno di quegli eventi enormi che nei prossimi anni difficilmente si ripeteranno: 2.500 persone provenienti da tutta la Francia,  dalla Germania, dalla Svizzera, tra loro 300 bambini, si sono riunite in questa piccola cittadina francese per una settimana tra il 17 e il 24 di febbraio per pregare e cantare insieme. Da allora il virus è esploso. Già il 2 marzo, racconta Jean Rottner, presidente della regione del Grande Est e medico di pronto soccorso, il primo paziente era stato ricoverato all'ospedale di Mulhouse in rianimazione. «L'11 marzo con i miei omologhi di tre regioni tedesche e il primo ministro del Lussemburgo abbiamo apprestato le modalità per evacuare i pazienti francesi», dice al quotidiano Le Figaro. Il 22 marzo i malati ospedalizzati di Mulhouse erano già diventati 1.497. Intanto a Parigi seguivano la situazione ma il passaggio allo stadio 3 dell'emergenza, quello in cui si chiudono le scuole, è tardato di un paio di settimane. Il presidente Emmanuel Macron voleva provvedimenti nazionali e non su base regionale. «Col senno del poi qui avremmo dovuto chiudere tutto prima e ricevere immediatamente milioni di mascherine», dice Rottner. Alla fine in aiuto sono corsi gli industriali dell'area, dai Vosgi all'Alsazia, che hanno attrezzato le vecchie fabbriche tessili per produrre un milione di maschere. Certamente gli abitanti del Grande Est non saranno tra i primi a uscire dalle mure domestiche. Questa volta, ha già fatto sapere Parigi, non tutti i francesi saranno “liberati” allo stesso momento. Ci saranno scaglioni per regione e per fascia d'età. Sarà un processo lungo per evitare di vanificare gli sforzi fatti fino ad adesso. «Non sappiamo tutto e prendiamo decisioni sulla base di informazioni incomplete e a volte contraddittorie», ha confessato il primo ministro Èdouard Philippe. Ma nessuno da queste parti dubita che il Covid-19 cambierà per sempre la storia e l'economia del territorio, se non quella dell'intero Paese. Non è detto in peggio. Qui, dove l'industria era defunta e l'unica speranza dei lavoratori erano gli slogan dell'estrema destra di Marine Le Pen, adesso i politici parlano di far ripartire l'economia rimpatriando fabbriche e posti di lavoro. Di tornare a produrre a casa «perché siamo troppo dipendenti dall'estero per tutta una serie di prodotti». E poi c'è da ripensare il sistema sanitario, l'eccessiva separazione tra pubblico e privato, colmata in questi giorni dall'aiuto in termini di personale fornito dalle cliniche agli ospedali pubblici. Dopo anni di stallo, di sofferenza economica, di perdita di talenti e abilità c'è voluta la più grave e mortifera emergenza dalla Seconda Guerra mondiale per riportare nel Grande e vuoto Est francese il barlume di un futuro.

Coronavirus, choc in Francia: morto l’ex ministro Devedjian. Patrick Devedjian aveva annunciato solo tre giorni fa di essere stato contagiato dal coronavirus. Il primo ministro Philippe ammette che la situazione in Francia si aggraverà nei prossimi giorni. Gabriele Laganà, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. È una morte che ha sconvolto la Francia quella di Patrick Devedjian, 75enne ex ministro di Nicolas Sarkozy e presidente del Consiglio dipartimentale dell’Hauts-de-Seine. L’uomo, che si è spento in ospedale a Nanterre, è uno dei tanti pazienti che hanno perso la vita a causa del coronavirus. A colpire, però, sono soprattutto le tempistiche fulminee del dramma: l’ex ministro, infatti, aveva annunciato di essere stato contagiato dall’infezione soltanto tre giorni fa. La notizia è stata diffusa dal dipartimento parigino. Devedjian era stato nominato ministro per l'emergenza finanziaria nel 2008 da Sarkozy, nel corso della crisi economica, ricoprendo la carica per due anni. La situazione sanitaria in Francia è sempre più grave. Solo ieri si sono registrati altri 319 decessi di persone contagiate dal coronavirus che portano il totale dei morti a 2.314. Il numero di pazienti infetti è salito a 37.575. Il peggio non è ancora arrivato. A mettere in guardia i cittadini è il primo ministro Edouard Philippe che, nel corso di un conferenza stampa per fare il punto sull’emergenza coronavirus nel Paese, ha lanciato un allarme specifico spiegando che "i primi 15 giorni di aprile saranno ancora più difficili dei 15 giorni appena passati". "La battaglia è appena cominciata", ha ammonito Philippe che poi ha ricordato i due grandi assi della strategia del governo francese: "aumentare la nostra capacità di accoglienza nei servizi di rianimazione e appiattire la curva dei contagi" grazie alle misure di contenimento e la prescrizione di restare a casa. "Non lascerò che si dica- ha continuato il primo ministro- che c'è stato un ritardo nella decisione sul contenimento" presa dal 17 marzo e prolungata fino al 15 aprile. "In quel momento - ha concluso Philippe - c'erano meno di 8 mila casi e meno di 200 morti. Quando sarà il momento, impareremo da questa crisi. Non sono fra quelli che scaricano le responsabilità, ma lascio a chi pensa di sapere sempre perfettamente cosa bisogna fare questo lusso". Nel frattempo, come ha annunciato il ministro della Salute Olivier Veran, la Francia ha ordinato oltre un miliardo di mascherine per proteggere medici e infermieri impegnati nella lotta al coronavirus. Lo stesso Veran, citato dal sito di Le Figaro, ha spiegato che le consegne verranno scaglionate nelle prossime settimane e mesi. Per facilitare le spedizioni è stato organizzato un ponte aereo fra Francia e Cina. Il ministro ha poi affermato che sono stati ordinati anche 5 milioni di test per individuare l’infezione in soli 15 muniti.

Chiara J. Selleri per leggo.it il 31 marzo 2020. «Mia figlia stava morendo: febbre altissima, tosse, non respirava quasi. Era in casa, da sola, a Parigi. Ma sono riuscita a salvarla in extremis, al telefono». A parlare è Francesca Romana Perrotta, 55 anni. Sua figlia Chiara Grosso, 32 anni, ha rischiato di morire di coronavirus a causa delle falle del sistema sanitario francese.

Quando è iniziato il calvario?

«Il 12 marzo si è sentita male: febbre a quaranta, tosse e difficoltà respiratorie. Ha subito chiamato il numero di emergenza ma le è stato ripetuto che non c'era bisogno del loro intervento perché non erano sintomi di Covid-19. È rimasta per quattro giorni abbandonata a sé stessa. Poi si è rivolta al medico di base che le ha prescritto una radiografia. Il risultato? Polmonite interstiziale bilaterale. Il dottore le ha detto di correre in ospedale».

Come è riuscita ad arrivarci?

«Ha fermato un taxi ed è corsa al pronto soccorso, nonostante stesse per svenire. Lì l'hanno tenuta per ore ad aspettare su una barella. Mi chiamava piangendo dicendomi: Mamma, non voglio morire qui. È lì che la rabbia e l'amore hanno preso il sopravvento».

Cioè?

«Ho contattato la Farnesina e il consolato italiano a Parigi. Li ho pregati di aiutarmi e così sono riuscita a farla ricoverare. Dopo sei giorni le hanno fatto il tampone ed è risultata positiva. Cosa sarebbe accaduto se non fossi intervenuta?».

Ora come sta?

«È ricoverata in terapia intensiva sotto ossigeno e combatte per uscire fuori da questo incubo».

Ha qualcosa da rimproverare alla Francia?

«Sì. Mentre in Italia eravamo già tutti in quarantena, il governo francese ha ignorato il pericolo. Mia figlia e tanti come lei hanno dovuto cercare aiuto per non morire a casa da soli. E lo hanno fatto salendo su taxi, metro, bus... mezzi che hanno favorito il propagarsi del virus».

"Io italiano in Francia. Dove ora siamo considerati un esempio". L'impreparazione iniziale, la difficoltà di accettare la quarantena, i contrasti tra medici. Un nostro connazionale che abita a Lione ci racconta cosa succede Oltralpe. Fabrizio Errico il 30 marzo 2020 su L'Espresso. Questa testimonianza di un'italiano all'estero è stata raccolta grazie alla collaborazione di Giovani Italiani nel mondo.  Qui il loro profilo Instagram. L'esplosione dei contagi da Coronavirus, qui in Francia, sta avvenendo proprio in questi giorni, non perché prima non ci fossero persone affette da Covid-19, ma per via di una politica opposta a quella messa in campo dall'Italia: infatti i francesi hanno dapprima cercato di ridurre al minimo i test. Solo i casi gravi, o estremamente sospetti, venivano testati. Anche oggi la situazione non é molto cambiata, si fanno pochi tamponi e, nonostante ciò, siamo quasi a 30mila casi accertati. Chissà quanti ce ne sono per davvero. La buona notizia è che, per la prima volta nella Storia, i francesi vedono l´Italia come un esempio. La cattiva è che accettano di malavoglia il concetto di quarantena. Macron, in un grande discorso, ha infatti parlato di "guerra" e mai di "quarantena" in modo diretto. Forse perché nel paese della rivoluzione francese, nel paese della liberté è difficile pronunciare la parola quarantena, che è l'esatto opposto della Libertà. Di tutto quello che sta succedendo, mi sorprendono due cose:

1. L'(apparente) impreparazione. A quanto pare manca del materiale, come in altri Paesi. Non te lo aspetteresti dal un Paese in cui l'epidemia è arrivata in ritardo rispetto agli altri vicini. T'immagini che un paese, avvertito per tempo, si faccia trovare pronto. Invece no. La Francia non è pronta e vedo che anche la Spagna, dove la situazione é decisamente peggiore che qui, non è per niente pronta.

2. La difficoltà, almeno iniziale, ad accettare la situazione. Qui, fino al discorso di Macron, le persone se ne sono fregate, definendo il Covid-19 una «piccola influenza» e parlando di ragioni economiche per non fermare il Paese. Persino le aziende non hanno favorito lo smartworking, sperando in una evoluzione diversa delle cose e, di fatto, mettendo a rischio i propri dipendenti in quanto i dispositivi di protezione individuale non erano disponibili. Ora, in stile italiano, siamo in quarantena da una decina di giorni. Speriamo le persone siano rispettose delle regole e che la cosa si risolva presto, anche se si parla di almeno un mese. Quello che posso constatare è che, pur con un certo ritardo, le misure prese sono state corrette e coerenti, a differenza dell'Italia. In Italia si è subito partiti col concetto di quarantena, purtroppo lo si è diluito: prima le città, poi le regioni e poi il paese. Il tutto mantenendo i trasporti attivi per tutti. L'effetto sono stati gli spostamenti di persone da Nord a Sud e di quelle “fughe” ne paghiamo amaramente le conseguenze. Speriamo che al Sud, dove i numeri cominciano ad aumentare considerevolmente, si riesca a contenere la propagazione per evitare ulteriori vittime. Speriamo anche ci sia convergenza di visioni scientifiche tra gli "esperti". L'impressione è che alcuni pensino più alle pubblicazioni scientifiche che alla salute delle persone. Tutto il mondo é paese; in Francia sta succedendo la stessa cosa tra i medici marsigliesi e quelli parigini.

Fabrizio Errico, 27 anni, napoletano, vive a Lione da tre anni ed è ingegnere nel settore nucleare.

Francesca Rossi per ilgiornale.it il 17 marzo 2020. È un periodo complicato per la nostra bella Italia. Non dobbiamo solo soccorrere i malati, contare i morti, azione che mai avremmo anche solo pensato di dover fare. Dobbiamo anche difenderci da attacchi ingiustificati, talvolta perfino intrisi di un razzismo ammesso o malcelato e da facili ironie. È stato il caso del video francese con la pizza “al Coronavirus”, poi delle parole incommentabili e per giunta venute da un medico, l’inglese Christian Jessen. Ora è la volta di Carla Bruni, italiana naturalizzata francese. Tutti i giornali hanno riportato la terribile gaffe dell’ex premiere dame la quale, subito dopo un evento a margine della settimana della moda francese (24 febbraio/3 marzo 2020), ha abbracciato e baciato Sidney Toledano, il presidente del gruppo Louis Vuitton, dichiarando: “Ci diamo un bacio, è pazzesco! Perché noi siamo la vecchia generazione! Non abbiamo paura di nulla, non siamo femministi e non abbiamo paura del Coronavirus. Nada”. Subito dopo, ironizzando sul pericolo Coronavirus, Carla Bruni ha finto attacchi di tosse e una crisi respiratoria. La scena, ripresa dalla tv RMC e, a quanto pare, all’insaputa dell’ex top model, è finita in onda sulla rete e sul canale generalista francese Tf1. Il filmato ha scatenato le ire degli utenti social francesi e italiani, soprattutto ora che il Coronavirus è diventato una minaccia anche per la Francia. Su Carla Bruni sono piovuti insulti e aspre critiche. Del resto tutti ci chiediamo cosa leghi un’emergenza come quella che stiamo vivendo e che non ha eguali nella Storia recente, con il femminismo e le vecchie generazioni. Carla Bruni, però, è corsa subito ai ripari con due post su Instagram, uno in italiano, l’altro in francese, dove chiede scusa per il suo comportamento. La moglie di Sarkozy ha spiegato: “Certe volte succede di fare uno scherzo di cattivo gusto. Sul momento, in un certo contesto uno scherzo, anche stupido, non significa granché. Uscito dal contesto, lo stesso scherzo diventa schifoso”. Poi ha aggiunto: “Ho purtroppo scherzato qualche settimana fa..e sono stata filmata senza rendermene conto. Un montaggio malvagio ha deliberatamente dato un carattere schifoso a questo mio scherzo imbecille. Vorrei presentare tutte le mie scuse a tutti quelli che sono stati scioccati…” e ha concluso: “Vorrei precisare ancora una volta che si trattava di uno scherzo. Che non riflette in niente i miei sentimenti. Buon coraggio a tutti”. Il popolo del web non ha accettato del tutto le scuse di Carla Bruni, rispondendo ai post anche con parole piene di rabbia. Del resto, per quanto possa trattarsi di uno scherzo e di un montaggio infelice, rimane nel gesto di tossire, di fingere di non avere aria nei polmoni, l’ironia nei confronti di persone che stanno soffrendo per la malattia, o perché hanno perso un parente. Anche se l’ironia non è premeditata, magari è frutto dell’irruenza di un istante di eccessiva leggerezza, non dobbiamo mai dimenticare che abbiamo la possibilità di fermarci e pensare prima di agire. Lo facevano i nostri antenati primitivi di fronte al pericolo, a maggior ragione possiamo e dobbiamo farlo anche noi. In questi giorni molti di noi saranno di certo presi da problemi ben più gravi e dalla paura per un futuro incerto, ma vale la pena chiederci se meritiamo il razzismo, il disprezzo e l’ironia scherzosa. Se lo meritano i dottori e gli infermieri che vedono poco le famiglie, non mangiano e non dormono, costretti a prendere decisioni in pochi istanti? Se lo meritano i malati che non sanno cosa accadrà domani, i loro parenti e chi ha visto morire i propri cari? L’Italia e il mondo perdoneranno l’ironia? Forse e chissà che, paradossalmente, dalle “botte prese” e mai rese, parafrasando una nota canzone di Zucchero, non nasca una nuova coesione e un nuovo senso di appartenenza tutti italiani.

Maria Elena Perrero per blitzquotidiano.it il 27 marzo 2020. Si chiamava Julie, aveva 16 anni e frequentava il liceo dell’Essone, dipartimento francese a sud di Parigi: è lei la più giovane vittima del coronavirus in Europa. Julie, racconta Le Parisien, è morta nella notte tra martedì e mercoledì in ospedale. “Aveva solo una leggera tosse la settimana scorsa”, ha spiegato al quotidiano francese la sorella maggiore, Manon. “Nel weekend è peggiorata e lunedì è andata dal medico. Lui le ha diagnosticato un’insufficienza respiratoria. Non aveva patologie particolari”. Da allora le cose sono precipitate. Prima ricoverata a Longjumeau, nell’Essonne, Julie è stata poi trasferita nella notte all’ospedale Necker di Parigi ed intubata martedì sera. Ma “i suoi polmoni non ce l’hanno fatta  ha raccontato la sorella – Dobbiamo smettere di credere che tutto questo riguardi solo gli anziani. Nessuno è invincibile contro questo virus”. Nella Francia che solo due settimane fa è stata comunque chiamata alle urne dal suo presidente, Emmanuel Macron, i contagi di coronavirus continuano ad aumentare. Il bollettino del 26 marzo parla di 3.922 i nuovi casi nelle ultime 24 ore, mentre i decessi sono aumentati di 365 unità. Il totale è ora di 29.155 contagiati e 1.696 morti. Il premier francese, Edouard Philippe, ha evocato un’ondata epidemica “estremamente elevata” sul Paese. “La situazione sarà difficile nei prossimi giorni”, ha avvertito nella dichiarazione trasmessa in diretta tv, “stiamo entrando in una crisi che durerà” e in una “situazione sanitaria che non migliorerà rapidamente”. “Bisognerà tenere duro, bisognerà restare estremamente mobilitati”, ha detto. E come in Italia e Spagna, anche qui gli ospedali sono allo stremo, soprattutto quelli dell’Ile-de-France, la regione della capitale. Il primo a lanciare un appello alla solidarietà nazionale è stato Frédéric Valletoux, presidente della Federazione ospedaliera di Francia (Fhf). La capacità di accoglienza degli ospedali dell’hinterland parigino raggiungerà il suo limite “tra 24 e 48 ore”, ha dichiarato a BfmTv. L’alto dirigente ha riferito che nella regione si sta verificando la stessa situazione di collasso del Grande Est, l’altro focolaio di Covid-19 già a saturazione. L’unica soluzione, ha detto Valletoux, “è un’estrema solidarietà tra regioni e ospedali: dobbiamo moltiplicare le operazioni di trasferimento dei pazienti, altrimenti sarà una catastrofe”. (Fonti: Le Parisien, Ansa, Agi)

Coronavirus, in prima linea senza mascherine: in Francia i lavoratori minacciano di «ritirarsi». Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. «Siamo in guerra», ha detto Emmanuel Macron rivolgendosi ai francesi. Ma i soldati al fronte non hanno armi. Medici, infermieri, addetti alle consegne, netturbini, postini, negozianti di generi alimentari, operai, impiegati chiamati ad andare sul posto di lavoro perché il Paese non si fermi del tutto non hanno mascherine e guanti. Alcuni cominciano a brandire la minaccia del «droit de retrait», il diritto garantito dal codice di non prestare il proprio lavoro in caso di rischi gravi e comprovati. Lo hanno invocato per primi i dipendenti del Louvre, che all’inizio della crisi, e prima che il governo chiudesse tutti i musei e gli altri luoghi pubblici, per due giorni con decisione autonoma si sono rifiutati di aprire il museo più visitato del mondo. Adesso a minacciare di non andare a lavorare sono i netturbini: «Siamo ammassati in tre nelle cabine dei camion a meno di un metro gli uni dagli altri, siamo a contatto con i rifiuti di tutti, e non abbiamo le mascherine. Le nostre condizioni di lavoro non sono più tollerabili». Poi ci sono le forze dell’ordine, che in questi giorni sono chiamate a controllare il rispetto del confinamento: fermano le persone per strada, controllano che chi entra nelle stazioni abbia uno dei pochissimi motivi validi (raggiungere una persona sola e bisognosa di aiuto, andare a lavorare), e si trovano ad affrontare - spesso senza protezioni - situazioni impreviste come la ressa al mercato aperto di Barbès, qualche giorno fa: centinaia di parigini accalcati a fare la spesa, nonostante l’ordine del governo di stare a casa e comunque rispettare le distanze di sicurezza. Anche i sindacati di polizia minacciano azioni clamorose come il non entrare in servizio, se non riceveranno strumenti adeguati. Come mai la Francia affronta la crisi con questa impreparazione? Uno dei motivi può essere la grande preparazione messa a punto nel 2009, quando il mondo sembrava alle porte di una catastrofica epidemia per colpa del virus H1N1. Si temevano da 9 a venti milioni di malati, e fino a 200 mila morti in Francia. Un po’ come per il coronavirus di oggi. In pochi mesi le autorità riuscirono ad accumulare due miliardi di mascherine. Alla fine, grazie alla vaccinazione di massa, l’epidemia passò senza provocare grossi danni. Il precedente può avere scoraggiato le autorità francesi dal prendere misure eccezionali quando si è cominciato a riparlare di rischio epidemia, preferendo agire all’ultimo momento. Solo che adesso anche coloro che ne avrebbero più bisogno, medici e infermieri, si trovano ad agire talvolta senza guanti e mascherine. Il direttore generale della Sanità, Jérome Salomon, ha riconosciuto che le mascherine in questo momento «sono una risorsa rara», da attribuire oggi solo al personale medico, «tanto i cittadini comuni non saprebbero usarle correttamente». Il che suona come l’ennesima spiegazione a posteriori: non ci sono abbastanza test per il coronavirus? Le autorità dicono di seguire un’altra strategia (ma quale?) diversa dai test di massa. Non ci sono abbastanza mascherine? Si dice che non servirebbero perché molti farebbero errori nell’indossarle. La questione delle mascherine provoca crepe nell’«unione nazionale» chiesta e in parte ottenuta da Macron, una specie di pausa nella lotta politica per affrontare l’emergenza. Le opposizioni non risparmiano critiche al governo per uno «scandalo di Stato» che andrà affrontato quando l’epidemia sarà finita. «Forse le colpe non sono solo del governo attuale - ha detto a Libération il senatore socialista Patrick Kanner -. Ma perché non ha fatto nulla da febbraio? Eppure i segnali non mancavano, con quel che succedeva in Cina, Iran, Italia. Quando alcuni esponenti della maggioranza portano come spiegazione il fatto che un camion di mascherine è stato rapinato, la fanno un po’ troppo facile. Lanceremo una commissione d’inchiesta, ma quando la pandemia sarà passata. Adesso non è il momento».

Francia, rivolta dei medici: "Ora un'inchiesta Il governo sapeva, ha mentito e agito tardi". In 600 accusano il primo ministro Philippe e l'ex ministra della Salute. Gaia Cesare, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. «Bugie di Stato», le chiamano. E accusano il governo di non aver preso le misure necessarie per affrontare l'epidemia da coronavirus in Francia, di avere insabbiato e mentito. Chiedono un'inchiesta penale e perquisizioni al ministero della Salute. «Vogliamo capire l'estensione delle informazioni che sono state nascoste ai francesi. Per determinare le responsabilità di ciascuno in questo fiasco sanitario». Sono 600 finora, un collettivo di medici e paramedici, che ha deciso di presentare denuncia alla Corte di Giustizia della Repubblica (Cjr), il solo organismo che può giudicare gli atti commessi da membri del governo nell'esercizio delle loro funzioni. La Francia non perde tempo e vuole mettere sul banco degli imputati la politica, il primo ministro Edouard Philippe e l'ex ministra della Salute Agnèz Buzyn, costretta da Emmanuel Macron a lasciare il suo ministero all'alba di quella che lo stesso presidente ha poi definito «la peggiore crisi sanitaria da oltre un secolo» in Francia. La ministra Buzyn è stata costretta a metà febbraio a lasciare il suo ministero e candidarsi a sindaca di Parigi con il partito di Macron, dopo lo scandalo del video hard di Benjamin Griveaux. Ma lei stessa, in un'intervista a Le Monde pubblicata pochi giorni fa, ha ammesso di aver avvertito già da inizio gennaio il governo della crisi sanitaria che si prospettava e di aver avvisato il 30 gennaio il capo di Matignon, e di conseguenza lo stesso Macron, che il primo turno delle elezioni municipali «non avrebbe, senza dubbio, dovuto svolgersi». «Piangevo perché sapevo che l'onda dello tsunami era davanti a noi», ha detto l'ex ministra. E invece è andata com'è andata. Emmanuel Macron ha parlato alla nazione, annunciando la chiusura delle scuole solamente il 12 marzo, dopo aver lasciato che domenica 8 si svolgesse il primo turno delle municipali come se nulla fosse. Alla fine, dei 48 milioni di francesi chiamati a votare, meno della metà si è presentata ai seggi. Eppure il presidente ha aspettato fino al 16 marzo per rinviare il secondo turno e annunciare dall'indomani il blocco totale sul modello italiano. Ma perché i medici sono convinti che il governo abbia mentito? L'intervista della Buzyn proverebbe come il premier Philippe e la ministra si siano «volontariamente astenuti dal prendere o dall'incentivare misure che permettessero di combattere un disastro in grado di creare un pericolo per la sicurezza delle persone». Il governo ha agito troppo tardi. Muoversi prima avrebbe «senza alcun dubbio permesso di arginare l'epidemia riducendo il numero di persone contaminate e quindi capaci di contaminarne altre». I morti in Francia sono oltre 560, 112 deceduti nelle ultime 24 ore. La metà dei pazienti in rianimazione ha meno di 60 anni. Ma i medici scendono in campo anche per le menzogne del governo. In queste ore Parigi ha ordinato 250 milioni di mascherine ma «a fine febbraio - racconta l'avvocato Fabrice Di Vizio - aveva detto le mascherine arrivano e a inizio marzo, quando si è capito che non ce le aveva, si è messo a raccontare che non ce n'era bisogno. La verità è che non c'erano scorte». Perciò la rabbia è cresciuta. I medici «hanno scoperto che un'azienda francese produce maschere...ma per il ministero della Salute britannico, che ha avviato l'ordine prima della Francia». Ora una Commissione della Corte dovrà decidere se c'è la possibilità di avviare un'inchiesta penale. I medici sperano nell'articolo 223-7 del codice penale. Il capo del governo e l'ex ministra rischierebbero due anni di prigione e 30mila euro di ammenda.

Coronavirus, la denuncia del sindaco di Argentera: “Decine di francesi per fare la spesa”. Marco Alborghetti il 21/03/2020 su Notizie.it.  Il sindaco di Argentera denuncia l'entrata in Italia di decine di mezzi dalla Francia, in un momento così delicato per l'emergenza coronavirus. Il sindaco di Argentera ha scritto una lettera al Ministro degli Interni Lamorgese, denunciando l’entrata in Italia di decine di mezzi dalla Francia cariche di persone che scendono solo per fare acquisti, in un momento così delicato per via dell’emergenza coronavirus. L’emergenza coronavirus sta tenendo alta l’attenzione di tutti i sindaci italiani, soprattutto quelli che amministrano città situate ai confini. Monica Ciaburro, sindaco di Argentera in Valle Stura, ultimo comune prima del confine con la Francia, ha voluto scrivere una lettera al Ministro degli Interni Lamorgese, denunciando l’entrata in Italia irresponsabile di mezzi carichi di persone dalla Francia con motivazioni inutili: “Al Colle della Maddalena al confine tra Francia e Italia, quotidianamente entrano in modo indisturbato decine di mezzi dalla Francia per andare a fare acquisti nei negozi italiani, poi carichi di persone, scendono verso Cuneo. Richiedo l’immediata attivazione di un presidio fisso delle nostre forze dell’ordine sul confine“. Nella lettera al ministro Lamorgese, la deputata di Fratelli D’Italia Ciaburro spiega come il momento sia assai complicato e difficle da gestire, ma aggiunge che “la locale caserma dei carabinieri è sotto organico e non riesce a fare controlli perché ha solo un maresciallo e tre carabinieri”. Intanto da ieri anche in Francia è obbligatorio possedere un’autocertificazione analoga a quella italiana in cui si riportano motivazioni valide che comprovano gli effettivi spostamenti fuori dalla Francia e verso l’Italia.

Ora scoppia la rabbia (e la paura) anche nelle carceri della Francia. Alessandro Fioroni su Il Dubbio il 18 marzo 2020. La paura del coronavirus sta provocamdo rivolte nei pemitenziari francesi. Lunedì la morte di un detenuto anziano e le proteste nel carcere di Grasse. Sospese le visite dei parenti e inasprite le misure di sicurezza. L’epidemia di coronavirus fa esplodere proteste anche nelle carceri francesi. Lunedì scorso è morto in ospedale un detenuto del penitenziario di Fresnes nella Val de Marne. Aveva 74 anni e si era sentito male il venerdì della scorsa settimana, la ministra della giustizia Nicole Belloubet ha dichiarato che «era vecchio e molto vulnerabile, con problemi di salute. Era diabetico». Ma al di là del singolo episodio il mondo carcerario francese è in subbuglio, a Fresnes infatti sono risultati contagiati anche due infermieri e il direttore delle risorse umane, una situazione dovuta anche alle condizioni della prigione che è una delle più degradate e fatiscenti del paese. L’allarme è dunque scattato con il divieto in tutte le carceri di visite dei parenti e dei trasferimenti. Come in Italia questa misura ha immediatamente provocato la reazione dei detenuti, lunedì a Grasse, sud della Francia, un centinaio di internati ha dato vita ad una rivolta, in molti sono saliti sui tetti lanciando oggetti contro gli agenti. Non si sono registrati comunque feriti e al termine della giornata la protesta è rientrata. Ufficialmente si dice che i detenuti credevano che fossero sospese anche le passeggiate e la consegna dei pacchi, cosa poi risultata non veritiera. La prigione di Grasse ospita 673 detenuti a fronte di una disponibilità di 574 posti. Il sovraffollamento e la paura dunque sono i detonatori veri delle esplosioni di rabbia. Lo dimostra anche ciò che è successo a Metz, la zona del Grand Est che è una di quelle dove si registra il maggior numero di contagi da coronavirus. Nella prigione della città si sono ripetute così le stesse scene di rabbia anche se in misura minore. L’irrigidimento dei dispositivi nelle carceri non riguarda solo le visite ma anche la sospensione della formazione professionale e culturale. Un aggravio ulteriore per le condizioni dei detenuti che sembrano essere sempre al secondo posto rispetto a quella che l’Amministrazione Penitenziaria (DAP) francese ritiene la «continuità del servizio penitenziario». Negli istituti di pena, per prevenire il contagio, sono stati distribuite mascherine agli agenti e kit d’igiene per i detenuti ma ad esempio non viene fornita la soluzione idroalcolica per il divieto di far entrare alcool nei penitenziari. Anche gli spostamenti interni sono continuamente sotto osservazione. Le celle singole per isolamento vengono viste come un’ ulteriore forma di punizione. Su tutto ciò regnano le politiche giudiziarie che quest’anno hanno riempito i penitenziari con 70.651 persone mentre i posti sono solo 61.080. Secondo l’Osservatorio internazionale sulle prigioni spesso le celle sono condivise da più 3 carcerati e almeno 1600 persone sono costrette a dormire ogni notte su materassi a terra. Le situazioni peggiori si verificano nelle carceri per detenuti in custodia cautelare o che devono scontare brevi pene.

La Francia deve fare i conti con i propri errori. Andrea Massardo su Inside Over the il 19 marzo 2020. Sono passati pochi giorni dalla decisione della Francia di domenica di combattere tramite il contenimento ed il confino domestico la pandemia di coronavirus che già risulta evidente come l’aver atteso troppo rischi di trasformare la situazione in una catastrofe. Terzo Paese per contagi – rilevati – alle spalle di Italia e Spagna, le mosse messe in campo dal governo di Edouard Philippe si possono definire le più stringenti d’Europa. Tuttavia, il problema attuale attuale della Francia è differente ed è portato dal fatto che l’infezione ha già raggiunto la totalità delle province del Paese. Con l’epicentro più significativo proprio nella capitale Parigi, da dove la popolazione è fuggita dopo l’annuncio televisivo del presidente Emmanuel Macron.

I contagi diffusi sottolineano la presenza di più focolai. Con l’intero territorio francese sul quale è stata rilevata la presenza del virus, è evidente come a differenza della situazione spagnola e italiana la diffusione sia già diventata capillare: complicando ulteriormente il contenimento dell’infezione. In uno scenario in cui la cartina francese appare a macchia di leopardo, stringere particolarmente attorno ai focolai ormai non ha più nessuna importanza, portando in questo modo la guerra – come definita dalla politica francese – in ogni strada e abitazione del Paese. Invisibile ma pronto a colpire, nascosto eppure così diffuso: queste sono le caratteristiche che la piaga mondiale sta assumendo in Francia, che con troppo ritardo si è adeguata alle misure di contrasto internazionale suggerite dall’Oms. E in questo modo, la stessa durata della battaglia rischia di essere particolarmente lunga, con tutti i problemi accessori che l’isolamento domestico ed il rallentamento dell’economia si porta appresso.

Stop a Schengen e alla frontiera britannica. Per evitare l’importazione dall’estero di nuovi casi di coronavirus, specularmente ad altri Paesi Parigi ha deciso di sospendere gli accordi di libera circolazione di Schengen, verosimilmente sino a data da definirsi. E non solo: anche la frontiera con la Gran Bretagna potrebbe essere chiusura, a meno di forti e repentine inversioni di tendenza nella gestione del contrasto alla malattia da parte dell’esecutivo britannico guidato da Boris Johnson. In questo modo, la speranza è quella di riuscire – nonostante il ritardo – il più possibile i focolai, per non pesare sulle strutture sanitarie e per evitare che il fenomeno si propaghi anche nelle campagne. Ma anche per quest’ultime il presentimento è che sia troppo tardi, soprattutto dopo l’assalto alle stazioni ferroviarie della popolazione parigina, in fuga dalla capitale francese.

Se necessario, le imprese saranno nazionalizzate. Un’altra misura messa in atto dal governo di Philippe sarebbe volta alla salvaguardia ed alla tutela del patrimonio imprenditoriale della Francia, che a causa della crisi e della conseguente recessione rischia di uscirne devastato. Le imprese maggiormente in difficoltà, pur di non andare perdute, potrebbero essere infatti nazionalizzate: permettendo in questo modo il proseguire del loro lavoro ed il valore aggiunto che producono per il patrimonio economico della Francia. Nonostante gli enormi limiti della proposta, essa sarebbe necessaria anche per evitare la perdita dei posti di lavoro e il default finanziario degli imprenditori, i quali rischiano di essere le reali e più ingombranti vittime della piaga mondiale. In ogni caso, però, la strada che si presenta davanti al popolo della Francia è impervia e ricca di imprevisti.

Le rianimazioni sono già al collasso. Benché il governo abbia promesso importanti investimenti nel settore sanitario (stimati 2miliardi di euro), il numero di casi attuali ha già messo in forte pressione gli ospedali del Paese, con molti di essi – principalmente in Alsazia e nel dipartimento di Strasburgo- che già hanno raggiunto il punto di saturazione. E in questo scenario, l’aumento esponenziale delle infezioni da Covid-19 con la conseguente crescita dei ricoveri rischia di diventare presto ingestibile: con i tempi che giorno dopo giorno stringono sempre di più e gli ospedali che si avvicinano al collasso più totale.

Riccardo Liberatore per open.online.it il 17 marzo 2020. L’annuncio è arrivato durante il messaggio solenne alla nazione con cui il presidente francese ha presentato nuove misure anche per la Francia. Alla fine non sono stati i flussi migratori a far chiudere Schengen, l’area di libero movimento europeo, ma il coronavirus. L’annuncio della chiusura delle frontiere esterne dell’Europa arriva dalla Francia di Emmanuel Macron. Nel suo messaggio solenne al Paese, il presidente della Repubblica ha dichiarato che da domani a mezzogiorno le frontiere d’ingresso dell’Unione europea e dello spazio Schengen resteranno chiuse. L’Europa, sempre più epicentro mondiale del virus seguito al calo dei casi in Cina, si chiude per contenere e soffocare l’epidemia. Di fronte all’avanzata del virus diversi Stati europei avevano deciso di chiudere le frontiere e bloccare la mobilità in entrata e in uscita. In giornata era stato il turno della Germania che aveva chiuso i confini con la Svizzera, l’Austria, la Danimarca e la Francia. A sua volta anche l’Austria oltre all’Ungheria, la Repubblica Ceca, la Danimarca, la Polonia e la Lituania hanno annunciato di voler chiudere le frontiere interne. Adesso però arriva la decisione di attuare un’unica misura per l’Ue: niente spostamenti tra paesi membri ed extra-comunitari per 30 giorni a partire da domani. I cittadini europei attualmente all’estero, i pendolari ma anche il personale sanitario e i ricercatori alle prese con che si trovano fuori dai confini dell’Europa potranno comunque rientrare. Era stata la presidente della Commissione Ursula von der Leyen a proporlo in mattinata, facendo sapere che qualora fosse necessario il periodo di trenta giorni potrebbe essere prorogato. Una misura ritenuta necessaria per non appesantire ulteriormente i sistemi sanitari sotto pressione a causa del coronavirus. La stessa von der Leyen aveva anche ripreso i paesi membri che hanno chiesto di chiudere i confini, facendo notare che il virus è presente in tutti gli stati europei e che è fondamentale rispettare i trattati e garantire la libera circolazione delle merci. La chiusura delle frontiere esterne dovrebbe ricevere l’approvazione ufficiale dai leader europei durante il summit previsto per domani.

La Francia segue l’esempio dell’Italia. Con oltre 5mila contagi e 127 decessi nel Paese, Macron ha deciso di premere sull’acceleratore, annunciando una serie di nuove misure restrittive per contenere l’epidemia. A cominciare dalla mobilità individuale: a partire da domani a mezzogiorno e per almeno 15 giorni i francesi potranno lasciare le loro case soltanto per questioni di prima necessità, per andare al lavoro, in farmacia o per fare la spesa. Da mercoledì, le mascherine di protezione verranno consegnate nei 25 dipartimenti francesi colpiti dal coronavirus. «Più agiremo insieme più supereremo questa prova», ha dichiarato Macron, dopo aver redarguito i connazionali che insistono nel frequentare i parchi e affollare gli spazi pubblici. «Ci riusciremo, cari connazionali, restando uniti e solidali».

La Francia, lo scenario all’italiana e la fuga da Parigi: stazioni prese d’assalto. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. «Non posso vivere per due mesi in 20 metri quadrati. Vado dai miei genitori in Normandia», dice Jacques, uno studente 22enne che sta approfittando delle ultime ore prima del blocco totale per lasciare Parigi e spostarsi in campagna. Sono migliaia le persone in fuga dalla capitale, non si trova più un treno per Bordeaux e la Gare Montparnasse, la stazione ferroviaria che serve l’Ovest della Francia, è affollata come prima delle vacanze natalizie o estive. Pochi fortunati hanno la mascherina, ma seguire le regole contro il coronavirus in queste condizioni è comunque impossibile: addio distanza di sicurezza di almeno un metro, c’è tempo fino alle 12 per non incorrere in sanzioni e molti ne approfittano, come se il rischio di essere contagiati o contagiare seguisse i tempi burocratico-organizzativi annunciati dal presidente Macron ieri sera in diretta tv, e precisati dal ministro dell’Interno poche ore dopo. Negli ultimi tre o quattro giorni, quando era evidente che il governo preparava gradualmente la popolazione al temuto «scenario all’italiana», il pensiero ha attraversato la mente di ognuno: restare o partire? Sono gli stessi meccanismi che hanno portato all’assalto ai treni in Italia la sera dell’annuncio del premier Conte, e i francesi per adesso riproducono anche in questo lo schema italiano: dopo le corse ai supermercati per fare scorte (la carta igienica il bene più ricercato), ecco l’idea di approfittare delle ultime ore per godere della libertà di movimento. Per giorni è circolato su WhatsApp un messaggio «Info Sénat» - in arrivo in teoria dal Senato, una fake news - che parlava di un coprifuoco tutti i giorni alle 18 a partire da mercoledì 18, e per cinque settimane. L’annuncio di Macron lunedì sera - blocco a partire dalle 12 di martedì - ha solo ristretto i tempi. Rispetto all’Italia, c’è qualche specificità francese: Parigi «intra muros», cioè senza la banlieue, ha una tra le densità per abitante più alte del mondo: 2 milioni 187 mila abitanti su una superficie di 105 chilometri quadrati. Più di New York, Londra o New Delhi. Vivere in una casa di 30-40 metri quadrati capita non solo a giovani o studenti ma anche a tante famiglie della classe media, quelle che ancora possono permettersi di vivere nella capitale. Il confinamento deciso da Macron per adesso è di quindici giorni, ma nessuno si fa illusioni. «Siamo in quattro, io, la mia compagna e i bambini di 11 e 6 anni, come facciamo a vivere per due mesi in tre piccole stanze senza un balcone?», dice Paul, insegnante 40enne che vive nel XV arrondissement, il quartiere delle famiglie. Come molti ha deciso di caricare l’auto e di andare in Bretagna, dove il fratello può ospitarlo. Chi non ha amici o parenti pronti ad aprire la casa agli ospiti cerca soluzioni su AirBnb. La Francia è vasta, a differenza dell’Italia ha molte zone disabitate o quasi, se Parigi è densamente popolata la provincia molto meno, ed ecco la tentazione: una ex fattoria sperduta nella campagna della Normandia, lontana dal mare ma con un enorme giardino privato di 2000 metri quadrati, 5 posti letto, ancora ieri veniva proposta a 1500 euro per un mese. Decine le offerte simili. Quell’annuncio è andato via in pochi minuti, tanti parigini sono pronti a stanziare una cifra importante per non restare imprigionati tra quattro mura. L’idea della fuga è stata favorita anche dalla foto di mezzi pesanti dell’esercito sul périphérique, la tangenziale che racchiude i venti arrondissement di Parigi. Gli stessi che magari venerdì sera riempivano i ristoranti o i cinema, o quelli che domenica si sono assiepati al sole, noncuranti, lungo le sponde del Canal Saint Martin o nei parchi, hanno visto all’improvviso in quella foto il segno della catastrofe in arrivo, la prova che l’esercito stava per occupare Parigi, motivo in più per scappare. In realtà quei mezzi venivano spostati da una base militare all’altra per il normale turnover verso il Mali, ma la psicosi è più forte della realtà. Tanti scappano verso Sud o verso Ovest perché l’Ile de France (la regione di Parigi) è assieme al Grand Est (Alsazia soprattutto) la regione più colpita, dove i casi sono più numerosi. «A Parigi avremo più probabilità di rimanere contagiati anche solo andando a fare la spesa - dice Anne Marie, incontrata per strada mentre sta caricando la macchina, le due figlie già dentro con le cinture allacciate -. Andiamo nel Lot, nel centro della Francia, a tre ore d’auto da Parigi. Lì i casi sono pochissimi, e se qualcosa andasse male gli ospedali saranno sicuramente meno affollati che a Parigi». E’ una scommessa. Ospedali forse meno affollati, ma anche con pochi letti nei reparti di rianimazione, quando ci sono. La scelta di partire è discutibile sul piano individuale, e criticata dai medici sul piano collettivo. «Così i pericoli aumentano, il confinamento è deciso per interrompere la diffusione del virus, questi comportamenti vanno in direzione esattamente contraria - dice Rémi Salomon, presidente della commissione medica degli Ospedali di Parigi -. Chi lascia in fretta la capitale rischia di portare il coronavirus nelle zone dove per il momento è poco diffuso». Già cordialmente detestati dai «provinciali» in tempi normali, i parigini potrebbero non essere accolti a braccia aperte.

La Francia blocca la circolazione dalle 12, parigini in fuga dalla capitale nella notte. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Chiara Severgnini. Sono salite a 2.158 le vittime in Italia, con 349 nuovi decessi: in tutto, dall’inizio dell’epidemia 27.980 persone hanno contratto il virus Sars-CoV-2. È questo l’ultimo bilancio diffuso lunedì dalla Protezione civile. Sul fronte internazionale, in Europa il secondo focolaio più grande dopo quello italiano si trova in Spagna. Negli Usa si contano 4.600 casi e 83 morti (dati Reuters 17/03, qui la mappa con l’andamento globale). La Fed intanto ha annunciato un’azione coordinata delle banche centrali mondiali per assicurare liquidità a sostegno del’economia minacciata dall’emergenza coronavirus.

Ore 4.35 - Usa, il governatore dell’Ohio rinvia le primarie. Ignorando la decisione del giudice — che ne aveva autorizzato lo svolgimento — il governatore dell’Ohio Mike DeWine ha deciso di rinviare le primarie democratiche previste per oggi sulla base dell’emergenza sanitaria causata dal coronavirus e dichiarata dal dipartimento statale per la sanità. A tempo stesso, DeWine ha annunciato che il segretario di Stato cercherà una via giudiziaria per estendere le opzioni di voto.

Ore 06.35 - Manila chiude fino a nuovo ordine per coronavirus. La Borsa delle Filippine ha chiuso oggi fino a nuovo avviso, diventando la prima piazza d’affari al mondo a intraprendere tale azione a causa dell’epidemia del nuovo coronavirus.

Ore 07.00 - Trasferiti 70 detenuti del carcere di Melfi dopo la protesta. Con un’operazione alla quale hanno partecipato circa 200 uomini della Polizia penitenziaria, 70 detenuti del carcere di Melfi (Potenza) - tutti della sezione «alta sicurezza» - che il 9 marzo scorso si erano rivoltati prendendo in ostaggio nove persone fra agenti di custodia e personale sanitario, sono stati trasferiti stamani in altri istituti di pena d’Italia. La rivolta era cominciata, come in decine di altre carceri italiane, per protestare contro le misure - come la sospensione dei colloqui con i parenti - prese per contrastare la diffusione del coronavirus. I 70 detenuti trasferiti stamani, anche dopo aver rilasciato gli ostaggi, non erano rientrati in cella e la situazione di tensione era rimasta.

Ore 07.24 - In Cina 21 nuovi casi, di cui 20 importati. La Cina oggi ha reso noto il bilancio di 21 nuovi casi di coronavirus, 20 dei quali sono tutti «importati» mentre uno solo è il risultato di un contagio sul territorio nazionale. La commissione nazionale per la Sanità ha reso noto inoltre che si sono registrati altri 13 decessi a causa del Covid-19.

Ore 07.45 - L’intero governo polacco si sottopone al tampone. Il ministro all’ambiente Michal Wos è risultato positivo al coronavirus, di conseguenza tutti i membri del governo di Mateusz Marowiecki si sottoporranno a test. 

Ore 08.00 - Da mezzanotte chiusi altri 5 valichi tra Ticino e Italia. Dalla scorsa mezzanotte, altri cinque valichi minori tra Ticino e Italia sono chiusi. Questa misura va ad aggiungersi a quella applicata lo scorso 11 marzo a nove valichi. I cinque valichi interessati sono quelli di Arogno, Brusino, Pizzamiglio, Camedo e Fornasette. Il nuovo provvedimento è stato deciso ieri dallo Stato maggiore cantonale di condotta (Smcc), unitamente all’Amministrazione federale delle dogane (Afd), al fine di arginare la diffusione del coronavirus in Svizzera e proteggere la popolazione e l’assistenza sanitaria, indica una nota dello Smcc diramata ieri sera. La misura fa seguito alla decisione del Consiglio federale di proclamare lo stato di «situazione straordinaria» a partire proprio dalla scorsa mezzanotte.

Ore 08.10 - La Francia annuncia 45 miliardi di aiuti alle imprese. Il ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire, ha annunciato un pacchetto di aiuti per «45 miliardi di euro da destinare a imprese e lavoratori». Il governo, ha affermato Le Maire, stima «un calo dell’1% del Pil nel 2020». «Il coronavirus causerà anche una guerra economica e finanziaria», ha evidenziato l’esponente dell’esecutivo.

Ore 08.25 - Stazioni affollate a Parigi: i francesi cercano di lasciare la capitale. « Siamo in guerra, una guerra sanitaria certo, ma il nemico c’è»: ieri sera, nel suo secondo discorso alla nazione in quattro giorni, Emmanuel Macron ha annunciato ai francesi una nuova serie di misure che comportano le stesse restrizioni decise per prima dall’Italia e poi dalla Spagna. Dopo la messa in onda del discorso, molti hanno tentato di lasciare la capitale francese prima dell’entrata in vigore delle misure del blocco della circolazione, prevista a mezzogiorno, per arginare la diffusione del nuovo coronavirus. Lo riporta il canale all news BfmTv che segnala in particolare la stazione di Montparnasse affollata di persone. La ministra Élisabeth Borne ha lanciato un appello, esortando i francesi a non affollare le stazioni. In base alle ultime cifre, pubblicate ieri sera, la Francia ha registrato 127 decessi e 5.423 casi confermati di contagio, 36 morti e oltre 900 casi in piu’ in sole 24 ore. Sono oltre 400 le persone ricoverate in stato grave. 

Coronavirus, accuse a Macron: "Sapeva tutto, ma non ha fatto nulla". Fondamentali le rivelazioni della ex ministra della Sanità, Agnès Buzyn: "Sapevo dell’epidemia in arrivo. Avvertii il presidente Macron l’11 gennaio". Michele Di Lollo, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. La bagarre politica sull’epidemia da coronavirus non è solo un prodotto italiano. In molti Stati europei ci si affronta a colpi di comunicati che mirano a destabilizzare i governi in difficoltà per il virus cinese. Uno di questi Paesi è la Francia. Qui la situazione è, infatti, drammatica. E anche a Parigi chi governa non si sente tanto bene. Il presidente, Emmanuel Macron, avrebbe gestito molto male la situazione. E i partiti di opposizione già gridano allo scandalo. Tutto parte dalle dichiarazioni dell’ex ministra della Sanità, Agnès Buzyn. Stando a quanto scritto da Le Monde ieri questa donna di 58 anni avrebbe gettato lo scompiglio nell’esecutivo: "Avremmo dovuto annullare tutto, le elezioni di domenica sono state una buffonata. Quando ho lasciato il ministero (per la candidatura a sindaca di Parigi) piangevo perché sapevo che l’onda dello tsunami era davanti a noi. L’11 gennaio ho inviato un messaggio al presidente Macron per informarlo del coronavirus. Ora l’ospedale ha bisogno di me. Ci saranno migliaia di morti". La stimata ematologa avrebbe dovuto condurre la battaglia contro l’epidemia. E non lo ha fatto per esigenze di partito. Non lo ha fatto perché il 14 febbraio Benjamin Griveaux, allora candidato di Macron alla carica di sindaco a Parigi, si è ritirato dalla campagna elettorale dopo che alcuni suoi video intimi vengono diffusi su Internet. Per il posto di Griveaux il partito ha scelto la ministra Buzyn, che ha dovuto quindi lasciare il governo. Se Griveaux non fosse stato travolto dallo scandalo, e Buzyn fosse rimasta alla guida del suo ministero, le autorità avrebbero affrontato l’epidemia probabilmente con più decisione. Poi un altro dato importante: visto che Macron è stato informato da Buzyn già l’11 gennaio, il governo ha perso per caso tempo prezioso? Vale la pena chiederselo. Anche l’ex ministra non esce bene dalla vicenda: prima accetta di correre a Parigi e partecipa alle elezioni poi, una volta che le ha perse (è arrivata terza), le definisce una buffonata. Ne viene fuori uno scompiglio generale, fatto di accuse e repliche che toccano tutte le più grandi formazioni politiche del Paese. Prendiamo Marine Le Pen. Senza mezzi termini parla di scandalo di Stato. Jean-Luc Mélenchon evoca una responsabilità penale di Buzyn e delle persone da lei avvisate, ovvero il presidente Macron e tutto l'esecutivo. Insomma, accuse rivolte a tutte quelle persone che negli ultimi giorni hanno cambiato completamente strategia e comunicazione. Si è passati infatti dalle rassicurazioni e dalle "misure proporzionate e graduali", allo scenario italiano: tutti in quarantena. L’epidemia intanto avanza. I morti sono 175 (lunedì erano 148). Anche oltralpe le misure di contenimento scricchiolano. "State a casa", informa il governo. Ma potrebbe essere già tardi.

Coronavirus, la grande fuga da Parigi. Accuse a Macron: sapeva e non agì. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Nel primo giorno di confinamento, quando migliaia di parigini approfittano delle ultime ore di libertà per abbandonare la capitale e rifugiarsi in provincia, la ex ministra della Sanità fino al 16 febbraio getta lo scompiglio nel governo: «Avremmo dovuto annullare tutto, le elezioni di domenica sono state una buffonata». «Quando ho lasciato il ministero (per la candidatura a sindaca di Parigi, ndr) piangevo perché sapevo che l’onda dello tsunami era davanti a noi». «L’11 gennaio ho inviato un messaggio al presidente Macron per informarlo del coronavirus». «Ora l’ospedale ha bisogno di me. Ci saranno migliaia di morti». A pronunciare queste frasi clamorose,apparse ieri su Le Monde, è Agnès Buzyn, 58 anni, la stimata ematologa che avrebbe dovuto condurre la battaglia contro l’epidemia. Non lo ha fatto perché il 14 febbraio Benjamin Griveaux, allora candidato di Macron alla carica di sindaco a Parigi, si è ritirato dalla campagna elettorale dopo che alcuni suoi video intimi vengono diffusi su Internet. Per il posto di Griveaux il partito di Macron sceglie la ministra Buzyn, che deve quindi lasciare il governo. Se Griveaux non fosse stato travolto dallo scandalo, e Buzyn fosse rimasta al governo, le autorità avrebbero affrontato l’epidemia con più decisione? E visto che Macron è stato informato da Buzyn già l’11 gennaio, il governo ha perso tempo prezioso? Anche l’ex ministra non esce bene dalla vicenda: prima accetta di correre a Parigi e partecipa alle elezioni poi, una volta che le ha perse (è arrivata terza), le definisce «una buffonata». Marine Le Pen parla comunque di «scandalo di Stato», Jean-Luc Mélenchon evoca «una responsabilità penale di Buzyn e delle persone da lei avvisate», ovvero il presidente Macron e il governo, che negli ultimi giorni ha cambiato completamente strategia e comunicazione: finite le rassicurazioni e le misure «proporzionate e graduali», si passa allo «scenario italiano». L’epidemia avanza, i morti sono 175 (lunedì erano 148) e i primi pazienti gravi vengono trasferiti con gli elicotteri militari dagli ospedali dell’Alsazia, ormai al collasso, verso Tolone. «State a casa, è una questione di vita o di morte», dice il ministro dell’Interno Christophe Castaner, ma allo scattare del blocco, alle 12 di ieri, migliaia di parigini affollavano ancora le stazioni, in particolare quella di Montparnasse verso Bretagna, Normandia e costa atlantica, nella speranza di prendere gli ultimi treni disponibili. «Non possiamo vivere per settimane rinchiusi in 30 metri quadrati, andiamo a casa dei nonni in Normandia», dice Paul, 32 anni, insegnante, incrociato con la moglie e il figlio di 4 anni davanti alla Gare Montparnasse. Molti si fanno ospitare da parenti o amici, altri hanno trovato casolari sperduti in mezzo alla campagna in affitto per 1.500 euro al mese. «Ma il rischio, come accadde in Italia con la fuga verso il Sud, è portare il contagio nel resto della Francia», dice Philippe Juvin, capo del pronto soccorso del Pompidou di Parigi. Ovunque, in ogni caso, il governo ha deciso di razionare il paracetamolo: una scatola per chi sta bene, due per chi presenta sintomi.

·        …in Belgio.

Da "repubblica.it" il 4 maggio 2020. Il vicepremier e ministro della Giustizia belga Koen Geens ha visitato nei giorni scorsi un laboratorio dove un gruppo di donne sta realizzando delle mascherine contro il coronavirus. Ma a fare notizia non è stato il grande contributo che stanno dando queste volontarie che hanno fabbricato finora 35mila mascherine, ma il vice primo mi che ha cercato invano di indossarne una. La mascherina rimane prima incastrata sulla testa, poi sulla fronte, suscitando molti commenti ironici sui social. Una volta posizionata sulla bocca Geens ha ironizzato: "Ho l'impressione che le mie orecchie siano troppo grandi".

 (ANSA il 31 marzo 2020) - Una bimba di 12 anni è morta in Belgio a causa del coronavirus. Lo hanno annunciato oggi le autorità sanitarie locali stando a quanto scrive l'agenzia di stampa Belga. "E' un evento molto raro ma che ci ha sconvolti", ha detto il virologo Emmanuel André nel corso della consueta conferenza stampa, scrive Le Soir. Lo stato di salute della giovane, risultata positiva al coronavirus, è peggiorato dopo tre giorni di febbre, ha aggiunto il virologo Steven Van Gucht, precisa la Belga. La bimba di 12 anni morta in Belgio a causa del Coronavirus è la più giovane vittima in Europa. Lo scrive il quotidiano Belga Le Soir ricordando che in Francia si è registrato il decesso di un'adolescente di 16 anni e in Portogallo di un ragazzo di 14 anni. In Belgio nel corso delle ultime 24 ore si sono registrati 98 decessi dovuti al Coronavirus. Lo scrive l'agenzia di stampa Belga precisando che altri 94 altri decessi sono stati registrati nei giorni precedenti per un totale di 705 morti. Lo ha annunciato il Centro di crisi e le autorità sanitarie locali. Per quanto riguarda i nuovi casi di contagio nelle ultime 24 ore si sono registrati 876 nuovi casi, di cui 467 nelle Fiandre, 189 à Bruxelles e 203 in Vallonia. Il Belgio conta complessivamente 12.775 casi confermati, scrive Le Soir.

Il caso Belgio, primo al mondo in rapporto tra morti e contagi. Preoccupante la situazione del Belgio, dove si contano 4.857 vittime. Il 49% dei decessi si è verificato nelle case di riposo per anziani. Federico Giuliani, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. In Belgio si registra il più alto numero nel rapporto tra morti e contagi di tutto il mondo. L'ultimo bollettino sull'epidemia di Covid-19 ha mostrato dati allarmanti: 417 vittime, di cui 127 in ospedale e 289 nelle case di riposo. In termini di nuovi casi, il Paese ha registrato 1.236 positivi, che portano il totale a 34.809. Il numero di morti legati all'epidemia è schizzato a 4.857 unità. Scendendo nel dettaglio scopriamo come il 49% dei decessi si sia verificati negli ospedali e un altro 49% nelle case di riposo. Negli istituti sanitari ci sono 5.309 ricoverati (-26 nelle ultime 24 ore), di cui 1.182 in terapia intensiva (-22). C'è una tendenza verso una diminuzione ma la situazione resta preoccupante. Per giorni, mentre l'Italia era blindata, in Belgio la vita quotidiana si è svolta come se la pandemia fosse un problema lontano. Dopo che il virus ha colpito una casa di riposo di Bruxelles, il governo ha reagito ma lo ha fatto troppo tardi. Il 14 marzo sono scattate le misure restrittive che dureranno fino al prossimo 3 maggio.

I motivi del disastro. Ma che cosa è successo all'ombra di Bruxelles? Tanti sono i fattori che hanno portato il Belgio a ottenere il primato negativo. Innanzitutto le autorità hanno agito in ritardo, seguendo il vizio di tanti altri governi mondiali. In seconda battuta la gestione della crisi all'interno delle case di riposo per anziani è stata pessima. È proprio qui, sottolinea Repubblica, che troviamo il tasso di letalità più alto del pianeta tra le persone contagiate. Ma c'è un altro record da considerare, ossia che il Paese conta il secondo numero di morti per milione di abitanti di tutta Europa. In mezzo a uno scenario del genere, adesso i politici stanno reagendo. Eppure, una settimana fa, molti di loro negavano la situazione. Il governo di Sophie Wilmés è finito nell'occhio del ciclone, e con lei, al centro delle critiche, troviamo il ministro della Salute Maggie De Block. La fiamminga, lo scorso 3 marzo, aveva paragonato il Covid-19 a una ''banale influenza''. Stando a quanto riportato dal Johns Hopkins Coronavirus Resource Center, il governo belga deve fare i conti con il tasso di letalità più alto al mondo per numero di contagiati. La percentuale oscilla intorno al 13,4%. Basti pensare che in Italia è del 13%, nel Regno Unito del 12,8%. In Germania addirittura del 2,5%; negli Stati Uniti siamo al 4,3% e in Cina al 4%. In Belgio ci sono inoltre 383 decessi per milione di abitanti, considerando che nel Paese si contano 11,5 milioni di persone; si tratta del secondo dato più alto d'Europa dietro alla Spagna. È difficile giustificare numeri del genere. Le autorità spiegano che i numeri derivano dal metodo di conteggio usato. Ossia: vengono inseriti tra i morti di nuovo coronavirus anche i pazienti che non hanno fatto il test ma che hanno presentato sintomi prima di morire. Gli esperti avanzano tuttavia un'altra spiegazione. Uno dei motivi risiederebbe nell'elevata densità della popolazione e nel fatto che Bruxelles sia una città internazionale, nonché sede delle istituzioni europee.

Coronavirus: le statistiche che distorcono la realtà. Elisabetta Burba il 20 marzo 2020 Panorama. Domenica 15 marzo una persona che mi è cara e che vive a Bruxelles ha iniziato ad avere febbre e un po' di affanno respiratorio. Al telefono, il medico le ha detto di prendere la Tachipirina e di farsi viva dopo qualche giorno. Poiché nonostante il paracetamolo la febbre restava sui 37.5, dopo tre giorni lo ha richiamato. A quel punto il medico le ha detto, sempre al telefono, che a suo avviso aveva contratto il coronavirus. E le ha ordinato l'isolamento domiciliare: «Se invece si alza la febbre o si aggrava l'affanno, le organizzo il trasferimento in ospedale». Niente visita medica, niente tampone, niente ricovero. Motivo: evitare l'intasamento delle strutture sanitarie. Ora, non trovandosi in condizioni gravissime, la persona in questione è felice di starsene a casa sua. Ciò detto, non intendo entrare nel merito delle scelte del medico belga, che peraltro ha seguito le indicazioni delle autorità sanitarie del suo Paese: «Solo le persone che soffrono di gravi problemi respiratori che devono essere ospedalizzate saranno sottoposte al test Covid-19». Anche se mi chiedo come questo approccio possa essere accettabile dal punto di vista scientifico. L'obiezione che mi sorge spontanea è un'altra. E riguarda le statistiche. Secondo i dati ufficiali di Sciensano, l'istituto per la salute pubblica del Plat pays, il 19 marzo in Belgio c'erano 1795 casi di coronavirus, di cui 221 a Bruxelles. Ma la persona che a parere del suo medico risulta positiva al Covid-19 in quella statistica non compare. E, come lei, chissà quanti altri contagiati...Per carità, anche in Italia abbiamo tanti casi che non risultano nelle statistiche. «Ormai in Lombardia teniamo i malati a casa, senza fare tamponi, se non sono in condizioni gravissime» mi ha spiegato un medico militare di Milano, il tenente colonnello Lorena Triches. Tanto che, come ha denunciato il biologo Enrico Bucci, docente alla Temple University di Philadelphia, nella regione più colpita dal contagio «i numeri ormai sono insensati: i contagiati sono di più». Ma c'è una differenza sostanziale fra Lombardia e Belgio: il sistema sanitario di Milano e dintorni è ormai quasi al collasso e per questo non riesce più a tenere il conto dei contagiati. Ma, come sappiamo bene, ci ha provato con tutte le sue forze. Quello dei belgi, per loro fortuna, è perfettamente funzionante. La decisione di tenere i malati non gravi a casa senza fare tamponi, dunque, è frutto di una strategia politica. Peraltro è la stessa strategia seguita dalla Francia. In un articolo intitolato «Coronavirus: la France pratique-t-elle assez de tests?» (Coronavirus: la Francia esegue abbastanza tamponi?), Le Monde ammette che nel Paese transalpino «solo i casi severi della malattia sono testati», cosa che può comportare una sottostima» del fenomeno. E ammette: «Più si controlla la popolazione, più si recensiscono casi, che altrimenti sarebbero passati inosservati». Per dimostrare il concetto, il quotidiano parigino pubblica un interessante grafico realizzato dall'Agenzia nazionale della salute francese in base ai dati della pubblicazione scientifica online dell'Università di Oxford Our World in Data. Il grafico di Le monde. Annotazione curiosa: nonostante l'Italia, come risulta dal suo stesso grafico, sia il Paese che ha fatto più tamponi dopo la Corea del Sud, il quotidiano parigino non la cita. Cita la Germania, che fa meno tamponi dell'Italia. Ma noi niente, come se noi non esistessimo, come se non fossimo sulla porta di casa loro. Ma spostiamoci in un Paese vicino a Belgio e Francia, il Lussemburgo, che il 19 marzo registrava 335 positivi al Covid-19. Secondo quanto mi è stato riferito da una fonte assolutamente attendibile, nei primissimi giorni di marzo la moglie di un funzionario italiano di un'istituzione europea è rientrata in Lussemburgo da una vacanza sciistica in Lombardia, che era già zona rossa. Le è venuta tosse e febbre, ma il suo medico e l'ospedale si sono rifiutati sia di farle il tampone sia di ricoverarla. Peggio è andata a una collega del marito. Come risulta da un post da lei scritto di cui sono in possesso, questa funzionaria di un'istituzione europea a inizio marzo è rientrata in Lussemburgo da un viaggio di lavoro in Africa con una «severa infezione ai polmoni». Si è recata dal suo medico, che le ha diagnosticato una polmonite. La signora gli ha chiesto che le facesse un tampone, ma il medico si è rifiutato, dicendo che non poteva farlo senza l'autorizzazione del governo. Quando poi ha saputo che nel Paese africano da cui era rientrata erano scoppiati casi di coronavirus, ha pregato il medico di chiedere l'autorizzazione governativa. Niente. A quel punto è andata al pronto soccorso di un ospedale, dove le hanno fatto tutti i test tranne il tampone per il Covid-19. Motivo: secondo quanto le ha detto il medico dell'ospedale, era «complicato» farlo. Perché, se avessero trovato un caso positivo, avrebbero dovuto metterlo in isolamento. E, purtroppo, avevano solo una stanza per l'isolamento. Anche in questo caso non intendo entrare nel merito delle scelte sanitarie. Però l'esempio del Lussemburgo, Paese peraltro con risorse stratosferiche rispetto all'Italia, rafforza il mio interrogativo. Se così stanno le cose, che grado di attendibilità hanno le statistiche ufficiali? Molto basso se non nullo, evidentemente. Ecco perché lo stessa pubblicazione Our World in Data nel suo grafico sui numero dei contagi nel mondo inserisce una nota significativa: «In alcuni casi, il numero totale dei test può corrispondere al numero degli individui che sono stati testati, più che al numero dei campioni». Non a caso, il direttore dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha lanciato un accorato appello, invitando a moltiplicare i tamponi. «Abbiamo un semplice messaggio per tutti i Paesi: testate, testate, testate» ha implorato Tedros Adhanom Ghebreyesus. «Non si può combattere un incendio bendati. Non possiamo fermare questa pandemia se non sappiamo chi è infetto». Di questo dato di fatto occorre prendere consapevolezza. Anche perché, se le statistiche sono di fatto inaffidabili, forniscono una fotografia distorta della situazione sul campo. Fotografia che, tra l'altro, ha pesanti ripercussioni sull'immagine del nostro Paese all'estero e sulle nostre relazioni bilaterali. Un esempio per tutti, che viene dalla Russia. La giornalista Cristina Giuliano, grande russofola, mi ha segnalato che il 15 marzo il commentatore sportivo russo Georgy Cherdantsev, una star di Ntv seguita da milioni di persone, ha twittato che sono stati «gli italiani a contagiare tutti» e che era da imputare a loro il possibile ritardo del campionato di calcio europeo 2020. Ma c'è di peggio. «Gli italiani sono semplicemente pazzi, non hanno un normale sistema di controllo epidemiologico» ha dichiarato il 25 febbraio sulla Novaja Gazeta Vladimir Beloborodov, il capo del dipartimento di malattie infettive dell'ospedale Botkin di Mosca. Che ha pronosticato: «In Italia non frega niente a nessuno del virus e comunque non ci sarà un'epidemia». Se, come pare, questi effetti collaterali sono anche frutto di statistiche inattendibili prodotte da una panoplia di strategie dei Paesi membri dell'Ue, non va per niente bene. E occorre fare qualcosa. Per esempio testare per lo meno i casi che i medici ritengono conclamati. Perché, per lo meno all'interno dell'Unione europea, è inaccettabile che non ci sia uniformità nella raccolta dei dati sanitari. A maggior ragione in presenza di una pandemia. Altrimenti, a 150 anni di distanza, la provocazione di lord Disraeli sarebbe più valida che mai.

·        …in Olanda.

Da "europa.today.it" il 17 ottobre 2020.  Rutte chiude i bar e gli olandesi fanno festa a due passi dal Parlamento. Il video diventa virale. "Il sindaco dell'Aia Jan van Zanen ha definito “del tutto irresponsabile” il comportamento di un gruppo di cittadini che hanno festeggiato, all’interno di un gazebo, le ultime ore di ‘libertà’ precedenti al parziale lockdown imposto dalle autorità olandesi. I contagi in crescita e gli ospedali sempre più pieni hanno convinto il Governo di Mark Rutte a imporre la chiusura di bar e ristoranti. La corrispondente della Bbc Anna Holligan ha filmato la scena che ha creato sdegno e rabbia nella quale decine di persone all’interno di un gazebo a pochi metri dal Parlamento olandese violano le regole sul distanziamento sociale, ballando e festeggiando a ritmo di musica da club". “Le immagini che ho filmato ieri sera mostrano persone che si abbracciano scattano selfie e ballano sui tavoli pochi minuti prima che il blocco parziale entrasse in vigore alle 22,00” scrive Holligan su Twitter. A quanto riportato dai testimoni, la polizia ha monitorato a distanza la festa senza mai intervenire. Nel mentre il DJ esaltava la folla al grido “mani al cielo”, e aggiornava sul conto alla rovescia: “30 minuti al lockdown”. I Paesi Bassi attualmente registrano uno dei tassi d'infezione in più rapido aumento in Europa. Almeno 6.663 olandesi sono rimasti vittima del Covid-19 dall'inizio della pandemia.

Da huffingtonpost.it il 27 maggio 2020. Il primo ministro olandese Mark Rutte è stato con la madre l’ultima notte prima che morisse, dopo che non l’aveva vista per otto settimane a causa delle restrizioni per il coronavirus. Lo ha detto un portavoce del governo, citato dalla Cnn, dopo che era stato annunciato il decesso di Mieke Rutte-Dilling, 96 anni. La madre del premier, deceduta il 13 maggio, non è morta di covid-19. Rutte “ha rispettato tutte le restrizioni per il coronavirus e non ha visitato la madre per più di otto settimane - ha detto il portavoce alla Cnn - tuttavia le misure restrittive lasciano spazio alla possibilità di salutare un membro della famiglia morente. Il primo ministro è stato assieme alla madre nella sua ultima notte”.

Guarita a 107 anni dal Coronavirus, il record di Cornelia: “Così ha sconfitto il Covid”. Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. È ufficialmente guarita dal Covid-19, diventando la persona più anziana ad aver sconfitto il Coronavirus. È l’incredibile storia che arriva dall’Olanda: protagonista è Cornelia Ras, infetta dal Covid-19 a metà marzo, il giorno dopo aver compiuto gli anni. A raccontare la sua vicenda è stata la nipote al quotidiano olandese AD: l’anziana donna risiede in una casa di riposo a Goeree-Overflakkee, isola dell’Olanda meridionale dove c’è stato il primo focolaio nei Paesi Bassi con 41 contagiati e 12 decessi dopo una funzione religiosa nella casa di riposo. Maaike de Groot, nipote di Cornelia Ras, ha raccontato che la nonna ha iniziato ad avvertire i primi sintomi il 17 marzo scorso, ma “ha mantenuto la calma. Ha detto che se se ne fosse andata, sarebbe andato bene e se fosse sopravvissuta, sarebbe andato bene”. Lunedì è arrivata la buona notizia, con la donna che ha sconfitto l’infezione che a livello globale ha provocato oltre 95mila morti. “Non prende medicine, cammina ancora bene e si inginocchia per pregare ogni sera. A quanto pare potrà continuare a farlo”, ha raccontato la nipote.

Da "leggo.it" il 16 marzo 2020. Il panico per il coronavius  in Olanda ha prodotto effetti impensabili. All'annuncio delle misure d'emergenza adottate dal governo, anche nei Paesi Bassi sono scattate le corse agli accaparramenti ma per un genere di prodotto assai diverso dalle casse d'acqua e la farina: la cannabis. Oggi pomeriggio si sono create lunghe code davanti ai coffee shop in Olanda per fare scorte prima della chiusura di questi esercizi, che dovranno tenere le serrande abbassate fino al 6 aprile prossimo. Nel quadro delle misure annunciate per arginare il contagio da coronavirus, il governo dell'Aja - secondo quanto si legge in una nota ufficiale - ha deciso che almeno fino al primo lunedì di aprile non riapriranno le scuole di ogni ordine e grado e gli asili nido. Stessa sorte toccherà anche a tutti i bar e ristoranti, così come le palestre, i club sportivi, le saune e i sexy shop. Il gabinetto del premier Mark Rutte sta ora lavorando a una serie di misure - che probabilmente saranno annunciate domani - per aiutare gli imprenditori in difficoltà che vanno dalla riduzione degli orari di lavoro a prestiti agevolati.

Dagospia il 13 aprile 2020. Pierluigi Lopalco: Dalle FAQ sul sito del governo dei Paesi Bassi. Mi sembra un buon modo per mandare in giro la gente con patente di infettare (è in inglese, niente Google Translate) #COVID19

Dalle Faq del governo dei Paesi Bassi sul coronavirus.

Penso di avere il Coronavirus. Cosa dovrei fare?

(…) Se ti senti meglio e non hai sintomi per 24 ore, sei guarito. Non puoi più infettare gli altri.

Vivo con qualcuno che ha febbre e difficoltà respiratorie. Cosa dovrei fare?

Chiama il tuo dottore se i sintomi peggiorano (febbre sopra i 38 gradi e difficoltà a respirare) o se hai bisogno di assistenza medica. Tutti i membri della famiglia possono lasciare di nuovo la casa se nessuno ha avuto sintomi per 24 ore..

Coronavirus, il caso Olanda: Rutte e l'immunità di gregge. Il premier è rimasto l'unico in Europa a sostenere pubblicamente che è impossibile confinare i cittadini per fermare il virus. Una scelta che preoccupa i vicini. La Repubblica il 20 Marzo 2020. Durante l'atteso discorso alla nazione di tre giorni fa, il premier Mark Rutte ha dichiarato che il coronavirus è tra noi e che per il momento ci rimarrà. Rutte s'è detto convinto che non esista una soluzione immediata per contrenere la pandemia. "La realtà è che gran parte del popolo olandese verrà contagiato nel prossimo futuro", ha affermato, sottolineando che l'obiettivo di politica sanitaria dell'esecutivo è quello di sviluppare l'immunità di gregge. Per raggiungere questo obiettivo, ha detto Rutte, possono essere necessari mesi. "Le misure adottate non hanno precedenti", ha affermato ancora, spiegando che il suo governo segue alla lettera le indicazioni degli esperti; secondo lui,  l'unico modo ragionevole è usare evidenze scientifiche. Il premier ha sottolineato, inoltre, che una chiusura totale del Paese non è possibile. Ma le parole hanno seminato il panico nelle nazioni vicine ai Paesi Bassi, ossia il Belgio e la Germania. "E' una scelta inaccettabile", ha immediatamente dichiarato un politica belga. Ora che - almeno ufficialmente - anche il premier britannico Boris Johnson ha deciso di fare marcia indietro sull'immunità di gregge, perché le previsione di una tale politica sanitaria sono di decine di migliaia di morti solo nel Regno Unito, il solo che sostiene pubblicamente la sua efficacia è Rutte. In Olanda le scuole sono state chiuse lunedì scorso così come i bar e i ristoranti, ma non è stata adottata nessuna misura di quarantena. Il solo accorgimento suggerito è quello di non avvicinarsi a più di 1,5 metri dagli sconosciuti. Da un paio di giorni, tuttavia, gli olandesi hanno preferito chiudersi dentro casa. Per il ministro della Salute olandese Bruno Bruins, il confinamento della popolazione rischia di far rinascere l'epidemia appena il protocollo venisse abbandonato. Lo stesso ministro che ieri è stato costretto a dimettersi dopo un malore durante un dibattito all'Aia in cui esponeva la sua controversa strategia.

L’Olanda di Rutte pronta a tentare l'”immunità di gregge”. Davide Bartoccini su Inside Over il 21 marzo 2020.  the world. Dopo l’abbandono dell’ipotesi promossa dai britannici – che forse si sono accorti quanto folle potesse essere condannare a morte certa migliaia di persone – l’unico governo che ancora reputa possibile la carta dell’immunità di gregge per sconfiggere l’epidemia di coronavirus è l’Olanda. Il premier fiammingo Mark Rutte è rimasto “l’unico in Europa” a sostenere la tesi che è materialmente “impossibile” confinare i cittadini per fermare la diffusione del virus, e quindi, nonostante la lezione impartita dalla dilagazione del Covid-19 in Italia, Spagna, Francia e Germania – dove si contano complessivamente 111mila contagiati – sta valutando seriamente l’ipotesi di provare a combattere il virus attraverso l‘immunità di gregge. Rutte ha dichiarato che: “il coronavirus è tra noi e che per il momento ci rimarrà”, abbandonando l’ipotesi di attivare le contromisure che tutti gli stati europei – chi prima, chi dopo – stanno innalzando, e applicando una linea “all’inglese”: nonostante lo stesso Regno Unito, dopo le preoccupanti dichiarazione del primo ministro Boris Johnson, sia giunto alla conclusone che la teoria che prevede il contagio di milioni di cittadini per poi vedere “chi resta in piedi” non è da ritenere propriamente un’idea “allettante”. Secondo il premier olandese però, ormai il danno è fatto, e non esiste una soluzione immediata e reale per contenere la pandemia. “La realtà è che gran parte del popolo olandese verrà contagiato nel prossimo futuro”, ha affermato Rutte, dunque l’ipotesi più sostenibile è quella di tentare la carta dell’immunità di gregge e attendere che gli olandesi sviluppino da soli gli anticorpi necessari a combattere il virus. Per raggiungere questo obiettivo “possono essere necessari mesi” ha dichiarato pubblicamente il leader fiammingo, che forse ignora i grafici che riportano le curve in ascesa, esplicando infettività e aumento del contagio in paesi che hanno comunque applicato la “quarantena”. “Le misure adottate non hanno precedenti”, continua Rutte, spiegando come il governo intenda seguire alla lettera le indicazioni degli esperti per sviluppare l’immunità di gregge. Definito come “l’unico modo ragionevole è usare evidenze scientifiche“. Ciò che preoccupa ulteriormente, oltre all’incolumità del popolo olandese costretto a diventare cavia di se stesso, è che in virtù di questa visione “temeraria”, il governo olandese non intende imporre la chiusura delle frontiere, né per chi entra, ma nemmeno per chi esce; provocando il panico degli stati confinanti. “È una scelta inaccettabile” sostiene il Belgio, che si troverebbe in questo modo costretto a sorvegliare le frontiere come se fosse in “guerra”. Dopo il dietrofront del premier britannico Johnson, che era stato un sostenitore della prima ora di questa teoria, esposta al popolo attraverso la melodrammatica e macabra ambasciata del “preparatevi a perdere i vostri cari”, si pensava che ogni governo avesse maturato la coscienza che nessuno Stato europeo nel Ventunesimo potesse prestare il fianco al virus in attesa di un collasso del sistema sanitario e al prezzo di un bollettino di guerra da decine di migliaia di morti in una sola nazione – solo per non “imporre una quarantena” e attivare le contromisura per farla rispettare. Ma evidentemente tutti si sbagliavano. Rutte sostiene la sua linea, nonostante un opposizione diffusa in parlamento. Anche se scuole, bar e ristoranti, sono stati chiusi all’inizio della settimana, nessun genere di “quarantena” è stata ancora attivata, lasciando il “virus” libero di girare a piedi o su ruote di bicicletta odi  macchina, al sicuro, nel corpo dei contagiati che sono liberi di proseguire la loro vita semi-abituale. L’unico invito fatto alla popolazione è quello di non “avvicinarsi” a meno di 1 metro e mezzo dagli sconosciuti. Come se fosse un’accortezza sufficiente a debellare il rischio di contagio. Sebbene gli olandesi di buon senso – forse spronati dalle notizie che giungono da tutto il mondo – sembrano essersi asserragliati dentro i loro appartamenti da un paio di giorni, molti altri potrebbero ignorare questa precauzione e continuare a svolgere tranquillamente il loro ruolo di untori per “allargare le fila del gregge”.

·        …nei Paesi Scandinavi.

Da repubblica.it il 17 dicembre 2020. (...) Svezia piegata di nuovo dalla seconda inattesa ondata. Nonostante un inasprimento delle restrizioni nelle ultime settimane, la Svezia e la sua strategia atipica contro il Covid-19 sono nuovamente messe in grande difficoltà da una impressionante seconda ondata che il Paese nordico credeva di poter evitare. "L'autorità sanitaria pubblica aveva preparato tre scenari questa estate. Ci eravamo basati su quello peggiore. Tuttavia, emerge che nella realtà è due volte più grave" di quanto temuto, spiega Lars Falk, un operatore dell'unità di terapia intensiva all'ospedale Karolinska di Stoccolma. In un'inusuale presa di posizione pubblica, il re svedese Carl XVI Gustaf ha lanciato la dura accusa, di fronte alla grave situazione che si e' venuta a creare nel Paese: "Gli svedesi hanno sofferto tremendamente in condizioni difficili. Penso che abbiamo fallito, abbiamo un gran numero di morti e questo è terribile", ha affermato nell'intervista di fine anno alla tv di Stato Svt. Servizi di rianimazione sotto pressione, richiesta di rinforzo da tutto il personale sanitario qualificato a Stoccolma, mortalità fino a dieci volte superiore a quella dei suoi vicini scandinavi: questo autunno la strategia svedese, meno rigida di fronte all'epidemia, ripete i suoi scarsi risultati della scorsa primavera. All'inizio della settimana, i ricoveri legati a Covid in Svezia hanno raggiunto il picco del 20 aprile, con quasi 2.400 pazienti in cura, anche se la percentuale in terapia intensiva è doppia rispetto alla primavera, intorno al 10%. Il bilancio delle vittime ha raggiunto 7.802 - di cui oltre 1.800 dall'inizio di novembre - e quello dei nuovi casi e' intorno a un livello record, oltre 6 mila al giorno in media, secondo i dati ufficiali. Senza mascherine, nè chiusura di bar, ristoranti e negozi, nè quarantena obbligatoria, la Svezia si è distinta per una strategia basata essenzialmente su "raccomandazioni" e pochissime misure coercitive.

Perché è presto per bocciare il modello svedese. Alberto Bellotto su Inside Over il 15 novembre 2020. Per il modello svedese di contenimento del coronavirus è iniziata la stagione più difficile. Gli ultimi dati che arrivano dalla Svezia hanno riaperto la questione sull’efficacia di un approccio alla pandemia senza restrizioni né lockdown. Da mesi più di qualcuno ha provato a guardare a quanto succede lì per capire se un modello meno stringente con approcci più morbidi possa garantire un equilibrio tra il diritto alla salute e la tutela dell’economia. Oggi i nuovi numeri in arrivo dalla Scandinavia mettono in dubbio le scelte di Stoccolma. Secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie il Paese ha fatto contare 166.707 casi dall’inizio della pandemia, ai quali si sommano almeno 6.082 decessi. Secondo le stime del Financial Times il 10 novembre scorso la Svezia presentava una media mobile su base settimanale pari a 4.028 casi. Per capirci l’Italia lo stesso giorno presentava una mobile di 33 mila casi. Chiaramente quello che in questo momento preoccupa è la rapidità con cui sale la curva e soprattutto il numero delle persone colpite in base alla popolazione. Sempre il 10 il Paese presentava una media mobile di casi registrati ogni milione di abitanti di 381, contro i 558 dell’Italia e i 696 della Francia. A preoccupare di più ovviamente è il tasso di crescita settimane. Basandoci sulla media mobile nei primi tre giorni della settimana abbiamo stimato il tasso di crescita in Svezia. Tra il 19, 20 e 21 ottobre e la settimana successiva l’aumento è stato del 65%, mentre tra quella stessa settimana e i giorni dal 2 al 4 novembre l’aumento è stato del 100%, salvo poi registrare una diminuzione al 41% se confrontato con i giorni dal 9 all’11. Complessivamente, scrive ancora FT, più di un test su 10 è positivo e uno su cinque viene registrato a Stoccolma.

Il confronto coi vicini: maglia nera in Scandinavia. Diversi esperti hanno sottolineato nei mesi scorsi che il confronto più corretto andrebbe fatto coi paesi vicini, come Finlandia, Norvegia e Danimarca, nazioni simili che però hanno adottato forme di contenimento più rigide. In questo caso la Svezia sembra essere indietro. La migliore di tutte è infatti la Finlandia con 39 casi ogni milione di abitanti, seguita da Norvegia (106) e Danimarca (180). A parte la Finlandia che mostra una seconda ondata già finita con una curva piatta fin dalla metà di ottobre, Norvegia e Danimarca hanno visto casi in salita per tutto il periodo. Copenaghen con una curva che inizia a ridursi e Oslo che invece presenta tassi di crescita simili a quelli svedesi. Anche il fronte dei decessi desta qualche preoccupazione. La Svezia mostra infatti una media settimanale di 0,6 morti per milione di abitanti, contro lo 0,1 della Finlandia, ma in linea con la vicina Danimarca (0,6). Tanto per avere un termine di paragone con lo stesso calcolo l’Italia arriva a quota 7,6. Il conteggio svedese almeno per il momento mostra un andamento discendente, al contrario della vicina Danimarca. Il 7 novembre la media ha infatti toccato il picco di 10,14 decessi per milione, salvo poi diminuire, anche se è prematuro per dire che ci sia un trend discendente.

Alla luce di questi numeri sorge spontanea la domanda: il modello svedese non sta funzionando?

La risposta è più complessa di quello che può sembrare. Prima una premessa. Osservando gli andamenti nel corso di tutto il 2020 si vede che la Svezia ha seguito le curve epidemiologiche in modo abbastanza simile a quelle di tutta Europa e dei vicini, salvo un picco avuto tra fine maggio e inizio giugno. In pratica con il modello “libero” svedese si ha avuto un andamento simile a quello di modelli più restrittivi. Fin dalle prime avvisaglie della pandemia il modello prevedeva una totale assenza di blocchi stringenti nei movimenti delle persone e nell’accesso a bar, ristoranti o negozi. L’agenzia di sanità pubblica e tutte le autorità sanitarie negli scorsi mesi hanno emesso delle raccomandazioni sul distanziamento sociale, il lavoro da casa e il lavaggio delle mani. Ma nient’altro, nemmeno l’obbligo delle mascherine.

Un check up al modello. Dalle parti di Stoccolma però gli ultimi numeri hanno fatto innalzare la soglia di allerta. Per questo in questa seconda ondata la strategia è stata rivista. Per prima cosa è caduto il tabù delle chiusure. Il governo ha infatti deciso di mettere un blocco parziale a bar e ristoranti vietando la vendita di alcolici dopo le 22 di sera e comunque un orario di apertura che non superi le 22.30 che sarà operativo dal 20 novembre prossimo e dovrebbe estendersi fino a febbraio. Successivamente le autorità sanitarie delle 13 regioni che hanno registrato più casi hanno emanato una serie di raccomandazioni per sensibilizzare la popolazione (circa due terzi dell’intera Svezia) con l’invito ad evitare negozi o trasporti pubblici, o in generale i contatti con chi non è convivente. In generale questo tipo di approccio è apprezzato in Svezia e la popolazione sembra incline a rispettare queste indicazioni. Ma non sono mancate le voci critiche. Per la virologa Lena Einhorn la strategia svedese è stata «un drammatico fallimento». In un’intervista del 12 novembre denunciava una situazione insostenibile: «Negli ultimi quattro giorni abbiamo avuto casi pro-capite otto volte superiori alla Finlandia e tre volte e mezzo superiori alla Norvegia».

Il problema delle terapie intensive. Ovviamente gli effetti delle restrizioni si vedranno nelle prossime settimane, ma per il momento ci sono dei numeri che preoccupano. In particolare il tasso di crescita come abbiamo visto. Tanto che lo stesso premier svedese Stefan Löfven si è detto disponibile a varare eventuali misure restrittive supplementari. Il dato che in questi giorni viene monitorato con più attenzione è ovviamente quello delle terapie intensive. Pur essendo lontani i picchi di aprile i 129 pazienti ospedalizzati l’11 novembre scorso sono stati il segnale che qualcosa non torna. Anche perché negli ultimi giorni i nuovi ingressi in terapie intensiva sono raddoppiati.

Anche Anders Tegnell, l’epidemiologo di Stato architetto della strategia, ha detto che i numeri sono preoccupanti, ma ha anche ribadito che per il momento la Svezia ha ancora un discreto margine operativo degli ospedali con una capacità residua della terapia intensiva tra il 75 e l’80%. Secondo Tegnell i numeri crescono ora proprio perché la seconda ondata è arrivata in un secondo momento rispetto ad altri Paesi. L’epidemiologo, ha scritto FT, ha spiegato che le autorità stanno intensificando gli sforzi nelle aree già sensibili, e ribadito anche che siamo di fronte a «una lunga lotta e che tutti dovremo adattarci mentre andiamo avanti perché ci sono molte cose che ancora non si sanno sul virus». Questo ultimo passaggio è molto importante. Già ad agosto Tegnell aveva invitato tutti a profonde riflessioni sulla natura stessa della malattia, ribadendo due concetti chiave: se volete confrontare il modello svedese con altri Paesi non fatelo con la Scandinavia, ma con chi ha caratteristiche urbane simili alle nostre, come Paesi Bassi o Regno Unito (e al momento sia Londra che Amsterdam sono alle prese rispettivamente con medie dei contagi per milione di abitanti tra 342 e 358 e due lockdown). Il secondo concetto era forse più filosofico che epidemiologico se vogliamo e ribadiva come il coronavirus non fosse una malattia “debellabile”, non con i metodi che ci sono al momento a disposizione. Per questo, era la sua idea, serve pazienza e capacità di adattamento per convivere con il virus. All’epoca la diminuzione dei casi aveva suggerito fosse intervenuta una sorta di immunità in una fetta di popolazione, ma oggi su questo fronte con ci sono riscontri, come ammette lo stesso epidemiologo che definisce “un grande mistero” il suo funzionamento. Quello di cui Tegnell è però certo è che serva ancora tempo. Parlando al Global Boardroom del FT lo scienziato svedese ha spiegato che il Covid-19 resta un carico che andrà trasportato a lungo e che per questo sia necessaria una strategia sostenibile sul lungo periodo capace di funzionare per molti mesi, se non addirittura anni. Una strategia che deve guardare al di là di chiusure e lockdown a fisarmonica. Solo il tempo però darà la misura di quanto la flessibilità svedese possa reggere.

Svezia, impennata di contagi e lockdown "raccomandato": crolla il mito del paese che ce l’ha fatta senza strette. Redazione su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. È passato alle cronache come l’unico paese al mondo che non aveva adottato misure restrittive anticovid. In Svezia niente lockdown ma i contagi erano rimasti pochi. Ma nelle ultime 24 ore la situazione sembra essere precipitata: sono 1.870 i nuovi casi di coronavirus, il numero più alto dall’ inizio della pandemia. Secondo l’Agenzia della salute svedese, in primavera i casi sono stati molti più contagi ma non sono stati registrati per la mancanza di test. Il record precedente di casi di Covid-19 era stato 1.698 a fine giugno. Le vittime di coronavirus in Svezia sono attualmente 5.933. L’Agenzia della salute e la regione di Uppsala solo una settimana fa hanno deciso di introdurre delle restrizioni che sono comunque solo raccomandazioni, niente nuovi leggi per fronteggiare la calamità. Per il momento si chiede alla popolazione di evitare il più possibile i trasporti pubblici e astenersi dall’incontrare persone non conviventi. Un lockdown raccomandato, non imposto. Come non è obbligatorio l’uso della mascherina. E intanto la situazione si aggrava. Le vicine Danimarca, Finlandia e Norvegia registrano casi di Covid e decessi nettamente inferiori. I casi sono cinque volte quelli della Danimarca e dieci volte quelli di Finlandia e Norvegia.

Il modello svedese naufraga: “La situazione va nella direzione sbagliata”. Il Dubbio il 3 novembre 2020. “Vediamo che la situazione sta andando nella direzione sbagliata, la situazione è molto grave”. A dirlo è il primo ministro svedese Peter Lofven, in una conferenza stampa in cui è stato annunciato un limite massimo di otto persone ai tavoli di bar e ristoranti, come misura per contrastare il contagio del coronavirus. “Vediamo che la situazione sta andando nella direzione sbagliata, la situazione è molto grave”. A dirlo è il primo ministro svedese Peter Lofven, in una conferenza stampa in cui è stato annunciato un limite massimo di otto persone ai tavoli di bar e ristoranti, come misura per contrastare il contagio del coronavirus. Lofven ha sottolineato che sempre più persone sono ricoverate in terapia intensiva per il covid-19 e che è probabile un aumento dei decessi. Un paziente su 5 in terapia intensiva è affetto dal coronavirus, ha sottolineato il ministro della Salute Lena Hallengren. In altre tre regioni svedesi i cittadini sono stati esortati oggi a non recarsi in shopping center, musei, biblioteche, palestre e centri benessere, a lavorare il più possibile da casa, evitare i mezzi pubblici e non incontrino persone estranee al nucleo familiare. Tale raccomandazione riguarda orma 7 svedesi su 10, ha precisato Lofven. “Abbiamo un lungo inverno davanti a noi. Dobbiamo fare il massimo per ridurre la diffusione dell’infezione”, ha detto Johan Carlson, capo dell’Istituto di sanità pubblica. Come è noto, la SVEZIA è uno dei pochi paesi che ha scelto all’inizio della pandemia di non imporre il lockdown. Al momento il bilancio in questo paese di 10,3 milioni di abitanti, è di 134.500 contagi e 5.969 decessi, un dato molto più alto dei vicini scandinavi, ma inferiore ad altri paesi europei.

Halloween in Svezia, dove festeggiare si può: “Qui è lasciato alla libertà di ognuno”. Le Iene News il 2 novembre 2020. In Italia e in particolare in Lombardia e a Milano rischia di esserci un nuovo lockdown. Intanto in Svezia non ci sono divieti, qui il Covid non conosce restrizioni: bar e ristoranti sono aperti e per strada si passeggia senza mascherina. Walfredo, un imprenditore italiano, ci racconta il suo weekend a Stoccoloma, dove ha partecipato anche a una festa di Halloween. “In Svezia non c’è la paura che si respira in Italia. Ogni scelta è lasciata alla libertà di ognuno”. In poche ore è passato dalla piena libertà di Stoccolma dove il Covid non sembra neanche esserci al rischio di un nuovo lockdown in Italia in particolare a Milano e in Lombardia. Lui è Walfredo che a Iene.it racconta il suo weekend di lavoro nel Nord Europa, dove è riuscito a concedersi anche una festa per Halloween, come potete vedere nel video qui sopra. “Tutti possono circolare per strada senza mascherine, bar e ristoranti sono aperti fino a esaurimento dei posti”, spiega durante il suo viaggio di ritorno. Ha soggiornato in un finesettimana particolare, quello di Halloween, in cui non è mancato neppure il divertimento. “Sono stato invitato a casa di amici per una cena, eravamo una decina. E poi dopo siamo andati a una festa con molti altri invitati, musica e balli”, racconta Walfredo. Insomma, situazioni che in Italia sono solo vecchi ricordi. Basti pensare che le discoteche sono chiuse da febbraio e le feste sono vietate (nonostante le trasgressioni di alcuni, da Milano a Napoli, come vi abbiamo mostrato in questo video). In Svezia invece è tutto consentito. “Quando parli con uno svedese l’argomento è visto con leggerezza anche da chi ha avuto il Covid. Forse perché qui è stata incasellata come cosa che può succedere, ma non è grave”, racconta. Anche in Svezia c’è chi è sceso in piazza per manifestare contro la minaccia del lockdown (qui l’articolo). “Nel gruppo in cui ero di 10 persone, in 4 hanno avuto il coronavirus. Ma ne parlano tranquillamente”, spiega Walfredo. I numeri infatti raccontano un paese colpito duramente dal virus: un paio di mesi fa, a fronte del trionfalismo del “modello svedese” decantato dalla stampa italiana, vi avevamo mostrato i numeri davvero poco confortanti della Svezia (qui l’articolo).  Le cose, purtroppo, non sono cambiate molto: la Svezia è arrivata a contare 124.355 contagi e 5.938 morti e la percentuale di letalità è del 4.08%. Con questi numeri si classifica come peggiore paese in Europa dopo l’Italia. E allora perché in Svezia non ci sono divieti né limitazioni? “In Italia sembriamo abituati a un nuovo stile di vita, mentre in Svezia la scelta finale è lasciata alla libertà di tutti” spiega Walfredo, che tra poche ore tornerà ad adeguarsi ai divieti italiani e proseguirà il suo lavoro a Milano. “Non chiamatemi negazionista, piuttosto sono uno spirito libero: il lockdown è un punto eccessivo perché manderebbe sul lastrico le persone. Ma non sono neppure d’accordo nell’ignorare il problema: stare attenti e mettersi la mascherina sono l’abc”. Ora però si va verso nuove restrizioni con chiusure di negozi e orari stabiliti per muoversi, come ha annunciato stamattina il presidente del consiglio che a breve firmerà un nuovo Dpcm (qui l’articolo). “Per noi imprenditori questa situazione è insostenibile. Non possiamo pensare di non lavorare per altri 4 mesi” dice Walfredo, che opera nelle nuove tecnologie. “La prima cosa che farò appena rientrato in Italia? Il test rapido, tutta questa libertà svedese mi ha messo una certa paura. Per me il Covid non è una cosa trascurabile”.

Il no al lockdown in Svezia: celebrato da diversi giornali italiani, in realtà un disastro. LeIene News il 07 settembre 2020. Il principale epidemiologo della Svezia ha cantato vittoria, sostenendo che i risultati ottenuti dall’unico Paese a non aver attuato un lockdwon l’hanno reso “il più sicuro in Europa”. Ma i numeri dicono il contrario: non solo i vicini hanno avuto meno casi e meno decessi, ma ancora oggi hanno numeri migliori. E se l’Italia avesse adottato lo stesso schema, probabilmente saremmo stati travolti da un disastro. “Siamo passati dall’essere i peggiori in Europa a essere i più sicuri”. L’annuncio trionfalistico di Anders Tegnell, epidemiologo e consulente del governo svedese nella lotta al coronavirus, è stato riportato a caratteri cubitali da tutte le testate italiane. Secondo l’esperto oggi la Svezia sarebbe il paradiso europeo della lotta alla pandemia e tutti i giornalisti nostrani si sono affrettati a riproporre la domanda: non è che forse il lockdown italiano era la scelta sbagliata e a Stoccolma hanno avuto ragione? Per fortuna per una volta la risposta è semplice: no, non hanno avuto ragione. I numeri in questo senso parlano chiaro. La Svezia da inizio pandemia ha registrato 84.985 casi e 5.835 morti, che ne fanno il nono Paese per numero assoluto di contagi nell’Unione europea e il sesto per numero assoluto di vittime. In rapporto alla popolazione, va ancora peggio: solo il Regno Unito e Belgio hanno registrato più morti. Insomma, nei mesi scorsi gli svedesi hanno pagato un conto salato per la decisione di non imporre un lockdown. Ma almeno oggi le cose vanno così bene da giustificare una simile esultanza da parte degli esperti? No, nemmeno quello. Anche se è vero che nell’ultima settimana la Svezia ha registrato meno contagi dei vicini, Finlandia e Norvegia, negli ultimi 14 giorni i casi cumulativi di coronavirus ogni 100mila abitanti sono ancora più alti. 21,2 per la Svezia, contro i 17,3 della Norvegia e i 6,4 della Finlandia. E anche dal punto di vista diagnostico la situazione non è migliore. La Svezia infatti sta eseguendo 1,2 tamponi ogni mille persone, meno di quanto stiano invece facendo in Norvegia, cioè 2,2. Meno test, tra l’altro, significa anche meno capacità di tracciare i casi, e questo potrebbe spiegare in parte perché nell’ultima settimana la Svezia ha registrato numeri più bassi dei suoi vicini. Infine, l’epigone del fallimento del piano di Stoccolma è il tentativo fallito di raggiungere la cosiddetta “immunità di gregge”: l’obiettivo, a questo punto dell’anno, era di aver raggiunto il 40% della popolazione contagiata. Oggi, secondo le ultimi indagini molecolari svolte dalle autorità, non sono arrivati nemmeno al 15%. Insomma il non aver imposto il lockdown si è rivelato un errore, e le grida di giubilo dell’epidemiologo svedese sembrano del tutto infondate. Per carità, può anche essere che nei prossimi mesi il Paese registrati performance straordinarie, ma considerando che entro sei mesi dovrebbe essere possibile la vaccinazione di massa, non si capisce quale siano i grandi obiettivi che la Svezia avrebbe raggiunto. E infine, un’ultima considerazione: spesso si è parlato dell’ipotesi di non imporre il lockdown in Italia, facendo riferimento al modello svedese. Una possibilità questa che si sarebbe con ogni probabilità rivelata catastrofica per il nostro Paese: noi siamo stati i primi a essere colpiti in Europa, e abbiamo scoperto l’arrivo del coronavirus quando ormai questo era ampiamente circolante nel territorio. Quando è scattato il lockdown, la pressione sugli ospedali stava già iniziando a essere insostenibile e nelle settimane seguenti si è rischiato seriamente il collasso del sistema sanitario. La pronta reazione, e la chiusura del Paese, ha permesso di appiattire la curva e non mandare in tilt il sistema. La Svezia, che è stata colpita dal coronavirus ben dopo l’Italia e che ha avuto molto più tempo per reagire, oggi ha in rapporto alla popolazione quasi lo stesso numero di morti e di contagiati del nostro Paese. Mentre i vicini scandinavi, che hanno optato per il lockdown, sono molto distanti. E dunque la risposta non può che essere una: no, non hanno avuto ragione.

Coronavirus, “in Svezia la vita è come sempre”. E il prezzo pagato è altissimo. Le Iene News il 18 ottobre 2020. Alcuni video diventati virali mostrano la vita a Stoccolma, dove mascherine e distanziamento sociale sembrano solo un brutto sogno. Frutto della decisione del governo di non imporre restrizioni per contenere il coronavirus, ma la Svezia ha numeri da incubo rispetto ai vicini: Norvegia e Finlandia insieme hanno avuto finora un decimo dei morti. E il governo valuta l’introduzione di lockdown locali. Persone per strada senza mascherina, in coda per salire sul treno e al centro commerciale senza distanziamento né protezioni individuali. Le immagini che potete vedere qui sopra sono diventate virali dopo esser state pubblicare su Twitter dall’account SvitLana, e mostrano - secondo quanto sostiene l’autrice - come si vive a Stoccolma in Svezia in questi giorni. Una quotidianità in cui il fantasma del coronavirus sembra non esserci, e che su Twitter è stata ricondivisa più di 9mila volte e ha raggiunto quasi un milione di visualizzazioni e 20mila like.

Sappiamo ormai tutti che la Svezia, unico paese in Europa, ha adottato una strategia diversa da quella delle chiusure e dei divieti per contrastare la pandemia: niente chiusure, niente obblighi. Ci si è affidati alla responsabilità dei cittadini, invitati a mantenere comportamenti prudenti di fronte al pericolo del coronavirus. Un modello diverso, guardato con attenzione in questi mesi per caprine la validità. C’è chi lo ha criticato anche aspramente, chi invece lo ha lodato. Già un mese fa, di fronte al trionfalismo del “modello svedese” decantato dalla stampa italiana, vi avevamo mostrato i numeri davvero poco confortanti della Svezia. Ma all’epoca la pandemia era sotto controllo in tutta Europa, adesso invece il Vecchio continente è travolto da una seconda ondata che rischia di essere peggiore della prima. E la Svezia? Le cose, purtroppo, non sono cambiate molto: la Svezia è arrivata a contare - al 18 ottobre - 103.200 contagi e 5.918 morti. Rispetto ai suoi vicini scandinavi, la Norvegia e la Finlandia che hanno invece adottato un sistema di chiusure simile a quello del resto del mondo, continua a mostrare numeri peggiori. Oslo ha registrato 16.369 casi e 278 morti, Helsinki 13.293 contagiati e 346 decessi. Considerando che Norvegia e Finlandia insieme hanno circa gli stessi abitanti della Svezia, significa che a Stoccolma hanno avuto più di tre volte più casi e quasi dieci volte più morti del resto della penisola. E anche oggi, sebbene la seconda ondata non stia colpendo duramente come nell’Europa continentale, la Svezia continua a fare peggio: secondo i dati del Centro europeo di controllo delle malattie, al 17 ottobre Stoccolma ha registrato 85.3 casi ogni 100mila abitanti negli ultimi 14 giorni, contro i 37.3 della Norvegia e i 53.1 della Finlandia. Lo stesso vale per i decessi: nelle ultime due settimane la Svezia ha registrato 0.3 morti ogni 100mila abitanti, Norvegia e Finlandia 0.1. Insomma, a un mese dal nostro primo articolo si conferma che il “modello svedese” finora non ha pagato. E rispetto all’Italia, invece? In rapporto alla popolazione, la Svezia ha registrato più casi di coronavirus: 103.200 su 10 milioni di abitanti, contro i 402.536 dell’Italia a fronte di una popolazione di 60milioni di persone. Sul fronte delle vittime, invece, i numeri sono pressoché identici. Bisogna comunque considerare che il nostro paese, purtroppo, registra il secondo tasso di letalità del coronavirus al mondo: il 9.3 dei contagiati sono morti. Peggio di noi solo il Messico, che registra una letalità del 10.2%. (Da questa classificazione escludiamo lo Yemen, i cui dati sono falsati dalla tragedia socio-sanitaria del concomitante conflitto bellico in corso). La Svezia a ogni modo si classifica decima, con una letalità del 5,7%: solo l’Italia e il Regno Unito in Europa registrano numeri peggiori. L’evidenza del mancato funzionamento del sistema è chiara anche alla Svezia, che infatti ha annunciato la possibilità di introdurre di restrizioni nelle zone del paese maggiormente colpite in questo momento. “Una situazione di lockdown, ma limitato localmente”, lo ha descritto il direttore del Dipartimento di malattie infettive di Uppsala (la quarta città svedese per numero di abitanti) al Telegraph. Insomma, le immagini che vedete qui sopra mostrano una vita più “normale” di quella che condurremo noi nei prossimi mesi, in cui probabilmente dovremo rispettare restrizioni ancora maggiori di quelle attualmente in vigore. Una quotidianità che però in Svezia stanno pagando a caro prezzo.

"Non abbiamo fatto lockdown". Cosa c'è dietro il piano svedese. A quanto pare il modello ideato dall'epidemiologo Andres Tegnell sta funzionando: "La Svezia non sta facendo i conti con la seconda ondata". Federico Giuliani, Domenica 18/10/2020 su Il Giornale. C'è un dato sulla Svezia che vale molto più di mille parole: nell'ultima settimana i nuovi casi giornalieri di contagio da coronavirus non hanno mai superato quota mille. Il record, se così vogliamo chiamarlo, risale scorso 15 ottobre, con 970 positività. Per il resto, bisogna tornare al 27 giugno per trovare più di mille casi quotidiani (1.204). I decessi, invece, non superano il tetto dei 5 da luglio: l'ultimo bollettino di sabato 17 ottobre ha infatti registrato zero vittime. Quelli della Svezia sono numeri incoraggianti, soprattutto se confrontati con gli indicatori registrati nel resto d'Europa. Non solo: è interessante soffermarsi sul famigerato modello adottato dalle autorità svedesi per contenere la diffusione del virus. Mentre la maggior parte degli Stati europei ha attuato (e sta per attuare) severe misure restrittive, con lockdown più o meno pesanti, Stoccolma ha evitato serrate e misure draconiane. Molti hanno criticato il "modello svedese", in un primo momento considerato un esempio da non seguire. Ma con il passare dei mesi, quando i numeri hanno dato ragione al governo nordico, la situazione si è completamente capovolta. E chi criticava la Svezia ha iniziato a prendere il suo modus operandi come punto di riferimento.

L'ideatore del "modello svedese". L'autore di questa particolare strategia è Andres Tegnell, epidemiologo direttore dell'Agenzia di sanità pubblica svedese. Tegnell, intervistato dal Corriere della Sera via Skype, ha spiegato che la Svezia non sta facendo i conti con la seconda ondata di coronavirus. E questo starebbe accadendo proprio per il modello adottato da Stoccolma. "Abbiamo avuto un aumento dei contagi, ma sta già rallentando. Speriamo di poter controllare l’ondata che abbiamo e siamo fiduciosi di potercela fare", ha detto Tegnell, sottolineando che la Svezia, la scorsa primavera, non ha imposto alcun lockdown ai propri cittadini. In ogni caso l'epidemiologo ha precisato che nel Paese scandinavo c'è stato un "lockdown virtuale", con molti cittadini che si sono chiusi in casa nel momento più nero della pandemia. Tuttavia c'è un'enorme differenza tra la strategia svedese e quella degli altri Stati.

Un lockdown particolare. "Una delle più grandi differenze rispetto agli altri paesi europei – ha aggiunto Tegnell - è che in Svezia non abbiamo fatto il lockdown e non abbiamo riaperto nemmeno dopo il nostro lockdwon virtuale, abbiamo mantenuto le stesse misure per tutto il periodo e questo ha avuto l’effetto di contenere i contagi". L'epidemiologo svedese ha quindi precisato un fatto rilevante. La Svezia ha istituito un suo tipo di lockdown. Così facendo "abbiamo rallentato la società considerevolmente", ha chiarito Tegnell. "Se fosse stato a Stoccolma in primavera avrebbe trovato strade e aeroporti vuoti, trasporti pubblici senza persone. Gli svedesi hanno diminuito i loro spostamenti", ha aggiunto. Per quanto riguarda l'effetto delle mascherine, a detta di Tegnell questo non sarebbe "così forte" come molti credono. "In Italia ci sono regole sulle mascherine da molto tempo", ha fatto notare l'epidemiologo, ma "nonostante ciò si vede un aumento dei casi enorme. Le mascherine non possono risolvere tutto".

Coronavirus in Svezia, parla il regista della strategia di Stoccolma: «Da noi niente lockdown e ora non c’è la seconda ondata». Gian Marco Alari /CorriereTv su Il Corriere della Sera il 18/10/2020. Anders Tegnell, l’epidemiologo che ha ideato la discussa strategia svedese per affrontare l’epidemica di Covid-19: «Quello che stiamo facendo funziona» - La Svezia ha affrontato l’epidemia di Covid-19 evitando il lockdown (qui l’articolo di Sandro Modeo che spiega le ragioni di questa decisione). Una scelta di cui si è parlato molto in tutto il mondo: molti hanno usato toni critici, altri hanno indicato Stoccolma come un esempio da seguire, o quantomeno da osservare attentamente . L’ideatore di questa strategia è l’epidemiologo Anders Tegnell, direttore dell’Agenzia di sanità pubblica svedese, diventato popolare in Svezia, e non solo, da quando è scoppiata la pandemia. (qui la sua intervista al Corriere durante il lockdown). Oggi che l’Europa è alle prese con la seconda ondata di coronavirus, con un balzo dei contagi in molti Paesi, tra i quali l’Italia (qui gli ultimi dai), Tegnell, contattato via Skype, ci ha spiegato che questo non sta accadendo in Svezia (qui l’andamento dell’epidemia nel mondo). «Abbiamo avuto un aumento dei contagi, ma sta già rallentando- spiega - speriamo di poter controllare l’ondata che abbiamo e siamo fiduciosi di potercela fare». Tegnell spiega che la scorsa primavera la Svezia non ha imposto il lockdown ai suoi cittadini ma precisa: «Da noi c’è stato un lockdown virtuale, in pratica molti svedesi si sono chiusi in casa». «Una delle più grandi differenze rispetto agli altri paesi europei - continua - è che in Svezia non abbiamo fatto il lockdown e non abbiamo riaperto nemmeno dopo il nostro "lockdwon virtuale", abbiamo mantenuto le stesse misure per tutto il periodo e questo ha avuto l’effetto di contenere i contagi». Anders Tegnell, l’epidemiologo che ha ideato la discussa strategia svedese per affrontare l’epidemica di Covid-19: «Quello che stiamo facendo funziona» - La Svezia ha affrontato l’epidemia di Covid-19 evitando il lockdown (qui l’articolo di Sandro Modeo che spiega le ragioni di questa decisione). Una scelta di cui si è parlato molto in tutto il mondo: molti hanno usato toni critici, altri hanno indicato Stoccolma come un esempio da seguire, o quantomeno da osservare attentamente. L’ideatore di questa strategia è l’epidemiologo Anders Tegnell, direttore dell’Agenzia di sanità pubblica svedese, diventato popolare in Svezia, e non solo, da quando è scoppiata la pandemia. (qui la sua intervista al Corriere durante il lockdown). Oggi che l’Europa è alle prese con la seconda ondata di coronavirus, con un balzo dei contagi in molti Paesi, tra i quali l’Italia (qui gli ultimi dai), Tegnell, contattato via Skype, ci ha spiegato che questo non sta accadendo in Svezia (qui l’andamento dell’epidemia nel mondo). «Abbiamo avuto un aumento dei contagi, ma sta già rallentando- spiega - speriamo di poter controllare l’ondata che abbiamo e siamo fiduciosi di potercela fare». Tegnell spiega che la scorsa primavera la Svezia non ha imposto il lockdown ai suoi cittadini ma precisa: «Da noi c’è stato un lockdown virtuale, in pratica molti svedesi si sono chiusi in casa». «Una delle più grandi differenze rispetto agli altri paesi europei - continua - è che in Svezia non abbiamo fatto il lockdown e non abbiamo riaperto nemmeno dopo il nostro "lockdwon virtuale", abbiamo mantenuto le stesse misure per tutto il periodo e questo ha avuto l’effetto di contenere i contagi».

Se la Svezia diventa un modello nella lotta al Covid-19. Francesco Boezi su Inside Over il 19 settembre 2020. La Svezia, simbolo di un approccio alternativo al contrasto alla diffusione del Covid-19, ha costretto molti media a rivalutare la sua strategia. Sono i numeri, in realtà, a raccontare una verità non smentibile: la situazione pandemica svedese è migliore rispetto a molte altre. Il Paese scandinavo è stato bersagliato in prima battuta da chi riteneva che la tutela delle vite umane dovesse essere il tratto caratteristico della tattica occidentale. Quella da contrapporre all’emersione del nuovo coronavirus. La Svezia, insomma, è stata presa di mira da chi pensava che la ricerca della “immunità di gregge” ed il mancato blocco delle attività economiche rappresentassero tanto un pericolo quanto una sconfitta per la cultura della vita, che è tipica invece dei contesti cattolici. Qualcosa di simile, almeno nelle prime fasi ed in termini di rimostranze, è accaduto al premier britannico Boris Johnson. Nel caso svedese, però, sono le statistiche a stupire attualmente i commentatori. Se non altro perché la seconda ondata, a Stoccolma, sembra essere già un fantasma del passato. Anzi, il ritorno del virus sembra un fenomeno che gli svedesi potranno dire dii non aver subito. Partiamo dalla casistica. Mentre scriviamo, in Svezia non si fa che parlare di come la pandemia sia stata sostanzialmente sconfitta. Forse è un po’presto per cantare vittoria, ma le cifre sono lì apposta per verificare. 188 casi il 15 settembre. Un quadro ben diverso rispetto a quello di giugno, quando le autorità mediche della nazione del Nord Europa erano costrette a contare quasi duemila positività giornaliere. Cos’è successo nel frattempo? Perché, durante i mesi in cui il resto del Vecchio continente è costretto a ragionare su un eventuale secondo lockdown, la Svezia sembra poter dormire tra due cuscini (almeno sino a questo momento)? Qualcosa di diverso dal resto d’Europa deve essere accaduto. Una spiegazione è stata fornita a France24 dal capo della task force. La Svezia è una di quelle nazioni in cui la voce della scienza, di quella ufficiale legata allo Stato, è una. E l’esito del meccanismo comunicativo, a differenza di altri contesti tipo il nostro, sembra meno confusionario. Sono parole semplici – quelle del dottor Anders Tegnell – . E forse anche questa presunta banalità è alla base del successo: “La nostra è una strategia più sostenibile – ha affermato al giornale francese, come riportato da Europa Today – , che puoi mantenere in atto per lungo tempo, invece della strategia che impone lockdown, poi riaperture, e poi di nuovo lockdown”. La ratio sta dunque nel dilatare nella prassi le regole stringenti imposte altrove. Poi c’è l’ordine mentale e sociale degli svedesi, che di certo – come l’adagio vorrebbe – avrà contribuito. Le persone hanno dunque rispettato in generale le indicazioni fornite, mentre quest’ultime – in relazione a quelle disposte per l’Italia – sono risultate meno invasive. Il trucco sarebbe tutto qui. Ma c’è un però, che anche Tegnell individua e che è legato al lungo termine: “Solo alla fine vedremo quanta differenza ha fatto”, ha ammesso. Le sentenze arriveranno a conti fatti, dunque. Ma intanto il quadro è agevole. La stessa Oms ha dovuto ammettere che la Svezia può essere d’esempio per le altre comunità nazionali. Prescindendo dalla bontà di questa o di quella strategia, sembra di poter dire che un ruolo decisivo l’abbia giocato la sinergia tra le disposizioni degli esperti e i comportamenti privati dei cittadini. Questo, almeno, è quello su cui Tegnell pone più di qualche accento. Un lockdown parziale ma prolungato nel tempo, in buona sostanza, sarebbe in grado di produrre effetti migliori rispetto ad un lockdown secco, stringente ma limitato da un punto di vista temporale. La conclusione che si può trarre per il regno svedese in relazione al Sars-Cov2 è questa. L’unico giudice – come premesso – sarà però il tempo che passa.

Da corriere.it il 5 settembre 2020. Ma se alla fine si scoprisse che la strategia della Svezia per fronteggiare il coronavirus non era così campata in aria e, anzi, sta dando il suoi frutti? Stoccolma, a differenza dei vicini scandinavi, non ha voluto varare misure di lockdown, facendo conto più sulla responsabilità dei singoli che sui divieti. E fino ad oggi ha pagato un prezzo altissimo con un tasso di contagi e mortalità di gran lunga superiore a quello di Norvegia e Danimarca avendo avuto 84.985 positivi e 5.835 morti.

La svolta. Oggi, però, la situazione appare diversa mentre molti Stati affrontano una ripresa della pandemia, a Stoccolma i dati sono saldamente discendenti. «La Svezia è passata dall’essere il Paese con più contagi in Europa a quello più sicuro — ha detto il dottor Anders Tegnell, l’epidemiologo maggiormente considerato dal governo —. La nostra politica può aver tardato a portare risultati ma alla fine sono arrivati e sono più stabili».

I dati. Secondo il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie la scorsa settimana la Svezia ha avuto 12 casi per milione di abitanti mentre la Danimarca ne ha 18 e la Norvegia 14. A differenza di metà aprile quando si registravano più di cento decessi al giorno, oggi non si superano i due o tre morti. Al contrario giovedì Copenaghen ha raggiunto il record degli ultimi 4 mesi con 179 infetti in 24 ore.

Il test. La scorsa settimana in Svezia circa 2.500 persone scelte a caso sono state sottoposte a tampone e nessuna è risultata positiva. Alla fine di aprile erano lo 0,9% e a maggio 0,3%. «Questo significa che non ci sono in giro persone asintomatiche» ha spiegato al Daily Telegraph Karin Tegmark Wisell dell’Agenzia di Sanità pubblica svedese (PHAS).

I dubbi. I dati, però, non mentono. La Svezia finora ha avuto 5.832 morti, sei volte di più di Danimarca (264) e Norvegia (626) messe insieme. Davanti a cifre del genere è difficile vedere il vantaggio. C’è anche da considerare che Stoccolma testa in media 1,2 persone ogni 1000 mentre la Norvegia è a quota 2,2 e la Danimarca a 5,9. «È impossibile che Oslo e Copenaghen raggiungano un numero così alto di decessi — ha spiegato al Daily Telegraph la virologa Lena Einhorn — , anche perché le cure stanno migliorando e all’inizio del prossimo anno dovremmo ottenere un vaccino»

Elena Tebano per "corriere.it" il 19 settembre 2020. E se la Svezia avesse ragione? Ci siamo occupati molto, nella Rassegna stampa del Corriere, della via svedese all’epidemia di Covid-19, e spesso con toni critici. Ma i nuovi dati che arrivano da Stoccolma inducono a una riconsiderazione: mentre in molti Paesi europei — primi fra tutte Spagna, Francia e Regno Unito — i contagi da Sars-Cov-2 sono tornati a crescere esponenzialmente, in Svezia rimangono bassi. «Secondo il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (ECDC), i 14 giorni totali di nuovi casi nei paesi scandinavi martedì erano 22,2 ogni 100 mila abitanti, contro i 279 della Spagna, i 158,5 della Francia, i 118 della Repubblica Ceca, i 77 del Belgio e i 59 del Regno Unito, tutti casi che questa primavera hanno imposto il blocco — scrive il Guardian —. Ventidue dei 31 Paesi europei esaminati dall’ECDC hanno registrato tassi di infezione più elevati. I nuovi casi, ora segnalati in Svezia solo da martedì a venerdì, sono all’incirca al ritmo di fine marzo, mentre i dati dell’agenzia sanitaria nazionale hanno mostrato solo l’1,2% dei 120 mila test della settimana scorsa sono risultati positivi». «Non abbiamo la recrudescenza della malattia che molti Paesi hanno» ha detto, in un’intervista all’emittente France-24, Anders Tegnell, il principale epidemiologo del Paese e colui che ha guidato la risposta svedese al coronavirus. «Alla fine, vedremo che differenza farà avere una strategia più sostenibile, che si può mantenere a lungo, invece della strategia di chiudere, aprire e chiudere più e più volte» ha aggiunto. Nel complesso nel Paese ci sono stati 5.800 decessi attribuiti al Covid-19 su 10 milioni di abitanti. «Ovvero, una mortalità di circa lo 0.06%, praticamente uguale a quella dell’Italia» come spiega Ugo Bardi, docente presso il dipartimento di Chimica dell’Università di Firenze, che fa il punto sul Caso svedese sulla pagina facebook Pillole di ottimismo. «Il rapporto fra risultati positivi e test si mantiene costante intorno a 1,3%, circa lo stesso valore che troviamo in Italia. Nemmeno in termini di ospedalizzazioni risulta che ci siano problemi» scrive ancora Bardi. Errori ce ne sono stati sicuramente anche in Svezia, come ammette lo stesso Tegnell: per esempio la mancata protezione delle case di cura per anziani, dove si è registrata la maggior parte dei decessi per Covid del Paese. Ma nel complesso la strategia leggera ha funzionato. Strategia che non era quella di cercare l’immunità di gregge, ma di rallentare l’epidemia in modo che non travolgesse il sistema sanitario: la Svezia per esempio ha chiuso le scuole per gli over 16, ha vietato i raduni con più di 50 persone e ha chiesto agli over 70 e ai gruppi a rischio di autoisolarsi, ma invece di imporre tutto questo per decreto, lo ha «consigliato», e ha avuto fiducia nel fatto che i suoi cittadini seguissero i consigli e le regole di prudenza. Lo hanno fatto. «Gli svedesi sono rimasti a casa il più possibile, come gli era stato raccomandato di fare — racconta ancora Bardi —. Nei momenti più difficili dell’epidemia, in Svezia nessuno cantava dai balconi ma l’atmosfera generale era molto simile a quella che c’era in Italia. Niente traffico, locali vuoti, poca gente in giro, distanziamento, eccetera. Fra le tante cose, i viaggi aerei interni alla Svezia sono stati praticamente azzerati durante l’emergenza, pur non essendo proibiti». Questo di per sé non significa che il lockdown sia stato inutile in Italia, un Paese dove l’epidemia è andata avanti per mesi senza che le autorità sanitarie se ne accorgessero (e come sia stato possibile è un problema di cui dovremmo occuparci) e in cui i contagi avevano già fatto saltare il sistema sanitario di una delle Regioni, la Lombardia, in teoria più attrezzate da questo punto di vista. Ma, come scrive Walter Münchau sul Financial Times, dalla via svedese all’epidemia possiamo trarre moltissime lezioni utili. La prima è che esistono delle alternative valide al lockdown duro di matrice cinese a cui quasi tutto il mondo si è ispirato (Münchau definisce «il riflesso automatico al lockdown» come «la più grande minaccia per le democrazie capitaliste occidentali» in questo momento). La seconda è che dobbiamo smettere di trarre conclusioni affrettate. «Ora, le nuove statistiche svedesi sulle infezioni sono migliori di quelle di gran parte dell’Ue. Ma non dovremmo ancora trarre conclusioni. È stato sbagliato due mesi fa condannare la strategia svedese basata su quei dati, e sarebbe altrettanto sbagliato trarre ora la conclusione opposta». Ci vorrà tempo per capire, perché il fenomeno è molto complesso e si sviluppa in un periodo medio-lungo. Intanto, aggiungo, la priorità è fare in modo che i sistemi sanitari non si sovraccarichino. Se c’è una cosa chiara è che nessuno vuole un altro lockdown: il costo, stavolta, sarebbe intollerabile sul piano economico, sociale e politico. Anche per questo dobbiamo essere prudenti.

Gli insegnamenti del modello svedese sull’immunità. Alberto Bellotto il 4 settembre 2020 su Inside Over. Nella risposta delle nazioni alla pandemia globale uno dei modelli che più ha fatto discutere è stato quello svedese. Nessun lockdown feroce, nessun blocco totale del Paese, ma solo alcune indicazioni di comportamenti da mantenere in pubblico come assembramenti minimi e distanziamento fisico. La scelta di Stoccolma è stata ammirata e criticata. Al momento è prematuro capire se la variante svedese sia stata la strategia migliore, ma si possono iniziare già a fare alcune piccole valutazioni, soprattutto in materia di immunità. Partiamo però dai numeri. Al momento il Paese presenta 8.217 casi ogni milione di abitanti contro i 4.264 della Francia e i 4.480 dell’Italia. Anche il confronto sulla mortalità non sorride alla Svezia, in particolare se confrontata con quella dei vicini scandinavi: 565 decessi per milione di abitanti contro i 107 della Danimarca, i 60 della Finlandia e i 49 della Norvegia.

Stoccolma insiste: il modello funziona. Per l’epidemiologo di Stato Nils Anders Tegnell il confronto coi vicini è fuorviante e sbagliato. In un’intervista col sito UnHerd, l’architetto del “modello”, ha spiegato che per la mobilità della popolazione svedese e la densità delle aree urbane, la Svezia è più simile ai Paesi Bassi o al Regno Unito. Per questo, ha continuato, il lavoro fatto dalle autorità svedesi negli ultimi mesi è sicuramente positivo, dal fronte della assistenza sanitaria fino agli ospedali mai affollati. Tegnell ha quindi passato in rassegna le scelte fatte confrontandole con chi ha deciso di puntare a un lockdown completo: “Il rapido declino dei casi che vediamo in Svezia in questo momento è un’altra indicazione che puoi ridurre il numero di casi senza avere un blocco completo”. Il punto vero non è tanto sulle aperture o chiusure, ma sul rapporto che dobbiamo avere con il virus e con la sua mortalità. “Non credo che questa sia una malattia che possiamo debellare, non con i metodi che abbiamo adesso”, ha continuato l’esperto. “Potrebbe essere una malattia che a lungo termine possiamo sconfiggere con un vaccino, ma non ne sono sicuro. Se guardi malattie comparabili come l’influenza e altri virus respiratori, non siamo nemmeno vicini a debellarli nonostante esistano dei vaccini. Personalmente credo che questa sia una malattia con cui dovremo imparare a convivere”. Per questo la questione della mortalità va legata con altri aspetti: “Le morti non sono così strettamente collegate alla quantità di casi che hai in un paese. Ci sono tante altre cose che le influenzano. Quale parte della popolazione viene colpita? Sono gli anziani? Quanto bene puoi proteggere le persone nelle tue strutture? In che modo il tuo sistema sanitario continua a funzionare? Quelle cose influenzano la mortalità molto di più dell’effettiva diffusione della malattia”.

La questione dell’immunità. Intanto i primi dati sull’andamento dei contagi forniscono nuove indicazioni. “Quello che vediamo in questo momento”, aggiunge Tegnell, “è una rapida diminuzione del numero di casi e deve essere coinvolta una sorta di immunità in quanto nient’altro è cambiato”. Il punto è di che immunità si sta parlando. Il recente caso di un paziente di Hong Kong risultato positivo una seconda volta ha fatto suonare l’allarme sulla durata dell’immunità. Uno studio del King’s College di Londra ha dimostrato che su 90 pazienti che avevano contratto il virus solo il 17% aveva mantenuto inalterata la potenza della risposta immunitaria. Un secondo lavoro pubblicato su Nature Medicine aveva raggiunto conclusioni simili e cioè che gli anticorpi contro il Sars-CoV-2 diminuiscono in appena 2-3 mesi. Come si conciliano quindi queste rivelazioni con le dichiarazioni di Tegnell? Almeno tre ricerche pubblicate nelle ultime settimane gettano nuova luce sul processo di immunità. Un lavoro del Karolinska Institute di Stoccolma, pubblicato sul giornale scientifico Cell, si è concentrato sulla cosiddetta immunità mediata dalle cellule T, note anche come linfociti T. “Questi linfociti”, ha spiegato Marus Buggert, uno dei ricercatori che ha preso parte al lavoro, “sono un tipo di globuli bianchi specializzati nel riconoscimento delle cellule infettate da virus e sono una parte essenziale del sistema immunitario”. Buggert ha evidenziato come lo studio condotto su circa 200 persone con sintomi lievi di Covid o addirittura asintomatiche, abbia mostrato come circa il doppio delle persone abbiano sviluppato l’immunità dei linfociti T rispetto a quelle nelle quali era possibile individuare anticorpi. Soo Aleman, altro membro del team di ricerca, ha messo induce un aspetto molto interessante, “nei casi osservati non erano solo gli individui con Covid a mostrare l’immunità dei linfociti T, ma anche molti dei familiari asintomatici esposti”. Non solo: “Circa il 30% delle persone esaminate che avevano donato sangue a maggio 2020 aveva cellule T specifiche per Covid, una cifra molto più alta rispetto a precedenti test anticorpali”».

Come funziona l’immunità delle cellule T. Per capire meglio il meccanismo prendiamo due persone infette da Sars-CoV-2, una malata in modo grave e una in modo più leve. La prima sviluppa una forte risposta dei linfociti T e una grande produzione di anticorpi. Nella seconda è invece più difficile individuare la risposta anticorpale, mentre è molto più netta la riposta dei linfociti. Uno studio della Duke-NUS Medical School, in collaborazione con National University of Singapore, è arrivato a una conclusione analoga, cioè ha rilevato la presenza di cellule T contro il nuovo coronavirus in oltre il 50% dei soggetti esaminati. Non solo. Metà dei casi considerati che nel corso della loro vita avevano contratto solo coronavirus del raffreddore manifestavano linfociti T specifici per il Sars-Cov-2. Nel luglio scorso Antonio Bertoletti, scienziato della Duke-Nus, aveva spiegato a AdnKronos che “diversi tipi di coronavirus hanno sempre circolato tra gli umani. È possibile che un’immunità a virus strettamente correlati possa ridurre la vulnerabilità o alterare la gravità della malattia”. In una terza ricerca del La Jolla Institute of Immunology di San Diego si legge anche che nel sangue di una percentuale di persone che non sono mai entrate in contatto con il nuovo coronavirus ci sono cellule T in grado di reagire con il nuovo patogeno. In un articolo su MedicalFacts Roberto Burioni ha spiegato che non è chiara l’origine di questi linfociti ma che potrebbero derivare da vecchi coronavirus HCoV-OC43, HCoV-HKU1, HCoV-NL63 e HCoV-229E. A questo punto sorge spontanea una domanda: perché le ricerche non si concentrano su questi linfociti T? Il problema è che le analisi su queste cellule è più complicata da eseguire rispetto ai test sugli anticorpi e per questo questi studi sono ancora in fase embrionale. Lo stesso Buggert del Karolinska Institute ha ribadito che è necessario effettuare studi più ampi sia sui linfociti T che sugli anticorpi per capire quanto sia duratura l’immunità e come siano correlati questi diversi componenti dell’immunità. Anders Tegnell intanto chiede alla comunità scientifica di avere pazienza nel valutare i benefici delle chiusure soft in Svezia, ma si dice sicuro che l’eventuale seconda ondata sarà più facile da contenere: “Penso sia probabile che questo tipo di focolai sia più facile da limitare in Svezia perché c’è l’immunità nella popolazione”. Le domande restano molte: l’immunità tramite linfociti T protegge da una nuova infezione? E se sì per quanto tempo? Ma soprattutto l’azione di queste cellule contro il nuovo coronavirus protegge solo l’ospite o impedisce al virus di trasmettersi ad altri. “È un lavoro difficile (l’immunità cellulare è molto complicata da valutare)”, conclude Burioni, “ma potrebbe portarci a risultati di eccezionale importanza che potrebbero avere dei risvolti pratici decisivi”.

Luigi Offeddu per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2020. Il Coronavirus manda in frantumi anche la tradizionale solidarietà nordica. Danimarca e Norvegia hanno annunciato che dal 15 giugno apriranno ai rispettivi cittadini le loro frontiere, chiuse ormai da marzo. Ma non concederanno lo stesso al vero gigante scandinavo, la Svezia. Uno schiaffo politico, culturale e commerciale. E storico. Lo stesso «no» ai turisti svedesi era già arrivato da Grecia, Estonia, Lettonia. Ma al Nord, brucia ben diversamente. Motivo dichiarato da tutti: è troppo presto, gli «altri» non si fidano, hanno paura, considerano troppo rischiose le statistiche di Stoccolma, dominate dal rifiuto del lockdown, cioè di quasi tutte le restrizioni anti-virus applicate dagli altri Paesi europei. Le cifre, aggiornate a ieri: Svezia, 10 milioni di abitanti, 36.476 contagi, 4.350 decessi, 4.971 guariti, 84 nuove morti solo da venerdì; Danimarca, 5,7 milioni di abitanti, 11.500 contagi, 568 morti, 10.200 guariti, nessun nuovo decesso negli ultimi due giorni; Norvegia, 5,4 milioni di abitanti, 8.425 contagi, 236 morti, 7.727 guariti, nessun decesso negli ultimi due giorni. Anders Tegnell, l' epidemiologo capo di Stoccolma sostenitore del «liberi tutti» in assenza di sintomi evidenti (circolazione senza restrizioni, niente distanziamenti, e così via) confida ai media svedesi: «Pensavamo che il nostro sistema sanitario avrebbe dato risultati migliori di quello, per esempio, dell' Italia». E poi, a domanda, illustra il suo hobby personale preferito, il giardinaggio. Gli replica l' ambasciatore italiano a Stoccolma, Mario Cospito: «Secondo l' Organizzazione mondiale della sanità, il Sistema sanitario italiano si colloca al secondo posto al mondo come efficienza e funzionalità, dopo la Francia: la Svezia, in tale classifica, si colloca al 23mo posto. L' aspettativa di vita alla nascita per l' Italia (83,4 anni) è la seconda al mondo dopo la Spagna; per la Svezia è 82,2 anni. Il numero di letti ospedalieri ogni mille abitanti in Italia è di 3,4, mentre in Svezia è di 2,2». Nel frattempo, è esploso anche il terremoto politico interno che covava da settimane: l' opposizione conservatrice e populista reclama dal governo a maggioranza socialdemocratica una commissione di inchiesta, da istituirsi entro l' estate, per chiarire come la Svezia abbia gestito questa emergenza e come abbia potuto trasformarsi in un lazzaretto internazionale. E sono in corso negoziati più o meno riservati fra tutti i Paesi scandinavi per ritrovare l' antica solidarietà infranta dal virus. Ma non c' è uno, primo ministro o monarca, che non tenga lo sguardo fisso alle statistiche di morti e contagi.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 2 settembre 2020. Secondo i dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control, la Svezia – che non ha mai attuato il lockdown e bocciato l’uso delle mascherine – in 14 giorni attualmente ha avuto un tasso di 36,6 casi ogni 100.000.   In Francia, il tasso è di 59,8 ogni 100.000, nonostante l’applicazione di un lockdown rigoroso e di altrettanto rigorose misure di sicurezza sulle mascherine. Il tasso di casi in 14 giorni della Spagna è 152,7 e il Regno Unito è 22,3. Arne Elofsson, professore di biometria all’Università di Stoccolma, ha dichiarato: “La Svezia sta andando bene. Le regole rigide non funzionano poiché le persone sembrano infrangerle”. Il paese scandinavo ha registrato 399 nuovi casi venerdì e 258 sabato. Il primo ministro svedese Stefan Lofven, venerdì scorso ha insistito che la strategia adottata dalla nazione riguardo alla pandemia è stata quella giusta. Ha dichiarato al quotidiano Dagens Nyheter: “Proteggere le persone, limitare la diffusione del contagio”. “Ciò che abbiamo fatto in modo diverso, è che non abbiamo chiuso le scuole. Ora ci sono parecchie persone che pensano avessimo ragione”. Dall’inizio della pandemia, la Svezia ha introdotto regole volontarie di distanziamento sociale, lavoro da casa e rivolto raccomandazioni alle persone affinché evitassero i trasporti pubblici. Le misure obbligatorie includevano il divieto di assembramenti di più di 50 persone, restrizioni sulle visite alle case di cura e servizio al solo tavolo nei bar e ristoranti. Tuttavia, la decisione di non attuare il lockdown ha avuto delle conseguenze. In totale ci sono stati 5.810 decessi, un numero significativamente più alto rispetto alle vicine Norvegia, Danimarca e Finlandia. Anders Tegnell, il principale epidemiologo che ha guidato la strategia svedese, ha affermato che il tasso di contagi in Spagna, Belgio e Francia sono aumentati dopo l’obbligo di indossare le mascherine negli spazi pubblici. “La convinzione che le mascherine possano risolvere il problema è molto pericolosa”. Se si guarda al numero totale di persone contagiate dall’inizio della pandemia, la Svezia ha una delle cifre più alte in Europa con 843 casi su 100.000. E’ più del doppio della Francia, che ha registrato 349 casi ogni 100.000. Tuttavia, Tegnell sostiene che il livello più alto di casi indica una forma di immunità tra la popolazione da parte di persone portatrici di anticorpi per il Covid-19. Al sito web Unherd, Tegnell ha spiegato:”In Svezia stiamo assistendo a una rapida diminuzione dei casi positivi e poiché non è cambiato nulla, deve essere dovuto a una sorta di immunità”. Da uno studio pubblicato la scorsa settimana dal Karolinska Institute di Stoccolma, è emerso che le persone negative agli anticorpi possono avere un alto livello di immunità. Tegnell ha osservato: “In Svezia penso sia probabile che i focolai saranno più facili da controllare poiché tra la popolazione c’è l’immunità”. Marcus Buggert, immunologo dell’istituto, ha affermato: “I linfociti T sono un tipo di globuli bianchi che riconoscono le cellule infettate dal virus. “I risultati indicano che circa il doppio delle persone ha sviluppato l’immunità dei linfociti T rispetto a coloro in cui possiamo rilevare gli anticorpi”.

Svezia, ideologo dell’immunità di gregge: “Vale la pena salvare gli anziani?” Notizie.it il 19/08/2020. "Vale la pena chiudere tutto per salvare il 10% in più di anziani?", scriveva a marzo Andres Tegnell, capo della task force svedese. Nuove polemiche in Svezia per l’email dell’ideologo dell’immunità di gregge, in cui si legge: “Vale la pena chiudere tutto per salvare il 10% in più degli anziani?”. Nel pieno dell’emergenza sanitaria il piano di Andres Tegnell si era rivelato fallimentare: i morti nel Paese continuano ad aumentare. 5000 vittime solo a Stoccolma. I media locali hanno pubblicato i messaggi scambiati tra il capo della task force locale anticovid, Andres Tegnell, e altre istituzioni locali ed estere. L’email è stata inviata lo scorso marzo, nel pieno dell’allarme coronavirus. “Vale la pena chiudere tutto per salvare il 10% in più di anziani?”, è una delle email scritte da Tegnell. In seguito alle critiche ricevute dal governo svedese per la strategia soft adottata nel Paese, il medico braccio destro dell’esecutivo ha ribadito che l’obiettivo non era quello di ottenere una rapida immunità di gregge. Al contrario, con la scelta intrapresa dalla Svezia, si voleva rallentare la diffusione del virus, permettendo alle strutture sanitarie di non collassare a causa dell’alto numero di malati. Le email rese note, tuttavia, incrementano le accuse nei suoi confronti. Dalle comunicazioni ottenute dai giornalisti svedesi, si dimostrerebbe che ancora a metà marzo Tegnell rivendicava come obiettivo del Paese la necessità di raggiungere l’immunità di gregge. In quel periodo ormai anche l’Oms aveva dichiarato il Covid-19 una pandemia. “Un punto sarebbe mantenere le scuole aperte per raggiungere più rapidamente l’immunità di gregge“, scriveva l’ epidemiologo. Tuttavia, il corrispondente finlandese mostrava il suo disaccordo, sottolineando l’impossibilità di intraprendere un percorso simile, perché “nel tempo i bambini continueranno a diffondere l’infezione”. Nell’email incriminata, la sua controparte finlandese precisava che la chiusura delle scuole avrebbe comportato una minor diffusione del Covid-19 tra gli anziani di circa il 10%. “Per il 10% ne vale la pena?”, è stata la fredda risposta di Tegnell. Dopo la divulgazione dei messaggi da parte della stampa locale, la replica del medico svedese non si è fatta attendere. “Stavamo parlando solo dei possibili effetti di questa misura”, si è giustificato. La Svezia ha successivamente chiuso le sue scuole agli over 16, ma ha mantenuto aperte quelle per i più piccoli. Ora gli studenti si preparano a tornare in aula, senza più distinzioni di età. Sono rimasti aperti negozi, bar, ristoranti e palestre. Finora in Svezia sono stati accertati 84.294 contagi da coronavirus e 5.783 vittime. Le stime sono allarmanti. Infatti, si tratta di un numero di morti per milione di abitanti molto superiore rispetto a quello registrato nei paesi vicini. Le autorità hanno stimato che il 40% della popolazione di Stoccolma avrebbe contratto il virus entro lo scorso maggio. Al contrario, studi nazionali hanno rilevato che l’immunità al Covdi-19 è ancora relativamente bassa.

Da "Ansa" il 26 giugno 2020. La Svezia non gradisce la decisione dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) di includerla nella lista dei Paesi a rischio di una seconda ondata di Covid-19. Il capo epidemiologo dello Stato, Anders Tegnell, non ha dubbi: c'è stata una "completa interpretazione errata dei dati", afferma all'emittente Swedish TV di fronte al monito lanciato ieri dall'Oms, secondo cui in numerosi Paesi e territori europei si registra un aumento delle infezioni. La Svezia ha visto un aumento dei casi di coronavirus, ha ammesso Tegnell, ma solo perché sta effettuando un maggior numero di tamponi. Secondo l'Oms, riporta la Bbc, la Svezia ha registrato 155 contagi per ogni 100mila abitanti negli ultimi 14 giorni, un livello molto più alto di qualsiasi altro Paese della regione Europa (che secondo la definizione dell'organizzazione include tra gli altri anche il Kyrgyzstan e il Kazakistan) eccetto l'Armenia. Secondo il direttore regionale dell'Oms, Hans Henri Kluge, in 11 Paesi di questa grande regione "l'accelerata trasmissione ha portato ad una ripresa molto significativa (dei casi, ndr), che se non controllata porterà di nuovo al collasso i sistemi sanitari". Oltre alla Svezia, tra gli altri Paesi della lista dell'Oms ci sono gli stessi Kyrgyzstan e Kazakistan, l'Albania e l'Ucraina.

Da ilmessaggero.it il 13 agosto 2020. Il tentativo da parte della Svezia di raggiungere un'immunità di gregge attraverso una "diffusione controllata" del coronavirus senza mettere in campo un lockdown è fallito, e ora il paese si trova ad avere più casi e più morti rispetto ai vicini senza aver raggiunto l'obiettivo. Lo scrivono in un editoriale sul Journal of the Royal Society of Medicine due ricercatori dell'University College di Londra. Le previsioni del governo svedese, si legge nell'articolo, erano che a maggio fosse stato infettato, e quindi avesse gli anticorpi, il 40% della popolazione svedese, mentre secondo gli studi sierologici la percentuale è vicina al 15%. Inoltre la Svezia ha il triplo dei casi per milione di abitanti rispetto alla Danimarca, quattro volte più della Norvegia e cinque volte più della Finlandia. anche riguardo al numero dei morti Stoccolma ne ha registrati oltre 5mila, mentre gli altri paesi sono abbondantemente sotto ai mille. «È chiaro che non solo i tassi di contagio, ricoveri e mortalità sono molto più alti dei paesi confinanti - scrivono gli autori -, ma anche l'andamento dell'epidemia è differente, con infezioni e mortalità più alte rispetto ai periodi più critici visti in Danimarca, Finlandia e Norvegia». Dove invece l'immunità di gregge potrebbe iniziare ad avere qualche effetto, scrivono alcuni esperti sulla rivista del Mit, è in alcuni stati degli Usa particolarmente colpiti, dove l'alto numero dei casi, e quindi degli immuni, potrebbe avere un ruolo nel rallentare l'epidemia. «Credo che le epidemie in corso in Arizona, Florida e Texas lasceranno abbastanza immunità da aiutare a tenere controllato il Covid-19 - afferma ad esempio Trevor Bedford dell'università di Washington -. Tuttavia questi livelli non sono compatibili con un pieno ritorno alla normalità e ai comportamenti di prima della pandemia».

Svezia prima in Europa per tasso di mortalità da Covid-19. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Marta Serafini. Il modello svedese — per chi avesse ancora dubbi — non funziona. Ieri la Svezia ha registrato il maggior numero di decessi per coronavirus in Europa pro capite. A dirlo, le statistiche di «Our World In Data» , una pubblicazione di ricerca online con sede presso l’Università di Oxford. Le statistiche — riportate dalla Reuters — indicano che la Svezia ha registrato in media 6,25 decessi al giorno per milione di persone a causa del virus nell’ultima settimana. A confronto, il Regno Unito ha registrato una media di 5,75 decessi al giorno per milione di persone nello stesso periodo di sette giorni, il Belgio in media 4,6, la Francia in media 3,49 e l’Italia in media 3. Dunque, mentre la Svezia ha registrato un numero di casi di coronavirus assai inferiore rispetto a Paesi più popolati come l’Italia e la Germania, il suo bilancio delle vittime del coronavirus pro capite è tra i più alti al mondo. Il motivo è da ricondurre alle scelte del governo di Stoccolma guidato dal premier socialdemocratico Stefan Löfven . La Svezia non ha mai imposto alla popolazione il lockdown e ha preferito incoraggiare la responsabilità personale chiedendo ai cittadini di rimanere a casa quando sono malati e a mantenere le distanze sociali quando sono in pubblico. La maggior parte delle aziende, dei ristoranti, dei bar e delle scuole è rimasta aperte, anche se alla fine di marzo sono stati banditi incontri di oltre 50 persone. Johan Giesecke, ex capo epidemiologo svedese, ora consigliere sanitario dell’Organizzazione mondiale della sanità, ha difeso la politica del suo Paese e ha affermato che i blocchi a livello nazionale ritardano semplicemente l’inevitabile numero di casi e decessi di coronavirus. «C’è molto poco che possiamo fare per prevenire i contagi», ha scritto in un articolo pubblicato su Lancet all’inizio di questo mese. «Un blocco potrebbe ritardare i casi gravi per un po’, ma una volta alleviate le restrizioni, i casi riappariranno», ha ribadito. «Mi aspetto che quando conteremo il numero di morti per Covid-19 in ciascun Paese tra un anno, le cifre saranno simili, indipendentemente dalle misure adottate», ha poi concluso.

Silvia Turin per corriere.it l'8 maggio 2020. La Svezia traccia un primo bilancio della sua strategia di rinunciare al lockdown per cercare di convivere con il virus e arrivare senza traumi all’immunità di gregge (le cui motivazioni, epidemiologiche e storiche, sono state spiegate qui). Facendo il confronto con i Paesi nordici vicini, il dato svedese peggiora in ogni ambito: il numero di morti (vedi sopra Tabella 1, ndr) ha raggiunto 2.941 su 23.918 casi, ma se lo rapportiamo alla popolazione e lo confrontiamo con il dato di Finlandia, Norvegia e Danimarca vediamo come in Svezia i morti siano moltissimi. Il numero di casi (Tabelle 2 e 3 sotto,ndr) anche è il più alto per popolazione rispetto agli altri paesi e non è dovuto al numero di tamponi fatti, anzi, la Svezia fa meno test di tutti, quindi il numero di casi potrebbe essere molto più alto.

Troppi morti. Di recente Anders Tegnell, l’epidemiologo a capo dell’Agenzia di sanità pubblica svedese, ha dichiarato che l’elevato bilancio delle vittime del paese «è stato davvero una sorpresa, devo dire che non avevamo calcolato un così alto numero di morti». Lo “stupore” è dovuto ai molti decessi nelle case di cura, dove le visite dei parenti erano state vietate (una delle poche restrizioni del Paese): «È molto difficile tenere la malattia lontano da lì. Anche se stiamo facendo del nostro meglio, ovviamente non è abbastanza. Pensavamo che le nostre case per anziani sarebbero riuscite ad evitare i contagi», avrebbe confessato. Tegnell ha però anche detto che la strategia della Svezia ha dato buoni risultati.

Imprese giù. In realtà ci sarebbero altre cattive notizie per il Paese nordico: molte persone hanno deciso di rimanere a casa comunque, la mobilità è solo leggermente superiore infatti rispetto ad altri paesi scandinavi (vedi tabella 4, ndr), meno 18% contro il 28%. E anche i mercati non vanno così bene. L’indice azionario principale svedese (vedi tabella 5, ndr) è messo peggio (a fine aprile -19%) di quelli di Norvegia e Danimarca (rispettivamente -9% e -6%) e più vicino a quello finlandese (-24%). Una strategia che per ora non ha premiato quindi la salute né le imprese.

Confronti. La strategia di mitigazione dolce finora seguita, basata più sulla persuasione che non sui divieti, ha portato a tenere locali, scuole (quelle per bambini piccoli) e uffici aperti. Con solo raccomandazioni di non fare visite ai genitori anziani e divieto a raduni e ingressi nelle case di cura. Nella tabella 6, vediamo il confronto con gli altri Paesi scandinavi, dove tutto viene chiuso (tranne alcuni locali in Norvegia). La Danimarca in particolare è stata tra le prime in Europa a chiudere confini, negozi, scuole e ristoranti e a vietare grandi raduni. Il tasso di mortalità in Svezia è aumentato significativamente raggiungendo 291 persone ogni milione di persone, la Danimarca 87, la Finlandia 45 e la Norvegia 38. Danimarca e Norvegia hanno allentato i blocchi su scuole e negozi. La Finlandia ha esteso le sue restrizioni fino al 13 maggio.

«Non cerchiamo immunità di gregge». Lena Hallengren, ministro svedese per la salute e gli affari sociali, ha dichiarato alla CNN: «Non esiste una strategia per arrivare all’immunità del gregge. La Svezia condivide gli stessi obiettivi di tutti gli altri paesi: salvare vite umane e proteggere la salute pubblica». Jan Albert, professore presso il Dipartimento di Microbiologia tumore e biologia cellulare presso il Karolinska Institutet, ha detto alla CNN: «È chiaro che la Svezia ha avuto più morti rispetto a molti altri paesi europei, ma i blocchi più rigidi servono solo ad appiattire la curva e appiattire la curva non significa che i casi scompaiano, sono solo spostati nel tempo. E fintanto che il sistema sanitario sarà in grado di far fronte e dare una buona assistenza a coloro che necessitano di cure, non è detto che avere molti casi in un secondo momento sia meglio».

Percentuale di contagiati. In Svezia pensano di aver passato il picco ma non è ancora dimostrato e quanto all’immunità di gregge, stimata al raggiungimento di circa il 60% della popolazione totale infettata, i valori sono lontanissimi anche negli epicentri peggiori e quindi anche in Svezia per ora. Forse solo in Val Seriana si è raggiunta questa prevalenza, in altre zone si parla al massimo del 10%. Il bilancio della primissima fase della campagna di screening con i test sierologici in Lombardia racconta infatti che tra le persone che sono appena state (o sono) in quarantena a Milano (oltre 9 mila), solo il 40 per cento ha effettivamente contratto il coronavirus.

Sandro Orlando per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2020. La giornata era cominciata male, e con il passare delle ore si era messa anche peggio. Ma quando Anders Tegnell, l' epidemiologo svedese teorico della strategia di «mitigazione dolce», si è presentato ieri pomeriggio alla conferenza stampa di aggiornamento sull' emergenza coronavirus, ha semplicemente ignorato critiche e detrattori. Un pezzo di ghiaccio. Vestito meglio del solito - per replicare a quella Sofia Larsson, che sullo Svenska Dagbladet si chiedeva se non fosse il caso di «introdurre un codice di abbigliamento per i funzionari di Stato («Ma viene in pigiama alle conferenze? Stava in giardino?») - Tegnell non ha fatto un plissé davanti allo scompiglio creato dalla Folkhälsomyndigheten , l' Agenzia di sanità pubblica da lui diretta, che qualche ora prima aveva ritirato uno studio previsionale sulla diffusione del contagio a Stoccolma, il principale focolaio di Covid-19 della Svezia. I risultati era stati anticipati la sera prima dal suo braccio destro, Anders Wallensten, che aveva annunciato: «Un terzo della popolazione della capitale avrà contratto il virus entro il primo maggio». «Già da più di una settimana abbiamo raggiunto il picco, possiamo aspettarci ogni giorno un numero inferiore di casi». E così anche il traguardo dell' immunità di gregge sembrava a portata di mano. Qualcuno però si è accorto che tra i 6 mila casi di contagio accertati a Stoccolma, e i 600 mila ipotizzati dallo studio, il divario era eccessivo. E così ieri in mattinata l' Agenzia ha ammesso l' errore con un semplice tweet, riservandosi di presentare oggi lo studio corretto.

«È un errore che non cambia la sostanza», ribadisce Tegnell in una mail al Corriere , insistendo con la sua linea. «Questa non è una malattia che può essere fermata, almeno fino a quando non verrà prodotto un vaccino - ripete -. Dobbiamo trovare soluzioni di lungo termine che mantengano l' epidemia ad un livello accettabile». Da qui la scelta di tenere tutto aperto, perché l' obiettivo è rallentare il contagio, quel tanto che basta a non far collassare il sistema sanitario. Neanche davanti ai 172 decessi delle ultime 24 ore, che portano il totale delle vittime a 1.937 (con 16 mila contagi) l' epidemiologo si scompone: «Si tratta di casi non registrati nei giorni scorsi, che arrivano da altre regioni della Svezia», spiega. «La curva di Stoccolma è rimasta relativamente piatta dai primi di aprile», osserva, lasciando intravvedere quell' uscita dal tunnel, che i dati ancora non certificano. Il governo per ora gli dà fiducia, rinunciando ad avvalersi dei poteri straordinari ottenuti dal Parlamento. E così si va avanti, in questo sorta di esperimento che convolge dieci milioni di svedesi.

Sandro Orlando per "corriere.it" il 22 aprile 2020. Nonostante le critiche, e qualche errore di comunicazione, l’Agenzia di sanità pubblica svedese va avanti con la sua strategia di mitigazione dolce della pandemia, senza chiusure né divieti. Il governo di minoranza guidato dal socialdemocratico Stefan Löfven rinuncia così per ora ad avvalersi dei poteri speciali che ha ottenuto dal Parlamento la settimana scorsa e saranno in vigore fino al prossimo 30 giugno. Si continua insomma senza lockdown, anche perché come ha detto il vicedirettore dell’Agenzia, Anders Wallensten, in Svezia «il picco è stato raggiunto più di una settimana fa, e ogni giorno possiamo aspettarci un numero di casi inferiore».

Rallentamento. Ed effettivamente ieri i nuovi casi accertati sono stati 194, meno della metà del giorno prima, e quasi un terzo rispetto alla media dell’ultima settimana. Il calo è evidente soprattutto nella capitale, il focolaio principale dell’infezione in Svezia, dove bar e ristoranti sono rimasti sempre aperti anche a Pasqua, con l’unica indicazione di servire solo ai tavoli. Ed è qui che l’Agenzia ha annunciato, sulla base di un test a campione effettuato su 700 persone, di aspettarsi che entro il primo maggio un terzo della popolazione della regione di Stoccolma possa risultare positiva al virus: e parliamo di 600 mila persone. Attualmente i casi di contagio accertati nella capitale sono poco più di 6 mila.

Immunità di gregge. Se questa previsione venisse confermata, si realizzerebbe lo scenario che previsto da Anders Tegnell, l’epidemiologo a capo dell’Agenzia, e che — secondo le sue analisi — coinciderebbe con il raggiungimento dell’immunità di gregge a maggio. Per la Svezia si tratterebbe dell’uscita dal tunnel, senza i contraccolpi economici che il coronavirus sta avendo in tutto il resto del mondo, perché qui aziende e uffici sono rimasti sempre aperti.

La strategia. Tegnell ha precisato di nuovo ieri questa scelta, che ha sollevato in Svezia molte perplessità e proteste anche da parte della comunità medica, in un’intervista al settimanale Nature: «Come in tutti gli altri Paesi — ha detto questo epidemiologo contestato anche per come si veste —, puntiamo ad appiattire la curva dei contagi, rallentando il più possibile la diffusione dell’infezione, altrimenti il sistema sanitario rischia il collasso. Ma questa non è una malattia che può essere fermata o sradicata, almeno fino a quando non verrà prodotto un vaccino efficace — ha sottolineato —. Dobbiamo trovare soluzioni a lungo termine che mantengano l’epidemia ad un livello accettabile».

Responsabilità. A questo scopo tutti hanno fatto ricorso al distanziamento sociale, tenendo isolate le persone: la Svezia però, per cultura e limiti costituzionali, si è basata più sulla persuasione, che non sui divieti. «Le nostre leggi fanno affidamento alla responsabilità individuale: il cittadino ha la responsabilità di non diffondere una malattia. Questo è il punto da cui siamo partiti, non ci sono molte possibilità di chiudere le città con le leggi che abbiamo. La quarantena può essere impiegata solo per singoli individui o aree limitate, come una scuola o un albergo».

Scuole aperte. Quanto alla scelta di lasciare aperte le scuole — nonostante le superiori e le università siamo passate temporaneamente ai corsi a distanza — Tegnell sottolinea che «non avrebbe senso in questa fase, ora che siamo vicini alla cima della curva, chiuderle». Oltretutto, aggiunge, «è fondamentale per la loro salute psichica e fisica, che le generazioni più giovani restino attive».

Case di riposo. L’unico rammarico l’epidemiologo l’ha espresso sulle case di cura per anziani: «Abbiamo sottovalutato il problema — ammette — e come sarebbero state applicate le misure di contenimento. Avremmo dovuto fare controlli in modo più approfondito». Perché anche in Svezia la Covid-19 ha fatto breccia nelle strutture di assistenza per anziani, provocando il grosso dei decessi (1.765, su oltre 15 mila casi di contagio accertati) tra i pazienti con più di 70 anni, molti dei quali già con problemi di salute pregressi.

Coronavirus in Svezia, strage silenziosa nelle case di riposo. A fronte dell’impennata di decessi da coronavirus negli ospizi, crescono le pressioni sul governo affinché adotti misure energiche contro il Covid. Gerry Freda, Lunedì 20/04/2020 su Il Giornale. In Svezia hanno raggiunto picchi allarmanti i decessi per coronavirus avvenuti all’interno delle case di riposo. Nel Paese nordico, gran parte dei decessi totali da Covid registrati finora riguardano proprio ospiti di residenze per anziani. Il tragico bilancio dell’epidemia nella nazione scandinava si accresce quotidianamente, ma le autorità di Stoccolma non provvedono ancora a imporre il blocco totale delle attività non essenziali e a costringere i cittadini a restare a casa. In base a quanto riporta l’Ansa, il morbo incriminato avrebbe ad oggi ucciso oltre 500 anziani ospitati in case di riposo svedesi e tale cifra corrisponderebbe a circa un terzo dei 1.511 decessi totali avvenuti in quel Paese. I soggetti lì infettati, complessivamente, sarebbero 14.385. L’impennata delle morti verificatesi all’interno delle residenze socio-assistenziali sta facendo sempre più preoccupare, rileva l’organo di informazione italiano, l'Agenzia per la salute pubblica di Stoccolma e sta contestualmente spingendo l’esecutivo socialdemocratico a fare mea culpa. Il primo ministro di sinistra Stefan Löfven ha appunto ammesso finalmente, nell’ultima settimana, di non avere fatto abbastanza sul fronte della prevenzione dei contagi, ma, denuncia l’agenzia romana, “ormai il danno è fatto”. Sul governo svedese, rimarca sempre l’Ansa, si fa quindi ogni giorno più intensa la pressione dell’opinione pubblica, allarmata dall’avanzare dell’epidemia e dalla crescita delle vittime, nonché stupefatta nel vedere che le autorità non provvedono ancora a decretare lo stato d’emergenza. I pubblici poteri locali non hanno infatti messo la nazione in quarantena, limitandosi a raccomandare alla popolazione di osservare comportamenti responsabili, e, di conseguenza, gli abitanti dello Stato scandinavo stanno insistendo, puntualizza lo stesso organo di informazione, affinché Löfven dia una risposta energica al dilagare del coronavirus sul territorio nazionale.

Schiaffo all'Italia dalla Svezia: "Folli? Rosicate per i mondiali". La linea morbida di Stoccolma nei confronti del coronavirus ha riscosso gli strali di mezzo mondo. Per l’Italia sono dei "pazzi". E loro si difendono così. Michele Di Lollo, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Sono i teorici della linea morbida. E sono stati definiti dei pazzi per questo. Se ne vanno in giro fieri (ma ligi al dovere) per strada. Bevono con compostezza nei pub. Mangiano, con distanza di sicurezza, nei ristoranti. Magari non ballano in disco, ma tant’è, non si può avere tutto dalla vita. Perché come racconta Anders Tegnell, il capo degli epidemiologi della task force governativa svedese: "Il mondo dovrà sempre più abituarsi all’idea di convivere con un virus endemico". Ok allo sport, quindi. E a una minima dose di socialità. Punti di vista. Loro se la godono. Con austerità. Ma se la godono. Fanno quelle robe lì a cui noi, poveri italiani, siamo ormai disabituati. "L’affaire Svezia" riempie i quotidiani di mezzo mondo. Nel Paese scandinavo le misure restrittive sono al minimo. Ci si controlla autonomamente. Da individui liberi. Il Paese della tolleranza sembra dare una lezione al mondo. Ma a noi italiani questo non è andato per niente giù. Le nostre risposte non sono state mai violente, o poco rispettose. Però l’approccio soft deciso dal governo, una coalizione socialdemocratica, un po’ di invidia l’ha fatta. E così qualcuno li ha chiamati, appunto, pazzi. Il virus c’è. La paura anche. Le morti, purtroppo, pure. Ma l’approccio alla pandemia lì è totalmente diverso. I posti in terapia intensiva sono pochi, ma un terzo è ancora libero e ci si consola con un ospedale militare nuovo di zecca che è pronto ad aprire. Non tutti sono d’accordo. C’è una forte polemica nel Paese e alcuni preferirebbero il lockdown all’italiana. Tutto normale. È la democrazia. Se non fosse per quel senso di incomprensione che proprio non hanno capito. E, su questo, noi italiani abbiamo le nostre colpe. Agli svedesi non va di passare per i matti d’Europa. Poi arriva un editoriale che cambia tutto. Sul quotidiano Expressen, molto letto, compare un commento dal titolo: "Le notizie sulla Svezia dall’Italia sono oscure e false". Il giornalista scrive: "Sono anni che ci sforziamo di raccontare l’Italia al di là dei luoghi comuni e dei facili sensazionalismi. Vorremmo una certa reciprocità. Troppe cose raccontate non rispecchiano la verità. Forse qualcuno ce l’ha ancora con noi per l’ultimo Mondiale di calcio, sfumato proprio contro la Svezia. Ma questa è una sfida mondiale che non ammette trucchi e rivalità. La si vince solo con la verità e rimanendo uniti". Non si scompongono, insomma, più di tanto. Noi italiani avremmo fatto peggio. Rivendicano rispetto. E un po’, sempre un po’, in effetti, il mondo ce l’ha con loro. Il presidente degli States, Donald Trump, addita la Svezia come esempio da non seguire. Noi italiani abbiamo le nostre colpe, ma tanta indignazione internazionale fa sclerare la Scandinavia. Si muove addirittura il governo di Stoccolma con interviste del ministro degli Esteri e note ufficiali delle ambasciate per difendere la scelta che tanto stupisce. Hanno un loro aplomb. Mai stucchevoli. Sempre composti. Però, per cortesia, a noi mediterranei non ci toccate il calcio. Il pallone, da noi, è cosa sacra. Non sarete magari pazzi, come tanti vi descrivono. Ma quella "cavolata" ai Mondiali noi non la dimenticheremo (si fa per sdrammatizzare). Follia? Questa è l’Italia.

Sandro Orlando per "corriere.it" il 5 aprile 2020. La Svezia si prepara a cambiare strategia, per affrontare l’imminente ondata d’urto della pandemia. E con un’intervista-choc in stile Boris Johnson, il premier Stefan Löfven avvisa gli svedesi: «Prepariamoci a migliaia di morti», dice il leader socialdemocratico al quotidiano Dagens Nyheter, ricordando ai suoi concittadini che «è importante avere disciplina», evitando ad esempio di andare a trovare i parenti più anziani, e lavandosi spesso le mani, perché la crisi andrà avanti per mesi. «Ognuno decide come procedere per il distanziamento sociale e per rafforzare il sistema sanitario», ha aggiunto però Löfven: «Noi lo facciamo in un modo diverso. Certe volte dipende anche dal fatto che siamo in una fase diversa». Insomma il premier svedese non sembra voler rinnegare la linea a morbida adottata finora nel contrasto all’emergenza sanitaria, con bar e ristoranti, negozi e uffici aperti, e la semplice raccomandazione a limitare i contatti, affidandosi al senso di responsabilità individuale. Per ora solo gli assembramenti con più di 50 persone sono stati vietati, il campionato di calcio e le manifestazioni sportive sono stati rinviati, e scuole e università sono passati alle elezioni a distanza. Ma questa strategia, che ha sollevato critiche e perplessità anche tra gli svedesi, comincia ora a mostrare i suoi limiti, a fronte del trend di progressione dell’infezione: nel corso dell’ultima settimana i casi accertati nella sola area di Stoccolma – il più grande focolaio di Covid-19 della Svezia – sono quasi raddoppiati arrivando ai nuovi 225 contagi di ieri. E con questo il bilancio della pandemia nella piccola nazione scandinava (10 milioni di abitanti in un Paese del 50% più grande dell’Italia) segna ormai 6.443 pazienti infetti, di cui 520 in terapia intensiva, e 373 morti, con una media di 12 mila tamponi a settimana. Ecco perché nonostante le rassicurazioni di Löfven, sul fatto che la Svezia non rinuncerà alla sua «diversità» nell’approccio alla pandemia, evitando di ricorrere al restringimento delle libertà personali, il suo governo è pronto a varare delle misure emergenziali. Secondo alcune indiscrezioni stampa, l’esecutivo di minoranza guidato dal premier socialdemocratico avrebbe pronta una proposta di legge che lo autorizzerebbe a prendere dei provvedimenti senza l’approvazione del Parlamento. Questa proposta necessità però del sostegno dell’opposizione, e verrà discussa nei prossimi giorni.

Andrea Tarquini per rep.repubblica.it il 6 aprile 2020. La Svezia cambia radicalmente strategia nella lotta al coronavirus. Il Paese finora ha lasciato tutto aperto (scuole, palestre, spettacoli) puntando sulla disciplina dei cittadini, sul rispetto dei severi limiti costituzionali alle restrizioni alla libertà e sulla scelta dell'autorità nazionale per la salute di puntare a un contagio rallentato per non rischiare il collasso delle strutture sanitarie. Ma un'ondata di critiche di medici, scienziati dell'Accademia del Nobel, responsabili di ospizi, media e l'aumento veloce dei contagi hanno spinto il governo a guida socialdemocratica a invertire la rotta. Inizialmente l'esecutivo voleva una legge che gli conferisse poteri speciali per l'emergenza anche aggirando il Riksdag (il Parlamento unicamerale). Poi, davanti ai no delle opposizioni di sinistra radicale e di centrodestra a un'esautorazione dei legislatori, ha annunciato che il Riksdag stesso dovrà approvare ogni misura anti-coronavirus. L'annuncio finale è venuto dalla ministra della Salute, Lena Hallenberg, citata dalla radio pubblica Sveriges Radio. "Ho affidato a un gruppo di esperti la scrittura della legge che vogliamo presentare al Parlamento per averla operativa entro il 10 aprile", ha affermato. Il Riksdag non subirà dunque la sorte del Parlamento ungherese: potrà correggere anche radicalmente il progetto di legge entro il 10, poi il suo sì sarà necessario per ogni singola misura. L'emergenza, sempre secondo Sveriges Radio, potrà restare in vigore tre mesi. Il governo sarà autorizzato, ogni volta con la luce verde del Parlamento, a chiudere bar, ristoranti, scuole, palestre, piscine, limitare l'accesso a metropolitane, bus, tram, treni, aeroporti, porti e ogni altro mezzo di trasporto pubblico. Il no a superpoteri che aggirassero il Parlamento "all'ungherese" è venuto dai leader dei due partiti di opposizione democratici, Ulf Kristofferson per i Moderaterna e Jonas Sjöstedt per la sinistra radicale, sempre citati da radio e tv pubbliche. Entrambi sono contrari a un'esautorazione del Riksdag, ma ricettivi delle durissime critiche al "lassismo" seguito finora da Stoccolma. Ha spaventato soprattutto la lettera-appello all'opinione pubblica, firmata da ben 2 mila medici, tra cui il presidente della Fondazione Nobel, Carl-Henrik Heldin. Secondo il testo, misure rigide come quelle adottate dai paesi vicini - Norvegia, Danimarca e Finlandia - e da altri governi europei sono urgenti e indispensabili. "Il laissez-faire scelto finora dal governo, se non si cambia strada, ci porterà alla catastrofe", ha sottolineato la professoressa Cecilia Söderberg-Nauclér, epidemiologa del Karolinska Institutet, massimo centro di ricerca svedese paragonabile al Robert-Koch-Institut tedesco o all'Institut Pasteur francese. E ha aggiunto: "Non effettuiamo abbastanza test né tracking di pazienti positivi o malati, non stiamo rallentando il contagio, gli stiamo lasciando campo aperto, se si continua così il governo di fatto sceglierà di lasciar morire la gente, pur senza parlare di selezione naturale. I dati già segnalano un aumento dei contagi che può divenire piú veloce che in Italia". Poi sono arrivate le notizie, diffuse dalla tv privata Svt Tv, sulla grave situazione negli ospizi attorno a Stoccolma. I cui responsabili hanno dovuto ammettere che almeno 250 pazienti anziani sono stati contagiati e 50 di loro sono morti. Al momento la Svezia, con circa 10 milioni di abitanti, conta 6.443 contagiati e 358 decessi. E venerdì scorso il premier socialdemocratico in persona, Stefan Löfven, è passato dall'attendismo tranquillo a toni allarmati in un'intervista pubblicata dal quotidiano Dagens Nyheter, uno dei più autorevoli media. "La situazione è tale che il Paese deve prepararsi ad avere migliaia di morti", aveva detto.

Andrea Tarquini per “la Repubblica” il 27 marzo 2020. Università chiuse, ma scuole fino al 16esimo anno d' età aperte. Bar, ristoranti, discoteche, uffici e aziende aperti, la fitta e modernissima rete della Tunnelbana, la metro della capitale, sempre con ogni treno stracolmo alle ore di punta. Raccomandazioni di scegliere lo smart working per chi può, ma niente altro. L' unico moderno Paese industrializzato che reagisce in modo così soft all' emergenza coronavirus è la Svezia, patria del welfare e del sistema solidale dagli anni dei padri storici della socialdemocrazia. È una scommessa unica in politica sanitaria, ha profonde ragioni culturali e storiche, ma secondo molte voci critiche a Stoccolma potrebbe avere conseguenze catastrofiche. «Ragioni storiche, costituzionali e di cultura politica spiegano questa scelta, che però è discutibile», afferma citato dai maggiori media svedesi e da Foreign Policy l' autorevole storico Lars Träghard, esperto di pregi e difetti del welfare nordico. Il primo motivo della scelta, sottolinea, è l' autonomia assoluta conferita dalla Costituzione all' Autorità nazionale per la sanità, così come a tutte le agenzie specializzate che fanno capo allo Stato. Autonomia vista con fiducia dalla politica e dalla società. Sembra singolare un tale atteggiamento. E ancor più sorprende se confrontato con le misure prese da Danimarca, Norvegia e Finlandia. La Costituzione impone al governo (attualmente a guida di sinistra, del debole premier Stefan Lofven) di lasciare piena autonomia all' Autorità nazionale per la sanità. E di puntare sull' autodisciplina solidale dei cittadini. Conseguenza: sebbene il 10 marzo l' Autorità sanitaria abbia elevato il rischio del coronavirus a "molto alto", ristoranti, bar, locali della movida svedese restano aperti con la sola distanza obbligatoria tra tavoli dove si mangia o beve, confidando nel senso civico di chi continua a vivere come sempre. Paese più industrializzato ed esportatore della Germania, la Svezia è a rischio anche secondo i dati ufficiali: su dieci milioni di abitanti, 2.840 contagiati e 71 morti. Pochi giorni fa un gruppo di epidemiologi ha pubblicato un drammatico appello sullo Svenska Dagbladet, uno dei maggiori quotidiani, esortando autorità sanitarie e governo a misure drastiche e immediate. Subito è arrivata la replica del potente capo dell' Autorità nazionale della sanità, Anders Tregnell: «Decisioni drastiche sarebbero inutili». E per legge il governo si piega. Il modello svedese, come nelle fasi più acute di crisi economica nei decenni scorsi o dell' ondata di migranti del 2015, continua a scommettere su Costituzione, leggi e senso civico. Il governo continua a puntare sull' istinto storico di responsabilità e solidarietà della società civile. Ma intanto le forze armate di loro iniziativa edificano ospedali-tendopoli da campo.

Da "Ansa" l'1 aprile 2020. Nonostante i suoi 4.500 casi e i 180 morti, la Svezia era l'unico Paese europeo a non aver adottato misure restrittive per combattere il coronavirus. Adesso sembra che qualcosa stia cambiando. Dopo aver bandito, soltanto ieri, gli assembramenti con più di 50 persone, riporta la Bbc, il governo svedese ha deciso di vietare le visite nelle case di riposo per anziani. L'Agenzia nazionale per la Salute, inoltre, sta mettendo a punto un piano per dissuadere la popolazione a partire per le imminenti vacanze di Pasqua durante le quali migliaia di svedesi sono soliti spostarsi nelle seconde case di campagna. Quanto al resto, ristoranti, bar, caffè e locali notturni restano aperti ma possono effettuare solo servizio al tavolo. Le università hanno chiuso ma le scuole frequentate da allievi sotto i 16 anni restano aperte.

Susanna Picone per "fanpage.it" l'1 aprile 2020. Praticamente ovunque, a causa della pandemia di coronavirus, sono state adottate misure stringenti per limitare la diffusione del contagio. Prima in Asia, poi in Europa e America, sono svariati i Paesi in “lockdown” come l’Italia, ma nel vecchio continente ce n’è uno che fa eccezione. È la Svezia, dove per il momento la vita va avanti più o meno come al solito. Finora nel Paese sono oltre quattromila i casi accertati di coronavirus e poco meno di duecento i morti per Covid-19, ma ciononostante sono ancora aperti i ristoranti, i bar, i cinema, gli impianti sciistici e alcune scuole. Qualche misura è stata adottata – ad esempio sono vietati gli assembramenti con più di 50 persone – ma sicuramente per ora c’è una libertà maggiore rispetto al resto dell’Europa. Il perché di questa “assenza” di divieti? Tutto si basa su una grande fiducia del governo nei suoi cittadini, che hanno avuto delle indicazioni per tentare di contenere i contagi. Le "regole" al momento in vigore in Svezia dicono per esempio che chi è malato deve isolarsi, che è preferibile se possibile lavorare da casa, di evitare visite non necessarie agli anziani e anche di evitare, se possibile, viaggi all'interno del Paese. Raccomandazioni per i cittadini insomma, col governo che insiste sulla responsabilità personale delle persone. Secondo l’epidemiologo Anders Tegnell, capo dell’ente svedese di salute pubblica, le persone sarebbero in grado di fare quel che è giusto per le loro vite. Ma non tutti sono d’accordo con questa assenza di divieti nel corso di una emergenza sanitaria come questa che il mondo intero sta affrontando. Diversi esperti, svedesi e non, non a caso hanno criticato il governo svedese e in particolare oltre duemila tra dottori, professori e scienziati hanno firmato una petizione per chiedere misure più stringenti. “Ci stanno portando verso una catastrofe”, ha detto Cecilia Söderberg-Nauclér, immunologa e ricercatrice presso il Karolinska Institute. Le critiche riguardano il fatto che senza forti restrizioni ai movimenti il virus rischia di diffondersi ancora più velocemente, creando poi gravi problemi agli ospedali. Cosa ne pensano intanto gli svedesi? Secondo recenti sondaggi citati dal New York Times, la maggioranza è a favore delle scelte finora fatte dal governo e solo il 14 per cento di loro ha detto di ritenere che sia stato fatto troppo poco.

Il “modello svedese” da coronavirus: una catastrofe annunciata. Davide Bartoccini su Inside Over il 28 marzo 2020. Mentre molti paesi guardano al modello coreano per impostare o reimpostare una strategia di contenimento efficace per l’emergenza coronavirus, il democratico e stravagante governo di Stoccolma si appresta a varare un nuovo peculiare modello: quello “svedese”, che basa l’intera sicurezza del Paese sul senso di responsabilità e di autodisciplina dei propri cittadini. Ecco come questo eccesso di patriottica fiducia – se qualcuno cadrà in errore – rischia di tramutarsi in una catastrofe da migliaia di morti. Sebbene la fondamentale legge del 1974 consenta al governo di concedere “autonomia assoluta” all’autorità nazionale per quanto concerne la Sanità, dunque coloro che dovrebbero intervenire per gestire un’epidemia o una pandemia, qualche alto papavero di Stoccolma ritiene che “le misure drastiche” e coercitive applicate dagli altri Paesi che stanno facendo i conti con il Covid-19 – solo nel nostro paese sono morte oltre 8.000 persone per il contagio – siano “inutili”. Attualmente in Svezia i casi riscontrati sono 3.046, con 92 decessi; le università sono state chiuse, ma i bar, i ristoranti, le discoteche, le fabbriche e ogni sorta di ufficio, pubblico o privato, restano aperti. Così come le scuole che seguono i rampolli svedesi che non hanno compiuto i sedici anni d’età. Questo nonostante anche la loro beniamina marinatrice, Greta Thunberg, sia rimasta contagia dalla malattia respiratoria acuta da Sars-CoV-2. Treni e mezzi pubblici restano così stracolmi nonostante l’incombere del virus potenzialmente letale, e l’unica raccomandazione espressa dall’epidemiologo Nils Anders Tegnell è quella di privilegiare lo smart working, lì dove sia possibile. Non importa se poi la sera si prende la metro per andare a bere una birra in un pub del centro gomito a gomito con colleghi e amici. È questa la risposta della moderna e democratica Svezia all’emergenza. Il paese preso ad esempio ogni due per tre dai paladini della democrazia per il suo ultra efficace welfare e la sua condotta solidale, ora si rivolge con temerarietà ad una sfida potenzialmente letale, opponendo un modello che qualcuno ha definito “soft” e che altri potrebbero anche definire “stragista”. Perché questa scommessa sanitaria potrebbe essere persa. “Ragioni storiche, costituzionali e di cultura politica spiegano questa scelta, che però è discutibile” afferma lo storico Lars Träghard; citato dai media svedesi, che nulla possono fare se non rammentare la prudenza alla popolazione che deve cimentarsi con l’autodisciplina: unica risorsa per frenare la diffusione del virus che si sta diffondendo anche nella confinante Norvegia – dove sono stati registrati ad ora (aggiornamento odierno ore 16.45 Gmt+1) 3.867 casi. Secondo Träghard infatti, grande esperto e studioso della costituzione svedese, la scelta del governo sarebbe motivata principalmente dall’autonomia assoluta conferita dalla Costituzione all’ Autorità nazionale per la sanità. Una linea in completa controtendenza con quella di Danimarca, Norvegia e Finlandia. Un gruppo di epidemiologi che evidentemente non sposa la linea rilassata del succitato capo dell’Autorità nazionale della sanità Anders Tregnell, ha esortato il governo ad applicare misure “drastiche e immediate” per arginare il rischio di diffusione del virus. Ma l’appello, pubblicato sul Svenska Dagbladet, una delle maggiori testate nazionali, non ha minimamente toccato Tregnell, che non è tornato sui propri passi ma ha anzi ribadito che reputa le “decisioni drastiche sarebbero inutili” e preferisce puntare tutto sul senso civico dei cittadini come la Costituzione consente – o forse non vuole dichiarare la sua adesione all’ipotesi immunità di gregge che vuole mettere in pratica l’Olanda. Se perderà la scommessa, il prezzo questa volta verrà pagato in vite umane. E sarà per questo motivo che le forze armate, di autonoma iniziativa, hanno cominciato ad allestire ospedali per il primo soccorso in tende da campo sperse sulla penisola.

L'attivista svedese posta la sua foto su Instagram: "Qui in Svezia non è possibile fare il tampone se non ricoverati". Giacomo Talignani su La Repubblica il 24 Marzo 2020. Greta Thunberg potrebbe avere il coronavirus e manda un messaggio ai giovani di tutto il mondo sull'importanza di rimanere a casa per non contagiare gli altri. E' lei stessa ad annunciarlo, dopo che da qualche giorno non si avevano molte notizie sulla 17enne svedese e dopo che gli scioperi sul clima del venerdì erano diventati "digitali", ovvero online, a causa della pandemia in corso. Inoltre Greta racconta che anche suo padre Svante, che ha viaggiato con lei in Europa, potrebbe essere stato contagiato, dato che ha presentato tutti i sintomi legati al Covid-19. "Nelle ultime due settimane sono rimasta a casa. Da quando sono tornata dal mio viaggio in Europa centrale mi sono isolata (in un appartamento preso in prestito lontano da mia madre e mia sorella). Circa dieci giorni fa ho iniziato a sentire alcuni sintomi, come mio padre, che ha viaggiato con me da Bruxelles. Mi sentivo stanca, avevo brividi, mal di gola e tosse. Mio padre ha avuto gli stessi sintomi, ma molto più intensi e con la febbre", scrive Greta su Instagram. Poi, accennando alla possibilità di essere stata contagiata, spiega che "in Svezia non puoi fare il test per Covid-19 a meno che tu non abbia bisogno di cure mediche urgenti. A tutti i malati viene chiesto di restare a casa e di isolarsi. Dunque non ho fatto il test per il Covid-19, ma è estremamente probabile che lo abbia avuto, visti i sintomi e le circostanze". Il suo post si trasforma poi in un messaggio rivolto a tutti i giovani, soprattutto i tanti adolescenti che la seguono: "Non mi sentivo male e non sospettavo di nulla" dice aggiungendo che "questo è ciò che rende pericoloso il virus. Molti (specialmente i giovani) potrebbero non notare alcun sintomo o sintomi molto lievi. Quindi in tanti non sanno di avere il virus e possono trasmetterlo alle persone a rischio. Noi che non apparteniamo a ai gruppi di persone a rischio abbiamo una responsabilità enorme, le nostre azioni possono fare la differenza tra la vita e la morte per molti altri. Tenetelo a mente", conclude Greta suggerendo di ascoltare gli esperti e di restare a casa per arginare la diffusione del virus.

Andrea Tarquini per "repubblica.it" il 26 marzo 2020. Unico Paese europeo industrializzato importante, la Svezia va controcorrente sull'emergenza coronavirus, in modo che a molti nel mondo appare pericoloso e irresponsabile. Scuole chiuse solo per studenti da 16 anni in su, università chiuse, divieti di assembramenti oltre 500 persone, ma poi nient'altro. E come ha scritto da Göteborg, seconda città della prima potenza del Nord, una ragazza italiana firmandosi "Haifa", gli italiani residenti in Svezia che si sono messi in quarantena volontaria vengono derisi dagli svedesi con frasi ai limiti del razzismo. Tipo "noi non siamo come voi, non ci accadrà nulla", fino ad accuse di essere untori, sempre secondo la email rella ragazza. La maggioranza degli uffici restano aperti, quindi a Stoccolma e nelle altre città, bus, tram e la fitta rete di metropolitana della capitale sono pieni alle ore di punta. In quello che il Financial Times non senza critiche ha definito "esperimento sanitario unico al mondo", non è stata varata nessuna misura restrittiva simile a quella degli altri Paesi industriali del mondo. Il direttore della Sanità pubblica, Johan Carlson, ha difeso questo sorprendente approccio affermando che "non si possono varare misure draconiane che hanno un impatto limitato sull'epidemia ma abbattono le funzioni sociali". L´approccio svedese, singolarmente, evoca la posizione iniziale del premier britannico Boris Johnson e del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, sebbene a Stoccolma sia al potere un governo a guida di sinistra. Carlson ha comunque ammesso che il numero medio annuale di morti in Svezia, circa 90mila, "salirebbe in caso significativo in caso di un dilagare dell'epidemia e di sovraccarico delle strutture sanitarie". Il rischio - altro fatto contraddittorio - non viene escluso, tanto che le potenti forze armate hanno allestito in corsa ospedali da campo per i futuri eventuali contagiati. Al momento i positivi sono circa duemila e le vittime 33. L'epidemiologo di Stato Anders Tegnell parla di "situazione ancora gestibile". Ma la situazione mondiale fa pensare a un assurdo, pericolosissimo errore del Paese del modello nordico. Scrive "Haifa" da Göteborg: "Quindici giorni fa abbiamo ricevuto la notizia che un collega svedese del mio ragazzo era positivo, allora ci siamo messi in quarantena volontaria. Il mio ragazzo lavora in una joint venture con italiani svedesi e turchi. Attualmente molti italiani residenti in Svezia hanno deciso di lavorare da casa", ma nonostante il governo abbia raccomandato lo smart working a chi può svolgerlo "questa nostra decisione viene giudicata eccessiva, c'è chi ci dà degli untori, dicono che gli svedesi non sono come noi e non succederà nulla". Continua la testimonianza: "Cosa vuol dire non essere come noi? Cosa ha provocato questo razzismo contro di noi? La situazione ci spaventa, siamo terrorizzati pensando a un possibile decollo dell´epidemia, anche considerando il poco numero di terapie intensive a disposizione. Scuole fino ai 16 anni, bar ristoranti e palestre, non siamo preoccupati, siamo semplicemente terrorizzati". La scelta svedese è opposta anche a quella di altri paesi nordici: la Finlandia ha isolato l´intera regione della capitale Helsinki (Uusimaa) dal resto del territorio nazionale.

Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero" il 16 ottobre 2020. Chi la conosce come Anu Koivunen, docente all'università di Tampere assicura che Sanna Marin sapeva perfettamente che genere di commenti avrebbe provocato il bel servizio fotografico di Trendi, popolare magazine femminile finlandese. Trucco naturale, occhi blu piantati dritti nella camera, al collo un magnifico monile vintage di Kalevala, addosso un blazer nero damascato e sotto: niente. Il che significa semplicemente una scollatura profonda, ma senza nessuna nudità debordante. Ma pur sempre una scollatura di prima ministra 34enne. Perfino nella moderna Finlandia, dove al governo i ministri donna sono 12 su 19, il corpo femminile continua a nutrire le chiacchiere: «indecente», «inappropriato», «perché non pensa a governare invece di fare la modella» hanno commentato sotto la foto della premier pubblicata sul sito instagram della rivista. A rispondere per Marin sono state centinaia di finlandesi (quasi tutte donne, ma si è distinto anche qualche uomo) che hanno occupato i social con selfie di scollature più o meno profonde e sbandierando l'hashtag di sostegno #Imwithsanna, «io sto con Sanna», la nostra premier, che si veste come le pare e la cui credibilità non si misura dai centimetri del girocollo. E' da qualche giorno che la polemica ha cominciato a montare in Finlandia, da quando, il 9 ottobre, la rivista Trendi ha pubblicato sui social la foto scollata della prima ministra, a corredo di una lunga intervista. Al giornale Sanna Marin confida cosa l'ha aiutata a far fronte alla pressione del lavoro: un buon sonno e nervi d'acciaio. Ne ha avuto bisogno: arrivata alla guida del governo a dicembre, (più giovane premier del mondo, ora le ha tolto il record l'austriaco Sebastian Kurz) ha dovuto far fronte subito a uno sciopero generale, poi a un dibattito movimentato sulla finanziaria e il rigore di bilancio, prima di gestire la più grave crisi sanitaria degli ultimi cent'anni. In primavera i concittadini hanno applaudito la sua gestione: con 350 morti, la Finlandia è stata tra i paesi meno colpiti. Ma da qualche settimana, con la recrudescenza dell'epidemia, le contestazioni hanno cominciato a farsi sentire, in particolare sulle indicazioni contraddittorie relative all'uso della mascherina. Ma le contestazioni, anche nell'avanzata Finlandia, appena possono prendono sempre l'antica direzione: «C'è il Covid e lei si spoglia» hanno commentato in molti. Nell'intervista la premier parla tra l'altro di quanto le scelte personali di una donna siano sempre oggetto «di analisi e dibattito» e di come l'apparenza di una donna resti un'ossessione. Per questo, dice, «cambio il meno possibile il mio look». Per puntare i riflettori sui diritti delle donne, il 7 ottobre aveva simbolicamente ceduto per 24 ore il suo posto alla guida del governo a un'adolescente di 16 anni. Le finlandesi non l'hanno comunque lasciata sola a difendere la scelta di indossare il blazer senza camicetta. In giacca blu (e basta) la giornalista tv Ina Mikkola ha denunciato la misoginia dei commenti. Le ragazze di un coro femminile (tutte in giacca e decolleté) hanno lanciato un appello per «un mondo in cui una donna non deve temere di perdere la sua credibilità a causa della scollatura». Nel dibattito è entrata anche l'ex presidente della Finlandia, Tarja Halonen, che non è arrivata a esibirsi in un selfie col blazer, ma ha comunque fatto i complimenti alla sua premier: «benvenuta nel club delle donne politiche il cui fisico è costantemente scrutato e discusso al contrario degli uomini che possono tranquillamente farsi vedere a torso nudo, che possano o no permetterselo». Nata da padre alcolizzato e violento e da madre cresciuta in orfanatrofio - che poi si è risposata felicemente con una donna, Sanna è stata la prima della sua famiglia a laurearsi. L'11 ottobre ha postato un'altra foto meno osé di lei bambina: Pensavo che tutto fosse possibile perché mia madre mi diceva che sarei potuta diventare chi volevo. Bisogna incoraggiare le ragazze, cambieranno il mondo.

LA LETTERA. "Io italiana in Norvegia. Dove i giovani non hanno capito il pericolo coronavirus". "Il paese scandinavo ha disposto le stesse misure adottate in Italia e si sta in quarantena. Ma i negozi aperti sono affollati per via degli sconti e i ragazzi continuano a praticare sport di gruppo. Per questo ho paura". Ci scrive di una lettrice. Rosa Manzo il 20 marzo 2020 su L'Espresso. Cara Italia, mi chiamo Rosa Manzo, ho 32 anni e vivo in Norvegia. Anche qui si sta distanti gli uni dagli altri e in quarantena. Mentre l’epidemia cominciava a colpire dolorosamente il Nord l’Italia, la Norvegia contava ancora pochissimi casi di contagio, diffuso principalmente tra chi ritornava dalla settimana bianca trascorsa in Austria o sulle Alpi. Nonostante sia distante, vivo questa situazione come se fossi lì, in Italia: sono costantemente aggiornata sui dati della Protezione Civile, tramite i social sensibilizzo costantemente amici e colleghi sulle precauzioni da prendere, invio messaggi ad amici e familiari per accertarmi che stiano bene, che rispettino le direttive, illudendomi di poterli proteggere in questo modo, da lontano. Come sto? Ho paura, tanta paura per i miei cari in Italia, per i miei genitori che rientrano nella fascia di età dei più vulnerabili a questo virus. Oltre alla paura di perdere i miei, di non poter stare loro vicino e di non poter proteggerli, sento un dolore fisico penetrante. È come se fossi in lutto, come se potessi sentire il dolore che in questo momento stanno provando molte famiglie in Italia per la perdita del loro cari. Sulla scia delle vicende italiane, la Norvegia ha disposto le medesime misure adottate in Italia. Si sta in quarantena. E anche qui, c’è chi pensa di poter eludere l’obbligo di quarantena, ma viene sanzionato severamente, con pena di circa 2.000 euro. A chiedere misure restrittive al governo norvegese sono stati gli stessi cittadini - e la comunità italiana in primis – mentre inizialmente lo Stato si era limitato a prescrivere la quarantena per chi risultava positivo al tampone e per chi ritornava da viaggi in Nord Italia. Da circa dieci giorni, l’obbligo di quarantena è stato esteso anche a chi ritorna in Norvegia da viaggi internazionali provenienti da qualsiasi zona del mondo, anche da aree in cui il virus non si è ancora fortunatamente diffuso. I voli per Milano sono stati immediatamente sospesi, nel momento in cui la notizia della decisione a favore della zona rossa in Lombardia è stata divulgata dalla stampa internazionale. Anche qui le scuole e le Università rimangono chiuse, restano invece aperte alcune attività commerciali, attirando purtroppo un gran numero di clienti, con sconti eccezionali fino al 70 per cento. Farmacie e supermercati sono aperti, mentre ristoranti e pub sono chiusi. La reazione del popolo norvegese è variegata. Di certo si assiste a una netta diminuzione di chi circola in strada, ciò è probabilmente dovuto all’obbligo di smart working, pratica non nuova qui in Norvegia, pertanto implementata velocemente e senza particolari sforzi. Diversa è invece la percezione del rischio da parte dei più giovani, che purtroppo non sembrano temere la diffusione del virus e continuano, ad esempio, a praticare sport di gruppo. La stampa invita alla prudenza. Ad oggi le zone più colpite, sono la capitale Oslo e le aree a questa limitrofe, per un totale di 1.500 casi e 6 morti in tutta la Norvegia. Il ministro della salute ha affermato che il sistema sanitario nazionale può curare il 25 per cento della popolazione qualora il virus si diffondesse a macchia d’olio. Eppure inizio ad aver paura di ammalarmi perché, avendo viaggiato a lungo in molti paesi del mondo, mi è già capitato altre volte di usufruire di servizi sanitari stranieri. E, al di là delle rassicurazioni del ministro, proprio per la mia esperienza passata, sono consapevole che, se dovesse capitare di aver bisogno di assistenza sanitaria, non sarà una situazione facile da affrontare. Temo (e in questo c'è una grande nota di orgoglio) che la professionalità dei medici italiani sia un unicum a livello mondiale. Ma ho comunque deciso di restare in Norvegia perché viaggiando contribuirei alla diffusione del virus. Dobbiamo tutti restare a casa per lottare contro il virus: i piccoli gesti sono fondamentali in questo momento!

Coronavirus in Scandinavia: primi casi in Danimarca, Estonia e Norvegia. Laura Pellegrini 27/02/2020 su Notizie.it. Il coronavirus ha raggiunto anche la Scandinavia: i primi casi positivi ai test sono stati registrati in Estonia, Danimarca e Norvegia. Da quanto si apprende, inoltre, le persone risultate positive sarebbero state poste in isolamento. Il primo caso nel Nord Europa era stato registrato alcune settimane prima in Svezia. Attualmente risulta essere l’unico caso positivo nel Paese. Emergono i primi casi di contagio da coronavirus in Scandinavia: all’alba di giovedì 27 febbraio sono stati segnalati casi positivi in Danimarca, Norvegia ed Estonia. Il governo di Copenhagen ha comunicato che il primo caso di contagio per Covid-19 nel Paese è stato diagnosticato a un uomo appena rientrato dall’Italia. Quest’ultimo, infatti, si trova ora in quarantena nella propria abitazione. Nella conferenza stampa dell’Istituto di Sanità pubblica norvegese, invece, emergono le condizioni di salute del primo paziente infetto. “Il test condotto oggi (mercoledì 26 febbraio, ndr) ha mostrato un risultato parzialmente positivo, mentre i test precedenti erano stati negativi. Gli esami mostrano tracce di coronavirus”, ha spiegato Line Vold, direttrice del dipartimento per la protezione dalle malattie infettive. In Norvegia, hanno reso noto fonti ufficiali, sono stati realizzati altri 100 tamponi, in attesa dei risultati. Infine, altre 5 persone di ritorno dal Nord Italia sono state poste in quarantena. Uno dei primi casi registrati nella Scandinavia era quello della Svezia, registrato alcune settimane prima dei Paesi confinanti.

(LaPresse il 26 febbraio 2020) - E' stato confermato il primo caso di coronavirus in Macedonia. Lo ha reso noto in una conferenza stampa straordinaria il ministro della Sanità Venko Filipce, ripreso dal quotidiano macedone Nova Makedonija. Si tratta di una donna rientrata dall'Italia. Coronavirus, primo caso in Macedonia: una donna rientrata da Italia.  "La paziente è in condizioni stabili", ha riferito il ministro della Salute. La donna era stata in Italia per un mese e due settimane fa ha manifestato i primi sintomi. "Non c'è motivo di allarmarsi" ha detto il primo ministro Oliver Spasovski in conferenza stampa. "Tutti i servizi civili sono preparati e sono state adottate tutte le misure necessarie".

La Grecia ha confermato il suo primo caso di contagio da coronavirus. Lo ha riferito Kathimerini sul suo sito web, citando il ministero della Salute di Atene. Si tratta di una 38enne, la cui infezione è stata rilevata a Salonicco; di recente la donna ha viaggiato in Italia settentrionale. La sua famiglia sarà posta in quarantena per 14 giorni, hanno precisato le autorità. Un portavoce della commissione governativa di esperti sulle malattie contagiose ha sottolineato che la gran parte dei sintomi del contagio è lieve e ha invitato la cittadinanza a osservare regole d'igiene come prevenzione.

Il ministro della Sanità tedesco Karl-Josef Laumann, ripreso dal quotidiano tedesco 'Der Spiegel', ha reso noto che una delle persone contagiate in Germania è una maestra d'asilo. Ai bambini della struttura è stato chiesto di rimanere a casa. Sono attualmente in corso i test e i tamponi per verificare se ci sono stati casi di contagio tra i bimbi. I risultati dovrebbero essere disponibili domani. Il marito della donna è risultato anche lui positivo al test.

Anna Ditta per tpi.it il 26 febbraio 2020. Mentre l’Italia e il mondo sono alle prese con la paura del coronavirus, la Germania si trova a fronteggiare un boom dell’influenza stagionale che ha coinvolto quasi 80mila persone dallo scorso autunno. A riportare questo dato è il sito della televisione di Stato tedesca Deutsche Welle. La metà di questi casi sono stati confermati nel giro delle ultime due settimane, secondo quanto riporta l’Agenzia federale tedesca per il controllo della Salute. “Un rapporto pubblicato dal Robert Koch Institute (RKI) di Berlino ha rilevato che 130 persone sono morte a causa dell’influenza in questa stagione, mentre quasi 13.300 sono stati ricoverati in ospedale”, si legge nell’articolo. “Dall’autunno sono stati registrati in totale 79.263 casi”. “Il numero di casi di influenza registrati in Germania in questa stagione supera il bilancio globale delle infezioni di coronavirus, noto anche come COVID-19, che attualmente ammonta a circa 75.000 persone”, sottolinea la tv tedesca. Finora, in Germania sono stati registrati 16 casi di coronavirus, ma nessun decesso risulta legato al virus.

·        …in Spagna.

D.Pir. per “Il Messaggero” il 14 dicembre 2020. Nei giorni scorsi l'Ine (l'Istat spagnolo) ha completamente ridefinito la portata della pandemia in Spagna segnalando un numero di morti molto più elevato dei dati noti finora: i decessi da Covid nel 2020 sono 76.000 e non 47.000 come dichiarato dalle autorità sanitarie iberiche. Nulla di illegittimo: in tutto il mondo sulla mortalità si registrano differenze fra i dati sanitari e quelli statistici che arrivano dopo mesi e generalmente sono più accurati. Ma come si arriva ai nuovi numeri che collocherebbero la Spagna al primo posto in Europa per questa tristissima classifica? Secondo l'Ine - come riporta il quotidiano El Pais - tra marzo e maggio 2020, 45.684 persone sono morte in Spagna a causa del Covid-19. Questa cifra include sia i decessi confermati con un test diagnostico (32.652 persone) sia quelli sospettati di aver contratto la malattia perché hanno presentato sintomi compatibili con essa (13.032). Il ministero della Salute iberica ne contabilizzava finora solo 27.127, quasi 19 mila in meno rispetto a quelli effettivi. Inoltre tra luglio e dicembre, nella seconda ondata della pandemia, si sono aggiunti 26.900 decessi, mentre i morti ufficiali da Covid, certificati con un tampone, si sono fermati a quota 16.700. Dunque i decessi effettivi della pandemia negli ultimi mesi sarebbero 10.200 in più rispetto a quelli contabilizzati finora. Il risultato è il seguente: le autorità sanitarie iberiche dichiarano circa 47.000 decessi da Covid mentre per l'Istituto di Statistica sono 76.000 circa. Una differenza enorme. Che però non desta una sorpresa eccessiva. Secondo l'Ine, infatti, solo il 62% dei decessi per Covid sono stati registrati negli ospedali. Le altre morti sono avvenute nelle Residenze per anziani o in casa dove non sempre l'infezione da Covid è stata intercettata. Le stime dell'Ine sono inserite nel periodico rapporto sui decessi che presenta numeri complessivi tremendi: nei primi 5 mesi di quest'anno la mortalità in Spagna è stata più alta del 23,2% rispetto al trend normale. In termini assoluti nei primi cinque mesi del 2020 sono morte 231.014 persone in Spagna, 43.537 in più rispetto allo stesso periodo del 2019. E l'Ine non manca di segnalare che l'anno era iniziato sotto i migliori auspici: nei primi due mesi, gennaio e febbraio, era stato registrato un calo della mortalità superiore al 4%.

Letizia Tortello per “la Stampa” il 28 ottobre 2020. Esausti dopo otto mesi di pandemia, i medici del sistema sanitario pubblico spagnolo hanno iniziato ad alzare la voce. È la prima volta da 25 anni. Camici e mascherine bianche, cartelli con scritto «Sciopero nazionale, salviamo la salute», dottori e infermieri sono scesi in piazza e hanno inscenato un flashmob per manifestare contro il governo, «incapace e inadeguato nel gestire l' emergenza», dicono. Ha incrociato le braccia l' 85% dei 276mila professionisti, anche se per non violare le norme anti-Covid solo una cinquantina di loro si è riunita davanti al Parlamento a Madrid. «Non smetteremo di farci sentire fino a che non avremo risposte migliori - hanno spiegato -. La protesta va avanti ogni ultimo martedì del mese, a oltranza». L' appello è partito dal principale sindacato dei medici (Cesm). Le ragioni che hanno portato i professionisti in piazza sono le cattive condizioni di lavoro e il fatto che l' esecutivo di Pedro Sanchez, a loro giudizio, non ha saputo potenziare il sistema sanitario nazionale in questi mesi: «Non è più emergenza, ma cattiva gestione», è lo slogan. La Spagna sta affrontando un' escalation di contagi che ha portato le autorità a imporre un coprifuoco notturno e uno stato di allarme in quasi tutto il Paese, dopo aver superato un milione di casi positivi e 35mila morti. Secondo il governo solo il 7,6% dei medici ha, in realtà, manifestato. Sia come sia, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il decreto di fine settembre, che consente il trasferimento dei medici ad altra attività, indipendentemente dalla loro specialità. Il ministero della Salute giustifica questa riforma con la necessità di far fronte all' urgenza Covid, ma il Cesm la definisce «il più grande attacco alla salute degli spagnoli», una scelta politica che non ha tenuto conto del parere di chi in corsia lavora ogni giorno. Il governo spagnolo ha annunciato ieri che nel 2021 aumenterà del 151% il bilancio sanitario, investendo 3 miliardi in più. Le regioni, intanto, valutano il lockdown in vista del ponte di Ognissanti, per limitare al minimo gli spostamenti dei cittadini. La positività media è del 13%, meno del 21% del Belgio, che ha superato la Repubblica Ceca come numero di persone contagiate ogni 100mila abitanti ed è il Paese più colpito della Ue.

L' Oms. A fare il punto di una situazione che in un attimo è passata dal preoccupante al grave è l' Oms: in Europa i decessi sono saliti del 40% circa rispetto a una settimana fa, ha spiegato ieri la portavoce dell' Organizzazione mondiale della Sanità, Margaret Harris. In Inghilterra e Galles, le morti per Covid-19 hanno registrato il numero più alto da giugno. E la carenza di personale sanitario non preoccupa solo la Spagna, ma anche i Paesi dell' Est Europa, Polonia in testa che, secondo i dati Eurostat, ha il numero più basso di medici praticanti pro capite nell' Ue: 238 ogni 100.000 abitanti, la Romania ne ha 304, l' Ungheria 338 e la Slovacchia 352 (a confronto, l' Austria ne conta 524, la Germania 431, l' Italia 400).

Mazzate sui denti tra esecutivo e magistratura. Spagna, sul lockdown è scontro tra esecutivo e magistratura: il Tribunale supremo lo annulla, il premier lo impone. Angela Nocioni su Il Riformista il 10 Ottobre 2020. Siamo alle mazzate sui denti tra governo centrale e magistratura in Spagna. La guerra tra esecutivo e giudici, una guerra plateale fatta di grandi colpi di teatro e esibizioni d’orgoglio da hidalgos, ha trovato nel panico da emergenza Covid un palcoscenico perfetto dopo l’estenuante tiro alla fune andato in scena durante i mesi incandescenti della tentata fuga di Barcellona dal controllo di Madrid. Volano botte da orbi: decreti esecutivi annullati da sentenze, arresti di deputati, i reparti antisommossa sempre sul punto d’essere spediti con uno scatto d’ira davanti ai tribunali. Quel che il governo di Pedro Sanchez fa, il Tribunale Supremo disfa. E Sanchez lo rimette in piedi e lo ripiazza in pista. Giocando al rilancio, aumentando ogni volta la posta. Che si tratti dell’antico conflitto tra separatisti catalani e centralisti madrilegni, del grande classico “popolari contro socialisti”, o della più recente battaglia tra favorevoli alla quarantena preventiva contro no mask, sempre braccio di ferro tra governo e magistratura diventa. Ieri con un Consiglio dei ministri straordinario, il premier socialista ha imposto lo stato d’allarme a Madrid in un gesto notevole d’esibizione muscolare. “Fascista”, gli gridano da destra i nostalgici franchisti. “Anarchici disfattisti”, rispondono ai vecchi fascisti i socialisti che con i gruppi anarchici in realtà brigano ogni tanto per tenere in piedi il governo. Lo stato d’allarme consente a Sanchez, per 15 giorni, di far rientrare dalla finestra il lockdown nella capitale e in otto distretti lì intorno dichiarato dal suo ministro della Salute di fronte all’emergenza epidemia a Madrid e cancellato a tempi di record l’altroieri da una sentenza del Tribunale supremo. Accogliendo un ricorso del Partito popolare (la destra al governo regionale della capitale in aperto conflitto con il governo centrale formato da socialisti, Podemos e cespugli separatisti che all’occorrenza vanno in supporto al Psoe in cambio di puntuali concessioni) il Tribunale supremo ha annullato l’8 ottobre il lockdown previsto per decreto dal ministro della salute spiegando in 26 pagine di sentenza che quel decreto «costituisce una interferenza nei diritti fondamentali senza il giusto sostegno legislativo». Tecnicamente imputa poi al governo somaraggine aggravata. Avrebbe usato la norma sbagliata, una norma del 2003 invece che la legge del 1986 sulle misure speciali per la salute pubblica. Abrogata quindi dal Supremo in nome della libertà individuale ogni limitazione del movimento in entrata e in uscita da Madrid perché il governo non può intromettersi con questi mezzi nel sacrosanto diritto di ciascuno di decidere per sé. Non può nonostante l’epidemia corra nella capitale più che altrove.  Il tasso di contagio in Spagna è il più alto d’Europa, soprattutto nella regione di Madrid: 700 casi conclamati ogni 100mila abitanti, più del doppio della media nazionale. Nel territorio spagnolo non vige lo stato d’emergenza. Durante i primi mesi dell’emergenza Covid per 45 giorni si è usata la legge speciale che consente di limitare i movimenti per decreto. Trattasi però di strumento di legge che ogni 15 giorni dev’essere rinnovato (cioè rivotato in Parlamento e approvato a maggioranza assoluta, 176 voti) altrimenti decade. Sanchez conta solo su 155 voti sicuri sempre, gli altri se li deve andare a cercare volta per volta. Dopo due proroghe ai poteri emergenziali è stato invitato dalle opposizioni (anche dai separatisti catalani che un po’ gli danno corda, un po’ no) a inventarsi un’altra strada. Il problema per lui è che, se non vige lo stato d’emergenza, qualsiasi limitazione delle libertà fondamentali può essere censurata dal potere giudiziario. E il Tribunale supremo l’altro ieri ha colto al balzo l’occasione per schiaffeggiare il premier socialista e ricordargli che se vuol governare col bastone deve comunque trovare «strumenti costituzionalmente consoni alla possibilità di limitare, centellinare, restringere o addirittura sospendere i diritti fondamentali dei cittadini». I giudici hanno avallato nei mesi scorsi, senza eccepire un bel nulla, altre pesanti restrizioni alla libertà di movimento decise dal governo locale di Madrid in mano alla stella del Partito popolare Isabel Diaz Ayuso. Abbondano quindi i sospetti pesanti di doppiopesismo. Ma i popolari negano di godere di protezione politica nella loro legittima guerra al governo socialista. Dicono che il decreto del ministero della salute aveva effetti su una zona geograficamente più ampia di quelle interessate dai loro provvedimenti locali e che quindi serviva una legge del Parlamento per imporre il lockdown, non poteva bastare un decreto ministeriale. La destra classica sta tutta dalla parte delle rivendicazioni di libertà sbandierate dal Tribunale supremo.  Il quotidiano Abc, giornale conservatore e filomonarchico, così esultava ieri per la sentenza del Supremo: «In tempi così duri per la democrazia e le libertà, la sentenza è un argomento in mano alla speranza». «Di traverso dev’essere andata al presidente del governo la decisione del tribunale supremo di affondare la manovra per mantenere chiusa Madrid per due settimane. La sua reazione adirata, la decisione di convocare una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri senza dar ascolto ai giudici e con l’obiettivo di imporre lo stato d’allarme a Madrid esclusivamente, senza nessun dialogo e senza nemmeno che la comunità autonoma l’abbia sollecitato, dimostra il livello d’autoritarismo col quale quest’uomo intende muoversi». Dopo l’imposizione governativa di un nuovo stato d’allarme limitato a Madrid e a otto distretti in vigore già dal pomeriggio di ieri (c’è un lungo ponte a cavallo del 12 ottobre e gli spostamenti sarebbero stati massicci), decisione che ricaccia all’angolo il Tribunale supremo, i toni ieri erano da scontro totale. Anche perché il protagonismo politico della Suprema corte s’è scatenato ben oltre il terreno della gestione dell’emergenza da pandemia. A fine settembre ha cacciato d’imperio il presidente del governo catalano, Quin Torra.  Torra, separatista arrivato al governo per caso nel grande can can del tira e molla sulla secessione di Barcellona da da Madri (ma pur sempre presidente eletto), è stato cacciato dal governo per disobbedienza. Ha disobbedito infatti all’ordine di far rimuovere dai palazzi delle istituzioni catalane i fiocchi gialli simbolo di solidarietà con i leader separatisti catalani arrestati per essere insorti come capipopolo a guidare il tentativo di strappo di Barcellona da Madrid. Strappo avvenuto tutto contro la legge, utilizzando illegittimamente da un punto di visto giuridico lo strumento del referendum, dentro una battaglia dai toni isterici combattuta con scaltrezza e con alte dosi di opportunismo e di irresponsabilità. Ma pur sempre una battaglia politica. L’inabilitazione a causa del gesto disobbediente era stata decisa dal massimo organo di giustizia della Catalogna. Torra era ricorso al Tribunale supremo che ha ratificato la decisione di farlo fuori. Comunque la si pensi riguardo alla eterna guerra tra Barcellona e Madrid e ai mezzi usati negli ultimi anni dai leader indipendentisti catalani per combatterla, difficile negare che il potere giudiziario e in particolare il Tribunale supremo si ritagli spazi di protagonismo politico assoluto e prenda decisioni che assai poco hanno di tecnico. In questo caso è stato il Tribunale supremo, cacciando Torra, a far indire le elezioni catalane del prossimo febbraio. Alle quali si arriverà in un tale terremoto di alleanze che la ricaduta di quella sentenza sulla politica nazionale sarà, comunque vada, gigantesca. Anche perché la crisi catalana è un grande blob in grado di divorare ogni ragionevolezza e ogni confronto possibile sui programmi. Il suo effetto politico concreto, finora, non è stato riuscire cavare un solo ragno dal buco nella spinosissima vicenda delle relazioni tra Barcellona e Madrid. ma mettere le ali in tutta la Spagna alla destra feroce e razzista di Santiago Abascal.

Spagna, il doppiopesismo tra islam e Chiesa. Inside Over il 18 maggio 2020. L’opportunità di permettere nell’era del coronavirus le celebrazioni delle messe ha infiammato il dibattito anche nella (ex) cattolicissima Spagna. Il governo socialista guidato da Pedro Sanchez ha emanato un decreto nel quale proibiva categoricamente le funzioni religiose allo scopo di evitare la diffusione del virus Covid19. Tale divieto però è stato fatto rispettare rigorosamente per i fedeli cristiani che si sono visti multare o cacciare dai luoghi di preghiera, mentre per i mussulmani si è deciso di chiudere un occhio temendo problemi all’ordine pubblico.

Funzioni cattoliche interrotte e fedeli sanzionati. Durante i mesi della quarantena forzata nel Paese iberico, diverse incursioni delle forze dell’ordine si sono svolte all’interno delle chiese per identificare e multare i sacerdoti che stavano celebrando messa e sgomberare i pochi fedeli che si trovavano in quel momento a fare una preghiera. Nella chiesa di San Fernando Henares a Madrid, i poliziotti hanno interrotto una messa con soli cinque fedeli, la polizia nazionale ha evacuato anche la maestosa cattedrale di Granada dove erano presenti solo venti persone. In Catalogna, un prete e sei fedeli (di cui due stavano entrando) sono stati denunciati e sanzionati per trovarsi all’interno del luogo di culto. Perfino una messa che stava venendo celebrata da un solo sacerdote sul tetto di un edificio di Siviglia è stata bloccata invocando la rigidità delle direttive del governo centrale spagnolo. L’ultimo eclatante caso è avvenuto a Valencia dove nonostante la tradizionale celebrazione della “Nuestra Señora de los Desamparados” si sia svolta a porte chiuse, la polizia ha deciso di sanzionare l’arcivescovo poiché per un breve lasso di tempo, il curato ha rivolto la statua della Vergine Maria verso la piazza antistante dove erano presenti casualmente poche decine di persone e tutte a distanza di sicurezza.

Due pesi e due misure. Con l’applicazione così rigida delle misure di contenimento del virus, molti spagnoli avevano pensato che queste regole dovessero essere valide per tutti e nessuno potesse celebrare le funzioni religiose. Ma non era così.  Secondo una circolare del ministero dell’Interno spagnolo emanata per regolamentare il comportamento della polizia durante il periodo di preghiera dei musulmani per il Ramadan, si avvisava che, di fronte a un raduno pubblico di un numero indeterminato di persone, dopo aver intimato la conclusione della celebrazione, qualora questa non dovesse terminare, bisogna valutare la continuazione della stessa al fine di evitare problemi di ordine pubblico. Proprio questo doppiopesismo è stato reso evidente in un video che ha fatto il giro della rete, in cui si confrontano i due comportamenti opposti della polizia nei confronti di due religiosi di fede diversa. Da una parte, a un sacerdote cattolico che celebrava messa è stato impedito di continuare, dall’altra un imam veniva lasciato indisturbato in strada a chiamare con un megafono i fedeli alla preghiera per il Ramadan.

Le proteste della comunità cattolica. Per voce di monsignor Luis Argüello, segretario generale della Conferenza episcopale spagnola, “alcune azioni della polizia all’interno dei luoghi di culto sono state esagerate”. Ora i vescovi spagnoli chiedono maggiore chiarezza al governo sulla possibilità di tornare a celebrare le funzioni senza essere interrotte dalle forze dell’ordine. Più dura la Conferenza episcopale europea (Comece) che denuncia come le misure prese da alcuni Stati europei, inclusa la Spagna, violino il diritto fondamentale di libertà religiosa e vadano contro il diritto di esercitare la propria fede anche in luoghi pubblici. Il partito conservatore Vox ha denunciato il decreto d’emergenza del governo spagnolo alla Corte Costituzionale in quanto violerebbe le libertà fondamentali degli individui. Al momento il governo Sanchez non sembra fare marcia indietro e l’attacco alla Chiesa spagnola potrebbe essere solo all’inizio.

Alessandro Oppes per “la Repubblica” il 7 aprile 2020. Perché la Spagna? La domanda incombe sullo sfondo di un'emergenza che ancora non arretra, tanto più ora che il Paese ha superato stabilmente l'Italia nella classifica dei contagi: più di 130mila, secondi al mondo solo dietro gli Stati Uniti. Una risposta univoca non c'è, forse non ci sarà mai, però diversi elementi aiutano a capire come questo Paese possa essere diventato uno dei terreni più fertili per la diffusione del coronavirus a livello planetario. Intanto la reazione tardiva delle autorità. Caso tutt'altro che unico, è vero. Ma qui è mancata proprio la percezione del pericolo quando il virus ha cominciato a circolare, senza essere rilevato. Un po' di date, per capire meglio. Il primo caso confermato si identificò a La Gomera, il 31 gennaio: un turista tedesco che aveva avuto contatti con un paziente infettato nel suo Paese. Ma non scatta nessun allarme, tanto più che La Gomera è una piccola isola delle Canarie, molto più vicina all'Africa che non alla penisola iberica. Comincia la contabilità dei casi ma sfugge ai radar la prima vittima. È una donna di 83 anni morta il 13 febbraio all'Hospital Arnau de Vilanova, a Lleida, per una forma grave di polmonite. Solo un mese più tardi si verrà a sapere che aveva contratto il virus. L'epidemia intanto avanza, ma le autorità sanitarie continuano a parlare di "rischio basso". All'inizio di marzo, il primo intervento del presidente del governo Pedro Sánchez, ancora estremamente cauto: un appello al "senso di responsabilità" dei cittadini, il divieto di assembramento per "più di mille persone" - quasi fosse una misura capace di evitare conseguenze catastrofiche - e poi il blocco di tutti i voli in entrata dall'Italia. L'8 marzo erano in programma le manifestazioni per la giornata della donna e nessuno ha fatto niente per fermarle: 100mila in piazza a Madrid, decine di migliaia in tutte le grandi città. Lo stesso giorno l'ultradestra di Vox ha riunito i suoi seguaci nella capitale, al palazzo dello sport di Vistalegre: un pienone da 9000 posti. Una settimana dopo hanno dovuto chiedere scusa, quando il leader del partito Santiago Abascal e il suo braccio destro Javier Ortega Smith sono risultati positivi al coronavirus. E il contagio ha colpito anche la prima fila della manifestazione di massa dell'8 marzo: la vicepremier Carmen Calvo, due ministre, la moglie del capo del governo, Begoña Gómez. E chissà quanti altri tra la folla. Il danno è fatto. Il governo interviene il 14 marzo, quando vede che nei due giorni precedenti i casi sono passati da poco più di 3000 a 5200. Arriva la dichiarazione del estado de alarma, una misura straordinaria prevista dalla Costituzione proprio per affrontare catastrofi naturali ed epidemie: con i poteri eccezionali attribuiti all'esecutivo, Sánchez ferma il Paese. Proprio sul modello di quanto già avveniva da settimane in Italia. Avverte che ci vorrà tempo per vedere i frutti del "lockdown", e lancia una facile previsione: "Il peggio deve ancora venire". Quello che forse neppure il premier si aspettava era l'altissimo tasso di mortalità, simile a quello che si è registrato in Italia. E di sicuro non è un caso. Le coincidenze tra i due Paesi sono evidenti. Una riguarda il dramma delle case di riposo. In Spagna ce ne sono 5400 che ospitano oltre 380mila anziani. Almeno 3600 i morti, quasi 7000 i contagiati, cifre probabilmente approssimate per difetto (sono quelle fornite dalle regioni al governo centrale). Emergono cos¡ le carenze spaventose di queste strutture, le condizioni igieniche precarie, la scarsa preparazione del personale, la mancanza di materiale di protezione. Scattano decine di inchieste della magistratura, ma il panorama è già devastante. Altro elemento comune è l'altissimo numero di contagi tra il personale sanitario, ancor più grave nel caso spagnolo con quasi 20mila tra medici e infermieri che hanno contratto il virus. Inevitabili e devastanti le conseguenze sulla trasmissione della malattia proprio in quelle strutture le garanzie ideali per la cura. Di fronte a una pandemia, nessun sistema sanitario è preparato, ma quello spagnolo paga i pesanti tagli di spesa imposti nell'ultimo decennio dai governi di centro-destra del Partito Popolare. E dalle amministrazioni regionali, in particolare da quella di Madrid, epicentro dell'emergenza coronavirus in Spagna, dove il Pp governa da un quarto di secolo con una politica che ha puntato sempre di più sulla privatizzazione della sanità. La carenza di reparti di terapia intensiva si è fatta sentire in tutto il Paese nei giorni più duri della crisi, ma la risposta del sistema è stata rapida: a Madrid si è passati in poco tempo da 600 a 1750 posti letto, a Barcellona da 600 a 1722. Restano tuttavia almeno sette regioni al limite del collasso. I piccoli segnali di rallentamento nella diffusione del contagio registrati negli ultimi giorni permettono comunque al governo di abbozzare una "fase due" i cui tempi sono ancora da definire. Non si parla per il momento di riaperture (lo stato d'emergenza sarà prorogato fino a maggio), ma il governo Sánchez ha già definito una linea per il contenimento del contagio: test di massa (il Ministero della Sanità ne distribuirà un milione alle regioni) a cui sottoporre tutti i lavoratori dei settori essenziali, per individuare i portatori asintomatici del virus. L'idea, poi, è quella di allestire per tutti loro centri per la quarantena seguendo in parte il modello già adottato in Cina.

 “Io italiana a Madrid. Dove in un giorno si è passati dalle piazze piene al caos". I festeggiamenti dell'otto marzo nonostante il coronavirus fosse già un'emergenza in Italia, la campagna che ha fatto credere fosse solo un'influenza. Fino al brusco risveglio e al panico nel personale sanitario. Il messaggio di una lettrice dalla Spagna. Chiara Frattini il 31 marzo 2020 su L'Espresso. Cara Italia, Mi chiamo Chiara Frattini, ho quarantun'anni e vivo a Madrid, in Spagna, da oramai cinque anni. Come sai, la Spagna é oramai il secondo paese in Europa per numero di morti registrati per coronavirus. Eppure, fino a poche settimane fa, il COVID-19 sembrava uno spettro che avrebbe colpito e ferito cosí intensamente solo gli altri, mentre qui avrebbe causato qualche morte sporadica. Qualcosa di più era impensabile per la popolazione spagnola, che era stata tranquillizzata a livelli impensabili da una campagna che mirava a minimizzare il più possibile i pericoli derivanti dal coronavirus e a far credere a tutti che si trattasse solo di una brutta influenza. E la domanda ricorrente che veniva rivolta a noi italiani era “Pero qué pasa e Italia???” cosa succede in Italia?? E noi, allibiti, allarmati e già feriti dai numeri galoppanti di connazionali morti, tristi per la lontananza dai cari e la preoccupazione, ci impegnavamo a mantenere la calma e rispondere che il COVID-19 non è una brutta influenza, ma un virus spietato che uccide, e uccide persone di tutte le età, prevalentemente persone sopra i sessant'anni ma anche persone giovani e sane. E si diffonde a macchia d'olio, collassa i sistema di salute, porta allo stremo il personale sanitario, provoca perdite economiche e crea uno scenario apocalittico. E la campagna sulla “brutta influenza” continuò, sebbene a fine febbraio la situazione fosse già fuori controllo in alcune zone della penisola, incluso un paese proprio alle porte di Madrid, Torrejón de Ardoz. Però purtroppo il governo aveva una sua meta, a cui non ha saputo rinunciare neppure di fronte alla minaccia. L'uguaglianza di genere è un tema molto caldo in Spagna come in molti altri paesi, e il governo Sanchez ne ha fatto un suo cavallo di battaglia. Come non condividerlo? Del resto, se ne avessi avuto diritto, questo governo lo avrei votato pure io. Io che appoggio fortemente la causa, quotidianamente. E si sarebbe potuto celebrare dai balconi quell'otto marzo, con un atto simbolico che avrebbe avuto lo stesso valore delle piazze piene, anzi forse sarebbe stato più forte in un momento come questo. E invece, si scelsero le piazze piene, mettendo la politica al di sopra del diritto alla salute e alla vita dei cittadini. Contrariamente alle raccomandazioni del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) , eventi sportivi e spettacoli hanno continuato ad avere luogo ed i cittadini sono stati invitati a partecipare in massa alle manifestazioni dell'otto marzo, che si sono tenute in circa 400 località su tutto il territorio nazionale. E intanto il COVID-19 avanzava silente … anche se un po' di paura c'era: le ultime volte che sono salita su un taxi, al rendersi conto che ero italiana i taxisti abbassavano il finestrino e assumevano una certa rigidità. Però' era troppo poca la paura, e non sufficiente per dissuadere migliaia di persone dal partecipare alle manifestazioni. A Madrid hanno partecipato circa 120.000 persone, unite per ore da una causa più che legittima, nobile. Si sono abbracciate, baciate, strette, tenute per mano per ore ed ore. All'improvviso, il nove marzo, l'allarme. Il coronavirus è fra noi, e non è una brutta influenza, sta uccidendo e inizia a riempire le UCI (Unidades de Cuidados Intensivos). Ma la popolazione ci aveva creduto alla storia dell'influenza e come sappiamo, la Spagna del calore umano, dei bar, della movida non è un paese in cui il social distancing sia facilmente accettabile. Ci si bacia, ci si abbraccia, ci si tocca. Però, “finalmente”, il 14 marzo scatta a Madrid el estado de alarma, e ci chiudiamo tutti in casa. E inizia il caos. Gli ospedali sono pieni, i medici e tutto il personale sanitario è sprovvisto di protezioni adeguate, lavora 24 ore al giorno, molti di loro sono costretti a  fabbricarsi grembiuli con i sacchettoni neri della spazzatura e schermi per la faccia con plastiche riciclate dalle cartellette porta documenti. E l'Italia si avvicina, e le bandiere italiane e spagnole si mettono una accanto all'altra con il messaggio “todo irà bien” , vicino ad un arcobaleno… ed io, come molti altri rimaniamo con l'amaro in bocca pensando che questa situazione si sarebbe potuta anticipare, arginare, o almeno avrebbero potuto provarci. Se avessero voluto. E cosi come ogni sera dal 14 marzo mi affaccio al balcone ad applaudire insieme a tutti i vicini, a tutta la città, a tutta la Spagna, il personale sanitario e tutti quelli che stanno facendo uno sforzo sovraumano per tutti i noi. Ed il mio applauso va anche a voi medici e infermieri italiani e a tutto il personale sanitario in Italia e a te, Italia. Mi manchi.

Costantino Pistilli per tpi.it il 31 marzo 2020. In Spagna il Coronavirus sta infettando anche cervello e cuore oltre ai polmoni. Pochi giorni fa la notizia che a Línea de La Concepción, Spagna del sud, un convoglio di ambulanze che trasportavano 28 anziani affetti da Covid-19 è stato preso a sassate da un gruppo di residenti contrari allo spostamento dei poveri vecchietti in una casa di cura della città. Anche i poliziotti che scortavano il gruppo di anziani sono stati oggetto del lancio di pietre e di un bengala, oltre a ricevere minacce e insulti che varie persone urlavano in strada, dalle terrazze e dai balconi mentre un’automobile era stata parcheggiata in mezzo alla strada per bloccare il convoglio. Durante la notte le proteste e gli atti vandalici non sono cessati: sono stati bruciati anche dei cassonetti dell’immondizia e polizia ha dovuto fronteggiare un gruppo di circa 50 persone deciso a continuare le proteste fuori la casa di cura dove erano stati fortunatamente ospedalizzati gli anziani malati di Covid-19. Scene di guerra. Il nemico? Un esercito formato da meno di trenta vecchietti, malati, a bordo di ambulanze, trasferiti dalla casa di cura della città di Alcalá del Valle, un piccolo comune ma con molti contagiati. Proprio nella casa di cura dove risiedevano questi anziani c’erano stati già tre morti, oltre all’aumento degli infettati anche tra il personale sanitario: il rischio di creare un focolaio era imminente. A causa di questa situazione e per la mancanza di mezzi per affrontare il problema, gli anziani della casa di cura comunale sono stati trasferiti in un alloggio di un altro centro con caratteristiche simili situato a pochi chilometri di distanza: La Línea de la Concepción. Dove avrebbero dovuto lasciare ogni speranza una volta entrati. Infatti, quando la notizia ha raggiunto parte della popolazione sono stati diffusi messaggi di disapprovazione attraverso alcuni social network e i “bravi” si sono dati appuntamento in strada per impedire il trasferimento dei poveri vecchietti accolti nella nuova casa di cura dove resteranno in quarantena insieme al personale ospedaliero, proprio per evitare il contagio. Due persone che facevano parte del branco de los valientes sono stati arrestati. Il sindaco e molte persone della città hanno invece espresso solidarietà, accoglienza, sostegno e applausi ai 28 abuelitos e condannato l’iniziativa di chi la vita non la rispetta ma la prende a pietrate.

Roberto Pellegrino per “il Giornale” il 26 marzo 2020. Autorizzare la manifestazione dell' 8 marzo, per celebrare la festa delle donne, nelle principali città spagnole, nonostante i dati sul Covid-19 e i primi morti erano già disponibili e preoccupanti, potrebbe essere ora configurato come reato di omicidio colposo da parte del Governo del socialista Pedro Sánchez in tandem con Pablo Iglesias. Un tribunale di Madrid ha deciso di aprire un' indagine criminale contro il delegato dell' esecutivo nella Comunità di Madrid, José Manuel Franco Pardo, per verificare se è stato commesso un delitto quando si è permesso a migliaia di persone di assembrarsi e marciare tutti assieme, sottoponendosi al rischio di contagio e di morte. Infatti, quando il bollettino della Protezione civile italiana del 7 marzo registrava 5800 contagi, le autorità iberiche dicevano sì alle manifestazioni femministe a Madrid, Barcellona, Bilbao, Siviglia, Salamanca e altre città. E, anche senza i numeri record del 2019, con mezzo milione di persone nelle due capitali di Spagna e Catalogna, lo scorso 8 marzo, a Madrid, in 220 mila, nel pieno dell' emergenza coronavirus, si sono trovati gomito a gomito per mezza giornata. Una covata malefica e facile per il virus. Una pura follia, sapendo che in quei giorni il Covid-19 serpeggiava in terra iberica e aveva già ucciso dieci persone e contagiate 400. Il ministero della Salute spagnolo, davanti alla decisione a manifestare, si limitava a ordinare al personale sanitario delle comunità coinvolte a non prestare assistenza ai manifestanti con i sintomi influenzali. Nessun' altra misura precauzionale era stata disposta. Un po' come dire, in modo empirico: non sappiamo nulla del virus, magari non è contagioso. Cinque giorni dopo la Spagna registrò 8 mila contagi in più e un totale di 24 decessi. L' indagine è partita dalla denuncia di un cittadino privato contro il premier Sánchez e tutti i delegati del suo esecutivo. La denuncia recita che «nonostante i dati disponibili nei primi giorni di marzo 2020 e, in particolare, nonostante la relazione del Centro Europeo per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie del 2 marzo sul coronavirus, gli assembramenti di massa a Madrid il 7 e 8 marzo non sono stati vietati o limitati dall' autorità competente», che è il delegato Franco Pardo, che precederà, in un eventuale processo, il presidente del Consiglio. A un eventuale reato di omicidio colposo, il giudice, secondo quanto informa il canale pubblico spagnolo TVE, potrebbe aggiungere «il crimine di lesioni da negligenza professionale», iscrivendo nel registro degli indagati il barcellonese, Salvador Illa Roca, ministro della Sanità e membro del Partito Socialista Catalano (Psc). Ora il giudice dovrà accertare se «le manifestazioni che si sono svolte a Madrid tra il 5 e il 14 marzo avrebbero potuto causare un rischio evidente per la vita e l' integrità fisica delle persone». Con 738 morti nelle ultime 24 ore (3.434 in totale), la Spagna è il secondo paese al mondo con più vittime dopo l' Italia, ma il primo per decessi al giorno. I contagi ammontano a 47.610, con una crescita del 20%.

Juan Luis Cebrian per “la Stampa” il 25 marzo 2020. All' inizio non ci credevano. L' Oms aveva avvertito che si trattava di una potenziale pandemia, in Cina, in Corea e in altre parti dell'Asia, la gente era confinata nelle proprie case, eppure gli spagnoli pensavano che si trattava di un affare di una civiltà lontana, con abitanti che mangiavano cose strane. A chi è capitato di nutrirsi con un pipistrello? La cosa cominciava a preoccupare un po' di più con le notizie che arrivano dall' Italia, però sicuramente laggiù avevano commesso qualche errore, le cose potevano essere così eccessive. Ogni mattina, negli schermi televisivi appariva il responsabile scientifico del governo, esperto in epidemie, secondo il quale non bisognava allarmarsi più di tanto. I sintomi erano simili a quelli dell' influenza e non erano previsti molti casi di contagio. Tanto meno si intravedeva un rischio per la popolazione. Il governo spiegava che la Spagna «ha uno dei migliori sistemi sanitari del mondo» (sic). Nessun panico insomma. Era importante, questo sì, lavarsi bene le mani. Si annullano alcuni eventi, e c' è qualcuno che cancella i viaggi previsti. Ma la vita normale va avanti. Valencia si prepara per la festa delle Fallas. Il 6 marzo prendo parte, a Madrid, a una cena con centinaia di commensali, fra i quali un nutrito gruppo di politici di destra. Alcuni, fra le risate, si salutano toccandosi i gomiti. Altri si scambiano abbracci e altri ancora baciano con trasporto alcune deputate. I commenti sono tutti dedicati alla manifestazione per l' uguaglianza di genere convocata per l' 8 marzo. Il governo femminista di Pedro Sánchez e i partiti di sinistra che lo sostengono hanno pianificato una prova di forza nelle piazze. È prudente organizzare manifestazioni così davanti alla minaccia dell' epidemia? Si può andare al corteo senza rischi di contagio?

Il portavoce scientifico ufficiale torna a calmare le coscienze: ognuno, a partire da suo figlio, faccia ciò che crede opportuno. Quella domenica centinaia di migliaia di spagnole (e di spagnoli), con in testa il governo praticamente al completo, riempiono le strade. Lo stesso giorno l' Italia mette in quarantena la Lombardia e altre province adiacenti. Sedici milioni di persone bloccate. Cavolo, si dicono gli spagnoli, come si mettono male le cose laggiù. Nella conferenza stampa del 9 marzo, il solito sorriso del portavoce comincia a cambiare. Sono stati trovati già 1200 positivi al coronavirus in Spagna e ci sono 28 morti. La Comunità di Madrid decide di chiudere le scuole. I giornalisti chiedono: perché, in una situazione del genere, sono state consentite le manifestazioni del giorno prima?

La risposta del ministro della Sanità è esplicita: i dati sono arrivati la domenica pomeriggio, dopo le manifestazioni. L' ombra delle menzogne comincia ad aleggiare. A partire da lì inizia a serpeggiare un panico moderato, mai fuori controllo. Si decide che Atalanta-Valencia sarà giocata a porte chiuse. Ma centinaia, forse migliaia, di tifosi della squadra spagnola si presentano sotto lo stadio. Alcuni credono che in quella concentrazione si possa trovare uno degli epicentri della diffusione dell' epidemia. In ogni caso, il Re e la Regina vanno a Parigi per pranzare con Macron e per assistere a un evento in memoria delle vittime del terrorismo con più di mille persone. Salutano sorridenti il presidente francese e sua moglie senza darsi la mano, una mossa di gomiti e spalle che oggi appare più un gioco divertente che una seria prevenzione clinica. Da qui in poi comincia una corsa per contrastare il virus, anche se il governo continua a tentennare. I supermercati vengono presi d' assalto. Sánchez annuncia lo stato di allarme, però tarda 24 ore a dichiararlo. Non ci saranno le Fallas, niente Settimana santa, né la Feria de Abril di Siviglia. Grande preoccupazione per i danni all' economia. I cadaveri, però, non meritano ancora troppi commenti.

L' influenza causa più morti. Sorgono poi differenze all' interno del governo, tra i ministri socialisti e quelli di Podemos. Nel frattempo i leader indipendentisti protestano, affermando che il governo toglie competenze approfittando del coronavirus. Per due giorni i politici sembrano più impegnati a discutere dei fatti loro piuttosto che proteggere i cittadini. Comincia finalmente la quarantena e la risposta delle persone è, nella grande maggioranza dei casi, esemplare. Davanti allo sconcerto del potere, la paura e la riflessione, entrambe le cose al tempo stesso, si trasformano in virtù civiche. L' immensa maggioranza dei cittadini resta in casa, un esempio di solidarietà con gli anziani, i più deboli. Gli ospedali iniziano a riempirsi, l' esercito costruisce strutture d' urgenza, il personale sanitario fa fronte alle emergenze e chiede protezioni. Gli spagnoli imparano dalla solitudine e dalla sofferenza italiana. Sanno ormai che tutto questo durerà molto. E cominciano a preoccuparsi del fatto che in Francia, Inghilterra e Stati Uniti si commettano gli stessi errori. L' esperienza degli altri sembra non servire a nulla. Questo virus assassino è servito per mettere alla prova la nostra civiltà. In Spagna il popolo, nel suo insieme, ha reagito con moderazione e disciplina. Pero si è diffusa l' idea che il sistema non funzioni, né qui, né all' estero. Mancano coordinamento, criteri e misure comuni per i Paesi europei, mentre si alzano i confini e si espelle lo straniero. L' Onu e la Banca Mondiale avevano avvisato che una catastrofe così era una minaccia concreta. L' Europa del benessere ha fatto finta di nulla e ora non ha abbastanza letti negli ospedali, medici, respiratori e ricercatori. Non c' è nemmeno una leadership capace di radunare attorno a sé le forze necessarie, né per immaginarsi il dopo. Davanti all' efficienza asiatica, l' efficacia delle democrazie è in questione. Pagheremo un prezzo alto per la nostra arroganza e la nostra improvvisazione. Anche per l' avarizia dei mercati. Arrivano tempi bui per la libertà.

In Spagna quasi 3mila vittime: anziani lasciati tra i cadaveri. La terribile scoperta è stata compiuta dai militari impegnati a disinfettare alcune case di riposo. In Spagna è sempre più grave la situazione sanitaria. Gabriele Laganà, Mercoledì 25/03/2020 su Il Giornale. La Spagna è uno dei Paesi al mondo più colpiti dal coronavirus. L’epidemia si sta estendo in maniera più rapida e ampia di quanto non sia accaduto in Italia, toccando anche aree che fino a pochi giorni fa non avevano registrato casi di contagio. L’ultimo bilancio aggiornato a ieri sera è di 40mila persone colpite dall’infezione, di cui 6.584 nelle ultime 24 ore, mentre nello stesso arco di tempo si sono registrate altre 514 vittime. Il totale di chi ha perso la vita a causa del coronavirus è di quasi 2.700 persone. Ma vi è anche un altro numero che non lascia tranquilli. Ad oggi sono 5.400 gli operatori sanitari contagiati, il 13,6% dei casi totali. Il sistema ospedaliero spagnolo, a causa dell’altissimo numero di pazienti ricoverati, è in enorme difficoltà. Allo stesso modo, anche le pompe funebri sono vicine al collasso, soprattutto a Madrid. Nella capitale, si è ovviata all’impossibilità di rispettare le scadenze legali per seppellire i defunti con l’allestimento di un obitorio provvisorio in una pista olimpica di pattinaggio di 1.800 metri quadrati. Le imprese dispongono di pochi dispositivi di protezione, strumenti indispensabili per garantire che anche i funerali non diventino nuove fonti di infezione. Sempre a Madrid due hotel sono stati trasformati in ospedali ma, in considerazione di un aumento dei casi, si sta pianificando di trasformare altre cinque strutture ricettive in nosocomi. L'associazione alberghiera locale ha messo a disposizione 40 hotel per sostenere gli operatori sanitari. Un ospedale da campo è stato, inoltre, allestito alla fiera Ifema, che di recente ha ospitato la conferenza sul clima delle Nazioni unite Cop25. Come se non bastasse, i militari spagnoli impegnati a disinfettare alcune case di riposo si sono ritrovati dinnanzi a scene a dir poco terrificanti. I soldati hanno rinvenuto gli ospiti delle strutture che vivevano abbandonati a loro stessi, tra i cadaveri di persone probabilmente decedute per il coronavirus e lasciate nei propri letti. La notizia è stata resa pubblica dal ministro della Difesa, Margarita Robles, che però non ha fornito indicazioni in merito alle località dove sono stati scoperti i cadaveri. In una intervista a Telecinco, il ministro ha dichiarato che il governo sarà "inflessibile nel controllare come vengono accuditi gli anziani" nelle case di riposo. La procura ha immediatamente aperto un'inchiesta per far luce su questa drammatica vicenda. Il peggio per la Spagna ancora deve arrivare. "Questa è la settimana difficile", ha dichiarato il capo del centro emergenza sanitaria, Fernando Simon.

Coronavirus, la Spagna al collasso: oltre 2.100 morti. Ricoverata la vicepremier. Libero Quotidiano il 23 marzo 2020. Il coronavirus si sta dilagando anche in Spagna a ritmi impressionanti. Qui i casi accertati di Covid-19 sono almeno 33.089 in totale, dei quali 2.355 in terapia intensiva. Numeri elevati anche quelli dei decessi che hanno raggiunto i 2.182, con un incremento di 462 vittime nelle ultime 24 ore. Queste le cifre diffuse dal ministero della Salute e rilanciate da El Pais. Una situazione drammatica che anche per gli ospedali. A Madrid, come racconta un video che circola in Rete da ore, i malati vengono sistemati per terra in mancanza di altro posto. Intanto la pandemia preoccupa anche i vertici della politica spagnola. Si teme infatti per le condizioni di salute della vicepremier Carmen Calvo. La donna è stata ricoverata per un'infezione respiratoria nella Clinica Ruber a Madrid, nell'attesa dei risultati delle analisi per verificare un eventuale contagio da coronavirus.

Da "Ansa" il 16 marzo 2020. Mille nuovi casi di coronavirus sono stati registrati in Spagna in 24 ore, portando il totale a 8.744. Lo riporta El Pais. Aumentano anche le vittime, 297. L'area più colpita è quella di Madrid con 4.675 casi di Covid-19. L'esercito ha iniziato a pattugliare le strade di Madrid e di altre città spagnole nei luoghi dove si possono creare assembramenti come le stazioni di treni e autobus. Lo scrive El Pais online precisando che la prima a scendere in campo è stata l'Unità militare per le emergenze che è in grado anche di fare la sanificazione dei luoghi se necessario. La polizia spagnola ha iniziato a utilizzare i droni per il controllo delle restrizioni ai movimenti nell'ambito del contrasto al coronavirus. Lo scrive la Bbc online. Da ieri il governo ha varato regole stringenti che chiedono ai 47 milioni di spagnoli di restare in casa con l'esclusione degli spostamenti urgenti. Come l'Italia anche la Spagna ieri si è unita in un gigantesco applauso ai medici e agli infermieri che in questi giorni stanno combattendo contro il coronavirus. In tutto il Paese, alle 22, gli spagnoli si sono affacciati a finestre e balconi per ringraziare il personale degli ospedali. L'applauso è stato poi esteso anche a chi lavora nei supermercati e nel settore dei trasporti. I video sono stati pubblicati su Twitter e altri social media con l'hashtag #Aplausosanitario.

Viaggio nell'inferno di Madrid. "Sono più i morti che i salvati". La Spagna in prima linea, le testimonianze shock: "Una signora voleva pagarmi per vedere il corpo del marito". Roberto Pellegrino, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. Se l'inferno avesse un luogo terreno visitabile, allora si dividerebbe tra i quattro principali ospedali della capitale di Spagna, dove da dieci giorni, il maledetto Covid-19 produce vittime come un lazzaretto pestifero. Nelle ultime ore i ricoveri sono il 41 per cento in più, i morti il 22, uno ogni 11 minuti, il 60 per cento a Madrid. Mentre entro nel primo nosocomio, sconfitto dall'esplosione dei contagi, il governo annuncia di avere comprato 700 respiratori e quasi mezzo milione di tamponi. In terapia intensiva ci sono 2.125 pazienti. Un terzo di loro non sopravviverà. 15.05: Ospedale Universitario Puerta de Hierro, zona nord-ovest. Hanno precettato gli studenti di Medicina cui manca la tesi. Se sai auscultare i polmoni, sei abile e arruolato. Sulla porta incontro Luciano P., 45 anni, nonno marchigiano, ha gli occhi rossi e umidi, una sigaretta fai da te. Tre ore fa ha portato la moglie Cristina. «Non respirava più. Era da tre giorni con la febbre. Non mi dicono ancora l'esito del tampone». Ai parenti dei ricoverati, gli infermieri chiedono di tornare a casa e aspettare. «Non voglio rivedere quel che resta di lei in un sacchetto di cenere». La covata malefica del virus ha fatto a pezzi il sistema sanitario della Comunità più popolosa e ricca di Spagna, ha scritto storie strazianti. I parenti allontanati dal pronto soccorso dalle guardie. Entro in punta di piedi, è affollato di veri o falsi contagiati, seduti per terra, su lettini, ciondolanti, attendono il triage. Attraverso quel campo minato dal virus tra inquietanti colpi di tosse. «Li stiamo dividendo in base ai sintomi», dice Begonia, infermiera. «I medici decidono chi mandare su in terapia intensiva. Sono già cinquanta, con soltanto quaranta respiratori. Ciò che fa più male è che moriranno soli».

15.45: l'Ospedale la Paz è vicino al centro. I militari dell'Unità d'emergenza spruzzano etanolo all'ingresso. Medici e infermieri hanno turni infiniti. «Muoiono più di quelli che riusciamo a salvare, ci scaricano gli anziani delle case di riposo, dove il virus ha fatto una carneficina, erano i primi da proteggere. Ora sono pronti per il crematorio», mi dice Antonio, laureato a luglio. Una signora urla «Ramon!Ramon!», si butta per terra, due infermiere l'abbracciano. Il marito, 65 anni, non ce l'ha fatta. Non può vederlo. Regole rigide. Abbraccerà la busta con le sue ceneri. «Scrivetelo mi dice Adriana, laureanda non abbiamo più guanti e mascherine, stiamo finendo le soluzioni per nutrirli, hanno gole devastate dal virus». Ci sono 120 ricoverati, 30 in terapia intensiva. «Dieci di loro sono spacciati». Impotenza e stanchezza riempiono ogni gesto del personale medico. Molti madrileni portano tegami con cibo caldo. «È un modo per dirci grazie».

16.25: l'Ospedale Ramón y Cajal, dista soltanto 800 metri. Con Àlvaro, paramedico, scendo tre piani e siamo alle trenta celle frigorifere. I posti sono esauriti, altri quindici cadaveri restano fuori. «Una signora voleva darmi 500 euro per vedere il corpo del marito».

17.25: Ospedale Gregorio Marañón. La sala d'aspetto è affollatissima, ma ci si siede a distanza di una sedia. Tutti senza un'identità per la mascherina. Si attende l'esito del tampone. «Abbiamo chiesto con Twitter aiuto per flebo e mascherine». La situazione è grottesca. Montagne di scatole di medicinali sono ferme da una settimana in dogana. Non si trovano agenti per i controlli. «Abbiamo 30 morti nei frigoriferi, a mezzanotte raddoppieranno».

Non sapeva di avere anche la leucemia. Coronavirus, muore 21enne: è la più giovane vittima in Europa di Covid. Redazione de il Riformista il 20 Marzo 2020. Si chiamava Francisco Garcia, era un allenatore delle giovanili dell’Atletico Portada Alta, squadra di calcio di Malaga, è con i suoi 21 anni è la più giovane vittima del Coronavirus.  Il ragazzo era entrato in ospedale all’inizio della scorsa settimana con i sintomi di una polmonite . Le anali condotte dai medici hanno portato alla luce la positività non solo al Covid-19 ma sono anche servite a diagnosticare una leucemia, determinante nell’esito fatale dell’infezione. L’ultimo saluto al giovane tecnico lo ha voluto dare il club di calcio in cui lavorava, in un lungo post su Instagram: “Era un ragazzo forte che amava il suo lavoro e amava i bambini che allenava come se fossero suoi. Vogliamo manifestare le nostre più profonde condoglianze alla famiglia, agli amici e parenti del nostro allenatore Francesco Garcia che ci ha lasciato. E ora cosa facciamo senza di te, Francis?”.

Coronavirus, qui Barcellona: dalla normalità alla zona rossa in 5 giorni. Le Iene News il 17 marzo 2020. Roberto, un italiano che vive a Barcellona, ci mostra in video come è cambiata radicalmente la città, appena diventata zona rossa, in pochissimo tempo: “Fino a pochi giorni fa mi dicevano che avevano paura dell’Italia, e non della Spagna”. Ecco il suo diario. “Siamo al mercato della Boqueria, uno dei punti chiave dello shopping di Barcellona, guardate la situazione... Non ci sono state dichiarazioni che abbiano messo in allerta cittadini e turisti e guardate... Qui c’è un corteo degli Hare Krishna, pregano e se ne fregano, di tutto...”. Tutto questo accadeva solo giovedì scorso. Un ragazzo sardo, Roberto, ci racconta in questo video come la situazione è precipitata in pochi giorni a Barcellona, appena diventata zona rossa. Tutta la Spagna del resto è stata colpita in pieno e molto velocemente dall’emergenza coronavirus. Con 10mila contagiati e oltre 340 morti, è il secondo paese europeo più colpito e il quarto al mondo dopo Cina, Italia e Iran. Il giorno dopo, venerdì, Roberto va alla famosa spiaggia della Barceloneta: tutto tranquillo, tra chi prende il sole o gioca a pallone. “Ragazzi, non avete paura del coronavirus?”, chiede a un gruppo in cerchio sulla spiaggia. “Se fossi in Italia, sì che ne avrei”, risponde uno. Per strada in pochissimi indossano le mascherine e quando Roberto va a chiedere in farmacia, confermano di averne ancora in gran quantità. Insomma tutto tranquillo. Passano pochissime ore e la situazione cambia drammaticamente. La Spagna si blinda nel weekend, il sistema sanitario di Madrid è già a rischio collasso come da noi in Lombardia. Anche Barcellona inizia a vivere l’incubo e gli italiani scappano con l’ultimo traghetto in partenza, come vi abbiamo raccontato qui. Roberto ce lo testimonia in un video registrato sabato poco prima che Barcellona e la Catalogna vengano blindate come zona rossa allo scattare della mezzanotte tra domenica e lunedì: “Siamo a 6.000 contagi e il primo ministro ha deciso di emanare un decreto simile a quello di Conte. Ora ci sono supermercati presi d’assalto e in poche ore i beni di prima necessità sono andati esauriti”. Mentre filma l’ultimo dei suoi video, la polizia intima a Roberto di tornare subito a casa. Da ieri, lunedì, Barcellona è una città deserta. E blindata.

Coronavirus, il dramma di Madrid: un morto ogni 16 minuti negli ospedali. Pubblicato giovedì, 19 marzo 2020 su Corriere.it da Elisabetta Rosaspina. La situazione del contagio da coronavirus in Spagna sta assumendo connotati sempre più drammatici. Mentre in Italia il numero di morti (2,978 ) potrebbe oggi superare quello della Cina (3249), infatti, in Spagna la diffusione del virus prosegue con una progressione del 25% dei casi al giorno e si concentra soprattutto a Madrid. È negli ospedali della capitale che — secondo quanto riportato dal quotidiano El Pais — ci sarebbe un morto ogni 16 minuti. I ricoverati sono oltre tremila: e il bilancio di El Pais non include le persone decedute in casa o in altre strutture socio-sanitarie. Nella serata del 18 marzo, il re di Spagna Felipe VI ha lanciato un appello alla nazione — il secondo durante il suo regno — spiegando che i contagi diagnosticati sono 13.801, i decessi già 598, e chiedendo unità. «È una crisi che stiamo combattendo e che stiamo per superare e vincere. Questo virus non ci sconfiggerà, è una parentesi nelle nostre vite. Torneremo alla normalità». Da lunedì, la Spagna è tutta zona rossa. È stato istituito il divieto di circolazione e spostamenti, salvo ragioni imprescindibili, più o meno come in Italia; la possibilità per lo Stato di prendere la gestione delle industrie e delle compagnie energetiche (gas e petrolio). Al ministro degli Interni sono stati avocati i poteri su tutta la polizia, incluse quelle locali e regionali; disposta la chiusura di tutti i locali e i luoghi pubblici (parchi cittadini e nazionali inclusi) e degli esercizi commerciali, con l’eccezione delle farmacie, dei supermercati, benzinai, edicole e tabaccai. Le ragioni per le quali i cittadini sono autorizzati a uscire di casa e a circolare (in auto o a piedi) sono analoghe a quelle contemplate dal decreto italiano: fare la spesa, andare al lavoro o in banca, dal medico o nei centri sanitari, per assistere anziani e malati, rifornirsi di carburante. 

Spagna, «i medici scelgono chi curare» . Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it. Spagna, i medici dovranno scegliere chi curare. Di fronte a situazioni di crisi come quella sperimentata dalla Spagna con la pandemia di Covid-19 e in un contesto di risorse limitate, le persone con le migliori possibilità di sopravvivenza devono avere la priorità per essere ricoverate in unità di terapia intensiva. «Ammettere un ingresso può significare negarne uno a un’altra persona che potrebbe beneficiarne di più, quindi è necessario evitare il criterio dell’accesso in base agli arrivi». Sono le raccomandazioni contenuto in un documento sull’emergenza di Covid-19 preparato dal gruppo di lavoro di bioetica della Società spagnola di medicina Intensiva, Critica e Unità Coronarie (Semicyuc) e il cui contenuto è stato concordato con la Società spagnola di medicina interna (Semi) di cui dà conto il quotidiano El Mundo. In breve, sono le società mediche che rappresentano internisti e intensivisti, due degli specialisti che sono in prima linea nella lotta contro i contagi. 

Coronavirus, Spagna in ginocchio: i medici dovranno scegliere chi curare. Negli ospedali le persone con le migliori possibilità di sopravvivenza devono avere la priorità per essere ricoverate in unità di terapia intensiva. Federico Giuliani, Venerdì 20/03/2020 su Il Giornale. In Spagna il numero di contagiati per coronavirus ha superato quota 18mila mentre i decessi si avvicinano alle 900 unità. Madrid è il focolaio principale. Nella capitale spagnola i dati assomigliano a quelli registrati in Lombardia, la regione più colpita dell'Italia, a sua volta Paese più colpito d'Europa. Le ultime 24 ore sono state drammatiche con 3.500 casi in più e 150 vittime da aggiungere al conteggio della guerra silenziosa contro il Covid-19. In tutto ci sono quasi mille persone ricoverate in terapia intensiva ma la cifra potrebbe già sfondare il tetto dei mille nel prossimo bollettino sanitario. La Comunità di Madrid è la più colpita, con 6.777 positivi, 498 morti e 590 pazienti proprio in terapia intensiva. A seguire troviamo la Catalogna con 2.702 contagi e i Paesi Baschi con 1.190. La situazione è drammatica e lo dimostra un documento sull'emergenza provocata dal nuovo coronavirus preparato dal gruppo di lavoro di bioetica della Società spagnola di medicina intensiva, Critica e Unità Coronarie (Semicyuc) e il cui contenuto è stato concordato con la Società spagnola di medicina interna (Semi), di cui dà conto il quotidiano El Mundo. Il testo sottolinea che, in uno scenario critico come quello spagnolo e in un contesto di risorse limitate, le persone con le migliori possibilità di sopravvivenza devono avere la priorità per essere ricoverate in unità di terapia intensiva. "Ammettere un ingresso – si legge nel documento - può significare negarne uno a un'altra persona che potrebbe beneficiarne di più, quindi è necessario evitare il criterio dell'accesso in base agli arrivi".

“Massimizzare il beneficio comune”. A detta degli intensivisti e degli internisti, la limitatezza delle risorse in una situazione di pandemia come quella attuale richiede "di concordare una serie di criteri tecnici ed etici comuni". Il primo che propongono è che l'ammissione in terapia intensiva si basi sul "massimizzare il beneficio comune. Nei pazienti critici con patologie critiche diverse dal Covid-19, dovrebbe essere data priorità a che ne beneficia maggiormente". Nel frattempo nel mondo 90 Paesi hanno vietato l'ingresso agli spagnoli o hanno sospeso i collegamenti con il Paese iberico. Altri 32 Stati impongono modalità di quarantena per i viaggiatori in arrivo dalla Spagna. Il governo spagnolo ha invece ordinato la chiusura degli hotel a eccezione di quelli messi a disposizione dei servizi sanitari. In una disposizione pubblicata nella Gazzetta ufficiale dello Stato, scrive El Pais, l'esecutivo ordina la sospensione dell'apertura al pubblico di tutti gli hotel e alloggi simili e di brevi soggiorni come roulotte, entro sette giorni, in tutto il Paese.

Vale un'eccezione per chi aveva un alloggio di lunga permanenza al momento della dichiarazione dello stato di emergenza ma le condizioni di isolamento devono comunque essere soddisfatte e non possono essere accettati nelle strutture nuovi clienti.

·        …in Portogallo.

Il Portogallo regolarizza gli immigrati per gestire l’emergenza Coronavirus: “Diritto alla salute vale per tutti”. Redazione de Il Riformista il 29 Marzo 2020. Mentre in Europa i sovranismi si fanno sempre più forti, il Portogallo del governo socialista di Antonio Costa continua ad andare in controtendenza. L’esecutivo ha infatti deciso di concedere il permesso di soggiorno a tutti gli immigrati che ne hanno già fatto richiesta, almeno fino al primo luglio. Una mossa che permetterà agli immigrati di poter affrontare al meglio l’emergenza Coronavirus: in questo modo, come riporta il quotidiano spagnolo El País, potranno cercare un impiego e accedere ai servizi pubblici quelli sanità, ma anche aprire un conto in banca o affittare una casa. Per ottenere il permesso di soggiorno infatti basterà dimostrare di aver già effettuato una richiesta. La portavoce del ministero degli Interni Claudia Veloso ha sottolineato che “le persone non dovrebbero essere private del diritto alla sanità e ai servizi pubblici solo perchè la loro domanda non è stata ancora elaborata”. “In questa emergenza, i diritti dei migranti devono essere garantiti”, ha aggiunto Veloso. Attualmente in Portogallo sono 119 i morti e 5962 i contagi per Coronavirus. Il Paese detiene anche il ‘record’ per la vittima più giovane da Covid-19, un ragazzo di 14 anni.

·        …negli Usa.

Dagospia il 12 novembre 2020. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”. Trump e la sua guarigione dal Covid? “Trump è stato capace di dare il peggiore esempio possibile, perché ha avuto un trattamento da Superman, tipo kryptonite. Gli hanno fatto una dose sostanziosa di anticorpo monoclonale, che è tipo un missile terra aria, e che blocca il virus quando sta entrando nel sangue e quindi non riesce a provocare malattia Ma questa non è una medicina per tutti, è costosissima, la sua cura sarà costata moltissimo, si parla di 1 milione di euro. E' una cura da presidente”. A dirlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ilaria Capua, direttrice dell'UF One Health Center della Florida, che oggi è intervenuta nel programma condotto da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro. Lei come sta affrontando questo momento delicato? “Sono in lockdown volontario, non mi voglio ammalare, non me lo posso permettere, anche come immagine, devo dimostrare che questo virus posso tenerlo a bada. Infatti non esco da molto tempo, faccio solo una passeggiata per sgranchirmi le gambe. Sono tornata negli States lo scorso 7 agosto, da lì ad oggi sarò uscita 20 volte in tutto”, ha spiegato a Rai Radio1 la dottoressa Capua.

Biden il fortunato, arriva il vaccino. Piccole Note su Il Giornale il 9 novembre 2020. Avevamo scritto in tante note pregresse che il vaccino sarebbe arrivato dopo le elezioni americane… et voila, oggi la Pfizer annuncia che il vaccino al quale sta lavorando da tempo è pronto ed efficace nel 90% dei casi accertati, né presenta controindicazioni di sorta. Si tratta del noto vaccino di Oxford prodotto dalla Astrazeneca. Donald Trump Junior scrive un tweet infuriato, accusando l’FDA, che doveva certificarne l’efficacia, di aver ritardato volutamente i tempi, avendo chiesto ulteriori accertamenti. D’altronde il Ceo dell’azienda farmaceutica era stato chiaro: nessun vaccino prima delle elezioni (New York Times). Nessun complotto, o almeno nessuna evidenza che possa essere provata, dato che siamo nel ristretto e indiscutibile ambito sanitario. Resta che tale tempistica era palese, e ne avevamo dato conto ampiamente nelle nostre note: d’altronde nessuna azienda farmaceutica avrebbe sfidato la sorte entrando a gamba tesa in un processo politico così delicato. Trump non ha potuto annunciare il vaccino, che ora invece può essere annunciato dal nuovo presidente, benché ancora non proclamato ufficialmente. Biden, peraltro, col suo staff ha già predisposto un piano per affrontare la pandemia, mossa che tende anche ad accelerare il processo di allontanamento di Trump dalla Casa Bianca: ostacolando il passaggio di consegne, tale il messaggio che presumibilmente sarà veicolato, metterà a repentaglio vite umane…Le alterne vicende della pandemia e della politica si sono sviluppate in un intreccio inestricabile, l’annuncio di oggi non è che una banale conferma postuma. Restano le problematiche legate alla produzione e alla somministrazione, che non son poche e che rendono impossibile la chiusura della finestra pandemica prima del consumarsi della seconda ondata (quella invernale). Ma l’azienda ha legittimamente dichiarato che è un “grande giorno per la scienza e per l’umanità“, è stata posta una “pietra miliare” nella lotta alla pandemia. Mancano le fanfare, ma per il resto c’è tutto. Al di là del pregresso, che pure conta e sul quale stendiamo un velo pietoso (obbligato perché ci son tanti, troppi morti di mezzo), aspettiamo nuovi sviluppi, che certo non mancheranno.

Putin, il secondo vaccino e le sanzioni alla Russia. Piccole Note su Il Giornale il 16 ottobre 2020. Si chiama EpiVaCorona il secondo vaccino russo contro il Covid-19. Lo ha annunciato Putin, che aveva già annunciato al mondo il primo vaccino, lo Sputnik V, questa estate. Era l’11 agosto quando lo zar rivelò al mondo che la Russia aveva vinto la corsa globale al vaccino. Significativo il titolo della Reuters di allora: “Putin saluta il nuovo momento Sputnik perché la Russia è la prima ad approvare un vaccino per il COVID-19”.

Il momento Sputnik. Già, il “momento Sputnik”, un riferimento a quando la Russia aveva vinto la corsa allo spazio, infliggendo alla rivale globale un’umiliazione cocente. Così è stato per quel vaccino, nonostante lo scetticismo dell’Occidente, che non voleva né poteva ammettere che la Russia avesse vinto una corsa ancor più significativa, perché il coronavirus terrorizza il mondo. Tante le domande della comunità scientifica sul farmaco russo, più che legittime, ma anche tante obiezioni che nascondevano a stento la contrarietà a concedere la vittoria all’avversario. La Russia, era ed è l’obiezione principe, avrebbe anticipato i tempi, annunciando un farmaco non adeguatamente sperimentato. Fondata o non fondata che sia, resta che Mosca ha iniziato a produrre e a utilizzare lo Sputnik V – anche se la distribuzione generalizzata richiederà mesi -,  così che la domanda avrà risposta in tempi brevi, se cioè eviterà ulteriori lutti. Mosca è sicura del suo, come anche Putin che ha già fatto vaccinare la figlia. E prove iniziali che il vaccino funziona, cioè produce anticorpi, sono state riferite dalla rivista Lancet (Bbc), anche se restano da verificare alcuni aspetti dell’applicazione su larga scala.

Vaccini e sanzioni. Ma al di là dell’efficacia del vaccino, resta la mossa di Putin, che, annunciando al mondo di aver vinto la corsa, si era procurato un grande guadagno di immagine. Un guadagno polverizzato solo alcuni giorni dopo. Il 20 agosto, l’oppositore del Cremlino Alexej Navalny viene ricoverato in un ospedale di Omsk e la sua portavoce, Kira Yarmish, si affretta a denunciarne l’avvelenamento ad opera del Cremlino (nell’immediato parlerà di una tazza di tè avvelenata, poi il tiro viene corretto, etc… vedi Piccolenote). Navalny, infatti, verrà poi trasferito a Berlino dove sarà riscontrata la presenza del terribile Novichok. Sull’assurdità di usare una bomba atomica – tale il gas sarin – per eliminare un nemico politico abbiamo scritto, non ci torneremo. Interessante, invece, la sequenza successiva, così veniamo all’oggi. Il 14 ottobre Putin annuncia al mondo che la Russia ha registrato il suo secondo vaccino contro il COVID-19, l’ EpiVaCorona appunto. Il giorno dopo l’Unione europea, che a sua volta aveva minacciato, ma tenuto in sospeso, l’emanazione di sanzioni contro Mosca per il caso Navalny, decide di procedere.

Nessuna possibilità di difesa. Così ancora una volta l’immagine della Russia e del suo zar viene, almeno nelle intenzioni, deturpata. Casualità, contingenze, forse. Resta che a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina. Peraltro, le sanzioni sono state comminate senza alcun processo, senza che all’imputato sia stato dato modo di difendersi. La Ue è stata accusatrice e giudice ultimo in un processo che non consente appello. Perché mentre la Ue chiedeva a Mosca di far chiarezza, non ha mai proceduto a trasmettere la documentazione comprovante l’avvelenamento, come da richieste pressanti di quest’ultima. Un diniego fondato sul rispetto della privacy di Navalny, che a quanto pare non ha consentito la trasmissione. Diniego che interpella, dato che l’accusa avrebbe guadagnato in credibilità se avesse esibito al mondo le prove del crimine. Al contrario, restano appunto le tante domande del caso, incrementate dal diniego medesimo. Tant’è.

Sanzioni ma niente stop al gas russo. Le nuove sanzioni della Ue hanno irritato non poco Mosca, che per bocca del suo ministro degli Esteri Sergej Lavrov ha minacciato di interrompere il dialogo con Bruxelles, perché fondato sulla diffidenza e non sul rispetto reciproco (Associated Press). Si potrebbe reputare che tale chiusura non sia una gran perdita, mentre, al contrario, il dialogo è necessario per preservare il mondo da disastri.

Non solo perché senza diplomazia restano solo i rapporti di forza, ma perché tale braccio di ferro vedrebbe la Ue relegata ai margini della scacchiera geopolitica, dato che i rapporti di forza possono essere gestiti da chi ha la forza, cioè non Berlino, ma Washington. Resta che, nonostante le tensioni, Berlino ha preservato da danni il North Stream 2, il gasdotto che dovrebbe portare gas russo in Germania, di grande significato strategico ferocemente avversato dagli Usa. Dopo la vicenda di Navalny, e nell’incrudelirsi del confronto, era stata ventilata con forza l’opzione di una rescissione da parte di Berlino, che però ha resistito, preservando non solo il suo gas, ma anche, forse, altro e più importante. Da vedere se riuscirà a tener duro fino in fondo.

Ps. Sui media d’Occidente non si parla più del vaccino contro il Covid-19, non almeno in misura paragonabile a quanto se ne parlava mesi fa. E ciò, nonostante la ricerca sia ormai in fase avanzata. Se se ne accenna è solo per segnalare un evento infausto, quando la sperimentazione si blocca per un imprevisto: è stato il caso del vaccino di Oxford e ieri per quello della Johnson & Johnson. Probabile che la comunicazione resterà invariata fino alla chiusura delle urne americane.

The New President. Alessandro Bertirotti il 9 novembre su Il Giornale. È tutta questione di… realtà. Stiamo a vedere, se avremo la possibilità di sopravvivere a zio Covid-19, cosa in effetti cambierà, in meglio e in peggio, perché una delle due possibilità porta con sé l’altra, inevitabilmente. Tutto il mondo si attende un cambiamento, rispetto al sorpassato Presidente, perché Joe Biden promette bene, sereno e pacato, almeno a livello di immagine e di stile. Mi direte che non sarebbe stato difficile dare l’impressione di essere meglio dei tweet di Trump, e che anche il minimo innalzamento del just noticeable level of perception avrebbe avuto il suo effetto e ci avrebbe indotto ad un liberatorio sospiro di sollievo. E così è stato. Eppure, gli Stati Uniti che hanno la pretesa storica di insegnare al mondo intero cosa è una democrazia matura ho l’impressione stiano, invece, dimostrando che la maturità forse è ascrivibile a qualsiasi altro popolo fuorché a loro. E non voglio solo riferirmi ai brogli presunti, che condurranno comunque il nuovo Presidente verso l’esercizio del proprio mandato in ambiguità per molto tempo, ma all’immagine che gli statunitensi forniscono di loro stessi al mondo intero. Veleni, discussioni di bassissimo livello, scandali sessuali costruiti oppure rinvangati ad hoc, interessi economici e la solita espressione circense dei programmi elettorali, etc.. Insomma, non basterà l’eventuale presenza di una donna, la prima, come Vice Presidente degli Stati Uniti, a farci credere che saremo di fronte ad una reale novità. In un Paese dilaniato anch’esso dal ben noto zio Covid-19, con un’assistenza sanitaria capestro, i sindacati che mangiano soldi dei contribuenti pur di non mandare le persone a lavorare, la burocrazia delle grandi città governate dai Democratici, gli insegnanti che continuano a pretendere azioni governative per ottenere un’ulteriore protezione, come non ne avessero già abbastanza. Per non parlare del livello di povertà urbana in California, specialmente a San Francisco e lo spaccio diffuso ovunque di droghe di tutti i tipi. Insomma, non sono certo da prendere come esempio. Ma, ne abbiamo, a proposito, in questo mondo nazioni da prendere come esempio? Mah… non saprei.

Roberto Fabbri per “il Giornale” il 2 novembre 2020. C'era da aspettarselo, ma fa comunque sensazione e notizia: dopo mesi di offese subite da parte di Donald Trump, che era arrivato a dargli pubblicamente dell' idiota, il super esperto americano di malattie infettive Anthony Fauci si è vendicato. E lo ha fatto con un tempismo a due giorni dalle elezioni e delle modalità un' intervista al Washington Post nella quale critica le politiche presidenziali e tesse le lodi del candidato democratico alla Casa Bianca Joe Biden - che potrebbero far parlare di vendetta cinese, se non fosse che nell' America del Covid certi paragoni sono troppo inopportuni. A dispetto dei suoi 79 anni e dell' aria da mite topo di laboratorio, Fauci ha colpito durissimo. Lo testimonia la rabbiosa reazione che ha suscitato nel campo presidenziale, secondo cui il famoso infettivologo ha consapevolmente violato ogni regola scegliendo di rilasciare dichiarazioni dal contenuto politico alla vigilia di elezioni in cui il tema dell' epidemia avrà un ruolo forse decisivo. Ma cosa ha detto di tanto incendiario Anthony Fauci? Anzitutto, ha vaticinato un inverno disastroso nel corso del quale 100mila nuovi contagi al giorno e un numero di morti in aumento saranno la dolorosa regola. Un disastro, ha rimarcato lo scienziato, che non sopraggiunge per caso: è necessario cambiare le politiche di gestione dell' epidemia e più in generale della salute pubblica, perché la situazione «non è buona». Fauci non si è limitato a muovere critiche astratte, ma ha fatto nomi e cognomi delle persone che ritiene corresponsabili di errori gravi. E uno di questi, naturalmente, è il presidente in persona. L'infettivologo e membro caduto in disgrazia della task force Usa contro il coronavirus accusa Donald Trump di una visione dell' epidemia troppo incentrata sull' aspetto economico e su una prospettiva di riapertura del Paese. Lettura confermata dai fatti: ancora ieri, parlando a un comizio nel Michigan, il presidente-tycoon ha lisciato il pelo a negazionisti e sottovalutatori dei rischi per la salute pubblica, invitando a considerare che «con il lockdown di Biden vivreste in uno Stato-prigione, guardate che cosa succede in Europa». Un atteggiamento che Fauci dipinge come cinico e irresponsabile, e che confronta con quello di Joe Biden, che nella sua campagna sta invece «prendendo seriamente la situazione dal punto di vista sanitario». Il professore che evidentemente ha deciso di cavarsi dalle scarpe fino all' ultimo sassolino punta il dito contro figure mediche cui Trump ha scelto di dare ascolto in sua vece, e che indica come corresponsabili di scelte politiche dissennate. In particolare, Fauci ammette di «avere un vero problema» con Scott Atlas, il neuroradiologo diventato il più ascoltato consigliere del presidente in tema di epidemia: «Un tizio brillante che afferma cose di cui ritengo non abbia reale conoscenza o esperienza», che nega l' utilità delle mascherine e dà poca importanza al fatto che la gente si infetti. Per balorde che siano le sue tesi, ormai Trump ascolta solo Atlas, funzionale alle sue politiche. Fauci, invece, il presidente non lo sente proprio più da ormai un mese, e anche alla West Wing della Casa Bianca evita di metter piede: «Troppo pericoloso, con tutti quei contagi».

Il tweet profetico di Biden sulla pandemia. Piccole Note de Il Giornale il 26 ottobre 2020. L’ex presidente Barack Obama domenica ha invitato gli elettori a sostenere il candidato democratico Joe Biden, condividendo un tweet che il suo ex vice-presidente ha pubblicato il 25 ottobre del 2019, nel quale si avvertiva che il presidente Trump non era preparato per affrontare una pandemia. Lo riferisce The Hill che riporta come nel “tweet del 2019, [pubblicato] molto prima che la pandemia del Coronavirus entrasse nell’orizzonte degli americani  [in realtà prima che si manifestasse anche in Cina ndr.], Biden ha scritto: “Non siamo preparati per una pandemia. Trump ha annullato i progressi che io e il presidente Obama abbiamo fatto per rafforzare la sicurezza sanitaria globale. Abbiamo bisogno di una leadership che goda della fiducia dell’opinione pubblica, sia focalizzata sulle minacce reali e mobiliti il mondo per fermare le epidemie prima che raggiungano le nostre coste”. Il tweet di Biden prendeva spunto da un articolo pubblicato il giorno precedente dal Washington Post, che riportava il rapporto Global Healt Security Index, “la prima valutazione completa delle capacità sanitarie globali”, il quale segnalava come 195 Paesi del mondo fossero impreparati ad affrontare un “evento biologico catastrofico a livello globale” (capitolo 2). L’Index, scriveva il Washington Post, è “un progetto della Nuclear Threat Initiative, un’organizzazione senza scopo di lucro con sede a Washington, e del Johns Hopkins Center for Health Security“. La Nuclear Threat Initiative è stata fondata dal senatore democratico Sam Nunn e dal fondatore della CNN Ted Turner; del Johns Hopkins Center ci siamo occupati in note pregresse riguardanti alcune esercitazioni militari anti-pandemia che si sono svolte nel 2019 negli Stati Uniti d’America, prima del manifestarsi del Covid-19 (Piccolenote). Non tiriamo nessuna conclusione da questa serie di coincidenze, che tali sono. L’unica, indubitabile, è che la profezia di Biden, annunciata mentre nel mondo iniziava a prendere forma la pandemia, sembra essersi avverata. E forse regalerà al candidato democratico la Casa Bianca, dato che proprio su tale drammatico evento si è basata la sua campagna elettorale ormai vincente (almeno a  stare ai sondaggi).

Ps. Il Wp citato nella nota criticava la decisione di dell’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton di chiudere l’Ufficio per la sicurezza sanitaria globale e la difesa biologica che faceva capo al suo ufficio. Già fiero antagonista del presidente nel periodo in cui ha ricoperto l’incarico, dopo il suo licenziamento l’alfiere dei neocon è diventato un acerrimo oppositore di Trump.

Da "corriere.it" il 26 ottobre 2020. Il presidente Usa, Donald Trump, protesta con i media. Lo fa ad un comizio elettorale a Lumberton, in Carolina del Nord: «Questo è tutto quello che sento adesso. Accendi la tv e non si sente parlare di altro che ‘Covid, Covid, Covid, Covid, Covid, Covid’». Una parola che il capo della Casa Bianca ripete per 6 volte consecutive come un refrain davanti ad una folla in delirio per lui: «Bene,dopo il 4 novembre questa parola non la sentirete più»

Stati Uniti meglio dell’Europa: quei dati che cambiano la storia della pandemia. Federico Giuliani su Inside Over il 25 ottobre 2020. Gli Stati Uniti “stanno schiacciando il virus”, hanno salvato “milioni di vite” e, in generale, sono riusciti a gestire la pandemia di Covid-19 meglio dell’Europa. Nel corso di un comizio in Pennyslvania, Donald Trump ha elogiato il modello americano, esaltando i risultati conseguiti da Washington nella lotta contro il Sars-CoV-2. “Guardate i nostri numeri rispetto a quelli dell’Europa”, ha quindi aggiunto The Donald. Secondo quanto riportato dalla Cnn, nei giorni scorsi, in una telefonata avuta con il proprio team elettorale, Trump sarebbe addirittura andato oltre: “La gente è stanca del Covid, io faccio questi rally enormi, la gente vuole essere lasciata in pace, sono stanchi di sentire Fauci e tutti questi idioti”. Fauci è stato accusato di essere “un disastro”. “Se l’avessi ascoltato avremmo avuto 500mila morti”, ha poi concluso il presidente statunitense. Insomma, Trump ha elogiato la risposta americana al virus e rivendicato le decisioni prese dalla Casa Bianca. Eppure i dati, nudi e crudi, piazzano gli Stati Uniti al primo posto nella classifica dei Paesi più colpiti dal Sars-CoV-2, con quasi 9 milioni di casi totali e oltre 230mila decessi complessivi. Attenzione però, perché per avere un quadro più preciso è importante integrare queste cifre con altri indicatori.

Far parlare i dati: gli Stati Uniti ai raggi X. Se consideriamo il semplice numero di infezioni sì, gli Stati Uniti sono al comando di questa scellerata gara, seguiti da India (quasi 8 milioni di casi) e Brasile (vicini ai 6 milioni). Se tuttavia consideriamo gli infetti e i morti giornalieri in relazione al numero degli abitanti, notiamo come un discreto numero di Paesi europei, asiatici e sudamericani debba fare i conti con una più elevata percentuale di popolazione infettata o deceduta rispetto a quella registrata negli Stati Uniti. Ma andiamo con ordine. Considerando i casi totali per milione di persone, gli Usa si collocherebbero dall’ottavo al dodicesimo posto, a seconda delle fonti utilizzate per fare i calcoli. Adottando i valori riportati da Worldometers, ad esempio, vediamo che i primi posti sono occupati rispettivamente da Andorra, Qatar e Bahrain. Gli Stati Uniti sono dodicesimi, con poco oltre i 26mila casi su un milione di persone. Se invece prendiamo il dato relativo ai morti su base pro capite, è il Perù (San Marino a parte) a schizzare in testa, con oltre mille morti per milione di persone, seguito da Belgio (912) e Andorra (893). Gli Stati Uniti sono al decimo posto con 689 decessi. Ancora, se invece calcoliamo i numeri dei contagi su base giornaliera per milione di persone, in un periodo di sette giorni, la Repubblica Ceca schizza improvvisamente al comando con 928 nuovi casi. Gli Stati Uniti sono al 24esimo posto con 181 casi pro capite. Stesso discorso per i decessi: su base pro capite l’Argentina ha il più alto numero di morti giornaliere, con 8 vittime per milione. A seguire troviamo la Repubblica Ceca (7 per ogni milione di persone). Gli Stati Uniti sono al 23esimo posto, con due morti ogni milione di persone.

Il caso dell’Europa. È difficile fotografare una situazione precisa visto che i dati cambiano giorno dopo giorno, ora dopo ora. In un ipotetico confronto, Usa-Unione Europea, vediamo che nel Vecchio Continente i casi crescono maggiormente rispetto a quelli registrati in America (a un livello quasi esponenziale). Qualche giorno fa, non a caso, è scattato il “sorpasso” dell’Europa. Per quale motivo? Intanto nell’Ue sono aumentati notevolmente i tamponi giornalieri, e questo ha fatto incrementare i nuovi casi giornalieri. Attenzione poi alla popolazione: negli Stati Uniti ci sono circa 328 milioni di persone, in Ue 446 milioni. Inoltre, se il dato sui casi giornalieri parametrato per milioni di persone evidenzia una crescita Ue più rapida di quella americana, il numero di casi giornalieri è piuttosto simile. In ogni caso è difficile fare dei paragoni, come ha spiegato al Corriere della Sera Paolo Bonanni, Professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze: “Gli Stati Uniti si estendono su 4-5 fusi orari e sono un Paese enormi. Le dinamiche di chiusa e riapertura sono inoltre state molto differenziate tra i diversi Stati. Probabilmente adesso in Usa c’è anche una certa quota di immuni, di persone che hanno appena contratto il Covid-19. Nella seconda fase europea, invece, forse la crescita è ripartita più velocemente perché successiva a una fase silente del virus”. Ha quindi ragione Trump quando dice che gli Stati Uniti hanno contenuto il virus meglio dell’Europa? Dipende quale parametro prendiamo in considerazione. Per certi versi gli Usa non hanno fatto peggio di molti Paesi europei.

Da liberoquotidiano.it il 30 ottobre 2020. "L'abitudine della destra di stare a viso scoperto, rifiutando la mascherina, come una specie di dichiarazione politica, mi è probabilmente costato il coronavirus", lo ha detto Federico Rampini a Piazza Pulita, parlando degli Usa. Il giornalista, che è risultato positivo 14 giorni fa, anche se con sintomi lievi, ha raccontato di aver contratto il Covid in un momento ben preciso: "La mia congettura è che mi sono contagiato andando nel Wisconsin a fare un reportage per la Repubblica su ambienti della destra dove nessuno si metteva la mascherina. Li ho frequentati un po' troppo da vicino evidentemente", ha concluso il corrispondente estero. 

Federico Rampini per “la Repubblica” il 23 ottobre 2020. Prima gli sms, e le telefonate a casa, poi si è presentata lei in carne ed ossa: la mia tracer. «Possiamo ospitarla in albergo, a spese dello Stato di New York? Ha bisogno di cibo o medicine? L' aiuterebbe l' assistenza di uno psicologo?». La signora di mezza età, etnicamente cinese, si era fatta annunciare in portineria chiedendo il permesso di salire da me ("qualcuno si rifiuta di ricevermi"). È una dei diecimila assunti nella task force locale dei covid-contact-tracer. L' ha allertata l' ambulatorio City-Md sulla 57esima strada e Ottava Avenue, dove venerdì ero risultato positivo al tampone: gratuito anche quello, venti minuti di fila senza prenotazione, cinque di attesa per il risultato. Per tutta la durata del colloquio, mezz' ora, la signora è rimasta in piedi sul pianerottolo a cinque metri di distanza. Gentilissima, prima si è voluta informare sul mio stato di salute, se io viva da solo, se abbia bisogno di aiuto da un' assistente sociale. Poi il questionario si è dilungato sui sintomi, nel mio caso per fortuna pochi e lievi (un paio di sere con la febbre, colpi di tosse sporadici). Altre domande su mia moglie, visto che viviamo nello stesso appartamento, e il distanziamento tra noi non è semplice: lo Stato potrebbe ospitare uno di noi due in albergo. La tracer mi ha chiesto di aiutarla nel ricostruire dove può essere accaduto il contagio (congettura: nel Wisconsin durante il mio reportage tra gli elettori, i repubblicani erano tutti senza maschera). Mi ha domandato nomi e recapiti di persone che possono avermi frequentato da vicino quando ero già portatore del virus. Mi ha suggerito di scaricare sul mio smartphone la app Immuni, versione newyorchese, in modo da avvisare automaticamente gli altri nelle mie vicinanze. Questa app, ha precisato, protegge la mia privacy: allerta senza fornire la mia identità ai destinatari. Mi ha dato consigli sulle cose da fare e da non fare, le regole della quarantena. Posso uscire di casa per visite mediche. A dieci giorni dal tampone positivo, se sarò stato senza sintomi per più di 48 ore potrò considerare conclusa la quarantena, e andare a farmi un nuovo tampone per conferma. Mi ha ricordato quali sintomi gravi devono invece far scattare il ricovero ospedaliero. Mi ha chiesto se ho un medico di famiglia con cui consultarmi al telefono; se conosco l' indirizzo del pronto soccorso più vicino. Se con mia moglie abbiamo una rete di amici su cui appoggiarci, per esempio per acquisti di cibo e medicinali. Altre domande di rito - sesso, etnìa - sono state precedute dall' avviso che ho «facoltà di non rispondere». È stato un incontro molto politically correct, nel rispetto della privacy e dei diritti, ma anche sotto il segno dell' efficienza. Avveniva al terzo giorno dal mio tampone positivo, weekend incluso; già avevo avuto diverse conversazioni con altri tracer al telefono, inclusa una ragazza dall' accento afroamericano che mi ha assicurato: «Pregherò per lei». Ci sono voluti troppi morti, troppi errori iniziali, ma con sette mesi di ritardo New York ha imparato ad essere più simile a Tokyo e Seul. Abbiamo subito un disastro. Non è stato inutile. Oggi questa metropoli - con meno di nove milioni di abitanti - sta facendo più test quotidiani di tutta l' Italia. Di regola i tamponi sono gratis, come le cure: questa è una delle poche novità davvero positive della pandemia, una mini-riforma strisciante che ha trasferito a carico delle finanze pubbliche gran parte della spesa almeno finché dura l' emergenza. Colpisce il reclutamento e la formazione dei diecimila tracer, con la missione di individuare e sorvegliare i focolai, un condominio alla volta. La lezione asiatica è stata studiata.

Giuliana Ubbiali per corriere.it il 16 ottobre 2020. Era confuso, in quel momento. Ma realizzava di trovarsi in albergo a New York e di avere la febbre a 41°. Ricorda i due infermieri del 911 bardati con tute, mascherine e visiere, e di aver percorso tre curve in ambulanza per arrivare all’ospedale Mount Sinai West. Difficile dimenticare la prima domanda, appena messo in una camera isolato da tutti: «Con che cosa paga?». Francesco Persico, 33 anni, elettricista della Automazione 2001 e vicesindaco di centrodestra ad Azzano San Paolo, ha tirato fuori dallo zaino il foglio dell’assicurazione fatta dall’azienda. Otto mesi dopo ci sorride, ma allora alla preoccupazione di trovarsi in ospedale con il Covid a 6.000 chilometri da casa e di rassicurare la moglie, a casa con la bimba di tre anni, si era aggiunto il pensiero di un conto salatissimo. Per curiosità ha voluto saperlo: «Centomila dollari di ospedale più 2.500 per gli 800 metri in ambulanza. Per fortuna, e ringrazio la mia azienda, ero assicurato ma in quel momento il timore era forte anche a casa, con il costo di 8.000 dollari al giorno in terapia intensiva». Qualcosa ha pure rischiato, l’ha scoperto dopo: «Una clausola diceva che l’assicurazione non avrebbe pagato se l’Oms avesse dichiarato la pandemia globale. La mia fortuna è essere stato ricoverato prima». In terapia intensiva, con la maschera dell’ossigeno, è andato quando il respiro è diventato corto. Ancora oggi, non sa se il Covid se l’è portato dall’Italia o se l’ha preso in America in un periodo in cui la confusione era solo all’inizio. A New York doveva costruire un grattacielo, il 28 febbraio era partito per la Despe demolizioni con un collega dell’azienda, altri due elettricisti e due meccanici, lasciandosi alle spalle il Carnevale e le altre attività del paese annullate. «Dopo una settimana ho avuto la febbre, ma come per la classica influenza. Ho preso la tachipirina. Dopo 3-4 giorni non passava, avevo capogiri e mal di testa. Poi stavo benissimo e la domenica con i colleghi siamo andati a vedere la partita di basket». Lunedì le febbre è salita e sono scattati i sospetti. Di uno dei colleghi: «Chiamiamo qualcuno», mi ha detto. E dell’albergo: «Non mi hanno voluto mandare il medico, così abbiamo chiamato il 911». Si definisce «il paziente zero in quell’ospedale. Non erano preparati: ho aspettato mezz’ora sull’ambulanza, il personale ha allestito uno spazio lì per lì, mi hanno trasferito nel reparto di malattie infettive. Da me entravano protetti ma poi, li vedevo dal vetro, si cambiavano in corridoio. Mi hanno trasferito in terapia intensiva, con la maschera facciale dell’ossigeno. Devo dire che ho ricevuto molte attenzioni, se penso alle immagini di Bergamo con i tutti quei pazienti tutti insieme perché non c’era posto». Parentesi, anche su questo sorride: «Il cibo, ho fatto anche le foto. Hamburger e patatine fritte, e pizza con il ketchup in terapia intensiva. Non potevo mangiarli, ho perso 12 chili, appena uscito sono andato al supermercato a comprare del cibo». Ricoverato il 9 marzo, ha lasciato l’ospedale il 25 marzo. «Quando sono stato dimesso non mi hanno fatto il tampone, dovevo rimanere 7 giorni in quarantena in hotel». Se all’arrivo aveva trovato una città «dalla vita normale», all’uscita ha colto i primi segnali che la pandemia stava segnando anche New York. «Sotto la porta della camera dell’albergo ci hanno infilato un biglietto con scritto che avremmo dovuto andarcene perché chiudevano. Ci siamo spostati e anche nel secondo albergo è successa la stessa cosa. Sono rientrato il 4 aprile, con un volo Alitalia per il rimpatrio dei connazionali». Non era finita. «Sono riuscito a farmi fare il primo tampone il 15 aprile a Seriate, il secondo il 22 ad Albino». Che ci fossero 6.000 o 6 chilometri di distanza, per lui come per tutti i pazienti Covid una delle principali sofferenze è stata rimanere lontano dalla famiglia. «Mia moglie si era trasferita dai genitori, ho rivisto la bimba due mesi dopo. E poi, io che ho la delega anche alla Protezione civile, non sopportavo l’idea di non poter essere in giro ad aiutare nell’emergenza». Ora che è tutto finito, «si, sì, sto bene», dall’America si è portato a casa una lezione: «Rispetto a tante polemiche, non abbiamo nulla da imparare sulla serietà e capacità di gestire l’emergenza. Trump? Beh, alcune uscite come quella sulla candeggina…. Il fastidio più grande è chi prende questo virus alla leggera, i negazionisti. Non ci sono passati, per forza. Ad Azzano in tre mesi abbiamo avuto cento morti».

Da corriere.it il 2 ottobre 2020. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e la moglie Melania sono positivi al coronavirus. A comunicarlo è stato, con un tweet, lo stesso Trump. «Questa notte io e Melania siamo risultati positivi al Covid-19. Cominceremo il nostro processo di quarantena e cure immediatamente. Supereremo tutto questo insieme», ha scritto. «Come avvenuto a troppi americani, quest’anno, io e il presidente siamo isolati a casa, dopo essere risultati positivi per il Covid», ha scritto Melania Trump su Twitter. «Stiamo bene, e ho rimandato tutti gli eventi in programma. Abbiate cura di voi, prestate attenzione, e supereremo tutto questo, insieme». L’annuncio arriva a poche ore dal primo dibattito televisivo con lo sfidante democratico, Joe Biden, e immediatamente dopo il risultato positivo del test di Hope Hicks, una delle più strette consigliere di Trump, che aveva con lui partecipato alle ultime trasferte. Hicks, 31 anni, aveva accompagnato Trump, 74 anni, sull’Air Force One, dopo aver assistito allo scontro televisivo con Biden a Cleveland, martedì 29 settembre, e aveva seguito il leader americano in un comizio nel Minnesota.

Trump e il Covid negli Stati Uniti. Durante le scorse settimane, Trump ha tenuto comizi con migliaia di persone, nonostante il parere contrario di esperti che sconsigliavano di far assembrare molte persone. Il presidente, che ha valutato le sue politiche di risposta alla pandemia con un voto altamente positivo («Mi do 10 e lode!», ha detto), è stato aspramente criticato per un atteggiamento che, secondo gli osservatori, ha minimizzato l’impatto della pandemia. Trump, in una intervista al giornalista Bob Woodward del Washington Post avvenuta a febbraio, ma resa nota solo a settembre, aveva detto di conoscere perfettamente sin da gennaio quanto il virus fosse pericoloso, ma di non voler comunicare in modo esplicito questo dato per non terrorizzare la popolazione. «Sapevo da gennaio che Covid era mortale, tacevo per evitare il panico», ha detto. Negli Stati Uniti, il Covid ha ucciso oltre 200 mila persone. Nei primi mesi della pandemia, Trump aveva fatto del non indossare una mascherina una sorta di punto d’onore. Le mascherine non sono compatibili con il ruolo di leader, aveva spiegato, dicendo che non poteva pensare di incontrare capi di stato, «presidenti, premier, dittatori, re, regine» con indosso una mascherina. «Non credo che io ne userò una», aveva precisato il 4 aprile scorso, quando le autorità sanitarie statunitensi avevano raccomandato agli americani di indossarla per prevenire il contagio da coronavirus. «Potere farlo, potete non farlo: quella del Center for Disease Control and Prevention è solo una raccomandazione», aveva aggiunto. Solo il 22 maggio Trump venne visto in pubblico indossare una mascherina. A luglio, Trump aveva detto — ribaltando quanto affermato in precedenza — di essere assolutamente a favore delle mascherine»: ma poi, l’8 agosto, aveva sostenuto che la pandemia stesse «scomparendo negli Stati Uniti», e il 22 settembre che «in pratica, Covid non colpisce nessuno» tra i più giovani.

Il referto di Hicks era noto da mercoledì sera. Il protocollo di controllo è stato applicato anche al vice presidente Mike Pence, al consigliere Jared Kushner e, con tutta probabilità agli altri componenti dell’entourage, da Ivanka Trump al capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows. La Casa Bianca aveva il referto sulle condizioni di Hicks da mercoledì sera, ma le ha tenute riservate per almeno ventiquattro ore, fino a quando i reporter di Bloomberg non hanno dato la notizia.

Gli allarmi nel passato. Diverse volte, negli scorsi mesi, membri dello staff di Trump sono risultati positivi, senza però che il presidente risultasse contagiato. Il 27 luglio scorso era rimasto contagiato il Consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O’ Brien, 54 anni. Poche settimane prima, il 3 luglio, test positivo per Kimberly Guilfoyle, 51 anni, la fidanzata di Donald Trump jr, primogenito del presidente. Prima ancora, il 7 maggio, il virus colpì Katie Miller, portavoce di Pence e moglie di Stephen Miller, un altro «advisor» di Trump. Il giorno prima, il 6 maggio, era toccato a un «valet», un assistente personale del presidente.

Andrea Marinelli per corriere.it il 2 ottobre 2020. Donald e Melania Trump sono risultati positivi al coronavirus nella notte. A 32 giorni dal voto, è la prima, enorme sorpresa di ottobre di questa elezione già così diversa da qualsiasi altra nella storia americana, che porta alla luce anche i dissidi interni alla first family. L’approccio del presidente nella gestione della pandemia è stato ampiamente criticato e, seppur non apertamente, la stessa first lady aveva espresso segnali di dissenso, come il tweet che dal 28 aprile è rimasto fissato in cima al suo account ufficiale, in cui offre con un video di un minuto consigli pratici per evitare il contagio. Se già questo stonava con la strategia negazionista del marito — che ha politicizzato la battaglia contro il virus, ha incitato le rivolte contro i lockdown locali per favorire la ripresa economica e, soprattutto, si è a lungo rifiutato di indossare la mascherina — il tweet con cui la first lady annuncia di essere risultata positiva suona quasi come una denuncia. «Come hanno già fatto troppi americani quest’anno, io e il presidente siamo in quarantena a casa dopo essere risultati positivi al test per il Covid-19», ha scritto. «Stiamo bene e ho posticipato tutti i prossimi impegni. Mi raccomando, state al sicuro e supereremo tutto questo insieme». Come nota Politico, del resto, si tratta della più grande minaccia degli ultimi decenni alla salute di un presidente degli Stati Uniti, anche perché l’età di Trump, 74 anni, e il suo peso — lo scorso anno il suo medico lo aveva definito tecnicamente obeso, anche se in salute — lo inseriscono nella categoria più in pericolo. La stessa Melania, a 50 anni, è a rischio di complicazioni. Per ora il medico Sean Conley scrive che «entrambi stanno bene», e che Trump continuerà a svolgere le sue mansioni da presidente: fonti interne alla Casa Bianca sostengono che, almeno fino a giovedì, non aveva sintomi, ma sarà comunque sostituito in alcune situazioni dal vicepresidente Mike Pence. Secondo il 25esimo emendamento della costituzione americana, ratificato nel 1967, il presidente può trasferire il potere al suo vice per motivi medici. Finora è successo tre volte: nel 1985, quando Ronald Reagan fu sottoposto a colonscopia e lasciò temporaneamente il comando a George H.W. Bush; nel 2002 e nel 2007 quando George W. Bush, per lo stesso motivo, affidò il Paese al suo vice Dick Cheney. Per tornare al lavoro, Trump avrà bisogno di una settimana senza sintomi e di due tamponi negativi: l'amministrazione utilizza i test rapidi Abbott, che danno un risultato in poche ore. Chiusi alla Casa Bianca, dove dormono in stanze separate, Donald e Melania si ritrovano ora a confrontarsi con un virus che ha colpito circa 7,2 milioni di persone negli Stati Uniti, uccidendone oltre 207 mila. A contagiarli è stata la consigliera del presidente Hope Hicks, che nei giorni scorsi era risultata positiva dopo aver viaggiato senza mascherina sull’Air Force One verso il dibattito di Cleveland e poi verso il comizio di Duluth, in Minnesota. Proprio l’assenza di precauzioni avrebbe fatto infuriare Melania, spesso indispettita dalle politiche del marito. Giovedì, ad esempio, il presentatore di Cnn Anderson Cooper ha mandato in onda delle registrazioni — effettuate a sua insaputa da Stephanie Winston Wolkoff, ex amica e consigliera che ha appena pubblicato il libro Melania and Me — da cui emerge chiaramente la frustrazione della first lady per il suo ruolo scomodo. «Dicono che sia complice, che siamo la stessa cosa, che lo sostengo, che non dico o non faccio abbastanza», spiegava a Wolkoff, sfogandosi per le critiche ricevute a causa della durissima politica immigratoria del marito — l’amministrazione è arrivata a separare genitori e figli che avevano attraversato illegalmente il confine con il Messico — ma anche per essere stata costretta a svolgere il ruolo tradizionale della first lady, come i preparativi natalizi. «Mi sto facendo il culo su questa cosa del Natale. Chi se ne frega del Natale e delle decorazioni, ma lo devo fare , no?», chiedeva all’amica, per poi aggiungere: «Io lo faccio, e poi mi chiedono dei bambini separati al confine: ma lasciatemi in pace cazzo. Cosa dicevano di Obama? Io non posso fare nulla. Ho provato a riunire i bambini con le loro mamme, ma non potevo: bisogna seguire i procedimenti e la legge». Da queste parole, sostiene Wolkoff, emerge soprattutto un dettaglio: come Melania fosse combattuta fra il suo senso materno e la necessità di fare ciò che serve all’amministrazione del marito.

DAGONEWS il 2 ottobre 2020. «Trump ha sintomi minori e ha sonnolenza, ma è pronto a fare un messaggio tv per dimostrare che sta bene e ha la possibilità di guidare il paese» si legge sul New York Times. Donald Trump è risultato positivo al coronavirus nonostante sia in uno degli ambienti più sicuri al mondo. Ma ora la domanda che sorge spontanea è questa: Perché ci sia voluto così tanto tempo per diagnosticare la positività del presidente visto che mercoledì Hope Hicks si è sentita male? La Casa Bianca vanta uno dei programmi di test più avanzati al mondo. Il personale della Casa Bianca viene testato random utilizzando un sistema che impiega solo cinque minuti per mostrare un risultato positivo e 13 minuti per uno negativo: l’ID NOW della Abbott Laboratories, che secondo alcuni risulta essere molto accurato, per altri riesce a essere accurato solo nel 95% dei casi. Hope Hicks, che ha anche contratto il virus dopo aver viaggiato con il presidente diverse volte in questa settimana, si è auto isolata mercoledì dopo essersi sentita male nel pomeriggio. Hicks è stata messa in quarantena lontano dagli altri sull'aereo del Presidente di ritorno dal Minnesota, e la positività è stata confermata giovedì. Ma c’è il sospetto che la Casa Bianca possa aver tenuto segreto il risultato del tampone di Hicks per 24 ore. Infatti Trump ha continuato il suo programma e giovedì ha viaggiato da e per il suo golf resort di Bedminster, nel New Jersey, per prendere parte a due eventi che si sono tenuti a porte chiuse con un pubblico selezionato. Il suo direttore dei social media Dan Scavino e l'addetto stampa Kayleigh McEnany, che inizialmente avrebbero dovuto unirsi a lui nel viaggio di giovedì, sono stati sostituiti all'ultimo minuto. Trump è poi tornato alla Casa Bianca giovedì sera, quando è stato poi pubblicamente confermato che Hicks aveva il virus. Intanto emerge che Trump, mercoledì si è addormentato sull’Air Force One, circostanza abbastanza insolita per lui. Il vicepresidente Mike Pence è risultato negativo, così come il segretario del Tesoro Steve Mnuchin e la figlia Ivanka. In un memorandum, il medico del presidente ha detto che il presidente e la first lady «stanno entrambi bene in questo momento e intendono rimanere alla Casa Bianca durante la convalescenza. Mi aspetto che il presidente continui a svolgere le sue funzioni senza interruzioni».

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2020. A fine giornata Donald Trump è stato trasportato all'ospedale Walter Reed Medical Center, vicino a Washington, «come misura precauzionale», in seguito all'infezione di Covid-19. È salito a bordo, vestito con il solito completo blu, sull'elicottero Marine One, dopo aver passato l'intera mattinata e il pomeriggio in quarantena alla Casa Bianca. Subito dopo è stato diffuso un breve video in cui il presidente annuncia: «Sto andando al Walter Reed Hospital; faremo in modo che le cose vadano al meglio. La First Lady sta molto bene. Ringrazio tutti, non lo dimenticherò mai». Per poi aggiungere poco dopo sempre con un video via Twitter: «Me la cavo bene». Il suo medico personale, Sean Conley, ha fatto sapere: «Per i prossimi giorni il presidente continuerà a lavorare negli uffici dell'ospedale; mostra segni di stanchezza, ma conserva un buono spirito». Secondo alcune fonti citate dalla Cnn il leader americano avrebbe la febbre. Il dottor Conley ha anche spiegato che Trump è stato subito trattato «con una singola dose di 8 grammi di Regeneron, un cocktail di anticorpi policlonali». Gli esperti spiegano che si tratta di una terapia sperimentale, spesso adottata per studiare le reazioni dei pazienti al Covid. Donald Trump, 74 anni, e la First Lady Melania, 50, sono risultati positivi al Covid-19 nella notte tra giovedì e venerdì. È stato lo stesso presidente ad annunciarlo via Twitter all'una di notte. La coppia presidenziale è stata immediatamente posta in quarantena. Kayleigh McEnany, portavoce dello Studio Ovale, ha riferito ai giornalisti: «Posso dire con sicurezza che vedrete e sentirete il presidente mentre procede con il suo programma di lavoro. Stiamo studiando diverse possibilità per farlo. Ma vuole parlare al popolo americano». Nel frattempo, però, tutti gli impegni pubblici sono stati sospesi. A cominciare dai comizi programmati per la campagna elettorale. Quasi sicuramente verrà annullato il secondo dibattito con Joe Biden, in programma il 15 ottobre, a Miami e forse anche quello del 22 a Nashville. Vedremo se e come proseguirà la campagna. Per il momento dal fronte democratico arrivano «le preghiere» della Speaker Nancy Pelosi, che, però, sottolinea: «Spero che questa sia un'esperienza istruttiva». Biden, risultato negativo al test, è più aspro: «Mi auguro che tutto ciò serva da monito per tutti: mettevi la mascherina». Ora l'amministrazione deve riorganizzarsi, in un clima di grande tensione e di incertezza, come segnala, tra l'altro, Wall Street che ieri ha aperto in perdita, per poi recuperare. Diversi ministri si sono sottoposti al tampone: tutti negativi. Molti capi di Stato e di governo, da Vladimir Putin al turco Recep Tayyip Erdogan al nostro presidente Sergio Mattarella, hanno inviato messaggi per augurare a Trump «pronta guarigione».

E se Donald si aggravasse? L'ipotesi: nuovo candidato. Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 2 ottobre 2020. Donald Trump e la moglie Melania sono entrati in regime di quarantena la notte di giovedì. A norma di protocollo dovranno restare isolati all'interno della Casa Bianca per almeno dieci giorni, e il presidente potrebbe tornare alla piena attività pubblica solo dopo due test dal risultato negativo nello spazio di ventiquattro ore. Decine di comizi dovrebbero essere annullati, e il secondo dibattito televisivo con Joe Biden, che è in calendario per il quindici del mese è ora a rischio. Questa è comunque l'ipotesi di minor impatto, quella che tutti augurano al leader statunitense. Il capo di gabinetto Mark Meadows ha detto ieri che Trump continuerà ad esercitare le sue funzioni istituzionali durante l'isolamento, e che non detterà la lettera di consegna con la quale un presidente autorizza il passaggio di potere temporaneo nelle mani del suo vice. Le cose si complicherebbero invece nel caso del tutto ipotetico di un aggravamento delle condizioni di salute di Trump, al punto che il presidente fosse incapacitato a governare. La successione lo sappiamo, spetterebbe al suo vice Mike Pence il quale ieri è risultato negativo al test per il coronavirus, e in via sussidiaria alla leader della camera dei rappresentanti, che al momento è un'avversaria politica: la democratica Nancy Pelosi. La procedura è stata disegnata nel 1967, due anni dopo l'imbarazzante attesa che aveva accompagnato l'assassinio di John Kennedy, quando per alcune ore non si sapeva se anche il suo vice Johnson era rimasto vittima dell'attentato. Negli anni successivi la sua applicazione è stata invocata più volte per supposta incapacità fisica o mentale dei presidenti in carica, ma è stata attivata solo tre volte, per breve tempo. Ronald Reagan firmò la dichiarazione a favore di Bush senior nel 1985 prima di un intervento chirurgico per la rimozione di un tumore al colon. Il figlio di quest' ultimo: George W. Bush lasciò lo scettro nelle mani di Dick Cheney per due volte nel 2002 e nel 2007 alla vigilia di altrettante colonoscopie. Ma cosa accadrebbe questa volta al processo elettorale se Trump non potesse più essere il candidato repubblicano? L'unico organo in grado di sospendere e rinviare la data delle elezioni è la Camera, la cui maggioranza democratica non ha nessun interesse a votare un rinvio, e quindi è facile immaginare che il voto resterà fissato al tre di novembre. I repubblicani in questo caso disperato dovranno scegliere un nuovo candidato, e la disciplina è regolata dallo statuto della direzione del partito all'articolo nove. Le scelte sono due: convocare una nuova convention o chiedere che i 168 membri del Comitato nazionale ne scelgano uno con un voto. La prima strada non è percorribile dati i tempi ristretti, mentre il voto può essere istruito con soli cinque giorni di anticipo. L'ipotesi è chiara sulla carta, ma nella realtà non è mai stata testata. I democratici nella campagna elettorale del 1972 si trovarono di fronte all'improvvisa defezione del candidato alla vice presidenza Thomas Eagleton, la cui condizione di precarietà mentale era stata denunciata dalla stampa. Il partito risolse l'emergenza con molto imbarazzo e con un intervento di autorità che consegnò la candidatura all'ex ambasciatore Sargent Shiver, del clan dei Kennedy. Se questa volta i repubblicani dovessero scegliere di seguire lo statuto e sottoporre la verosimile promozione di Mike Pence al voto, rischierebbero di aprire le porte di un vespaio. La selezione che è stata sigillata dalla convention di agosto tornerebbe nelle mani dei delegati dei singoli stati, senza il supporto centripeto che Trump ha esercitato negli ultimi cinque anni sul partito, con la possibilità che vecchie faide e nuova fronda si incrocino in un processo autodistruttivo.

Usa 2020, responsabile campagna Trump positivo al coronavirus. (LaPresse/AP il 3 ottobre 2020) - Il responsabile della campagna del presidente Donald Trump, Bill Stepien, è risultato positivo al coronavirus. Il portavoce della campagna Tim Murtaugh ha confermato la notizia, riportata da Politico, che ha riferito che Stepien ha avuto la sua diagnosi venerdì e sta avendo "lievi sintomi simil-influenzali". Anche Ronna McDaniel, presidente del Comitato nazionale repubblicano, ha annunciato venerdì di essere risultata positiva, unendosi a Trump, la first lady, l'assistente di Trump Hope Hicks e numerosi altri.

Febbre e allarme sull'Air Force One: consigliera malata, lui non si fermò. Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 3 ottobre 2020. Con un tweet all'una meno dieci di venerdì notte, Donald Trump annuncia al mondo: «La First Lady e io siamo risultati positivi al Covid-19. Cominceremo la quarantena e la cura immediatamente. Supereremo tutto ciò insieme». Quaranta minuti più tardi, all'1.27, anche Melania Trump si affaccia su Twitter: «Come è successo a molti americani quest' anno, il presidente e io siamo in quarantena a casa... Stiamo bene e abbiamo rinviato i nostri impegni. Per favore restate al sicuro e supereremo tutto ciò insieme». Inizia così una delle giornate più drammatiche della storia recente americana. Terminerà in serata, con l'elicottero Marine One che preleva Trump e lo trasporta al Walter Reed Medical Center, appena fuori Washington. Ma ancora fino alla serata di giovedì il presidente ha pubblicamente disatteso le raccomandazioni base degli scienziati americani e di tutto il mondo. Niente mascherina sull'Air Force One, mentre volava avanti e indietro da Washington per mezza America. Martedì sera tutto il clan Trump, con l'eccezione parziale di Melania, si era presentato senza alcuna protezione a Cleveland, in Ohio, per assistere al primo dibattito televisivo con Joe Biden. Mercoledì, a Minneapolis, Trump si era immerso in un evento privato e poi in un comizio abbastanza affollato a Duluth, in Minnesota. Sempre senza precauzioni, come ha fatto per mesi, come se non fosse il leader di un Paese con oltre 7 milioni di contagiati e più di 200 mila morti per il virus. Ma proprio mercoledì sera, di ritorno dal Minnesota, a bordo dell'aereo presidenziale, Hope Hicks, 31 anni, stretta collaboratrice di Trump, non si sente bene. Il New York Times racconta che i medici le misurano la temperatura. Hope ha la febbre. Viene allora confinata in una cabina isolata, mentre nell'ufficio allestito per il presidente i consiglieri sono impegnati in un'animata discussione. Ovviamente senza mascherine. Appena arrivata a Washington Hope Hicks viene sottoposta al tampone. Il referto del test, «contagiata», arriva giovedì, ma non sappiamo esattamente a che ora. Tuttavia fin dalla prima i dottori e i servizi segreti della Casa Bianca entrano in stato di piena allerta. Occorre tracciare le persone entrate in contatto con Hicks e, naturalmente, con Trump. Nel frattempo vengono disposte verifiche in serie nel circolo più ristretto del presidente. Il vice Mike Pence e la moglie Karen sono negativi, così come Ivanka Trump e il marito Jared Kushner. Tutto a posto anche per Barron, il figlio quattordicenne di Melania e di The Donald. I controlli si estendono anche ad alcuni ministri, come il Segretario di Stato, Mike Pompeo e il titolare del Tesoro, Steven Mnuchin: nessuna traccia del virus. Sta di fatto che per tutto il giorno dalla Casa Bianca non filtra nulla. Nessuno sente il bisogno di avvertire, non diciamo i giornalisti del pool, ma almeno il comitato elettorale di Joe Biden, nonostante le due squadre di consiglieri e le rispettive famiglie, martedì 29 settembre, abbiano condiviso la platea di Cleveland. Il candidato democratico e sua moglie Jill faranno comunque sapere all'ora di pranzo di venerdì di non essere infetti. E Trump? Chiaramente viene subito informato che sono in corso test a tappeto nell'amministrazione. In ogni caso, anziché fermarsi e aspettare, continua il suo programma secondo l'agenda. Parte per il suo resort a Bedminster, in New Jersey, per una raccolta fondi con facoltosi donatori. Appare stanco, apatico, «lethargic» come riferisce un testimone. La sua voce sembra più roca del solito in una telefonata con un gruppo di supporter dell'Iowa e, in serata, nel collegamento con Sean Hannity di Fox News. L'opinione pubblica, invece, viene informata solo alle 20, quando l'agenzia Bloomberg batte la notizia: «Hope è positiva». In quel momento gli invitati all'Alfred Memorial Foundation Dinner, organizzazione cattolica di New York, stanno ascoltando il discorso pre registrato di Trump. Il presidente parla anche del coronavirus: «Voglio solo dirvi che la fine della pandemia è in vista e il prossimo anno sarà uno dei migliori nella storia del nostro Paese».

Da “il Giornale” il 3 ottobre 2020. Sempre insieme in questo finale di campagna elettorale. Dai comizi al dibattito televisivo. La consigliera di Trump, Hope Hicks, che si ritiene abbia contagiato il presidente con il coronavirus, nelle ultime settimane è stata l'ombra di Donald. Ha viaggiato sull'Air Force One con il presidente e il suo staff diverse volte solo questa settimana. Sono stati insieme in Pennsylvania sabato - dove fra l'altro Hicks è stata fotografata, senza mascherina, al fianco di altri consiglieri di Trump - e sono stati insieme a Cleveland, per il primo duello con l'avversario Joe Biden martedì, e il giorno successivo nel Minnesota per un altro appuntamento della campagna elettorale. Hicks, 31 anni, era stata portavoce del presidente dall'inizio della sua campagna elettorale del 2016, quando di anni ne aveva appena 27, e poi responsabile della comunicazione della Casa Bianca, prima di lasciare l'incarico nel marzo del 2018, per andare a lavorare a Fox News dopo aver ammesso di aver detto «piccole bugie» al capo della Casa Bianca, a causa dello scandalo Russiagate. Era tornata al fianco di Trump lo scorso febbraio, come consigliera. Nata a Greenwich, nel Connecticut, laureata in lingua e letteratura inglese alla Southern Methodist University di Dallas, Hicks ha un passato da modella. Un lavoro svolto fin da bambina, posando per campagne pubblicitarie di moda per adolescenti. E poi, quando lei stessa è diventata una teeager, per lo stilista americano Ralph Lauren e i magazzini Macy' s. I suoi esordi nel mondo della comunicazione riguardano società di pubbliche relazioni a New York. Un interesse coltivato in famiglia visto che Hicks è figlia del vicepresidente della comunicazione della Nfl, la principale lega di Football Americano. L'incontro fatale con l'altra famiglia, i potenti Trump, arriva nel 2014, quando per conto di un'altra azienda, la giovane Hope si trova a dover fare da ufficio stampa per promuovere la linea di moda di lusso della figlia di Donald, Ivanka. A ottobre di quell'anno viene assunta a tempo pieno dalla Trump Organization e a gennaio 2015 è promossa a portavoce della campagna presidenziale di Donald Trump, il suo primo incarico politico.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 3 ottobre 2020. Tutti gli sguardi sono puntati su di lei, e Hope Hicks odia essere al centro dell'attenzione. Nel 2015 a ventisei anni di età, con un curriculum di pubbliche relazioni tutte nel campo della moda, l'ex modella e amica intima di Ivanka fu catapultata all'improvviso da Donald Trump nella ribalta politica, con la nomina a portavoce della campagna presidenziale dell'imprenditore. Ieri dopo quattro anni di intermittente e fedele servizio alla Casa Bianca, la giovane donna è diventata all'improvviso la sospetta untrice che ha portato il coronavirus all'interno della dimora presidenziale, e che ha contagiato Donald e sua moglie Melania. Trump l'ha scelta per la sua leggendaria efficienza nello sbarrare le porte di accesso, prima della Trump Tower, poi dell'ufficio ovale, alle centinaia di persone che ogni giorno bussano alla porta del potere e che vengono respinte come non grate dall'attuale presidente. In questa veste Hicks ha servito con assoluta invisibilità, anche se nel frattempo ha goduto della massima fiducia da parte di Trump. È stata una presenza costante nelle stanze più intime della East Wing, è ha goduto di una prossimità fisica all'ufficio ovale, e di una continuità nella posizione di lavoro, poco comune per il boss che ama gridare: «Sei licenziato!». La familiarità con la quale Donald Trump la tratta aveva dato adito già due anni fa ad insinuazioni sulla vera natura del rapporto che li lega, e l'ipotesi di una trasmissione intima e diretta del virus tra i due è tornata ad agitare le pagine dei siti social ieri, mentre si diffondeva la notizia della malattia che ha colpito il presidente in una misura maggiore che la sua giovane moglie. È stata Hicks a lasciare l'incarico con una certa sorpresa da parte della squadra di governo a marzo del 2018. Disse che aveva meditato la decisione a lungo, e che non aveva nessun motivo di attrito che la spingeva. Infatti anche nel periodo di interregno è rimasta in stretto contatto: è stata assunta per due anni come vice presidente della Fox News, con la funzione di garantire una linea di comunicazione diretta con l'ufficio ovale. A febbraio di quest' anno la nuova chiamata a Washington, questa volta nella funzione di assistente di Jared Kushner e consigliera di Donald Trump. Il video clip che ieri ha fatto il giro del mondo la ritrae al momento di salire sull'aereo presidenziale alla volta del dibattito di Cleveland, affiancata dal genero del presidente. Ma è stata davvero lei a contagiare la coppia? I sospetti sorgono dal fatto che mercoledì sera al ritorno a Washington Hope è stata la prima a bordo dell'Air Force One ad accusare sintomi, e a segregarsi in uno spazio riservato. Questo non le aveva impedito però di accompagnare Trump nel comizio e nella raccolta di fondi elettorali in Minnesota dopo il dibattito in Ohio. La conferma della positività è arrivata solo giovedì mattina, e ancora una volta la reazione della squadra presidenziale è stata sorprendente. Trump ha potuto di nuovo volare alla volta della sua proprietà in New Jersey per un altro incontro con i donatori. La mancanza di rispetto del protocollo sanitario è stata arrogante e totale all'interno della Casa Bianca, fino all'ultima esibizione provocatoria del capo di gabinetto Mark Meadows, il quale è uscito ieri a volto scoperto dall'edificio per un breve comunicato ai media raccolti nel prato. Sbrogliare la matassa dei contatti in cerca del paziente zero di questa vicenda potrebbe rivelarsi molto complicato. Hope Hicks alla fine potrebbe risultare la vittima, piuttosto che l'artefice del contagio. Vittima di un atto di fedeltà che nel maniacale desiderio di controllo di Donald Trump, ha compreso finora anche il rifiuto delle norme più ovvie di autodifesa dal virus.

Da repubblica.it il 2 ottobre 2020. Hope Hicks, ex modella di 31 anni, è stata capo della comunicazione della Casa Bianca salvo uscire di scena nel 2018 dopo aver ammesso di aver mentito all'intelligence per proteggere il presidente. Potrebbe essere stata lei a contagiare Trump e Melania. Hicks è stata sottoposta al tampone dopo aver avvertito i primi sintomi della malattia già mercoledì scorso. Poco prima che venisse testato, lo stesso Trump aveva twittato: "Hope Hicks, che ha lavorato così duramente senza nemmeno prendersi una piccola pausa, è appena risultata positiva al Covid 19. Terribile!". Hicks, secondo le ultime notizie, non è asintomatica. Fedelissima della prima ora, amica intima della "First Daughter" Ivanka, in passato si era occupata delle public relation della Trump Organization e nel 2016 era stata portavoce della prima campagna presidenzale e poi direttrice delle comunicazioni strategiche. Da qualche mese Trump l'aveva richiamata proprio per dare una mano nella nuova campagna. E lei la settimana scorsa è stata sempre al suo fianco. Hope Hicks era "molto contagiosa" mercoledì scorso quando ha viaggiato in elicottero e in aereo con il presidente e altri consiglieri per andare in Minnesota. Poche ore dopo è risultata positiva al test. "Sono stati in contatto in uno spazio chiuso con qualcuno che era nel picco del virus, visto che noi riteniamo che il momento in cui si è più contagiosi è il giorno in cui si sviluppano i sintomi", ha detto uno degli esperti medici della Cnn. Hicks che ha accompagnato Trump anche al dibattito a Cleveland, è stata vista salire sul Marine One, l'elicottero presidenziale, con Jared Kushner, Dan Scavino e Nicholas Luna, tutti senza mascherina. Secondo il New York Times Hicks mercoledì Hicks è stata messa in quarantena sul volo di ritorno a Washington per poi sbarcare dall'ingresso posteriore dell'aereo. La diagnosi positiva è arrivata giovedì.

Al dibattito con Joe Biden. Hicks ha anche accompagnato il signor Trump al primo dibattito presidenziale contro l'ex vicepresidente Joe Biden, il candidato democratico, martedì in Ohio. La partecipazione all'evento è stata notevolmente ridotta per prevenire la diffusione del coronavirus ma Trump voleva persone tra il pubblico. In molti hanno abbracciato e toccato Hicks. "È una persona molto calorosa, non si risparmia se qualcuno le si avvicina", ha detto Trump.

"Una delle poche con la mascherina". Secondo i suoi colleghi, Hicks è una dei pochi assistenti della Casa Bianca che hanno indossato (sporadicamente) le mascherine durante le riunioni. Ma è stata anche fotografata vicino a Trump senza.

La conferma da Melania Trump. Trump, anche il figlio 14enne Barron è stato positivo al Coronavirus: “Ora è guarito”. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2020. Non solo Donald e Melania Trump. Anche il figlio Barron, 14 anni, è stato positivo al Coronavirus. A confermarlo è stata la first lady in tweet col quale ha spiegato che il tampone, suo e del figlio, è ora negativo. Melania Trump ha raccontato il tutto con un post dal titolo “La mia esperienza con il Covid”, dove ha rivelato che il figlio, dopo un primo tampone negativo, è poi risultato positivo ma senza sintomi. “Per fortuna è un ragazzo forte, e non ha mostrato sintomi”, ha infatti sottolineato la first lady, che ritiene “in qualche modo” di esser stata “felice del fatto che tutti e tre abbiamo attraversato questa prova nello stesso momento, così che abbiamo potuto prenderci cura di noi stessi e passare del tempo insieme”. Ai giornalisti che gli hanno chiesto notizie sullo stato di salute del figlio, il presidente degli Stati Uniti ha spiegato che “Barron sta bene”. Trump è in partenza per l’Iowa dove è atteso per un nuovo comizio elettorale in vista delle elezioni del 3 novembre.

Melania Trump e il virus: "Curata in modo naturale, con vitamine e cibo sano". La First Lady racconta in un articolo la sua esperienza come malata di Covid-19: "Sono stata fortunata perché ho avuto sintomi lievi". Anna Lombardi su La Repubblica il 15 ottobre 2020. «Dieta, aria fresca e vitamine. Ecco cosa serve a mantenere il corpo sano»: pure in tempi di Covid. Almeno secondo Melania Trump, contagiata dal coronavirus insieme al marito Donald e al figlio Barron. La First Lady ha infatti raccontato per la prima volta e in forma diretta, con un articolo firmato da lei (ma quasi certamente scritto da un ghost writer), pubblicato sito della Casa Bianca, la sua esperienza di malata di Covid. Riducendo a poca cosa la sua positività, proprio come The Donald, pur colpito in maniera più grave, e già tornato a far campagna elettorale. Certo, la moglie del presidente è stata colpita in forma lieve, come lei stessa racconta: «Sono stata fortunata perché ho avuto sintomi minimi ma ravvicinati, tanto da avermi fatto sentire su una specie di ottovolante. Ho avuto dolori muscolari, tosse e mal di testa e mi sono sentita davvero molto stanca». Niente di grave, comunque. Al punto di non aver nemmeno avuto bisogno di medicine particolari: «Ho scelto di curarmi in modo naturale, optando per vitamine e cibo sano». D’altronde, proprio come il presidente, aveva a disposizione le migliori cure, come conferma lei stessa: «Abbiamo avuto meravigliosi custodi della nostra salute, a cui saremo per sempre grati per le cure e la discrezione professionale». II massimo di empatia per un Paese dove i contagi sfiorano gli 8 milioni e ci sono stati ormai già oltre 217mila morti, però, si limita all’immagine: «È stata una sensazione insolita essere la paziente e non chi incoraggia la nazione a stare in salute e al sicuro». Affermazione piuttosto bizzarra, visto che lei non ha mai parlato in precedenza della malattia e il marito-presidente ha scelto di levarsi la mascherina quando era ancora positivo, subito dopo essere uscito dall’ospedale. La preoccupazione di Melania, naturalmente, è stata soprattutto per il figlio quattordicenne Barron, la cui positività è stata resa pubblica solo ieri, quando pure il suo test è tornato negativo, col padre a parlarne durante il comizio di Des Moines, in Iowa, dove ha detto: «Anche Barron ha avuto il virus cinese. Ma i ragazzi devono tornare a scuola». Melania racconta che inizialmente il ragazzo è risultato negativo, ma due giorni dopo è risultato positivo anche lui: «Per fortuna è un adolescente forte e non ha avuto sintomi». Completando così il quadretto familiare: «In un certo senso sono stata contenta che noi tre abbiamo affrontato tutto questo allo stesso momento. Ci siamo presi cura gli uni degli altri e abbiamo passato più tempo insieme». Come ha impiegato quel tempo? «Quando mio marito è stato ricoverato al Walter Reed ho riflettuto molto sulla mia famiglia. E ho pensato ai tanti colpiti da questa malattia che non fa discriminazioni. Sono tempi difficili ma mi ha aiutato pensare alla bontà e compassione che esiste nel mondo». Tanto da spingerla a rivolgere un vero inno all’America: «Il nostro Paese ha superato molte difficoltà e avversità, e presto il Covid sarà solo un altro ostacolo superato da raccontare alle generazioni future». Concludendo con una ricetta personale: «Incoraggio tutti a continuare a vivere nella maniera più sana possibile. Una dieta equilibrata, aria fresca e vitamine sono davvero fondamentali per mantenere il nostro corpo sano. Insieme a compassione e umiltà, altrettanto importanti per mantenere forte la mente». 

Donald e Melania Trump positivi al coronavirus - i commenti su Twitter. Coronavirus, Joe Biden è negativo. (LaPresse il 2 ottobre 2020) - Il candidato dem alla Casa Bianca, Joe Biden, e la moglie Jill, sono risultati negativi al coronavirus. Lo ha riferito un membro della campagna elettorale citato da Nbc. I due sono stati sottoposti al test dopo essere entrati in contatto con Donald Trump in occasione del dibattito di martedì scorso. "Sono lieto di fare sapere che Jill e io siamo risultati negativi al Covid-19. Grazie a tutti per i vostri messaggi di preoccupazione. Spero che questo serva da promemoria: indossate la mascherina, mantenete le distanze sociali e lavatevi le mani". Lo ha scritto su Twitter il candidato dem alla Casa Bianca, Joe Biden. 

DAGONEWSil 2 ottobre 2020. Donald Trump non ha fatto in tempo ad annunciare che lei e Melania hanno contratto il coronavirus che il web si è scatenato con una serie di meme e commenti esilaranti sul Presidente. Centinaia di meme hanno invaso i social media, inclusa una vignetta del presidente che beve una bottiglia di candeggina o viene raffigurato nudo sul virus. L'attrice e attivista Sophia Bush, 38 anni, ha perculato Trump in un tweet: «È ancora una “bufala dei democratici”? Hai ancora intenzione di prendere in giro le persone che indossano le mascherine? Ti dispiace di aver mentito al popolo americano per mesi?». Più tagliente il conduttore radiofonico e televisivo Scott Nevins che ha twittato: «Ancora una volta, una bella giovane donna ha messo nei guai Donald Trump perché non indossava alcuna protezione».

Massimo Falcioni per tvblog.it il 4 ottobre 2020. Dove c’è Dago, c’è scompiglio. E grazie al cielo, verrebbe da aggiungere. Roberto D’Agostino va ospite ad Oggi è un altro giorno e, oltre a regalare perle sparse qua e là, provoca la scomposta reazione del corrispondente da New York Claudio Pagliara. Si discute di Donald Trump e della positività al covid. Il fondatore di Dagospia parte subito all’attacco e accusa il presidente degli Stati Uniti di negazionismo. “Ha sempre cercato di negare, gli scontri con Anthony Fauci sono stati continui. La scelta era tra l’economia e la vita, purtroppo la morte si è messa in mezzo”. Pagliara a quel punto riprende la parola, visibilmente stizzito. “Scusate, ma da corrispondente ho seguito bene come ha gestito la pandemia Trump. Definirlo negazionista è assolutamente sbagliato, irrispettoso e irriguardoso nei confronti di un presidente che ha chiuso per un mese e mezzo il Paese. Non ha mai negato l’esistenza del virus, questi termini non sono appropriati”. D’Agostino però non si rassegna e ricorda i continui rifiuti di Trump ad indossare la mascherina in appuntamenti pubblici. “Non indossare la mascherina non vuol dire essere negazionista”, ribatte Pagliara. “Lo accusano di aver preso la questione alla leggera, è ben diverso. Fauci è il capo della task force della Casa Bianca. Ci sono state differenze di vedute, ma lo ha scelto Trump. Le cose vanno conosciute prima di raggiungere sentenze così sommarie”. Imbarazzo in studio, ma anche il primo vero episodio degno di nota in quasi un mese di messa in onda.

Da repubblica.it il 20 ottobre 2020. Braccio di ferro tra Trump e Fauci quando mancano 15 giorni all'Election Day del 3 novembre. Il presidente americano da mesi tenta di screditare il popolare virologo a capo del National Institue of Allergy and Infectious Diseases. "Lui e quegli idioti - ha detto ieri durante una telefonata con il suo team elettorale -. Ogni volta che va in televisione c'è sempre una bomba. È un disastro. Ma sarebbe una bomba ancora più grande se lo licenziassi. È lì da 500 anni. Se l'avessimo ascoltato avremmo avuto 700 o 800 mila morti". "La gente è stanca del Covid", insiste al telefono il presidente, quando gli Stati Uniti hanno da poco superato di gran lunga i 220mila morti e gli 8,4 milioni di contagi. L'attacco all'immunologo, membro della task force della Casa Bianca contro il coronavirus, arriva il giorno dopo l'intervista di Fauci alla Cbs, in cui lo scienziato si è detto assolutamente non sorpreso dal fatto che il presidente abbia contratto il virus per la sua partecipazione a grandi assembramenti. Ha espresso anche il suo disappunto per l'inserimento di sue parole in uno spot elettorale dedicato alla guarigione di Trump. L'immunologo compare in un video di 30 secondi diffuso in Michigan, in cui sembra che elogi la reazione del presidente alla pandemia. "Non posso immaginare che qualcuno possa fare di più", dice Fauci nella clip. In realtà questo non è altro che un estratto di una vecchia intervista di marzo a Fox news. Il presidente fa un passo indietro qualche ora dopo la telefonata, quando atterra in Arizona, per un comizio. "È un brav'uomo", dice ai giornalisti. Salvo poi attaccare lui e Joe Biden un'altra volta, sul palco. "Vuole sentire Fauci", dice sprezzante riferendosi a Biden. E attacca i media: la Nbc e la Cnn per aver coperto la pandemia in modo "aggressivo". In difesa dell'immunologo, il senatore repubblicano del Tennessee, Lamar Alexander, che ha elogiato il medico come uno dei "più illustri funzionari pubblici della nazione''. Alexander ha sottolineato che, se più americani avessero ascoltato il consiglio di Fauci,  "avremmo meno casi di Covid e sarebbe più sicuro tornare a scuola, al lavoro e fuori a mangiare". Biden dal Delaware risponde secco a Trump "Sì, per una volta il presidente ha ragione. Ascolterò la scienza". Il suo team ha elogiato Fauci dicendo che "la leadership sconsiderata e negligente di Trump minaccia di mettere a rischio più vite''.  E continua dicendo che l'attacco alla scienza è l'ultima spiaggia della sua campagna elettorale. Anthony Fauci è uno degli uomini più ascoltati d'America. Le sue parole, sempre asciutte e legate ai dati scientifici, fanno da contraltare a quelle più enfatiche del capo della Casa Bianca, che ha sempre minimizzato la portata della crisi, lasciandosi addirittura qualche volta andare a improbabili consigli sui possibili rimedi contro la malattia. Il 79enne è entrato in contrasto con il presidente in diverse occasioni, fino a chiedersi, in un'intervista alla rivista Science: "Non posso mica togliergli il microfono quando dice cose che non condivido?". Un video in cui Fauci si copriva il volto, per nascondere una risata di disappunto, ha trasformato l'immunologo in una star del web, attirandogli però anche le critiche dei sostenitori del presidente, e anche minacce di morte. Sostenitore della necessità di indossare la mascherina, il virologo è stato un critico della riapertura del Paese, giudicata affrettata; ha espresso allarme per la mancanza di un messaggio coerente da parte delle più alte cariche del governo e ha puntato il dito contro l'evento ospitato dalla Casa Bianca in occasione della nomina del giudice Amy Coney Barrett alla Corte Suprema, definendo l'iniziativa un "super diffusore" di contagio da coronavirus.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 4 ottobre 2020. Regeneron. Questo è il nome dell'azienda di biofarmaceutica che ha prodotto i due tipi di anticorpi monoclonali neutralizzanti dati al presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Il cocktail di anticorpi è un farmaco (si chiama Regn-CoV2), somministrato in un' unica dose di 8 grammi a Trump prima del trasferimento all' ospedale Walter Reed Medical Center. Si tratta di una mossa che ha sorpreso, visto che è ancora nella fase 3 della sperimentazione, ma c' è stata l' autorizzazione da parte della Fda all' uso per il presidente. Evidentemente. La fiducia nei promettenti risultati già ottenuti su 2.000 pazienti, nella fase di sperimentazione, deve essere molto solida per somministrare il medicinale all' uomo più potente del mondo. Ma cosa sono gli anticorpi monoclonali? Si tratta di un prodotto che riproduce, in modo artificiale, la risposta dei nostri anticorpi andando ad attaccare il coronavirus Sars-CoV-2. Tra gli scienziati c' è grande fiducia sul potenziale delle ricerche in corso nel mondo; molti sostengono che solo quando avremo a disposizione entrambe le armi, anticorpo monoclonali e vaccino, avremo vinto la battaglia contro Covid-19. In Italia c' è un progetto di ricerca in fase avanzata al Policlinico Tor Vergata di Roma, la cui sezione di Genetica del Dipartimento di Biomedicina e Prevenzione ha ricevuto di recente il sostegno della Regione Lazio, con un finanziamento di 2 milioni di euro; l' altro studio molto promettente sta avvenendo a Siena, alla Life Sciences, dove di recente c'è stata anche la visita del ministro della Salute, Roberto Speranza. Ma l' accelerazione negli Usa, con la decisione di somministrare a Trump il cocktail di anticorpi monoclonali, rappresenta una svolta. Proprio a fine settembre Regeneron aveva pubblicato una prima relazione sull' esito della sperimentazione, su 2.000 pazienti: il cocktail ha migliorato i sintomi e diminuito sensibilmente la concentrazione del virus nella gola e nelle mucose dei pazienti. Il professor Guido Silvestri, docente negli Usa alla Emory University di Atlanta, osserva sulla sua pagina Facebook: «Tutto fa presagire che questi anticorpi faranno una grande differenza positiva nel gestire la pandemia». Il professor Roberto Burioni, attaccato in passato per il sostegno alla ricerca sugli anticorpi monoclonali: «Qualcuno dovrebbe spiegarmi perché a Trump (al quale auguro pronta guarigione) stanno somministrando un cocktail di anticorpi monoclonali e non il plasma iperimmune che tanto ha glorificato fino a pochi giorni fa».

Anna Guaita per “il Messaggero” il 4 ottobre 2020. Quando si viene alla salute dei presidenti, nessuna Amministrazione è mai stata particolarmente prodiga di informazioni. Ma la Casa Bianca di Donald Trump aggiunge alla tradizionale ritrosia anche una dose di confusione. A sentire i due medici che hanno parlato ieri mattina davanti al colonnato del Walter Reed Hospital, il presidente risultato positivo al covid-19 «sta molto bene». Il medico personale di Trump, Sean Conley ha anzi raccontato che il presidente sosteneva di sentirsi tanto bene da «essere pronto a uscire subito dall' ospedale», desiderio comunque immediatamente ridimensionato dall' equipe medica che intende tenerlo almeno cinque giorni, quanto durerà la terapia d' urto a cui viene sottoposto. Sia il dottor Conley, che il dottor Brian Garibaldi hanno assicurato che tutto procede tranquillamente e che il presidente ha un battito cardiaco e una pressione arteriosa regolari, mentre sia la funzionalità dei reni che del fegato sono normali: «Siamo molto felici dei suoi progressi» ha detto Conley. E tuttavia, in forma privata, fonti della stessa Casa Bianca hanno detto ai giornalisti del pool, il piccolo gruppetto che segue il presidente quotidianamente, che non solo il presidente ha dovuto ricevere ossigeno supplementare venerdì, ma che, contrariamente alle dichiarazioni dei medici, «i suoi parametri vitali nelle ultime 24 ore erano molto preoccupanti e le prossime 48 ore saranno decisive per la sua salute». Lungi dal condividere l' apparente soddisfazione dei medici, la fonte ha affermato: «Non siamo ancora su un chiaro percorso di una piena guarigione». Sembra che la fonte anonima sia stato addirittura il capo dello staff presidenziale, Mark Meadows, la cui voce è stata colta dai microfoni proprio mentre diceva che voleva essere citato solo «off the record». Peraltro anche i medici hanno concorso a creare confusione, perché Conley, parlando alle 11,30 di sabato, ha detto che la diagnosi risaliva a 72 ore prima e Garibaldi ha comunicato che il presidente aveva ricevuto una prima dose di antivirale Remdesivir appena arrivato in ospedale e che aveva cominciato 48 ore prima alla Casa Bianca la terapia con il Regn-Cov2, il cocktail sperimentale di due anticorpi monoclonali. Ma questa cronologia non corrisponde affatto a quello che Trump stesso ha dichiarato. La Casa Bianca ieri pomeriggio ha tentato di correggere i medici, affermando che si dovevano essere confusi. Se infatti la cronologia fosse quella che hanno detto Conley e Garibaldi, significherebbe come minimo che Trump ha partecipato a comizi e incontri con i suoi sostenitori sapendo di essere positivo al test del covid-19. Il giornalista della Fox Chris Wallace, che ha fatto da moderatore al dibattito dello scorso martedì a Cleveland, ha pubblicamente denunciato che il gruppo presidenziale era arrivato in ritardo alla Cleveland Clinic e per questo non aveva avuto il tempo di sottoporsi al test al quale tutti gli altri si erano dovuti sottoporre prima di poter partecipare allo scontro con il candidato democratico Joe Biden. Wallace ha spiegato che si è dovuti «ricorrere all' honor system», cioè gli organizzatori si sono fidati della parola del presidente, che aveva assicurato che tutti si erano già sottoposti a un test precedentemente. Del gruppo presidenziale però poche ore dopo risultavano positivi sia la consigliera Hope Hicks, che la First Lady Melania, oltre che Trump stesso. Wallace ha lamentato con forza nel suo stesso canale, normalmente molto schierato con Trump, che il gruppo presidenziale non aveva rispettato neanche la regola di indossare la mascherina, mentre quelli al seguito di Biden avevano obbedito alla richiesta della Cleveland Clinic. Ieri pomeriggio, dopo lunghe ore di inusitato silenzio twitter, Trump è ricomparso con un cinguettio: «Medici, infermieri e tutto il grande Walter Reed Medical Center, ed altri di istituzioni analoghe, incredibili, che si sono uniti a loro sono pazzeschi. Enormi progressi sono stati compiuti negli ultimi sei mesi nel combattere questa peste. Con il loro aiuto, mi sento bene». Il messaggio è stato analizzato da esperti che hanno subito suggerito che non era di pugno del presidente, il quale non usa mai le virgole. Intanto varie fonti rivelano che la decisione di ricoverare il presidente era venuta perché le sue condizioni stavano peggiorando, e lui stesso era molto ansioso: «Sto facendo la fine di Stan Chera?» chiedeva ai collaboratori, riferendosi a un imprenditore suo amico ucciso dal virus lo scorso aprile.

Da "tio.ch" il 5 ottobre 2020. Kayleigh McEnany, la portavoce della Casa Bianca, è positiva al coronavirus. Lo ha annunciato la stessa McEnany, sottolineando che si metterà da sola in quarantena, ma continuando a «lavorare per gli americani, da remoto». La donna ha poi aggiunto di non aver, al momento, avuto alcun sintomo. La notizia arriva quattro giorni dopo la positività del Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Da "adnkronos.com" il 5 ottobre 2020. Agenti del Secret Service sono risultati positivi al coronavirus dopo aver viaggiato con il Presidente americano nei suoi tanti, sconsigliati, spostamenti nei giorni precedenti alla conferma della sua infezione, rende noto Cnn a testimonianza della crescente preoccupazione del corpo a protezione degli inquilini della Casa Bianca, per quello che considerano il totale trascurare, da parte del Presidente, della loro salute nel corso dell'epidemia di coronavirus. Un disagio esacerbato ulteriormente dopo lo show di ieri sera, da parte di un non ancora guarito Trump. A complicare ulteriormente le cose, mentre gli agenti positivi sono stati costretti a mettersi in isolamento, altri sono stati costretti a lavorare di più per coprire le assenze. "Non avrebbe dovuto accadere", ha denunciato un agente in servizio dopo lo show di ieri e sottolineando che ai due agenti che si trovavano in auto con il Presidente ieri non è stato chiesto di mettersi in quarantena. "Non vorrei trovarmi accanto a loro", ha aggiunto. "La frustrazione per il modo in cui siamo trattati quando vengono prese decisioni su questa malattia è iniziata prima di ieri. Non siamo merce usa e getta". "Non possiamo dire di no", aggiunge un altro agente, ora in pensione. E infatti gli agenti possono dire di no ad attività che creino pericolo per il presidente, ma non per loro. Quello che è avvenuto ieri è semplicemente sconsiderato. Queste voci hanno costretto la Casa Bianca a precisare che sono state adottate "misure appropriate nello spostamento per proteggere il Presidente e coloro che lo supportano, inclusi dispositivi di protezione. L'equipe medica ha dato il via libera allo spostamento come sicuro".

Trump esce dall'ospedale e saluta i suoi sostenitori. "Ho imparato molto sul Covid". Pubblicato domenica, 04 ottobre 2020 da La Repubblica.it. Donald Trump è uscito dall'ospedale per salutare in auto la folla dei suoi fan. Il presidente americano indossava la mascherina. "E' stato un viaggio interessante, ho imparato molto sul Covid, è stata come una scuola, questa è la vera scuola, un manuale", ha detto il presidente degli Stati Uniti in un video postato su Twitter dall'ospedale nel quale dice di aver imparato la lezione. Trump, sempre attraverso un video, ha ringraziato "tutte le infermiere e i medici" del Walter Reed dove è stato ricoverato per coronavirus, annunciando "una piccola visita a sorpresa ai patrioti" in attesa fuori dall'ospedale. Il capo della Casa Bianca è uscito dall'ospedale in un corteo di auto, salutando giornalisti e sostenitori riuniti fuori. Il presidente Usa non aveva informato il pool di reporter che lo segue della sua visita a sorpresa alla folla di fan che presidia l'ospedale militare dove è stato ricoverato, così hanno riferito i media Usa. Dopo i saluti ai suoi sostenitori, Trump è tornato.  Donald Trump si era sottoposto a un test rapido che aveva dato risultato positivo al coronavirus già giovedì ma non lo aveva rivelato, in attesa dell'esito del tampone. Lo riferiscono alcuni media Usa. Il presidente ha ricevuto il primo esito giovedì sera prima di apparire sulla Fox, dove però non aveva detto nulla, limitandosi a confermare che una delle persone a lui più vicine (Hope Hicks, ndr) era stata contagiata e che attendeva l'esito del tampone in serata o il giorno successivo. Poi ha annunciato la positività su Twitter all'una circa di venerdì notte. Trump aveva chiesto di mantenere il silenzio sul suo primo test, tanto che neppure il capo della sua campagna elettorale, Bill Stepien, sapeva che la stretta collaboratrice del presidente, Hope Hicks, era risultata positiva giovedì mattina.

Donald Trump, bomba di Dagospia: "Melania inviperita per la relazione del marito con la consigliera Hope Hicks". Libero Quotidiano il 05 ottobre 2020. Donald Trump ha nascosto agli Stati Uniti di essere positivo al coronavirus. È quanto emerso dalle indagini dei media americani, che hanno anche messo alle strette l’addetta stampa del presidente per avere una "confessione", ma lei non si è fatta scappare nulla di compromettente e ha continuato a sostenere che “il primo test positivo è stato al rientro o almeno dopo il confronto con Joe Biden”. Ciò però significa che prima del dibattito di martedì scorso Trump aveva quantomeno il sospetto di poter essere positivo, dato che la sua consulente Hope Hicks aveva già ufficialmente contratto il Covid. È stata proprio lei ad infettare il presidente e la first lady Melania, che secondo le ultime indiscrezioni rilanciate da Dagospia è inviperita per la relazione del marito con la consigliera ed ex modella. Si vocifera che all’interno della cerchia ristretta di Trump il clima sia incandescente: Donald e la figlia Ivanka sono per un abbassamento dei toni, mentre Melania sembra aver raggiunto il limite della sopportazione, accusando il marito e la sua consigliera Hope di averla esposta al contagio dopo mesi di negazionismo fuori luogo. La first lady vorrebbe che Trump, oltre ad abbassare i toni, ammetta di aver sbagliato nella gestione del Covid così come fatto da Boris Johnson, ma il presidente americano non può farlo per un semplice motivo: vorrebbe dire condannarsi ad una sconfitta elettorale sicura. 

DAGONEWS il 6 ottobre 2020. Melania Trump ha bollato Stormy Daniels come una “porno puttana” mentre parlava con l’ex amica Stephanie Winston Wolkoff che, dopo aver scodellato un libro in cui racconta i suoi anni accanto alla first lady, adesso ha reso nota una sua intercettazione durante il podcast di Michael Cohen “Mea Culpa”. Nella registrazione si sente Melania dire a Wolkoff che Daniels stava facendo un servizio fotografico per Vogue. «Vai su Google e leggi che Annie Leibovitz sta fotografando la porno puttana che sarà in uno dei numeri di settembre o ottobre» dice Melania. Quando Wolkoff ha chiesto alla first lady di chiarire chi fosse la “porno puttana”, Melania ha detto: «Stormy». Wolkoff a quel punto dice alla sua ex amica: «Chiudi il becco». E Melania ha incalzato: «Oh non l'hai letto. È uscito ieri. Sarà su Vogue. Annie Leibowitz l’ha fotografata».

DAGONEWS il 7 ottobre 2020. In una risposta esplicita su Twitter, Stormy Daniels ha attaccato la first lady Melania Trump per averla definita una "porno mignotta" mentre chiacchierava con un'amica che la registrava di nascosto. "Anche se non sono stata pagata per il sesso [fatto con Trump] e quindi tecnicamente non sono una “prostituta”, preferisco essere definita così ogni giorno piuttosto che essere lei", ha twittato la pornostar che ebbe una relazione clandestina con il miliardario nel 2006, quando era da poco sposato con Melania e il loro figlio Barron era appena nato. Rivolgendosi direttamente a Lady Trump, scrive: "Tu hai venduto la tua figa E la tua anima ... e io sono dalla parte della legge. Continua a parlare di me. Ah, a proposito, mi piacciono le tue nuove tette. Perché non pubblichi (altre) foto nuda?" Daniels ha risposto agli audio pubblicati da Stephanie Winston Wolkoff delle sue conversazioni con Melania: "Se vai su Google, leggerai che Annie Leibovitz ha fatto un servizio fotografico a quella porno mignotta, sarà su ''Vogue'' sarà in uno dei prossimi numeri''.

Dal Daily Mail il 5 ottobre 2020. Trump vuole disperatamente tornare a lavorare alla Casa Bianca e ha chiesto di lasciare l'ospedale domenica, preoccupato che la degenza lo faccia sembrare un "debole'', hanno affermato fonti anonime citate dalla CNN. Stamattina, a partire dalle 6.30, Donald ha lanciato 19 tweet che ricordano all'America di votare per lui e ha replicato alle critiche sulla sua uscita in SUV. Trump si è vantato dei mercati azionari, ha promesso di offrire ulteriori tagli alle tasse e ha elencato "pro life", "space force", "libertà religiosa" e "law and order". Trump sapeva di essere risultato positivo al virus giovedì notte, ma lo ha tenuto segreto durante un'intervista sulla Fox. Altre fonti citate dal Washington Post hanno detto che è stanco di restare in ospedale guardando i notiziari 24 ore su 24 sulle sue condizioni, ma i medici sono preoccupati: se se ne andasse troppo presto, potrebbe essere più dannoso per la sua salute. Il dottor Fauci, che si è scontrato con Trump sulla sua gestione del virus, ha confermato di non essere coinvolto nelle cure del presidente. Domenica sera è apparso a sorpresa fuori dall'ospedale per ringraziare i tifosi che si erano presentati con cartelli, bandiere e striscioni augurandogli una pronta guarigione. Trump ha detto di essere stato toccato dallo sfogo di sostegno e voleva mostrare il suo apprezzamento. Ma i medici dicono che è stato irresponsabile da parte sua entrare nel SUV presidenziale con agenti dei servizi segreti e rischiare di infettarli. 

Piers Morgan per il Daily Mail il 5 ottobre 2020. Dopo otto mesi di diniego, delusione, distrazione e leadership francamente diabolica, ieri, per alcuni secondi, Trump stava finalmente prendendo sul serio il coronavirus. "È stato un’esperienza molto interessante", ha detto in un videomessaggio. 'Ho imparato molto su Covid. L'ho imparato andando davvero a scuola. Questa è la vera scuola. Questa non è la scuola del "leggiamo i libri". La sua affermazione "Ho imparato molto sul Covid" è arrivata dopo i primi esami del suo team medico. 74 anni e obeso, Donald era molto spaventato: temeva che avrebbe fatto la fine di Stan Chera, uno dei suoi amici più stretti, magnate immobiliari di New York, morto ad aprile. Le sue paure erano basate su preoccupazioni molto reali, dopo aver sviluppato febbre alta, tosse e affaticamento e i suoi livelli di ossigeno sono diminuiti in modo significativo. Sì, era scandalosamente, ingiustamente tardi, per il presidente svegliarsi e annusare il caffè corona, dopo che oltre 200.000 persone in America sono già morte. Ma meglio tardi che mai. E con il virus che continua a imperversare furiosamente negli Stati Uniti, la conversione di Trump a "credente covid’’ non poteva arrivare in un momento più cruciale. Ma mi sbagliavo. La scorsa notte Trump ha infranto le regole di quarantena per lasciare la sua suite d'ospedale, ancora infetto dal virus, per fare un giro in modo da poter salutare i suoi fan fuori. "Che cazzo stava pensando?" La risposta è tristemente ovvia: stava pensando, ancora una volta, solo a se stesso. Trump sa di essere in guai disperati con la sua campagna elettorale. A soli 30 giorni dalla fine, è molto dietro al suo avversario democratico Joe Biden nei sondaggi, e il divario si è notevolmente ampliato dopo il primo caotico dibattito presidenziale della scorsa settimana in cui Trump si è comportato come un odioso bullo scolastico troppo cresciuto. Quindi, per lui ora essere ricoverato in ospedale con il virus che per la maggior parte dell'anno ha cercato di sminuire, è il peggior incubo in assoluto di Trump. Sa che significa che l'unica cosa di cui ora qualcuno parlerà nelle restanti quattro settimane di questa campagna elettorale è il coronavirus e la sua terribile gestione. Ironia della sorte, nel suo ultimo discorso prima di risultare positivo, Trump si è vantato che la pandemia stava volgendo al termine. "Voglio solo dire", ha detto agli ospiti tramite collegamento video alla cena annuale di Al Smith giovedì, "che la fine della pandemia è in vista e il prossimo anno sarà uno dei più grandi anni nella storia del nostro nazione." È difficile immaginare un colpo più dannoso a queste due affermazioni quando è risultato positivo al virus poche ore dopo. Soprattutto perché è stato rapidamente raggiunto nella lista delle infezioni da decine dei suoi potenti aiutanti e amici politici che hanno partecipato all'evento Rose Garden che ha ospitato domenica scorsa per la sua nominata alla Corte Suprema, il giudice Amy Coney Barrett, dove 150 persone si sono mescolate, si sono abbracciate e hanno stretto la mano - la maggior parte senza maschere. Tra gli ospiti che da allora sono risultati positivi ci sono l'ex governatore del New Jersey Chris Christie, i consiglieri della Casa Bianca Hope Hicks e Kellyanne Conway, il presidente dell'Università di Notre Dame e almeno due legislatori repubblicani - il senatore dello Utah Mike Lee e il senatore della Carolina del Nord, Thom Tillis. Il loro disprezzo collettivo anche per le regole di sicurezza e allontanamento sociale del coronavirus ha perfettamente incarnato il rifiuto casuale dell'amministrazione Trump di prendere abbastanza sul serio questo virus. E distrugge l'affermazione del presidente secondo cui la pandemia è quasi finita. Un nuovo sondaggio YouGov rivela che il 59% degli elettori registrati ritiene che il presidente abbia "sottovalutato i rischi di COVID-19" e solo il 21% afferma di essersi "comportato in modo appropriato" rispetto alle maschere e alle distanze sociali. Nonostante tutte le spacconate di Trump al contrario, è chiaro che la maggior parte degli elettori ora lo incolpa per l'entità della devastante perdita di vite umane e dell'economia distrutta causata dal coronavirus. Ecco perché è così disperato di uscire dall'ospedale e mostrare al mondo che è un ragazzo grande, forte e duro che ha battuto il covid. È stato uno spettacolo così spaventoso che ha spinto eminenti capi medici a condannarlo pubblicamente. "Ogni singola persona nel veicolo durante quel 'drive-by' presidenziale completamente inutile deve essere messa in quarantena per 14 giorni'', ha twittato il dottor James Phillips, capo della medicina dei disastri presso la divisione di medicina di emergenza della George Washington University. 'Potrebbero ammalarsi. Possono morire per il teatro politico comandato da Trump. Questa è follia. Phillips ha aggiunto: "Quel SUV presidenziale non è solo a prova di proiettile, ma è ermeticamente sigillato contro gli attacchi chimici. Il rischio di trasmissione di COVID19 all'interno è tanto alto quanto al di fuori delle procedure mediche. L'irresponsabilità è sbalorditiva". Il dottor Craig Spencer, un medico di pronto soccorso a New York e direttore della salute globale in medicina d'urgenza alla Columbia, è rimasto scioccato. Ciò che lo rende ancora peggiore è che il giorno in cui Trump è stato drammaticamente trasportato in ospedale con Marine One, gli Stati Uniti hanno registrato altri 44.000 casi di Covid-19 e 880 morti. Nessuno di questi nuovi pazienti riceverà qualcosa di simile all'assistenza medica dedicata 24 ore su 24 a disposizione del Presidente in un'emergenza nazionale in cui molti sono morti da soli e i pazienti sono isolati dai propri cari in ospedali affollati. Immaginate come devono sentirsi loro e le loro famiglie quando vedono il loro presidente continuare a comportarsi in modo sconsiderato? Le azioni del presidente Trump non sono state solo scioccanti e pericolose, ma hanno anche direttamente violato le linee guida dei Centers for Disease Control and Prevention che affermano che i pazienti Covid dovrebbero rimanere a casa tranne che per ottenere cure mediche. "In generale," dice il sito web del CDC, "il trasporto e il movimento di un paziente con infezione da SARS-CoV-2 sospetta o confermata al di fuori della sua stanza dovrebbero essere limitati a scopi essenziali dal punto di vista medico". Ovviamente, non c'era uno "scopo clinicamente essenziale" nella corsa di Trump. È stata solo una mossa di pubbliche relazioni spudorata e vergognosa per mostrare a tutti che sta "vincendo" contro il virus. Il primo ministro britannico Boris Johnson ha contratto il coronavirus a marzo ed è stato ricoverato in ospedale nove giorni dopo la sua diagnosi, quasi morendo in un reparto di terapia intensiva. Trump non è ancora fuori pericolo in alcun modo, eppure vuole che pensiamo che lo sia ed è pronto a rischiare la vita di coloro che sono incaricati di proteggerlo per dimostrarlo. È difficile immaginare un atto più egoista e narcisistico di negligenza. Eppure non è la prima volta; Trump ha ripetutamente messo i suoi dettagli di protezione a rischio inutile di infezione da covid durante questa crisi. Gli agenti dei servizi segreti sanno che potrebbero dover prendere proiettili per il presidente. Ma non hanno firmato per ricevere proiettili dal presidente. Auguro al presidente Trump una piena guarigione e vergogna a tutti quei vili ipocriti liberali che lo hanno augurato la morte sui social media. Ma le sue azioni di ieri sera hanno dimostrato che in realtà non ha imparato assolutamente nulla sul coronavirus. Non "capisce" e non lo ha mai fatto

New York, le bugie di Trump sono oltre 20mila e formano un muro: ecco il "Wall of Lies". La Repubblica il 4 ottobre 2020. "È il primo anno negli ultimi 51 anni in cui i prezzi dei farmaci sono scesi". "Entro la fine del prossimo anno costruiremo un muro di 50 miglia, farà una grande differenza". "Abbiamo i migliori numeri sulle assunzioni nella storia dello stato della Pennsylvania e di tutto il Paese". Queste sono alcune delle oltre 20mila bugie dette dal presidente Donald Trump da quando è entrato nella Casa Bianca, nel 2017, che sono state affisse su un muro di Brooklyn, a New York. L'installazione artistica si chiama "Wall of Lies", è curata da Radio Free Brooklyn e si basa su una lista stilata dal Washington Post: secondo il quotidiano, il presidente degli Usa avrebbe fatto 20.055 false affermazioni in 1267 giorni.

Dagospia il 5 ottobre 2020. Donald Trump avrebbe tenuto segreto il risultato positivo di un primo test rapido per il Covid-19 ricevuto nella serata di giovedì scorso, prima di un'intervista con Fox News, in attesa dei risultati di altri controlli più approfonditi. E' quanto ha scritto il Wall Street Journal, aggiungendo che Trump - che durante l'intervista parlò di Hope Hicks (contagiata dal coronavirus) - avrebbe detto a un consigliere di tenere segreto l'esito degli esami. Poche ore dopo Fox News, a cui il presidente diceva che avrebbe ricevuto a breve i risultati di un secondo test effettuato, è arrivato il tweet con cui Trump ha annunciato di essere positivo al Covid-19 insieme alla fist lady Melania. Nessuna risposta dalla Casa Bianca alle richieste di un commento da parte del Wall Street Journal e di The Hill. La portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, ha declinato in queste ultime ore le domande dei giornalisti che chiedevano se il presidente si fosse sottoposto ai controlli per il coronavirus prima del dibattito di martedì scorso con Joe Biden o prima della partecipazione giovedì all'evento di raccolta fondi in New Jersey, nel suo golf club a Bedminster. "Non ho intenzione di dare un resoconto dettagliato con gli orari ogni volta che il presidente si sottopone a un test - ha detto - Viene controllato regolarmente e il primo test positivo è arrivato dopo il rientro da Bedminster". "Il primo test positivo - ha insistito - è stato al rientro o almeno dopo Bedminster".

Melanie Mason e Mark Z. Barabak per “Los Angeles Times” il 5 ottobre 2020. La presidenza di Donald Trump è iniziata con una menzogna e ora, migliaia di inesattezze dopo, quella storia di prevaricazione sta minando l'amministrazione proprio nel momento in cui la fiducia è più necessaria. Mentre il presidente continua a subire gli effetti del Covid-19 - la vera portata delle sue condizioni di salute è una delle tante domande senza risposta - i media e il paese si sono persi, sabato, in una nebbia di contraddizioni e disinformazione. Niente di nuovo. A partire da questa estate, il Fact Checker del Washington Post ha registrato più di 20.000 affermazioni false o fuorvianti fatte dal presidente da quando è entrato in carica, una delle ragioni principali per cui sta lottando per la rielezione. Ma questo non ha reso l'offuscamento meno grave. "Ci sono momenti in cui ci si deve fidare del presidente e dell'ufficio di presidenza e della Casa Bianca in generale, perché il Paese ha bisogno di sapere che abbiamo un presidente in grado di assolvere alle sue funzioni", ha detto Kathleen Hall Jamieson, esperta di comunicazioni politiche all'Università della Pennsylvania. "Se quella fiducia non esiste", ha detto, "non possiamo fidarci delle dichiarazioni che ci rassicurano che lui è effettivamente in grado di adempiere ai suoi doveri". Kevin Madden, uno stratega delle comunicazioni con esperienza a Capitol Hill e che è stato al servizio di tre campagne presidenziali repubblicane, è stato ancora più schietto. "I nodi stanno venendo al pettine". Questa non è stata, tuttavia, l'affermazione innocua e facilmente confutabile che il numero di persone presenti all’inaugurazione del mandato di Trump avesse superato tutte le altre nella storia. Piuttosto, si è trattato letteralmente di una questione di vita o di morte che coinvolgeva un virus che ha ucciso più di 209.000 americani e ora infetta il presidente degli Stati Uniti e molte persone potenti nel Partito Repubblicano. Guardando il briefing di sabato con una falange di medici in camice bianco ha dato al dottor Robert Wachter, presidente del dipartimento di medicina dell'UC San Francisco, la sensazione di quello che ha chiamato "déjà vu del CDC" - in riferimento al modo in cui Trump e altri membri dell'amministrazione hanno costantemente sminuito i Centri federali per il controllo e la prevenzione delle malattie. "Qui c'è un'istituzione precedentemente fidata, un medico che parla del presidente, che è impegnato in uno spin totale", ha detto Wachter del dottor Sean Conley, il medico personale di Trump, che subito dopo il briefing ha dovuto chiarire le dichiarazioni evasive ed eccessivamente ottimiste fatte ai giornalisti. "Le persone commettono errori. Succede", ha detto Wachter. "Ma non in situazioni in cui stai per parlare al mondo dello status del presidente. Li fa sembrare ‘la gang che non sapeva sparare’". Judd Deere, vice addetto stampa dell'amministrazione, ha dichiarato: "La Casa Bianca è pienamente impegnata a fornire aggiornamenti trasparenti e regolari sulle condizioni e sulla ripresa del presidente". Trump e il suo team non sono i soli a nascondere important informazioni sanitarie. Il presidente Cleveland subì un intervento chirurgico clandestino su uno yacht per rimuovere un cancro nella sua bocca. Franklin D. Roosevelt nascose i segni esteriori della sua paralisi da poliomielite e non rivelò mai le cattive condizioni di salute, che lo portarono alla morte all'inizio del quarto mandato. Quando Ronald Reagan fu ferito nel 1981, la Casa Bianca nascose quanto fosse vicino alla morte. Ma Trump si distingue, come ha fatto in tanti modi, per il suo voluminoso catalogo di falsità. Un sondaggio Gallup di giugno ha rilevato che solo circa un terzo degli americani, il 36%, considerava il presidente onesto e degno di fiducia. Per fare un confronto, un quarto degli americani ha detto lo stesso sul presidente Clinton dopo il suo impeachment, dopo aver mentito su una relazione con una stagista della Casa Bianca. Le rilevazioni su Trump, e questa non è una sorpresa, riflettono una profonda divisione partigiana. I democratici hanno sempre dato a Trump valutazioni estremamente basse in contrasto alle opinioni molto più favorevoli dei repubblicani. Ma anche alcuni all'interno del GOP hanno iniziato a dubitare del loro leader. Nel 2017, più di 8 repubblicani su 10 pensavano che Trump fosse degno di fiducia; tre anni dopo, quel numero è sceso a circa 7 su 10. Il deficit di verità ha reso più ripida la scalata di Trump alla rielezione. "Come regola generale, la fiducia precede tutto", sostiene David Paleologos, sondaggista della Suffolk University, i cui sondaggi hanno anche rilevato un divario di credibilità presidenziale. "Se le persone saltano giù dal carro della fiducia, le valutazioni sfavorevoli salgono". Joe Biden si è spudoratamente appoggiato alla questione della fiducia. "Tutto quello che ha detto finora è una bugia", ha detto un esasperato candidato democratico durante il dibattito presidenziale della scorsa settimana. "Tutti sanno che è un bugiardo." Normalmente, usare la “parola L” (liar, cioè bugiardo, ndDago) è come lanciare una granata nel mezzo di una campagna. Non è così con questo presidente, sostiene John Anzalone, un sondaggista di Biden. "Abbiamo un avversario che secondo il pubblico americano è un disonesto e un bugiardo", ha detto. "È un gioco leale usare quella parola." Anzalone ha sottolineato che non si stava riferendo in modo specifico ai briefing medici di Trump: la campagna di Biden è stata riadattata in questo momento di emergenza, sono state eliminate anche le sue pubblicità televisive negative. Ma Anzalone ha detto che dubita che la fiducia del pubblico in Trump cambierà molto nel mese prima del giorno delle elezioni. Un portavoce della campagna di Trump, Ken Farnaso, sostiene invece che a contribuire allo scarso appeal di Trump siano stati i giornalisti, che hanno intrapreso una campagna implacabile per abbattere il presidente. "I media non capiranno mai davvero il legame unico che il presidente Trump ha con i cittadini comuni ", ha detto Farnaso. "Il palese pregiudizio e gli infiniti tentativi di manipolare la realtà, come abbiamo visto con la bufala della Russia, dimostrano che è essenziale per il presidente aggirare i media e parlare direttamente al popolo americano". (…) Per quanto riguarda la sua salute, Trump ha fatto aggrottare le sopracciglia a molti nel 2015 rilasciando una lettera del suo medico traboccante di elogi esagerati. A novembre, ha fatto una visita inspiegabile al Walter Reed National Military Medical Center, che il suo medico, Conley, ha vagamente descritto come un "controllo una tantum". Ora quell'opacità sta minando la capacità della Casa Bianca di fugare le preoccupazioni per la salute di Trump e di porre a tacere i dubbi sulla veridicità del suo team medico. "Ci sono stati ampi avvertimenti che la mancanza di credibilità alla Casa Bianca ci sarebbe costata", ha detto Mike McCurry, che ha servito come addetto stampa nell'amministrazione Clinton. "adesso vediamo i risultati. Non crediamo a nulla di ciò che sentiamo sulla salute del presidente e crediamo che nessuno lì ci dica la verità ". Per anni Trump ha cercato di minare i media come fornitori di "notizie false". Ora fa affidamento su molti degli stessi media per assicurare agli americani irritati che il presidente è vivace e sta guarendo rapidamente. Invece, i resoconti di sabato erano pieni con una cascata di dichiarazioni fuorvianti della Casa Bianca e di messaggi incrociati che hanno messo in discussione non solo la salute del presidente ma il funzionamento dell'amministrazione e, oltre a ciò, il paese stesso. "Non sappiamo quanto stia bene il presidente", ha detto Steven White, professore di scienze politiche alla Syracuse University. "È qualcosa che vedi nei regimi autoritari. Non dovresti vederlo nelle democrazie".

Trump positivo, tutti i suoi comportamenti che in Italia sarebbero inammissibili. Le iene News il 04 ottobre 2020. Sono oltre 200mila i morti per Covid negli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump, che ha sempre minimizzato il pericolo anche rifiutandosi di indossare la mascherina, ora lotta in ospedale contro il virus. Da quando ha scoperto che una sua stretta collaboratrice era contagiata non ha fermato i suoi impegni. Infrangendo regole stabilite a livello mondiale dall'Oms, che in Italia gli sarebbero costate care…Donald Trump è positivo al coronavirus, e sia prima che dopo essere entrato in contatto col virus ha adottato atteggiamenti che in Italia sarebbero inammissibili. Forse è anche attraverso i comportamenti dello stesso presidente degli Stati Uniti che si capisce perché il paese è stato così gravemente colpito dal coronavirus, segnando oggi il triste primato di primo posto al mondo per numero di morti (oltre 208mila). Ma andiamo con ordine. La sua stretta collaboratrice Hope Hicks, che lo aveva preparato al dibattito televisivo contro Joe Biden del 29 settembre, scopre di essere positiva giovedì primo ottobre (anche se stava già male dal giorno prima). I due erano stati in contatto mercoledì, durante un viaggio in Minnesota per la campagna elettorale. Il giorno dopo, giovedì primo ottobre, la donna riceve l'esito del test e quando viene comunicato allo staff del presidente, l'elicottero presidenziale "Marine One" è ancora a terra. L'aereo del Presidente decolla comunque quello stesso giorno alla volta del New Jersey, per partecipare a una raccolta fondi. In Italia, in una situazione simile, sarebbe scattato un preciso protocollo: chi era entrato in contatto col positivo sarebbe stato tracciato dalle autorità sanitarie con l'obbligo di restare in casa per 14 giorni, in isolamento fiduciario, in attesa del proprio tampone. Un obbligo stabilito per legge, con tanto di denuncia penale in caso di inosservanza. Torniamo a giovedì scorso, quando Trump scopre di essere entrato in contatto con una persona positiva ma decide comunque di presenziare all’appuntamento elettorale nel New Jersey. Il presidente, sempre allergico all’uso della mascherina, non l’ha indossata neppure quel giorno, e ha stretto le mani a numerosi ospiti, sostenitori della sua campagna per la rielezione alla presidenza. Ancora un altro grave errore, perché i protocolli nostrani prevedono nei luoghi chiusi il rigoroso obbligo di mascherine e il distanziamento sociale di almeno uno-due metri (una misura che a quanto sembra ora è destinata ad essere estesa anche ai luoghi all'aperto). Una "svista" che da noi gli sarebbe costata fino a 1000 euro di multa. E dopo la tavola rotonda coi suoi finanziatori si è concesso persino una partita di golf. Ora Trump è all’ospedale militare Walter Reed, dove la degenza sembra stia proseguendo bene, ma fonti interne raccontano che qualche giorno fa abbia avuto bisogno dell’ossigeno, perché le funzioni vitali erano alquanto compromesse. “Sta andando bene, credo”, ha twittato il presidente dal suo profilo: questa brutta esperienza lo farà diventare più attento e rispettoso delle regole fissate dall'Oms e valide per tutto il mondo? 

Da blitzquotidiano.it il 6 ottobre 2020. Sean Conley dice il vero sulle reali condizioni di Donald Trump? Wahington Post e New York Times, per limitarsi ai più autorevoli, ne mettono in dubbio l’attendibilità. A febbraio 2019 scommetteva sulla salute di ferro di Trump, a dispetto di obesità e colesterolo. Sembra, secondo i critici, obbedire alle veline della Casa Bianca. L’editorialista e medico Leana Wen ha descritto quello di Conley come un “esercizio di opacizzazione che è un insulto per il pubblico e inopportuno data la gravità del momento”. “Se il tuo paziente è il tuo comandante la risposta di solito è "Sì signore”, titola un editoriale del New York Times. “Il presidente Trump durante il suo ricovero è stato un paziente fenomenale”, ha detto Conley, nonostante la fuga in auto per incontrare i fan. “Non ha assolutamente insistito o fatto pressioni per essere dimesso dall’ospedale”, ha giurato.  Ufficiale e medico osteopata, è un veterano dell’Afghanistan e assertore dell’idrossiclorochina come cura contro il Covid-19.

“Trump sta bene”, ma il capo dello staff medico lo ha smentito. Sabato ha fornito un quadro ottimistico, affermando che Trump “sta facendo molto bene” e che è di “ottimo umore”. Ma è inciampato sui tempi della diagnosi prima di dover rettificare e ha dribblato la domanda sull’uso dell’ossigeno. Una versione in contrasto con quella più allarmante riferita poi dal chief of staff Mark Meadows.

Sean Conley, a maggio 2018 Trump lo nomina suo medico. Conley ha assunto l’incarico nel maggio del 2018, dopo che il suo predecessore Ronny L. Jackson fu nominato a capo del dipartimento per i veterani. Anche se fu costretto a ritirare la nomina per le accuse di comportamento inappropriato nel luogo di lavoro. Una brutta storia di distribuzione disinvolta di antidolorifici. Trump lo ripescò promuovendolo assistente del presidente e consigliere medico capo della Casa Bianca: ora corre per un seggio alla Camera in Texas.

Ufficiale medico, il servizio in Afghanistan. Nato in Pennsylvania, Conley ha una laurea in scienze alla University of Notre Dame e una in medicina osteopatica Philadelphia College, ottenuta nel 2006. Da allora ha prestato servizio come medico di emergenza per la Marina Usa. Nel 2013 si è trasferito presso il Naval Medical Center di Portsmouth, in Virginia. In seguito ha lavorato per l’Unità medica multinazionale Nato Role 3 in Afghanistan ed è stato direttore del Combat Trauma Research Group per poco più di due anni.

Approccio olistico alla malattia: tutto è connesso. I medici osteopati hanno un approccio olistico alla malattia, nella convinzione che un essere umano rappresenti un’unità funzionale nella quale tutte le parti sono interconnesse e che possieda dei propri meccanismi di autoregolazione e di autoguarigione. Conley ha attirato l’attenzione dopo aver rivelato in primavera che Trump aveva cominciato a prendere sotto la sua guida l’idrossiclorochina, un antimalarico assunto poi da un altro presidente negazionista, quello del Brasile Jair Bolsonaro. Molti esperti hanno messo in dubbio l’efficacia del farmaco nella prevenzione o nella cura del Covid-19. La Food and Drug Administration aveva avvertito ad aprile che l’idrossiclorochina dovrebbe essere somministrata comunque solo nelle sperimentazioni cliniche o negli ospedali, precisando che può causare problemi di aritmia cardiaca. Nella prima conferenza stampa di sabato, Conley ha riferito che Trump ha chiesto della idrossiclorochina ma che non la sta assumendo. (fonti New York Times, Washington Post, Ansa)

Silvia Turin per il “Corriere della Sera” il 6 ottobre 2020. Quali sintomi si sono trovati davanti i medici dell'ospedale militare Walter Reed National di Washington e quali terapie stanno aiutando il presidente Usa a rimettersi? Basandosi su quella che sembra la ricostruzione cronologica più veritiera e sulle dichiarazioni dello staff medico, Trump è arrivato in ospedale venerdì. Giovedì, dopo l'esito positivo del tampone, i sintomi erano stati una leggera tosse, congestione nasale e affaticamento. Il primo momento difficile sarebbe subentrato venerdì mattina, con febbre alta e saturazione dell'ossigeno scesa al di sotto del 94 per cento. Il presidente avrebbe avuto bisogno di ossigeno supplementare per circa un'ora, finché in serata si è deciso il ricovero. In ospedale la prima notte Trump ha ricevuto una dose di 8 grammi di un cocktail sperimentale di anticorpi e la prima dose di Remdesivir. Gli sono stati somministrati anche zinco, vitamina D, famotidina, melatonina e aspirina. Il Remdesivir è uno dei tre farmaci al mondo che si sono dimostrati scientificamente utili contro il Covid-19 (insieme a desametasone ed enoxaparina): è un antivirale nato contro Ebola, indicato in pazienti adulti con polmonite che richieda ossigenoterapia supplementare ed è in grado di impedire al virus di penetrare nelle cellule e di replicarsi. Il cocktail sperimentale di anticorpi Regeneron (REGN-COV2), prodotto di biotecnologie, è anch' esso uno dei candidati più promettenti: agisce attaccando il virus mentre è in circolo ed è indicato in una fase precoce della malattia. Sabato il livello di ossigeno nel sangue del presidente sarebbe sceso per la seconda volta sotto i valori di guardia. A questo punto, nella giornata forse peggiore per Trump, il presidente avrebbe ricevuto la seconda dose di Remdesivir e lo steroide desametasone. Proprio l'uso dell'ultimo farmaco ha destato qualche preoccupazione: il desametasone viene somministrato solo nelle situazioni più critiche perché il meccanismo di questo derivato del cortisone aiuta a bloccare la risposta abnorme del sistema immunitario nei confronti del SARS-COV-2, risposta che può arrivare a danneggiare i tessuti. Se somministrato in fase precoce, però, può interferire con un sistema immunitario ancora reattivo e impegnato a contrastare le prime fasi dell'attacco virale. Dalla serata di sabato le condizioni di Trump sono migliorate: niente febbre né supporto respiratorio e domenica il «blitz» in macchina all'esterno dell'ospedale per salutare i sostenitori. Lunedì il presidente si è svegliato presto e ha inondato Twitter di slogan elettorali con ritrovato vigore: in serata le dimissioni. 

Peter D'Angelo per “Libero quotidiano” il 6 ottobre 2020. L'idrossiclorochina è il farmaco più discusso da inizio pandemia. In Italia è vietato da una delibera Aifa di maggio. Ma, a leggere l'ultima pubblicazione di uno dei più autorevoli ricercatori della Yale University Harvey Risch, si arriva a ben altra conclusione. Il Dr. Risch è uno degli autori di una meta-analisi scientifica che ha tenuto conto degli studi "randomizzati" sull'efficacia dell'idrossiclorochina. La "meta-analisi" ha un valore superiore rispetto a una singola ricerca perché riunisce più pubblicazioni scientifiche su un certo argomento e ne fa una "sintesi" ponderata. Ecco, combinando i dati di una serie di studi "randomizzati", i ricercatori hanno scoperto che l'uso "precoce" del farmaco da parte di persone non ospedalizzate ha prodotto una riduzione statisticamente significativa del 24% del rischio di infezione, ricovero o morte. Joseph Ladapo (School of Medicine della California, Los Angeles) è il coautore del rapporto che ha mostrato che ci sono «rischi ridotti con l'uso precoce di idrossiclorochina, questa è una prova estremamente importante». Il presidente Trump è stato curato con "anticorpi monoclonali, trattamento in fase sperimentale. Questi anticorpi non entreranno in produzione prima di 4-6 mesi, e difficilmente saranno servibili su larga scala. Al trattamento è stato aggiunto l'antivirale remdesivir e il desametasone, che si somministrano dopo la ospedalizzazione, in fase avanzata della malattia. Chi dovesse risultare positivo al Covid non potrà contare sul trattamento riservato al presidente Usa. Escludendo la pressoché totalità della popolazione dall'accesso immediato agli anticorpi monoclonali, è necessario puntare su strategie solide e fare i conti con farmaci precoci, come l'idrossiclorochina, che possono potenzialmente impedire il ricovero.  Il presidente della commissione tecnico scientifica di Aifa, la Dr.ssa Patrizia Popoli, intervistata da SanitaInformazione.it sull'efficacia dell'idrossiclorochina aveva replicato che «per poter rispondere in maniera adeguata alla domanda se questo farmaco è efficace nel trattamento di questa malattia servono studi clinici controllati (nei quali cioè gli effetti del farmaco vengano confrontati con quelli di un trattamento di controllo) e randomizzati (nei quali cioè l'allocazione dei pazienti nei due gruppi, farmaco sperimentale o controllo, avvenga in maniera casuale). Nel caso dell'idrossiclorochina nessuno dei pochi studi randomizzati fin qui condotti ha mostrato un beneficio del farmaco, mentre in alcuni casi è emersa addirittura un'evidenza di maggiore rischio». Ora la pubblicazione di questa meta-analisi può rappresentare un punto di svolta dal momento che si è tenuto conto di 5 studi clinici "randomizzati", con 5.577 pazienti coinvolti. Il Dr. Risch è chiaro: «Abbiamo scoperto che l'uso ambulatoriale dell'idrossiclorochina per la profilassi o il trattamento precoce di Cocid-19 ha ridotto significativamente il composto di infezione. La nostra meta-analisi ha rilevato un beneficio dal trattamento precoce. Il trattamento è più efficace se il decorso della malattia è appena agli inizi». Inoltre, una seconda meta-analisi è stata pubblicata su MedRxiv sempre su studi "randomizzati", questa volta sull'effetto "preventivo-profilattico" dell'idrossiclorochina. Il capo autore è Miguel A. Hernan della Harvard School of Public Health e arriva alla conclusione che «non si può escludere una moderata riduzione del rischio di Covid-19», insomma l'idrossiclorochina aiuterebbe nella profilassi anche perché potrebbe rendere asintomatica l'infezione acquisita. Questa conclusione ricalca quella di uno dei ricercatori più autorevoli dell'Istituto Superiore di Sanità, Andrea Savarino, che in tempi non sospetti aveva teorizzato attraverso un modello matematico che il farmaco, assunto in profilassi o precocemente, potesse attenuare l'infezione contratta.

La cura di Trump contro il Covid altera il cervello? La pesante accusa. Le Iene News il 10 ottobre 2020. Se lo chiede la speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, che invoca il 25esimo emendamento della Costituzione per rimuovere il presidente Usa dal suo incarico: “i farmaci che prende potrebbero alterare le sue facoltà mentali”. Il Presidente degli Usa Donald Trump è ancora in grado di esercitare i poteri legati alla sua carica? È pesante il sospetto avanzato dalla speaker democratica della Camera Nancy Pelosi, che ha chiesto una commissione di indagine per valutare il ricorso al 25esimo emendamento della Costituzione, per sollevare Trump dalla presidenza. La speaker ha spiegato: “Non so se il Presidente sia nelle condizioni di governare. Secondo alcuni dottori i farmaci che sta assumendo possono alterare le facoltà mentali dei pazienti”. Ma come è stato curato il Presidente, che dieci giorni fa ha ricevuto il primo tampone positivo dopo essere stato contagiato da una sua strettissima collaboratrice? Donald Trump spiega di aver appena terminato di assumere i farmaci di una terapia sperimentale, che non ha ancora ricevuto il via libera della Food & Drug Administration, a base di “anticorpi monoclonali” e un cocktail di altri medicinali, tra cui il Remdesivir. Una cura i cui protocolli prevedono la somministrazione di 2.4 grammi di farmaco e che non avrebbe fatto finora emergere gravi effetti collaterali, anche se il tycoon ne ha assunta una dose più massiccia, circa 8 grammi. Il co-fondatore e direttore scientifico di Regeneron, l’azienda che ha sviluppato questi anticorpi monoclonali, ha spiegato che “esiste un rischio molto, molto limitato” che gli anticorpi provochino danni all’organismo con l’aumento delle dosi assunte, ma la speaker della Camera tira dritto per la sua strada: “Trump è alterato dai farmaci”. A dieci giorni dal primo tampone positivo (e in attesa del primo negativo, che potrebbe arrivare oggi) Donald Trump, uscito dall’ospedale, dovrebbe tornare in pista, partecipando questa sera al primo comizio dopo il coronavirus, in Florida. Nel frattempo è stato annullato il secondo dibattito tv contro Joe Biden, previsto per giovedì. Il Presidente Usa si è infatti rifiutato di svolgerlo in modalità on line, spiegando: “Non ho intenzione di sprecare il mio tempo, non sono contagioso, sto benissimo". La replica del suo sfidante Biden è stata immediata:” è vergognoso che Donald Trump abbia schivato l'unico dibattito in cui erano gli elettori a fare le domande, ma non è una sorpresa. Tutti sanno che il presidente è un bullo con i giornalisti, ma ovviamente non se la sente di rispondere agli elettori".

Il presidente censurato nuovamente da Twitter. Trump come Superman, voleva indossare una sua maglietta uscendo dall’ospedale. Redazione su Il Riformista il 12 Ottobre 2020. Un nuovo capitolo nella battaglia tra Twitter e Donald Trump. Il social network ha infatti segnalato il tweet del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in cui afferma di essere immune al Covid-19. Questo tweet “viola le regole di Twitter sulla diffusione di informazioni fuorvianti e potenzialmente dannose sul Covid-19. Tuttavia, Twitter ha stabilito che potrebbe essere d’interesse del pubblico che il tweet rimanga accessibile”, si legge sul social network, che nasconde il messaggio del tycoon. Trump aveva twittato di essere andato incontro a “una totale e completa approvazione dai medici della Casa Bianca ieri. Questo vuol dire che non posso prenderlo (immune) e che non posso trasmetterlo. Molto bello da sapere”. Non solo. Altro scandalo è nato per le rivelazioni del New York Times: il giornale ha riferito che Trump aveva intenzione indossare una maglietta di Superman sotto la camicia, per poi mostrarla come segno di forza, una volta dimesso dall’ospedale militare Walter Reed. Trump avrebbe condiviso la sua idea in diverse telefonate con i collaboratori, senza poi metterla in pratica: alla base della pensata l’intenzione di non volere apparire fragile agli occhi dell’opinione pubblica dopo il ricovero. Proprio sfruttando la malattia, Trump attacca lo sfidante Joe Biden che “ieri tossiva in modo orribile. Non so che cosa significhi. Ma i media non lo dicono” e “non era una cosa bella da guardare”. Tuttavia, secondo l’ultimo sondaggio Abc-Washington Post, il Dem è avanti 12 punti a livello nazionale, con il 54% dei consensi a fronte del 42% del repubblicano. Ancora una volta il divario è più ampio sul tema della pandemia: l’ex vice di Obama risulta in vantaggio di 17 punti sul Gop per quanto riguarda la gestione del coronavirus.

Coronavirus, Trump: "Sapevo del pericolo, ma ho minimizzato". La rivelazione nel nuovo libro di Bob Woodward. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. Il nuovo libro del giornalista del Watergate Bob Woodward contiene giudizi duri su Trump di molti ex dirigenti della sicurezza. L'ex capo del Pentagono James Mattis lo definisce "pericoloso" e "inadatto" ad essere il commander in chief. L'ex capo della National Intelligence Dan Coat invece, scrive Woodward, "continua a coltivare la segreta convinzione, benchè non supportata da prove di intelligence, che Putin abbia qualcosa su Trump. Come altro spiegare il comportamento del presidente? Coats non è in grado di vedere altre spiegazioni". Il libro mette in imbarazzo Donald Trump. 'Rage' (rabbia) racconta che il presidente ha confidato al leggendario giornalista, che sapeva settimane prima del primo decesso Usa per Covid 19 quanto il virus fosse pericoloso, trasmissibile per via aerea, altamente contagioso e "più fatale di una forte influenza". Nelle anticipazioni del libro diffuse dalla Cnn ammette inoltre di aver "sempre voluto minimizzarlo per non creare panico". Dichiarazioni che contrastano con i frequenti commenti del presidente. "Questa è roba mortale", ha detto Trump a Woodward il 7 febbraio scorso, nel corso di una serie di interviste con il giornalista. Trump ha rivelato di conoscere bene il livello di minaccia del virus prima di quanto precedentemente noto, aggiungendo che il coronavirus è stato forse cinque volte "più mortale" dell'influenza. Le ammissioni di Trump sono in netto contrasto con i suoi frequenti commenti pubblici all'epoca che insistevano sul fatto che il virus "sarebbe scomparso" e che "tutto andasse bene". In “Rage”, Trump dice che il compito di un presidente è "mantenere il nostro Paese al sicuro". Ma all'inizio di febbraio, Trump ha detto a Woodward che sapeva quanto fosse mortale il virus e, a marzo, ha ammesso di aver tenuto nascosta quella conoscenza al pubblico. "Volevo sempre minimizzare", ha detto Trump a Woodward il 19 marzo, anche se giorni prima aveva dichiarato un'emergenza nazionale a causa del virus. "E preferisco ancora sminuire, perché non voglio creare panico". "Donald Trump non ha fuorviato intenzionalmente gli americani sulla gravità del coronavirus", ha detto la portavoce della Casa Bianca Kayleigh McEnany , rispondendo alle anticipazioni di "Rage". Nelle interviste, scrive il Washington Post anticipando i contenuti del libro, Trump parla diffusamente della sua gestione della pandemia e delle relazioni razziali. Inoltre, il libro riporta alcuni estratti delle lettere che Trump ha scambiato con il leader nordcoreano Kim Jong-un .

Paolo Mastrolilli per lastampa.it l'11 settembre 2020. «Cover up», dice Bob Woodward, ossia la stessa colpa che aveva costretto Nixon alle dimissioni per il Watergate. «Cover up», ripete il candidato democratico alla Casa Bianca Biden, definendo «disgustoso» il comportamento di Trump, perché ha nascosto agli americani la verità sul Covid solo per favorire la propria rielezione. «Rage», il libro di Woodward in uscita martedì, contiene molte altre rivelazioni che mettono in dubbio l’adeguatezza del presidente alla sua carica, nelle 9 ore di registrazioni fatte durante 18 interviste. Il virus però è quello che colpisce di più, perché è costato la vita a 200.000 americani, e minaccia di sconfiggere Donald il 3 novembre. Le date sono cruciali. Il 28 gennaio il consigliere per la Sicurezza nazionale O’Brien aveva avvertito Trump che il Covid era il principale pericolo per la sua presidenza. Il 7 febbraio il capo della Casa Bianca aveva detto a Woodward che «questa roba è mortale, molto più dell’influenza». Eppure il 25 febbraio aveva assicurato il paese che tutto era sotto controllo e «il problema sta sparendo. Nel giro di un paio di giorni sarà quasi a zero». Il 19 marzo aveva ammesso con Woodward che le cose si stavano mettendo male: «Non sono solo i vecchi. Anche i giovani, un sacco». Però aveva aggiunto: «Io l’ho minimizzato. Mi piace ancora minimizzarlo, perché non voglio creare il panico». Il 3 aprile aveva ripetuto al pubblico che «sta sparendo», ma il 13 aveva detto a Woodward: «È una cosa orribile. Incredibile». Ieri Trump ha provato a difendersi dicendo che voleva evitare il panico, ma secondo Woodward l’argomento non tiene, perché un conto è mantenere la calma, e un altro mentire. Il primo obiettivo si poteva ottenere spiegando al paese la realtà del pericolo, ma insieme annunciando e applicando un piano serio per contrastarlo. Il cover up invece ha lasciato gli americani indifesi, a partire dai suoi sostenitori, che seguendolo hanno rifiutato le misure più elementari di protezione, tipo le mascherine, oppure sono corsi a riaprire l’economia quando non c’erano ancora le condizioni. Ciò ha provocato migliaia di morti evitabili, che ricadono sulle spalle di Trump. “Rage” però non si limita al Covid. Tra le altre cose, Donald ha rivelato l’esistenza di una nuova arma nucleare devastante di cui nessuno sapeva, che rischia ora di scatenare una corsa al riarmo con Cina e Russia. Ha insultato i generali, dicendo che «sono fighette preoccupate per le loro alleanze, più che i commerci». Ha negato qualunque empatia per i neri: «Ti sei bevuto il Kool-Aid, Bob? No, non credo abbiano problemi». “Rage” rivela che nel 2017 era arrivato così vicino alla guerra con la Corea del Nord, che il capo del Pentagono Mattis dormiva vestito, e aveva avvertito i colleghi della necessità di «un’azione collettiva» per fermarlo. L’ex direttore dell'intelligence nazionale, il repubblicano Coates, vede come unica spiegazione logica del comportamento di Trump con Putin il fatto che Putin ha qualcosa su di lui. Anche Woodward è finito sotto accusa, perché invece di pubblicare le sue interviste e magari salvare vite, le ha tenute per il libro. Lui risponde che doveva verificare la veridicità delle dichiarazioni e metterle nel contesto per far capire ai lettori cosa è accaduto. Ora lo sanno, e il 3 novembre giudicheranno.

Coronavirus, l'annuncio di Trump: "Da Fda ok per terapia al plasma". Trump ha annunciato che la Fda ha dato autorizzazione urgente per la cura con l'utilizzo del plasma dei guariti. E il vaccino potrebbe essere pronto prima delle elezioni presidenziali. Federico Giuliani, Lunedì 24/08/2020 su Il Giornale. Prima il via libera per utilizzare il plasma dei pazienti guariti dal Covid-19 come trattamento contro il coronavirus. Poi lo sprint finale per il vaccino, che potrebbe essere pronto entro il 3 novembre, data delle prossime elezioni presidenziali americane. Sono queste le due armi sanitarie sulle quali avrebbe intenzione di puntare Donald Trump in vista del testa a testa con Joe Biden sempre più imminente e incerto. In attesa dell'antidoto anti Covid, proprio oggi Trump ha effettuato "un annuncio storico". "La Fda ha dato autorizzazione urgente per la cura con l'utilizzo del plasma dei guariti", ha dichiarato il presidente in una conferenza stampa tenuta alla Casa Bianca. Il tycoon ha quindi aggiunto che la cura con il plasma di chi ha sconfitto il virus è la "cura più urgente che possiamo usare in questo momento" per colpire il Sars-Cov-2. Da qui l'invito di The Donald a tutti i guariti dal Covid di donare il plasma così da farlo utilizzare nelle cure. Trump ha inoltre ringraziato la Fda per l'autorizzazione urgente e sottolineato che è stato notato un miglioramento nel 35% dei malati del Covid con l'uso del plasma dei guariti. Fino a questo momento il plasma convalescente è già stato utilizzato per trattare circa 70.000 americani che hanno contratto il coronavirus. L'annuncio è arrivato dopo giorni in cui i funzionari della Casa Bianca hanno parlato di ritardi politicamente motivati da parte della Food and Drug Administration nell'approvazione di un vaccino e di terapie per la malattia provocati per limitare le possibilità di rielezione di Trump. In merito alle pressioni alla Fda, Trump ha precisato che si "è trattato di una scelta coraggiosa che non c'entra con la politica ma è di vita o morte". Ieri il presidente aveva tuttavia accusato "il deep State, o chiunque altro, sopra l'Fda" di rendere "molto difficile per le aziende farmaceutiche convincere la gente a testare i vaccini e le terapie. Ovviamente sperano di ritardare la risposta fino a dopo il 3 novembre. Bisogna concentrarsi sulla velocità e salvare vite umane!". Arriviamo così all'altro grande tema: quello del vaccino. Secondo quanto scrive il Financial Times, l'amministrazione repubblicana sta valutando la possibilità di aggirare i normali standard normativi statunitensi per accelerare sul vaccino sperimentale britannico contro il coronavirus da utilizzare negli Usa prima delle elezioni presidenziali. Il piano prevederebbe che la Food and drug administration assegni già ottobre l'"autorizzazione all'uso di emergenza" al vaccino in fase di sviluppo in una partnership tra AstraZeneca e l'Università di Oxford, sulla base dei risultati di uno studio britannico relativamente piccolo. Lo studio AstraZeneca ha arruolato 10 mila volontari, mentre le agenzie scientifiche del governo degli Stati Uniti sostengono che un vaccino debba essere studiato su 30 mila persone per superare la soglia di autorizzazione.

AstraZeneca sta anche conducendo uno studio più ampio con 30 mila volontari, sebbene i risultati arriveranno dopo lo studio più contenuto. Rendere disponibile un vaccino prima delle elezioni potrebbe consentire a Trump, di affermare di aver invertito la rotta su un virus che ha ucciso più di 170 mila americani a seguito delle critiche diffuse sulla sua gestione della pandemia.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 6 agosto 2020. La giovane mamma è spaventatissima. Racconta che il suo bambino ha avuto un attacco di tosse dal quale non riusciva a riprendersi, confessa fra le lacrime di aver perso la testa, ed essere rimasta paralizzata. Supplica la giovane pediatra di spiegarle come mai l'inalatore non avesse funzionato, cosa può essere successo. La pediatra sembra anche lei smarrita per qualche secondo, poi prende la situazione in mano e si lancia a fare un fuoco di fila di domande e elencare una serie di possibili problemi tecnici... Reazione sbagliata! In questi casi, raccomandano i docenti, la prima reazione del medico deve essere di tranquillizzare la paziente, farle capire che non è sola nella crisi, che nel medico ha un alleato e insieme cercheranno una soluzione. Solo più tardi, la pediatra scoprirà che la paziente era un'attrice, assunta per addestrare i medici più giovani nei casi più disparati, e che stava ripetendo fedelmente il caso di una reale paziente dell'ospedale. Si chiamano pazienti attori o pazienti simulati, e sono una tradizione che negli Usa risale agli anni Sessanta, ma che nella crisi Covid-19 sta registrando una grande diffusione. Numerosi ospedali, dalla California a New York, dall'Arizona all'Alaska, assumono persone disposte a fingersi pazienti per insegnare ai nuovi medici come costruire un buon rapporto con i malati. E non si tratta solo di migliorare le maniere che un medico ha durante le sue visite, ma anche del modo con cui può dover comunicare cattive notizie: «Queste sono conversazioni che i pazienti e i loro familiari ricorderanno per tutta la vita spiega la professoressa Julia Vermyen docente di medicina ospedaliera alla Chicago University -. E i giovani medici in genere fanno l'errore di investirli con una valanga di informazioni tecniche, invece che dare loro conforto e far loro capire che non saranno soli nella lotta». Il successo degli incontri simulati sembra sia enorme, tanto che una scuola di medicina che ha appena aperto a Pasadena, in California, che si propone come leader nel settore con appena 50 studenti ammessi ogni anno, ha deciso di includere le visite con i pazienti attori sin dalla terza settimana di studi. L'idea sarebbe di aiutare i futuri medici a essere fin dai primissimi giorni consapevoli delle «ingiustizie sociali e delle disparità radicate nella salute e nella sanità», che la pandemia ha portato alla luce. Il ricorso alla simulazione è spesso realizzato d'accordo con gli studenti, ma è utilizzato anche a sorpresa per controllare il livello dell'assistenza medica negli ospedali e negli ambulatori privati. I finti malati sono in genere attori, ma non sempre i bandi di assunzione richiedono esperienza sul palcoscenico. L'individuo deve comunque essere in grado di imparare a menadito il curriculum medico di un vero paziente che corrisponde alla sua età, sesso e etnia, ed essere convincente e spontaneo nel presentare i propri problemi. È ovvio che alcune patologie non possono essere finte come i problemi cardiaci o respiratori. E solo un piccolo gruppo di finti pazienti accetta anche visite approfondite, uro-ginecologiche, e costoro vengono preparati con un corso speciale che comporta anche un'assistenza psicologica. Un'attrice fa notare che spesso questo lavoro ha un effetto quasi contagioso: «Lavorare otto ore a impersonare un individuo che soffre di depressione o di qualche malattia mentale può essere un lavoro che ti strema» dice Kendra Sargeant, che lavora con la professoressa Vermylen a Chicago. Ma un suo collega, Jarrod Smith, ha una reazione diversa: «Studio tutto dei pazienti che devo impersonare dice Jarrod Smith -. Voglio immaginarli in carne ed ossa. E mi dà una grande soddisfazione sapere che sto aiutando qualcuno a diventare domani un medico o un infermiere migliore».

Estratto dell'articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” il 2 agosto 2020. In principio fu un demone: poi, arrivò il Covid-19. Perché a portare il coronavirus sulla Terra è stato senza dubbio il seme del diavolo. Parola, pardon, verbo, di Stella Immanuel, 55 anni, la dottoressa di origini camerunensi, laureata in Nigeria, ma pediatra a Houston, Texas, che piace pure a Donald Trump. Sarà perché la santona del web tutta spiriti, alieni e dicerie è una strenua sostenitrice di quell’idrossiclorochina sorbita per due settimane pure dal presidente come “prevenzione” al virus. Nonostante il controverso farmaco antimalarico sia sconsigliato dalle autorità: e da fior di scienziati. «Medico, scrittore, imprenditore, ministro di Dio, ascia di guerra del Signore». La dottoressa convinta che le malattie sessuali dipendano dagli accoppiamenti nei sogni con demoni e streghe, si presenta proprio così sulla sua pagina Facebook. Nuova eroina della destra complottista dopo che un suo video girato mentre predica sulla scalinata della Corte Suprema, a Washington, è stato postato come “imperdibile” dal figlio di Trump, Donald Jr., e subito rilanciato pure dal padre. Quell’endorsement l’ha trasformata, in una notte, in una stella del web. (...) Quel video della discordia, poche ore dopo è stato cancellato. Eliminato da Facebook, Twitter e YouTube, dopo aver avuto 14 milioni di visualizzazioni. Apriti cielo: la dottoressa non ha gradito l’epurazione dei social e ha evocato su Facebook la vendetta divina («se non lo ripristinate Gesù Cristo distruggerà il server»). (...) È una strenua oppositrice delle mascherine: «Non servono», ripete in quel video rilanciato pure da Trump. Che poi è solo una delle sue bizzarre teorie. Fin dal 2015 nei video-sermoni della chiesa da lei fondata, la Fire Power Ministries (sacerdoti del potere del fuoco) sostiene che è in atto il piano di una società segreta chiamata “Illuminati” — come la setta immaginata da Dan Brown nel bestseller Angeli e Demoni — per distruggere il mondo attraverso aborto, matrimonio gay e giochi per bambini come i Pokemon. Gli illuminati usano i vaccini per allontanare da Dio. E mettono Dna alieno nei medicinali. Washington, d’altronde, è governata da rettiliani: metà uomini e metà serpenti, che fanno della lotta per il governo degli Stati Uniti una guerra santa fra forze del bene e del male. Insomma, in principio fu un demone. E ora alla Casa Bianca,

Andy Kiersz per "it.businessinsider.com" l'8 giugno 2020. Il bilancio di vittime statunitensi per il nuovo coronavirus ha superato quota 100.000 la settimana scorsa, ad appena quattro mesi dal primo caso confermato nella nazione. Per fare un confronto, abbiamo controllato quanti cittadini statunitensi sono morti di solito per varie cause comuni tra febbraio e maggio — i mesi dell’epidemia di coronavirus negli Usa — nel corso degli ultimi anni. Il nuovo coronavirus ha superato molte di queste cause. I Centers for Disease Prevention and Control mantengono una banca dati esaustiva che mostra le cause di morte dei cittadini statunitensi. Grazie a quel database, abbiamo scoperto il bilancio medio totale di decessi negli Usa per varie cause comuni di morte durante i mesi compresi tra febbraio e maggio nel corso degli ultimi cinque anni per i quali sono disponibili i dati. Abbiamo fatto un confronto tra quelle medie e il bilancio di vittime per COVID-19, la malattia provocata dal nuovo coronavirus, che alla mattina del 31 maggio era di 103.815, secondo il grafico riassuntivo sul coronavirus della Johns Hopkins University. In media, negli ultimi anni infarti e tumori, di solito le due principali cause di morte negli Stati Uniti, hanno provocato tra febbraio e maggio la morte di 200.000 persone. Nonostante ciò, nel corso degli ultimi quattro mesi sono state molte le settimane in cui Covid-19 li ha superati in quanto causa di decesso più frequente nella nazione. L’epidemia ha ucciso più statunitensi rispetto a quanto fanno solitamente in questi mesi le altre più comuni cause di morte negli USA. Malattie cerebrovascolari, come gli infarti, uccidono di solito circa 47.000 statunitensi tra febbraio e maggio; gli incidenti con i mezzi di trasporto, tra cui quelli automobilistici, circa 12.000; mente influenza e polmonite, causano circa 21.000 decessi, un quinto circa del bilancio del COVID-19.

 “Nessuno di loro era solo un numero”. Così il Nyt ricorda i morti di Covid. Il Dubbio il 23 maggio 2020. Il quotidiano americano pubblica una prima pagina con un lunghissimo elenco di persone morte a causa del Virus. Nelle stesse ore Donald Trump parla di numeri gonfiati. “Invece degli articoli, delle fotografie o della grafica che appaiono normalmente sulla prima pagina del New York Times, domenica c’è solo un elenco: un lungo e solenne elenco di persone le cui vite sono state perse a causa della pandemia di coronavirus”. Inizia così l’articolo con cui il New York Times spiega la scelta di pubblicare la lunga lista di nomi  e un breve necrologio delle persone morte di Covid. «Mille persone rappresentano appena l’uno per cento del bilancio totale dei morti — spiega il giornale in una breve introduzione sulla pagina interamente occupata dal testo —. Nessuno di loro era solo un numero». Il tutto mentre il bilancio delle vittime di Covid-19 negli Stati Uniti si avvicina a 100.000 e il presidente Donald Trump parla di numeri gonfiati. “Speravamo che saremmo arrivati a questo traguardo, ma mettere 100.000 punti o figure stilizzate su una pagina-  spiega il Nyt – in realtà non ti dice molto su chi fossero queste persone, le vite che hanno vissuto, cosa significhi per noi come paese”. Quindi, il grafico del giornale ha avuto l’idea di compilare necrologi e avvisi di morte delle vittime di Covid-19 da giornali grandi e piccoli in tutto il paese. Alain Delaquérière, un ricercatore, ha consultato varie fonti online per necrologi e avvisi di morte con Covid-19. Ha compilato un elenco di quasi mille nomi da centinaia di giornali. Un team di redattori da tutta la redazione, oltre a tre giornalisti studenti laureati, li ha letti e ha raccolto frasi che descrivono l’unicità di ogni vita persa: “Alan Lund, 81 anni, Washington, direttore con” l’orecchio più incredibile “… “Theresa Elloie, 63 anni, New Orleans, famosa per la sua attività nel realizzare spille e corpetti dettagliati …”…  “Coby Adolph, 44 anni, Chicago, imprenditore e avventuriero …”.

Nicoletta Spolini per vogue.it il 22 maggio 2020. Spesso in disaccordo con Trump, tanto che il presidente lo voleva allontanare dalla task force della Casa Bianca sul coronavirus, Antony Fauci è certamente uno dei massimi esperti di malattie infettive. A lui si deve l’imposizione del lockdown in un Paese che ha superato le 90mila vittime - più della guerra in Vietnam. Ma se fino qualche tempo fa l’abbiamo visto protagonista quasi ogni giorno delle news e delle interviste sui canali americani Tv e streaming, da quando Trump cerca di spostare l’attenzione del mondo dall’emergenza sanitaria alla necessità di una riapertura economica, la sua voce si è fatta più flebile. Ecco allora che Julia Roberts prova a ridargli spazio. E lo intervista sul suo profilo Instagram, nella serie #PassTheMic della OneCampaign - incredibile come gli account IG stiano diventando una fonte di informazioni da monitorare:

«Questa è per me una grande emozione», ha detto Roberts molto ammirata dalla competenza del dottor Fauci all'inizio dell'intervista. Prima domanda di rito, ovvio: Come sta dottore? La risposta dello scienziato: “Abbastanza bene, immagino… dall’inizio della pandemia, la mancanza di un sonno costante mi ha un po’ lasciato a pezzi”». E la conversazione continua. «Mi dispiace, dottore, ma non le è permesso crollare. Lei è l'unico individuo che non può andare in pezzi in questo momento. È un mio eroe personale, solo avere un piccolo angolo del suo tempo per me è una tale gioia”. #PassTheMic della ONE Campaign è un'iniziativa pensata proprio per mettere in luce il lavoro degli operatori sanitari in prima linea e degli esperti che lottano contro la pandemia di coronavirus sfruttando il potere dei social media, soprattutto degli account delle celebrità più famose come Julia Roberts, Hugh Jackman, Shailene Woodley e Danai Gurira, tra gli altri. Il focus dell'intervista era sulla risposta del mondo intero al coronavirus, ma naturalmente Julia Roberts e il dottor Fauci hanno discusso molto di come stiano andando le cose in America, dove i decessi correlati al Covid-19 hanno superato quota 91.000. “Il lockdown ha funzionato, ma non è abbastanza”, ha detto il dottor Fauci che continua a chiedere un approccio cauto alle riaperture. "Se osserviamo la curva della pandemia nel nostro paese, non è ancora il momento di tentare il destino e lasciarsi guidare dal caso”. Niente riferimenti diretti a Trump, ma nell’aria era chiarissimo il disappunto per alcune sue dichiarazioni recenti: “Rivogliamo grandi stadi pieni di gente", ha detto il presidente domenica in un'intervista. "Vogliamo tornare alla normalità con le grandi folle, in piedi uno sopra l'altro, che si divertono". Nella conversazione con Fauci, invece, la Roberts si è proprio chiesta come aiutare la gente ad accettare il fatto che “la normalità non sarà mai più quella di una volta. E poi ad andare avanti comunque con un approccio positivo”. È proprio questa la strada da seguire secondo lo scienziato. Bisogna andare verso una nuova normalità più consapevoli del nostro essere davvero fragili nei confronti di questo virus, imparando però ad apprezzare tutto quello che abbiamo imparato. Ci vuole insomma un approccio costruttivo e consapevole.

Da "ilmessaggero.it" il 10 maggio 2020. Covid Party per infettarsi e sviluppare gli anticorpi. Questa è l'ultima folle moda che viene dagli Stati Uniti dove le autorità hanno lanciato l'allarme. Gli invitati si mischiano a persone malate, positive al virus, al fine di essere contagiati e di poter sviluppare gli anticorpi per poi poter tornare a girare tranquillamente. I giornali locali spiegano che si sta diffondendo soprattutto nello stato di Washington, il focolaio iniziale della pandemia in Usa dove i casi hanno superato le 15 mila unità con 834 vittime. «È inaccettabile ed irresponsabile - ha commentato Meghan DeBolt, direttrice dell'assessorato alla Sanità della contea di Walla Walla - esporsi deliberatamente ad un contagio è rischioso per chi lo fa e per gli altri». In realtà l'idea di farsi contagiare di proposito non è una pratica nuova in America. In passato, ricordano alcuni osservatori, molti genitori erano soliti portare i loro figli alle cosiddette "feste della varicella" per farli venire a contatto con altri bambini che avevano la malattia. L'idea dei "Covid-19 party" ha cominciato a girare soprattutto dopo che le autorità sanitarie di tutto il mondo hanno cominciato a considerare l'idea dei passaporti d'immunità, il documento che certificherebbe l'assenza di rischio di contagio della persona che lo possiede. E che quindi consente a coloro che sono risultati positivi al virus e poi guariti di viaggiare o di tornare a lavoro più velocemente. A sconsigliare le feste Covid-19 soprattutto i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), l'ente federale che si occupa della salute pubblica negli Stati Uniti, che sottolineano come solitamente i giovani che si espongono al contagio e nella maggior parte dei casi non hanno bisogno di un ricovero in ospedale per guarire, ma il rischio è che si infettino persone più vulnerabili mettendo quindi a repentaglio la loro famiglia.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 3 maggio 2020. Mezza America ha già riaperto. L' altra metà è agitata dalle proteste contro il lockdown. Neppure una pandemia ha riunito le due nazioni in guerra fra loro. Da ieri sono già 14 gli Stati che hanno tolto molte restrizioni alle attività economiche, di cui 12 governati dai repubblicani. Il Texas, il principale serbatoio di voti della destra, si distingue per una liberalizzazione molto spinta, che include teatri e ristoranti. La pressione sul governatore Greg Abbott era stata fortissima anche perché l' economia texana è stremata da un secondo shock: oltre al virus il crollo del petrolio. La Georgia ha consentito la riapertura anche per parrucchieri, estetiste, saloni di massaggio e artigiani dei tatuaggi. Gli esperti sanitari osservano con inquietudine il gigantesco esperimento di riapertura, timorosi che la fine delle distanze sociali possa scatenare un boom dei contagi in questi Stati, per lo più nel Sud e nel Midwest, dove finora l' impatto della pandemia è stato modesto. Ma l' altra metà degli Stati Uniti è percorsa da proteste contro il lockdown. Alcune sono motivate dalla disperazione economica: 30 milioni di disoccupati e un' ecatombe di aziende fallite, soprattutto medio-piccole. I camionisti, che continuano ad assicurare gli approvvigionamenti essenziali in tutto il paese, hanno organizzato una manifestazione a Washington nella vicinanze della Casa Bianca per denunciare le condizioni di lavoro. La protesta più visibile e controversa, è avvenuta ancora una volta nel Michigan contro la governatrice democratica Gretchen Whitmer. Centinaia di manifestanti, inclusa una milizia armata, hanno fatto irruzione nel parlamento del Michigan, a Lansing. Tra i loro striscioni: "Questa è la prova generale del comunismo", "Basta con la tirannide dello Stato". A sottolineare il colore politico della manifestazione è intervenuto Donald Trump che ha twittato il suo appoggio ai manifestanti: «Sono ottime persone, ma molto arrabbiati. Vogliono che gli si restituisca la vita!». Un altro tweet presidenziale ha preso di mira la governatrice (possibile vice di Joe Biden nella candidatura democratica alla Casa Bianca): «Per spegnere l' incendio deve concedere qualcosa». Proteste contro i lockdown ci sono state anche in molte grandi città da Chicago a Los Angeles; dal Kentucky al New Hampshire. Perfino un bastione democratico come la California è agitato dalle tensioni contro la linea dura del governatore Gavin Newsom. Le manifestazioni hanno preso di mira la chiusura delle spiagge a Huntington Beach (Orange County). Nelle agitazioni californiane convergono due anime: c' è la destra, ma anche un' estrema sinistra libertaria che abbraccia il movimento no-vax. Tra i leader del movimento che contesta i vaccini figura l' ambientalista Robert Kennedy Junior, figlio del politico democratico Bob Kennedy assassinato nel '68. L' America si spacca in due anche sulle mascherine. I progressisti che abbracciano la linea dura sulle distanze di sicurezza esibiscono con orgoglio le mascherine in ogni circostanza. La presidente della Camera, la democratica Nancy Pelosi la indossa sempre. Nel partito repubblicano che cavalca il "liberismo sanitario" un gesto di sfida è mostrarsi in pubblico senza la maschera, anche in incontri ravvicinati. Nasce un nuovo galateo, l' accessorio serve a dichiarare da che parte stai: a lanciare la sfida è stato il vicepresidente Mike Pence, ripreso senza maschera durante una visita a un ospedale.

Da "lastampa.it" il 28 aprile 2020. Lorna Breen era la direttrice del pronto soccorso dell'ospedale New York Presbyterian, e si è tolta la vita dopo aver guidato per settimane la task force dei medici che cercavano di salvare i pazienti più gravi ammalati di Covid-19, fino a quando non ce l’ha fatta più. Il padre ha spiegato al New York Times che sua figlia aveva fino alla fine cercato di fare il suo lavoro, in condizioni difficili: «Ha cercato di salvare tutti, e questo l'ha uccisa». Come sul campo di battaglia, i medici in prima linea contro il virus possono venir piegati non solo dal Covid-19, ma dalla situazione di stress drammatico in cui hanno lavorato, e dal dolore. In prima linea contro il coronavirus come direttore del pronto soccorso del New York Presbyterian Allen Hospital, Breen aveva 49 anni. «E' stata un'eroina in ogni senso. Ha dato la vita per suoi amici e la sua città», ha osservato il padre, anche lui medico. La dottoressa Breen non aveva una storia di malattia mentale, ha spiegato ancora suo padre. Ma ha ammesso che l'ultima volta che aveva parlato con lei, gli era sembrata distaccata, e lui aveva potuto capire che qualcosa non andava. La dottoressa aveva descritto un assalto di pazienti che stavano morendo prima ancora che potessero essere portati fuori dalle ambulanze. La dottoressa stessa aveva contratto il coronavirus, e aveva cercato di tornare al lavoro dopo essersi ristabilita. Ma l’ospedale l’aveva rimandata a casa. La famiglia aveva allora deciso di portarla a Charlottesville. Il NewYork-Presbyterian Allen Hospital e la Columbia University adesso la ricordano così: «La dottoressa Breen è un eroe che ha portato i più alti ideali della medicina nell’impegnativo fronte del del dipartimento di emergenza. Il nostro obiettivo oggi è fornire supporto alla sua famiglia, agli amici e ai colleghi mentre affrontano questa notizia durante quello che è già un momento straordinariamente difficile». «Gli operatori sanitari ed i soccorritori in prima linea non sono immuni agli effetti mentali o fisici della pandemia», ha detto Rashall Brackney, capo della polizia di Charlottesville. «Ogni giorno questi professionisti operano nelle circostanze più stressanti e il coronavirus ha introdotto ulteriori fattori di stress. I dispositivi di protezione individuale possono ridurre la probabilità di essere infettati, ma non possono proteggere eroi come la dottoressa Lorna Breen dalla devastazione emotiva e mentale causata da questa malattia».

 (LaPresse il 28 aprile 2020) - Le agenzie di intelligence statunitensi hanno diffuso avvertimenti sul coronavirus in più di una dozzina di briefing classificati preparati per il presidente degli Usa, Donald Trump, a gennaio e febbraio, mesi durante i quali Trump ha continuato a minimizzare la minaccia. Lo riferisce il Washington Post citando dirigenti ed ex funzionari americani. Secondo quanto riportato dal quotidiano americano, le informazioni sono state trasmesse al presidente nei rapporti giornalieri per settimane, sottolineando la diffusione del virus in tutto il mondo e avvisando che la Cina stava sopprimendo informazioni sulla trasmissibilità e il numero delle vittime.

Da rainews.it il 28 aprile 2020. Negli Stati Uniti sono morte altre 1.303 persone nelle ultime 24 ore per il coronavirus. Emerge dall'ultimo aggiornamento di Johns Hopkins University. I contagi sfiorano il milione. Nel Paese sono decedute almeno 56.144 persone. Durante la guerra in Vietnam, in 20 anni, dal 1955 al 1975, morirono 58.220 americani di cui 47.343 in combattimento. 

Trump: "Faremo di tutto per far tornare la gente al lavoro e in sicurezza". Il governo Usa farà di tutto per far tornare "presto" la gente al lavoro, ovviamente "In sicurezza". Lo ha detto il presidente Donald Trump durante una conferenza stampa. "Faremo tutto ciò che è in nostro potere per curare i malati e per riaprire gradualmente la nostra nazione e per riportare la gente al lavoro in sicurezza. Le persone vogliono tornare al lavoro, vogliono farlo presto. C'è 'fame' di ripresa, di riapertura". E aggiunge: "Grazie alla nostra strategia e alla dedizione dei cittadini vediamo segnali incoraggianti e progressi". 

Otto punti per la ripartenza economica. Intervenendo davanti ai giornalisti, Trump ha presentato un piano in otto punti per la ripartenza dell'economia. Otto punti divisi in tre fasi le prime due delle quali secondo il presidente sono state già percorse. Ora si lavora alla terza fase sostenendo il riavvio delle attività economiche degli stati. Il presidente stima un quarto trimestre "fantastico" per il Pil Usa e assicura che la crescita nel 2021 sarà "incredibile". Incalzato sull'impatto economico del Covid-19. Trump ha detto la ripresa ripartirà nel terzo trimestre dell'anno e che sarà molto veloce.

"Non siamo contenti della Cina, stiamo facendo indagini molto serie". Il presidente americano è poi tornato ad attaccare la Cina: "Ci sono stati così tanti morti non necessari in questo paese ("penso arriveremo a 60-70mila decessi"). Si sarebbe potuto fermare ma qualcuno tanto tempo fa sembra abbia deciso di non fare così e tutto il mondo sta soffrendo per questo, almeno 184 paesi". "Poteva essere fermato all'origine. Non siamo contenti della Cina. Stiamo facendo indagini molto serie". Trump non ha escluso la richiesta di danni per la diffusione del virus. Secondo il quotidiano tedesco Bild, la Germania dovrebbe chiedere a Pechino 162 miliardi di dollari di risarcimenti. "La Germania sta valutando, noi stiamo valutando. Stiamo parlando di molti più soldi di quanto non stia facendo la Germania", ha commentato Trump. "Non abbiamo ancora stabilito l'ammontare - ha aggiunto - ma è molto significativo... questo è un danno mondiale: un danno per gli Usa ma anche per il mondo".

"So come sta Kim ma non posso dirlo". Ad una domanda su Kim Jong Un e sulla sua salute Trump ha risposto: "Ho un'idea piuttosto chiara" sullo stato di salute di Kim, ma non posso dirvi quali siano esattamente le sue condizioni". Il presidente Usa ha dunque aggiunto che "si saprà relativamente presto" cosa è successo al leader nordcoreano scomparso dalla vita pubblica e dato per gravemente malato.

 "Gente ingerisce disinfettanti? Non è colpa mia". Il presidente Donald Trump ha detto di non sentirsi responsabile per il fatto che alcune persone avrebbero ingerito disinfettanti come cura contro il coronavirus. "No" ha risposto durante la conferenza stampa alla Casa Bianca, incalzato dai cronisti, dopo che aveva suggerito di valutare le iniezioni di disinfettanti come possibile rimedio contro il Covid-19.

Presidente annuncia piano per estendere i test sul coronavirus. Il presidente Donald Trump annuncia un piano per espandere i test sul coronavirus negli Usa, affiancato dai Ceo di alcune case farmaceutiche. "I test non saranno un problema", assicura il presidente, sottolineando la "fame" di riapertura dopo i lockdown. L'amministratore delegato di Quest Diagnostcs, Steve Rusckowski, ha dichiarato che la sua società di analisi sta conducendo circa 50.000 test al giorno mentre il numero uno di Walgreens, senza fornire cifre, ha indicato che i tamponi saranno triplicati. Cvs, la catena di farmacie rivale di Walgreens, ha fatto sapere che saranno incrementate di mille unità le location per i test. I negozi Cvs negli Usa sono circa 10.000. Il vicepresidente Mike Pence, che guida la task force americana, promette "due milioni di test a settimana in maggio".

"Felice per progressi Italia". Il presidente Usa Donald Trump, nel corso della conferenza stampa, si è detto "molto felice" per i progressi dell'Italia nella lotta al coronavirus. Trump ha fatto riferimento al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, definendolo "il mio amico". 

"Mai pensato di rinviare presidenziali". "Non ho mai pensato di cambiare la data dell'elezione" in calendario il 3 novembre: "E' un buon numero". Lo ha dichiarato il presidente Donald Trump. Era stato lo sfidante democratico per la Casa Bianca, Joe Biden, a sostenere che il tycoon avrebbe provato di posticipare le elezioni presidenziali con la scusa del coronavirus.

Fed estende pacchetto aiuti a piccole città e contee. La Federal Reserve inietterà altri 500 miliardi di dollari per consentire a un numero molto più grande di città e contee di beneficiare del suo pacchetto di prestiti per far fronte all'emergenza coronavirus annunciato il 9 aprile. La Fed ha deciso dunque di ampliare il programma alle città con almeno 250 mila abitanti e alle contee con almeno 500 mila abitanti, mentre prima le soglie erano rispettivamente di uno e di due milioni di abitanti.

DAGONEWS il 29 aprile 2020. Il sindaco di New York Bill De Blasio ha incaricato la polizia di arrestare chiunque violi le regole di distanziamento sociale avviando la nuova fase di tolleranza zero per fermare la diffusione del coronavirus. A scatenare la rabbia del sindaco è stato l’ennesimo funerale della comunità ebraica  ortodossa di Williamsburg che continua a fregarsene delle regole: come è già successo in passato, nelle scorse ore centinaia di persone hanno affollato le strade del quartiere di Brooklyn per il funerale del rabbino Chaim Mertz. In molti indossavano la mascherina, ma non vi era alcun rispetto delle distanze sociali. Quando De Blasio ha visto le immagini che iniziavano a circolare su internet, ha guidato fino a Williamsburg per accertarsi che la folla venisse dispersa, lanciando un duro attacco su Twitter alla comunità ebraica ortodossa. «È accaduto qualcosa di assolutamente inaccettabile stasera a Williamsburg: un grande raduno funebre nel bel mezzo di questa pandemia – ha scritto - Quando ho sentito quello che stava accadendo, sono andato lì per assicurarmi che la folla fosse dispersa. Ciò che ho visto non sarà tollerato finché combatteremo il Coronavirus». Il sindaco ha continuato lanciando un avvertimento: «Il mio messaggio alla comunità ebraica e a tutte le comunità è semplice: è passato il tempo degli avvertimenti. Ho incaricato la polizia di procedere immediatamente alla convocazione o addirittura all'arresto di coloro che si radunano in grandi gruppi. Si tratta di fermare questa malattia e salvare vite umane». La dura risposta di De Blasio all’ennesima violazione delle regole anti-contagio ha scatenato la reazione dei membri della comunità ebraica che, come prevedibile, lo hanno accusato di antisemitismo e di aver preso di mira la loro comunità: «Questo deve essere uno scherzo. Il sindaco di New York ha individuato una specifica comunità etnica come non conforme? - ha scritto Chaim Deutsch, un membro del consiglio comunale che rappresenta la popolazione ebraica ortodossa, in un post su Twitter - È stato in un parco ultimamente?». Anche il Consiglio degli affari pubblici degli ebrei ortodossi ha twittato con rabbia: «La gente non è riuscita a mantenere le distanze durante un funerale nello stesso giorno in cui migliaia di newyorkesi non sono riusciti a prendere le distanze per 45 minuti per guardare i Thunderbirds e gli Blue Angels volare sulla città in onore degli operatori sanitari che combattono la pandemia».

Anna Lombardi per repubblica.it il 28 aprile 2020. La trappola delle fake news sta stritolando una riservista dell'esercito americano: Maatje Benassi, 49 anni accusata, falsamente prima da siti complottisti statunitensi, poi dai social cinesi, di essere un'untrice. E di aver diffuso a Wuhan il virus del Covid 19 che secondo la teoria sarebbe stato prodotto in un laboratorio americano. Il sergente Benassi vive e lavora a Fort Belvoir, una caserma della Virginia, col marito Matt, ufficiale dell'Aeronautica e i due figli. Malauguratamente, lo scorso ottobre ha partecipato alle Olimpiadi militari, organizzate proprio a Wuhan: la città poi diventata epicentro del virus. Nonostante gli atleti americani inviati in Cina fossero almeno cento, la teoria del complotto si è focalizzata su di lei indicandola come "paziente zero", senza particolari motivi: la donna non è mai stata positiva al virus. La colpa, sarebbe solo della brutta caduta che l'ha lasciata con una costola rotta, costringendola già in Cina a ricorrere a cure mediche, pur avendo tagliato comunque il traguardo. A puntare il dito sulla donna, oggi disperata, al punto di dire a Cnn: "Ogni mattina mi sveglio da un brutto sogno solo per entrare in un incubo ancora peggiore", è un americano. Il complottista George Webb, 59 anni, un lungo curriculum di bugie che però non gli impediscono di gestire un canale su YouTube con oltre 100 mila follower e i cui video pieni di assurdità sono stati già visti almeno 27 milioni di volte, permettendogli di guadagnare con la pubblicità. Già nel 2017 Webb era salito ai "disonori" della cronaca per aver sostenuto, con altri tre cospirazionisti, l'arrivo di materiale contaminato per realizzare una "bomba sporca" nel porto di Charleston, Carolina del Sud. Una falsità che all'epoca destò grande allarme. L'uomo ha puntato il dito contro Benassi a fine marzo. Sostenendo, fra l'altro, un altrettanto folle collegamento con il dj italiano Benni Benassi, identificato erroneamente come olandese: e come primo malato di coronavirus in Olanda. Il "Benassi Plot" è un'altra falsità, smentita dallo stesso dj in un'intervista alla Cnn dove ha pure sottolineato di non essersi mai ammalato. Intanto, però, attraverso YouTube quei video sono approdati sui social cinesi: rimbalzando sulle principali piattaforme, da WeChat a Weibo, con la teoria dell'arma biologica creata in America ed esportata in Cina, sposata pure dalle autorità del Dragone. Purtroppo a crederci sono in molti. E ora Maatje e Matt Benassi vivono nel terrore, minacciati di morte e inondati da messaggi d'odio arrivati da tutto il mondo. Nonostante ripetuti tentativi, raccontano a Cnn, non riescono a far levare quei video denigratori da YouTube: "Dicono che non si può fare niente perché Webb è protetto dalla libertà di parola. Ma un'azione legale ha costi per noi impossibili da affrontare. Nessuno mi difende" piange. "Su Google resterò per sempre, falsamente, la paziente zero".

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2020. «È come passare da un brutto sogno a un incubo, giorno dopo giorno». Maatje Benassi è una riservista dell' esercito americano. Abita in Virginia con il marito Matt e due figli. Lavora in un ospedale militare e coltiva la passione della bicicletta da corsa. Tutto qui: una vita assolutamente normale, se non fosse per un certo George Webb, 59 anni, sedicente «giornalista investigativo» di Washington, in realtà seminatore di odio e di teorie cospirative in rete. La Cnn ha raccontato questa storia allucinante, forse con un lieto fine. Webb tiene banco su un canale di YouTube e su Twitter: è un prodotto dei nostri tempi. Offre spiegazioni sballate sugli intrighi della politica nazionale e internazionale. A volte in modo innocuo, altre da irresponsabile, come nel caso di Maatje. Da settimane sostiene che la donna sia «l' untrice numero uno» del Covid-19. Sarebbe stata lei a infettare la città di Wuhan, nell' ottobre scorso quando partecipò, con altre decine di atlete, a una gara di ciclismo nell' ambito dei Military World Games. Maatje si fece anche male: si fratturò una costola e riportò una commozione cerebrale. Rientrò negli Stati Uniti dolorante. In questi mesi non ha mai accusato un sintomo, né tanto meno, è risultata positiva al Covid-19. Non aveva fatto i conti, però, con le farneticazioni di Webb, basate su «fonti non rivelabili»: Maatje aveva già il Covid-19 e lo ha trasmesso a qualcuno a Wuhan. Il primo focolaio da cui è divampato l' incendio che sta flagellando il pianeta. I video del «giornalista» sono condivisi da circa 100 mila persone. Rapidamente la sua teoria è rimbalzata sui social cinesi, controllati dal Partito comunista. Il governo di Pechino ha lasciato fare. Anzi, ancora oggi, continua a sostenere che siano stati i «militari americani» a scatenare la pandemia. Ma l' aspetto più sconcertante è che negli Stati Uniti non si sia mosso nessuno. YouTube, che fa capo a Google, avvisa gli utenti che non viene tollerata la diffusione di notizie false sul coronavirus. Twitter si è impegnata a fare lo stesso. Eppure le due piattaforme hanno tollerato il linciaggio mediatico, le minacce di morte rivolte a Maatje. Fino a che non è arrivato un reportage della Cnn. Il giornalista Dannie O' Sullivan ha intervistato la vittima: «Abbiamo cercato di fargli causa, ma la polizia ci ha detto che non c' era nulla da fare perché questo Paese protegge la libertà di parola. Ci siamo rivolti a un avvocato civile, ma ti rendi subito conto come per gente come noi sia troppo caro fare causa a qualcuno». Il reporter ha cercato anche Webb che non si è fatto impressionare: «Le mie fonti dicono che è risultata positiva nell' ospedale militare di Fort Belvoir in Virginia». Webb ha messo in mezzo anche un dj italiano, Benny Benassi, che è trasecolato quando la Cnn lo ha chiamato: «Non ne so nulla, mai avuto la febbre o un sintomo del virus». La rete, però, non funziona a senso unico. Il servizio della Cnn ha sollevato un' onda di indignazione. È venuto fuori che George Webb Sweigart fu arrestato nel 2017 a Zanesville, in Ohio, con l' accusa di aver falsamente denunciato una serie di attentati dinamitardi. Lo stalker è finito in un angolo. Ha dovuto cancellare l' account Twitter e infine ha postato questo messaggio sul suo canale YouTube: «Ritratto ufficialmente la mia affermazione che Maatje Benassi sia risultata positiva al Covid-19. Mi sono ora reso conto che qualcuno mi ha passato delle informazioni sbagliate per intrappolarmi, esattamente come un informatore dell' Fbi fece per il caso in Ohio di tre anni fa». Una ritrattazione tardiva e, naturalmente, con il sigillo del complotto.

Da "rainews.it" il 22 aprile 2020. Un infermiere preme furiosamente sul petto di un uomo mentre cinque colleghi che indossano un equipaggiamento protettivo completo circondano il letto del paziente. Improvvisamente alzano le braccia e fanno un passo indietro: "OK, fate spazio! Fate spazio". Appena si allontanano il paziente, che era in arresto cardiaco, ha degli spasmi e muove le braccia all'indietro. È salvo, almeno per il momento, e viene ricollegato al respiratore. Molti altri al Saint Joseph's Medical Center purtroppo non ce l'hanno fatta. "È stato un incubo. Abbiamo così tante persone malate che non ci si può credere. In un turno, ho dichiarato il decesso di sei persone", racconta il dottor Anthony Leno, direttore della medicina d'urgenza dell'ospedale, che in media, prima che la pandemia di Covid-19 si abbattesse su New York e in questa parte della città in particolare, dichiara un decesso in un turno di 10-12 ore. L'ospedale di Yonkers, che si trova vicino al confine con il Bronx e serve uno dei quartieri più poveri della più grande città della contea di Westchester, è stato duramente colpito dal coronavirus. La metà dei circa 280 membri dello staff che sono stati testati è risultata positiva. Il fotografo di Associated Press ha avuto accesso al pronto soccorso della struttura, che ad un certo punto, nei primi giorni della pandemia, ha visto 28 pazienti in attesa di essere curati e la fila delle ambulanze fuori, racconta il Dr. James Neuendorf, direttore di medicina generale del Saint Joseph. Il personale di altre aree dell'ospedale è stato riassegnato per gestire i pazienti e sono state istituite ulteriori aree di trattamento per aumentare i 194 posti letto in terapia intensiva dell'ospedale. Gli adeguamenti, spiega Neuendorf, hanno permesso di "prendersi cura di un gran numero di pazienti, ben al di sopra dei numeri che normalmente vediamo ogni giorno." Più di 900 sono morti in questa zona periferica della Grande Mela prima che Yonkers diventasse un punto caldo. Al Saint Joseph, i sintomi correlati al coronavirus hanno rappresentato oltre l'85% dei sintomi delle persone trattate nel corso di quasi quattro settimane dal 20 marzo al 19 aprile. I medici dell'ospedale si aspettavano il peggio. Il COVID-19 si è rivelato infatti particolarmente virulento in una popolazione socialmente fragile, povera e costituita in gran parte da minoranze. Un aspetto molto critico è che famiglie numerose vivono spesso insieme in piccole case, rendendo difficile l'isolamento dei malati. E, osserva Leno, in questo caso poche terapie sono efficaci a parte l'isolamento: "Abbiamo accolto famiglie intere e gruppi, e abbiamo avuto anche persone della stessa famiglia che sono morte a pochi giorni di distanza l'una dall'altra." Le cifre aggiornate a martedì 21 aprile dicono che lo Stato di New York ha contato più di 257.000 casi di COVID-19, più di un quarto delle oltre 809.000 infezioni ufficialmente registrate a livello nazionale.

Il dato shock sulle ventilazioni: "Negli Stati Uniti l'88% è morto". L’ospedale Saint Joseph's è stato appositamente riorganizzato per la lotta al coronavirus, così da gestire al meglio l’afflusso di malati. Gerry Freda, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Fatica, frustrazione e intuizioni; si combatte così contro il coronavirus in una delle periferie più povere di New York. Il Saint Joseph's Medical Center, ospedale della città di Yonkers ma che confina con il famigerato quartiere newyorkese del Bronx, è in prima linea nella lotta al Covid ed è soggetto alla pressione rappresentata da un crescente numero di pazienti appartenenti a ceti malfamati. Nella Grande Mela, epicentro del contagio negli Usa, i soggetti infettati superano le 257mila unità, più di un quarto degli oltre 809mila casi registrati in tutto il territorio federale. Al Saint Joseph's è in corso una dura lotta contro l’epidemia e l’85% dei soggetti lì ricoverati, ha evidenziato ieri Dagospia citando Rai News, è costituito proprio da malati di coronavirus. Lo scenario materializzatosi tra quelle corsie, afferma il sito web creato da Roberto D’Agostino riportando le parole di Anthony Leno, un dottore in servizio presso quella struttura, è da vero e proprio “incubo”, in quanto “abbiamo così tante persone malate che non ci si può credere. In un turno, ho dichiarato il decesso di sei persone”. La virulenza del Covid in tale periferia newyorkese ha causato ultimamente una fila di ambulanze ferme davanti all’ospedale di Yonkers, tutte cariche di pazienti colpiti dal morbo incriminato. I contagi sarebbero favoriti dal fatto che la popolazione di quell’area disagiata è composta da famiglie numerose che vivono normalmente insieme in piccole case, rendendo difficile l'isolamento dei malati. L’infezione, denuncia il medesimo organo di informazione, si è diffusa anche tra il personale sanitario del Saint Joseph's, dato che, su circa 280 dipendenti sottopostisi a tampone, la metà di loro è risultata positiva al coronavirus. Nonostante lo spaventoso afflusso di ricoverati, la struttura sanitaria rappresenta un esempio di efficiente organizzazione nella lotta all’epidemia in un’area urbana caratterizzata da una popolazione socialmente fragile, povera e costituita in gran parte da minoranze. Grazie a interventi tempestivi e mirati, sottolinea Dagospia, è stato possibile aumentare agevolmente i 194 posti-letto in terapia intensiva del nosocomio, mettere su delle aree di trattamento dedicate alle persone affette dal morbo di Wuhan e creare delle squadre di medici destinate esclusivamente alla cura dei pazienti-Covid. Per effetto di tali adeguamenti, evidenzia il portale web citando James Neuendorf, direttore di medicina generale del Saint Joseph’s, i medici sono stati in grado di “prendersi cura di un gran numero di pazienti, ben al di sopra dei numeri che normalmente vediamo ogni giorno”. Prima che la struttura di Yonkers venisse riorganizzata al fine di gestire al meglio l’emergenza-epidemia, l’infezione aveva tolto la vita a più di 900 residenti di quell’area urbana compresa tra la contea di Westchester e il Bronx. Il coraggio e la determinazione del personale dell’ospedale in questione nel salvare vite umane è stato testimoniato di recente da un video rilanciato dal Daily Mail e descritto sempre da Dagospia: “Un infermiere preme furiosamente sul petto di un uomo mentre cinque colleghi che indossano un equipaggiamento protettivo completo circondano il letto del paziente. Improvvisamente alzano le braccia e fanno un passo indietro: «OK, fate spazio! Fate spazio». Appena si allontanano il paziente, che era in arresto cardiaco, ha degli spasmi e muove le braccia all'indietro. È salvo, almeno per il momento, e viene ricollegato al respiratore. Molti altri al Saint Joseph's Medical Center purtroppo non ce l'hanno fatta.” Tuttavia, la cronaca della pandemia in corso a New York e nei suoi dintorni non è costituita solo da episodi di eroismo, ma anche da numeri agghiaccianti e macabri. Ad esempio, fa sapere oggi AdnKronos, quasi tutti i malati di Covid che avevano bisogno del supporto del ventilatore nelle cliniche di proprietà del più grande ente assistenziale dello Stato di New York, il Northwell Health, sono morti. A denunciare ciò è stato un recente studio realizzato dal Consorzio di ricerca sul Covid-19 costituito presso la medesima fondazione no-profit e pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica Journal of American Medical Association. Secondo la ricerca citata dall'agenzia romana, dal primo marzo al 4 aprile "l'88 per cento dei malati sottoposti a ventilazione è morto nei 12 ospedali che fanno capo al Northwell Health. In totale, il 21 per cento dei pazienti Covid-19 curati presso il Northwell Health è deceduto, ovvero 553 pazienti". Lo stesso studio ha inoltre sottolineato che il tasso di mortalità si è rivelato particolarmente alto per i pazienti di età superiore ai 65 anni.

DAGONEWS il 22 aprile 2020. Come molte famiglie con bambini piccoli, Stan e Julia Usherenko avevano da tempo pianificato di trasferirsi in periferia, dove potevano permettersi una casa più grande con un cortile. Quest'anno avevano finalmente iniziato quella che presumevano sarebbe stata una piacevole ricerca. Poi è arrivata la pandemia e quello che era inizialmente un desiderio si è trasformato in una vera e propria fuga da New York. «Che senso ha pagare cifre esorbitanti per appartamenti angusti se si è bloccati in casa e non ci si può godere la città?». E così a fine metà marzo - l'ultimo fine settimana in cui gli agenti immobiliari hanno potuto mostrare le case -  gli Usherenko si  sono precipitati a fare un'offerta, superando il loro budget di 25mila dollari, per una casa con tre camere da letto una piscina e un cortile recintato a Midland Park, nel New Jersey. «Se non fossimo venuti in questa casa chissà quando avremmo potuto sperare di trovarne una -  ha detto Usherenko. Potevamo rischiare di rimanere bloccati». Usherenko, un analista finanziario, e la moglie, una psicoterapeuta, lavorano entrambi a tempo pieno e avevano un piccolo appartamento con due camere da letto nella Grande Mela: «Non avevamo abbastanza aria fresca – ha detto Usherenko, il cui nonno è recentemente morto di coronavirus - Ed era stressante. Ogni volta che uscivamo, non sapevamo cosa poteva succederci». E la loro non è l’unica famiglia stimolata dalla pandemia a lasciare la città velocemente, secondo Alison Bernstein, fondatore e presidente di Suburban Jungle, un'azienda specializzata nel cercare a clienti che abitano in città la loro casa ideale nell’area suburbana: «Tutto questo è un disastro per le famiglie che abitano in città. Vorrebbero andarsene e subito». Bernstein ha raccontato che la domanda per i servizi della sua azienda è aumentata del 40% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Alcuni sono spinti da problemi di sicurezza. Altri temono che il lockdown continuerà per molto tempo e saranno confinati in piccoli appartamenti. Carlo Siracusa, presidente delle vendite per Weichert Realtors con sede a New York, ha dichiarato che, mentre il numero delle case messe in vendita si è contratto, la domanda rimane elevata a causa di una nuova ondata di abitanti delle città che acquistano nei sobborghi: «Sono stati confinati in un piccolo spazio negli ultimi 45 giorni e vogliono uscire. C'è un senso di urgenza». Il mercato immobiliare non è esattamente vivace in questi giorni, ovviamente. A Manhattan, le firme dei contratti sono diminuite del 77%, secondo UrbanDigs. Un sondaggio della National Association of Realtors, nel frattempo, ha rilevato che la maggior parte degli acquirenti sta ritardando l’acquisto di un appartamento. Ma su alcuni, la pandemia ha avuto l'effetto opposto. Alla fine di marzo, Kristen Euretig era stufo della vita in quarantena nel suo appartamento in affitto a Brooklyn. Ora si sta godendo l’affitto di una casa con tre camere da letto fuori Rochester, New York, con suo marito, il figlio e cane. Ed è sorpresa di scoprire quanto la sua famiglia ama vivere in campagna. Quando vogliono aria fresca, non c'è bisogno di indossare guanti, mascherine e schivare i vicini che affollano la hall del condominio. Si precipitano nel cortile e si addentrano nei 16 acri di natura che li circonda: «Non ho fretta di tornare indietro» ha detto Euretig, che ha fondato un’azienda di consulenza finanziaria con sede a Brooklyn e ora lavora da casa. In effetti, la pandemia fa ripensare alla famiglia la vita fuori dalla città. Fino a oggi, le aree suburbane non sembravano pratiche. Ma ora che suo marito, un avvocato, lavora da casa, spera anche che il datore di lavoro si convinca che ripensare che una rimodulazione del lavoro non è poi così impossibile. «La prospettiva di un mini-esodo è una possibilità reale - ha affermato Jonathan Bowles, direttore esecutivo del Center for an Urban Future, un think tank di Manhattan incentrata sull'economia locale - New York è l'epicentro di questa pandemia. Tutti lo sanno, ed è comprensibile per le persone pensare che forse un posto con minore densità abitativa sia più sicuro per i prossimi 12-18 mesi». Ma non è certo una conclusione scontata, ha detto. La fuga dalla città dipende in gran parte dal modo in cui le autorità gestiranno la situazione nelle prossime settimane e mesi. «Si tratta di sapere se le persone si sentono al sicuro da un'altra ondata di pandemia» ha dichiarato Bowles. Dopo l'11 settembre, alcuni avevano predetto che la città avrebbe visto una contrazione della popolazione, spinta da timori del terrorismo. Invece, la popolazione è cresciuta perché la città ha dimostrato la sua capacità di proteggere i residenti. Il problema: potrebbe essere necessario un lockdown prolungato o ripetuto per far fronte al virus, che potrebbe spronare la fuga nelle aree suburbane. D’altra parte a che serve pagare un affitto folle in un appartamento angusto se non puoi goderti la città? Chi prende la palla al balzo in una situazione complicata per le grandi città è il governatore della West Virginia Jim Justice, convinto che il coronavirus spingerà le persone a scegliere le aree rurali abbandonando i luoghi ad alta densità abitativa: «Se potessi vedere come si vive qui, faresti le valigie e ti trasferiresti domani mattina. L'aria e l’acqua sono meno inquinate, le brave famiglie hanno valori reali, c’è un basso tasso di criminalità, ci sono buone scuole e buone strade. Siamo a un tiro di schioppo da due terzi della popolazione di questo paese eppure vivere qui è diverso».

Anna Lombardi per “Affari & Finanza - la Repubblica” il 23 aprile 2020. Non ci sono solo piccoli negozianti e ristoratori fra coloro che nel mese di aprile, negli Stati Uniti, non sono in grado di pagare l' affitto dei loro locali. Secondo il Wall Street Journal perfino compagnie finanziariamente solide hanno saltato la mensilità: mettendo a dura prova i proprietari di immobili e centri commerciali. Anche perché nell' elenco degli insolventi ci sono aziende più che solide: le griffe di lusso proprietà del marchio Lvmh, Louis Vuitton Moet Hennessy, i negozi di biancheria targati Victoria' s Secret e perfino le palestre Equinox. Sì, quelle celebri per essere le più costose d' America, 106 location negli Stati Uniti, proprietà di quello Stephen Ross, capo di The Related Companies e proprietario dei Miami Dolphins, che l' anno scorso raccolse 12 milioni di dollari per finanziare la campagna 2020 di Donald Trump con una cena da 250mila dollari a coperto. Si difendono dicendo di essere stati costretti a congelare gli abbonamenti, ma stanno pagando ugualmente i loro impiegati: e dunque non possono permettersi gli affitti. Ma, certo, capitale ne hanno. Ed è una giustificazione che non tiene. Stessa storia per i negozi del colosso di mangimi per animali Petco: considerati "essenziali", sono aperti. Ma si sono autoridotti del 75% gli affitti, sostenendo che "gli affari sono crollati del 50% e abbiamo dovuto chiudere tutti i servizi di toilette per cani". E che dire dell' ancor più estrema posizione della catena di prodotti da ufficio Staples? Anche i loro negozi sono aperti, ma per ora non pagano debiti e affitti, utilizzando la stessa motivazione: "Gli affari si sono ridotti". I proprietari di quelle location non ci stanno: disponibili a trovare un accordo con i gestori di piccole attività come boutique e ristoranti, effettivamente danneggiati dalla chiusura dei loro spazi, vorrebbero passare all' azione contro i grandi debitori e già promettono di dare battaglia davanti ai giudici. Ma in certi stati la loro è una causa già persa: i governatori di Ohio, Winsconsin, California, hanno fatto sapere che non si potrà sfrattare chi non paga l' affitto durante il lockdown. Altri potrebbero appellarsi al fatto che la pandemia è un evento di forza maggiore ed essendo imprevedibile quasi certamente se la caveranno con forti sconti e accordi in tribunale. Ed è su questo che conta pure chi è in condizioni di pagare.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. Proteste di gruppi piccoli ma molto attivi, ben coordinati e finanziati da miliardari della destra radicale spuntati all' improvviso in molte parti del Paese. Fu così che, inizialmente sottovalutati, i Tea Party nel 2009 eressero le barricate contro le quali si infranse la riforma sanitaria di Barack Obama (che verrà poi approvata in una versione molto annacquata). Undici anni dopo la storia si ripete - simili lo scenario, le modalità organizzative e la spinta politica - con le proteste degli attivisti che chiedono di riaprire subito l' America e considerano le misure sanitarie contro la pandemia - attività economiche sospese e distanziamento sociale - violazioni dei loro diritti costituzionali. Mercoledì scorso la prima marcia sul Campidoglio di Lansing, la capitale del Michigan. Sembrava una manifestazione spontanea, nata da un passaparola su Facebook. Invece c'era dietro una vera organizzazione che ha lanciato un' offensiva denominata Operation Gridlock. Da lì una raffica di altri assedi ai governatori (democratici e repubblicani) che hanno adottato misure sanitarie prudenziali, dal Texas alla Pennsylvania, dall' Arizona all' Ohio. Le nuove proteste, che si sono moltiplicate nel weekend e continuano anche in questi giorni, oltre al sostegno di mani finanziarie forti del fronte conservatore (come quelle della famiglia di Betsy DeVos, ministro del governo Trump) hanno un altro importante elemento in comune coi Tea Party: come i movimenti di allora, sono attivamente sostenute dalla Fox, la rete televisiva conservatrice di Rupert Murdoch; i suoi conduttori soffiano sul fuoco del disagio economico crescente dei cittadini - un fenomeno sicuramente reale - mettendo sotto accusa i «governatori liberticidi» e presentando gli attivisti, molti dei quali scesi in piazza in tuta mimetica e imbracciando fucili automatici, come eroici difensori della Costituzione. Proprio come 11 anni fa, la Fox pubblica il calendario delle manifestazioni e sul suo sito offre anche informazioni logistiche a beneficio degli organizzatori delle proteste. Be', a voler spaccare il capello in quattro una differenza rispetto al 2009 ci sarebbe. Allora alla Casa Bianca sedeva un presidente, Obama, che i Tea Party volevano abbattere. Ora invece i ribelli anti-lockdown inneggiano al ticket presidenziale Trump-Pence. Ma come, non sono stati proprio loro due, dopo i tentennamenti iniziali, a ordinare il confinamento nelle abitazioni? Di questi tempi, si sa, umori e interpretazioni contano più dei fatti, strumentalizzati a fini politici in modo sempre più sfacciato. A destra come a sinistra. Trump, che in questo campo è il più abile e spregiudicato, seguendo la solita logica da «partito di lotta e di governo» inneggia agli insorti che chiedono la rimozione di blocchi che lui stesso ha decretato. Per levarsi di torno i pedanti che pretendono un minimo di coerenza, viene diffusa la narrativa di un Trump che vorrebbe riaprire, ma è imprigionato da un lato dagli esperti sanitari della Casa Bianca, dall' altro dalle resistenze di molti governatori. Gli attacchi si concentrano così su questi ultimi - con Trump che invoca la «liberazione» di Michigan, Minnesota e Virginia - dimenticando che gli Stati non sono ancora nelle condizioni previste dalla Casa Bianca per allentare i vincoli: due settimane di riduzione del contagio. Non va meglio agli epidemiologi, da mesi in prima linea. La tragedia del coronavirus sembrava aver risvegliato le coscienze e riabilitato gli esperti. Macché: superato il picco dei morti e dei contagi, i competenti tornano sul banco degli imputati. Sono sospettati di usare la scienza per trasformare l' America libertaria in un Paese statalista. Gli umori di questi attivisti, pochi ma energici, emergono, chiari, dalle loro insegne: «La libertà è più forte della paura», «Gesù è il mio vaccino» mentre la «social distance«, diventa «socialism distance». Il bersaglio preferito? Il mite dottor Fauci: da epidemiologo della Casa Bianca a carceriere che tiene in gabbia Trump.

Enrico Chillè per ilmessaggero.it il 18 aprile 2020. È morto a 66 anni, dopo aver contratto il coronavirus e aver rifiutato le norme di isolamento per poter continuare la propria attività pastorale. Così se ne è andato Gerald O. Glenn, vescovo evangelico statunitense che aveva sfidato le restrizioni per limitare il contagio e che, nel marzo scorso, aveva motivato così la propria decisione: «Lo credo fermamente: Dio è molto più grande di questo virus così temuto. Continuerò a predicare la parola di Dio, finché non sarò in galera o in ospedale». Le affermazioni del vescovo Gerald Glenn avevano scatenato parecchie polemiche non solo nel Virginia, lo stato dove viveva, ma in tutti gli Stati Uniti. Nell'ultimo incontro coi fedeli, avvenuto in una chiesa evangelica di Richmont, il vescovo aveva affermato: «Ci vietano assembramenti con più di 10 persone, ma in questa chiesa siamo tutti al sicuro. Non mi interessano eventuali sanzioni, la mia è un'attività essenziale: sono un predicatore e parlo con Dio». Come spiega il New York Post, il vescovo Glenn era risultato positivo lo scorso 5 aprile ed era stato ricoverato in ospedale quando le sue condizioni di salute si erano aggravate. Domenica scorsa, il predicatore evangelico è deceduto, mentre la moglie, anche lei colpita dal virus, si trova ancora ricoverata in ospedale. La figlia del vescovo, Mar-Gerie Crawley, ha spiegato ad un'emittente locale: «Purtroppo abbiamo sottovaluto i sintomi, dal momento che mio padre soffriva di una condizione che lo portava a sviluppare molto spesso raffreddori e influenza. In questo momento di profondo dolore posso solo fare un appello alla popolazione: restate in casa per essere al sicuro, questo virus è pericoloso e c'è ancora troppa gente convinta che possa colpire solo gli altri».

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 16 aprile 2020. La firma di Donald Trump su 70 milioni di assegni per sostenere le famiglie in tempi di coronavirus che nelle prossime settimane arriveranno a 70 milioni di americani. Che il presidente stia gestendo l' emergenza Covid-19 con gli occhi fissi alle elezioni di novembre è noto da tempo: tre settimane fa, al varo dello stimolo fiscale da duemila miliardi di dollari, scrivemmo che alla Casa Bianca circolava l' idea di una pioggia di assegni firmati da un Trump benefattore. Ma il progetto era stato poi accantonato per motivi tecnici (per legge gli assegni che erogano soldi federali devono essere firmati da un funzionario del Tesoro proprio per evitare strumentalizzazioni politiche) e anche per l' assenza di precedenti: l' Irs (Internal Revenue Service), l' agenzia del Tesoro che gestisce entrate fiscali e rimborsi, si è sempre opposta a interferenze esterne. Anche quelle della Casa Bianca, anche più limitate. Nel 2001 quando, col bilancio federale in attivo, George Bush restituì a ogni contribuente una cifra variabile tra i 300 e i 600 dollari, l' Irs respinse la sua richiesta di inserire nella lettera d' accompagnamento una frase nella quale il governo rivendicava il merito di aver messo soldi nelle tasche dei cittadini. Ma Trump, si sa, non si rassegna facilmente. Lunedì sera, racconta il Washington Post , è stato trovato l' escamotage: l' assegno (1.200 dollari per gli individui che guadagnano meno di 75 mila dollari l' anno, 2.400 per le coppie con un reddito complessivo inferiore ai 150 mila dollari) sarà firmato da un funzionario, ma in basso a sinistra, nello spazio riservato alla causale, ci sarà anche la firma del presidente e la scritta «Economic Impact Payment». Polemiche inevitabili non solo per la cosa in sé, ma anche perché la decisione, formalizzata martedì mattina, secondo funzionari anonimi dell' Irs (e anche secondo gli esperti) è destinata a ritardare l' emissione degli assegni (ne saranno inviati 5 milioni a settimana). Il Tesoro nega che ci voglia più tempo per ristampare tutto e afferma che i primi assegni verranno recapitati la prossima settimana. Questi pagamenti andranno ai cittadini dei quali il governo non ha le coordinate bancarie. Gli altri, 80 milioni di contribuenti, riceveranno i soldi federali direttamente sul loro conto concorrente, senza firme. Nascono, intanto, due commissioni di grandi manager e imprenditori Usa per coordinare gli sforzi per la ripresa economica. Dentro tutti i big, da Cook di Apple a Zuckerberg di Facebook ai capi di banche e industrie. Tutti etichettati come consulenti della Casa Bianca. Alcuni, pare, nemmeno consultati prima.

Alessia Strinati per "leggo.it" il 16 aprile 2020. Muore di coronavirus a 33 anni dopo aver lavorato senza alcuna protezione. Danielle Dicenso, infermiera del reparto di terapia intensiva al Palmetto General Hospital di Hialeah, in Florida, è stata trovata senza vita nella sua abitazione, stroncata dal virus, ma il marito ha spiegato che non le erano state fornite a lavoro le adeguate misure di sicurezza per proteggersi.  «Ha lavorato fino alla fine in un reparto Covid, non le hanno dato neanche una mascherina per proteggersi e ora lei non c'è più», ha raccontato il marito alla stampa locale. Danielle aveva iniziato ad avere da qualche giorno febbre e tosse, era rimasta in casa, ma le cose si sono complicate dopo qualche giorno. L'infermiera aveva confessato alla famiglia di avere paura, di essere stremata dai turni di 12 ore. Dopo aver accusato i primi sintomi la 33enne si è messa in quarantena ed è stata sottoposta al tampone il cui risultato però è stato definito "inconcludente", le sue condizione poi si sono aggravate fino a quando non è morta. La famiglia è in attesa dei risultati dell'autopsia per capire se effettivamente è stata uccisa dal virus, ma il marito è convinto che si era contagiata in ospedale dove non venivano adottate le giuste misure di sicurezza. L'ospedale è però prontamente intervenuto affermando: «Tutti i dipendenti del nostro ospedale sono sottoposti a controllo della temperatura all'arrivo, indossano una maschera durante l'assistenza ai pazienti e sono tenuti a informarci se diventano sintomatici. Non sono autorizzati a lavorare in ospedale per prendersi cura dei pazienti se presentano sintomi di Covid-19».

L’odissea di 200 ragazzi italiani, licenziati da Disney World e bloccati negli Stati Uniti. Redazione de Il Riformista il 15 Aprile 2020. Topolino si ferma, ma nei guai finiscono i suoi lavoratori. Il mondo di Disney World, il famoso parco a tema con sede in Florida, ha deciso di sospendere da domenica prossima i contratti di lavoro per 43mila dipendenti e promettendo la ripresa solo al termine dell’emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus. Tra questi ci sono anche 200 ragazzi italiani che erano ad Orlando per lavorare al parco divertimenti, ora bloccati negli Stati Uniti che ha chiuso i voli. Federico Arca, uno dei lavoratori del Disney World, ha raccontato su Facebook l’odissea che stanno vivendo: “Non c’è la possibilità fisica di tornare nel proprio Paese”. Per questo la Farnesina ha iniziato ad interessarsi al caso: l’ambasciata italiana di Washington, il consolato di Miami e l’Unità di crisi del Ministero hanno contattato i 200 italiani e hanno iniziato a mettere a punto un piano per prestare assistenza sul posto e studiare l’itinerario per un ritorno in Italia. Sempre Arca, giovane bresciano che sta vivendo un incubo negli Stati Uniti, racconta che “l’unica compagnia per la tratta Orlando-New York segnala che ogni volo è in overbooking o non confermato fino almeno al 19 aprile, noi dobbiamo lasciare casa il 18 mattina: siamo allo sbaraglio in una terra non nostra”. I lavoratori italiani di Disney World hanno infatti ricevuto lo scorso 11 aprile una lettera dalla società in cui si comunicava la decisione di porre fine al programma con il quale era giunti ad Orlando per lavorare nel parco divertimenti, concedendo una settimana di tempo per lasciare gli appartamenti e fino a un mese per salutare gli Stati Uniti. “Il mio appello deve essere per l’Italia, per la mia nazione, che non voglio mi lasci in mezzo alla strada”, è il messaggio che arriva da Arca.

Domenico Zurlo per "leggo.it" il 15 aprile 2020. Bloccati in Florida da giorni, dopo il lockdown dovuto alla pandemia di coronavirus: alcune decine di giovani italiani che lavoravano a Epcot, uno dei quattro parchi divertimenti di Disneyworld, da un giorno all’altro si sono ritrovati in un limbo. Colpa della chiusura a tempo indeterminato del parco, decisa nell’ambito delle misure restrittive diventate ormai una costante in quasi tutto il mondo: senza più un lavoro, e intrappolati negli Usa a migliaia di chilometri da casa. Il parco Epcot celebra la creatività, l’immaginazione, il futuro: ma il presente di questo gruppo di ragazzi, poco meno di 200, negli States per un programma di scambio internazionale, sembra quasi un incubo. Tra loro, in quella che si configura come una vera e propria Odissea, un giovane romano, Davide Massotti: da quasi un anno Davide lavora nel padiglione Italia di Epcot, alle dipendenze della Delaware North, la compagnia che gestisce i ristoranti. «Da due settimane siamo in quarantena, bloccati nei nostri alloggi - ha raccontato Davide a Leggo - Sia la Delaware che la Disney ci stanno aiutando, ci hanno pagato una settimana in più di stipendio esentandoci dai costi dell’assicurazione sanitaria e dell’affitto. Ma siamo preoccupati e vorremmo tornare a casa il prima possibile». Il nocciolo della questione è nelle modalità del ritorno: gli unici voli diretti per l’Italia partono da New York, focolaio del contagio negli Usa. Il costo del biglietto è tutt’altro che economico (1.800 dollari circa), e i voli non sono garantiti: «Rischieremmo di arrivare in aeroporto, non poter partire ed essere costretti a restarci per uno o due giorni, col rischio di contrarre il virus - spiega Davide - Qui in America c’è molta sottovalutazione, anche dove il contagio è molto diffuso». Nel frattempo i ragazzi attendono negli alloggi, che dovranno però lasciare entro la fine di questa settimana: se il soggiorno si protrarrà, dovranno essere loro a farsi carico dei costi. La Farnesina, il consolato italiano a Miami e l’ambasciata stanno monitorando la situazione, per far sì che possano tornare al più presto a casa: l’ipotesi prospettata, racconta ancora Davide, è quella “di organizzare un volo charter da Orlando o da Miami, direttamente per Roma, ad un costo accessibile. Non si tratta di 5 o 10 persone ma di quasi 200 ragazzi: aspettiamo con fiducia che il Governo ci aiuti”. Per mettere fine ad un’esperienza che doveva essere meravigliosa, ma che sta finendo nel peggiore dei modi.

Coronavirus, 200 italiani bloccati dopo la chiusura di Disney World: "Dal 18 senza un tetto". Le Iene News il 15 aprile 2020. Dopo la chiusura del parco Disney World a Orlando (Stati Uniti) in cui lavoravano, quasi 200 ragazzi italiani stanno cercando di tornare in Italia entro il 18 aprile: “Disney ha detto che per quella data dobbiamo lasciare gli appartamenti”. “Ci stiamo facendo prendere dal panico”. Sono quasi 200 i ragazzi italiani rimasti bloccati a Orlando, in Florida, dopo che il parco Disney World dove lavorano è stato chiuso a causa dell’emergenza coronavirus. Ci hanno scritto in tantissimi e nel video che potete vedere qui sopra i ragazzi raccontano la loro testimonianza. “Il 6 aprile ci è arrivata un'email da Disney in cui ci dicevano che tutti i programmi sarebbero stati sospesi. La società con cui lavoriamo si chiama Patina Restaurant Group, di proprietà della Delaware North, che opera dentro Disney World”. Si tratta di un programma culturale, attraverso il quale i ragazzi stranieri lavorano per un periodo limitato nei centri Disney in America. La maggior parte di loro, ci raccontano, fa il cameriere nei ristoranti del parco. I 200 ragazzi di Orlando lavorano, o meglio lavoravano, a Epcot, uno dei quattro parchi divertimento che compongono Disney World. “Quando è scoppiata l’emergenza ci avevano garantito che saremmo potuti rimanere nei residence del parco”, racconta Federico Arca, 24 anni. “Gli alloggi vengono scalati dalla paga che ti danno e si trovano ai limiti del parco”, situati a mezz’ora da Orlando. Pochi giorni dopo la notizia della chiusura, però arriva un altro duro colpo per i ragazzi. “Sabato 11 ci arriva una nuova email da Disney in cui ci dicono che avremmo dovuto lasciare i residence entro il 18 aprile”, spiega Matteo, un altro ragazzo che lavorava lì. “Dovrete lasciare l’appartamento entro le 11 di mattina di venerdì 17 aprile”, è scritto nel messaggio. Tra i giovani, che hanno tutti età compresa tra i 18 e i 30 anni, scoppia il panico. “C’è stata una vera e propria caccia ai voli”, dice Andrea. I ragazzi infatti, con la paura di rimanere senza alloggio, cercano in ogni modo di tornare in Italia da Orlando. “Alcuni sono riusciti a prendere i primi voli disponibili a prezzi ancora accessibili, ma poi il costo dei biglietti è cominciato a salire, raggiungendo cifre per noi infattibili come 2mila o anche 4mila euro”. “Per tornare a casa l’unica compagnia che ancora opera è Alitalia”, spiega Alessio. Il primo volo disponibile sarebbe per il 22 aprile e avrebbe per altro un solo posto libero, raccontano i ragazzi, mentre loro sono quasi 200. “La nostra manager inizialmente ci aveva detto che la Farnesina stava lavorando per farci rientrare”, dice Federico Arca. “Ma ad oggi non abbiamo ancora avuto una risposta concreta”. Ad alcuni ragazzi sarebbe addirittura stato detto dal manager di riferimento di spostare il biglietto che erano riusciti ad acquistare in modo da tornare tutti insieme col volo che sarebbe stato organizzato dalla Farnesina. Angelica sarebbe una di queste: “Dopo aver sentito la manager ho deciso di farmi cambiare il biglietto, che avevo per il 26 aprile, con un voucher, e ora mi ritrovo senza il volo del 26, senza il volo della Farnesina e dal 18 senza una casa”. “L’azienda ci ha dato circa 600 dollari per far fronte alla situazione”, spiega Olivia, 19 anni. “Ci sono ragazzi che sono stati fortunati e hanno trovato voli a prezzi accessibili. Ma sono pochi”. E in più, via via che le comunicazioni vanno avanti, tra i ragazzi si scatena la caccia ai voli. “Due giorni fa il general manager ci ha detto che non aveva notizie dalla Farnesina e quindi ci consigliava di prendere un volo. Tutti sono impazziti a comprare biglietti e i prezzi sono di nuovo schizzati”. Intanto i ragazzi sentono tutta la pressione della scadenza del 18 aprile: “Abbiamo chiesto alla reception dei residence e ci hanno detto che se vogliamo un prolungamento forse possiamo richiederlo attraverso un sito mandato gli screen dei prezzi di Alitalia”. Ma la situazione non è facile: “Siamo senza lavoro e quindi senza visto e senza assistenza sanitaria”, spiega Andrea. Disney World, tramite un portavoce, ha dichiarato di “essere al lavoro con ognuno, per aiutarli a fare un piano adeguato”. “Il nostro appello è alle istituzioni”, dice Federico. “Chiediamo un volo accessibile che ci permetta di tornare a casa, in Italia”. “Noi siamo in contatto con i ragazzi da settimane”, ci hanno spiegato dalla Farnesina, che spiega che già a fine marzo aveva consigliato ai ragazzi di rientrare. "A noi hanno detto che non volevano fare scalo a New York per l’alto numero di contagi. Ma tutti gli italiani che stanno rientrando da quelle zone fanno scalo a New York”. “I voli commerciali ci sono ancora”,  aggiungono dalla Farnesina. “È ovvio però che più passa il tempo più i prezzi aumentano, anche perché ora i voli Alitalia devono attenersi alle regole di distanziamento, quindi tra i vari passeggeri devono esserci almeno due metri e i voli sono più vuoti. Ma la Farnesina non ha in questo senso competenze dirette su Alitalia”. Per chi non dovesse avere possibilità economica di prendere quei voli c’è però un’altra possibilità, ci spiegano: “Quando un connazionale si trova all’estero può richiedere al consolato di riferimento l’erogazione di un prestito con promessa di restituzione. Quando la persona torna in Italia restituisce quella somma allo Stato”. In ogni caso, rassicura la Farnesina, “stiamo lavorando alla pianificazione di un volo speciale con compagnie private, probabilmente con la Neos, che sta confermando il volo”.

DAGONEWS il 14 aprile 2020. La fotografia della crisi sociale in cui ci sta catapultando il coronavirus arriva dagli Stati Uniti: nell’ultimo periodo si stanno allungando a vista d’occhio le lunghe file davanti ai banchi alimentari e davanti agli uffici nei quali si richiede l’assegno di disoccupazione. Disperati che si mettono in coda per ricevere un sostegno e che secondo gli esperti sono i primi non solo a essere messi in ginocchio dalla crisi, ma che rischiano il contagio proprio mentre attendono i vivere per tirare avanti. «È preoccupante - ha detto al New York Times Carl Bergstrom, biologo dell'Università di Washington che studia pandemie – Si creano opportunità inutili per la trasmissione». Quasi 17 milioni di americani hanno presentato domanda di disoccupazione la scorsa settimana: il tasso di disoccupazione è al 14,7 per cento, un livello che non si raggiungeva dal 1940. L'IRS ha iniziato a erogare i 1200 dollari questo fine settimana a sostegno delle persone in difficoltà, ma quella cifra rischia di non bastare per mettere a tavola un piatto se la pandemia dovesse continuare. Nel frattempo le organizzazioni di volontariato cercano di tenere il passo con la crescente richiesta di cibo e beni di prima necessità. Lunedì, centinaia di persone hanno sfidato il maltempo per avere un pasto gratuito presso la Bowery Mission di Manhattan: tra di loro non c’erano solamente senzatetto, ma persone che hanno perso il lavoro e si ritrovano senza soldi per andare avanti. Domenica i volontari hanno distribuito 60mila pasti. Giovedì scorso, circa 10.000 famiglie si sono messe in fila con le loro auto per ore in occasione di un imponente evento di distribuzione della San Antonio Food Bank (SAFB). «Siamo rimasti stupefatti e sopraffatti dalla necessità della comunità - ha detto Eric Cooper, presidente e CEO della SAFB – Generalmente diamo cibo a 60.000 persone a settimana. Ora ci sono 120mila persone che ci chiedono aiuto e la richiesta è destinata a salire». Tra coloro che hanno richiesto aiuto ci sono anche autisti Uber e camerieri che oggi si ritrovano senza lavoro. Code simili a quelle di San Antonio ci sono verificate davanti alle banche alimentari di diverse città americane.

Da "ilriformista.it" il 14 aprile 2020. I topi si stanno “convertendo” al cannibalismo per sopravvivere all’emergenza Coronavirus. È quanto sottolineato da diversi esperti americani, come Bobby Corrigan e Michael H. Parsons, ai media statunitensi. Uno scenario che potrebbe avere conseguenze non indifferenti anche per l’uomo. “Un ristorante all’improvviso chiude , cosa che è successa a migliaia non solo a New York ma da costa a costa degli Stati Uniti e in tutto il mondo – spiega il rodentologo Corrigan alla Nbc News – e quei ratti che vivevano vicino a quel ristorante e che per decenni dipendevano da quel locale, beh, ora ‘la vita’ non lavora più per loro e hanno solo un paio di scelte”. È probabile, secondo Corrigan, che i topi si rivolgano al “cannibalismo e all’infanticidio” per sopravvivere. Uno scenario condiviso da Michael H. Parsons, uno studioso di scienze biologiche della Fordham University, che ad ‘Insider’ rivela come il “best case scenario” è che i topi riducano la loro popolazione e limiteranno la loro riproduzione. Ma il rischio è anche quello di andare incontro nel lungo termine ad una nuova e più forte razza di ratti. “I ratti si rivoltano l’uno contro l’altro, si stanno letteralmente uccidendo l’un l’altro”, spiega Parsons. Il problema per lo studioso è che “non appena troveranno nuovo cibo, cosa che indiscutibilmente faranno, invece di avere topi di ‘basso livello’ che cercano di entrare nelle nostro residenze, ne avremo di più intelligenti, più resistenti”. Lo studioso della Fordham University rivela quindi che i “sopravvissuti” di questa migrazione si assumeranno più rischi, saranno più aggressivi. “Potremmo avere a disposizione  ratti più resistenti in una seconda ondata di pandemia. Saranno più pronti di noi?”, si chiede Parsons. Per quanto riguarda i casi di ratti che hanno contratto il Covid-19, attualmente non sono segnalati situazione simili. I roditori però possono diffondere altre malattie, tra cui infezioni batteriche e parassitarie, come l’Hantavirus, sia tra gli uomini che negli altri animali.

 (Askanews il 14 aprile 2020) – Il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, è pronto a sfidare il presidente Donald Trump sulla revoca delle misure di lockdown in vigore nello Stato per contenere la pandemia di coronavirus, sottolineando che “non abbiamo re Trump, abbiamo il presidente Trump”.Ieri il presidente americano ha sostenuto di avere i “pieni” poteri per decidere sulle misure restrittive imposte dai singoli Stati. “Quando qualcuno è il presidente degli Stati Uniti, l’autorità è totale, ed è così che deve essere”, ha detto ieri al briefing alla Casa Bianca. Quindi, commentando la decsione di sette governatori dell’Est di coordinarsi per la riapertura della regione, Trump ha aggiunto: “Non possono fare nulla senza l’approvazione del Presidente degli Stati Uniti”.Interpellato a riguardo dalla Cnn, oggi Cuomo ha dichiarato: “Se mi ordinasse di riaprire con modalità che mettono a rischio la salute della gente del mio Stato, non lo farei”. E poi ha aggiunto: “Sarebbe la peggior cosa che potrebbe fare in questo momento, sarebbe un modo di procedere dittatoriale… non abbiamo re Trump, ma il presidente Trump”.

Da 24it.news il 14 aprile 2020. Lunedì il presidente Donald Trump ha rivendicato l’autorità “totale” per decidere come e quando riaprire l’economia dopo settimane di rigide linee guida sul distanziamento sociale volte a combattere il nuovo coronavirus. Ma i governatori di entrambe le parti hanno reagito rapidamente, osservando che hanno la responsabilità primaria di garantire la sicurezza pubblica nei loro stati e deciderebbero quando è sicuro iniziare un ritorno alle normali operazioni. Trump non avrebbe offerto dettagli sulla fonte del suo potere affermato, che sosteneva, nonostante i limiti costituzionali, era assoluto. “Quando qualcuno è presidente degli Stati Uniti, l’autorità è totale”, ha detto Trump alla Casa Bianca. “I governatori lo sanno.” I commenti arrivarono non molto tempo dopo che i leader democratici nel nord-est e lungo la costa occidentale avevano annunciato accordi statali separati per coordinare i loro sforzi per ridimensionare gli ordini di soggiorno a casa o riaprire le attività nei loro orari. Ansioso di lasciarsi alle spalle la crisi, Trump ha discusso con gli aiutanti senior su come ripristinare le raccomandazioni federali sul distanziamento sociale che scadono alla fine del mese. Mentre Trump ha emesso raccomandazioni nazionali che consigliano alle persone di rimanere a casa, sono stati i governatori e i leader locali a istituire restrizioni obbligatorie, tra cui la chiusura delle scuole e la chiusura di attività non essenziali. Alcuni di questi ordini comportano multe o altre sanzioni e in alcune giurisdizioni si estendono all’inizio dell’estate. E i governatori hanno chiarito lunedì che non tollererebbero la pressione di agire prima di ritenerlo sicuro. “Tutti questi ordini esecutivi sono ordini esecutivi statali e quindi spetterebbe allo stato e al governatore annullarne molto”, ha dichiarato il governatore repubblicano del New Hampshire, Chris Sununu, alla CNN. “Il governo non viene aperto tramite Twitter. Si apre a livello statale “, ha dichiarato il governatore del Michigan Gretchen Whitmer, democratico. Nel frattempo, i governatori si stavano unendo, con New York, New Jersey, Connecticut, Pennsylvania, Delaware e Rhode Island che si accordavano per coordinare le loro azioni. I governatori di California, Oregon e Washington hanno annunciato un patto simile. Mentre ogni stato sta costruendo il proprio piano, i tre stati della West Coast hanno concordato un quadro dicendo che lavoreranno insieme, metteranno al primo posto la salute dei loro residenti e lasceranno che la scienza guidi le loro decisioni. Il governatore del New Jersey Phil Murphy, un democratico, ha sottolineato che gli sforzi richiederebbero tempo. “La casa è ancora in fiamme”, ha detto Murphy in una teleconferenza con i giornalisti. “Dobbiamo ancora spegnere il fuoco, ma dobbiamo iniziare a mettere i pezzi del puzzle di cui sappiamo che avremo bisogno … per assicurarci che questo non si riaccenda.” Trump, tuttavia, ha insistito sul fatto che fosse stata una sua decisione. “Il presidente degli Stati Uniti chiama i colpi”, ha detto, promettendo di rilasciare un documento che delinea il suo argomento legale. Trump può usare il suo pulpito prepotente per fare pressioni sugli stati per agire o minacciarli con conseguenze, ma la Costituzione attribuisce responsabilità in materia di salute pubblica e sicurezza principalmente ai funzionari statali e locali. Sebbene Trump abbia abbandonato il suo obiettivo di iniziare a ripristinare le linee guida sul distanziamento sociale entro Pasqua, ha avuto il desiderio di riavviare un’economia che si è drasticamente contratta mentre le aziende hanno chiuso, lasciando milioni di persone senza lavoro e lottando per ottenere merci di base. La chiusura ha anche minato il messaggio di rielezione di Trump, che si basava su un’economia in forte espansione. L’affermazione di Trump che potrebbe costringere i governatori a riaprire i loro stati rappresenta anche un drammatico cambiamento di tono. Per settimane Trump ha sostenuto che gli Stati, non il governo federale, dovrebbero guidare la risposta alla crisi. E ha rifiutato di fare pressioni pubbliche sugli stati affinché mettessero in atto restrizioni di tipo casalingo, citando la sua fiducia nel controllo locale del governo. Mentre Trump può usare i suoi briefing quotidiani sulla Casa Bianca e il suo account Twitter per cercare di plasmare l’opinione pubblica e i governatori della pressione affinché si pieghino alla sua volontà, “ci sono limiti reali al presidente e al governo federale quando si tratta di affari interni”, John Yoo, un professore della facoltà di giurisprudenza della Berkeley dell’Università della California, ha dichiarato in una recente conference call della Federalist Society. Il governatore repubblicano del Mississippi Tate Reeves, un sostenitore di Trump, ha affermato che la questione di quando revocare le restrizioni sarebbe “uno sforzo congiunto” tra Washington e gli Stati. Parla di come e quando riavviare l’economia della nazione, dato che Trump è stato irto di critiche sul fatto che era lento a rispondere al virus e che le vite avrebbero potuto essere salvate se le raccomandazioni sul distanziamento sociale fossero state messe in atto prima. Quella frustrazione è stata amplificata dai commenti del Dr. Anthony Fauci, il più grande esperto di malattie infettive della nazione, che domenica ha detto alla CNN che, “ovviamente,” se il paese “avesse iniziato a mitigare prima, avresti potuto salvare delle vite”. Trump ha risposto ripubblicando un tweet che includeva la linea “Time to #FireFauci”, suscitando allarmi che Trump potrebbe prendere in considerazione il tentativo di estromettere il medico di 79 anni. Ma durante il briefing di lunedì, Trump ha insistito sul fatto che il lavoro di Fauci fosse al sicuro dopo che Fauci è salito sul podio per cercare di spiegare i suoi commenti. Trump si è lamentato con gli aiutanti e i confidenti dell’attenzione mediatica positiva di Fauci e della sua volontà di contraddire il presidente nelle interviste e nella fase del briefing room, secondo due repubblicani vicini alla Casa Bianca. Hanno parlato a condizione di anonimato perché non erano autorizzati a discutere conversazioni interne. Ma Trump ha detto agli aiutanti che sa che il ritorno alla rimozione di Fauci sarebbe feroce e che – almeno per ora – è bloccato con il dottore. In più di un’occasione, tuttavia, ha sollecitato che Fauci venga lasciato fuori dai briefing della task force o che il suo ruolo di espressione venga ridotto, secondo i repubblicani.

Rebecca Shabad per 24it.news il 14 aprile 2020. Il Governatore di New York Andrew Cuomo ha avvertito martedì che il presidente Donald Trump non dovrebbe cercare di riaprire lo stato contro i suoi desideri, dicendo che creerebbe “una crisi costituzionale come non l’avete vista da decenni” e potrebbe portare a un drammatico aumento di casi di coronavirus. “L’unico modo in cui questa situazione peggiora è se il presidente crea una crisi costituzionale”, ha detto Cuomo sul “Morning Joe” di MSNBC. “Se mi dice ‘lo dichiaro aperto’, e questo è un rischio per la salute pubblica o è sconsiderato con il benessere della gente del mio stato, mi opporrò”, ha detto. “E poi avremo una crisi costituzionale come non si vede da decenni, in cui gli Stati dicono al governo federale:” Non seguiremo il tuo ordine “. Sarebbe terribile per questo paese. Sarebbe terribile per questo presidente “. Durante un lungo briefing con la stampa della task force sul coronavirus della Casa Bianca lunedì, il presidente ha dichiarato, a torto, che alla fine ha il potere di prendere decisioni che si applicano a ciascuno stato. Lascia che le nostre notizie incontrino la tua casella di posta. Le notizie e le storie importanti contano le mattine dei giorni feriali. “Quando qualcuno è il presidente degli Stati Uniti, l’autorità è totale. Ed è così che deve essere – è totale”, ha detto Trump. “E i governatori lo sanno.” Cuomo disse che i commenti di Trump non erano “una flessione della Costituzione” ma “era una rottura della Costituzione”. Quando gli è stato chiesto in una precedente intervista sul “OGGI” della NBC di mostrare cosa accadrebbe se Trump provasse a scavalcare Cuomo, il governatore ha detto: “Se lo spingesse a quel punto assurdo, avremmo un problema”. “Se pensa di forzare questo stato, o qualsiasi stato del genere, a fare qualcosa di sconsiderato o irresponsabile, che potrebbe mettere in pericolo la vita umana, letteralmente, perché non riapriamo correttamente, vedrai quei numeri di virus andare via di nuovo su, e altre persone moriranno “, ha detto Cuomo. Cuomo ha affermato che l’affermazione di Trump era “sbagliata”, secondo la Costituzione. L’autorità per chiedere alle imprese di chiudere in una crisi di salute pubblica è un “potere di polizia”, ed è riservato dalla Costituzione per gli stati, non per il governo federale, hanno detto gli esperti a NBC News. “Non abbiamo un re – abbiamo un presidente, ed è stata una grande decisione”, ha detto Cuomo. “Siamo scappati dall’avere un re, e George Washington era presidente, non re Washington, quindi il presidente non ha autorità totale. La Costituzione è lì, il decimo emendamento è lì. … È molto chiaro che gli stati hanno il potere dal decimo emendamento." L’epidemia di coronavirus “non è finita”, ha detto Cuomo, perché mentre New York sta vivendo un plateau nel tasso di casi, o un appiattimento dell’aumento, non sta ancora vedendo un declino. Il governatore ha ribadito che i test saranno fondamentali per la riapertura dell’economia, che secondo lui dovrebbe essere graduale. Cuomo e alcuni altri governatori del Nord-Est hanno annunciato lunedì che coordineranno una riapertura dei loro stati tra loro per impedire di nuovo un rapido aumento dei casi. Trump ha osservato con attenzione la riapertura dell’economia all’inizio di maggio, sebbene al briefing stampa di lunedì abbia rifiutato di dire se ha intenzione di farlo.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Anthony Fauci è diventato, suo malgrado, l' ostacolo principale per il «partito della ripartenza». Proprio oggi ci sarà la prima riunione della «Task force 2» insediata da Donald Trump: un altro gruppo di esperti che studierà come «riaprire l' America». Ne faranno parte medici e scienziati, ma ci saranno anche manager, imprenditori e finanzieri.

DAGONEWS il 16 aprile 2020. I maligni continuano a malignare sui rapporto tra Anthony Fauci, il potente e rispettato scienziato a capo dell’istituto nazionale per le malattie infettive, e Donald Trump. Fauci in un’intervista alla NBC si è rifiutato di nominare un singolo stato che crede riaprirà entro il primo maggio e ovviamente questo è bastato per parlare di nuove frizioni, visto che il presidente Usa vorrebbe farla finita con il lockdown che sta causando grossi casini all’economia statunitense e vorrebbe che qualche stato ripartisse entro fine mese. In più tutto questo avviene dopo una giornata complicata. Ieri si sono susseguite per tutto il giorno voci di un licenziamento di Fauci, dopo che il puzzone di Washington aveva retwittato un commento dell'ex candidata repubblicana alla Camera Deanna Lorraine con hashtag #FireFauci. La Casa Bianca ha poi dovuto precisare che Trump non ha intenzione di licenziarlo, ma lui alla conferenza stampa con il presidente ieri non si è visto

Elvira Naselli per repubblica.it il 16 aprile 2020. Da eroe del web quando alza gli occhi di fronte alle teorie di Trump sul Coronavirus o confessa che non può mica strappare il microfono al presidente a minacciato di morte da chi - di fronte all'evidenza scientifica che impone ancora misure di distanziamento sociale - vuole invece riaprire tutto perché l'economia è più importante dei morti. Adesso il destino di Anthony Fauci, consigliere della Casa Bianca, e uno dei più grandi esperti mondiali di virus ed epidemie sembra ancora più precario, da un punto di vista professionale. Perché ha ammesso che sì, se il lockdown fosse scattato prima - e non con colpevole ritardo come lascia intendere - molte vite americane sarebbero state salvate.

L'Italia al suo fianco. L'uomo - originario di Sciacca, in Sicilia - che ha lavorato fianco a fianco con sei amministrazioni e fronteggiato epidemie come Sars, Hiv, Ebola, rischia di essere "licenziato" dal presidente Trump, che non vuole più sentir parlare di prudenza. Ma Fauci non è solo. E persino dall'Italia la comunità scientifica si schiera al suo fianco. Perché - scrive Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma nell'oggetto del suo appello alle istituzioni italiane - la voce della scienza è essenziale per superare l'emergenza pandemica mondiale. "Abbiamo bisogno della leadership di Fauci, negli Usa o altrove e ci auguriamo che le notizie che stanno emergendo (del licenziamento di Fauci, ndr) non siano vere, e che il presidente Trump non voglia privarsi dell'apporto di un uomo integro e di uno scienziato di eccezionale valore che ha dedicato la propria vita professionale al servizio della sanità pubblica del suo Paese e di tutto il mondo", si legge nell'appello. Già, perché il settantanovenne Fauci - che da 35 anni è direttore del Niaid, il National Institute of Allergy and Infectious Disease, non è solo un grande scienziato. Ma un lavoratore instancabile e appassionato. Non c'è stato convegno importante di infettivologia o di quelli specifici organizzati dall'Ias, l'International Aids Society, dedicati allo studio dell'Hiv negli Stati Uniti e altrove in cui lui non sia venuto alle sessioni plenarie (e anche in sala stampa) per chiedere di non abbassare la guardia nei confronti di malattie, come l'Aids, che riteniamo sconfitte e che invece in molti paesi del mondo sconfitte non sono, perché l'accesso ai farmaci antivirali non è universale. Ed è stato Fauci l'architetto del Pepfar, il piano di emergenza finanziato dal presidente degli Stati Uniti proprio per affrontare l'emergenza Hiv.

Tazze e magliette. Certo, non deve esser facile tenere un piede dentro il rigore del metodo scientifico e l'altro nella sala stampa della Casa Bianca, con il presidente Trump che un giorno dipinge l'idrossiclorochina per la malaria come un trattamento miracoloso per il Sars-Cov-2 e l'altro promette rapidamente un vaccino. Un giorno parla di virus cinese e l'altro di virus arrivato dall'Europa. "Sono apolitico. Sono soltanto uno scienziato e un medico. Tutto qui", ha continuato a ribadire Fauci. E giù solidarietà. Ma probabilmente le tazze, le magliette o gli adesivi con la scritta "In Dr. Fauci we trust", abbiamo fiducia nel dottor Fauci, potrebbero aver sortito l'effetto opposto rispetto al sostegno per cui erano state pensate. Per non parlare del gruppo Facebook (Dr. Fauci parla e noi ascoltiamo) o la petizione di People per nominarlo il più sexy uomo vivente.

Le parole di don Corleone. A Michael Specter, un giornalista americano che scrive di Medicina e segue i congressi, Fauci ha spiegato qual è la sua ricetta per andare avanti. E nella sua soluzione c'è molta ironia. "Leggo il mio libro di filosofia preferito, Il Padrino, e mi ripeto: "Niente di personale, è soltanto business. E anche quando qualcuno fa cose ridicole, devi trattare. Perché se non lo fai sei fuori gioco".

Coronavirus: lo scontro Trump-Fauci e l'ingegno italiano. Piccole Note su Il Giornale il 14 aprile 2020. La conferenza stampa congiunta tra Trump e Anthony Fauci ha posto fine, e forse in via definitiva, alla polemica che nell’ultimo mese ha imperversato sui media,  americani e non, e che rischiava di trascinare il presidente nella polvere. Polemica nata dall’asserita conflittualità tra il responsabile sanitario della lotta al coronavirus e il presidente Usa, che negli ultimi giorni ha raggiunto il parossismo.

L’asserito conflitto Fauci-Trump. Tale conflittualità prende le mosse da uno spunto reale, ovvero la propensione di Trump a occupare spazi per dimostrare degno comandante in capo e l’insofferenza del presidente del National Institute of Allergy and Infectious Diseases per certe pose caratteristiche del personaggio. Un’umana discrasia caratteriale, magari accesa, ma nulla più, che ha creato suggestioni usate a vari scopi. Da una parte gli asseriti sostenitori di Trump accusano Fauci di mettere i bastoni tra le ruote al presidente. Operazione volta a difendere il proprio beniamino addossando al suo asserito antagonista gli errori della gestione dell’emergenza. Dall’altra parte, gli antagonisti del presidente hanno fatto di Fauci una sorta di tacito – e neanche tanto – accusatore del presidente, che non terrebbe in debito conto le sue raccomandazioni, precipitando l’America nell’abisso. L’opera di distanziamento tra i due gestori della crisi, che ha rischiato disastri, ha raggiunto il suo apice quando è circolata la notizia che Trump avrebbe chiesto a Fauci lumi sulla possibilità di far circolare liberamente il virus. Un’indiscrezione che evidentemente poteva venire solo dall’interlocutore del presidente, e per questo di portata dirompente. In realtà, l’ipotesi di dare un via libera al virus, allo scopo di ottenere quell’immunità di gregge che ne fermerebbe il dilagare, è stata presa in considerazione un po’ da tutti i politici d’Occidente, prima scontrarsi con le tragiche delucidazioni scientifiche sul costo in vite umane che avrebbe comportato. Insomma, non ci sarebbe nulla di male nel porre la domanda, ma ovviamente chi ha riportato l’indiscrezione gli ha conferito una portata criminale. Una polemica divampata ancor più dopo che Trump ha rilanciato un twitt che prefigurava il siluramento di Fauci. In una conferenza stampa congiunta, Trump e Fauci hanno smentito tutto. Anzi, Fauci ha spiegato che il presidente ha seguito alla lettera i suoi suggerimenti. E alla domanda capziosa se le sue dichiarazioni fossero libere, quindi non dovute a una pressione indebita del presidente, ha risposto stizzito rivendicando la sua totale libertà (New York Times). Da parte sua Trump ha elogiato il lavoro fatto insieme a Fauci.

Fauci e l’Italia. Quanto all’asserita propensione di Fauci a sabotare gli sforzi per contrastare il virus possiamo accennare a un piccolo episodio rivelatore. Alcuni giorni fa egli ha contattato Enrico Garaci, per anni direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, per avere notizie sulle modalità con cui l’Italia si stava approcciando al morbo. L’Italia, prima nazione occidentale in cui è esplosa la pandemia, è diventata un modello di contrasto al virus: misure come chiusura delle scuole, quarantene, sospensione delle attività non essenziali e altro, in un primo tempo causa di dileggio del nostro Paese, sono state man mano adottate da tutti. Fauci, di origini italiane, si è così ricordato del suo vecchio amico Garaci, che tanto ha dato nel campo delle malattie infettive, guidando e indirizzando ricerche riconosciute a livello internazionale, alcune delle quali realizzate proprio in collaborazione con il presidente del National Institute of Allergy and Infectious Diseases. Un piccolo aneddoto utile a comprendere come Fauci stia tentando di fare bene il suo lavoro, anche dimostrando un’umiltà che altri virologi e infettivologi molto meno importanti non hanno. Con buona pace di quanti reputano si stia applicando con sufficienza al suo lavoro. E serve anche a dimostrare che la derelitta Italia non è poi la cenerentola del mondo. Prova ne sia anche il lavoro che sta svolgendo un’azienda farmaceutica di Pomezia, l’Advent-Irbm, che sta sviluppando un vaccino in collaborazione con l’Università di Oxford. L’Advent ha annunciato l’inizio della sperimentazione sugli uomini, avendo il vaccino sperimentale superato con successo i test sugli animali. Verrà ora sperimentato in Inghilterra su 500 volontari. In questi giorni, un lungo spiegane di Bill Gates sul Corriere della sera articolava come combattere il virus. Il “benefattore” – in tal modo sono identificati sui media mainstream i pluri-miliardari – chiedeva 7 miliardi di dollari per la ricerca, che avrebbe prodotto l’agognato vaccino in 18 mesi. Secondo i responsabili dell’Advent i tempi potrebbero essere più brevi, il vaccino che stanno elaborando potrebbe forse (ma più no che sì) arrivare a settembre. Non si tratta di contrastare l’ipotesi di Gates, solo evidenziare che oltre ai benefattori, tanti sono impegnati in questa guerra epocale contro la pandemia, con visibilità diversa. Ieri, ad esempio, l’Oms ha annunciato la creazione di un team internazionale per la ricerca sul vaccino. Una schiera nutrita di scienziati e organismi internazionali di varie nazionalità, compresi cinesi e americani (e ciò nonostante si stia alimentando una feroce diatriba su assurde responsabilità cinesi riguardo la pandemia). Mancano i russi, nonostante anche loro stiano sviluppando con certo successo ricerche in tal senso. Una lacuna che non aiuta, ma che forse sarà superata in un secondo momento. Nel team dell’Oms anche Sarah Gilbert, l’esperta in vaccini che da Oxford sta collaborando con la Advent, ma anche altri scienziati e aziende farmaceutiche italiane, che stanno lavorando duro al di fuori dei riflettori dei media.

Il talento di Mr. Fauci: il medico più amato dagli americani. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 23 aprile 2020. L’immunologo americano è così popolare al punto che lo stesso presidente Trump non può far altro che subire il suo carisma silenzioso, la sua rassicurante competenza. Un ristorante italiano di Long Island ha creato un piatto in suo onore: le “linguine alla Fauci”, una variante della pasta con le vongole che la leggenda narra sia stata inventata dalla sua famiglia originaria di Sciacca, in Sicilia. Ma non è tutto: ciambelle, figurine, calzini su cui occhieggia la sua foto sorridente, persino ceri pasquali di “ringraziamento” dipinti a mano, un fitto merchandising che la dice lunga su quanto oltreoceano stia dilagando la “Faucimania”. Lui è il 79enne Anthony Fauci, da 36 anni è a capo dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive, praticamente un monumento della sanità pubblica Usa che oggi è senza alcun dubbio il personaggio più amato dagli americani. L’unico baluardo a cui aggrapparsi nel vortice della pandemia di covid- 19 che sferza anche gli Stati Uniti. Popolare al punto che lo stesso presidente Trump non può far altro che subire il suo carisma silenzioso, la sua rassicurante competenza. In un attacco di gelosia la scorsa settimana il tycoon aveva ringhiato su twitter che lo avrebbe rimosso dall’incarico perché l’immunologo si era permesso di criticare le fiacche misure messe in campo dall’amministrazione per contenere il contagio. Un cinguettio durato poche ore; nel timore di una rivolta dell’opinione pubblica in un momento così delicato per la nazione, l’inquilino della Casa Bianca ha rinunciato a ogni velleità di silurare lo scomodo Fauci. Così continuerà a sopportare le espressioni perplesse e le puntuali precisazioni del capo della task force anti covid- 19, le ramanzine per la superificialità con cui il presidente vorrebbe archiviare il lockdown e far ripartire la macchina economica: «Purtropppo è il virus che stabilisce il calendario, non noi». Nonostante lo stile misurato e la mitezza che accompagna ogni sua dichiarazione, non è certo uno che le manda a dire. Memorabile la lezione di virologia che ha impartito a Laura Ingraham, popolare conduttrice di Fox News che contestava la necessità di un vaccino: «Non lo abbiamo trovato per l’Aids, non lo abbiamo trovato per la Sars e la vita è andata avanti lo stesso, perché dovremmo trovare un vaccino contro il coronavirus?». Con la sua proverbiale gentilezza Fauci rimette in riga l’improvvisata virologa: «Perché sono virus diversi tra loro: contro l’Aids abbiamo trovato dei farmaci che hanno effetti spettacolari, la Sars invece è semplicemente scomparsa, avevamo sviluppato il vaccino, ma la malattia non c’èra più. Credo che lei faccia un po’ di confusione». Nato Brooklyn nel 1940 da una famiglia italiana, i genitori gestivano una farmacia e il piccolo Tony dava una mano occupandosi di consegnare i farmaci a domicilio alle persone più anziane percorrendo la città in bicicletta. Di educazione cattolica, frequenta il College of the Holy Cross un liceo gesuita di Manhattan. Po gli studi in medicina al Cornell University Medical College dove prima ottiene un dottorato e poi un tirocinio nella clinica universitaria. Nel 1968, a soli 28 anni, viene assunto dal National Institutes of Health, si occuperà per lungo tempo del laboratorio di studi clinici. Sei anni più tardi è nominato direttore del Dipartimento di fisiologia; è responsabile delle ricerche di immunologia. Il decennio successivo segna la svolta; nel 1984, diventa direttore del Niad: da allora a visto sfilare sotto i suoi occhi sei diversi presidenti e ben dieci amministrazioni. Appena insediato al Niad la sua priorità è la lotta all’Aids, un flagello che si sta diffondendo in tutto il pianeta e che non sembra in cima alle preoccupazioni del presidente Reagan, In fondo le vittime principali del retrovirus sono omosessuali e tossicodipendenti, categorie che non godono di grande simpatia tra l’elettorato di “Ronnie”, con gli esponenti della destra religiosa che all’epoca definivano l’Aids addirittura come «una punizione divina contro i degenerati e i peccatori». E invece lui si occupa di stringere rapporti con le associazioni che chiedono a gran voce l’accesso alle terapie sperimentali, ricevendo più volte i responsabili nel suo ufficio e accelerando i protocolli di cura. Anche perché i lavori e le sperimentazioni di Fauci sulla patofisiologia dell’Aids sono all’avanguardia e hanno contribuito in modo decisivo alla lotta contro la malattia. Nel 1988 è il decimo autore più citato al mondo negli studi clinici sul virus, su un totale di un milione di articoli. Fauci è anche uno dei funzionari pubblici statunitensi più pagati, circa 400mila dollari l’anno, uno stipendio superiore a quello del vicepresidente Pence, ma per gli americani quei soldi se li merita tutti e in questo caso le menate populiste anti-casta non hanno filo da tessere. Inoltre la sua autorevolezza e il suo virtuosismo nel raccogliere fondi per la ricerca barcamenandosi tra le varie commissioni del Congresso hanno nel corso degli anni fatto lievitare il budget del Niad, passato dagli 800 milioni del 1984 agli attuali sei miliardi. A quasi 80 anni, con un indice di popolarità dell’ 82% e con un luminosa carriera alle spalle, Fauci è però lontano dal gettare la spugna per dedicarsi ai nipotini. Quella contro il covid- 19 è una battaglia che vuole vincere sul campo, in prima linea, ma è anche una questione di responsabilità pubblica di fronte alle sortite anti-scientifiche della presidenza, gli americani hanno bisogno della sua guida. «Non dormo più di 4 ore per notte, mi sento come avessi 45 anni e mi comporto come se ne avessi 35», ha confidato in una recente intervista al sito Politico, raccontando che quando l’emergenza pandemia sarà terminata tornerà ai suoi amati hobby, la pesca, il tennis e la cucina. Rigorosamente italiana.

Coronavirus, la proposta shock di Trump: “Iniezioni di disinfettante contro il Covid”. Redazione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Con un bilancio delle vittime che ormai è a un passo da quota 50mila, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump nel corso del breafing quotidiano sul Covid-19 alla Casa Bianca ha lanciato una serie di proposte ‘mediche’ per fronteggiare l’epidemia che hanno sconvolto i medici. Il tycoon Usa ha infatti indicato le iniezioni di disinfettante e l’esposizione ai raggi ultravioletti, come una possibile strategia per contrastare il nuovo Coronavirus. ”Vedo che il disinfettante lo distrugge in un minuto. Un minuto. Non c’è un modo di fare qualcosa di simile, iniettandolo? Sarebbe interessante verificarlo”, ha proposto Trump. Il presidente ha quindi invitato i suoi concittadini a “prendere il sole”, suggerendo l’uso dei raggi ultravioletti per contrastare il Covid-19. Il riferimento è uno studio secondo il quale il Coronavirus sparirebbe più velocemente alla luce del sole e ad alte temperature. Indicazioni che sono suonate come un campanello d’allarme per virologi, medici e scienziati americani, che le hanno definite “pericolose”, visto che qualcuno potrebbe effettivamente provare ad  iniettarsi il disinfettante in casa.

LO SCONTRO CON FAUCI – Trump è quindi tornato ad attaccare il virologo della task force sul coronavirus della Casa Bianca, Anthony Fauci, sempre più sulla graticola. Fauci, assente al briefing con i giornalisti, aveva contestato il fatto che negli Stati Uniti non siano stati effettuati abbastanza test. “Non concordo”, ha commentato il tycoon.

I NUOVI AIUTI – Intanto la Camera dei Rappresentanti Usa ha dato il via libera ad un nuovo piano di aiuti da  484 miliardi per contrastare l’impatto economico del coronavirus. Trump dovrà quindi firmare la misura, già approvata dal Senato e destinata soprattutto alle piccole imprese, tra oggi e domani.

IL CONTAGIO NEGLI USA E NEL MONDO – Come detto, gli Stati Uniti con gli ultimi dati della giornata di giovedì si avvicinano ai 50mila decessi, attualmente sono infatti 49.759 le vittime da Coronavirus. Il numero di casi accertati è salito invece a 869.172. A livello globale invece i casi confermati sono 2.709.483, mentre le vittime sono ormai 190.872, come emerge dal dato della Johns Hopkins University. Le persone guarite dal Coronavirus sono 738.490.

Trump chiude tutto: stop agli ingressi negli USA “per proteggere il lavoro degli americani”. Redazione de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Gli Stati Uniti sono il Paese più colpito dal coronavirus. Secondo i dati della Johns Hopkins University i contagiati americani sono 788.110, le vittime oltre 42mila. Il presidente Donald Trump ha così annunciato tramite social che firmerà un decreto per sospendere temporaneamente l’immigrazione verso gli Stati Uniti. Un annuncio, motivato “dall’attacco del nemico invisibile”, che è arrivato tramite il profilo Twitter del presidente. L’ordine esecutivo permetterebbe di respingere le domande di cittadini stranieri, anche per le richieste di breve periodo, e dovrebbe essere firmato nei prossimi giorni. Trump ha comunicato la misura sia per combattere il virus dunque che per proteggere l’economia, come ha scritto: “per proteggere i posti di lavoro” degli americani. ‘Trump ha fallito nell’agire rapidamente contro la pandemia e questo sta costando enormemente all’America”, ha dichiarato l’ex vicepresidente Joe Biden, adesso sfidante del presidente nelle vesti del candidato democratico alla Casa Bianca. “È finito il tempo delle scuse – ha aggiunto Biden – è chiaro che il presidente non ha alcun interesse a risolvere il problema e a salvare le vite umane, con gli Usa che sono i primi nel mondo per decessi e casi di contagio e che contano già 22 milioni di americani che hanno chiesto un sussidio di disoccupazione”, ha attaccato Biden. Solo nelle ultime 24 ore negli USA sono morte oltre 1.400 persone a causa del Covid-19.

Da repubblica.it il 13 aprile 2020. "Perché non lasciamo che inondi il Paese?". Sarebbe stata questa la domanda che, secondo fonti informate citate oggi dal Washington Post, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump avrebbe rivolto all'immunologo Anthony Fauci durante una delle prime riunioni della task force della Casa Bianca contro il coronavirus. La tentazione dell'immunitità di gregge. "Signor presidente, morirebbe moltissima gente", avrebbe risposto il principale esperto di malattie infettive della nazione. Anthony Fauci ha salvato gli Stati Uniti. Secondo le fonti del Wp, il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases all'inizio non aveva neanche capito cosa il presidente intendesse dicendo di lasciare che il virus "inondasse" il Paese. Lui che di presidenti ne ha consigliati già sei durante la sua carriera. Ma il pensiero di fermare l'economia per Trump poteva essere decisivo per scegliere di non chiudere il Paese. Il dottore si è allarmato e ha reagito rispondendo con la determinatezza alla quale ci ha abituato e che lo ha reso uno tra i volti più popolari e amati negli Stati Uniti. Il Post rivela anche che i sei medici e scienziati che partecipano alla task force - oltre a Fauci, Deborah Birx, che guida la risposta della Casa Bianca, il surgeon generale Jerome Adams, il commissario della Fda Stephen Hahn ed il direttore dei Cdc Robert Redfield, hanno iniziato a tenere delle riunioni separate per discutere questioni mediche e di pubblica sanità. Questo perché gli scienziati erano sempre più frustrati per i "voodoo", così il quotidiano statunitense definisce le cure proposte da funzionari politici e dallo stesso Trump (la grande scommessa sulla clorichina), proposti durante le riunioni allargate. Con mezzo milione di casi e oltre 20mila morti, solo ieri gli Stati Uniti hanno superato l'Italia per decessi dovuti a Covid-19. Ma gli esperti non sono ottimisti e definiscono il conteggio "una sottostima". Anthony Fauci ha detto di sperare in "un ritorno alla normalità" entro novembre, e continua a tenere a bada il presidente e il suo ottimismo forzato. "Molte vite avrebbero potuto essere salvate se le restrizioni fossero state adottate prima" ha aggiunto. La scelta del lockdown, delle distanze sociali, della quarantena e dell'auto isolamento adottata dall'Europa quasi interamente, non è stata subito presa in considerazione neanche dal Regno Unito, dove l'immunità di gregge era stata la scelta iniziale anche del premier britannico Boris Johnson. "Morirano tanti cari", aveva detto Johnson che oggi è appena stato dimesso dopo aver rischiato la vita per Covid-19. Quando l'ha fatto, il tampone di Trump è risultato negativo, tuttavia la sua gestione della crisi è molto contestata. E la sua presidenza non più certa come un mese fa.

DAGONEWS il 10 aprile 2020. La maggior parte degli americani affetti da coronavirus sono stati infettati da un ceppo proveniente dall'Europa, ma i recenti studi mostrano che il ceppo che ha portato al lockdown di Wuhan si è diffuso sulla costa occidentale. Il coronavirus è probabilmente arrivato prima negli Stati Uniti dall'Europa, circolando inosservato tra i newyorkesi per settimane prima che fosse diagnosticato il primo caso nello stato di Washington, dove è stato confermato il primo caso americano. È questo ceppo europeo che ha portato il maggior numero di contagi negli Stati Uniti, ora concentrati a New York e nella East Coast, non il ceppo del virus più diffuso in Cina, secondo una nuova analisi dei genomi della Icahn School of Medicine. Un secondo ceppo ha colpito la costa occidentale e probabilmente è arrivato in un secondo momento dalla Cina, nonostante il fatto che un uomo tornato negli Stati Uniti dalla Cina sia stato il primo americano identificato infettato da COVID-19. In un altro studio gli scienziati dell'Università di Cambridge hanno scoperto che ci sono tre distinti ceppi del virus nella maggior parte dei casi del mondo. Ora è abbastanza chiaro che il coronavirus ha fatto il primo salto negli umani dal pangolino dopo un essersi manifestato nei pipistrelli. Gli autori dello studio di Cambridge hanno soprannominato il primo ceppo "tipo A". Una versione mutata del virus - tipo B – si è diffuso maggiormente in Cina, prima di passare in Europa, Sud America e Canada. Ancora un terzo ceppo, il tipo C, è diventata la versione dominante di COVID-19 a Singapore, in Italia e a Hong Kong, secondo l'analisi dei ricercatori di Cambridge sui genomi virali in campioni di pazienti affetti da coronavirus. Mentre gli scienziati di Cambridge dicono che il virus dalla Cina è approdato negli Stati Uniti, il team di Icahn ha scoperto che la maggior parte delle persone a New York - dove più di 150.000 persone sono infette – sono state infettate dall'Europa. I dati del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti di dicembre, gennaio e febbraio, che sono stati i primi mesi critici dell'epidemia, rivelano come centinaia di migliaia o addirittura milioni di casi di coronavirus non rilevati potrebbero essere entrati nel Paese. I dati mostrano che 759.493 persone sono entrate negli Stati Uniti dalla Cina prima del divieto del presidente Trump il 31 gennaio. Altri 343.402 sono arrivati dall'Italia, 418.848 dalla Spagna e circa 1,9 milioni sono arrivati dalla Gran Bretagna. Gli esperti affermano che non si può sapere quanti viaggiatori potrebbero essere stati infettati, ma è molto probabile che alcuni non presentassero sintomi.

Andrea Salvadore per americanatvblog.com il 12 aprile 2020. Questa storia della fase due è una storia che sarà impossibile da gestire in un paese solo. Se abbiamo capito una sola cosa di questo virus è che è globale. E buca le frontiere con un colpo di tosse. Ecco perchè è vitale, non solo interessante, guardare ogni giorno alle nostre 17, un’ora prima del dottor Borrelli, la conferenza stampa del governatore di New York Cuomo. A maggior ragione ora che gli Stati Uniti sono balzati al primo posto al mondo per decessi. Cosa ha detto allora Cuomo nel giorno del “sorpasso” (in cui Trump, per la prima vola in un mese, ha saltato la sua conferenza)? Subito dopo la lista dei morti e feriti ha citato Churchill. “Ora, questa non è la fine. Non è nemmeno l’inizio della fine. Ma è, forse, la fine dell’inizio”. La citazione, ha detto, è un regalo di sua figlia che viene spesso con lui, Michaela Kennedy, 22 anni. Le conferenze stampa sono sempre sottolineate da diapositive che compaiono sullo schermo e ripetono le affermazioni principali. Conferenze PowerPoint. Queste parole gli sono servite da lancio per riaffermare alcune cose già dette e altre nuove, che potrebbero servire anche a noi.

Riassumo. La politica deve stare fuori da questa emergenza. Sento sempre il presidente (Trump) e lo ringrazio per l’aiuto che sta dando a New York. Io sono governatore dello stato e non sarò un candidato democratico alla Casa Bianca (come avevano sperato in molti). Questa è la mia lotta. Il mio solo pensiero. Tutti i modelli matematici che stiamo seguendo dicono che il corso della pandemia dipendono dal nostro comportamento. Non parlo di date di riapertura per questo. Non vogliamo rischiare poi una nuova chiusura drammatica. Quando lo faremo sarebbe buona cosa farlo insieme ai nostri due stati confinanti, Connecticut e New Jersey. Seguiamo cosa fanno a Wuhan e in Italia. Con questo virus non ha senso muoversi da soli. E buona Pasqua. Sono stato chierichetto e so cosa vuol dire non celebrarla in una chiesa ma non si può fare altrimenti. E poi è arrivata la rituale stoccata al sindaco della città di New York, Bill de Blasio, che ha parlato di scuole chiuse fino a settembre ma di ripresa del lavoro tra meno di un mese. E chi starà con i bambini? si è chiesto, facendo così capire che deciderà lui. Nel frattempo -ha concluso- stiamo mettendo a disposizione di imprese e cittadini una squadra di avvocati e “semplificatori” per aiutare ad ottenere i fondi che il governo federale ha messo a disposizione ma ottenerli è impresa difficile come rapinare una banca.

La fase due, quindi, può aspettare. Le immagini della fossa comune dei morti di questi giorni ad Hart Island (come si fa in quel luogo da sempre, non è novità di questi giorni) specchiano quella dei nostri mezzi dell’esercito che trasportano bare dalla Lombardia, nella notte. È una notte globale. In attesa del vaccino, globale.

Michela Allegri per "ilmessaggero.it" il 10 aprile 2020. Un’emergenza sanitaria che rischia di sfociare anche in un’emergenza ambientale. Dagli Stati Uniti, il Paese nel mondo più colpito dal coronavirus, arriva un allarme degli esperti. Sembra infatti che molti americani stiano rispettando le indicazioni delle autorità sanitarie di sterilizzare piani di lavoro, pomelli delle porte, cassetti e altre superfici frequentemente toccate in casa. Il problema? Molti gettano le salviette disinfettanti, la carta igienica ed altri prodotti simili nel wc. Il risultato è un aumento a livello nazionale dell’impegno del sistema fognario e degli intasamenti, secondo idraulici e amministratori pubblici, che hanno rivolto un appello agli americani affinché risparmino le fognature da ulteriori stress. Lo racconta in New York Times. Alcuni ritengono che il problema sia stato acuito dalla difficoltà di reperimento della carta igienica nei supermercati, circostanza che ha portato i cittadini ad usare salviette di carta, tessuti umettati per bambini o altri prodotti simili. In tutti gli Stati Uniti – Charleston, North Carolina, l’Ohio del Nord-Est; Lexington, Kentucky; Spokane, Washington – le autorità di gestione degli impianti fognari hanno creato un hashtag #WipesClogPipes per sensibilizzare gli utenti sul fatto che le salviette umidificate non devono essere scaricate nel wc. E lo stesso problema potrebbe verificarsi anche in Italia. «Le salviette “scaricabili" non sono davvero scaricabili - ha dichiarato Jim Bunsey, direttore operativo del sistema fognario dell’Ohio del Nord-Est - Possono anche venire risucchiate dal flusso di scarico, ma poi non si decompongono come la carta». La società di manutenzioni idrauliche Roto-Rooter ha lanciato un allarme simile ai suoi utenti. L’organo di controllo per le risorse idriche della California ha avvisato che «anche le salviette vendute come “scaricabili” creano intasamenti nelle tubature e interferiscono con l’attività di smaltimento delle acque di fogna in tutto lo Stato. Scaricare nel wc salviette umidificate, asciugamani di carta e altri prodotti simili creerà intasamenti e straripamenti, determinando un ulteriore profilo di rischio per la salute pubblica durante la pandemia da coronavirus». L’ente ha evidenziato problemi in tutti gli impianti di trattamento delle acque della California. È stato spiegato come la maggior parte degli impianti di fognatura usi la forza di gravità e l’acqua scaricata dalle case per mantenere in movimento il flusso di liquidi e rifiuti, e non sia progettata per spingere via salviette umidificanti ed asciugamani di carta, che non si decompongono nel flusso e intasano il sistema. Le autorità hanno fatto presente che il problema non riguarda solamente gli impianti domestici, già messi a dura prova dalla permanenza domiciliare forzata dall’epidemia, ma anche i travasi che possono verificarsi in laghi, fiumi e oceani, con potenziali pericoli per la salute pubblica e l’ambiente. Gli idraulici stanno riscontrando un aumento delle chiamate da persone confinate in casa. «Abbiamo registrato un picco nel numero di linee fognarie intasate e, quando i nostri tecnici arrivano sul posto, dobbiamo tirare fuori salviettine igienizzate per bambini, asciugamani di carta, tessuti Lysol», dichiara Mark Russo, vicepresidente della Russo&Fratelli, società di idraulica e riscaldamento che opera ad Est Hanover, New Jersey. «Tutte queste cose non dovrebbero venire scaricate nel wc», ha concluso.

Albachiara Re per "wired.it" il 15 aprile 2020. Qual è la cosa che gli americani temono di più, in questo periodo di emergenza sanitaria a causa del coronavirus? No, non tanto l’esaurimento delle scorte di cibo, quanto – riferisce il magazine New York – che non si riesca più a trovare la carta igienica. Dopo l’annuncio delle misure di contenimento in tutti gli Stati Uniti, il paese ha assistito all’ormai tristemente consueto assalto ai supermercati, ma il primo prodotto oggetto di razzia è stata la carta igienica: la toilet paper è diventata quasi introvabile e, nelle grandi catene, è stato messo il limite a due confezioni per cliente. Le scene di questi giorni parlano di un vero e proprio dramma in atto: The Cut racconta di una coppia di Corpus Christi, in Texas, che ha rubato da un ristorante tutti i rotoli trovati nei bagni ed è scappata nascondendoli sotto i vestiti. Il 911 – il numero di emergenza negli Usa – ha fatto appello ai cittadini perché non intasino le linee per comunicare la mancanza di scorte di carta igienica, offrendo anche un decalogo con valide alternative, tra le quali “scontrini, giornali, stracci di stoffa, lacci e batuffoli di cotone”. E c’è anche chi ha deciso di monetizzare questa follia: alcuni ristornati in Illinois offrono un rotolo gratis di carta igienica a chi fa almeno 20 dollari di consumazione. Ma prima ancora, qualcun altro sembra aver trovato una soluzione definitiva: il caro vecchio bidet.

La scoperta del bidet. Considerato da gran parte degli americani come un accessorio per alberghi di lusso dalla clientela snob, il piccolo sanitario è diventato in poche settimane il nuovo oggetto del desiderio. Le vendite su Amazon o su altri siti hanno subito impennate e, con qualche decina di dollari, nelle case degli statunitensi può arrivare anche una specie di getto erogatore di acqua da montare direttamente sul proprio wc. Non proprio quello a cui siamo abituati noi italiani, quindi, ma il concetto è lo stesso. Un caso di scuola è quello della startup Tushy di Miki Agarwal, chiacchierato ex ceo di Think, marchio di biancheria intima pensato appositamente per il periodo mestruale. Agarwal, riporta The Cut, ha affermato che la scorsa settimana l’azienda ha realizzato vendite per 500mila dollari in pochi giorni, riuscendo a raggiungere in qualche caso 1 milione anche in un solo giorno. L’avvento della nuova era è stata salutato con entusiasmo dai nuovi clienti, che sui social si sono prodigati in commenti positivi spiegando come quest’acquisto gli abbia cambiato la vita. Secondo alcuni esperti gli acquisti compulsivi, in periodi di emergenza, aiutano a razionalizzare le paure e a esercitare, almeno dove è possibile, una forma di controllo sulla propria vita. Negli Stati Uniti d’America, per ora, si pensa a controllare quella parte di vita che passiamo in bagno.

Nicola De Angelis per "ilgiornale.it" il 9 aprile 2020. La città di New York sta subendo un colpo durissimo: in queste ore infatti per le strade della metropoli si possono vedere pullman che ad alta velocità accompagnano i pazienti malati di coronavirus nei vari presidi ospedalieri mentre si superano gli oltre mille morti in sole 36 ore soltanto nella città. La Grande Mela è a quota 4.571 morti di coronavirus, mentre i casi accertati sono oltre 81mila; soltanto martedì erano a 8mila. La preoccupazione più grande ora sono gli ospedali che in brevissimo tempo finiranno le scorte. Il Queens, con 26,204 casi e a seguire subito Brooklyn con 21,580 e il Bronx con 16,419. Manhattan ha circa 11mila casi accertati e Staten Island oltre 5mila si legge sul Dailymail. Al Wyckoff Heights Medical Center di Brooklyn le immagini sono raccapriccianti, infatti durante la notte è possibile vedere file e file di corpi avvolti in sacchi per cadaveri sfilare dall'uscita secondaria dell'ospedale fino a dentro i camion refrigeratori posti all'esterno dei principali ospedali newyorkesi. I pazienti vengono caricati prima sui pullman e dopo smistati a bordo di altri mezzi predisposti dagli ospedali. Tutti i pazienti vengono mossi da un ospedale all'altro per far sì che si venga a compensare la situazione tra i vari ospedali che oramai sono portati al collasso. Tra lunedì e martedì sono arrivati una dozzina di pullman pieni davanti il presidio ospedaliero di Montefiore nel Bronx. Tutti vengono trasportati su un bus speciale denominato Medical Evacuation Transport Unit. Questi bus sono chiaramente predisposti in maniera tale da poter accogliere anche i pazienti in situazioni critiche, infatti presentano dei lettini all'interno mentre chi sta meglio può sedere con mascherine e guanti che vengono distribuiti prima di salire. Andrew Cuomo ha chiesto a tutto lo stato di porre le bandiere a mezz'asta per questa e la prossima settimana, in onore di tutte le vittime del Covid-19 che ha devastato New York City. Il virus non si arresta e i morti continuano a crescere, insieme ai pazienti. La cattedrale di St. John ha messo a disposizione i suoi spazi per il ricovero dando la possibilità di utilizzare tutto il suo ampio spazio. La città conta 81mila infetti mentre tutto lo stato ne conta quasi 152mila. Numeri che lasciano presagire una situazione: "Drammatica e sicuramente sconosciuta" ha detto Cuomo, governatore dello stato garantendo comunque che ogni persona malata verrà trattata al meglio e "Se necessiterà del respiratore come di altre cure specifiche verrà sicuramente servita". Poi, sempre continuando il suo discorso nella mattinata del briefing ad Albany Cuomo ha detto: "La cosa che spaventa è che nonostante siano state adottate misure straordinarie e spesso anche definite esagerate la situazione sta peggiorando di giorno in giorno. Ogni ora che passa l'asticella dei morti sale e il picco che ci aspettavamo ad inizio settimana non è più quello che ci aspettiamo per la settimana prossima. Il dottor Fauci", uno dei massimi esponenti del pool di esperti con cui Cuomo si sta consultando per gestire l'emergenza, "Ci ha spiegato che negli ospedali i ricoveri stanno calando ma le morti crescendo. Questo è quanto sappiamo per ora. Le cattive notizie non sono soltanto cattive. Sono terribili!". Il governatore ha poi concluso dicendo che: "Posso capire la logica, la medicina e tutte le scienze. Però alla fine ogni singolo numero scritto sul grafico è una faccia. Ed è difficile, davvero difficile". Le parole di Andrew Cuomo fanno comprendere il disagio e la difficoltà con le quali si stanno scontrando tutti gli abitanti dello stato rendendo sempre più difficile la gestione dell'emergenza e le previsioni vedono la città di New York crollare tra poco se la situazione non migliora.

Valeria Robecco per il Giornale l'1 maggio 2020. Per giorni gli abitanti della zona hanno lamentato un odore sgradevole che proveniva dalla strada, e quando la polizia è arrivata a controllare, si è trovata di fronte una scena raccapricciante. Circa cento cadaveri ammassati uno sull'altro all'interno di due camion non refrigerati fuori dalla sede di un'impresa di pompe funebri di New York. È l'ennesimo dramma della pandemia di coronavirus che sta colpendo duramente la metropoli, con oltre 18mila vittime in poche settimane, anche se ora i numeri sono in costante calo. I due furgoni erano parcheggiati davanti alla Andrew T. Cleckley Funeral Home di Flatlands, a Brooklyn. Nell'ultimo mese circa - come riferito da Abc News - i residenti avevano notato il personale dell'agenzia caricare sui camion diversi sacchi per cadaveri. Gli agenti hanno riferito che i furgoni erano pieni di corpi in stato di putrefazione, ognuno dei quali era rinchiuso in sacchi attorniati da pacchi di ghiaccio. Una fonte delle forze dell'ordine ha rivelato alla Cnn che l'impresa è stata sopraffatta dal numero dei morti e ha esaurito lo spazio per conservare i corpi in attesa della cremazione. «Non ho idea di come un'impresa di pompe funebri possa permettere che ciò accada - ha commentato il sindaco della Grande Mela Bill de Blasio -. È abominevole, inaccettabile. Perché mai non hanno avvisato lo stato, non sono andati nel loro distretto della Nypd a chiedere aiuto, come mai non hanno fatto qualcosa invece di lasciare lì i corpi». Il proprietario si è giustificato dicendo che la cella frigorifera in cui normalmente si trovano i cadaveri in attesa dei funerali aveva smesso di funzionare, ma il Dipartimento statale della sanità ha avviato un'inchiesta. I gestori sono stati interrogati e rischiano pene severe. Intanto, negli Usa, i casi di coronavirus hanno superato il milione e i morti sono a quota 60mila. Il presidente Donald Trump ha annunciato che non avrebbe esteso le linee guida sul distanziamento sociale scadute ieri, poiché ora la palla è passata ai governatori, che devono decidere come e quando riaprire (31 stati americani sono già in procinto di allentare le restrizioni). Il vicepresidente Mike Pence ha precisato che le linee guida sono state incorporate nei nuovi orientamenti della Casa Bianca su come gli stati possono cominciare a riaprire. Intanto, l'amministrazione Usa sarebbe già da settimane al lavoro su un programma teso ad accorciare drasticamente i tempi per il vaccino, con l'obiettivo di avere 100 milioni di dosi entro fine anno. Secondo l'agenzia Bloomberg l'operazione - chiamata «Warp Speed», velocità della luce - è sulla falsariga del Manhattan Project, il programma di ricerca e sviluppo che portò in poco tempo alla realizzazione delle prime bombe atomiche curante la seconda guerra mondiale. Il programma consiste nel provare l'efficacia contro il Covid-19 di tutti i più promettenti vaccini finora testati sugli animali, avviando una prima serie di sperimentazioni sull'uomo. Partirebbe poi una «fase due» con sperimentazione sull'uomo su larga scala, portata avanti contemporaneamente alla produzione degli antidoti in via di sperimentazione.

Coronavirus New York, 100 cadaveri in due camion fuori dalle pompe funebri. Laura Pellegrini il 30/04/2020 su Notizire.it. Una scoperta terribile, quella fatta dalla Polizia di New York e rivelata da un articolo del NY Times: 100 cadaveri erano ammassati su un camion non refrigerato all’esterno di un’impresa di pompe funebri. La ditta in questione è la Funeral Home di Andrew T. a Brooklyn. Le segnalazioni, da quanto si apprende, sarebbero arrivate dal alcuni vicini di casa che si lamentavano della puzza e avevano avvistato i corpi caricati sul mezzo. ABC News rivela che sarebbero 50 i cadaveri ritrovati all’interno di due camion a cassone ribaltabile senza impianto di refrigerazione. In questo modo venivano “conservati” all’esterno di una ditta di pompe funebri di Brooklyn in attesa di essere cremati o tumulati. La giustificazione del titolare dell’azienda di fronte ai poliziotti è stata: “Il congelatore aveva smesso di funzionare” e così l’uomo sarebbe stato “costretto a usare i camion a noleggio come deposito”. I corpi, nell’attesa di essere ritirati per andare al forno crematorio – secondo quanto raccontato dall’azienda – erano stati dimenticati. Non è stata presentata alcuna accusa penale contro il titolare, che però è stato citato per “non aver controllato gli odori”. Quella puzza ha infatti insospettito i vicini che hanno allertato le forze dell’ordine. Non si tratta comunque del primo episodio dalla simile ricostruzione: alcuni cadaveri erano stati posti su camion refrigeranti anche verso la fine del mese di marzo.

Le testimonianze. “Ho visto almeno 15 corpi in un furgone accatastati l’uno sull’altro e altro nell’altro”, ha detto un ufficiale al New York Daily News. “Li hanno sistemati proprio per strada”. Un membro della BBC, invece ha rivelato che all’interno del mezzo erano almeno una quarantina i corpi presenti e altri si trovavano sul pavimento. “Questa impresa di pompe funebri è sovraccaricata di corpi e questo è vero”, ha affermato il dottor David Penepent, un direttore funebre che insegna al SUNY Canton. “È stata sopraffatta dal numero di cadaveri, io sono qui per aiutarli”. John DiPietro, un uomo che risiede nello stabile di fronte all’azienda, ha detto New York Post che i cadaveri stanno aumentando nelle ultime settimane. “Non rispetti i morti in quel modo – ha accusato -. Sarebbe potuto essere mio padre, mio ​​fratello”.

Troppi morti a New York: si torna a seppellire nell'isola dei "disperati". A causa del coronavirus gli obitori della città sono in crisi e così Hart Island si riempie. Anna Lombardi il 10 aprile 2020 su La Repubblica. Troppi morti a New York: la città non ce la fa più. Nello stato-focolaio d'America i contagi hanno superato i 170mila, più della metà nella sola Grande Mela. I morti sono 7.844, ben 777 nelle ultime 24 ore. Negli obitori non c'è più posto e sono quasi al limite pure i 44 camion frigorifero capaci di contenere 45 cadaveri. Il pericolo d'infezione è costante: e per liberarsi dei corpi sempre più in fretta, è stata ridotta da 60 a 14 giorni la tolleranza verso le salme che alla morgue non reclama nessuno. In una situazione così, non c'è altra scelta: seppellire i senza nome, i senza famiglia, i senza soldi nelle fosse comuni di Hart Island. Sì, il lugubre scoglio a est del Bronx conosciuto dai "locals" come "isola dei morti": e che ora il New York Post, che ieri l'ha messo in copertina, ribattezza "isola delle lacrime". Qui, dal 1896 riposano, chissà se in pace, i reietti della città: i poveri, i morti ammazzati rimasti senza nome. E poi, nei primi anni 80, i tanti uccisi dall'Aids quando ancora non si sapeva come si propagava quel male. Ancora oggi, finiscono qui coloro che nessuno reclama. Fino a poche settimane fa, non più di 25 a settimana: ora almeno 25 al giorno. Se siano vittime dal coronavirus nessuno lo sa. Se sono morti in casa, da soli, è probabile: ma non viene fatto loro il tampone. Di sicuro, "si tratta di persone per le quali in due settimane nessuno si è fatto avanti, accollandosi le spese del funerale" dice Freddi Goldstein, portavoce del sindaco Bill de Blasio, al tabloid newyorchese. Inquietanti immagini scattate con un drone e pubblicate dal Post, mostrano decine di lavoratori con tute protettive bianche mentre seppelliscono in una fossa comune decine di bare di pino, quelle poco costose su cui si applica solo una targhetta col nome. E pazienza se per 150 anni - e fino a pochi giorni fa - il ruolo di becchini toccava ai detenuti del carcere di Rikers Island, l'isolotto vicino. Col virus pronto a spargersi pure là, il loro posto è stato momentaneamente affidato a lavoratori specializzati, assunti a contratto. Nelle prossime settimane, d'altronde, andrà peggio: ad Hart Island potrebbe finire chiunque. Coi cimiteri cittadini al limite quasi come gli ospedali, il sindaco de Blasio, lo ha già detto: sta valutando di ordinare il seppellimento temporaneo sull'isola - in attesa di tempi migliori - anche a chi può permettersi un funerale. Nelle ultime ore un bulldozer ha già scavato due nuove trincee. Nel luogo dove da decenni si accoglie chi muore male, in un secolo e mezzo si sono accumulati un milione di cadaveri. Ma non importa. Avanti, c'è ancora posto.

New York, fosse comuni per il coronavirus? No, è la sepoltura per i “non reclamati”. Le Iene News il 10 aprile 2020. Hanno impressionato il mondo le foto di Hart Island a New York, dove vengono sepolti da sempre i corpi “non reclamati” o di cui nessuno può permettersi comunque i funerali. Qui finiscono purtroppo sempre più vittime di Covid-19, ma l’addetta stampa del sindaco sottolinea che anche in questo caso si tratta solo di “persone non reclamate”. “Troppi morti: fosse comuni per il coronavirus a New York” recitavano questa mattina molti siti e quotidiani italiani. Stiamo parlando di Hart Island, dove da sempre vengono sepolte le persone che non sono state reclamate da parenti, da chi aveva un rapporto d’affetto col defunto o per cui comunque nessuno aveva i soldi per un funerale. Come si legge sul sito della Cnn, più di un milione di persone sono seppellite ad Hart Island. Una pratica che non è stata istituita quindi con l’arrivo del virus. Inoltre, alla Cnn l’addetta stampa del sindaco di New York, Freddi Goldstein, ha spiegato che anche nel caso di morti per coronavirus, solo i corpi di chi non è stato reclamato o per cui nessuno poteva permettersi il funerale, verranno portati lì. Il che non rende comunque meno terribile la situazione. Soprattutto se si guardano i numeri: “Solitamente circa 25 persone vengono sepolte sull’isola ogni settimana”, ha detto Goldstein. Ma da quando il coronavirus ha iniziato a fare vittime negli Stati Uniti, 25 sarebbero le persone sepolte lì ogni giorno. E infatti decine di lavoratori sono stati assunti per scavare le fosse necessarie per far fronte al crescente numero di morti. Gli Stati Uniti sono al momento i più colpiti al mondo dal coronavirus con 467mila casi. Lo stato più colpito è quello di New York con 161.807 contagi e un aumento di oltre 10mila nelle ultime 24 ore. Nella sola New York City i morti sono 5.150 sugli oltre 16mila americani. Come dice Goldstein sul sito della Cnn parlando delle immagini fosse: “Queste sono persone per le quali per due settimane non siamo stati in grado di trovare qualcuno che dicesse ‘conosco quella persona, ci sono affezionato, gestirò la sepoltura’”. Solitamente a Hart Island venivano seppellite persone chi non era stato reclamato dai 30 ai 60 giorni.

Da leggo.it il 23 aprile 2020. Dopo New York e Detroit, anche Philadelphia si unisce alle città americane sconvolte dalle immagini choc che riguardano i morti per la pandemia di coronavirus. In questo caso le foto sono quelle di alcune salme trasportate in pieno giorno su un pickup, a Philadelphia appunto: corpi caricati sul pianale di un pickup aperto portati via da un ospedale. Le immagini sono state scattate dal Philadelphia Inquirer domenica scorsa sul retro del Joseph W. Spellman Medical Examiner Building e il Dipartimento della Sanità, riporta oggi la Cnn, ha confermato l'incidente. La Cnn parla di sette salme, il Philadelphia Inquirer di cinque o sei corpi e ha pubblicato un'immagine che ritrae un uomo in piedi sulle salme sopra il pickup. Un'altra immortala persone con le mascherine indossate che spostano un corpo dal pickup su una barella. Un portavoce dell'Einstein Medical Center Philadelphia, riporta la Cnn, ha spiegato che le salme dovevano essere trasferite dalla struttura a un deposito, dove lo spazio non basta più. «È una violazione del protocollo - ha detto alla Cnn il portavoce del Dipartimento, James Garrow - Il Medical Examiner's Office lavora regolarmente con gli ospedali di Philadelphia per garantire che le salme vengano trattate con il massimo rispetto e con dignità. Il Dipartimento della Sanità è sconvolto dall'accaduto e ha sollecitato con forza l'ospedale di riferimento in merito ai protocolli esistenti. Quanto avvenuto non è normale né accettabile». «Dopo aver appreso di questo incidente, è stata immediatamente avviata un'indagine per conoscere tutti i dettagli - ha detto alla Cnn un portavoce dell'Albert Einstein Healthcare Network - Abbiamo rapidamente revocato il contratto con l'agenzia funebre responsabile di questo episodio». Secondo gli ultimi dati della Johns Hopkins University, sono più di 10.000 i casi di coronavirus a Philadelphia e almeno 394 i decessi. Non è chiaro se le salme delle foto choc siano di persone morte a causa della pandemia.

Matteo Sacchi per il Giornale il 21 aprile 2020. Quando tutto esplose, nel 1862, nessuno si aspettava davvero una guerra, la questione indiana era considerata archiviata. Col senno di poi è però evidente che fosse quasi impossibile far convivere una società, quella dei pellerossa, che era sostanzialmente all' età della pietra, con una società multietnica in espansione, che stava colonizzando un continente a colpi di ferrovia, macchine e armi da fuoco. Prima ancora di avere ragione o torto i due contendenti non erano nemmeno in grado di capirsi davvero: venivano da epoche diverse. Persino nella concezione della guerra. Per gli indiani era un gioco, seppure crudele e violento, per i bianchi un fatto politico da concludere con il più rapido annientamento possibile del nemico.

Matteo Sacchi per il Giornale il 21 aprile 2020. Quando tutto esplose, nel 1862, nessuno si aspettava davvero una guerra, la questione indiana era considerata archiviata. Col senno di poi è però evidente che fosse quasi impossibile far convivere una società, quella dei pellerossa, che era sostanzialmente all' età della pietra, con una società multietnica in espansione, che stava colonizzando un continente a colpi di ferrovia, macchine e armi da fuoco. Prima ancora di avere ragione o torto i due contendenti non erano nemmeno in grado di capirsi davvero: venivano da epoche diverse. Persino nella concezione della guerra. Per gli indiani era un gioco, seppure crudele e violento, per i bianchi un fatto politico da concludere con il più rapido annientamento possibile del nemico. Ma niente di questo era chiaro mentre alla Lower Sioux Agency vicino a Fort Ridgely (Minnesota), la mattina del 17 agosto 1862, un elegantemente vestito Piccolo Corvo assisteva, per l' ultima volta, alla funzione religiosa. Alla fine salutò tutti e tornò alla riserva. Sarebbe riapparso il giorno dopo con sciami di guerrieri che avrebbero messo a ferro e fuoco tutte le fattorie della zona. Tradimento indiano? Per molti anni il colto e alfabetizzato Piccolo Corvo aveva cercato di essere amico dei coloni, su questo non c' è dubbio. E forse anche i coloni avevano simpatia per quello che sembrava loro un bizzarro indiano civile, da esibire come esempio di buon selvaggio colonizzato. Peccato che nessuno si fosse preso la briga di controllare di che qualità fossero i rifornimenti di cibo inviati dagli avidi commercianti locali alla riserva. Unica vera condizione per mantenere la pace. Solo una settimana prima, i Sioux avevano ricevuto l' ultimo insulto. I capi si erano recati all' agenzia per cercare di ottenere le provviste governative da molto tempo promesse, ma il commerciante, Andrew J. Myrick, li aveva ascoltati con una smorfia di scherno. «Se hanno fame possono mangiare erba, per quello che m' importa» aveva risposto spietatamente, dopo che per settimane li aveva riforniti solo di carne marcia. I Dakota Santee (Sioux orientali) avevano udito e ricordato. Quando scatenarono il loro attacco Myrick fu ucciso davanti al suo magazzino. Il cadavere fu ritrovato con la bocca imbottita d' erba. Ci andarono comunque di mezzo anche centinaia di coloni, per lo più di origine tedesca, che contro gli indiani, almeno scientemente, non avevano fatto nulla. Si salvarono solo quelli che raggiunsero Fort Ridgely, dove un violento attacco fu sventato solo grazie a dei vecchi cannoni che venivano tenuti in funzione per hobby da un vecchio artigliere. Era iniziata così la prima delle guerre indiane che portarono allo sterminio dei pellerossa. Le racconta con un piglio narrativo eccezionale Paul I. Wellman in Tomahawk. Trent' anni di guerre nelle pianure ora pubblicato in italiano (dopo decenni di assenza) per i tipi di Odoya (pagg. 252, euro 18). Wellman (1895-1966) è stato un giornalista di vaglia ed un divulgatore di storia molto apprezzato dell' America anni '30 e '40 (questo volume è del 1934). Tanto da diventare poi uno dei più amati consulenti cinematografici, soprattutto di western. Giusto per fare un esempio dai suoi romanzi sono state tratte pellicole come: Le mura di Gerico (1948), L' ultimo Apache (1954) di Robert Aldrich con Burt Lancaster e I comanceros (1961) di Michael Curtiz con John Wayne. In Tomahawk il piglio del narratore si vede soprattutto nella prosa scorrevole. Wellman spazia dalla firma del trattato del 1835 che sembrava aver dato forma stabile alla questione indiana sino alle ultime battaglie. L' uccisione di Toro Seduto, nel 1890, che cadde in un feroce parapiglia tra la polizia indiana della riserva e i suoi sostenitori. E il massacro di Wounded Knee dove il Settimo cavalleria si prese una vigliacca rivincita dopo Little Bighorn trucidando la tribù di Grosso Piede, praticamente indifesa. Il testo è mirabilmente privo di volontà ideologiche. In largo avanzo con i tempi Wellman, non è mai indulgente con le colpe dei bianchi. Ma è anche alieno dal trasformare gli indiani in quello che non furono, solo delle vittime. Semmai è bravissimo a far risaltare lo iato insanabile tra due civiltà che non erano in grado di convivere e che la storia ha fatto incontrare, quasi infrangendo le barriere di spazio e tempo esistenti tra la preistoria e la modernità. Una vicenda sanguinosa già segnata sin dall' inizio quando Piccolo Corvo, passate le prime effimere vittorie venne costretto alla ritirata dopo il massacro dei suoi guerrieri a Wood Lake, nel 1862. In fuga, affamato e braccato, venne ucciso dai bianchi mentre era rimasto solo con suo figlio sedicenne, nel 1863. Sul momento non lo riconobbero nemmeno, solo un altro indiano a cui sparare a vista. La verità emerse dopo, i bianchi nella foga di vendetta non avevano nemmeno riconosciuto il loro grande nemico. Una cecità quasi metaforica. Come scrive Wellman: «Così morì Piccolo Corvo, che al culmine del suo potere fu uno tra i più temuti pellerossa; protagonista di uno dei peggiori massacri della storia, a suo modo fu uno studioso e un gentiluomo. Si era avviato sul sentiero dell' uomo bianco, ma l' aveva lasciato quando i torti che il suo popolo subiva erano stati troppi. Ridotto a raccogliere more per sostentarsi, venne ucciso da cacciatori bianchi e il suo corpo gettato nella discarica puzzolente di una macelleria».

La pandemia rischia di decimare i nativi americani. Francesca Salvatore su Inside Over il 19 aprile 2020. I nativi americani conoscono bene le epidemie, in particolar modo quelle “importate”. L’arrivo degli Europei, infatti, costituì una delle più grandi invasioni biologiche della storia. Oggi, il popolo dei Nativi rappresenta l’anello più debole del mosaico delle etnie americane sul quale il Covid-19 rischia di abbattersi impetuoso, trovando terreno fertile nel farraginoso e inefficiente sistema delle riserve.

Perché i nativi sono un anello debole. Morbillo, vaiolo e influenza furono solo alcune delle malattie che sterminarono i Nativi americani. Secondo l’Us Census Bureau, l’attuale popolazione dei nativi americani è di 5,2 milioni, divisi in 537 tribù: lo Stato con la più alta percentuale di Nativi americani è l’Alaska, mentre l’Oklahoma possiede il maggior numero di cittadini Nativi in numeri assoluti. Circa la metà vive in riserve principalmente nell’Ovest, Midwest e Sud, secondo il National Congress of American Indians. Vivono in piccole case sovraffollate, dove il virus può facilmente diffondersi. Le abitazioni spesso mancano di elettricità e acqua corrente: qui lavarsi le mani è più difficile che nel resto d’America. Le condizioni di vita in cui versano queste comunità, caratterizzate da scarso accesso alle cure sanitarie e elevati tassi di povertà, hanno generato una popolazione in cui sono diffuse patologie croniche come asma, malattie cardiache, ipertensione e diabete. Su questa popolazione l’arrivo del coronavirus, così impattante sul sistema cardiopolmonare, può provocare una decimazione ulteriore comparabile solo a quelle del passato. Gli indiani d’America, infatti, hanno una probabilità 600 volte maggiore di morire di tubercolosi e quasi 200 volte più probabilità di morire di diabete rispetto ad altri gruppi, inoltre, più un quarto degli over 65 non possiede un’assicurazione sanitaria. Al momento, a peggiorare la condizione dei nativi è il loro profondo sottofinanziamento: queste comunità, infatti, vivono essenzialmente delle loro attività  e non fanno affidamento sulla tassazione. Molti gruppi poi, dalla fine degli anni Settanta, hanno puntato tutto sulla costruzione e gestione di case da gioco d’azzardo (bingo e casinò, soprattutto in Florida e California) per assicurarsi delle entrate consistenti: tutte attività messe ko dal lockdown. Ad infierire sulla condizione esistenziale di queste comunità il peso del passato ed una vita ai margini della società americana che si riflette in tassi di suicidio altissimi, violenza contro le donne diffusa e abuso di alcol e droghe. Una vera piaga sociale che non contribuisce a stili di vita sani, fiaccando la salute delle comunità stesse.

Un quadro complesso e nebuloso. L’agenzia sanitaria federale che serve oltre 2,5 milioni di nativi americani ha solo una limitata capacità di monitorare e indagare i casi di coronavirus nelle comunità e nelle riserve, rallentando la sua capacità di rispondere alle epidemie e sollevando il timore che la mancanza di dati affidabili potrebbe compromettere gli sforzi nazionali per bloccare il virus. Il servizio sanitario indiano si affida in gran parte alle organizzazioni native e alle loro strutture sanitarie per rintracciare i contagi e auto-riferire i risultati all’amministrazione – una pratica inconcepibile ulteriormente complicata da capacità di test minime, tecnologie sanitarie obsolete e carenza di dispositivi medicali. La “nazione indiana”, dunque, ha circa il 17% delle strutture sanitarie gestite dall’Indian Health Services (IHS, che ha l’obbligo di segnalare regolarmente i casi), mentre la restante parte è gestita da tribù o organizzazioni native urbane, che devono scegliere di auto-denunciare i pazienti con coronavirus al governo federale. Questa sovrapposizione di competenze ha in più casi sottostimato i contagi all’interno delle comunità e rischia di non tenere in debito conto il potere che questi focolai potrebbero avere nelle ondate successive della pandemia. Il sistema sanitario indiano sconta, inoltre, una serie di ritardi che aggravano la condizione attuale: internet spesso non arriva nei luoghi remoti dove sorgono alcune comunità tribali e molti cittadini non posseggono uno smartphone; il sistema di catalogazione elettronica dei pazienti è fermo agli anni Ottanta e la cronica mancanza di personale è stata aggravata dal drenaggio di risorse umane altamente specializzate operato da Washington nelle prime settimane di emergenza, lasciando la nazione indiana con il fianco scoperto. Anche per questo le strutture ospedaliere e i laboratori dell’IHS non sono in grado di effettuare in autonomia i test diagnostici, che vengono invece inviati ai laboratori del sistema sanitario nazionale dotati delle necessarie certificazioni. Ma, nemmeno, a dirlo, i test provenienti dalle comunità native finiscono in fondo alle liste d’attesa e i risultati giungono dopo settimane, in una fase di emergenza in cui ogni ora che passa è fondamentale.

Il triplo binario della sanità indiana. Se l’intero sistema sanitario americano sconta il doppio binario governo federale/locale, nel caso della nazione indiana la triangolazione riguarda governo federale-governi locali-comunità singole. Washington, infatti, non dialoga direttamente con le comunità tribali, dirottando la responsabilità sui governi locali. Questi a loro volta costituiscono un panorama eterogeneo costituito da diversi gradienti di tolleranza e integrazione dei Nativi: lì dove c’è maggiore integrazione, le comunità indiane riescono ad accedere alle strutture non-IHS e possono contare anche su fondi maggiori; lì dove però le comunità sono piccole e poco integrate, la priorità, soprattutto in materia sanitaria, spetta alla popolazione locale. Per semplificare: se a parità di gravità vi sono due pazienti Covid a cui destinare un solo posto letto a disposizione, difficilmente quel paziente sarà un nativo americano. In queste settimane sono numerosi i governi locali che hanno scaricato sul governo federale la responsabilità delle comunità indiane: è forse anche questo conflitto di attribuzioni che ha indotto un terzo pacchetto di incentivi, voluto dal presidente Trump e approvato dal Congresso il 27 marzo, con 10 miliardi di dollari destinati ai nativi: l’allocazione dei fondi potrebbe, tuttavia, richiedere settimane. In questa lotta di competenze vengono fuori anche i differenti gradi di autorevolezza delle comunità coinvolte: Navajo e Cherokee, ad esempio, sono quelle di cui si conoscono più o meno bene i dati, soprattutto nel caso dei Navajo, che riferiscono circa 700 casi confermati e 24 morti. Le comunità più grandi hanno da sempre interloquito meglio con i governi locali ottenendo più riconoscimenti, in vista anche del loro peso politico. Ma poco si sa delle comunità minori e più isolate: anche a questo proposito esiste un’ulteriore discriminazione fra tribù, poiché negli Stati Uniti solo le comunità riconosciute dal governo federale hanno accesso a fondi pubblici (anche in materia sanitaria), mentre le tribù riconosciute dai singoli Stati non hanno accesso ai fondi federali e il riconoscimento legale non è condizione sufficiente a ricevere fondi dallo Stato su cui insistono.

DAGONEWS il 15 aprile 2020. Oprah Winfrey ha lanciato un appello agli afroamericani avvertendoli di prendere sul serio il coronavirus che “sta devastando la nostra comunità e ci sta eliminando”. La regina della tv americana, in un’intervista alla CBS, ha sottolineato che l'epidemia di coronavirus ha avuto un impatto devastante sulle comunità di colore negli Stati Uniti, avvertendo le persone che hanno patologie pregresse devono stare particolarmente attente. «Sta devastando la nostra comunità e coloro che hanno malattie devono stare attenti – ha aggiunto - Quindi, se stai assumendo farmaci per il diabete, se stai assumendo farmaci per l'ipertensione, se hai bisogno di un inalatore per l'asma, se hai qualche tipo di disturbo polmonare, stai attento». Winfrey ha anche rivelato di essere stata portata al pronto soccorso a settembre a causa di una grave polmonite: «I miei polmoni non si sono ripresi del tutto quindi quando ho sentito del virus mi sono tappata a casa e qui non entra più nessuno». L’impatto devastante del coronavirus sulla comunità afroamericana continua a farsi sentire in tutto il paese: le comunità più colpite sono quelle di Chicago, Detroit, New Orleans e Milwaukee. Dati che sono il frutto di una disuguaglianza nell'accesso all'assistenza sanitaria e di una presenza tra la comunità afroamericana di persone che sono soffrono di obesità, diabete e asma. Non solo: molti lavoratori afroamericani fanno lavori definiti essenziali. Sono autisti di autobus e dipendenti di negozi di alimentari o di farmacie che non hanno potuto rimanere a casa e sono più esposti al virus. 

Da ilfattoquotidiano.it il 13 aprile 2020. Durante una conferenza stampa, venerdì, lo U.S. Surgeon General Jerome Adams – la persona a capo dei servizi sanitari per l’amministrazione – ha detto che “neri, latini, gente di colore dovrebbero evitare alcool, tabacco, droghe” per bloccare la diffusione del Covid-19. “Abbiamo bisogno che vi assumiate le vostre responsabilità – ha detto Adams -. Fatelo per la vostra abuela, per il vostro grandaddy, per la vostra Big Mama” (tutti modi per designare, nelle varie comunità, il/la patriarca di famiglia). Le affermazioni di Jerome Adams, che è afro-americano, hanno sollevato molte critiche, anche aperto sdegno. Ancora una volta, le minoranze etniche sono associate a forme di dipendenza e comportamenti negativi. In realtà il quadro è molto più complesso e non certo limitato all’uso di alcool e droghe. Negli Stati Uniti si continua a morire, e molto, per il coronavirus: le vittime sono ormai ben oltre le 20mila. È però vero che la comunità afro-americana è quella più colpita. A Chicago, per esempio, i neri sono il 30 per cento della popolazione ma rappresentano il 70 per cento delle morti per coronavirus – e circa la metà dei casi di contagio. “Sono numeri che ci tolgono il respiro”, ha detto la sindaca della città, Lori Lightfoot. In Lousiana meno di un terzo della popolazione è nera, ma il 70 per cento dei morti sono neri. In Alabama situazione simile: il 27 per cento dei residenti è afro-americano, la metà dei morti sono afro-americani. Detroit, che è una città nera all’80 per cento, è una delle aree con la più alta densità di morti per Covid-19 in tutti gli Stati Uniti. Più difficile valutare la situazione a New York. In città, secondo i primi dati pubblicati l’8 aprile, neri e latini muoiono con percentuali quattro/cinque volte superiori rispetto ai bianchi. “Le diseguaglianze che hanno piagato questa città, questa nazione, stanno ancora causando dolore e colpiscono le vite di innocenti – ha detto il sindaco di New York City, Bill de Blasio -. È disgustoso. È preoccupante. È sbagliato”. Il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo ha chiamato il Covid-19 “il grande equalizzatore”, la malattia che colpisce tutti, abbienti e meno abbienti, privilegiati e chi non ha nulla (anche il fratello di Cuomo, Chris, anchorman di CNN, è rimasto contagiato). Le cifre ci dicono che non è così. Il virus colpisce soprattutto chi vive in condizioni di disagio, chi soffre di malattie pregresse, i più deboli, chi non può permettersi un’assistenza sanitaria all’altezza. In altre parole, il Covid-19 è, negli Stati Uniti ma non solo, una questione di giustizia sociale e razziale. “Il virus è particolarmente virulento con persone che hanno tassi più alti di certe malattie, e questo è vero soprattutto per gli afro-americani”, ha detto David Williams, un professore di Salute pubblica a Harvard University. Patologie croniche come il diabete, l’asma, l’obesità, le malattie cardiovascolari sono infatti particolarmente diffuse nella comunità afro-americana e rappresentano delle concause che rendono il coronavirus spesso letale. Non si tratta però soltanto di malattie pregresse. In queste settimane in cui molti americani sono rimasti a lavorare da casa, i neri hanno goduto meno di altre comunità del “work from home”. Esistono anche qui dei dati, forniti dall’Economic Policy Institute. Al 20 marzo scorso, il 30 per cento circa dei bianchi godeva del telelavoro. Nemmeno il 20 per cento dei neri poteva dire lo stesso. Questo significa, ovviamente, un maggior rischio di esposizione al virus. In una conferenza stampa del 6 aprile, una dottoressa di Brooklyn, Uché Blackstock, diceva di aver visto “nella mia sala d’attesa più pazienti neri e latini che sono lavoratori nei servizi essenziali e che non possono restare a casa. Sono anche quelli che presentano i sintomi da Covid-19”. Edilizia, servizi di pulizia, di manutenzione, personale medico, forze dell’ordine: i settori che impiegano più neri (e latini) sono anche quelli che non permettono il telelavoro e che quindi sono stati travolti dai numeri di contagi più alti. C’è ancora un altro elemento, che potremmo definire così: dimmi qual è il tuo zip code, il tuo codice postale, e ti dirò quanto probabilmente vivrai. “Lo zip code negli Stati Uniti è un indicatore della probabilità di vita, migliore dello stesso patrimonio genetico”, ha detto sempre David Williams di Harvard University. Chi vive nei quartieri più ricchi, semplicemente, vive di più. Prendiamo Chicago. Nelle aree della città dove risiede una popolazione prevalentemente nera, l’aspettativa di vita è di circa 60 anni. Si alza a quasi 90 anni nelle zone solo bianche. In tutti gli Stati Uniti (dati della NAACP e della “Clean Air Task Force”), gli afro-americani hanno il 75 per cento di possibilità in più rispetto ai bianchi di vivere in quartieri vicini a complessi industriali, con una qualità dell’aria pessima. Nel 2014 i neri morivano di asma con tassi tre volte superiori rispetto ai bianchi (dati del Dipartimento alla salute del governo USA). Sono queste, a maggioranza di residenti afro-americani, le aree dove i servizi sanitari sono più scadenti; dove è più difficile che un medico stabilisca il suo ambulatorio; dove le assicurazioni sanitarie sono più rare. Sono queste, anche, le aree dove il coronavirus ha colpito in modo più spietato; dove i tamponi sono stati più rari – “è possibile prevedere con assoluta certezza che la popolazione marginalizzata e vulnerabile sarà testata con minor frequenza”, ha spiegato Irwin Redlener di Columbia University -; dove i morti sono stati più numerosi. Il Covid-19 rende quindi ancora più limpida, e drammatica, una situazione che è strutturale nella società americana. Sarebbe impossibile rimediare oggi, con il coronavirus, “a decenni, a secoli, di distribuzione ineguale della sanità ai danni degli afro-americani”, ha detto il governatore dell’Illinois, JB Pritkzer. “Quando nelle comunità bianche si ammalano, nelle comunità nere noi moriamo”, ha fatto notare un deputato afro-americano del Wisconsin, David Bowen, che è stato contagiato dal virus. Razzismo, ineguaglianze, povertà, minor accesso alle risorse spiegano i numeri impressionanti delle vittime nere negli Stati Uniti. La settimana scorsa alcuni deputati e senatori democratici, tra cui Elizabeth Warren, hanno inviato una lettera al “Centers for Disease Control and Prevention” – l’agenzia dell’amministrazione responsabile della gestione delle malattie infettive – in cui si chiede di fornire i dati di contagiati e vittime del coronavirus “divisi per appartenenza razziale”. Solo in questo modo, dicono, sarà possibile per il Congresso “affrontare le ineguaglianze nelle questioni di salute pubblica”. La richiesta, sinora, non ha avuto risposta.

Francesco Lepore per "gaynews.it" il 9 aprile 2020. Nella conferenza stampa dell’8 aprile l’immunologo Anthony Fauci, componente della task force della Casa Bianca sul Covid-19, ha posto un collegamento tra le «inaccettabili disparità di salute» a svantaggio delle persone afroamericane, maggiormente colpite dall’epidemia, e lo stigma cui fu sottoposta la comunità Lgbti negli anni dell’esplosione dell’Hiv/Aids. Il direttore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive (lo è dal 2 novembre 1984 quando era presidente Ronald Reagan), che ha fornito contributi fondamentali nel campo della ricerca su Hiv e altre immunodeficienze, ha dichiarato: «Durante quel periodo c’era uno stigma smisurato in particolare contro la comunità gay. E ritengo che solo, quando il mondo si è reso conto di come la comunità gay reagisse a questa epidemia con incredibile coraggio, dignità, forza e attivismo, è davvero cambiato un po’, anzi molto, lo stigma contro la comunità gay». Il presidente Donald Trump, nell’aprire il briefing di ieri, aveva poco prima dovuto ammettere come le persone afroamericane siano le più colpite dal Covid-19. Sulla base dei dati forniti dalla Hopkins University il Washington Post ha pubblicato il 7 aprile un’analisi che dimostra come le contee a maggioranza nera registrino tre volte il numero di contagi e sei volte quello dei decessi rispetto a quelle a maggioranza bianca. Dove, in ogni caso, a essere più colpite dal Covid-19 e a morire sono le persone afroamericane. A Milwaukee, la città più grande del Wisconsin, il 70% delle persone decedute è afroamericano, nonostante la comunità nera rappresenti solo il 26% della popolazione. Stessa percentuale in Louisiana, con il 70% dei decessi che appartengono alla comunità nera, che forma il 32% dei residenti. A Chicago la metà delle persone contagiate e il 72% delle vittime del Covid-19 sono afroamericane, nonostante questa comunità rappresenti il 30% della popolazione totale. Nell’intero Stato dell’Illinois le persone afroamericane sono il 41% dei contagiati e deceduti, pur rappresentando solo il 14% dell’intera popolazione. Sulla base dei dati preliminari, aggiornati a ieri e forniti dal dipartimento della Sanità dello Stato di New York, il più colpito dall’epidemia, sono soprattutto ispaniche e nere le persone contagiate da Covid-19 a New York City. Nella megalopoli, dove si sono registrati oltre 4.000 decessi e 75.000 casi di contagio, il 34% riguarda persone ispaniche, il 28% afroamericane, il 27% bianche, il 7 asiatiche. In larga maggioranza bianche, invece, le persone colpite nel resto dello Stato. Tra le possibili cause, come spiegato dallo stesso Fauci, ci sarebbero il diabete, l’obesità, l’ipertensione e le malattie polmonari che risultano molto diffuse tra le persone nere. È per questo motivo che l’immunologo ha detto: «Adesso la priorità è fornire agli afroamericani la migliore assistenza possibile», non senza rilevare come si continueranno ad avere inaccettabili disparità di salute anche quando «il coronavirus passerà».

DAGONEWS il 9 aprile 2020.  I negozi negli Stati Uniti continuano a essere il bersaglio di ladri che sfruttano la pandemia per fare irruzioni nei locali rimasti chiusi. In molti stanno chiedendo un aumento delle pene per i delinquenti, ma al momento non c’è nulla che dissuade i malviventi a non accanirsi sui piccoli imprenditori già devastati dalla crisi. Il dipartimento di polizia di New York City ha riferito di aver visto un aumento del 75% il numero di furti nei negozi dal 12 marzo, quando il sindaco Bill de Blasio ha dichiarato lo stato di emergenza. Ci sono stati 254 furti con scasso, rispetto ai 145 dello stesso periodo dell'anno scorso. Una situazione aggravata anche dal fatto che il 20% degli agenti di New York ha contratto il coronavirus ed è in cura. Gli altri crimini in città sono diminuiti. Dal 12 al 21 marzo, stupri, omicidi, aggressioni e altri reati gravi sono crollati del 20 percento. L'anno scorso ci sono stati 4.670 di questi crimini, mentre solo quest'anno sono stati 3.740. Intanto l’emergenza cresce in tutto il Paese: i malviventi prendono di mira i supermercati e c’è chi ha sfondato con un’auto le vetrine di un bar per rubare.

Coronavirus, panico al supermercato: donna lecca i prodotti nel carrello. Laura Pellegrini il 10/04/2020 su La Notizia.it. Una donna lecca tutti i prodotti che ha messo nel carrello in un supermercato, ma arrivata alla casa rivela di non avere i soldi per pagare. Panico al supermercato: una donna lecca tutti i prodotti che ha messo nel suo carrello ma una volta arrivata alla cassa confessa di non avere i soldi per pagare la merce. Accade in California: Jennifer Walker, una donna di 53 anni, è stata fermata dal personale del punto vendita costretto a buttare tutta la merce. Il valore totale della spesa era di 1800 dollari, ma avendo leccato ogni singolo prodotto, il rischio di contagio da coronavirus era troppo elevato. Un episodio simile era accaduto anche in un altro supermercato dove un ragazzo aveva leccato i prodotti sugli scaffali. Jennifer è stata arrestata per vandalismo criminale in un Safeway nel South Lake Tahoe: il personale del supermercato l’ha colta di sorpresa. Lecca i prodotti e li mette nel carrello. Poi arriva alla cassa e ammette di non avere i soldi per pagare i 1.800 dollari di spesa. Questa la dinamica di quanto accaduto in un grosso centro della California. Nel carrello vi erano carne, alcol e bigiotteria: tutto è stato buttato per il rischio di contagio da coronavirus. Non è chiaro, però, se la donna fosse o meno contagiata ma non era possibile rimettere in vendita i prodotti. Uno spreco inopportuno, in un periodo di emergenza come quello del coronavirus. Sono in aumenti gli episodi dalla simile dinamica, che costituiscono un rischio per il personale dei punti vendita, ma anche e soprattutto per i clienti. Ignari delle leccate, infatti, potrebbero essere contagiati senza saperlo.

Coronavirus, la solidarietà "made in Italy" nella Grande Mela. Chef, pizzaioli, ristoratori, ma anche artisti e scrittori: così gli italiani che vivono a New York hanno cominciato a offire aiuti a chi ne ha più bisogno. Liliana Rosano il 09 aprile 2020 su La Repubblica. C’é un cuore tutto italiano che fa pulsare l’anima solidale di New York. Chef, ristoratori, produttori, distributori, sono loro a supportare con pasti gratuiti, consegne di cibo e prodotti, i newyorchesi stretti nella morsa della crisi pandemica ed economica, compreso il personale sanitario impegnato ogni giorno in prima linea. “ItaliansFeedAmerica” é la no-profit nata meno di una settimana dall’idea di Fabrizio Facchini, chef e ristoratore del ristorante Cotto a New York, nato in Belgio ma di origine umbro-calabrese. E’ lui a chiamare all’appello la comunità italiana, italofila e italo-americana a sostegno di una missione che si fonda sullo spirito comunitario del Belpaese. A rispondere sono in tanti, e ogni giorno l’elenco si allunga con l’obiettivo di estendersi in tutti gli Stati Uniti. Dalla celebrity chef Rocco Di Spirito, all’attivista, artista e autrice Elizabeth Falkner, oltre ai numerosi chef  della Grande Mela e alle aziende produttrici dell’eccellenza gastronomica Made in Italy. La macchina operativa é già partita con i primi cinquanta bancali dal valore di 25 mila dollari, in arrivo dalle aziende italiane di pasta, pomodoro, riso e altri beni di prima necessità. Saranno destinati ai pacchi alimentari per i più bisognosi, a rimpinguare le provviste dei ristoranti sociali, scuole e ospedali. Ci saranno anche iniziative di beneficenza,  una sezione e-commerce a sostegno del progetto e una serie di accordi con le piccole associazioni locali, la Food Bank di New York e Order of Sons. “In una situazione come questa-commenta Fabrizio Facchini- ho sentito forte lo spirito di solidarietà tipico dell’Italia e il dovere di aiutare un paese, gli Stati Uniti, che ha accolto milioni di italiani, compresa la mia famiglia, e li ha aiutati a realizzare i loro sogni”. “ItaliansFeed America” che in italiano si traduce con “gli Italiani che sfamano, nutrono l’America”- continua Fabrizio- richiama un’immagine materna e svela tutto il sentimento di gratitudine  verso quella che  per 25 milioni di italiani é diventata la seconda patria”. Anche se il settore della ristorazione -dal quale dipende il 60% del fatturato di New York- é tra i più colpiti da questa pandemia, molti non si tirano indietro quando si tratta di aiutare il prossimo, rischiando anche di mettere in pericolo la propria salute. Come Roberto Caporuscio e la figlia Giorgia, chef e proprietari della nota pizzeria Kestè che hanno consegnato oltre cento pizze al personale medico della Columbia University e della New York-Presbyterian. A Brooklyn, c’é l’iniziativa Operation Feed Brooklyn che porta pasti negli ospedali, a cui ha aderito anche la pizzeria italiana Sottocasa. Nel Queens c’é Vincenzo Garofalo e la moglie, proprietari di Senso Unico che offrono menu per le famiglie a prezzi molto vantaggiosi e cucinano per gli ospedali almeno due volte a settimana. Sempre nel quartiere Queens, c’é lo chef-proprietario di Trattoria l’Incontro che consegna pizze e pasta con la nduja  al NYU Medical Center Langone. Ancora ad Albany, Upstate New York, lo chef Rocco Di Spirito  ha trasformato il suo ristorante in una cantina sociale che sforna mille pasti al giorno per ospedali e famiglie. Pizza, pasta, dolci riso, a ristorare il personale in servizio negli ospedali di New York é il comfort food, il  cibo dell’anima. Non di solo cibo si nutre la solidarietà italiana. Ad alleviare e confortare le anime dei newyorchesi  ci pensa anche l’arte e la musica. Francesca Capetta, cantante torinese da anni oltreoceano, nel 2019 ha fondato The Caravan of Angels con sede a New York e a Torino. Da quando é scoppiata la pandemia, Francesca e la sua Fondazione offrono concerti virtuali  agli anziani delle case di riposo coinvolgendo cantanti di Broadway. La solidarietà non si ferma qui. L’Italo-americano Mario Salerno, proprietario di  80appartamenti,  ha dichiarato di non volere che i suoi affittuari si preoccupino del loro pagamento durante la pandemia di coronavirus. Il servizio di Food Pantry, una sorta di banco alimentare, attraverso una app fornisce l'elenco delle possibilità di ricevere un pacco di alimenti mentre Free Meals é il programma del dipartimento della Pubblica Istruzione di New York che offre tre pasti al giorno a chi é in difficoltà. E’ l’anima solidale di New York, quella che nasce dalla gente comune, dal volontariato e dell’associazionismo, dalla spirito di sopravvivenza e di supporto, che in questa emergenza ha mostrato grande spirito di sacrificio, partecipazione, organizzazione e solidarietà.

Sospesi pagamenti affitti a New York. Coronavirus accende solidarietà proprietari. Paolo Vites su ilsussidiario.net il 7.04.2020. L’iniziativa per i più colpiti dal coronavirus di alcuni padroni di casa in America: sospendere il pagamento dell’affitto. Circa 80 appartamenti in tutta Brooklyn. Mario Salerno, evidente origine italiana, è certo un uomo fortunato, un benestante come si usa dire. Ma è anche un uomo generoso. “La mia fede cattolica mi ha portato a prendere questa decisione”, ha detto a un giornalista della rete televisiva EWTN. “Prego e chiedo al buon Dio fermare questo virus malefico”. Ed ecco cosa ha fatto: ha sospeso i pagamenti degli affitti ai suoi 200 inquilini. “Ho detto loro di non preoccuparsi, di non farsi prendere dal panico. Stiamo attraversando momenti molto difficili con questa malattia mostruosa. Rinuncerò a tutti gli affitti per tutto il mese di aprile”, ha detto ancora. Il coronavirus infatti non è solo una malattia mortale, ma sta mettendo in ginocchio le economie di tutto il mondo e a pagare il prezzo sono i più disagiati. Molti infatti sono rimasti senza lavoro, visto che le aziende in cui lavoravano hanno dovuto sospendere ogni attività perché sia evitato il contagio. Parlando con i suoi inquilini, Salerno si è reso conto delle loro difficoltà. “Spero di aver dato loro un po’ di respiro perché abbiano il cibo da mettere sul tavolo, cosa che molti di loro non riuscivano più a permettersi”. I soldi che perderà, ha spiegato, sono irrilevanti di fronte al valore di una vita umana. Non è l’unico ad aver fatto un gesto del genere. Come riporta il sito theblaze, un padrone di casa di Portland, nel Maine, ha sospeso anche lui il pagamento degli affitti per il mese di aprile: “Ho la fortuna e il privilegio di essere nella classe del proprietario, ho  fatto sapere che non avrei riscosso l’affitto in aprile. Chiedo a tutti gli altri proprietari di casa di dare un’occhiata seria alla propria situazione e prendere in considerazione di dare un po’ di sollievo agli inquilini”, ha detto il signor Nathan Nichols. Sono alcuni dei tanti gesti di solidarietà e aiuto dal basso che l’emergenza coronavirus sta facendo venire fuori, una luce di speranza nel tunnel di uno dei disastri peggiori della storia dell’umanità.

Da ansa.it l'8 aprile 2020.  Lo sciopero degli affitti durante l'emergenza coronavirus. Mentre varie petizioni sono state lanciate a livello statale e regionale per chiedere lo stop dei pagamenti anche dei mutui, gli affittuari si organizzano e pensano a 'incrociare' le braccia e non pagare. Il coronavirus ha causato la perdita di milioni di posti di lavoro e, senza stipendio, i 40 milioni di americani che vivono in affitto chiedono di cancellare i pagamenti nei mesi dell'emergenza. Una richiesta finora caduta nel vuoto con i proprietari che, in alcuni casi, si sono limitati a concedere solo uno slittamento dell'affitto di un mese, forse due nel caso in cui la crisi dovesse prolungarsi. Ma la concessione non soddisfa e da qui la levata di scudi con gli affittuari sul piede di guerra che chiedono la cancellazione in tronco degli affitti e dei mutui per uno o due mesi, ovvero il tempo necessario per rimettersi in piedi dopo la crisi. I proprietari di casa però non ci stanno e avvertono: se gli affitti non saranno pagati il rischio è quello di innescare lo stesso circolo vizioso del 2008, con default di pagamenti a catena. La National Rental Home Association, organizzazione che rappresenta alcune categorie di proprietari di casa, chiede quindi aiuto alle governo: servono 9-10 miliardi di dollari al mese per bilanciare i costi degli affittuari che non possono più permettersi l'affitto. Il Congresso appare però più interessato ad aiutare gli affittuari: la deputata democratica della California, Maxine Waters, propone un piano da 100 miliardi di dollari per coprire gli affitti e le bollette degli americani.    La palla è ora alla Casa Bianca, alla quale spetta il compito di cercare un equilibrio fra le due richieste.

Dagonews l'8 aprile 2020. Quasi un terzo degli inquilini statunitensi non ha pagato l’affitto durante la prima settimana di aprile: lo rivelano i dati dell’NMHC, il National Multifamily Housing Council insieme a un consorzio di fornitori. È una cifra che dà il tenore di quanto sarà grave la recessione causata dal coronavirus, e allo stesso tempo della bolla dei prezzi degli affitti, che in certe zone d’America raggiungono cifre folli (es. California). E visti i dati sulla disoccupazione record – con 6,6 milioni di nuove domande di indennità richieste – anche prevedibile. I dati provengono da 13,4 milioni di appartamenti in affitto analizzati da diverse società di dati immobiliari, tra cui RealPage, Yardi ed Entrata. Alcuni inquilini saranno temporaneamente protetti dallo sfratto per l'affitto non pagato da alcune leggi federali e locali. Ma gli operatori immobiliari e gli analisti sono molto preoccupati che si possa scatenare una spirale di eventi che porti a inadempienze sui mutui (ricorda qualcosa?) Il governo federale ha acconsentito a consentire ai proprietari di condomini con mutui garantiti dal governo di differire i pagamenti delle rate e la Federal Reserve ha affermato che acquisterà obbligazioni legate a determinati prestiti multifamiliari. Il problema è che quelle misure coprono solo una parte del mercato totale, e non riguardano comunque i prestiti detenuti dalle banche e senza una garanzia del governo.

Andrea Marinelli per corriere.it l'8 aprile 2020. «Molti di noi stanno già scegliendo fra il cibo e l’affitto, e abbiamo scelto il cibo», racconta a Cnn Melissa Reyes, membro della Los Angeles Tenants Union, il sindacato degli inquilini, con un foulard leopardato a ripararle la bocca dal rischio di contagio e in mano un cartello che chiede l’amnistia immediata per l’affitto. Il coronavirus, l’affitto e il cibo sono i tre problemi che tormentano Reyes e gli altri inquilini di Los Angeles, scesi in strada il primo aprile — giorno in cui negli Stati Uniti si paga l’affitto — per manifestare contro i landlord, i padroni di casa che vogliono comunque essere pagati, e contro lo Stato che non li tutela. «Non possiamo lavorare, non possiamo lavorare», cantano le persone attorno a lei, mentre le auto addobbate con i manifesti della campagna «Food not Rent» — sì al cibo, no all’affitto — suonano il clacson in un assolato carosello di protesta. In strada a Los Angeles ci sono attori che arrotondavano come camerieri, titolari di negozi, ristoratori, baristi, piccoli imprenditori, impiegati, cameraman, musicisti, lavoratori freelance che in un attimo sono rimasti senza uno stipendio a causa del lockdown imposto dal Covid-19: in due settimane, in tutto il Paese, 9,9 milioni di persone hanno fatto richiesta del sussidio di disoccupazione (3,3 la prima e 6,6 la seconda: il precedente record settimanale era di 695 mila e risaliva al 1982). Eppure non è un caso che la protesta degli inquilini — pronti a indire un «rent strike», uno sciopero dell’affitto nazionale — sia partita dalla California, avamposto della crisi abitativa già prima della pandemia globale. «Non c’è mai stato un momento migliore per usare il piccolo potere che abbiamo, l’assegno del nostro affitto, per chiedere alla città e allo Stato di proteggere i diritti della maggioranza dei suoi costituenti», ha spiegato al Guardian Tracy Jeanne Rosenthal, co-fondatrice della LA Tenents Union. In città, ha aggiunto, circa 600 mila persone spendevano già il 90% dei loro guadagni in affitto: «Gli inquilini erano già in crisi». E così si stanno organizzando in gruppo, non pagano e fanno una serie di richieste collettive ai padroni di casa: una pratica, scrive il Guardian, che a Los Angeles è diventata piuttosto comune negli ultimi anni e che Reyes sta portando avanti insieme ai vicini del suo palazzo nel quartiere di Boyler Heights. «È una questione di sopravvivenza e necessità», dice, mentre un suo vicino, Kyle Cunningham, racconta di aver sempre pagato in tempo, ma da quando ha perso il suo lavoro da cameraman freelance non ha avuto altra opzione se non quella di sospendere i pagamenti. «È una situazione senza precedenti, devo spendere i soldi che ho per proteggere la mia famiglia e fare la spesa». Per limitare i danni, il governatore democratico della California Gavin Newsom ha bloccato gli sfratti fino alla fine maggio, ma il suo ordine esecutivo obbliga al tempo stesso gli inquilini a fornire una documentazione per il mancato pagamento degli affitti — processo complicato ad esempio per gli immigrati senza documenti — e a ripagare quanto dovuto al termine dell’emergenza, lasciandoli dunque con un debito pesante sulle spalle. I proprietari di casa, oltretutto, possono comunque cominciare il processo di sfratto, e renderlo effettivo non appena la moratoria finirà. A San Francisco, però, l’affitto mediano di un bilocale era di 3.600 dollari al mese lo scorso giugno, a Los Angeles 2,362 dollari, a New York 2,650 dollari, a Chicago 1,650: in tutto il Paese scende invece a 1,216, ma il peso di mesi di affitti da ripagare sarebbe insostenibile per le spalle degli inquilini. «In sei mesi mi potrei ritrovare un debito di 20 mila dollari da ripagare sull’unghia, e sarebbe impossibile dopo essere rimasta senza stipendio», spiega al quotidiano britannico Lupe Arreola, direttrice esecutiva di Tenants Together a San Francisco. Anche l’assegno da 1.200 dollari a persona previsto dal bazooka di Trump — il piano di aiuti da 2,2 mila miliardi per sostenere l’economia — non sarà abbastanza per alleggerire il peso che ricade sugli inquilini. Le protezioni più solide sono state approvate a Oakland, dall’altra parte della baia di San Francisco, dove la città ha proibito per due mesi gli sfratti, ma anche le sanzioni per il pagamento in ritardo e gli aumenti dell’affitto. Gli inquilini dovranno comunque ripagare gli affitti saltati al termine dell’emergenza, ma i proprietari non potranno sfrattarli per questo. «Una legge così dovrebbe essere approvata ovunque», ha spiegato l’avvocato Leah Simon-Weisberg. A Los Angeles, invece, ci sarà un mese di tempo per saldare il debito. Secondo tutte le associazioni degli inquilini, insomma, l’ordine diramato da Newsom per aiutarli potrebbe portare a una crisi abitativa ben più catastrofica di quella che già minacciava la California prima della pandemia, e così chiedono la cancellazione degli affitti in tutto lo Stato e una moratoria più ampia su sfratti e pignoramenti. «La decisione è fra pagare l’affitto e morire di fame, oppure non pagarlo e comprare cibo», conferma Chris Estrada, membro del Los Angeles Center for Community Law and Action. In tempo di distanziamento sociale, però, la rabbia e la preoccupazione degli inquilini si manifesta soprattutto online, dove sono comparse decine di lettere inviate dai padroni di casa per chiedere il saldo dell’affitto: c’è chi dice che non è cambiato nulla è l’affitto è dovuto il primo aprile, chi offre un «periodo di grazia» di dieci giorni, chi consiglia agli inquilini licenziati di trovarsi un lavoro in un supermercato, come fattorino oppure da Amazon, Walmart e Domino’s. Come racconta su Twitter Jared Sevantez, giornalista del Los Angeles Times, il suo padrone di casa ha mandato una mail comune a tutti gli inquilini, chiedendo il saldo dell’affitto e suggerendo di richiedere un sussidio di disoccupazione, ma mettendo in copia tutte le persone in affitto nei suoi palazzi. «Ci ha appena dato la possibilità di organizzarci in gruppo», ha scritto, «fornendoci la mail di ogni singolo inquilino dei suoi palazzi: lo sciopero dell’affitto in un palazzo è forte, ma in tutti i suoi palazzi è fantastico». Uno sciopero di massa, però, potrebbe dare vita a un effetto domino, come chiarisce a Cnn Matthew Heizmer, proprietario di un piccolo condominio acquistato con molti sacrifici poco prima della crisi del 2008, su cui ancora deve finire di pagare un mutuo. «Li capisco, vent’anni fa sarei stato al posto loro», ha spiegato, «ma non ho modo di gestire questa situazione oltre un paio di mesi». Se gran parte degli inquilini non dovesse pagare, «anche i padroni di casa, in particolare quelli più piccoli che operano su margini ridotti, non riuscirebbero a pagare i propri conti», spiega il New York Times, raccontando il punto di vista newyorkese — dove ci sono circa 5,4 milioni di persone in affitto — di una crisi che va ben oltre il fronte californiano, ma tocca tutto il Paese. «Cerco di non andare nel panico, ma in vita mia non ho mai visto niente del genere, e neanche i miei genitori o i miei nonni», afferma Christopher Athineos, la cui famiglia gestisce 9 edifici a Brooklyn con 150 inquilini. Gli esperti sostengono che a New York circa il 40% degli inquilini, forse di più, non sarà in grado di pagare la mensilità di aprile. Il governatore Andrew Cuomo ha indetto una moratoria di tre mesi sugli sfratti, ma il problema degli affitti persiste. Le associazioni degli inquilini e dei proprietari di casa propongono a chi ha perso il lavoro di contrattare direttamente con il proprio landlord, ma intanto anche in città cominciano i primi scioperi dell’affitto e si intensificano le richieste di un intervento politico. «Se New York è in pausa, allora dovrebbe esserlo anche il nostro affitto», ha spiegato un’attrice di nome Lauren al Times, spiegando di aver contrattato con il proprio padrone di casa. Questa crisi, spiega Joseph Strasburg, presidente della Rent Stabilization Association, che rappresenta circa 25 mila padroni di casa, ha tutti gli ingredienti per provocare il collasso del settore immobiliare cittadino. Senza considerare che il primo luglio i proprietari di casa devono pagare la tassa sulla proprietà — la nostra Imu — che pesa per il 30% sulle entrate dell’intera città. E finanziano i servizi di base. In un Paese con 44 milioni di famiglie in affitto, chiarisce City Lab, le conseguenze economiche di uno sciopero dell’affitto sarebbero, a lungo termine, disastrose.

Coronavirus, Trump blocca mascherine per la Germania: l’ira di Berlino. Jacopo Bongini il 05/04/2020 su Notizie.it. Si alza la tensione tra Stati Uniti e Germania nell’ambito dell’emergenza coronavirus, con il presidente Usa Donald Trump che ha ordinato il blocco di un carico di 200mila mascherine destinate alla Germania. Il carico si trovava nell’aeroporto di Bangkok, in Thailandia, pronto per partire alla volta dell’Europa fino a quando Trump non ha deciso di requisirlo in quanto prodotto da un’azienda americana: la 3M. L’azione ha inevitabilmente scatenato l’ira di Berlino, che per bocca del suo ministro degli Interni ha parlato di atto di moderna pirateria. Secondo alcuni osservatori politici il presidente Trump non sopporterebbe l’idea che un’azienda statunitense venda materiale di prima necessità ad altri paesi che non siano gli Usa. Già nella giornata del 3 aprile il presidente aveva affermato che eventuali aiuti verso Spagna e Italia sarebbero giunti soltanto in caso di eccesso di produzione di materiale sanitario da parte degli Usa. Un comportamento quello di Trump concretizzatosi nella misura di sequestro delle mascherine immediatamente condannata dalle autorità tedesche, le quali hanno manifestato il loro disappunto tramite il ministro degli Interni Andreas Geisel: “Un atto di moderna pirateria internazionale. Un’azione inumana e inaccettabile”.

Il precedente del vaccino. Non è però la prima volta che Trump e la Germania finiscono ai ferri corti sulla questione coronavirus. Già all’inizio del mese di marzo il presidente Usa aveva cercato di assicurarsi l’esclusiva su un vaccino contro il Covid-19 promettendo un’ingente somma di denaro all’azienda farmaceutica tedesca Cure Vac, ottenendo però di tutta risposta il blocco da parte del governo tedesco di ogni tipo di trattativa tra la Cure Vac e la Casa Bianca. Il fondatore dell’azienda ha infatti affermato in seguito che una volta scoperto il vaccino, questo verrà condiviso con tutto il mondo e non sarà soltanto esclusiva di qualcuno.

Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 4 aprile 2020. «Non so cosa stia succedendo. Non voglio entrare nelle tensioni tra i poteri del governo federale e quelli degli Stati, ma non capisco perché non adottiamo l' ordine nazionale di restare a casa. Dovremmo farlo, davvero». Questo appello lanciato dal dottor Anthony Fauci durante un' intervista con la Cnn, in aperta contraddizione con la linea seguita finora dal presidente Trump, è forse la manifestazione più drammatica dell' emergenza in corso per il coronavirus. Solo a New York sono morte 562 persone in un giorno, il record finora. Perciò il governatore Cuomo ha dato l' ordine di sequestrate i ventilatori ovunque non siano utilizzati, per salvare i pazienti in fin di vita: «Ogni giorno ce ne servono 300 in più». E nessuno può più dire che non sapeva, perché si è scoperto un rapporto scritto dall' Esercito americano, che già il 3 febbraio scorso lanciava l' allarme per il pericolo che l' epidemia uccidesse tra 80.000 e 150.000 americani. Quanto sta succedendo, e Fauci lo ha fatto chiaramente capire, è una disputa politica. «Il problema negli Usa - ci ha detto il premio Nobel di Stanford Michael Levitt, autore dei modelli di previsione matematica dell' epidemia - è che qui ormai tutto viene politicizzato. Ogni cosa viene valutata solo nell' ottica di capire se aiuta o danneggia Trump. Ma le malattie non funzionano così, e neppure la scienza che dovrebbe combatterle». Le tensioni tra i poteri federali e statali sono una disputa antica negli Usa, con i progressisti storicamente favorevoli ad allargare il ruolo di Washington, e i conservatori contrari. Quindi è logico che il capo della Casa Bianca repubblicano resista all' idea di imporre la chiusura dell' intero Paese, sperando che i singoli governatori l' adottino di propria volontà. Il risultato però è che i provvedimenti vengono presi a macchia di leopardo e quindi non sono efficaci. Ad esempio la Florida, guidata dall' alleato di Trump DeSanctis e indispensabile per la rielezione di Donald a novembre, ha emesso solo due giorni fa l' ordine di restare a casa, esentando peraltro le chiese per le funzioni pasquali. Fino a poco tempo fa le spiagge di Miami erano piene di ragazzi venuti per lo spring break, e chissà quante centinaia di contagi hanno riportato a casa in tutta l' America. Il secondo problema è l' uso dell' epidemia a scopi politici, in vista delle presidenziali di novembre. Trump ha sottovalutato il virus per due mesi, sperando che passasse senza danneggiare l' economia, che però ormai è già in recessione, almeno secondo le stime di S&P. Ieri il governo ha rivelato che nel mese di marzo la disoccupazione è salita al 4,4% e sono stati persi 701.000 posti di lavoro, ma questo è un dato parziale che quasi non tiene conto dei 10 milioni di domande per i sussidi presentate nelle ultime due settimane. Davanti all' evidenza, il capo della Casa Bianca si è rassegnato a cambiare linea, e sta per ordinare a tutti di indossare le maschere nei luoghi pubblici. Ora dice che potevano morire 2 milioni di americani, e se invece ne moriranno meno di centomila lui avrà fatto un buon lavoro. Il sospetto è che stia gonfiando i numeri per gestire le aspettative, in modo da poter poi rivendicare come un successo le sue politiche. Di sicuro la scusa che nessuno poteva prevedere l' emergenza non regge più. Il 3 febbraio, infatti, lo U.S. Army Northern Command aveva distribuito uno studio in cui faceva queste previsioni: «Fino a 80 milioni di infettati. Tra 15 e 25 milioni avranno bisogno di cure. Tra 300.000 e 500.000 dovranno essere ricoverati in ospedale. Tra 80.000 e 150.000 potranno morire». Lo considerava un «cigno nero», ma all' epoca Trump ripeteva ancora che era una semplice influenza sotto controllo.

Da leggo.it il 4 aprile 2020. Donald Trump ha annunciato che il governo americano pagherà le cure per il coronavirus a quanti non hanno stipulato un'assicurazione sanitaria usando fondi dal pacchetto di aiuti economici da $ 2,2 trilioni che il presidente ha firmato la settimana scorsa. «Posso così orgogliosamente annunciare che gli ospedali e gli operatori sanitari che curano i pazienti con coronavirus non assicurati saranno rimborsati dal governo federale utilizzando i fondi del pacchetto di aiuti economici», ha detto il presidente al suo briefing quotidiano sulla stampa. «Ciò dovrebbe alleviare qualsiasi preoccupazione per gli americani non assicurati nella ricerca del trattamento con coronavirus», ha aggiunto. Il suo annuncio arriva lo stesso giorno in cui un rapporto federale ha mostrato che oltre 700.000 posti di lavoro sono stati persi a marzo dopo la chiusura di molte aziende a causa del coronavirus. Quasi 10 milioni di americani hanno fatto domanda per l'indennità di disoccupazione nelle ultime due settimane di marzo.

DAGONEWS l'8 aprile 2020. Folla in strada a Brooklyn dove la comunità ebraica si è riunita per il funerale del rabbino Tzvi Hirsh Meislish, 80 anni: nonostante il lockdown gli ebrei ortodossi si sono affollati ignorando le raccomandazioni e fregandosene della distanza di sicurezza e senza indossare le mascherine. Poche ore prima la polizia era dovuta intervenire al funerale di un altro membro della comunità,  Rav Yosef Kalish, 62 anni, dopo che gli agenti avevano ricevuto la segnalazione di centinaia di persone in strada per l’ultimo saluto. Entrambe le vittime sono morte dopo aver contratto il coronavirus, ma il fatto non ha scoraggiato la folla. La polizia è intervenuta per chiedere loro di rispettare la distanza di almeno un metro e ottanta, ma gli agenti sono stati ignorati. Il Governatore Andrew Cuomo ha implorato la comunità ebraica di iniziare a seguire le linee guida: «Sono sicuro che il NYPD farà quello che deve fare. L'ho chiarito ieri: questa è una norma e va rispettata. Si può essere multati. Le persone devono capire. Capisco le riunioni religiose, capisco la comunità ortodossa, sono vicino a loro e lo sono stato per molti anni. Ma ora non è il momento di grandi riunioni. Abbiamo già pagato questo prezzo. Abbiamo imparato questa lezione dopo quello che è successo a New Rochelle e a Westchester». Cuomo si riferiva alle due città suburbane che hanno visto schizzare alle stelle il numero dei casi di coronavirus dovuti in gran parte a un avvocato che ha frequentato un bar mitzvah e altre cerimonie religiose prima di essere identificato come positivo. «Per me è un enigma il modo in cui alcune persone conoscono e non rispettano ancora le regole» ha dichiarato Yosef Rapaport, giornalista ortodosso, al Wall Street Journal. Secondo i suoi dati alcune delle zone di Brooklyn con la più alta presenza di ortodossi, come Williamsburg, Midwood e Borough Park, sono tra quelle con il più alto tasso di casi di coronavirus in città.

"Io, italiana negli Stati Uniti. Tra toni trionfalistici e corsa alle armi". Le sparate di Donald Trump e le informazioni sempre più confuse. Con l'assalto ai supermercati e ai negozi di pistole e fucili. Ci scrive una lettrice dal Michigan per raccontarci l'emergenza coronavirus vissuta nel Midwest. Ilaria Panzeri il 07 aprile 2020 su L'Espresso. Rapids, Michigan, 24 Marzo 2020. Esattamente un anno fa cominciava l’avventura americana per me e il mio compagno. Due ricercatori emigrati all’estero, io già in Germania da due anni, lui direttamente dall’Italia agli Stati Uniti. Come per tanti altri, la nostra è stata una scelta che ha comportato molti sacrifici e molte lontananze. Un anno dopo, la nostra vita di tutti i giorni è come se fosse stata messa in pausa. Temiamo che tutti i sacrifici fatti saranno vanificati da questa pandemia. Siamo entrambi a casa, in attesa di capire cosa succederà da oggi in poi. Infatti, così come è successo a Wuhan 2 mesi fa, la governatrice del Michigan, Gretchen Whitmer, ha ordinato il "stay home, stay safe": tutte le attività non fondamentali dovranno restare chiuse e chi non svolge funzioni essenziali dovrà rimanere a casa il più possibile. Penso ai miei genitori in Italia, già in quarantena da quasi 2 settimane. Qui nessun tipo di attività all’aperto è vietata: si possono fare camminate, corse, gite in bicicletta, o qualsiasi altra attività ricreativa che consenta di rimanere a sei piedi (circa 2 metri) di distanza da altre persone. La verità è che qui siamo tutti un po’ confusi e non è chiaro quali siano davvero le "attività fondamentali" che possono, secondo la governatrice, procedere. Rientrano ovviamente nella categoria tutti coloro impegnati negli ospedali e nell’assistenza sanitaria, nella polizia e nel primo soccorso, ma anche chi si occupa di assistenza all’infanzia, agricoltori, trasportatori, commercianti, coloro che lavorano in banche ed assicurazioni. La lista è lunga. Da alcuni dettagli traspare la cultura e le priorità locali: i rivenditori di auto dovranno chiudere, ma non chi fornisce pezzi di ricambio; ristoranti e catene di "fast food" potranno restare aperte, ma solo per "take-away". Diversamente dalle grandi città americane, qui nella provincia del Midwest i trasporti pubblici scarseggiano, gli spazi sono ampi e a "downtown" (il centro città) non esistono praticamente negozi: tutti i grandi supermercati si trovano organizzati in conglomerati fuori dalla città. Così spostarsi in macchina è pressoché fondamentale. Anche la possibilità di acquistare cibo pronto è una necessità, dal momento che qui non molti cucinano o utilizzano i fornelli per altro che non sia riscaldare cibi pronti (quando non usano direttamente il microonde). Nonostante la lunga lista di eccezioni, già 3.3 milioni di americani hanno richiesto il sussidio di disoccupazione proprio quando le attività non essenziali sono state chiuse. Non tutti coloro che restano disoccupati, però, possono richiedere tali sussidi. Ciò significa che probabilmente molte più persone si trovano in questo momento in difficoltà, senza un lavoro e senza alcuna entrata. Apprendiamo anche che non è assolutamente proibito viaggiare al di fuori dello Stato, rientrarvi, o spostarsi tra diverse residenze. In Italia, invece, proprio in questa data, Conte ha annunciato misure ancora più restrittive di quelle precedentemente introdotte, dando alle Regioni potere di inasprire i regolamenti. Qui in Michigan le limitazioni sono state introdotte in misura crescente a partire dal 10 marzo, giorno in cui la governatrice dichiarava lo stato di emergenza e chiudere i college, le università. Il 10 marzo venivano infatti confermati i primi due casi ufficiali di COVID-19 in Michigan. In questa stessa data, l’Italia era già in "lockdown", con l’intera popolazione che si trovava a seguire le stesse misure fino a quel momento adottate in Lombardia e nelle altre "zone rosse". I miei colleghi già mi chiedevano preoccupati della situazione in Italia, dei miei parenti e dei miei amici. La sensazione, però, negli occhi degli altri, ê che fosse un problema ancora lontano: non vedevo timore, in quel momento, più che altro avvertivo la gentilezza e la cortesia tipica del Midwest. D’altra parte, non avevamo la stessa sensazione in Italia, quando il SARS-CoV-2 ha cominciato a diffondersi in Cina? La notizia della chiusura dei college mi era arrivata la mattina a lavoro, tramite il mio studente tedesco, che viveva in un appartamento con alcuni coinquilini che frequentavano le università vicine. La gestione dell’emergenza mi era già in quel momento parsa a dir poco particolare. Pare che agli studenti sia stato detto di andare di corsa nei supermercati per fare scorta di beni essenziali sufficienti per due settimane. Risultato ovvio: assalto ai supermercati. È stato interessante osservare quali beni sono considerati di prima necessità qui. Ovviamente gli scaffali sono completamente vuoti dove prima si trovavano igienizzanti per le mani, che qui vengono molto più utilizzati che in Europa, anche in situazioni normali. Manca tuttavia anche carta igienica, burro, pollo, latte e uova. Il latte fresco qui è venduto in flaconi da 1 gallone (circa 4 litri), e le uova in confezioni da non meno di 12 unità. Nonostante ciò, nei supermercati hanno dovuto limitare l’acquisto di entrambi a 5 confezioni. Altra nota caratteristica: lo spreco alimentare. Purtroppo, le statistiche dicono che circa un terzo del cibo acquistato dalle famiglie americane viene gettato. Questo in condizioni normali, ovviamente in queste circostanze l’attenzione allo spreco perde ulteriormente priorità. Tutto ciò senza menzionare la letterale corsa agli armamenti: molti americani si sono ritrovati in coda per acquistare armi e munizioni, per paura che possano terminare. Qualcuno ha dichiarato ai giornali che, dopo aver fatto scorta di cibo, le armi erano l’ovvio passo successivo. Nel nostro Istituto si cominciava a respirare aria pesante. I capi gruppo più organizzati tenevano riunioni con le proprie unità pianificando i prossimi passi e limitando le future attività. Nonostante le restrizioni già introdotte, sabato 14 marzo la maggior parte della comunità era già in fermento per San Patrizio, prevista per il 17 marzo. I pub e i bar del centro, già normalmente affollati, brulicavano di persone intente ad anticipare i festeggiamenti. In teoria, era già in vigore l’ordine di ridurre aggregazioni di più di 100 persone. Solo dal 15 marzo, tuttavia, ristoranti e bar venivano sollecitati a ridurre l’affollamento, e soltanto il giorno successivo iniziava il divieto di consumazione in loco. In questa stessa settimana, il mio studente tedesco veniva costretto a rientrare in Germania tramite e-mail intimidatorie da parte della sua università. Gli era stato comunicato che, dal momento che l’università non era certa di quali coperture offrisse l’assicurazione che lui stesso si era dovuto pagare, non si sarebbe assunta alcuna responsabilità nel caso in cui lui avesse deciso di rimanere negli Stati Uniti. Già, perché qui avere una buona assicurazione significa tutto. È un simbolo di status sociale, oltre che un metro che decide chi possa curarsi e chi no. Ho pensato più volte a come la sanità in questo Paese riuscirà a fronteggiare il dilagare del SARS-CoV-2. Cerco di immaginare la situazione di chi non ha neppure un’assicurazione sanitaria. Le stime attuali parlano di 30 milioni di americani senza assicurazione e 44 milioni con un’assicurazione che copre soltanto in minima parte le spese mediche. Il governo ha recentemente deciso di fornire gratuitamente il test per SARS-CoV-2, dal costo stimato di circa 1000 $ (900 €) a persona. Che dire delle cure? Come possono persone senza assicurazione permettersi un ricovero in terapia intensiva? Molte testate giornalistiche hanno provato a determinare il costo di una degenza per COVID-19. La verità è che, data l’eterogeneità dei trattamenti e delle coperture sanitarie, è pressoché impossibile determinarlo. Si può avere però un’idea approssimativa dei costi. In pronto soccorso i prezzi si basano sulla gravità della situazione. Per problemi poco gravi, il costo sarebbe di 169 $ (152 €) per chi è assicurato e 441 $ (397 €) per chi non lo è; per situazioni di pericolo di vita si arriva a 443 $ (398 €) per chi ha una buona assicurazione e 1151 $ (più di 1000 €) per chi non è assicurato. Questi prezzi si riferirebbero alla sola degenza, senza il costo delle apparecchiature, come i ventilatori polmonari. Persone senza assicurazione qui tendono ad avere minori entrate, un’educazione ferma alla scuola media, basso reddito, vivere in aree più inquinate e con meno risorse per la propria salute, ed avere in generale una salute più cagionevole. Quindi sarebbero queste stesse persone ad essere più vulnerabili. Un altro problema serio deriva dal fatto che in molti casi lavori che non garantiscono una buona assicurazione sanitaria non hanno nemmeno buone coperture per malattia. Mi sono quindi ritrovata a pensare: cosa farei se fossi in questa situazione? Se mi sentissi febbre e sintomi influenzali, ma il mio basso reddito fosse magari l’unico della famiglia e non potessi prendere malattia, starei davvero a casa? O andrei a lavorare comunque? Andrei davvero in ospedale per farmi testare, con il timore dei costi? Oggi è il 29 marzo. È trascorsa una settimana dall’invito a rimanere a casa. Martedì 25 in serata sono stata classificata come "personale essenziale". Di conseguenza, sono andata a lavorare per tutta la settimana, riducendo il più possibile il tempo trascorso fuori casa. Il mio compagno, lavorando al computer, è potuto invece restare a casa. È stata una settimana particolarmente stressante, tanto che mi sembra sia passato un mese. Ogni volta che usciamo di casa, soprattutto per andare a fare la spesa, stiamo attenti ad ogni superficie che non possiamo fare a meno di toccare, ed io cerco di resistere a quei fastidiosi pruriti in faccia che normalmente gratterei senza pensarci. A lavoro in questa settimana sono per la maggior parte delle volte completamente sola, in un Istituto che ospita normalmente più di 400 persone. Non è una bella sensazione, ma cerco di tirarmi su il morale pensando che non è da tutti avere un intero Istituto tutto per sé! Da un lato la mia mente razionale capisce anche che essere soli è un fattore positivo in questa pandemia, dall’altro resto umana e il contatto con gli altri mi manca. Nel silenzio, mentre sono indaffarata con i miei esperimenti, il pensiero va inevitabilmente a casa e ai miei cari in Italia. In laboratorio mi sento però abbastanza sicura. Ho i guanti, li lavo e pulisco frequentemente le superfici con etanolo al 70%. Per entrare in alcuni ambienti devo anche fare una doccia, cambiarmi i vestiti e portare la mascherina. Ad ogni guanto e mascherina che uso penso agli operatori sanitari impegnati nella lotta contro questa pandemia, qui negli Stati Uniti, in Italia e nel resto del mondo. Il nostro Istituto, come altri, ha già donato strumentazione agli ospedali vicini, ma molti ospedali negli Stati Uniti stanno già lamentando di avere poche mascherine, guanti, camici e attrezzature. Venerdì Trump è ricorso al "Defence Production Act", per reindirizzare la produzione delle ditte americane verso beni di prima necessità in questa lotta contro il SARS-CoV-2. In particolare, lo scopo principale è stato spingere General Motors a produrre ventilatori polmonari, che pare saranno pronti tra circa un mese. Sono state anche ampliate le categorie di lavoratori che potranno ricevere un’indennità di disoccupazione, e si parla di versamenti di circa 1200 $ (1080 €) per adulto da parte del governo federale. La verità è che qui si fa fatica a capire cosa sta succedendo. Spesso ci lamentiamo della cattiva comunicazione in Italia, ma qui è davvero estremamente difficile trovare testate giornalistiche che non siano fortemente polarizzate politicamente. Quale è la reale situazione? A sentire l’aggiornamento del bollettino giornaliero con Trump e Pence, l’America è più che preparata. Le frasi più utilizzate ogni giorno sono: "Abbiamo tutto sotto controllo", "Abbiamo tutti i guanti e le mascherine che ci servono", "l’America vincerà questa guerra". Poi però si leggono articoli meno confortanti. Il 21 marzo, l’American Medical Association, l’American Hospital Association, e l’American Nurses Association hanno scritto una lettera congiunta dichiarando che molti operatori sanitari devono riutilizzare le mascherine o provvedere a realizzare mascherine "fai da te", perché in alcuni ospedali già non ce ne sono a sufficienza. La situazione è particolarmente grave nelle grandi città, come New York, dove, non a caso, il governatore Andrew Cuomo è molto meno ottimista nelle interviste rispetto a Trump. Avrebbero bisogno di 30000 ventilatori polmonari, ha dichiarato Cuomo, e attualmente, anche con gli aiuti federali, ne hanno solo 13000. Anche qui in Michigan sono cominciate a circolare lettere di ospedali ai dipendenti con istruzioni riguardanti le scelte in caso di scarsità di equipaggiamento. Verrà data priorità ai pazienti con migliori possibilità di sopravvivere e verranno interrotti i trattamenti a coloro sotto ventilatore o in terapia intensiva, se non ci saranno miglioramenti visibili, per poter offrire questi supporti ad altri pazienti. Chi presenta patologie pregresse quali danni seri a cuore, polmoni, fegato, reni, traumi seri o bruciature, o cancro allo stadio terminale potrebbero non essere ammessi in terapia intensiva e a ricevere supporto tramite ventilatori. Si sceglie chi vive e chi muore, e a me tornano alla mente le dichiarazioni di alcuni medici nella zona di Bergamo, che ho letto sui giornali italiani. Martedì Trump ha dichiarato che vuole la nazione "aperta e impaziente di festeggiare la Pasqua, il 12 Aprile. Ad oggi, le città più colpite qui negli Stati Uniti, come New York, non sono state isolate. Cuomo e Trump hanno avuto accesi diverbi a distanza sulla possibilità di mettere in quarantena la città. Un’azione di questo tipo è stata definita "anti-americana", "dichiarazione federale di guerra agli Stati" ed "illegale". Si è quindi passati dall’idea di una quarantena ad un suggerimento rivolto ai cittadini degli Stati di New York, New Jersey e Connecticut affinché evitino viaggi non essenziali per i prossimi 14 giorni. Cuomo ha anche minacciato di querelare chiunque porti avanti attività di controllo ai cittadini, come quelle introdotte dalla governatrice di Rhode Island, Gina Raimondo, venerdì. Ai cittadini provenienti da qualsiasi stato e diretti verso Rhode Island, è richiesto di rispettare una quarantena di 14 giorni. Qui in America si procede per suggerimenti, qui il popolo non ama le limitazioni alla libertà personale. Nel frattempo, l’ambiente viene dimenticato. Nel piccolo di Grand Rapids, la poca raccolta differenziata è stata sospesa. La giustificazione è legata al fatto che SARS-CoV-2 sembra resistere per qualche tempo sulla plastica e sui metalli, quindi per tutelare gli operatori si è deciso di bruciare tutto indistintamente. A livello nazionale, la Environmental Protection Agency (l’agenzia per la protezione dell’ambiente) ha smesso di monitorare eventuali violazioni ai regolamenti contro gli inquinanti, sempre con la scusa di proteggere i lavoratori ed il pubblico da COVID-19. Io temo che questa pandemia ci stia facendo dimenticare un’altra guerra, che ancora incombe: quella contro i cambiamenti climatici. Con la situazione italiana nella mente e nel cuore, i toni del governo americano suonano decisamente troppo trionfalistici, le azioni e le misure intraprese sembrano in ritardo e troppo poco restrittive. Forse, però è la sensazione che molti di noi provano nel mondo, in questo periodo in cui ci sentiamo impotenti, in cui tutto quello che possiamo fare per difendere noi stessi e gli altri, è stare a casa.

Ilaria Panzeri, lombarda, vive a Grand Rapids, in Michigan, lavora come ricercatrice postdoctoral Researcher Fellw at Van Andel Institute.

Obitori pieni: New York prepara le fosse comuni nei parchi. Il Dubbio il 7 aprile 2020. Secondo uomini vicini al sindaco De Blasio, se il numero di morti non diminuirà sarà necessario pensare a “sepolture temporanee”. L’epidemia di coronavirus a New York è così grave che presto i morti potrebbe essere sepolti anche nei parchi, perché gli obitori saranno pieni. Ad annunciarlo su Twitter è stato il consigliere comunale Mark Levine, presidente della commissione salute. “Presto inizieremo delle “sepolture temporanee”. Lo faremo probabilmente usando i parchi di New York per le sepolture (sì avete letto proprio così). Verranno scavate fosse per seppellire dieci bare ciascuna. Lo faremo in modo dignitoso, ordinato e temporaneo. Ma sarà dura per i newyorchesi”, ha twittato Levine. Il consigliere comunale ha poi chiarito in un tweet successivo che si tratta soltanto di “una eventualità a cui la città si sta preparando, ma se il tasso dei decessi diminuirà, non sarà necessario”. Levine ha comunque avvertito che il numero delle vittime è probabilmente più alto di quello ufficiale, perché ci sono persone che muoiono a casa alle quali non era stato fatto il test. E la possibilità di utilizzare i parchi per le sepolture di massa è confermata anche dal New York Times. L’estrema misura – scrive il quotidiano americano – è contemplata in uno dei piani di emergenza messi a punto negli ultimi giorni e che potrebbe scattare se gli obitori cittadini non fossero più in grado di accogliere cadaveri”

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. «Non c' è più tempo»: il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, è più fermo che mai. Nel suo Stato i contagi sfiorano i 114mila, un terzo dei 300mila dell' intero Paese: superiori perfino a quelli della Cina. Nella Grande Mela i malati sono almeno 57mila. Ma è una conta impossibile da tenere, su del 19% ogni giorno. Negli ospedali allo stremo i ricoverati sono 15.905: di questi 4.126 sono in terapia intensiva, piena all' 88% della capacità. In città i morti sfiorano i 2mila. Nell' intero Stato solo ieri sono stati 630. Eppure il picco è ancora lontano: atteso fra due settimane. Nella città dove la strada del virus segue quella del conto in banca - accanendosi sui poveri di Queens e Brooklyn, costretti a prendere i mezzi e andare a lavorare - le strutture sanitarie non ce la fanno più. Per questo, dopo aver annunciato, giovedì, di avere risorse per appena sei giorni, e nonostante i mille ventilatori arrivati ieri in dono dalla Cina, Cuomo è passato ad azioni impensabili fino a poco tempo fa. Non solo mettendo ospedali pubblici e privati in un solo network per dare risposte più coordinate, tanto più ora che Donald Trump ha promesso «cure gratis per tutti, lo stato federale pagherà pure per chi non è assicurato». Ma ha perfino mandato la guardia nazionale a requisire ventilatori in sovrannumero negli ospedali dello stato dove non è ancora emergenza: sollevando la protesta dei repubblicani. Lui taglia corto: «Non lascio morire la gente perché c' è chi non rinuncia alle scorte». D' altronde anche avere i ventilatori - ancora troppo pochi, bisogna trovarne altri 15mila in pochi giorni - non basta. Servono 45mila operatori sanitari, un numero così alto che venerdì il comune ha lanciato un "Amber Alert", un messaggio a tutti i cellulari che si usa di solito quando viene rapito un bambino: «Se sei un medico abilitato, abbiamo bisogno di te». E pazienza se poi c' è il rischio di finire come il dottor Richard Levitan, arrivato dal New Hampshire per dare una mano al Bellevue Hospital di Manhattan: era ospite del fratello ma è stato cacciato dai vicini, perché «potrebbe portarci il virus nel palazzo. Qui non lo vogliamo». Per carità: a pochi atti d' egoismo in tanti rispondono con gesti d' estremo altruismo. Da ieri in molte scuole chi ha fame può ritirare un pasto caldo. La squadra di football di Boston, i Patriots, ha mandato un camion con 300mila mascherine appositamente acquistate. E i pompieri, gli eroi dell' 11 settembre, hanno commosso tutti presentandosi a sirene spiegate davanti agli ospedali più colpiti, per applaudire i medici. Ma per il sindaco Bill de Blasio, tutto questo non basta: «La prossima settimana sarà cruciale. Per affrontarla serve l' aiuto del governo federale, dell' esercito, della comunità scientifica, dell' intero paese», scrive in un editoriale sul New York Times , chiedendo di dirottare personale e risorse. Su Twitter, si rivolge direttamente al Presidente: «Se invochi i poteri di guerra poi combattila questa guerra». Anche perché il virus avanza inesorabile pure altrove. All' ombra di New York, nel vicino New Jersey i casi sono 30mila. Seguiti dal Michigan, dove in pochi giorni ne sono esplosi 13mila: 4mila a Detroit, che per velocità di contagio sta scavalcando New Orleans (3.900 malati) nel triste primato di secondo focolaio più grave d' America. Nella città un tempo bastione dell' industria automobilistica gli ospedali funzionavano già male. In città vivono soprattutto afroamericani molto poveri e più fragili perché, non assicurati, sono da più tempo privi di cure. Per alcuni perfino lavarsi le mani è un lusso, senz' acqua corrente perché non pagano le bollette. E a poco è servito l' appello della governatrice Gretchen Whitmer, per riallacciarla a tutti. Qui pure il capo della polizia è positivo, insieme a 500 agenti. Il Salone dell' auto previsto a giugno è stato cancellato. I padiglioni del Cobo center che solitamente lo ospita, simbolo della città e della sua ripresa dopo la bancarotta di sette anni fa, trasformato in ospedale d' emergenza. «Non c' è più tempo»: a New York come nel resto d' America.

Francesco Semprini per “la Stampa” il 5 aprile 2020. Andrew Cuomo è ogni giorno sempre più l' icona della guerra al coronavirus, e non solo nello Stato di New York di cui è governatore, tanto da essere stato promosso sul campo da democratici moderati e centristi come il vero anti-Trump, rispetto a un Joe Biden adombrato e relegato nelle retrovie. Cuomo, invece, grazie alla sponda dei media «main stream» (suo fratello Chris è un noto conduttore della Cnn), non si sottrae ai riflettori delle prime linee, a partire dai suoi dispacci mattutini articolati e coerenti, che trasmettono empatia. Distanti da quelli pomeridiani che Trump e la task force della Casa Bianca, più ruvidi. «Le vite dei cittadini non sono negoziabili», tuona quando il presidente fissa scadenze per ritorni rapidi alla normalità economica. Eppure nella nuova stella della politica americana, (è un figlio d' arte, il padre Mario Cuomo, è stato una storica figura italoamericana della politica newyorkese), si cela una contraddizione in termini scritta nei dieci anni del suo triplo mandato. Quella di una politica di austerità che ha inciso proprio sulla sanità creando una bolla che rischia di esplodere sotto il peso della nuova piaga pandemica. Numeri alla mano, lo Stato di New York ha bruciato 20 mila posti letto in due decenni, di cui la metà sono trascorsi sotto la gestione Cuomo. Il governatore negli ultimi dieci anni, ha chiuso e accorpato diversi ospedali pubblici. Nel 2013 ha approvato la chiusura del Long Island College Hospital di Brooklyn con 500 posti letto, nonostante le forti proteste della comunità. E la scure dei tagli non si è fermata nemmeno con l' emergenza: la legge di bilancio per l' anno fiscale 2021, che ha firmato venerdì, riduce di 400 milioni i fondi statali destinati al Medicaid, il programma per l' assistenza ai più poveri. In questo modo - spiega The Nation - gli ospedali di Brooklyn potrebbero perdere 38 milioni all' anno, mentre quelli di Manhattan rischiano tagli sino a 58 milioni all' anno. «Una misura che mostra una enorme miopia gestionale», spiega Naomi Zewde, professore di politiche per la salute pubblica della City University of New York. Anche perché saranno penalizzati gli ospedali di frontiera come il Elmhurst Hospital del Queens, congestionato al punto tale che i morti di Covid-19 sono stipati in camion frigorifero. Mentre Cuomo rivolge appelli per la creazione di posti letto e l' invio respiratori, mascherine e materiale sanitario a Washington alle prese con la crisi su scala nazionale. Così ad accorrere in soccorso di New York è la Cina con l' invio di mille respiratori. Non certo sufficienti per una crisi che nello Stato, ha precisato ieri il governatore, vedrà il suo picco in circa sette giorni. E dove è stato registrato un altro triste record con 630 persone morte in un giorno per un totale di 3.565 vittime e 113.704 contagi, di cui oltre 63.000 nella sola città di New York. Record replicato su scala nazionale - secondo John Hopkins University - con 1.480 vittime in 24 ore per un totale di 7.406 decessi e 274 mila casi accertati in tutto il Paese.

Da “Ansa” il 5 aprile 2020. Da quando l'emergenza coronavirus è esplosa almeno 430.000 persone sono giunte negli Usa su voli diretti dalla Cina, 40.000 negli ultimi 2 mesi, dopo che Trump ha varato la stretta sui viaggi. Lo riporta il New York Times, secondo cui i passeggeri sono di nazionalità diverse e sbarcati a Los Angeles, San Francisco, New York, Newark Chicago, Seattle e Detroit. In migliaia sono arrivati da Wuhan e molti voli sono continuati fino alla scorsa settimana da Pechino a Los Angeles, San Francisco e New York, con passeggeri esenti dal divieto di ingresso negli Usa.

DAGONEWS il 30 marzo 2020. Cadaveri disposti in un camion refrigeranti e corpi portati via dagli ospedali. Sono immagini devastanti quelle che arrivano da New York, epicentro del contagio negli Stati Uniti dove al momenti si registrano 776 morti e 33mila contagi. In un video, ripreso da un passante, si vedono i corpi caricati su un veicolo, mentre un infermiere ha condiviso l’immagine di alcuni cadaveri posizionati all’interno di un camion frigo: «Una delle vittime è una donna che stavo consolando poco prima di morire» ha raccontato. Ci sono obitori e ospedali improvvisati che vengono allestiti in tutta New York City, incluso uno a Central Park: l’ultima volta che era successo risale all’11 settembre 2001. Il Queens è la zona più colpita con 10.373 casi. Segue Brooklyn con 8.451, il Bronx con 6.145, Manhattan con 5.438 e Staten Island con 1.866. Da quando l'epidemia ha raggiunto le coste americane, oltre 1.000 residenti nello Stato di New York sono morti dopo essere stati contagiati. Domenica sera c’erano 59.513 casi confermati in tutto lo stato. «I numeri sono sbalorditivi -  ha detto il sindaco di New York Bill de Blasio - Questo emergenza è senza precedenti. Il nostro servizio di emergenza non ha mai ricevuto così tante chiamate».

Da newnotizie.it il 31 marzo 2020. Un ragazzo di 17 anni è deceduto a causa del Coronavirus in California, dove gli è stato negato il ricovero perchè privo di assicurazione. E’ accaduto a Lancaster, in California, dove al giovane contagiato da Covid-19 è stato negato il ricovero d’urgenza presso l’ospedale. Il ragazzo, di soli 17 anni, è uno dei tanti americani senza denaro sufficiente a pagare la costosa assicurazione sanitaria. Rex Parris, sindaco della città, ha parlato della morte del giovane in un video pubblicato su You Tube, in cui afferma che solo il venerdì prima il ragazzo “era in salute. Mercoledì è morto”. La notizia è stata riportata da Green Me, che racconta come lo staff medico abbia invitato il ragazzo a recarsi altrove, presso una struttura pubblica locale. Durante lo spostamento il giovane ha però subito un arresto cardiaco. Seppur rianimato e tenuto in vita per circa 6 ore, una volta giunto in ospedale era ormai troppo tardi.

Il problema della polizze sanitarie in America. Purtroppo questo non è un caso isolato, e giunge in mezzo a molte altre notizie di vittime. Tra queste anche giovani, causate dal Coronavirus anche per l’impossibilità di accedere alle cure mediche necessarie. Una cosa difficile da comprendere per noi, abituati al nostro sistema sanitario che, pur con tutti i limiti, mette a disposizione di tutti le cure. In America il bilancio delle vittime potrebbe essere estremamente influenzato dal sistema delle assicurazioni, il cui costo elevato non permette a tutti di avere accesso alle cure. Gli Stati Uniti hanno superato la Cina per contagi, il cui numero si aggira intorno agli 81mila positivi.

Coronavirus New York, muore un bimbo di un anno: aveva altre patologie. Laura Pellegrini l'01/04/2020 su Notizie.it. Un bimbo di un anno è morto per coronavirus a New York, ma secondo le autorità aveva altre patologie: è la vittima più giovane nello Stato. Aveva altre patologie pregresse il bimbo di un anno deceduto a New York a causa del coronavirus: è la vittima più giovane registrata dall’inizio dell’epidemia. Le autorità americane hanno reso noto soltanto il fatto che avesse altre patologie, senza specificare ulteriori informazioni. Inoltre, la notizia è giunta nel momento in cui le vittime per coronavirus negli Stati Uniti hanno superato quota 1.300, superando anche le vittime registrate per terrorismo. Di coronavirus possono ammalarsi anche i più piccoli e purtroppo a volte si può morire: un bimbo di un anno, infatti, è deceduto a New York. Un altro ragazzino di 12 anni ha perso la vita in Belgio. La situazione in America è drammatica: i morti continuano a salire e i contagi hanno raddoppiato quelli registrati in Cina. Gli Stati Uniti, in particolare, sono diventati il Paese del mondo maggiormente colpito dall’epidemia. A New York ci sono già stati 914 morti, 1.490 nello Stato del governatore Andrew Cuomo (dati del 31 marzo 2020). Il sindaco della Grande Mela, inoltre, ha appreso della positività al Covid-19 del fratello Chris: “Starà bene – ha assicurato -, è giovane, in forma, è forte, non forte come pensa di essere, ma starà bene”. I dati confermano che New York è il focolaio principale del coronavirus negli Stati Uniti. Proprio nella grande metropoli si conta il 40% dei decessi di tutti gli Usa. “Abbiamo sottovalutato questo virus – ha detto Cuomo -, è più potente e pericoloso di quanto pensassimo”. “Tutti vogliono sapere una cosa: Quando finirà? – ha poi proseguito -. Nessuno lo sa, ma posso dire che non sarà presto, quindi ricalibrate voi stessi e le vostre aspettative, così da non essere delusi ogni mattina, quando vi svegliate”.

Da "Adnkronos" il 30 marzo 2020. Continua a salire il bilancio delle vittime e dei casi del Coronavirus negli Stati Uniti. Secondo gli ultimi dati del Coronavirus Resource Center della John Hopkins University, i decessi sono 2572 ed i casi confermati 143.532, confermando gli Stati Uniti come il Paese che finora ha registrato il numero più alti di casi di Covid19. Donald Trump, nel corso di una intervista a Fox, ha detto che gli Stati Uniti si stanno avvicinando alla vittoria contro il coronavirus. E che senza le sue azioni, '2,2 milioni di persone sarebbero potute morire« nel Paese a causa del Covid-19. A chi gli ha chiesto se è possibile estendere le attuali linee guida federali oltre il 30 aprile, Trump ha detto di volere utilizzare la mia testa, ma farò affidamento sugli esperti.» La cosa peggiore che possiamo fare è dichiarare vittoria e non avere la vittoria, ha concluso, aggiungendo che il picco dell'epidemia negli Usa arriverà intorno a Pasqua.

Anna Guaita per "ilmessaggero.it" il 31 marzo 2020. Giorni, settimane, forse mesi chiusi in casa da soli. Per tanti newyorchesi la quarantena è diventata il momento per realizzare un sogno da tanto nutrito, ma mai reso possibile per le pressioni del lavoro. A migliaia si sono precipitati ad adottare un animale, o almeno a prenderne in affidamento per un periodo di tempo indeterminato. Cani e gatti sono così scomparsi da tutti i rifugi della città. L’associazione di beneficenza Muddy Paws (Zampe inzaccherate) di Brooklyn, specializzata nel salvare animali dai canili municipali, ha detto all’agenzia Bloomberg: «Per il momento decisamente non abbiamo più animali da dare in adozione». Lo stesso ha dichiarato la Best Friends Animal Society. La sede newyorchese degli Animal Care Centers ha lanciato un appello venerdì della scorsa settimana, per tentare di trovare un domicilio – anche temporaneo - per 200 animali. Duemila persone si sono offerte di portarsi a casa un animale, fosse gatto o cane o anche coniglio. La portavoce dei Centri, Katy Hansen, ha spiegato: «La gente vorrebbe un animale d’affezione, ma si sentirebbe in colpa perché tutti devono lavorare e stare tanto tempo fuori casa, lasciando l’animale solo». La necessità di stare chiusi in casa rende ora l’adozione una vera possibilità. Julia, una pensionata che vive in un piccolo appartamento di Manhattan, racconta: «Ho desiderato un cane fin da quando ero bambina. Non ho mai avuto il coraggio di prenderne uno. Ma adesso è giunto il momento, Brutus è anzianotto, e si merita di essere coccolato. Passiamo ore insieme sul divano a guardare vecchi film. Ci facciamo compagnia» (Brutus è in realtà un dolcissimo mezzo bassotto, mezzo chissà cosa). Lo stesso trend all’adozione, o per lo meno a prendere un animale in affidamento per un tempo indeterminato, sta contagiando anche le altre città, di pari passo con l’avanzare del virus e l’imposizione dello “stai a casa”. Tra l’altro, chi prende un cane assume anche il diritto di portarlo a spasso, e quindi si assicura due o tre passeggiate quotidiane (anche se negli Usa per ora, fare la passeggiata è concessa a tutti, purchè si mantengano i due metri di distanza dagli altri passanti). L’unica preoccupazione che i vari rifugi esprimono, in un momento in cui vedono finalmente i loro inquilini trovare casa e affetti, è che la crisi economica possa fra qualche mese riempire di nuovo le celle: «Quando la gente è disoccupata, senza stipendio, senza soldi, spesso è obbligata a fare dolorosi sacrifici, e questo potrebbe significare un’ondata di quattro zampe abbandonati» ammettono alla Humane Rescue Alliance, del New Jersey. Ma per il momento, anche le loro celle sono vuote.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2020. I cittadini della capitale, Washington, sono i più ligi nel rispettare il distanziamento sociale, mentre nel Wyoming le abitudini della gente sono cambiate meno che negli altri Stati, da quando incombe il coronavirus. Parola di Unacast, una start up che analizza gli spostamenti degli smartphone sul territorio in base ai dati di geolocalizzazione Gps. Anche il New York Times pubblica mappe fornite da un' altra società, Descartes Labs: mostrano come solo a partire dal 16 marzo gli americani hanno cominciato a prendere sul serio i moniti. Ma non ovunque. Non, ad esempio, in Mississippi, dove il governatore, in contrasto con le direttive nazionali, aveva dichiarato «essenziali» quasi tutte le attività economiche e autorizzato la riapertura di ristoranti e chiese. È dall' inizio dell' emergenza Covid-19 che in tutto il mondo le tecnologie digitali - riconoscimento facciale, geolocalizzazione, interazioni sulle reti sociali e altro - vengono usate per cercare di combattere la diffusione del virus monitorando contagiati e soggetti a rischio. In Asia la tecnologia è stata usata in modo molto severo e «invasivo» non solo in Paesi con governi autoritari come la Cina, ma anche a Hong Kong, dove è stato imposto il bracciale elettronico ai viaggiatori in arrivo con obbligo di quarantena, mentre anche due Stati democratici, Corea del Sud e Taiwan, hanno adottato misure di sorveglianza draconiane. In Corea i malati di coronavirus vengono controllati con telecamere e attraverso i cellulari, mentre gli acquisti fatti con le carte di credito servono a ricostruire i movimenti e i contatti che possono avere avuto. A Taiwan le autorità hanno addirittura eretto un muro elettronico attorno alle persone messe in quarantena. Chi esce o spegne il telefonino viene rintracciato entro 15 minuti. E la polizia chiama più volte al giorno sul telefono di casa per verificare che la persona sorvegliata non sia uscita senza portarsi dietro lo smartphone. In Asia la sensibilità per la privacy può essere inferiore rispetto all' Occidente, ma tecnologie simili vengono ormai usate anche in Israele, mentre in Gran Bretagna il governo utilizza i dati forniti (oscurando i nomi degli utenti) dalla società telefonica O2 per capire quanto viene rispettato il distanziamento sociale da chi esce di casa. Anche in Lombardia gli allarmi per le troppe persone ancora in giro sono stati alimentati pure dai dati dei cellulari, mentre il ministero dell' Innovazione ha indetto un bando per individuare le migliori app per la lotta contro la pandemia. Questi sforzi, ovviamente, sono massicci soprattutto negli Usa, dove le aziende della Silicon Valley lavorano in privato e col governo federale per creare sistemi di tracciamento sempre più sofisticati: il Wall Street Journal ha rivelato che la Casa Bianca ha creato una task force informale della quale fanno parte Facebook, Alphabet-Google e Amazon per sviluppare nuovi strumenti di controllo, mentre la Palantir di Peter Thiel, grande fornitrice dei servizi segreti Usa, è diventata il partner tecnologico del Center for Disease Control, l' agenzia federale per la salute. E già si rivelano molto utili anche contro il virus i canali capillari di sorveglianza dei comportamenti dei consumatori creati dall' industria della pubblicità, soprattutto a fini di micromarketing. Il rischio di un' invadenza eccessiva degli Stati è evidente. Il Mit di Boston risponde proponendo una app, Private Kit, per tutelare la privacy: raccoglie dati capillari senza rivelare il nome dei sorvegliati. I dubbi sono molti, troppo forte la necessità di individuare chi diffonde il virus. Attenti, dicono i guardiani dei diritti civili: le società del «capitalismo della sorveglianza» stanno covidwashing (mettendo a bagno nel virus) le loro tecniche commerciali. Non torneremo più indietro. È un timore fondato ma, come ha scritto Vittorio Colao sul Corriere, la minaccia è talmente grande che non si possono non usare tutte le risorse. Maciej Ceglowski, attivista della privacy, avverte che la società della sorveglianza alla lunga è incompatibile con la libertà, «ma un prerequisito della libertà è la salute fisica».

Da "Ansa" il 30 marzo 2020. Negli Stati Uniti funzionari governativi stanno già utilizzando i dati sulla posizione di milioni di telefoni cellulari nel tentativo di comprendere meglio i movimenti degli americani durante la pandemia di coronavirus e come questi possono influenzarne la diffusione. A spiegarlo è il Wall Street Journal. Il governo federale, secondo fonti citate dalla testata, attraverso i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc), i governi statali e quelli locali hanno iniziato a ricevere le analisi sulla presenza e il movimento delle persone in determinate aree di interesse geografico, attinte appunto dagli smartphone. L'obiettivo è monitorare fino a 500 città degli Stati Uniti per pianificare una risposta alla pandemia. Non sono presenti dati sensibili come il nome dell'utente del cellulare. Il portale che raccoglie i dati mostrerebbe quali destinazioni sono ancora frequentate dalla folla, come la parte di Brooklyn di fronte a Manhattan che attira ancora tanti newyorkesi, informazione consegnata alle autorità. I dati, secondo gli esperti, mostrerebbero anche quanto le persone, in generale, stanno rispettando l'ordine di restare a casa. L'analisi è condotta da un insieme di aziende tecnologiche e data provider. Il Cdc e la Casa Bianca, interpellati dal Wall Street Journal, non hanno risposto. I programmi commissionati dal governo destano preoccupazioni in merito alla tutela dei dati personali. «Sono obbligatorie forti garanzie giuridiche», dice al Wsj Wolfie Christl, un attivista per la privacy. Il sindaco di New York Bill de Blasio ha annunciato multe da 250 a 500 dollari per chi viola le regole sul distanziamento sociale. Le sanzioni non scatteranno automaticamente ma solo per chi non ottempera all'ordine di disperdersi quando è trovato in un assembramento o ritorna nello stesso luogo dopo che gli è stato intimato di andarsene. Insomma, misure meno severe di quelle italiane. È un'altra di quelle immagini che rimarranno indelebili di questa pandemia senza precedenti: l'arrivo dell'enorme nave ospedale militare nella baia di New York. In una giornata grigia che riflette il clima pesante di questi giorni, l'enorme imbarcazione bianca con il simbolo della croce rossa avanza verso il fiume Hudson in un clima spettrale, con lo skyline di una Manhattan deserta sullo sfondo. Ad attendere l'arrivo della Usn Comfort tutte le autorità newyorchesi, dal sindaco Bill de Blasio al governatore Andrew Cuomo. L'attracco non lontano a dove ogni giorno, in tempi normali, decine di traghetti fanno la spola tra il New Jersey e downtown Manhattan, trasportando migliaia di persone dirette soprattutto a Wall Street. A bordo almeno 1.000 posti letto che saranno riservati ai malati non di coronavirus, per liberare posti negli ospedali cittadini.

"Io, italiana a Washington. Dove i politici si sono arricchiti con il coronavirus". Negli Stati Uniti il problema è stato sottovalutato e paragonato a una semplice influenza o a una finta epidemia. Mentre i politici che avevano ricevuto informazioni riservate dai servizi segreti hanno venduto le loro azioni prima del crollo dei mercati. Scilla Alecci il 25 marzo 2020 su L'Espresso. Ciao Italia. È forse grazie a Tom Hanks che molti americani hanno compreso la gravità del virus Covid-19. Il 12 marzo l’attore hollywoodiano e sua moglie hanno reso noto di essere risultati positivi durante un viaggio in Australia e di essersi messi in isolamento. Nel frattempo, mentre nello stato di Washington, sulla costa occidentale degli Stati Uniti, i casi continuavano ad aumentare e gli esperti individuavano il paziente zero (un businessman tornato da Wuhan), il presidente Donald Trump e il suo entourage aspettavano a prendere provvedimenti. Ancora fino a qualche giorno fa programmi in onda sul canale Fox, noto per essere il portavoce del governo e della sua propaganda, parlavano di una finta epidemia. Presentatori e presentatrici con lo sguardo dritto in camera dicevano ai propri spettatori che il coronavirus non era più pericoloso di una comune influenza. "È un’arma politica contro il presidente." Poi le cose sono cominciate lentamente a cambiare. Nella capitale, Washington, dove abito io, i primi casi confermati sono stati ricollegati ad un convegno di conservatori a cui hanno partecipato anche il presidente e il suo vice Mike Pence, ora a capo del team responsabile del contenimento dell’epidemia. Questo è un anno di elezioni qui negli USA. A novembre gli americani dovranno votare se tenere Trump o scegliere un candidato del partito democratico. Il virus è un caso politico più che mai. Il 13 marzo Trump ha finalmente annunciato confuse misure d’emergenza: stanziamento di fondi, test e tamponi per tutti (cosa non vera) e blocco dei voli dall’estero (annuncio che ha scatenato la corsa all’ultimo biglietto, con americani che hanno speso fino a 20.000 dollari per un volo, per poi sapere che le restrizioni non si applicano ai cittadini). Ai giornalisti che volevano sapere il motivo di queste misure, tardive e poco decise, Trump ha risposto senza esitazione: "Io non mi prendo alcuna responsabilità". Mentre il presidente pensava a come rispondere all’allarme dei servizi segreti che già a gennaio parlavano di possibile pandemia, alcuni senatori ne hanno approfittato e si sono arricchiti. Registrazioni segrete pubblicate dalla stampa americana hanno rivelato come il senatore repubblicano Richard Burr abbia venduto le sue azioni in settori potenzialmente a rischio subito dopo aver ricevuto informazioni classificate sulla gravità dell’epidemia. Burr, che pubblicamente rassicurava i suoi costituenti, si è liberato degli investimenti in società alberghiere di un valore di più di 250 mila dollari, azioni che ora hanno un valore nettamente inferiore a causa del crollo dei mercati. Come lui altrei due senatori hanno rivisto i propri portafogli azionari dopo aver avuto accesso alle informazioni classificate. Le elezioni presidenziali stanno anche mettendo a nudo la differenza tra gli stati, e tra ricchi e poveri. Alcuni Stati chiamati ad eleggere il candidato democratico stanno valutando se chiudere le urne e attrezzarsi per effettuare le votazioni per posta. In Illinois e Florida, le urne sono rimaste aperte ma molti non si sono presentati per la paura del contagio, inclusi alcuni degli addetti ai lavori. Mentre lo stato di New York annuncia ogni giorno misure più severe, altri, come il District of Columbia, centro politico del paese, si stanno ancora abituando all’idea. I musei e gli uffici sono chiusi. Alcuni ristoranti offrono cibo a portar via. Un’insegna luminosa vicino ai monumenti nell’area che circonda la Casa Bianca ricorda alla gente di mantenere le distanze gli uni dagli altri. Le biblioteche comunali sono chiuse ma offrono lo streaming gratuito di film. Molte palestre offrono training online. Le scuole anche sono chiuse, mettendo purtroppo a rischio le molte famiglie disagiate che dipendono dai sussidi scolastici per dare da mangiare ai propri figli. ( Negli Stati Uniti, per milioni di bambini e ragazzi che usufruiscono del servizio mensa il pranzo gratis o a prezzo ridotto che mangiano a scuola è l’unico pasto giornaliero ). Molti interventi sociali sono lasciati a privati cittadini. Lo chef Jose Andres, uno spagnolo divenuto famoso negli USA per le sue tapas e il suo impegno politico, ha trasformato i suoi ristoranti in cucine che preparano cibo per i bisognosi. Altri decidono di supportare i bar e i club di quartiere comprando coupon da spendere in un futuro, quando riapriranno. Alcuni ristoranti, seppure chiusi, lasciano le insegne luminose accese, come simbolo di speranza. Sono in milioni i precari che hanno perso il lavoro a causa dell’epidemia e rimangono in attesa del sussidio di disoccupazione. Naturalmente le statistiche non tengono conto di tutti gli immigrati non in regola che questa amministrazione ha cercato per mesi di scovare e rimandare in patria. Al momento sembra che l’epidemia abbia messo un freno alle squadre degli agenti dell’immigrazione che hanno detto di voler arrestare "solo i criminali". La notizia sulle file fuori dai negozi di armi ha fatto il giro del mondo. Ma l’aumento delle vendite di armi e munizioni è una consuetudine in questo paese e succede praticamente dopo ogni evento drammatico, inclusi gli omicidi di massa. Secondo gli esperti, dopo tali eventi, i fanatici temono che il governo possa imporre restrizioni sull’uso delle armi da fuoco e allora fanno scorta. Qui in America dell’Italia si parla come di un caso drammatico. Ma distante, purtroppo. Sarebbe bello se più politici usassero l’esperienza italiana come monito, o linee guida per quello che si deve o non deve fare. Invece ci si limita ad ammirare quelli che cantano alla finestra. Almeno all’aeroporto di Fiumicino già a metà febbraio i volontari della Croce Rossa controllavano le temperature di chi arrivava. Qui all’aeroporto di Dulles in Virginia, a 40 kilometri dal Pentagono, nessuno ha fatto domande nemmeno ai viaggiatori dalla Corea che passavano i controlli bardati e con mascherine antivirus. Persino l’NBA, l’associazione di basket americana, era preparata all’evenienza. Con 200 impiegati in Cina da gennaio ha messo in atto un piano anti-pandemia formulato negli ultimi anni. E in poche settimane ha iniziato a sottoporre ai test gli atleti, alcuni dei quali sono risultati positivi. Come in Italia, anche qui fa rabbia sapere che i tagli alla sanità e le politiche miopi degli ultimi anni hanno contribuito a peggiorare la situazione. Nel caso americano, l’eliminazione dell’unità del Consiglio di Sicurezza Nazionale incaricata di monitorare e fermare le epidemie. Una decisione definita "un errore" dal dottor Anthony Fauci, il direttore dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive chiamato ad aiutare il team governativo – e, al momento, anche una delle poche fonti autorevoli di informazioni. Come lui, è da tempo che anche qui medici e scienziati suonano l’allarme. Anche sui costi che tutto ciò comporta. Dopo una battaglia portata avanti dalla deputata californiana Katie Porter, il test -- dal costo iniziale di 1.331 dollari -- è sceso a 0. In caso di ricovero in ospedale, però, i costi variano, arrivando in media a più di 4.000 dollari al giorno, secondo alcune stime. Cifre che per i precari senza assicurazione possono diventare debiti da incubo. Alcuni hanno anche avanzato l’ipotesi che forse questo coronavirus potrebbe insegnare agli americani il valore del servizio sanitario pubblico. Ma con il candidato Bernie Sanders in netto svantaggio al momento, quell’ipotesi sembrerebbe rimanere un’utopia. Intanto qui a Washington i ciliegi sono in fiore – uno dei momenti più attesi dell’anno. Gli eventi per celebrare i famosi "cherry blossoms" sono stati annullati. Così, dalla mia quarantena casalinga, ho chiesto ad un collega se anche quest’anno ci fosse gente ad ammirare i begli alberi in fiore intorno al laghetto a sud della città. Risposta: "Yes, too many." Per i Washingtoniani forse ancora non è chiaro, che il virus è anche nella loro capitale.

Scilla Alecci, 37 anni, romana d'origine, giapponese nel cuore, americana d'adozione. Vive a Washington ed è reporter del consorzio investigativo Icij, di cui l'Espresso fa parte.

DAGONEWS il 25 marzo 2020. Yuanyuan Zhu stava andando in palestra a San Francisco il 9 marzo scorso quando ha notato che un uomo le stava urlando qualcosa contro. Stava urlando frasi sconnesse sulla Cina. Quando è passato un autobus, il suo aggressore ha chiesto all’autista: “Investiteli tutti”. Quando se lo è trovato accanto in attesa sulle strisce l’uomo si è girato verso di lei e le ha sputato addosso. Sotto shock, Zhu, che ha 26 anni e si è trasferita negli Stati Uniti dalla Cina cinque anni fa, si è affrettata verso la palestra, ha trovato un angolo dove nessuno poteva vederla ed è scoppiata a piangere. «Quella persona non sembrava strana o arrabbiata o altro – ha detto - Sembrava una persona normale». Mentre il coronavirus stravolge la vita di milioni di persone anche negli Usa, i cinesi-americani affrontano una doppia minaccia. Non solo stanno lottando come tutti gli altri per evitare il virus, ma stanno anche lottando con il crescente razzismo. Anche altri asiatici-americani - con famiglie coreane, vietnamite, filippine, del Myanmar e di altri paesi – sono sotto minaccia. Nelle interviste della scorsa settimana, circa due dozzine di americani asiatici in tutto il paese hanno dichiarato di avere paura: di fare la spesa, di viaggiare da soli in metropolitana o in autobus, di far uscire i propri figli. Molti hanno raccontato di essere stati insultati in strada. Un’improvvisa ondata di odio che ricorda quella affrontata da musulmani americani e da altri arabi dopo gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001. Ma a differenza del 2001, quando il presidente George W. Bush ha sollecitato la tolleranza nei confronti dei musulmani americani, questa volta il presidente Trump sta usando un linguaggio che secondo gli asiatici americani sta provocando attacchi razzisti. Trump parla di "virus cinese", respingendo le linee guida dell'Organizzazione mondiale della sanità contro l'uso di posizioni geografiche quando si parla di malattie, poiché in passato hanno provocato solo danni. Martedì Trump ha detto ai giornalisti  che chiama il virus "cinese" per controbattere alla campagna di disinformazione da parte di Pechino, affermando che i cinesi sono la fonte dell'epidemia. Intanto gli attacchi continuano e non sono soltanto verbali. Nella San Fernando Valley in California, un ragazzo asiatico-americano di 16 anni è stato attaccato a scuola dai bulli che lo hanno accusato di avere il coronavirus. È stato mandato al pronto soccorso per vedere se aveva una commozione cerebrale. A New York City una donna che indossava una maschera è stata presa a calci e pugni in una stazione della metropolitana di Manhattan, e un uomo nel Queens è stato seguito a una fermata dell'autobus e poi colpito alla testa di fronte al figlio di 10 anni. E davanti a questa situazione i cinesi sono corsi ai ripari. Un uomo ha creato un gruppo su Facebook per gli asiatici di New York che hanno paura di prendere la metropolitana da soli. I proprietari di negozi di armi nella zona di Washington, D.C., hanno dichiarato di assistere a un'ondata di acquirenti cinesi per la prima volta. Gli asiatici-americani si sentono costantemente osservati. C’è chi pensa che sarebbe meglio indossare la mascherina. C’è chi immagina che farlo possa attirare l’attenzione. Un 30enne di Syracuse, New York, ha raccontato: «Pochi giorni fa in un supermercato un uomo mi ha guardato e mi ha detto: “Sei tu che porti la malattia”. Nessuno è intervenuto per difendermi».

Morire a 17 anni negli Stati Uniti: non aveva un’assicurazione sanitaria e l’ospedale lo ha allontanato. Il ragazzo era entrato in difficoltà respiratoria me i medici hanno rifiutato il ricovero. Il Dubbio il 27 marzo 2020. Aveva appena 17 anni ed è morto perché non aveva un’assicurazione sanitaria. Insomma il caso dell’adolescente morto venerdì scorso negli Stati Uniti, a Lancaster in California, si complica e fa emergere una realtà durissima ma purtroppo non del troppo rara negli Usa. La verità la racconta alla Cnn il sindaco della cittadina americana che si dice sconvolto per l’accaduto: “Quando il ragazzo si è ammalato i genitori lo hanno portato in un pronto soccorso di un ospedale locale ma poi sono stati allontanati perché non aveva un’assicurazione sanitaria”. E poi: “Quando un ragazzino entra in difficoltà respiratoria non si deve chiedere un’assicurazione, si deve curare “, ha continuato il sindaco Parris. Ancora non è chiaro se il 17enne avesse contratto il Coronavirus. I medici parlano di un primo test che sarebbe risultato positivo. Ma poi non si è avuta alcuna conferma. Il risultato è che familiari e amici del ragazzo ora vivono nel terrore e nell’incertezza.

Da ilmessaggero.it il 25 marzo 2020. Una donna americana per curare il coronavirus in un ospedale di Boston ha dovuto pagare 35mila dollari. Dopo giorni di febbre che non passava, si era rivolta al reparto di oncologia che la segue e dopo varie analisi era risultata positiva al coronavirus. Ma il conto per le cure, non avendo lei un'assicurazione, è stato molto alto. L'emergenza covid-19 sta mettendo in evidenza tutti i limiti del sistema sanitario statunitense. La sanità a pagamento in periodo di pandemia rischia di mettere in serie difficoltà tanti cittadini. Danni Askini è la donna americana contagiata dal Covid-19 che è riuscita a guarire. Non coperta da assicurazione sanitaria (come 27,5 milioni di americani) ha ricevuto una fattura di 34.927,43 dollari (circa 33.000 euro) per le cure e test a cui è stata sottoposta. Tutto è iniziato con un mal di testa e difficoltà respiratorie, così la donna è andata in pronto soccorso e il test ha mostrato la positività alla malattia. Solo il test è costato oltre 900 dollari. I medici dell’ospedale hanno detto ad Askini che non avrebbe potuto essere curata prima di aver fatto il test per una dozzina di altre malattie, che hanno avuto un costo elevato di circa 2 mila euro. Dopo qualche giorno alla donna è arrivata una fattura di 35 mila dollari dall'ospedale, proprio in un periodo in cui ha dovuto ridurre la sua assicurazione a causa della perdita del lavoro.

Marco Molendini per Dagospia il 27 marzo 2020. Sbuca dal silenzio in cui è immersa l'America del coronavirus il lamento di Bob Dylan con una canzone speciale, scura, dolente, intensa, al passo coi tempi. E' la prima che pubblica da otto anni, dall'uscita dell'album Tempest. Una canzone fuori misura che dura 17 minuti, ha la faccia di John Kennedy (in copertina), parte dal delitto di Dallas, racconta un paese di suoni e di dolori, ma anche di bellezze e rammarichi, illustra lo stato d'animo dell'incertezza e dello spaesamento, quando c'è bisogno di ancorarsi alle sicurezze del passato. Un diario della memoria trafitta con la voce di Dylan poderosa, un sottofondo strumentale ipnotico e carico di tensione dominato dal piano, da un violino, da una batteria. Una lunga lancinante, seducente filippica. «Questa è una canzone inedita che abbiamo registrato qualche tempo fa e che potreste trovare interessante» spiega un breve messaggio del cantautore premio Nobel che l'ha resa disponibile sulle piattaforme. Forse è anche il primo assaggio di un intero album. Comunque l'uscita nei giorni del coronavirus non appare affatto casuale, anche se probabilmente il pezzo l'aveva scritto in tempi in cui era impossibile sospettare quello che sarebbe successo. Eppure il brano è assolutamente in sintonia con la tensione che stiamo vivendo. E, a sottolinearne la contemporaneità, mister Zimmerman l'accompagna con un invito esplicito rivolto al suo pubblico: «State al sicuro, state attenti e che dio sia con voi». Murder most full (in italiano in titolo sta per L'omicidio più disgustoso, ma in inglese è la citazione di un film del '64 con protagonista la Miss Marple di Agatha Christie) comincia così: «It was a dark day in Dallas» e partendo da quell'«infame sparo» con il quale «The age of the Antichrist has just only begun» /L'età dell'Anticristo è solo cominciata» passa in rassegna una sorta di catalogo culturale personale che potrebbe essere anche un invito a seguirlo, perchè no?, per riempire questi giorni vuoti di clausura: va dai Beatles di I wanna hold your hand al Chiaro di luna di Beethoven, da Woodstock a Shakespeare del Mercante di Venezia, dall'Età dell'acquario al bluesman Bo Diddley, a «all that jazz» di Jelly Roll Morton, Charlie Parker, Thelonious Monk, Bud Powell di Love me or leave me. Cita Wake up little Suzie degli Everly Brothers (che potrebbe essere anche una citazione della ex fidanzata Suze Rotolo), Ray Charles di What'd say, John Lee Hooker, Nat King Cole, Glenn Frey e Don Henley, passa per Marylin Monroe, Buster Keaton, Harold Lloyd. Quando passano i 17 minuti, finora Dylan non aveva mai scritto un pezzo così lungo, il precedente è Highlands del 1997 che durava 16 minuti e 31 secondi, si resta frastornati: se c'era bisogno di ricordarlo, e ce ne era bisogno, ecco cosa significa scrivere una canzone potente capace di fotografare il disorientamento collettivo, proprio come era accaduto ai tempi di “Blowin' in the wind”.

La Marina america rimuove il capitano che voleva salvare i suoi uomini. Il Dubbio il 3 aprile 2020. Il capitano della portaerei Theodore Roosevelt aveva chiesto di salvare i membri dell’equipaggio dall’epidemia di Covid a bordo. La Marina americana ha sollevato dall’incarico il capitano della portaerei USS Theodore Roosevelt, accusato di aver diffuso un memorandum interno in cui lanciava l’allarme per la diffusione del Covid-19 a bordo e chiedeva di non mettere inutilmente a rischio la vita dei suoi uomini. Lo scrive il Wall Street Journal che cita alcuni funzionari. Il capitano Brett Crozier, comandante della Roosevelt, ora al porto di Guam, è stato rimosso dopo che i superiori hanno perso la fiducia nella sua capacità di comandare, hanno dichiarato i funzionari. Crozier aveva recentemente scritto ai superiori perchè gli consentissero di portare la portaerei al porto di Guam per fare sbarcare i marinai colpiti dal coronavirus. Quasi 100 membri dell’equipaggio della nave si sono ammalati nell’ultima settimana.«Non siamo in guerra. I marinai non hanno bisogno di morire. Se non agiamo ora, non riusciremo a prenderci cura adeguatamente del nostro bene più prezioso, i nostri marinai», ha scritto nel memo. «È necessaria un’azione decisiva. Rimuovere la maggior parte del personale da una portaerei nucleare statunitense schierata e isolarla per due settimane può sembrare una misura straordinaria», ha aggiunto. «Questo è un rischio necessario.Consentirà di rimettersi in moto il più rapidamente possibile garantendo allo stesso tempo la salute e la sicurezza dei nostri marinai. Mantenere a bordo oltre 4 mila giovani uomini e donne è un rischio non necessario e frattura la fiducia con quei marinai affidati alle nostre cure».

GIANLUCA DI FEO per repubblica.it il 4 aprile 2020. Punito perché ha fatto di tutto per salvare i suoi marinai. L'odissea della Roosevelt, la prima portaerei nucleare americana colpita dal virus, vive un nuovo capitolo. Destinato ad animare discussioni ancora più accese. Il vertice dell'Us Navy ha rimosso il comandante Brett Crozier che ha scritto ai suoi superiori chiedendo di evacuare la nave per impedire che il morbo decimasse l'equipaggio. Non viene ritenuto responsabile di avere fatto trapelare la missiva al "San Francisco Chronicle", trasformando la vicenda in un caso internazionale, ma di non avere mostrato "adeguata professionalità". Una storia drammatica, che sembra la trama di un film e ricorda Orizzonti di gloria di Stanley Kubrik, con i soldati mandati alla corte marziale per avere rifiutato un attacco suicida. La Roosevelt però non è impegnata in nessun conflitto: nonostante questo il Pentagono vuole che rimanga in condizioni di combattere. Senza curarsi dell'epidemia, che ha fatto cadere ammalati già più di cento marinai. La portaerei - chiamata "The Big Stick" ossia "Il Grande Bastone" perché da trent'anni ha usato la sua potenza di fuoco in tutte le guerre americane - era in missione nelle acque del Pacifico. Dopo una sosta in Vietnam, il Covid-19 ha cominciato a mietere vittime. Dal 24 marzo i malati sono aumentati rapidamente: prima tre, poi quindici. La nave ha fatto rotta verso Guam, la base principale del Pacifico, ed è stato trasmesso l'ordine di mettere i contagiati in isolamento. Ma sulla portaerei lunga 333 metri quasi 5mila persone vivono a stretto contatto: la quarantena è impossibile. "A causa degli spazi limitati di una nave da guerra, non la stiamo facendo. La diffusione del male continua e sta accelerando", ha scritto il comandante. E ha invocato una decisione drastica: "Togliere gran parte del personale da una portaerei in missione e isolarlo per due settimane può sembrare una misura straordinaria. Ma è un rischio che bisogna correre. Tenere più di 4mila giovani sulla Roosevelt li espone a un pericolo non necessario e distrugge la fiducia che hanno verso di noi". Il capitano Brett Crozier ha implorato il quartier generale: "Serve una decisione politica ma è la cosa giusta da fare. Non siamo in guerra, non c'è bisogno di fare morire i marinai. Se non agiamo subito, falliremo nel prenderci cura del nostro bene più prezioso: l'equipaggio". La sua lettera è stata ignorata per due giorni. Poi è uscita sulla stampa. Il ministro della Difesa Mark Esper ha dichiarato di non averla letta, ma di non condividere la linea del comandante. Il sottosegretario alla Marina Thomas Modley ha detto di essere turbato perché un capitano ritiene che la Us Navy non si prenda cura del suo personale. E poi ha specificato: "Non siamo in disaccordo con il comandante, ma stiamo agendo in maniera molto metodica perché non si tratta di una nave da crociera. Sulla Roosevelt ci sono armi ed aerei. L'evacuazione non è necessaria". Quindi la decisione: solo 2700 marinai scenderanno a terra, il resto dovrà garantire l'operatività della portaerei. Non si abbandona una nave da guerra, anche se non c'è una guerra. La Roosevelt con i suoi novanta tra aerei ed elicotteri deve tenere alta la bandiera a stelle e strisce nel confronto con la Cina. A qualunque costo. I contagi accertati sono 93, mentre altri 86 mostrano i sintomi. Sono tutti giovani e nessuno ha avuto finora bisogno del ricovero. Non c'è modo però di impedire che il virus prosegua il suo assalto perché non si può "sanificare" una fortezza galleggiante. Il capitano Brett Crozier è un ufficiale tutto d'un pezzo, cresciuto nel mito di "Top Gun": alla guida di un cacciabombardiere F-18 Hornet è stato per mesi e mesi in azione sull'Iraq. Ha preso il comando della Roosevelt soltanto a novembre, ma di fronte alla situazione a bordo non ha esitato a rischiare la sua carriera per proteggere la salute dell'equipaggio. Ed è stato punito. "Ha fatto suonare un campanello d'allarme che non era necessario", ha sancito il sottosegretario Modley: "Ha permesso che la complessità dell'affrontare l'epidemia a bordo gli impedisse di agire con professionalità mentre agire con professionalità era la cosa più importante di tutte in questo momento". Non finirà qui. Quello che avviene sulla Roosevelt sta accadendo in tutte le forze armate statunitensi. Ci sono contagi su altre unità della flotta, incluso un sottomarino nucleare. E malati nelle basi sparse in ogni angolo del pianeta: navi e caserme hanno spazi ristretti, dove è impossibile mantenere le regole di ingaggio rispettando le distanze di sicurezza. Un ufficiale è morto per il virus, altri militari sono in condizioni gravi. E si ripete lo stesso dilemma: bisogna privilegiare l'operatività o la tutela delle persone? Con la decisione di rimuovere Crozier il Pentagono ha dato un segnale chiaro: la priorità è obbedire, in silenzio.

La maledizione della famiglia Kennedy, mamma e figlio dispersi in mare. Redazione de Il Riformista il 3 Aprile 2020. Stavano cercando di recuperare un pallone ma a causa della corrente non sono più riusciti a tornare a riva, capovolgendosi con la canoa a causa del mare agitato. La nipote di Robert Kennedy e suo figlio di otto anni sono disperi in mare dal pomeriggio di giovedì 2 aprile. E’ la stessa famiglia a confermarlo alla stampa. Secondo le autorità del Maryland, Maeve Kennedy Townsend McKean, 40 anni, e il figlio Gideon sono stati visti l’ultima volta nella baia di Chesapeake, vicino ad Annapolis, a bordo di una canoa. Dopo ore di ricerche, in serata la guardia costiera ha fatto sapere di aver avvistato una canoa capovolta che corrisponde alla descrizione di quella in cui si trovavano i due Kennedy. Nei mesi scorsi era morta di overdose un’altra nipote di Robert Kennedy. Maeve Kennedy Townsend McKean, 40 anni, è la figlia dell’ex vice governatore del Maryland Kathleen Kennedy Townsend, figlia a sua volta di Robert F. Kennedy e Ethel Kennedy. E’ sposata con David McKean, avvocato di diritti civili a Washington D.C., ed è madre di quattro figli. Lavora come dirigente alla Georgetown University Global Health Initiative nella capitale Washington, dove risiede anche con la famiglia.

Nuova tragedia per i Kennedy: scomparsi la nipote di Bob e il figlio della donna. La “leggenda nera” dei Kennedy, purtroppo, ha finora travolto le vite di undici esponenti della celebre e influente dinastia statunitense. Gerry Freda, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. La “maledizione dei Kennedy” sembra si sia di recente arricchita di un nuovo tragico capitolo: la scomparsa della pronipote di Jkf e del figlioletto di quest’ultima. La quarantenne Maeve Kennedy Townsend McKean, nipote di Bob in quanto nata dalla figlia di lui Kathleen Kennedy Townsend, e il figlio Gideon, di otto anni, sono infatti scomparsi giovedì sera durante un’escursione in canoa. La loro misteriosa sorte rischia purtroppo di rafforzare la “leggenda nera dei Kennedy”, che ha finora travolto le vite di undici esponenti della storica e influente dinastia americana. Maeve, membro dell’organismo direttivo della Georgetown University, e il suo bambino, ricostruisce l’Agi, si trovavano in questi giorni in visita alla baia di Chesapeake, nello stato Usa del Maryland. I due avrebbero quindi deciso ieri pomeriggio di avventurarsi in canoa nelle acque lì intorno. Purtroppo, dopo che la donna e il figlio si sono allontanati dalla spiaggia locale a bordo del loro mezzo per compiere l’escursione, le autorità hanno perso le tracce dei due turisti. Le guardie e gli agenti forestali che sorvegliano la riserva naturale di Chesapeake, fa sapere l’agenzia romana, continuano a cercare Maeve e Gideon e, per il momento, avrebbero individuato la canoa su cui viaggiavano i due membri della famiglia Kennedy. Secondo l’organo di informazione, le squadre di soccorso, intervenute con navi ed elicotteri, avrebbero rinvenuto proprio oggi tale imbarcazione su un fondale, a qualche chilometro di distanza dal punto in cui la quarantenne e il figlioletto sono stati avvistati l’ultima volta durante la loro tragica escursione in mare. A confermare la scomparsa della nipote di Bob e del ragazzino è stato l’avvocato David McKean, marito e padre dei due scomparsi. Egli, citato dall’Agi, ha contestualmente chiesto all’opinione pubblica il massimo rispetto per la privacy e per il dolore dei familiari di Maeve e Gideon. A detta del Telegraph, la scomparsa dei due escursionisti sarebbe stata segnalata per la prima volta alle autorità locali nella notte di giovedì, intorno alle 04:30. Il medesimo quotidiano rimarca inoltre che le segnalazioni indirizzate allora alla Guardia costiera facevano riferimento a due canoisti in difficoltà nei pressi di Herring Bay, nella parte occidentale della baia di Chesapeake, e che “cercavano con ogni sforzo di tornare a riva”.

Un’altra tragedia per i Kennedy: ritrovato in mare il corpo della nipote di Bob. Redazione de Il Riformista il 7 Aprile 2020. Dopo giorni di ricerca è stato ritrovato il corpo di Maeve Kennedy, nipote di Robert Kennedy, scomparsa il pomeriggio del 2 aprile insieme con il figlio Gideon Joseph, di 8 anni. I due si erano allontanati a bordo di una canoa nella Chesapeake Bay, nello Stato del Maryland, per tentare di recuperare una palla. La donna, 40 anni, è stata ritrovata sott’acqua, a circa tre chilometri dalla casa della madre, da dove era partita con il figlio. Il ritrovamento del corpo della donna è stato comunicato dalla polizia del Maryland. Le ricerche del figlio Gideon Joseph riprenderanno nella giornata di oggi. Già nella serata del 2 aprile le autorità avevano fatto sapere di aver individuato una canoa che corrispondeva a quella utilizzata da Maeve Kennedy con il figio. Maeve Kennedy Townsend McKean (questo il nome per esteso della vittima) era la figlia dell’ex vice governatore del Maryland Kathleen Kennedy Townsend, figlia di Robert F. Kennedy ed Ethel Kennedy. Era sposata con David McKean, avvocato di diritti civili a Washington D.C., ed era madre di quattro figli. Lavorava come dirigente alla Georgetown University Global Health Initiative nella capitale Washington. Soltanto qualche mese fa era morta a causa di un overdose un’altra nipote di Rober Kennedy.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 4 aprile 2020. La maledizione, sì, sempre quella di chiamarsi Kennedy. L' ultima vittima si chiama Maeve Kennedy Townsend McKean, 40 anni, attivista a capo della Global Health Initiatives della Georgetown University. È scomparsa giovedì pomeriggio nelle acque di Chesepeake Bay, Maryland, a bordo di una canoa col figlioletto Gideon, 8 anni appena. I loro corpi non sono stati ritrovati. Ma è improbabile siano ancora vivi. Il Bob ucciso a Los Angeles durante la campagna presidenziale del 1968 era suo nonno. John Fitzgerald, il presidente assassinato a Dallas nel 1963, il suo prozio. Se confermata, la fine di Maeve e del suo bambino sarà l' ennesima morte violenta nella dinastia più famosa d' America. E forse la più insensata. Sì, perché madre e figlio sarebbero annegati inseguendo un pallone. Lo conferma al Washington Post David McKean, ex ambasciatore in Lussemburgo e marito di Moave. È lui a raccontare che giovedì pomeriggio Gideon giocava a palla nel giardino della casa di Kathleen Towsend Kennedy, mamma di Maeve: l' ex governatrice del Maryland, primogenita di Bob, prima donna di famiglia ad entrare in politica. Un colpo di vento ha trascinato la palla in mare: i due non ci hanno pensato troppo, sono saltati su una canoa e hanno tentato di recuperarla. Vento e correnti li hanno però trascinati lontano. Non sono riusciti a tornare a riva. In piena emergenza coronavirus, un manipolo di pompieri e sommozzatori si è subito precipitato: ma alle otto di sera la guardia costiera ha fatto sapere di aver avvistato una canoa capovolta simile a quellla su cui navigavano la donna e il bambino. Era già buio pesto e le ricerche sono state interrotte. Riprese all' alba di ieri, non hanno dato alcun risultato: Maeve e Gideon sono ufficialmente dispersi. E pensare che l' ultima morte risale solo a meno di un anno fa: quando l' estate scorsa toccò a Saoirse Kennedy Hill, 22 anni, andarsene per un overdose di farmaci, allungando il tragico elenco che da ottant' anni punteggia il destino della famiglia, che in America più d' ogni altra, ha segnato il Novecento. Sì, perché la maledizione dei Kennedy va avanti dal 1944: ogni generazione, un tributo di sangue. Il primo di tutti loro ad andarsene drammaticamente fu Joseph Jr., precipitato col suo aereo in fiamme sulla Germania nazista. Nel 1948, Kathleen detta Kick, diede scandalo pure nella morte, precipitando, anche lei, col suo aereo in Francia insieme all' amante, Peter Fitzwilliam. L' innocente Patrick, bebè di Jfk, morì nel 1963 poche ore dopo la nascita, tre mesi prima di Dallas. L' altro figlio del presidente, quel John John che da piccolo commosse l' America facendo il saluto militare al funerale del padre, morì - pure lui - pilotando un aereo nel 1999. E poi, David, cugino di John John e zio di Maeve, morto per overdose di cocaina nel 1984. Suo fratello Michael, ucciso nel 1997 da una banale caduta con gli sci. Una lista spietata. Che non sembra voler finire mai.

Intervento di Kerry Kennedy pubblicato da corriere.it il 20 marzo 2020. Traduzione di Rita Baldassarre. Il mese scorso, mi trovavo presso l’Università cattolica di Piacenza per presentare la mia relazione su violazioni dei diritti umani, economia e povertà. «Per rispondere all’appello di papa Francesco, occorre fare di più», ho detto, rivolgendomi agli studenti. «Dobbiamo tutti avere un sogno: il sogno di un mondo migliore, che sapremo costruire attraverso l’amore, l’empatia e il rispetto reciproco». Nessuno di noi poteva immaginare, in quel momento, quanto sarebbe stato importante saper interpretare quelle parole in un contesto del tutto diverso, e a distanza di poche settimane. A ripensarci, la lectio magistralis a Piacenza è stata una delle mie ultime esperienze di normalità, prima che la minaccia della pandemia da coronavirus cominciasse a insinuarsi quasi in ogni piega del vivere quotidiano. Di ritorno a New York dall’Italia, i dottori mi hanno messo in isolamento per diverse settimane. Da quel momento in poi, ho seguito il diffondersi del virus man mano che infettava amici e parenti. Nel mettere in campo ogni dispositivo per arrestare l’avanzata della pandemia, gli Stati Uniti ed altri nel mondo hanno puntato gli occhi sull’Italia, primo Paese in Europa a dover fare i conti con le inenarrabili sofferenze inflitte dalla malattia, perché anche noi ci prepariamo ad affrontare, di qui a poco, la medesima emergenza. Oltre ad aver consentito al mondo intero di prevedere quale sarà l’incidenza dei malati rispetto ai casi rilevati, quanti letti ospedalieri e quanti apparecchi respiratori saranno necessari, per quanto tempo stabilire la chiusura di scuole, chiese e ristoranti, il mondo oggi guarda all’Italia come nazione esemplare anche nel trovare gioia e solidarietà in tempi difficili. È sotto gli occhi di tutti, con esempi grandi e piccoli, ogni singolo giorno. L’altra sera il bambino di cinque anni del mio amico Giulio ha realizzato un tenero lavoretto: ha tracciato la sagoma delle sue manine in rosso, bianco e verde, i colori della bandiera italiana. Questo disegno infantile sa comunicare, in tutta la sua commovente semplicità, l’incredibile forza d’animo, coraggio e umanità del popolo italiano. In paesi e città, l’abitudine di cantare in coro da finestre e balconi è diventato un fenomeno dilagante, un modo per comunicare con i vicini, anch’essi in quarantena. Ci sono stati anche flashmob di luci e applausi sincronizzati dedicati ai medici e a tutto il personale ospedaliero. Papa Francesco ha persino lasciato il suo isolamento in Vaticano per recarsi in visita a due chiese romane e pregare per la fine della pandemia. Timori e incertezze spesso fanno a gara a tirar fuori la parte peggiore e più egoista dell’umanità. Nel mio stesso quartiere, e da un capo all’altro degli Stati Uniti, si sono viste molte scene di questo genere, le folle che si accalcano in preda al panico per fare incetta di cibo, mascherine, sapone e prodotti igienizzanti. Noi tutti dobbiamo reagire a questa crisi non solo come individui, ma con un forte senso di uguaglianza e giustizia sociale, anche quando il mondo sembra mostrare il suo lato più barbaro, imprevedibile e irrazionale. «Dobbiamo riconoscere dentro di noi che il futuro dei nostri figli non potrà essere costruito sulle sofferenze altrui», dichiarò mio padre il giorno dopo l’assassinio di Martin Luther King, nel 1968. «Occorre ricordare — anche solo per un istante — che quanti vivono accanto a noi sono nostri fratelli e con noi condividono questa nostra breve esistenza, e che anch’essi — proprio come noi — ambiscono a raggiungere la felicità e a dare un senso alla loro vita, sforzandosi di realizzarsi al meglio delle loro capacità». Oggi, l’Italia è un faro per il mondo intero su come mettere in pratica le parole di mio padre — il suo invito alla solidarietà e al senso del bene comune — anche in tempo di quarantena. Vi sono grata per averci mostrato la strada.

DAGONEWS il 23 marzo 2020. Robert De Niro scende in campo contro il coronavirus e lancia un appello ai suoi fan. Un messaggio chiaro che si sintetizza in tre parole: restate a casa. In un video di pochi secondi l’attore si rivolge direttamente alla telecamera e parla con il suo pubblico: «Ciao, sono Robert de Niro. Dobbiamo tutti stare a casa. Dobbiamo fermare la diffusione del virus e possiamo farlo solo insieme. Dovete farlo non solo per proteggere voi stessi, ma per proteggere gli altri e tutte le persone che amate. Per favore. Vi sto guardando».

Harvey Weinstein positivo al coronavirus: messo in isolamento nel carcere di Buffalo. L'ex produttore Albert Weinstein condannato alla pensa di 23 anni per crimini sessuali, è stato trovato al positivo al coronavirus e trasferito in quarantena in una prigione di Buffalo. Roberta Damiata, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. E’ notizia degli ultimi minuti che Harvey Weinstein è risultato positivo al coronavirus. il produttore condannato per crimini sessuali, che giovedì scorso ha compiuto 68 anni, è stato isolato presso il carcere Wende Correctional Facility vicino a Buffalo, dove era stato trasferito per scontare la pena di 23 anni. Secondo alcune fonti, Weinstein stesso aveva avvertito il personale carcerario mercoledì scorso quando era stato spostato dalla famigerata prigione Rikers Island alla più tranquilla Facility, visto che molti detenuti erano stati trovati positivi al virus. Per sicurezza gli è stato quindi praticato un tampone dove è risultato positivo ed è stato messo in quarantena. I carceri di New York sono stati pesantemente colpiti questa settimana dal coronavirus, con 38 persone ammalate solo nel complesso di Rikers Island e la metà dei reclusi risultati positivi. Da qui la richiesta del consiglio di amministrazione che sovrintende le carceri di New York, di poter liberare i detenuti con le pene più leggere per evitare la diffusione del contagio. E’ stato sollecitato il rilascio di oltre 2000 persone, soprattutto quelle al di sopra dei 50 anni e in condizioni di salute precarie o sofferenti di malattie polmonari o cardiache. Il sindaco Bill de Blasio ha accettato di liberare 23 detenuti e di esaminare la possibile scarcerazione di altri 200. I primi test positivi all'interno delle carceri, sono stati fatti poco più di una settimana fa, e sono stati trovati due dozzine di ufficiali e personale infetto in varie strutture che andavano dalla California, al Michigan fino alla Pennsylvania e nuovi casi compaiono quasi ogni giorno. Weinstein è malato di cuore e prima del trasferimento dal carcere di New York gli era stato praticato una "Stent cardiaco".

Da "Ansa" il 6 aprile 2020. «Sarà una nuova Pearl Harbor, un nuovo 11 settembre». Non usa giri di parole il capo della sanità pubblica americana Jerome Adams che, nel weekend più nero da quando in America è esplosa la pandemia, conferma che la settimana in arrivo sarà la più dura, la più triste. Sette giorni, forse più, in cui gli americani assisteranno ad una drammatica escalation dei contagi e delle vittime da coronavirus. Un'accelerazione che di fatto è già cominciata, con oltre 3.000 morti tra venerdì e domenica (che portano il bilancio complessivo a oltre 9.000) e almeno 322.000 casi accertati di pazienti positivi: più del doppio di Spagna e Italia, quattro volte la Cina. Che la situazione sia tutt'altro che sotto controllo ormai non lo nega nemmeno Donald Trump che, alla vigilia della domenica delle Palme, ha detto alla nazione di aspettarsi «molte vittime» nelle prossime settimane e di preparasi a una Pasqua in casa: «Io vedrò la messa dal mio laptop», ha detto. «Stiamo lottando per tenere a freno i contagi, ma dire che la situazione è sotto controllo sarebbe dire il falso», ha ammesso Anthony Fauci, il superesperto della task force anticoronavirus della Casa Bianca troppe volte rimasto inascoltato da parte del tycoon. Solo dopo la prossima settimana o forse un pò di più, ha spiegato il virologo, la curva dei contagi potrebbe «appiattirsi», raggiungere il picco, ma non ancora piegarsi. A preoccupare c'è sempre New York, che registra circa la metà dei casi e dei morti dell'intero Paese e dove Trump, raccogliendo in parte l'appello del sindaco Bill de Blasio, ha deciso di schierare l'esercito. Son oltre mille i soldati inviati dal Pentagono, personale militare anche specializzato che verrà impiegato lì dove nella Grande Mela c'è più bisogno, dagli ospedali ai servizi sociali per aiutare la popolazione più debole e in difficoltà. Ma nelle ultime ore sale il timore per quello che sta accadendo in molte aree del Paese, con lo svilupparsi di nuovi violenti focolai, anche nel District of Columbia dove si trova la capitale federale Washington. E poi la Pennsylvania il Colorado, tutte situazioni esplosive che vanno ad aggiungersi agli 'hot spot' già consolidati di New Orleans, di Chicago, di Detroit e di tutta la California, da Los Angeles a San Francisco. Nonostante ciò, in America non esiste un vero e proprio lockdown, con il modello Italia e Spagna finora mai preso in considerazione. E con l'ordine di stare a casa limitato a una parte del Paese e che varia da Stato a Stato, con una risposta a macchia di leopardo criticata da medici e scienziati. Sulle origini della pandemia in Usa, poi, si addensano le ombre di una situazione mal gestita fin dall'inizio, nonostante l'immediato blocco dei voli dalla Cina più volte evocato dal presidente americano. Da quando l'emergenza coronavirus è esplosa almeno 430.000 persone sarebbero giunte negli Usa su voli diretti dalla Cina, 40.000 negli ultimi 2 mesi, dopo che Washington ha varato la stretta sui viaggi. Lo riporta il New York Times, secondo cui i passeggeri sono di nazionalità diverse e sbarcati a Los Angeles, San Francisco, New York, Newark Chicago, Seattle e Detroit. In migliaia sono arrivati da Wuhan e molti voli sono continuati fino alla scorsa settimana da Pechino a Los Angeles, San Francisco e New York, con passeggeri esenti dal divieto di ingresso negli Usa. «Vediamo la luce in fondo al tunnel», ha aggiunto Trump, nonostante gli otre 335.000 casi e i 9.500 morti in Usa siano bilanci destinati paurosamente a salire nei prossimi giorni, come oramai la stessa amministrazione americana ammette. «Se tutto va bene - ha però aggiunto il presidente Usa - in un futuro non troppo distante saremo orgogliosi del lavoro che noi tutti abbiamo fatto». Donald Trump, nonostante lo scetticismo degli esperti, insiste sull'uso di alcuni farmaci antimalaria come la clorochina per curare il coronavirus, anche se non ci sono prove che funzioni. «Non abbiamo nulla da perdere e non abbiamo tempo da perdere, la gente muore, non abbiamo tempo per sperimentare», afferma il presidente americano.

Da "Adnkronos" il 6 aprile 2020. L'uscita dall'emergenza, secondo Fauci, si vedrà quando assisteremo a «un ribaltamento drastico delle cifre e il numero dei contagi si avvicinerà allo zero. Dobbiamo però pensare a lungo termine. Il pianeta è grande e se controlleremo il virus qui, ma non in altri Paesi, quando abrogheremo le misure restrittive il rischio di una ripresa della pandemia sarà concreto. Per fortuna tra un anno o poco più avremo un vaccino valido». Ora «la questione momento è cruciale» e anche se «tra pochi mesi l'epidemia sarà sotto controllo, la minaccia del virus non sparirà». Rispetto alle sue giornate, Fauci dichiara che «siamo in guerra. Penso che generali e leader in combattimento si sentano così. Ci sono molte cose da fare e ogni cosa è una goccia nel mare». E ammetta che il ritardo dei tamponi «è stato un problema enorme. Non eravamo pronti perché il nostro sistema non è costruito per emergenze del genere». E ora lo scenario che teme di più è «la carenza di medicine e quella di rifornimenti alimentari, l'interruzione della catena di distribuzione. Se interrompiamo tutto in modo drastico, l'impatto sulla società potrebbe essere catastrofico. Certo faremmo un considerevole passo avanti per contenere il virus, forse due, ma dobbiamo tenere conto delle ripercussioni». Per quanto riguarda l'ipotesi di applicare una quarantena totale, Fauci afferma che «se la gente rispetterà le modalità di isolamento sociale otterremo un lockdown funzionale senza dover ricorrere a provvedimenti drastici come quelli adottati in Cina». Dice di sentirsi «un generale» Antony Fauci, lo scienziato italoamericano che dagli anni Ottanta guida l'Istituto nazionale di malattie infettive negli Stati Uniti e che ogni giorno in diretta tv aggiorna gli americani sulla diffusione del coronavirus. «Una catastrofe di dimensioni globali», ha definito la pandemia in corso durante un'intervista al New York Times, rispetto alla quale «avremmo potuto agire molto meglio. Ma i virus agiscono silenziosi. Oggi facciamo i conti con un virus in America da molto tempo». Rispetto all'approccio adottato da Donald Trump nell'emergenza, Fauci afferma che «il presidente ha uno stile tutto suo, lo sanno tutti. Quando gli parlo di questioni concrete, ascolta. Penso che abbia sempre capito la gravità della situazione», ma allo stesso tempo «non posso intervenire sullo stile comunicativo del presidente».

Alice Mattei per businessinsider.com il 2 aprile 2020. La verità fa male, specie se hai a che fare con le frange più oltranziste della destra americana. Così Anthony Fauci, epidemiologo di fama mondiale (tra i primi al mondo a occuparsi di AIDS) è finito nel tritacarne della propaganda della destra trumpiana americana che, benché il presidente abbia pubblicamente detto di apprezzare molto lo scienziato, ha deciso che Fauci è il suo nuovo obiettivo. Le sue colpe sono, di base, quelle di aver contraddetto (anche in modo plateale) il Presidente mentre dichiarava che l’intera faccenda CoVid si chiuderà in un paio di settimane al massimo e quella di aver avuto, nel 2013, alcuni contatti con la staff di Hillary Clinton. Inoltre Fauci è un fautore del lockdown completo e sostiene che, no, non è vero che la Clorichina cura il virus. Tanto è bastato a farlo finire prima nel mirino dei social che hanno vomitato su di lui il peggio di cui potessero essere capaci (immancabili le accuse di pedofilia e satanismo, panacea di tutti i mali) e poi a farlo mettere sotto scorta dopo aver ricevuto minacce di morte che sono state ritenute concrete.

Da "adnkronos.com" il 24 marzo 2020. Donald Trump starebbe perdendo la pazienza con Anthony Fauci, che in qualità di capo del National Institute of Allergy and infectious Diseases è consigliere dei presidenti sin dai tempi di Ronald Reagan, sia per le sue frequenti interviste che per i tentativi di correggere le affermazioni errate del presidente riguardo al coronavirus. È quanto riporta oggi il New York Times, notando che l'eminente virologo di origine italiana non era presente agli ultimi due briefing della task della Casa Bianca. Il giornale ricorda come Fauci abbia dissentito pubblicamente con il presidente riguardo ai tempi necessari per avere disponibile un vaccino e sul fatto che un farmaco anti-malaria possa avere le grandi potenzialità sostenute dal presidente come cura del Covid19. Senza contare che Trump nel briefing di ieri ha preso le distanze dal parare dei medici e scienziati: «Se dipendesse dai dottori loro direbbero, 'teniamo tutto chiuso, chiudiamo il mondo intero’, ma non si può fare una cosa del genere ad un Paese, soprattutto il numero uno dell'economia mondiale, provocherebbe problemi più grandi dell'originale». In un'intervista a Science Magazine, Fauci ha riconosciuto a Trump «di ascoltarlo, anche se siamo in disaccordo su alcune cose. Lui ha il suo stile, ma sulle cose importanti, ascolta quello che dico». Lo specialista ha comunque ammesso che c'è un limite alle cose che può fare quando il presidente dice delle cose non accurate: «non posso saltare davanti il microfono e spingerlo via. Ok allora lui dice, cerchiamo di correggere per la prossima volta». Anche in un'intervista domenica alla Cbs, lo scienziato ha minimizzato l'idea che ci sia una divisione tra lui ed il presidente: «Non c'è nessuna differenza fondamentale», sottolineando che, riguardo al farmaco anti malaria il presidente ha «ascoltato alcune notizie aneddotiche secondo cui certi farmaci funzionano». «Il mio compito è provare definitivamente dal punto di vista scientifico che funzionano», ha concluso.

Susanna Picone per "fanpage.it" il 26 marzo 2020. Il Covid-19 potrebbe diventare una malattia stagionale come l'influenza. A dirlo è l’immunologo americano Anthony Fauci, direttore dell'Istituto nazionale per le malattie infettive e allergiche. A suo dire, il nuovo coronavirus potrebbe diventare una malattia ciclica, stagionale. “Penso che potrebbe benissimo – ha detto Fauci, citato dai media americani – e la ragione per cui lo dico, è che quello che stiamo cominciando a vedere ora nell'emisfero australe e nell'Africa meridionale è che si stanno registrando casi mentre stanno entrando nella loro stagione invernale". "E se avranno davvero un'epidemia importante, sarà inevitabile prepararci al ciclo successivo", ha aggiunto l’immunologo sottolineando quindi "la necessità di fare ciò che stiamo facendo per lo sviluppo di un vaccino, testandolo rapidamente e cercando di prepararlo in modo di averlo a disposizione per il ciclo successivo". L'immunologo fa parte della task force di Trump che sta gestendo l'emergenza sanitaria – Anthony Fauci ha 79 anni e dal 1984 è capo del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, istituto che fa parte del National Institutes of Health (NIH), l’agenzia del governo statunitense che si occupa di salute pubblica. Fauci è stato consulente scientifico di sei presidenti, da Reagan a Trump, ed è stato impegnato nella gestione di diverse malattie virali. Da gennaio fa parte della task force dell’amministrazione Trump che sta gestendo l’emergenza legata alla diffusione del nuovo coronavirus. Quando il presidente parlava ancora di una “normale influenza”, l’immunologo già dichiarava che sarebbe stato necessario introdurre rigide restrizioni per isolare gli infetti. Noto al pubblico anche per la sua partecipazione a diversi programmi televisivi, al momento Fauci è considerato un esperto in materia di coronavirus.

Intervista di Michael Barbaro per “The New York Times” ripubblicata da “la Repubblica” il 6 aprile 2020. Anthony Fauci guida l' Istituto nazionale di malattie infettive dagli anni 80, l' epoca dell' Aids. Ha affrontato Ebola, Sars, aviaria.

Quando ha capito che il coronavirus si sarebbe diffuso con un impatto diverso dalle altre epidemie?

«Nei primi giorni di gennaio: quando è emerso che il virus era stato trasmesso da una specie animale agli esseri umani. Poi, quando ho saputo che circolava in Cina da parecchie settimane, ho capito che rischiavamo una catastrofe di dimensioni globali.

Eravamo in guai grossi».

Ha detto che, nella migliore delle ipotesi, in America moriranno 200mila persone. Come siamo arrivati a questo punto?

«Ci siamo isolati dalla Cina rapidamente. E siamo stati criticati per averlo fatto, come quando abbiamo fermato i voli dall' Europa. Certo, se avessimo saputo prima cosa stava accadendo, avremmo potuto agire meglio. Ma i virus agiscono silenziosi. Oggi facciamo i conti con un virus in America da molto tempo».

Lei incontra il presidente Trump tutti i giorni. Non pensa sia stato troppo altalenante nelle sue affermazioni? Prima lo scetticismo, poi il tentativo di proiettare ottimismo, ora l' allarme.

«Il presidente ha uno stile tutto suo, lo sanno tutti. Quando gli parlo di questioni concrete, ascolta. Penso che abbia sempre capito la gravità della situazione. Ora che i numeri sono così alti si è reso conto di dover comunicare la gravità della situazione. Il mio lavoro di scienziato, d' altronde, consiste nel riportare le informazioni corrette per permettergli di prendere decisioni sulla base di fatti e dati. Ma non posso intervenire sullo stile comunicativo del presidente».

Come sono le sue giornate? Immagino che inizino a orari impossibili.

«Siamo in guerra. Penso che generali e leader in combattimento si sentano così. C' è molto da fare e ogni cosa è una goccia nel mare. Devo aggiornare di continuo il Congresso, i governatori, i funzionari del governo federale. Seguire il mio istituto. Trascorro metà giornata alla Casa Bianca. Incontro Trump almeno un' ora tutti i giorni. Se sono fortunato, vado a letto a mezzanotte, ma alle quattro sono in piedi».

Quanto ha influito il ritardo dei tamponi?

«È stato un problema enorme. Non eravamo pronti perché il nostro sistema non è costruito per emergenze del genere. Mettere in relazione il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, la sanità locale e le aziende private è stato macchinoso».

Ci sono focolai in molte città, il virus continua a diffondersi, nonostante gli sforzi. Perché non dichiarate il lockdown totale?

«Se la gente rispetterà le modalità di isolamento sociale otterremo un lockdown funzionale senza dover ricorrere a provvedimenti drastici come quelli adottati in Cina. Penso che possiamo ottenere risultati senza dover chiudere ogni attività».

Lo scenario che teme di più?

«La carenza di medicine. E quella di rifornimenti alimentari, l' interruzione della catena di distribuzione. Se interrompiamo tutto in modo drastico, l' impatto sulla società potrebbe essere catastrofico. Certo, faremmo un considerevole passo avanti, forse anche due, nel fermare il virus. Ma dobbiamo tenere conto delle ripercussioni».

Come capiremo quando sarà finita?

«Quando vedremo un ribaltamento drastico delle cifre e il numero dei contagi si avvicinerà allo zero, insieme al numero dei morti. Dobbiamo però pensare a lungo termine. Il pianeta è grande e se controlleremo il virus qui ma non in altri paesi, quando abrogheremo le misure restrittive il rischio di una ripresa dell' epidemia sarà concreto. Per fortuna, tra un anno o poco più, avremo un vaccino valido».

Sta dicendo che potremmo non uscirne fino a quando non avremo un vaccino?

«Tra pochi mesi l' epidemia sarà sotto controllo anche se la minaccia del virus non sparirà. La sua virulenza non sarà intensa come ora. Ma anche per questo, prima che si arrivi al vaccino, dobbiamo appiattire al massimo la curva dei contagi. È cruciale che tutti capiscano che attenersi ai comportamenti corretti, in questo momento è cruciale».

Anna Lombardi per “la Repubblica” l'8 aprile 2020. «Lo so, ora tutti parlano di clorochina e idrossiclorochina, antimalarici con potente azione antivirale, come farmaci efficace contro il coronavirus. Io non dico che non funzionano. Dico che ancora non lo sappiamo». Al telefono dal suo studio di Washington, Anthony Fauci, 79 anni, l' immunologo italoamericano della task force della Casa Bianca per la lotta al Covid-19, a capo dell' Istituto nazionale delle malattie infettive, espone il suo punto di vista con la stessa pragmatica chiarezza che mostra nel corso delle conferenze stampa dove pacatamente ridimensiona le affermazioni non sempre esatte di Donald Trump sul modo più efficace di sconfiggere il virus. Trump ha detto di considerare quei farmaci "game-changer", medicinali determinanti nella lotta al Covid-19. Molti medici, in America e fuori, li stanno già prescrivendo. Il presidente ha perfino minacciato l' India, pur di farsi fornire le scorte di quel Paese.

Si dice però che sull' argomento ci siano state tensioni alla Casa Bianca fra lei e il consigliere economico Peter Navarro...

«Il presidente parla di quei farmaci sulla base di "aneddoti", come lui stesso li definisce. Notizie certamente suggestive riguardo a guarigioni di persone sottoposte a quei trattamento. Ma io sono uno scienziato. Gli aneddoti non mi bastano. Il mio compito è fornire le prove certe che determinati farmaci funzionano. E a ora, la sperimentazione clinica su clorochina e idrossiclorochina è avvenuta in maniera troppo casuale per avere certezze sulla sua efficacia».

Dunque ne sconsiglia l' uso?

«Allo stato delle cose è una decisione che deve prendere il medico, se possibile informando il paziente dei possibili effetti collaterali. Poi, quando si lavora in condizioni disperate cercando di salvar vite, si tenta il tutto per tutto. Non giudico chi la prescrive. Ripeto, la mia posizione è che la prova finale ancora non c' è».

In un' intervista con la rivista "Science" pubblicata qualche giorno fa, lei ha detto che cerca di indirizzare il presidente, ma poi quando lui dice cose inesatte "non può certo strappargli il microfono"...

«I miei rapporti col presidente sono ottimi. Lo informo quotidianamente e mi ascolta con attenzione e serietà. Si specula troppo sui miei gesti e sulle mie assenze. Se non appaio al suo fianco, ormai dicono subito che ci sono problemi. Ma io ho molto da fare. Quando la discussione mi riguarda, non manco mai».

Eppure certi suoi interventi, in contrasto con le parole del presidente, hanno scatenato minacce nei suoi confronti. Lei ora è sotto scorta...

«Dico le cose come stanno. Faccio questo lavoro da tanti anni, l' ho scelto e non potrei farlo in altro modo. Al resto dedico poca attenzione».

Trump ha appena attaccato via Twitter l' Organizzazione Mondiale della Sanità: "Taglio i fondi, è troppo filocinese".

«Non ho tempo di seguire i tweet del presidente».

Eppure trova sempre il tempo di parlare con la stampa.

«La gente deve capire che cosa succede, che cosa deve fare e perché. Il ruolo dei giornalisti in questo momento è cruciale. Credo nella stampa libera. È la via più accurata per dare a tutti informazioni corrette e verificate».

Negli Stati Uniti la situazione è molto grave. C' è qualcosa che l' esperienza italiana vi sta insegnando?

«L' Italia è stata colpita molto severamente dal virus. Avete medici competenti ed eroici che sono stati travolti da uno tsunami ed è stato difficile trovare il passo. Dalla vostra esperienza abbiamo imparato quanto questo virus, incontrollato, può essere micidiale. Sì, l' America ha il più alto numero di casi del mondo: perché siamo un Paese grandissimo. Organizzare la risposta in un sistema federale come il nostro non è stato semplice. Ma migliora ogni giorno e le misure messe in atto funzionano».

I ricercatori stanno lavorando ovunque su medicinali e vaccini in grado di contrastare il virus. A che punto siamo?

«Il momento è senza precedenti e gli sforzi sono tanti. Stiamo sperimentando molti medicinali, alcuni conosciuti, compresi quelli a base di clorochina e idrossiclorochina proprio per mettere ordine alla confusione e stabilire protocolli certi. E testando già due vaccini: siamo a buon punto, saranno disponibili entro un anno, un anno e mezzo».

E fino ad allora come ce la caveremo?

«Prima di tornare a una forma nobile di esistenza dovremo ancora convivere con la miseria del virus. Quando lo avremo mitigato continueremo a prendere accorgimenti per impedirne il ritorno violento. Affronteremo ancora tempi difficili e serve solidarietà e impegno. Ma ce la faremo. Finirà».

Fauci, il super virologo  degli Stati Uniti (e l’unico  che tiene a bada Trump). Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. Silenzio, parla Fauci. È il più importante virologo del Paese, il più esperto e il più libero. Da qualche settimana è anche il talismano dell’America, per acclamazione. Alla fine Donald Trump si è rassegnato: può solo aggiustargli il microfono, cedergli la parola e annuire vistosamente quando questo uomo minuto, con la zazzera bianca e gli occhialini anni Settanta, gli sta dicendo con garbo: ma allora non hai capito un tubo. Anthony Fauci, 79 anni, è il direttore del National Institute of Allergy and Infectious diseases, con sede a Bethesda, a un passo da Washington. Dal 30 gennaio, quando il leader americano lo ha chiamato nella task force anti-virus della Casa Bianca, ha ridotto da cinque a quattro le ore di sonno e ha rinunciato alla camminata quotidiana di 3 chilometri. Nella sua carriera ha lavorato per sei presidenti, da Ronald Reagan a Trump, e fronteggiato numerose malattie infettive, dall’Aids a Ebola. Ma è lui stesso a dire che questa epidemia è potenzialmente la più pericolosa, la più devastante per gli Stati Uniti e per il mondo. «Sono di New York, come si può capire dal mio accento», dice con il vezzo di molti abitanti della Grande Mela. Come dire: non ho pregiudizi, mi interessano i fatti, i risultati. È nato a Brooklyn. Il bisnonno era arrivato a New York alla fine dell’Ottocento da Sciacca, in Sicilia. Suo padre possedeva una farmacia che impegnava tutta la famiglia. La madre e la sorella stavano al banco. Tony faceva le consegne nel pomeriggio quando era un liceale e poi tra un esame e l’altro alla Cornell University Medical College. Ha sempre lavorato per il governo. A 28 anni entra nel National Institutes of Health e a 44 anni diventa direttore del National Institute of Allergy. Ed è ancora lì, in queste ore, a vagliare le ipotesi per trovare una terapia e un vaccino per sconfiggere il Covid-19. I primi tempi i reporter della Casa Bianca gli chiedevano se il presidente «gli avesse messo la museruola». E il dottor Fauci, con «The Donald» che lo scrutava da almeno mezzo metro più in alto, rispondeva: «Non porto museruole». Il team d’emergenza, però, sembra funzionare. Il vice presidente Mike Pence prende appunti su un grande block notes, cerchiando e sottolineando le frasi di Fauci, le filtra con gli umori trumpiani e le trasforma nella «strategia» per contenere il coronavirus. Il «dottore» vorrebbe ancora di più: da giorni, per esempio, raccomanda di interrompere tutti i collegamenti aerei interni nel Paese. Una decisione traumatica, visto che per gli americani i voli sono come i treni per gli italiani. Ma probabilmente anche in questo caso si farà come vuole «Tony».

Anthony Fauci, responsabile anti-coronavirus americano, imputa la catastrofe italiana alla politica dei confini aperti. Totalitarismo il 22 Marzo 2020. Anthony Fauci, immunologo statunitense settantanovenne di origini italiane, messo da Donald Trump a capo della task force contro il coronavirus, ha criticato alla MSNBC le misure messe in campo inizialmente dall’Italia allo scopo di contenere la pandemia, imputando la diffusione del virus e l’alto prezzo pagato in termini di vite umane alla politica dei “confini aperti”.

The reason I think there is a real problem, one of the things we did right was very early cut off travel from China to the United States. Because outside of China, where it originated, the countries in the world that have it are through travel, either directly from China or indirectly from someone who went someplace and then came to that particular country. Our shutting off travel from China and, more recently, travel from Europe, has gone a long way to not seeding very, very intensively the virus in our country. Unfortunately, Italy did not do that. They had an open border, they let people in. And until they really knew they were in trouble, then the cat was out, the horse was out of the barn and that was it.

“Il motivo per cui penso che ci sia un vero problema in Italia, è che una delle cose che abbiamo fatto per bene è stato interrompere in tempo gli ingressi dalla Cina agli Stati Uniti. Perché al di fuori della Cina, dove il coronavirus ha avuto origine, negli altri Paesi esso è arrivato attraverso gli ingressi, direttamente dai cinesi o indirettamente da qualcuno che è andato da qualche parte e poi è venuto in quel particolare paese. Il blocco degli ingressi dalla Cina e, più recentemente, dall’Europa, ha fatto molto per impedire che il virus attecchisse negli Stati Uniti. Sfortunatamente, l’Italia non ha altrettanto: hanno mantenuto la politica dei confini aperti, hanno lasciato entrare chiunque. E non hanno provveduto a chiudere fino a quando non sono stati davvero nei guai, cioè hanno chiuso la stalla dopo che i buoi sono scappati”.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2020. Silenzio, parla Fauci. È il più importante virologo del Paese, il più esperto e il più libero. Da qualche settimana è anche il talismano dell' America, per acclamazione. Alla fine Donald Trump si è rassegnato: può solo aggiustargli il microfono, cedergli la parola e annuire vistosamente quando questo uomo minuto, con la zazzera bianca e gli occhialini anni Settanta, gli sta dicendo con garbo: ma allora non hai capito un tubo. Anthony Fauci, 79 anni, è il direttore del National Institute of Allergy and Infectious diseases, con sede a Bethesda, a un passo da Washington. Dal 30 gennaio, quando il leader americano lo ha chiamato nella task force anti-virus della Casa Bianca, ha ridotto da cinque a quattro le ore di sonno e ha rinunciato alla camminata quotidiana di 3 chilometri. Nella sua carriera ha lavorato per sei presidenti, da Ronald Reagan a Trump, e fronteggiato numerose malattie infettive, dall' Aids a Ebola. Ma è lui stesso a dire che questa epidemia è potenzialmente la più pericolosa, la più devastante per gli Stati Uniti e per il mondo. «Sono di New York, come si può capire dal mio accento», dice con il vezzo di molti abitanti della Grande Mela. Come dire: non ho pregiudizi, mi interessano i fatti, i risultati. È nato a Brooklyn. Il bisnonno era arrivato a New York alla fine dell' Ottocento da Sciacca, in Sicilia. Suo padre possedeva una farmacia che impegnava tutta la famiglia. La madre e la sorella stavano al banco. Tony faceva le consegne nel pomeriggio quando era un liceale e poi tra un esame e l' altro alla Cornell University Medical College. Ha sempre lavorato per il governo. A 28 anni entra nel National Institutes of Health e a 44 anni diventa direttore del National Institute of Allergy. Ed è ancora lì, in queste ore, a vagliare le ipotesi per trovare una terapia e un vaccino per sconfiggere il Covid-19. I primi tempi i reporter della Casa Bianca gli chiedevano se il presidente «gli avesse messo la museruola». E il dottor Fauci, con «The Donald» che lo scrutava da almeno mezzo metro più in alto, rispondeva: «Non porto museruole». Il team d' emergenza, però, sembra funzionare. Il vice presidente Mike Pence prende appunti su un grande block notes, cerchiando e sottolineando le frasi di Fauci, le filtra con gli umori trumpiani e le trasforma nella «strategia» per contenere il coronavirus. Il «dottore» vorrebbe ancora di più: da giorni, per esempio, raccomanda di interrompere tutti i collegamenti aerei interni nel Paese. Una decisione traumatica, visto che per gli americani i voli sono come i treni per gli italiani. Ma probabilmente anche in questo caso si farà come vuole «Tony».

Ecco chi è l'immunologo dietro la strategia di Trump. Donald Trump ha affidato la task force contro il coronavirus ad un immunologo di origini campane. Il ruolo del dottor Fauci in questa fase storica. Giuseppe Aloisi, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. La strategia di Donald Trump contro il Covid-19 è mutata nel corso di questi ultimi giorni, ma nella recente storia medico-sanitaria degli Stati Uniti c'è almeno una costante: il dottor Antohony Fauci, che molti spettatori internazionali avranno visto ed ascoltato durante questo periodo, per via delle conferenze stampa tenute insieme al presidente degli States e al resto delle figure principali della Casa Bianca. Trump sta informando gli americani con costanza sullo stato delle cose relative al coronavirus. Anthony Fauci, come si apprende da qualunque fonte che riguardi la sua vicenda biografica, è un immunologo. Un professionista, dunque, che è deputato a combattere la situazione pandemica odierna. Se non altro perché è uno specialista assoluto della materia. Per buona parte dei media progressisti, Fauci spiega quello che Trump non è in grado di comprendere. Non è proprio così. Se la linea perseguita tra i due, se le due visioni fossero così distanti, Trump non avrebbe messo proprio quel medico a capo della task force. Ma questo è un discorso che può essere sorvolato di questi tempi. Basti sapere che è stato Donald Trump a far sì che l'immunologo di origini campane (il padre è nato a Napoli), avesse la possibilità di occupare la zona nevralgica del campo su cui si gioca una partita che è decisiva per le sorti della umanità. Così com'è evidenziato anche in questo articolo de Il Corriere della Sera. Di questo pensiero, almeno, è proprio Fauci, che ha spiegato esplicitamente quanto il Covid-19 possa finire con il rappresentare qualcosa di drammatico. Trump deve per necessità di cose fidarsi. C'è il dato umano, che di questi tempi è prioritario: devono morire meno persone possibili. Poi, però, c'è anche un aspetto politico-economico: a novembre, salvo un rinvio dovuto alla situazione eccezionale, un rinvio che resta del tutto improbabile, si terranno le elezioni americane. E il coronavirus porta con sè lo spettro della recessione, che Trump sta provando a scongiurare in ogni modo. Tra le dichiarazioni più rilevanti pronunciate dal dottor Fauci in questi giorni, c'è di sicuro quella sulla sperimentazione del vaccino, che risale ormai a qualche giorno fa: "Siamo sulla buona strada per testare un vaccino sperimentale contro il nuovo coronavirus basato sul Rna messaggero sperimentale (mRNA) in uno studio clinico di Fase 1 questa primavera". La presa di posizione dell'immunologo era stata comunicata peraltro all'Adnkronos. Trump ha anche affermato di avere speranze che riguardano una cura. Fauci - questo sì - è spesso più cauto del presidente degli Stati Uniti, ma questo vale per buona parte dei comitati scientifici che si stanno riunendo con gli esecutivi dell'intero globo.

Maurizio Cecconi, il primario italiano “eroe della pandemia” insieme a Anthony Fauci e Li Wenliang. Redazione de Il Riformista il 26 Aprile 2020. Il medico italiano Maurizio Cecconi, primario di anestesia e terapia intensiva dell’Humanitas di Rozzano (Milano), è stato definito dal Journal of The American Medical Association uno dei tre “eroi della pandemia”. Un riconoscimento importante per aver raccontato al mondo quanto stava accadendo in Italia, diventata “l’epicentro” del contagio mondiale. Cecconi è uno dei tre “eroi della pandemia” scelti dal Journal of The American Medical Association: con lui ci sono in una sorta di podio l’oculista di Wuhan, Li Wenliang, il medico cinese  che per primo avevo denunciato la gravità dell’infezione, salvo essere costretto a rimangiarsi il tutto dalle autorità di Pechino e poi morire per il Covid-19. Terza figura premiata dal Journal of The American Medical Association è Anthony Fauci, l’immunologo della task force Usa che ha il complicato compito di ‘mediare’ tra le sue posizioni scientifiche e le sparate dell’inquilino della Casa Bianca Donald Trump. Cecconi, 42 anni, è tornato in Italia due anni fa dopo aver trascorso gli ultimi 14 anni in Gran Bretagna. Da Rozzano, quando nel Paese è scoppiata l’emergenza, ha organizzato videoconferenza con migliaia di colleghi per condividere informazioni fondamentale sul contagio da Coronavirus. Un ruolo giudicato determinante dal Journal of The American Medical Association per diffondere le sue conoscenze sul Covid-19 nella comunità medica di tutto il mondo. Commentando su Twitter il riconoscimento ottenuto dal Journal of The American Medical Association, Cecconi ha voluto condividere il ‘premio’ con “tutta la comunità medica e di ricerca lombarda e italiana. Non siamo eroi – ha sottolineato Cecconi – ma siamo felici se contribuiamo ad aiutare gli altri a prepararsi meglio. È l’unico modo che conosciamo e seguiamo”.

Coronavirus, New York chiude: a casa tutti i lavoratori. Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. New York chiude. Il Governatore Andrew Cuomo, oggi venerdì 20 marzo, ha emesso un’ordinanza con misure drastiche (qui tutti gli aggiornamenti dall’Italia e dal mondo). A partire da domani sera, sabato 21, i 19 milioni di cittadini della Grande Mela dovranno stare a casa fino a nuovo ordine. Consentiti solo gli spostamenti per fare la spesa. Cuomo ha ordinato anche la serrata di tutte le attività produttive e commerciali «non essenziali». Sono esclusi i negozi di alimentari e le farmacie. Divieti particolarmente severi per gli anziani, che potranno uscire solo brevemente e indossando la maschera protettiva. Il blocco «all’italiana» è la risposta a un’emergenza ormai evidente. I casi positivi solo a New York sono oltre 4 mila, circa un terzo del totale registrato nell’intero Paese. Gli ospedali si stanno attrezzando, liberando spazi per l’ondata di pazienti in arrivo. Sono già 1.250. I medici hanno cominciato a praticare i test: oltre 10 mila nelle ultime 24 ore. Il sindaco Bill de Blasio accusa Donald Trump di «aver abbandonato» New York. Mancano le mascherine per il personale medico, ventilatori e respiratori. Anche il Governatore della California, Gavin Newsom, ha preso un provvedimento analogo: imponendo ai 40 milioni di abitanti di stare a casa. L’amministrazione Trump ha messo in campo il Pentagono. Il Dipartimento di Stato sconsiglia agli americani qualsiasi viaggio all’estero. Chiuse anche le frontiere con Messico e Canada. La Casa Bianca sta valutando se azzerare anche tutti i voli interni. Intanto a Washington, senatori repubblicani e democratici iniziano oggi, venerdì 20 marzo, la trattativa per mettere a punto il pacchetto economico anti crisi da 1.300 miliardi. Tra le misure è previsto il versamento di due assegni da 1.200 dollari ai contribuenti con un reddito fino a 75 mila dollari all’anno. Il contributo scende per chi guadagna tra i 75 mila e i 99 mila dollari all’anno. Nessun sostegno per chi supera la soglia dei 99 mila.

DAGONEWS il 20 marzo 2020. «A New York c'è il focolaio degli Stati Uniti». Bill De Blasio ha chiesto aiuto al governo federale per l’emergenza prima che gli ospedali vadano in affanno. In un appello al presidente Trump sulla CNN, De Blasio ha dichiarato che gli ospedali di New York rimarranno senza respiratori e mascherine in due o tre settimane. Ha detto che stava prendendo in considerazione l'idea di trasformare gli hotel e il Javits Center, in "centri" ospedalieri, ma che la città aveva un disperato bisogno di rifornimenti. Attualmente ci sono più di 14.000 casi di coronavirus negli Stati Uniti e oltre 200 persone sono morte. «Dove diavolo è il governo federale nel bel mezzo della più grande crisi che abbiamo visto da generazioni? – ha tuonato De Blasio - Devo essere onesto con la gente della mia città. Ecco i fatti: alla fine della scorsa notte c’erano 4000 casi confermati a New York City, 26 persone sono morte.

Costituiamo il 30% dei casi negli Stati Uniti e il 70% dei casi nello Stato di New York. Che ci piaccia o no, siamo l'epicentro». Nelle scorse ore il dottor Anthony Fauci ha ripreso Donald Trump che si era lanciato in affermazioni entusiastiche sull’uso della clorochina, il farmaco antimalaria, sostenendo che l’uso potrebbe essere un punto di svolta nella lotta al  COVID-19. Fauci, che è membro della Task Force sul Coronavirus della Casa Bianca, ha smorzato l’entusiasmo dicendo: «Non esiste nessun farmaco magico in questo momento. Anche se ci sono informazioni sul fatto che potrebbero funzionare, dobbiamo dimostrarlo in modo che le persone possano ottenere il farmaco giusto, sicuro ed efficace. Ciò che stiamo dicendo è che si tratta di farmaci che potrebbero funzionare». 

Da "ansa.it" il 20 marzo 2020. Parrucchieri, barbieri, centri estetici e negozi di tatuaggi chiuderanno negli stati di New York, New Jersey, Connecticut e Pennsylvania. Lo ha annunciato su Twitter il governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo. La chiusura parte da domani alle 20. Anche i carceri di New York, dopo quelli di Los Angeles e Cleveland, si preparano a rilasciare centinaia di detenuti per il coronavirus, quelli piu' a rischio contagio e condannati per reati minori. Lo ha annunciato il sindaco di New York Bill De Blasio, dopo che una guardia e un prigioniero sono risultati positivi al Covid-19 nel penitenziario di Rikers Island, dove e' detenuto anche Harvey Weinstein. L'ex produttore di Hollywood sara' trasferito in un altro carcere. Tra i prigionieri anche Michael Cohen, ex avvocato personale di Trump, il truffatore Bernie Madoff, e il signore della droga colombiano Gilberto Rodriguez-Orejuela. Intanto il governatore di New York, Andrew Cuomo, ha annunciato che i lavoratori non essenziali devono rimanere a casa. "Lo stato di New York si mette in pausa", ha detto ancora il governatore spiegando che solo i negozi ed i servizi essenziali rimarranno funzionanti. "Abbiamo bisogno che tutti siano al sicuro altrimenti nessuno lo è", ha aggiunto. "Questa è l'azione più drastica che possiamo prendere", ha concluso. I casi di coronavirus nello Stato di New York sono 7.102, di cui 4.408 nella città di NY. "Abbiamo aumentato il numero dei test e di conseguenza il numero dei casi aumenta", ha detto Cuomo, sottolineando che rispetto a giovedì i casi sono aumentati di 2.950. I morti nello Stato sono 35. Gli Stati Uniti hanno deciso di non rilasciare più visti d'ingresso a chiunque provenga da altri Paesi del mondo, se non in caso di urgenza. Il governatore della California Gavin Newsom ha ordinato a tutti i residenti dello Stato, circa 40 milioni di persone, di restare a casa. Lockdown da Los Angeles a San Francisco. L'ultima vittima di coronavirus nella contea di Los Angeles è un uomo di circa trent'anni. Lo ha detto la responsabile della sanità della California Barbara Ferrer precisando che il giovane aveva problemi di salute. Negli Usa il numero dei contagi ha superato quota 13mila, raddoppiati in sole 24 ore. Il bilancio delle vittime è di 193 persone.

Da “askanews” il 20 marzo 2020. La California è il primo stato Usa a prendere misure "all'italiana" contro il coronavirus. I contagi superano quota 13.000 e i morti sono 200. Il governatore Gavov Newsom ha scritto al presidente Donald Trump: il 56% della popolazione dello stato potrebbe contrarre il virus nelle prossime otto settimane. E se nel Golden State scatta il lockdown per i 40 milioni di abitanti, Trump, ha già deciso: cancellato il G7 di giugno a Camp David. Trump prima minimizzava, ora si presenta come "presidente di guerra" contro il virus. Il Governatore di New York Andrew Cuomo sta equiparando gli strumenti medicali ai missili in battaglia. Ma sempre dalla Grande mela, il sindaco Bill de Blasio ha accusato Trump di "stare a guardare". I senatori intanto presentano un piano di aiuti da mille miliardi che prevede assegni diretti ai cittadini da 1.200 dollari, perchè la salute più che mai, all'epoca del coronavirus e in un'America senza sanità pubblica per tutti, che si prepara alle presidenziali 2020, è la questione numero uno.

Stati Uniti, quell’allarme inascoltato sull’arrivo di una pandemia. Federico Giuliani su Inside Over il 21 marzo 2020. Il nuovo coronavirus si è insediato anche negli Stati Uniti. Dalle poche decine di casi di qualche settimana fa, Washington oggi deve fare i conti con quasi 4mila casi e circa 200 decessi. La progressione continua senza fermarsi anche se molti esperti considerano queste cifre sottostimate. Insomma, Donald Trump ha tra le mani un nodo spinosissimo che potrebbe mettere a rischio la sua rielezione come presidente del Paese; tutto dipenderà da come The Donald sarà in grado di gestire l’epidemia del Covid-19, un virus pericolosissimo che ha già messo in ginocchio mezzo mondo. In ogni caso sono arrivate le prime misure draconiane anche in terra americana. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha ordinato ai cittadini di restare a casa. È questo l’ordine contenuto in una direttiva che ha limitato tutti i movimenti non essenziali dei 40 milioni di abitanti dello stato, consentito solo attività e servizi essenziali, come supermercati e farmacie. Anche il governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, ha annunciato di firmare un ordine molto simile, che obbligherà il 100% dei lavoratori a stare a casa, con l’esclusione dei servizi essenziali, tra cui farmacie e alimentari. Il Segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha invece ribadito la necessità per tutti i cittadini statunitensi di limitare i viaggi per contribuire ad arginare la diffusione della pandemia di coronavirus.

Dal canto suo Trump ha dichiarato che il coronavirus ha reso la situazione negli Stati Uniti come nei tempi di guerra. Il capo dello Stato Usa ha annunciato anche di aver invocato il Defense Production Act, una legge dei tempi della Guerra di Corea che consente al governo di imporre quote di produzione di determinate attrezzature, nel caso particolare mascherine e altri articoli sanitari.

Allarme non ascoltato. Il New York Times ha scritto che l’anno scorso il governo americano avrebbe ignorato una marea di avvertimenti, gli stessi che denunciavano come gli Usa non sarebbero stati pronti ad affrontare una pandemia. Nonostante gli allarmi inascoltati, ben poco è stato fatto per sopperire alle carenze strutturali e oggi la situazione è questa. In una simulazione contenente una serie di esercizi e svolta a cavallo tra gennaio e agosto 2019, il Dipartimento della salute e dei servizi umani immaginava l’avvento di una pandemia di influenza. Lo scenario da incubo, lo stesso che si sarebbe poi realizzato da lì a pochi mesi, era stato definito Crimson Contagion. Ebbene i risultati non erano incoraggianti, visto che rimarcavano come il governo federale si sarebbe trovato impreparato, non coordinato e privo dei giusti finanziamenti di fronte alla diffusione di un virus per il quale non esistono ancora cure. Le criticità fondamentali riguardavano vari aspetti: durante la simulazione le agenzie federali si sarebbero burlate di chi era al comando mentre i funzionari statali e gli ospedali non riuscivano a capire quale fosse l’attrezzatura più adatta. La cosa più sconcertate è che l’allarme appena citato non è stato il primo avvertimento ma soltanto l’ultimo di una lunga serie. Tre volte negli ultimi quattro anni il governo ha ragionato sul da farsi al cospetto di una pandemia, identificando possibili carenze e raccomandando azioni specifiche.

Muoversi in ritardo. Ora Trump sta lavorando in fretta e furia sul da farsi. Certo, pesa il voltafaccia del presidente, che in un primo momento aveva snobbato il nuovo coronavirus come una sorta di influenza, restando per almeno un paio di mesi fermo con le mani in mano mentre Cina ed Europa subivano gli effetti del Covid-19. A un certo punto Trump è passato dal dichiarare che la situazione era “sotto controllo” ad annunciare tuoni e fulmini all’orizzonte. Il portavoce della Casa Bianca, Judd Deere, ha assicurato che chiunque sospetto che “il presidente Trump non abbia preso sul serio la minaccia di Covid-19” si sbaglia di grosso. L’amministrazione si è tuttavia dimostrata lenta nell’introdurre test a tutta la popolazione e nel chiudere scuole e luoghi di aggregazione. Trump ha provato così a rispondere: “Nessuno sapeva che ci sarebbe stata una pandemia o un’epidemia di questa proporzione. Nessuno ha mai visto nulla di simile prima d’ora”.

Coronavirus al Congresso Usa. Orlando Sacchelli il 24 marzo 2020 su Il Giornale. Il Covid-19 non risparmia il Congresso Usa. Il senatore repubblicano Rand Paul (nella foto) è risultato positivo al coronavirus. Ha fatto sapere di aver proseguito il suo lavoro da parlamentare nei giorni scorsi, prima di ottenere il responso del test effettuato. Il senatore potrebbe essere stato contagiato proprio nelle sale del Campidoglio. Paul ha spiegato di aver fatto il test il 16 marzo su consiglio del suo medico, in via precauzionale, avendo un polmone compromesso. Altri due senatori, Mike Lee e Mitt Romney, si sono posti in autoisolamento perché hanno trascorso del tempo con Paul nelle scorse settimane. In piena emergenza coronavirus il presidente Donald Trump prova a spargere ottimismo. “Il Paese non può restare chiuso e che deve tornare a lavorare molto presto”, ha detto parlando ai giornalisti. “Il nostro Paese non è stato costruito per stare chiuso… Non possiamo consentire che la cura sia peggiore del problema stesso”. Parole che hanno suscitato dure polemiche. Trump non vuol sentire parlare di mesi di emergenza, ma di settimane, e ricorda che alcuni stati hanno pochissimi casi di contagio. In nove stati, però, c’è l’obbligo di restare nella propria abitazione (coinvolti 100 milioni di persone). “Non passerà in due settimane”, ha detto il governatore di New York Andrew Cuomo. Intanto sull’emergenza coronavirus si fa sentire anche l’ex vicepresidente Joe Biden, candidato alle primarie del Partito democratico. Parlando via web ha accusato Trump di aver diffuso cose inesatte sul virus e di aver sottovalutato l’emergenza, all’inizio, adottando solo in ritardo misure più forti. “Trump continua a dire che è un presidente di guerra. Bene, inizi ad agire come tale”, ha esortato Biden parlando dalla sua casa di Wilmington (Delaware). Sono andati avanti fino a notte fonda i negoziati tra il capo del Tesoro Usa, Steven Mnuchin, e il leader della minoranza democratica, Chuck Schumer, per sbloccare il voto del pacchetto di stimolo da 1700 miliardi di dollari per l’emergenza coronavirus. Mnuchin ha detto a Trump che sono “molto vicini ad un accordo”. Negli ultimi giorni Trump aveva attaccato i democratici (al solito su Twitter): “Vogliono che il virus vinca? Stanno chiedendo cose che non hanno niente a che vedere con i nostri grandi lavoratori e le nostre grandi imprese”. Evidentemente alla fine, al di là delle polemiche e delle schermaglie politiche (siamo pur sempre in piena campagna elettorale) sta prevalendo il buon senso.

Coronavirus: 5 senatori USA hanno venduto azioni prima dell’emergenza. Alberto Pastori i 21/03/2020 su Notizie.it. Salgono a 5 i senatori USA che hanno venduto le loro azioni prima della crisi portata dal coronavirus: i titoli avrebbero perso tra il 30 a 39%. Cresce sempre di più negli USA lo scandalo dei senatori che a Gennaio 2020, prima dello scoppiare dell’emergenza coronavirus, hanno venduto le loro azioni. Si tratta del senatore repubblicano Richard Burr, presidente della commissione Intelligence, Kelly Loefner, Dianne Feinstein, Ron Johnson e Jim Inhofe. Il primo nome circolato è stato quello di Burr, il quale, durante un incontro privato avvenuto il 24 Gennaio, avrebbe informato gli altri senatori della gravità dell’epidemia del coronavirus, invitandoli a occuparsi dei loro investimenti finanziari. Pubblicamente però Burr aveva dato ben altre informazioni, rassicurando il popolo americano sulle limitate conseguenze del contagio. Burr e Kelly Loeffler, senatrice eletta in Georgia e moglie di Jeffrey Sprecher, presidente del New York Stock Exchange, una delle principali borse mondiali, hanno venduto le loro azioni proprio nei giorni in cui il presidente Donald Trump sminuiva la portata dell’epidemia. La Loeffler si è difesa su Twitter scrivendo: “Non prendo io le decisioni sul mio portafoglio, ma sono terze parti a decidere e senza che ne’ io ne’ mio marito possiamo saperlo”. Dalla cessione delle sue azioni Burr, secondo il sito investigativo ProPublica, avrebbe guadagnato circa 1,7 milioni di dollari. Inoltre, sempre ProPublica, sarebbe riuscita ad ottenere una registrazione di un discorso del senatore Burr in un circolo esclusivo. In quell’occasione avrebbe rivelato a colleghi e investitori l’imminente disastro sanitario: “Vi posso dire che siamo a livello dell’epidemia del 1918”, anno della cosiddetta “influenza spagnola” che provocò circa cento milioni di morti nel mondo. L’ultimo nome coinvolto è quello del senatore repubblicano del Wisconsin, Ron Johnson, anche lui tra quelli che avevano sminuito pubblicamente la portata dell’epidemia: “Non sarà una sentenza di morte” aveva detto “tranne che per il 3-4 per cento della popolazione, ma penso anche molto meno”. Nel frattempo però, Johnson stava già cedendo tutti i suoi titoli. In base a quanto riportato dai media USA, la maggior parte dei titoli ceduti dai senatori ha poi perso tra il 30 e il 39 per cento.

Virusgate, 4 senatori Usa vendono le azioni prima  del crollo della Borsa. Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Massimo Gaggi. Virusgate? La pandemia crea situazioni senza precedente in campo medico, economico, di gestione delle libertà individuali. Ora sconfina anche nel campo delle mascalzonate finanziarie (che si tratti di reati o solo di comportamenti moralmente deplorevoli) commesse da esponenti politici di rango: quattro senatori americani accusati di aver venduto i loro portafogli di titoli azionari subito dopo aver ricevuto, tra fine gennaio e metà febbraio, una serie di allarmanti informative riservate dei servizi segreti sulle prospettive di diffusione del coronavirus. Principale imputato è il senatore repubblicano Richard Burr, presidente della Commissione Intelligence del Senato che, visti questi rapporti allarmanti, il 13 febbraio ha venduto, in 33 distinte operazioni finanziarie, quasi tutto il suo patrimonio in azioni il cui valore ha oscilll’inteato negli ultimi mesi tra i 628 mila e il milione e 700 mila dollari. Sotto accusa, insieme a lui, altri due senatori repubblicani, James Inhofe dell’Oklahoma e Kelly Loeffler della Georgiae la democratica californiana Dianne Feinstein. Questi tre parlamentari, però, si dicono innocenti o perché non hanno partecipato alle riunioni riservate (Inhofe) o perché sostengono di non sapere nulla delle transazioni che li riguardano, avendo messo il loro patrimonio in un blind trust (Boxer). Anche Burr si difende, ma le sue giustificazioni sembrano poco consistenti. Interrogato in proposito, Donald Trump se l’è cavata dicendo che gli accusati sono «uomini d’onore» e che, comunque, si sta indagando. Nei vecchi tempi della criminalità economica tradizionale, l’insider trading poteva essere commesso da chiunque - non solo finanzieri, ma anche banchieri, politici o giornalisti - ma era legato allo sfruttamento a fini di guadagno personale delle informazioni riservate su una società quotata in Borsa ricevute in virtù della propria attività professionale. In un mondo sempre più interconnesso e sensibile a crisi sistemiche, da tempo le «soffiate» speculative hanno cominciato a seguire anche altri percorsi. Ad esempio nel 2008 ci furono vendite sospette di titoli non solo alla vigilia del fallimento della Lehman Brothers che provocò il crollo di Wall Street, ma anche quando, qualche mese dopo, i banchieri si resero conto che il sistema finanziario stava andato verso una gelata del credito che, se non sventata per tempo, avrebbe potuto paralizzare anche il sistema produttivo. Ora, per la prima volta, sono informazioni di tipo sanitario quelle che vengono utilizzate per speculare o, comunque, per mettere al sicuro i propri investimenti. La Commissione Intelligence, quella incaricata di sorvegliare il comportamento dei servizi segreti per conto del popolo americano, ha, com’è facile capire, un ruolo molto delicato e una grossa responsabilità fiduciaria: deve formulare giudizi politici e proteggere l’iteresse dei cittadini sulla base delle informazioni riservate che riceve. Informazioni che non possono essere divulgate né, ovviamente, usate a fini personali. Ma, dopo averle ricevute, Burr non solo ha venduto il suo patrimonio azionario: ha anche espresso in pubblico e in privato giudizi diametralmente opposti sulla gravità della crisi che si stava avvicinando. In un editoriale per Fox News pubblicato il 7 febbraio e poi di nuovo in una dichiarazione pubblica del 5 marzo, il senatore ha sostenuto che non è il caso di allarmarsi troppo perché «oggi gli Stati Uniti sono preparati meglio che in qualunque altro momento della loro storia ad affrontare un’emergenza sanitaria» come quella del coronavirus. Nel frattempo, però, lui ha venduto le sue azioni e il 27 febbraio, in un incontro privato con alcune decine di esponenti economici di rilievo del suo Stato (soprattutto finanziatori della sua campagna elettorale), ha detto cose molto diverse. Secondo le inchieste di vari organi di stampa in quella sede Burr ha avvertito gli imprenditori che il virus che si stava diffondendo era il più aggressivo della storia recente del mondo, tanto da far pensare a una situazione analoga alla pandemia del 1918. Il senatore ha provato a negare, ma la National Public Radio l’ha inchiodato con una registrazione. Quanto alla vendita dei titoli, il senatore ha sostenuto che le operazioni sono state registrate a metà febbraio, ma erano state realizzate prima. Si sta indagando, ma sono in molti a chiede le dimissioni di Burr che il vizietto di usare informazioni private a fini personali sembra averlo avuto anche in passato, visto che nel 2009 si vantò pubblicamente di aver chiamato la moglie chiedendole di ritirare dalla banca più denaro possibile dopo aver ricevuto un’informativa riservata sui rischi di congelamento del credito nella crisi post Lehman. Così ora anche Carlson Tucker, l’anchor della rete conservatrice Fox, assai ascoltato ed elogiato da Trump, chiede le dimissioni del senatore repubblicano.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 20 marzo 2020. «È una guerra. Io sono un presidente in tempo di guerra». La metamorfosi di Donald Trump è spettacolare; per molti è meglio tardi che mai. Il capo dell' esecutivo ha usato una legge del 1950 varata per la guerra in Corea, il Defense Production Act, che gli dà poteri eccezionali anche sul settore privato, per ordinare requisizioni di materiale medico, farmaci, accelerare la ricerca sui vaccini e l' uso di cure sperimentali. È cambiato tutto in 48 ore. Ancora due settimane fa Trump aveva irriso agli allarmi sanitari, definendo l' epidemia " a hoax", una bufala, una montatura dei democratici per attaccarlo in campagna elettorale. Aveva twittato paragoni con le normali influenze stagionali. Poi, via via che il bilancio delle vittime cresceva in tutto il mondo e i contagi salivano anche negli Stati Uniti (ieri a quota diecimila), era scattata la fase del Trump rassicurante ed auto- congratulatorio. Una settimana fa parlando alla nazione aveva detto: il rischio è limitato perché io sono stato veloce a chiudere le frontiere ai cinesi. Ora Trump ha deciso di cambiare tono, messaggio e personaggio. Intima il rientro di tutti gli americani ancora all' estero. Da "presidente di guerra" ha ordinato alla U.S. Navy di mettere a disposizione due navi- ospedale, che furono usate dalla forze armate in conflitti lontani o per le cure alle vittime di calamità naturali a Haiti e Portorico. Al Pentagono ha richiesto di mettere a disposizione degli ospedali civili cinque milioni di maschere e duemila apparecchi respiratori. Ci tiene e farsi vedere come il leader giusto per affrontare una sfida storica, decisionista ed efficiente. I dati sul terreno danno un quadro molto diverso. Gli Stati Uniti continuano a soffrire di gravi carenze e ritardi in ogni angolo del sistema sanitario. I test diagnostici sono insufficienti, dalla California a New York. Le autorità sanitarie prevedono "uno scenario all' italiana", con penurie di posti-letto, quando la curva dei contagi avrà raggiunto i livelli europei. Ci sono ospedali che devono chiedere al personale medico e infermieristico di riusare le mascherine perché hanno esaurito le scorte. Però la conversione di Trump ha già ottenuto un risultato, sul piano politico: mette in difficoltà i democratici. I tre Stati più colpiti dall' epidemia - Washington, California e New York - hanno governatori di sinistra. Le autorità locali hanno ampi poteri sulla sanità ma hanno anche bisogno dell' aiuto federale. Perciò i tre governatori sono generosi di elogi verso il "nuovo Trump" e il sostegno che promette. A New York il governatore Andrew Cuomo, democratico, ha ringraziato pubblicamente il presidente per l' annunciato invio di una nave- ospedale con mille letti e 12 sale operatorie. Si è scoperto però che la nave promessa, la Uss Comfort, è ferma per lavori di riparazione nel cantiere di Norfolk e non arriverà a New York per diverse settimane. Altri governatori hanno elogiato la decisione di Trump di chiudere la frontiera col Canada. In un gesto distensivo verso l' opposizione democratica, la polizia federale ha sospeso durante il coronavirus le retate di immigrati clandestini.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 20 marzo 2020. È in arrivo una maxi- manovra contro la recessione in America: come in passato, è probabile che sia la più rapida e la più robusta. Un trilione, mille miliardi di dollari, solo per la politica di bilancio: sussidi diretti ai cittadini e alle imprese, sgravi fiscali, altri investimenti d' emergenza. Più tutto quel che sta facendo la Federal Reserve, ormai impegnata con interventi quotidiani sui mercati: la banca centrale avrà speso 250 miliardi di dollari in una settimana per comprare titoli del Tesoro, senza calcolare il sostegno quotidiano per il mercato monetario dove si scambiano quei titoli a brevissima scadenza che sono l' ossigeno del sistema bancario. La prima tranche di spesa pubblica legata all' emergenza coronavirus è stata già approvata dal Congresso e firmata dal presidente: sono gli 8,3 miliardi di aiuti immediati alle agenzie sanitarie direttamente impegnate nella lotta all' epidemia. Una seconda tranche di 50 miliardi è stata sbloccata dalla Casa Bianca con la dichiarazione dello stato di emergenza ed è andata alla protezione civile (Federal Emergency Management Agency), più alcuni sussidi alle piccole imprese perché paghino il salario ai dipendenti in malattia. Ma il grosso sta nel pacchetto di aiuti alle famiglie e alle imprese che Trump sta negoziando con il Congresso. 1.000 miliardi è una prima stima ma non si esclude che possa salire a 1.500. I dettagli vengono discussi tra l' esecutivo, il Senato e la Camera, quest' ultima essendo in mano a una maggioranza democratica; potranno esserci variazioni ma l'atmosfera di massima allerta spinge verso un compromesso bipartisan. La versione già in esame al Senato include un assegno da 1.200 dollari da recapitare ad ogni lavoratore single con un reddito annuo sotto i 75.000 dollari. L' assegno salirebbe a 2.400 dollari per un nucleo familiare, più 500 dollari per ogni figlio a carico. Questi sussidi diretti ai cittadini sarebbero decrescenti nella fascia da 75.000 a 99.000 dollari annui di reddito (il doppio per un nucleo familiare), e scomparirebbero al di sopra di quella soglia. Gli aiuti settoriali includono 50 miliardi per le compagnie aeree. Altri settori si sono fatti avanti con richieste di sussidi. La Boeing da sola ha presentato una richiesta di 60 miliardi fra aiuti e prestiti agevolati. La Casa Bianca vuole includere 150 miliardi di prestiti pubblici garantiti per le aziende "sottoposte a stress finanziario acuto" per l' epidemia. La delegazione democratica che controlla la Camera, guidata da Nancy Pelosi, preme per ottenere maggiori aiuti ai lavoratori, in particolare nelle fasce meno garantite. Uno degli interventi che i democratici vogliono con urgenza riguarda il salario durante le assenze malattia: oltre un terzo dei dipendenti americani non vi ha diritto, e questa percentuale è ancora più alta nei settori colpiti dalle chiusure d' emergenza come ristorazione, turismo, spettacoli. La dimensione della manovra americana è proporzionale a un danno economico le cui stime vanno crescendo di giorno in giorno. Secondo l' Economic Policy Institute tre milioni di americani avranno perso il lavoro entro fine giugno, di cui un milione sarà già disoccupato a marzo. Ben più pesante, l' associazione confindustriale degli operatori turistici vede solo nel suo settore 4,6 milioni di licenziamenti in arrivo. Perfino il segretario al Tesoro Steve Mnuchin è pessimista: al Congresso ha paventato un tasso di disoccupazione al 20%, dall' attuale 3,5%. Sia i democratici sia una parte dei repubblicani vogliono ottenere delle garanzie che non si ripeta lo scandalo del 2009, quando le Amministrazioni Bush e Obama spesero 700 miliardi per il salvataggio delle banche senza imporre tetti ai superstipendi dei banchieri. Trump ha manifestato disponibilità a mettere delle condizioni.

Trump vara mille miliardi di aiuti. «Sono un presidente in guerra». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Giuseppe Sarcina. Misure di pronto soccorso economico da mille miliardi. Pentagono in campo per procurare maschere protettive, ventilatori e kit per i test, come quelli arrivati in Tennessee dalla base militare di Aviano. Una nave ospedale pronta ad attraccare nel porto di New York, un’altra probabilmente a San Francisco. Donald Trump scorre l’elenco dei «provvedimenti di emergenza» nella conferenza stampa alla Casa Bianca. «Sono un presidente di guerra», dice, completando la metamorfosi politica. Un cambio di toni e di contenuti imposto dai terrificanti modelli matematici, dalle falle del sistema sanitario, dal rischio concreto di una devastante recessione, come annunciano i crolli ripetuti a Wall Street. Solo due spunti: senza interventi decisi il numero dei morti arriverebbe a 2,2 milioni tra giugno e luglio, mentre il tasso di disoccupazione potrebbe schizzare al 20%, come ha detto il Segretario al Tesoro Steven Mnuchin al Congresso. Di fatto sarebbe la fine della presidenza Trump. Ecco perché il leader americano è ormai impegnato in prima persona: un’ora di briefing in diretta con i reporter praticamente ogni giorno. I focolai si accendono uno dopo l’altro nel Paese, e il contagio sembra sul punto di divampare nella Grande Mela. In serata si tirano le fila: 7.324 casi, di cui 2.382 solo nello Stato di New York. I morti sono 115. Casa Bianca, Tesoro e Senato stanno mettendo a punto il pacchetto economico. La parte più cospicua, 500 miliardi di dollari, sarà distribuita, si legge nella bozza preparata da Mnuchin, «ai singoli contribuenti» e sarà modulata in base al reddito e alle dimensioni del nucleo familiare. I versamenti saranno due: il 6 aprile e il 18 maggio. Quale sarà l’ammontare? I media americani scrivono: mille dollari. Trump ha precisato che «sarà un grande importo, ma non è stato ancora determinato». Mnuchin ha fatto sapere che «la cifra sarà superiore a quella pubblicata dalla stampa». La logica, comunque, non è quella di un reddito di cittadinanza, ma piuttosto di un risarcimento per gli stipendi che andranno persi con il blocco delle attività. Altri soldi potrebbero arrivare più avanti. I restanti 500 miliardi serviranno per garantire prestiti agevolati ai settori più colpiti: 50 miliardi alle compagnie aeree; 150 miliardi agli hotel, casinò, società di crociera; 300 miliardi alle piccole imprese. I numeri vengono tirati da una parte e dall’altra dai lobbisti in piena azione al Congresso. Tutto questo, però, non basta per placare i mercati. Wall Street ha interrotto le contrattazioni per eccesso di ribasso, proprio mentre Trump spiegava la manovra economica. Poi l’indice Dow Jones si è inabissato, perdendo circa l’8%. Motivo? Mille miliardi sono pochi. Ce ne vorrebbero almeno il doppio, dicono gli investitori.

Andrea Salvadore per il suo blog, americanatvblog.com il 19 marzo 2020. Non solo la produzione di mascherine a cui si stanno convertendo grandi catene dell’abbigliamento e fabbriche tessili. Leggiamo di una possibile grande ritaratura del complesso militare industriale negli Stati Uniti. Non si vendono abiti e macchine. Detroit è ferma. Si è fermato anche il gioiello di Wall Street, la Tesla. Fino al 30 marzo tutte le fabbriche dell’auto sono chiuse e la sanificazione è in corso. L’industria automobilistica è quella che ha la capacità, il volume, l’intelligenza per produrre i ventilatori utilizzati nelle terapie contro il virus. Di questo si parla in questi giorni. Nel 1940 (dopo l’invasione di Polonia, Belgio, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo) gli Stati Uniti non erano la potenza militare che sono oggi. La sua aviazione era al diciottesimo posto nel mondo per numero di velivoli, con 54 bombardieri. Il presidente Roosevelt chiese di arrivare alla produzione di 50.000 aerei. L’industria aeronautica non era in grado di soddisfare la domanda. Entrò in campo Detroit. Nel 1944 l’aviazione poteva contare su 100.000 apparecchi. Nel 1942 si realizzava un solo B-24 al mese. Due anni dopo fu possibile parcheggiarne fuori dalle fabbriche Ford 650 al mese. Si lavorava sette giorni alla settimana su piu’ turni. Lasciamo da parte ora il dibattito che animò e seguì quei giorni. Le guerre mutano la geografia umana di un paese. Risistema scale di priorità. Fanno sfracelli di disoccupati e aprono drammatici scenari di occupazione, al tempo stesso, non solo nella sanità. Come sta accadendo già ora negli Stati Uniti. Senza gli ammortizzatori sociali a cui è abituata una larga porzione del nostro tessuto sociale. Il destino di un paese sta nella rapidità delle decisioni e nella sua possibilità di incidere sul corso degli avvenimenti. Il dibattito sulla decrescita felice potrà essere ripreso quando arriverà la pace, dopo la guerra.

DAGONEWS il 18 marzo 2020. L'esercito americano è pronto a scendere in campo per la guerra al coronavirus, aprendo i suoi laboratori, distribuendo attrezzature mediche e preparando le sue navi ospedaliere ai pazienti. Il segretario della Difesa Mark Esper ha affermato che le forze armate statunitensi forniranno fino a 5 milioni di mascherine, altri dispositivi di protezione individuale, nonché fino a 2.000 ventilatori specializzati. Ha annunciato anche che il Pentagono metterà a disposizione 16 laboratori per i test e che metterà in campo più uomini della National Guard and Reserve. L'US Naval Ship Comfort e la sua nave gemella, la USNS Mercy, si stanno preparando per essere inviate in zone calde degli Stati Uniti se il numero di casi di coronavirus metterà in crisi gli ospedali. Al momento non c’è stata alcuna richiesta, ma le navi sono pronte ad accogliere i pazienti non affetti da coronavirus per alleggerire il carico sugli ospedali: ogni nave può ospitare 1.000 pazienti ed è progettata principalmente per fornire assistenza a breve termine. La Comfort è attualmente nel porto di Norfolk, in Virginia, e la Mercy è a San Diego: ci vorranno da uno a tre giorni per portare una o entrambe le navi nelle posizioni in cui sono di supporto nell’emergenza. Il presidente Trump ha detto che l'America è pronta ad arruolare la US Army Corp of Engineers se fosse stato necessario e il Department of Veterans Affairs ha anche iniziato a prepararsi a rendere disponibili, se necessario, risorse tra suoi 170 centri medici e oltre 1.000 siti ambulatoriali. Le unità della Air and Army National Guard, altra risorsa militare, sono state convocate in 22 stati, e 1.500 membri chiamati in servizio.

Francesca Cavallo per “la Stampa” il 18 marzo 2020. Con la dichiarazione dello stato di emergenza da parte di Trump, com' era da aspettarsi, la vita negli Stati Uniti è cambiata molto rapidamente. Domenica pomeriggio il sindaco di Los Angeles, Eric Garcetti, ha annunciato la chiusura di bar, ristoranti, cinema, teatri e palestre. Da un' ora all' altra il volto della città, il volto del Paese è cambiato. La reazione al coronavirus sembra manifestarsi con una identica sequenza ovunque nel mondo: si parte dalla negazione del problema. Poi il problema viene cautamente registrato, ma sminuito. Solo dopo un po' di tempo, in genere molto più tardi di quello che servirebbe, si arriva a guardare in faccia la minaccia nella sua effettiva gravità e ad agire di conseguenza. I governi di quasi tutto il mondo (tranne quello di El Salvador, che ha messo in quarantena i cittadini senza che ci fosse un solo caso) hanno reagito seguendo lo stesso copione e, così facendo, hanno rinunciato all' occasione di prepararsi e di preparare i cittadini a questa crisi in modo adeguato. Uno dei motivi per cui la preparazione ai disastri è estremamente importante è che aiuta le persone e le organizzazioni ad avere un piano e a familiarizzare con l' idea che la propria vita possa andare incontro a un cambiamento e le aiuta a evitare di agire in uno stato di panico. Nella gestione dei disastri evitare che intere comunità agiscano in modo egoista e irrazionale è cruciale. In tutti i Paesi colpiti gravemente dal coronavirus finora, abbiamo visto come il passaggio troppo repentino dallo sminuire il coronavirus all' essere relegati in casa e terrorizzati dall' uscire ha scatenato in molti cittadini il panico: per esempio, ha spinto gli italiani a svuotare i supermercati e ad accaparrarsi molto più cibo di quello di cui avevano bisogno. In Olanda, appena è arrivata la notizia della chiusura dei coffee shops, la gente è stata in fila per ore per assicurarsi di avere abbastanza marjuana per la quarantena. Qui a Los Angeles, uscendo in giardino domenica mattina ho incrociato il mio vicino di casa mentre trascinava a fatica due grosse taniche di carburante. L' America è, infatti, terra di «survivalists» (coloro che si preparano ossessivamente per disastri ed emergenze) e qui a sparire dagli scaffali non sono stati solo carta igienica, pizze surgelate, disinfettanti e droghe leggere. Nelle ultime settimane sono stati i negozi di armi da fuoco ad aver fatto affari d' oro. La maggior parte dei clienti non avevano mai comprato un' arma prima, riporta il «New York Times». Sabato scorso alcune armerie di Los Angeles avevano una fila di clienti che arrivava sul marciapiedi e si snodava intorno all' isolato. Alcuni hanno aspettato fino a cinque ore per poter essere serviti. Nel solo mese di Febbraio del 2020 sono stati effettuati 2.8 milioni di «background checks», i controlli che vengono effettuati su un database dell' F.B.I. quando si vuole comprare un' arma da fuoco. È un aumento del 36% rispetto allo scorso anno. Non solo: secondo Ammo.com un sito per la vendita online di munizioni, gli acquisti sono saliti del 68% fra il 23 febbraio e il 4 marzo. Nelle conferenze stampa della Casa Bianca Trump ha ribadito più volte che non c' è nessuna nazione al mondo più pronta degli Stati Uniti ad affrontare questa emergenza. Gli americani però non sembrano credergli. Hanno paura che il coronavirus mandi in tilt il 911 e che ognuno debba difendere famiglia e proprietà senza poter contare sulle forze dell' ordine, proprio come era successo durante l' uragano Katrina. Il Covid-19 sottoporrà a test estremi non soltanto i sistemi sanitari, ma anche i singoli individui e le strutture più profonde di ognuno dei nostri Paesi.La differenza tra gli Stati Uniti e il resto del mondo è che qui la gente si prepara ad affrontare questo test armata fino ai denti. È bene augurarsi che Trump, i governatori e i sindaci riescano a mantenere un controllo molto serrato della situazione, perché ogni ulteriore errore può essere la scintilla di troppo che fa saltare quella che è evidentemente una vera e propria polveriera.

DAGONEWS il 17 marzo 2020. Le impressionanti immagini aeree di Clearwater Beach, in Florida, dove centinaia di visitatori si sono riversati in barba agli avvertimenti sulla distanza sociale. La pandemia di coronavirus ha fatto 6.500 morti in tutto il mondo: ci sono 4.700 casi confermati e più di 90 decessi negli Stati Uniti. Alcune città e diversi stati hanno risposto all’emergenza chiudendo scuole bar, ristoranti e locali in cui si possono creare assembramenti, chiedendo di prendere le distanze sociali finché il virus non è stato contenuto. Nonostante gli sforzi, centinaia di ragazzi in spring break hanno sfidato il contagio.

(LaPresse il 17 marzo 2020) - "Alcuni politici americani cercano di stigmatizzare la Cina con il Covid-19, cosa che la Cina condanna fermamente. Esortiamo la parte americana a fermare questa pratica indegna". E' la risposta del portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, dopo che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, in un tweet aveva parlato di "virus cinese" e del supporto che il governo avrebbe fornito ad alcuni settori economici, come le compagnie aeree, che ne erano stati "particolarmente colpiti".

(LaPresse/AP il 17 marzo 2020) - Il Presidente Usa Donald Trump ha riconosciuto che la pandemia del coronavirus potrebbe fare andare l'economia americana in recessione e ha detto che la nazione potrebbe avere a che fare con il virus fino a "luglio o agosto". Il presidente degli Usa Donald Trump in conferenza stampa alla Casa Bianca ha riconosciuto che la pandemia non era "sotto controllo" negli Stati Uniti o a livello globale, ma ha dichiarato di non avere ancora in programma di chiedere restrizioni sui viaggi nazionali. La Casa Bianca ha esortato tutti gli anziani americani a rimanere a casa e tutti a evitare la folla e a evitare di mangiare fuori nei ristoranti come parte delle linee guida generali volte a combattere l' ondata di casi di coronavirus. Il presidente Donald Trump e la task force sul coronavirus hanno pubblicato le linee guida mentre il governo degli Stati Uniti si muove per cercare di attenuare l'impatto del coronavirus. Tra le nuove linee guida, nei prossimi 15 giorni, gli americani non dovrebbero riunirsi in gruppi di più di 10 persone, viaggi discrezionali e visite di carattere sociale dovrebbero essere evitati. Se qualcuno in una abitazione risulta positivo al virus, tutti coloro che vivono lì dovrebbero restare a casa.

Paolo Mastrolilli per lastampa.it il 17 marzo 2020. L’accelerazione che il presidente Trump ha impresso alle iniziative per contrastare il coronavirus è nata da uno studio britannico, secondo cui l’epidemia potrebbe arrivare a fare 2,2 milioni di morti negli Stati Uniti, se non verranno prese misure drastiche per cercare di rallentarla. Lo ha rivelato il New York Times, e lo confermano i riferimenti impliciti a questo testo fatti dai leader della task force della Casa Bianca. La studio è stato realizzato da un gruppo di epidemiologi dell’Imperiale College di Londra, guidati dal professore Neil Ferguson, e specializzati nei modelli di previsione di questi fenomeni. Il testo dice che senza un intervento massiccio del governo per rallentare il contagio e sopprimere i nuovi casi, il coronavirus potrebbe arrivare a fare oltre due milioni di vittime negli Usa. Il documento era stato anticipato alla Casa Bianca una settimana fa, e poi una copia è stata consegnata durante il fine settimana. L’allarme ha avuto un impatto forte, e infatti ieri il governo federale ha in pratica adottato il "lockdown" del paese, chiedendo agli americani di restare a casa ed evitare per i prossimi 15 giorni ogni incontro tra più di 10 persone. Gli Usa si bloccano per fermare il coronavirus, ed evitare di finire come l’Italia, mentre Trump dice che l’emergenza potrebbe durare fino ad agosto ed ammette che l’economia scivolerà nella recessione. Dopo quasi due mesi di messaggi contraddittori, con cui il presidente ha spesso sminuito la gravità della pandemia per interessi personali e politici, la Casa Bianca ieri ha cambiato decisamente tono. Trump ha presentato un documento intitolato "15 Days to Sloww the Spread", che in sostanza raccoglie il suggerimento fatto domenica dal direttore dei National Institute of Allergy and Infectious Diseases Anthony Fauci di bloccare il paese, per rallentare il virus ed abbassare la curva del contagio, allo scopo di non seguire la strada già percorsa da Cina, Corea del Sud e Italia. Il teso sollecita gli americani a non uscire da casa, evitare i viaggi non essenziali, e gli incontri con più di 10 persone. Non si tratta ancora di una quarantena obbligatoria per tutta l’America, come quella in corso nel nostro paese, ma non è escluso che lo diventi. Gli scienziati britannici avevano suggerito di compiere questo passo, ma Trump ha preferito una soluzione intermedia. Il capo della Casa Bianca ha detto di non aver ancora ordinato un blocco nazionale dei trasporti, anche se qualunque aereo che decolla è un incontro tra più di 10 persone in un ambiente chiuso, ma ha aggiunto che lo sta considerando e potrebbe deciderlo nei prossimi giorni, per isolare le regioni più colpite. A questo si è aggiunto anche il giallo di possibili interferenze straniere, finalizzate a generare il caos negli Stati Uniti. Da domenica sera, infatti, sono iniziate a girare con molta insistenza voci che annunciavano l’imminente blocco del paese. Trump lo ha considerato ma non l’ha ancora deciso, e il sospetto è che le indiscrezioni siano state seminate ad arte da qualche potenza straniera interessata ad indebolire gli Usa. Il presidente ha ammesso che «la situazione non è sotto controllo», a differenza di quanto aveva detto il giorno prima, e ha rivelato di aver spiegato a suo figlio che «è molto cattiva». Quindi ha detto che le stime su quanto durerà sono difficili, ma l’emergenza potrebbe continuare «fino a luglio o agosto». Trump ha riconosciuto che la recessione è inevitabile, anche visto il crollo di ieri a Wall Street dopo l’azzeramento dei tassi da parte della Fed, ma ha aggiunto che «quando sconfiggeremo il virus tutto si aggiusterà». L’emergenza è ancora più avanzata sul piano locale. Il New Jersey ha ordinato il coprifuoco, obbligando tutti a restare a casa a partire dal pomeriggio, mentre San Francisco ha vietato di andare in strada. New York ha chiuso le scuole, i bar e i ristoranti, che possono solo consegnare cibo da asporto. L’Ohio poi ha rinviato le primarie democratiche, che erano in programma oggi, ma si svolgeranno in normalmente in Florida, Illinois e Arizona. La scommessa è che 15 giorni di blocco basteranno a frenare il virus, ma ormai potrebbe già essere troppo tardi.

Coronavirus, il risveglio di New York al centro dell’epidemia. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Massimo Gaggi. Ore 11. Quella del primo giorno di chiusura di scuole, bar, ristoranti e altri locali pubblici è una giornata fredda e di sole scintillante. Sulla First Avenue una cordata di bimbi dell’asilo con grossi pettorali gialli, legati uno all’altro con nastri e moschettoni, fa lo slalom davanti a un supermercato tra le casse vomitate a getto continuo dai camion per riempire di nuovo gli scaffali dopo il «panic shopping» del fine settimana: le aule sono vuote, ma evidentemente tra le maestre il concetto del distanziamento sociale fatica ad imporsi. Vale anche per i supermarket: tutti parlano delle immagini che arrivano dall’Italia e il Surgeon General Jerome Adams, l’authority che dovrebbe vegliare sulla salute degli americani, avverte che i dati di oggi per il coronavirus sono simili a quelli italiani di due settimane fa. Ancora giovedì scorso minimizzava vicino al presidente: «Stiamo facendo pochi test, è vero, ma se l’epidemia fosse estesa avremmo un’impennata dei ricoveri: e, invece, niente». Ora ha cambiato rotta: «Stando alle proiezioni, nei prossimi giorni potremmo trovarci nelle stesse condizioni dell’Italia». Poi tocca a Donald Trump che, con un brusco cambio di tono, ammette che l’epidemia non è sotto controllo come aveva detto anche venerdì: potrebbe andare avanti fino a luglio o agosto e l’economia potrebbe entrare in recessione. Il presidente sollecita la chiusura delle scuole e chiede che non si riuniscano gruppi di persone di più di 10 persone. Tutti a casa e niente viaggi se non è necessario. Ma sono ancora direttive, non obblighi. La città sembra vivere una giornata semifestiva: il traffico non è intenso ma c’è, marciapiedi affollati, tra la gente più stupore che panico. Sullo scaffale del giornalaio all’angolo America Oggi, il quotidiano della comunità italiana, ha deciso che non è tempo di messaggi rassicuranti: il titolo a tutta pagina è un sobrio «Giornata apocalittica». Davanti a un supermercato Pioneer una signora appoggiata al deambulatore osserva, attraverso le vetrate, le lunghe file alle casse: «Ma non dovrebbero stare lontani? Non hanno deciso che in nessun locale ci possono essere più di cinquanta persone?». Ha ragione, ma qui le norme di comportamento vengono ancora interpretate con una certa superficialità. Dentro l’unico segnale allarmante lo trovi nel reparto carta: sparita quella igienica, c’è ancora qualche rotolo per la cucina mentre un cartello avverte che il negozio ha deciso di razionare: «Un pacco solo per famiglia, sorry». La Borsa crolla di nuovo, intorno ai bancomat c’è più gente del solito. Anche qui niente panico ma precauzione: il New York Times ha scritto che in qualche sportello mancano i biglietti da 100. Il più allarmato è il governatore Andrew Cuomo. Ha deciso che è meglio prepararsi tutti al peggio che tranquillizzare ed è sconcertato per la mancanza di aiuto da parte del governo federale: «Qui tutti parlano di abbassare e spostare in avanti la curva della diffusione dell’epidemia. Ma quella che arriverà non è una curva: è un’onda che travolgerà gli ospedali. Nel mio stato ci sono 53 mila posti letto, tremila dei quali in rianimazione, già occupati per l’80 per cento. Degli altri, 60 hanno già pazienti di coronavirus. E siamo solo all’inizio dell’epidemia. Nessuna autorità locale può costruire in pochi giorni unità d’emergenza o ospedali da campo: lo deve fare il governo centrale, come negli altri Paesi, dalla Cina alla Corea. Deve venire subito il genio militare, stiamo perdendo giorni preziosi». Da una settimana Cuomo e il sindaco Bill de Blasio, i due acerrimi nemici italoamericani della politica di New York, chiedono a Trump, in pieno accordo, interventi d’emergenza e di non minimizzare. E de Blasio non esclude un coprifuoco totale della città di New York: «Dobbiamo avere la mentalità da tempi di guerra». Intanto in otto giorni nello Stato i casi accertati di Covid-19 sono passati da 105 a 950, per la metà (463) localizzati nella metropoli della East Coast. Da ieri 143 casi in più in città. Tra essi anche l’attore afroamericano Idris Elba. Ma le autorità sanno che il contagio reale è molto più esteso, visto il basso numero di test fatti. A questo punto, hanno confessato i dirigenti sanitari in una nota riservata inviata ad alcuni diplomatici dell’Onu, forse è anche inutile farli a tappeto: meglio convincersi che, in un modo o nell’altro, tutti in questa città sono venuti a contatto col virus e puntare sull’isolamento. Fino a settembre, prevede la nota, mentre de Blasio ipotizza scuole chiuse per tutto l’anno accademico o addirittura fino alla fine dell’anno solare.

·        …in Argentina.

Argentina, finisce il lockdown più lungo del mondo: pochi risultati e popolazione alla fame. Le Iene News il 9 novembre 2020. Primo vero allentamento oggi dal 20 marzo scorso del lockdown più lungo del mondo in Argentina, durato oltre sette mesi. I risultati non sembrano però decisivi in un paese tra i più colpiti dal coronavirus. Devastate l’economia, che già prima del Covid marciava verso il fallimento finanziario, e la vita di milioni di persone ridotte alla fame. Si avvia verso la fine in Argentina dopo oltre 7 mesi il lockdown più lungo del lungo del mondo, lasciando dietro di sé risultati ancora non decisivi nella lotta a una gigantesca epidemia locale di coronavirus e una popolazione allo stremo, letteralmente alla fame. In un paese che già prima del Covid marciava verso una nuova bancarotta finanziaria. Come annunciato dal presidente Alberto Fernández, da oggi la capitale Buenos Aires e la sua provincia, dove vive un terzo dei cittadini argentini (16 milioni su 44), passano dal regime di quarantena in vigore dal 20 marzo a una fase di semplice distanziamento sociale. L’epidemia però qui non è finita, si registrano solo otto settimane consecutive di diminuzione dei casi di contagio da Covid-19 nell’area della capitale, mentre anche le province dell'interno, come quella di Santa Fe, sta cominciando una riduzione delle  persone infettate. L’Argentina resta il nono paese al mondo per numero di casi di Covid: un milione e 242mila, con 33.560 morti. E lo stesso presidente peronista Fernández ammette che “il problema è lungi dall'essere risolto”, con oltre 4.500 mila persone in rianimazione e una occupazione dei letti da parte dei malati di coronavirus di oltre il 60%. Qui sotto potete vedere i grafici dell’andamento nel paese rispettivamente di contagi e morti, purtroppo per niente rassicuranti. Pandemia e lockdown sembrano intanto aver assestato il colpo di grazia all’economia che già prima del Covid viaggiava appunto verso la bancarotta finanziaria, già disastrosamente affrontata nel 2002 quando l’Argentina si arrese ammettendo di non poter pagare più i propri debiti. La crisi economica e la povertà diffusa, anche nel ceto medio, sono devastanti oggi come allora, ancora peggio dopo oltre sette mesi di lockdown. Il paese è tecnicamente fallito di nuovo secondo le principali agenzie di rating mondiale mentre continuano le trattative per evitare il nono default economico formale della sua storia. L’economia reale e la vita delle persone sono a pezzi. “Una famiglia su quattro non ce la fa proprio poiché vivevano di ‘changas’, di lavori alla giornata”. Il professor Eduardo Donza, economista dell’Università Cattolica Argentina, ha raccontato all’agenzia cattolica AgenSir i risultati di un primo studio: “È completamente al palo il 45% dei piccoli imprenditori e commercianti. Ma i problemi esistono anche per quel 35% di lavoratori stabili e in regola. Il calo complessivo della produzione supera il 50% e ci sono ripercussioni sulle imposte incassate dagli enti pubblici. Solo a Buenos Aires crollano del 40%”. “Cosa vogliamo mettere al centro? La finanza, i bond, le speculazioni o la dignità della persona umana?” ha detto sempre ad AgenSir monsignor Gustavo Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires citando Papa Bergoglio, nato qui ed ex arcivescovo della capitale. Carrara si concentra sul dramma delle “villas”, le favelas argentine dove la fame distrugge sempre più vite: “In molti casi qui non solo non c’è il pane ma nemmeno l’acqua potabile: come si fa a dire ai bambini che si devono lavare le mani per prevenire i contagi?”.

Studenti italiani in Argentina: “Discriminati per la nazionalità in diretta tv”. Le Iene News il 21 aprile 2020. Tre studenti italiani a Buenos Aires ci hanno contattati perché in Argentina si sono sentiti “attaccati dai giornalisti perché siamo italiani”. Li abbiamo intervistati per capire come sono andate le cose. “I giornalisti si sono appostati sotto casa tutto il giorno, continuavano a sottolineare che siamo italiani”. Simona, Caterina e Giovanni sono tre giovani italiani che si trovano a Buenos Aires. Le due ragazze sono arrivate in Argentina il 20 febbraio tramite un programma Erasmus, mentre Giovanni è nel paese dal 31 gennaio per un tirocinio. “Io e Caterina siamo andate subito a vivere insieme in un appartamento”, ci racconta Simona. “Mentre Giovanni inizialmente stava in un altro appartamento, ma quando nel paese è stato annunciato il lockdown, prima che diventasse effettivo, è venuto a stare da noi, era il 19 marzo”. Ma allo scadere del contratto, racconta Simona, i ragazzi decidono di cambiare appartamento per via dei disagi che la casa in cui stavano avrebbe presentato. “L’11 aprile scadeva il contratto e siccome l’appartamento era pieno di scarafaggi e c’erano porte e finestre rotte, abbiamo cercato online un’altra casa”. 

Simona sottolinea che prima di trasferirsi i ragazzi avrebbero chiesto il permesso al commissariato, dato che il paese era già in lockdown per il coronavirus. “In caserma ci dicono che possiamo trasferirci”, dice Simona. “Ci spiegano come compilare l’autocertificazione online, dove si forma un QR code che mostra che tu stai circolando per motivi di forza maggiore”. Entrati nel nuovo appartamento all’interno di un palazzo, la Polizia sarebbe andata a casa dei ragazzi per effettuare un controllo. “Abbiamo mostrato la certificazione e spiegato che nel precedente appartamento scadeva il contratto ed era disagiato per via di blatte e altro. La polizia ha controllato anche i nostri passaporti con la data di ingresso nel paese e visto che era tutto a posto sono andati via. Mentre i vicini urlavano e si lamentavano del fatto che ci fossimo spostati lì”. La notizia presto arriva ai giornalisti argentini. “Ci siamo trovati i giornalisti sotto casa”, racconta Simona. “Ci hanno attaccati, restando appostati sotto casa tutto il giorno. La giornalista ci prendeva in giro per via degli scarafaggi. Continuavano a ripetere che siamo italiani, ci siamo sentiti attaccati più per la nostra nazionalità che non per il fatto di esserci trasferiti”.

Argentina, incostituzionale il divieto di passeggiata per gli anziani. Il Dubbio il 21 aprile 2020. La misura prevedeva l’obbligo per gli anziani di richiedere un vero e proprio permesso per uscire di casa nonchè relative sanzioni in caso di mancato rispetto. E’ incostituzionale il divieto di circolazione senza permesso per i maggiori di 70 anni, che doveva entrare in vigore oggi a Buenos Aires come misura di contenimento dell’epidemia da nuovo coronavirus. Lo ha dichiarato un giudice del foro amministrativo e tributario accogliendo il ricorso presentato contro il decreto con cui il capo di governo della città, Horacio Larreta, obbligava le persone più anziane a ottenere un permesso per uscire di casa. Al “di là delle buone intenzioni”, si legge nel dispositivo, imporre “alle persone maggiori di 70 anni di comunicare a un numero di assistenza la realizzazione di spostamenti minimi ed indispensabili per l’approvvigionamento di articoli di prima necessità” finisce per penalizzare gli stessi anziani, costretti a soddisfare una esigenza più gravosa “che per il resto della società”, e rappresentando un “discriminazione che ne limita i diritti e le garanzie”. La misura annunciata inizialmente da Larreta prevedeva l’obbligo per gli anziani di richiedere un vero e proprio permesso per uscire di casa nonchè relative sanzioni in caso di mancato rispetto. L’annuncio aveva destato fin dall’inizio numerose polemiche, tanto che lo stesso governo della città di Buenos Aires aveva poi fatto un dietro front parziale trasformando il permesso obbligatorio in una comunicazione telefonica facoltativa al servizio di assistenza. Nelle intenzioni del governo di Larreta l’obiettivo era quello di preservare il più possibile la salute della fascia di età considerata più a rischio: dai dati ufficiali, otto dei dieci morti nella capitale sono proprio nella popolazione anziana. Buenos Aires, che ha statuto di provincia e governo autonomo, insieme alla provincia di Buenos Aires, rappresenta l’area con maggior presenza di contagio da nuovo coronavirus, con 1.643 contagi in totale e 94 morti.

·        …in Brasile.

Da huffingtonpost.it il 31 luglio 2020. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha reso noto che sta assumendo antibiotici per un’infezione che lo ha fatto sentire debole, dopo aver trascorso settimane in isolamento a causa del coronavirus. Bolsonaro, riferisce Sky News, è apparso durante una trasmissione in diretta scherzando sul fatto di avere “muffa” nei suoi polmoni “dopo 20 giorni al chiuso”. “Ho appena fatto un esame del sangue. Ieri mi sentivo un po ‘debole. Hanno anche trovato un po’ di infezione. Ora sto assumendo antibiotici”, ha spiegato, senza fornire ulteriori dettagli. Il leader brasiliano è risultato negativo al test sabato scorso, dopo 3 settimane di coronavirus. Ieri sua moglie è risultata positiva. Bolsonaro, anche se è stato contagiato, ha continuato a minimizzare la gravità del Covid, insistendo che le restrizioni alle imprese sarebbero state più dannose della malattia. Ma in tutto il paese l’epidemia continua a galoppare, con oltre 91.000 morti e 2.610.000 contagi, il numero più alto nel mondo dopo gli Stati Uniti. Notizia di ieri la positività al testo per Covid-19 di Michelle Bolsonaro, moglie del presidente brasiliano. A renderlo noto è stata la Presidenza del Brasile in un comunicato. ”È in buona salute e seguirà tutti i protocolli stabiliti. La first lady è seguita dall’equipe medica della Presidenza della Repubblica”, si legge nella nota. Secondo quanto riportato dal quotidiano Folha de Sao Paulo, come suo marito, la first lady brasiliana dovrà restare in isolamento in un’area del Palazzo Alvorada, residenza del presidente, senza avere contatti con le sue due figlie Laura e Leticia. Ieri, Michelle Bolsonaro ha partecipato a una cerimonia al Palazzo Planalto, sede del governo, durante la quale ha avuto contatti con le ministre Tereza Cristina (Agricoltura) e Damares Alves (Donna). La first lady ha parlato indossando una mascherina, ma le ministre hanno utilizzato il suo stesso microfono e pulpito. Per via di questi contatti, Cristina e Alves hanno riferito che si sottoporranno al test per il coronavirus e hanno annullato i loro programmi di appuntamenti. Anche il ministro della Scienza e della Tecnologia del Brasile Marcos Pontes è risultato positivo al Covid-19. Lo ha annunciato lui stesso su Twitter. Si tratta del quinto membro del gabinetto del presidente Jair Bolsonaro infettato dal nuovo coronavirus.

Brasile, il presidente Bolsonaro è positivo al coronavirus. Pubblicato martedì, 07 luglio 2020 da La Repubblica.it. "Guardate il mio viso. Sto bene". Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro annuncia ai reporter la positività al Covid-19, così: togliendosi la mascherina e arretrando di qualche passo. L'annuncio lo ha dato lo stesso Capo di Stato, che si sarebbe sentito male dopo una festa a casa dell'ambasciatore americano. Le immagini della serata circolate sui media mostrano tutti gli invitati senza mascherina, quella contestata dal presidente, imposta da un’ordinanza dal Tribunale Superiore Federale, abolita con un successivo decreto dallo stesso Bolsonaro. "Le misure di contenimento possono essere più dannose della stessa pandemia" ha ripetuto più volte. Dopo gli Stati Uniti, il Brasile è il secondo Paese al mondo focolaio del virus, con più di 70mila morti, 1 milione e 630mila contagiati e gli ospedali al collasso. Nonostante questo il suo presidente ha sempre negato l'emergenza facendosi gioco del virus, in pubblico senza protezione e stringendo mani a destra e sinistra. Dei sintomi da Covid, ne ha parlato lui stesso in un incontro pubblico lunedì, in cui ha detto di essersi sottoposto al test e di assumere l'idrossiclorochina, il farmaco antimalaria usato dal suo collega Donald Trump.  65 anni compiuti a marzo, Bolsonaro ha dichiarato di avere 38°  di febbre e una saturazione di ossigeno nel sangue del 96%. A causa dei sintomi erano stati annullati gli impegni in programma per il resto della settimana ma lui ha comunque incontrato i suoi sostenitori nel giardino del Palácio da Alvorada, residenza ufficiale del presidente. Poco prima di ricevere l'esito del test, il presidente aveva rilasciato un'intervista a Cnn Brasil dicendo che si sentiva molto meglio e che la febbre era scesa. Tante le frasi negazioniste del leader di estrema destra, ma quella che suscitò maggiore indignazione fu quella del 4 giugno: "Mi dispiace per le vittime ma moriremo tutti. È la vita".

Brasile, il presidente Bolsonaro è positivo al coronavirus. Sono arrivati i risultati per il leader brasiliano che, annuncia lui stesso, "sono positivi al Covid-19". Daniele Mastrogiacomo il 07 luglio 2020 su La Repubblica. Jair Messias Bolsonaro si è preso il Covid 19. Lo ha confermato lo stesso presidente brasiliano nel corso di un incontro con i giornalisti nel Palazzo dell'Alvorada. "Sì, sono risultato positivo al test", ha aggiunto con aria mesta e un po' preoccupata. I risultati del tampone sono stati realizzati nell'ospedale militare di Brasilia dove il presidente era stato ricoverato dopo essersi sentito male domenica pomeriggio. Aveva febbre alta, oltre 38, e si sentiva a pezzi, con dolori alle ossa e ai muscoli. Classici sintomi del Covid 19. I suoi medici gli hanno consigliato il ricovero e la prova del tampone. Tutti gli appuntamenti in agenda sono stati sospesi e rinviati. Altri due ministri si sono fatti il test, così come l'ambasciatore Usa in Brasile Todd Chapman. Il 4 luglio scorso, in occasione della festa dell'Indipendenza, Chapman aveva invitato Bolsonaro e altri tre ministri a una grigliata nella residenza. Una foto li aveva immortalati sereni e sorridenti, senza mascherina, che posano per l'obiettivo. Non si sa se in quella occasione il presidente abbia contratto il Covid 19. Nei giorni precedenti e in quelli successivi ha incontrato un sacco di gente. Per impegni istituzionali, di governo, amici e parenti o semplici fan. Il problema adesso è risalire indietro nel tempo, di almeno due settimane, il periodo di incubazione del virus, e contattare tutte le persone che sono state in contatto con lui. Bolsonaro è apparso all'uscita dell'ospedale militare, le mani in tasca, la mascherina finalmente a coprirgli naso e bocca e ha confermato la notizia ai giornalisti che lo attendevano all'esterno. L'esponente della destra estrema prende già da due giorni dosi di idrossiclorochina e di azitromicina, due farmaci antivirali che l'Oms considera inefficaci contro il Covid 19; anzi, con forti controndicazioni. Ma Bolsonaro è ostinato e così come ha sempre negato la presenza del Covid 19, ha sostenuto che per affrontare la pandemia bastava prendere appunto qualche pasticca di farmaci usati di solito per la malaria. Non è bastato. Sebbene le lastre al polmone che aveva effettuato lunedì sera non hanno rilevato particolari infezioni, così come lui stesso afferma, il coronavirus lo ha contagiato e si è infilato nel suo fisico. Adesso dovrà sottoporsi a un secondo tampone di conferma. Ma l'intero Brasile è scioccato. 

Bolsonaro sotto assedio: ma i dati smentiscono le accuse. Giuseppe De Lorenzo il 10 giugno 2020 su Inside Over. Metti insieme le pere con le mele, usa il tasso di letalità la cui attendibilità è prossima allo zero, lascia da parte il fatto che ogni Paese conta i morti in modo diverso ed avrai un bellissimo grafico con cui titolare sul Brasile brutto e cattivo nella gestione della pandemia. Abbiamo semplificato (nemmeno troppo), ma l’articolo pubblicato ieri dal Corriere era più o meno questa macedonia impazzita. Uno “studio” sul presunto rapporto tra autoritarismo e bugie sul Covid-19 dalla dubbia credibilità, schiaffato in prima pagina per attaccare maldestramente Jair Bolsonaro. Prima di tutto i fatti. Sul quotidiano di via Solferino è apparso un pezzo a firma di Federico Fubini sulle differenze tra le democrazie e i Paesi autoritari nella comunicazione dei decessi provocati da Sars-Cov-2. Titolo: “I trucchi dei regimi che nascondono i veri dati sul Covid”. Nel mirino ci sono la Turchia, la Russia, l’Iran e – chissà perché – il Brasile di Bolsonaro. Tutti colpevoli di sotterrare defunti senza comunicarlo al mondo così da preservare il potere assoluto. Il giornalista ha preso il tasso di letalità in alcuni Stati nel mondo e l’ha messo in relazione con il “Punteggio globale di libertà politica e civile” realizzato da Freedom House, un think tank basato a Washington. Ciò che emerge è che i Paesi “poco democratici” sarebbero pure quelli che comunicano una letalità causa virus inferiore alla media mondiale (5,7%). Hanno una sanità migliore? Hanno subito un contagio inferiore? No. Tesi conclusiva: dicono bugie e “tendono a presentare un quadro sostanzialmente falso degli effetti dell’epidemia”. Viceversa, “tutti i Paesi nei quali la letalità ufficiale è più alta (Belgio, Gran Bretagna, Svezia, oltre all’Italia) hanno punteggi elevati anche per il grado di libertà”. Il fatto è che, stando ai numeri, la demarcazione dipinta dal Corriere non è così netta. Anzi. E la lettura dei dati appare più che discutibile. Per carità: ubi maior minor cessat. Ma Fubini ci permetta alcune brevi considerazioni. Stando al grafico, infatti, ci sono decine di Paesi con un tasso di letalità pari o inferiore alla media mondiale anche se sono democrazie sviluppate: Germania (4,7%), Usa (5,8%), Israele (1,7%), Giappone (5,3%), Australia (1,4%), Lussemburgo (2,7%) e Austria (4%), solo per fare qualche esempio. La domanda sorge spontanea: se sono democrazie e non nascondono la verità, allora perché il dato è così basso? “È presto per capire perché i morti in Italia, Francia o Belgio siano il triplo di quelli stimati in Germania, a parità di contagi – scrive il Corsera – Possibile però che i primi tre Paesi uniscano due fattori determinanti: sono democrazie, dove si è permesso al virus di entrare nelle case di riposo per anziani”. In sostanza, se sei un “Paese autoritario” e hai pochi morti, allora dici bugie sulla letalità. Se invece brilli per libertà civili ma hai comunque pochi decessi, allora sei stato bravo perché non hai aperto le porte delle Rsa al virus. La logica è quantomeno claudicante. Il più marchiano degli “errori” riguarda però il Brasile. Il Paese di Neymar ha una letalità più alta di quella della Germania e un punteggio sulla libertà politica e civile tutto sommato elevato (75, poco sotto Israele). La sua posizione nel grafico è in alto a sinistra, ben lontano da Arabia Saudita, Venezuela, Emirati Arabi Uniti e Turchia. Eppure, non si sa per quale motivo, il Corriere in prima pagina scrive: “I casi sono due: o durante una pandemia la libertà fa male alla salute; oppure il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, nel cercare di nascondere la realtà dei morti da Covid, non fa che accodarsi a un trend diffuso fra decine di governi autoritari, dittatoriali, populisti e illiberali nel mondo”. Perché infilarlo nel calderone dei bugiardi, se i dati non supportano affatto questa tesi? Il vero problema è che mescolare libertà e letalità ha poco senso statistico. Il tasso di decessi rispetto ai contagi, infatti, è influenzato da troppi fattori che lo rendono un dato instabile: ogni Paese calcola i morti in modo differente (“con” o “per” coronavirus), dunque compararli è impossibile. Oppure volutamente strumentale. Ne è la prova il fatto che l’Ungheria di quel buzzurro di Orban, quello dei “pieni poteri” che – Corriere dixit – “mette in quarantena la democrazia”, ha un tasso di letalità del 13,6%. Quasi lo stesso dell’Italia (14,4%). Stando al ragionamento di Fubini, entrerebbe di diritto nel club delle “democrazie liberali del pianeta” che comunicano i dati correttamente. Ma ovviamente non è stato citato.

Brasile, la pandemia di Covid-19 è fuori controllo. Andrea Walton su Inside Over il 23 maggio 2020. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro è in procinto di firmare un piano di aiuti economici, dal valore stimato di 11 miliardi di dollari, che dovrebbe mitigare le ricadute della pandemia di Covid-19. Il piano, già approvato dal Congresso all’inizio del mese, dovrebbe distribuire liquidità a Stati e municipalità colpiti dal virus: la firma di Bolsonaro, però, non è ancora arrivata a causa delle pressioni di Paulo Guedes, ministro dell’Economia del Paese, che vorrebbe maggiore austerità fiscale. Il Capo di Stato brasiliano è sotto pressione per la disastrosa gestione della pandemia nel Paese: i casi rilevati hanno ormai raggiunto quota trecentomila, ma sono di certo sottostimati a causa della carenza di test e crescono, ormai, al ritmo di diciotto-ventimila al giorno.

Un disastro sanitario. Il Covid-19 è giunto, ufficialmente, in Brasile il 25 febbraio del 2020: in quell’occasione il morbo è stato rilevato in un sessantunenne appena tornato dall’Italia ma è probabile che il virus circolasse già prima di questa data. Il contenimento della malattia si è rivelato impossibile anche a causa dei gravi contrasti politici tra il presidente, che ritiene il virus pericoloso quanto un’influenza e  che i lockdown danneggino l’economia, ed i governatori degli Stati, che hanno imposto misure restrittive. Bolsonaro è arrivato a scontrarsi anche con i ministri della Salute del suo stesso esecutivo, provocandone in due occasioni le dimissioni. Il livello di tensione ha raggiunto picchi particolarmente alti con Joao Doria, governatore dello Stato di San Paolo, epicentro del virus e con almeno un quarto dei decessi e dei casi totali del Brasile. Doria ha sostenuto che il Paese deve affrontare due sfide: una è quella contro il coronavirus e l’altra contro il cosiddetto Bolsonavirus. C’è poi il grave problema della carenza di posti letto in ospedale: molti malati non riescono a trovarne uno e muoiono senza poter ricevere le cure necessarie. Il sistema sanitario pubblico ha risentito, nell’ultimo decennio, della crisi economica e dell’assenza di investimenti: il risultato è che ci sono appena 2 posti letto ogni 1000 abitanti, un tasso molto basso ed inferiore a quelli di Argentina e Cile.

Le prospettive. Il presidente Bolsonaro sembra aver individuato una via d’ uscita all’emergenza Covid: l’uso della clorochina da parte dei pazienti affetti dal morbo. Il ministero della Salute ne ha recentemente raccomandato l’uso anche ai malati lievi malgrado i gravi effetti collaterali che il farmaco può provocare e l’assenza di test clinici che ne certifichino l’efficacia. Il Capo di Stato ha assicurato che nessuno sarà costretto ad utilizzarla ma ha anche aggiunto che i sostenitori della sua parte politica ne faranno uso. La politicizzazione di un trattamento medico è dunque l’ultimo sviluppo di questo vero e proprio dramma che sta investendo il Brasile e che è destinato a causare un peggioramento di tutti gli indici economici del Paese. In primis il tasso di povertà che, nel 2017, si era attestato al 21 per cento ed il cui aumento favorirà una crescita delle disuguaglianze e delle tensioni sociali a Brasilia. L’onda lunga del Covid-19 è destinata a provocare instabilità e nuove violenze in una delle nazioni chiave dell’America Latina.

Coronavirus, si dimette dopo un mese il ministro della Salute di Bolsonaro. Pubblicato venerdì, 15 maggio 2020 da Corriere.it. Il ministro della Salute brasiliano Nelson Teich si è dimesso per incompatibilità con il presidente Jair Bolsonaro dopo meno di un mese dall’assunzione dell’incarico. Lo riporta il quotidiano brasiliano O Globo. È il secondo ministro della Sanità ad essersi dimesso nel Paese. Teich, un oncologo senza esperienza di governo, era stato nominato ministro della Salute da Bolsonaro dopo il licenziamento di Luiz Henrique Mandetta, un fermo difensore delle misure restrittive contro la diffusione della pandemia che fino a oggi ha fatto quasi 14 mila morti nel Paese. Il presidente Jair Bolsonaro è sempre più isolato nella sua linea negazionista, concentrata sullo sminuire la gravità della pandemia per non fermare l’economia del Brasile. Intanto il Paese ha superato i 200mila contagi di coronavirus. Secondo i dati riportati dalla Johns Hopkins University sono stati 203.165 i casi di Covid-19 confermati nel Paese dall’inizio della pandemia e 14mila le vittime.

Rocco Cotroneo per il “Corriere della Sera” il 18 maggio 2020. In Brasile crescono i contagi, i morti e soprattutto il caos politico. Nessun Paese al mondo si è potuto permettere una grave crisi istituzionale nel mezzo della pandemia. Ci ha pensato il Brasile, sull' illusione del suo presidente Jair Bolsonaro di uscirne indenni o quasi, perché si trattava di una «piccola influenza», la quale qui avrebbe provocato ben pochi danni, essendo i brasiliani forti e sani, «abituati a nuotare anche nelle fogne». Ma ora il conto è arrivato. Con un punto critico nella famosa curva, ancora in forma esponenziale, il Brasile conta le vittime a 800-900 al giorno (l' ultimo totale è di quasi 16.000) mentre il numero dei contagiati è salito a 233.000, quarto Paese nella classifica mondiale, dietro Usa, Russia e Gran Bretagna. Poiché però in nessun luogo al mondo si fanno così pochi tamponi, è assai probabile che la situazione oggi in Brasile sia la peggiore possibile. Il secondo ministro della Salute a perdere il posto in un mese è un oncologo di 63 anni, Nelson Teich, che al momento dell' insediamento aveva giurato «sintonia totale» con le idee di Bolsonaro. Promettendo per esempio di far uscire le città brasiliane e i suoi abitanti dall' isolamento, che a detta del presidente provocava fame, miseria e morte in modo ben peggiore del Covid-19. Teich ha gettato la spugna sull' altra ossessione di Bolsonaro, la clorochina. Alla vigilia della rottura, il presidente aveva chiesto al ministero della Salute di cambiare i protocolli, e permettere che negli ospedali pubblici la clorochina si potesse somministrare anche ai malati di Covid in stato iniziale. Contro il 99 per cento della comunità scientifica, la quale considera eccessivi i rischi collaterali. Davanti all' ultima pretesa di Bolsonaro, Teich si è rifiutato di dare il via libera alla clorochina e si è dimesso. Come il suo predecessore Luiz Henrique Mandetta. Peggio ancora, il ministero è stato infarcito di militari, al posto dei tecnici che sono stati liquidati. Ora si attende il successore di Nelson Teich. Fosse anche lui un ex generale del tutto incompetente in materia non ci sarebbe niente da stupirsi. L'altro punto di contrasto tra Bolsonaro e gran parte della classe politica è sulle chiusure. Il presidente sostiene sin dall' inizio che l' isolamento sociale è inutile e controproducente, ma i governatori e i sindaci vanno avanti per la propria strada. È opinione diffusa nella comunità scientifica che le grandi aree metropolitane in Brasile avrebbero bisogno di un lockdown vero e proprio, e non le quarantene quasi volontarie alle quali la gente si è sottoposta fino a questo momento. I risultati dell' isolamento parziale sono sotto gli occhi di tutti. In quasi nessuna città si riesce a superare la soglia del 50 per cento della gente in casa, mentre secondo gli studi sarebbe necessario almeno il 70 per cento per riuscire a far scendere il tasso di contagio, quel famoso R0 che in Brasile resta pericolosamente superiore a 2. Nel frattempo il sistema ospedaliero delle città più colpite è prossimo al collasso. A Rio e San Paolo è corsa contro il tempo per allestire gli ospedali da campo, con forti ritardi nelle consegne dei ventilatori necessari per le terapie intensive. Le code di chi aspetta un letto nel sistema pubblico si allungano, e la situazione è anche peggiore in città come Fortaleza e Manaus, dove i tassi di contagio sono ancora più elevati. Al braccio di ferro con i governatori degli Stati, Bolsonaro aggiunge quello con il Congresso e il potere giudiziario, entrambi accusati di remare contro il governo federale e opporsi ai desideri di «normalità» del presidente. Il quale non esita, tutte le domeniche, a farsi vedere insieme ai suoi fan più estremisti, quelli che chiedono l' intervento militare e la chiusura del Parlamento. E intanto l' epidemia avanza, incurante delle diatribe politiche. «Vada a bordo! », nell' originale italiano è il titolo dell' editoriale di ieri del giornale Estado de São Paulo. Rivolto a Bolsonaro, e memore del famoso richiamo al capitano sciagurato della Costa Concordia che divenne slogan nel mondo intero.

 “Così Bolsonaro condanna le favelas brasiliane e le criminalizza”. Il Dubbio l'1 maggio 2020. Parla Aruan Braga, sociologo, direttore dell’Observatorio de Favelas di Rio de Janeiro, un’organizzazione della società. “Un aspetto che la pandemia di Covid-19 ha reso chiaro in Brasile è che le persone che vivono nelle favelas sono fondamentali per il sostentamento delle città: se non ci fossero loro il trasporto pubblico non funzionerebbe, la rete di distribuzione alimentare neanche, e ciò vale per tutti quei servizi essenziali che permettono di continuare a vivere in questo momento di crisi. Nonostante questo però, sono proprio gli abitanti delle favelas a vedersi storicamente negati l’accesso ai servizi pubblici e il rispetto dei diritti sociali”. A parlare con l’agenzia Dire è Aruan Braga, sociologo, uno dei direttori dell’Observatorio de Favelas di Rio de Janeiro, un’organizzazione della società civile che dal 2001 mira alla superazione delle diseguaglianze sociali e al rafforzamento della democrazia. La base di partenza sono lo studio e l’attivismo nelle favelas, i quartieri più poveri e spesso privi di servizi alle periferie delle metropoli. L’Observatorio nasce a Nova Holanda, all’interno del più ampio complesso di baracappoli di Marè, uno dei più popolosi del Brasile con oltre 130.000 abitanti. Secondo Braga, “conoscere i processi storici di creazione di questi quartieri, aiuta a capire meglio lo scenario che ci troviamo di fronte adesso”. Adesso che il Covid-19 in Brasile ha fatto registrare quasi 80.000 casi confermati e oltre 5.000 decessi. Secondo Braga, sull’emergenza la politica si è divisa. “Il governo federale del presidente Jair Bolsonaro – denuncia il direttore – minimizza e ignora i moniti della scienza, invitando la popolazione a non rispettare le misure restrittive imposte invece dai governi degli Stati, quelli locali”. Anche lo Stato di Rio de Janeiro ha varato misure di quarantena. Il punto però non sarebbe ciò che la politica fa, ma quello che non fa e non ha mai fatto. “I cittadini delle favelas – dice Braga – assistono oggi agli effetti di decenni di politiche sociali che sono state assenti o comunque inefficaci nel combattere le diseguaglianze; questo vale per tutti i settori più importanti, come la sanita’ e l’istruzione”. La reazione delle periferie alla pandemia sarebbe allora “nelle mani degli stessi abitanti, delle associazioni e dei leader di comunità”. Insieme con le organizzazioni di 16 favelas, l’Observatorio ha avviato nelle ultime settimane una rete di distribuzione di beni essenziali e dispositivi igienici di protezione alla popolazione. “Ad esempio – riferisce Braga – abbiamo consegnato gel alcolico per le mani ai conducenti dei moto-taxi, mezzi che qui sono molto usati per spostarsi”. Gli attivisti si sono focalizzati anche sulle informazioni e i consigli: “Tramite i sociale media e Whatsapp stiamo conducendo una campagna di sensibilizzazione sui rischi e la prevenzione dal virus” spiega il direttore dell’Observatorio. “Abbiamo lavorato molto sul linguaggio, adattandolo alle necessità della popolazione delle favelas”. Secondo l’attivista, l’assenza della politica si fa sentire anche nell’inadeguatezza dei messaggi. “Le favelas sono spazi densamente popolati, con tante case piccole e famiglie numerose, dove la strada è uno spazio di socializzazione essenziale” evidenzia Braga. “Le autorità danno indicazioni, soprattutto rispetto al distanziamento sociale e alle precauzioni igieniche, che non hanno alcun senso qui”. La presenza dello Stato è d’altra parte garantita dalle forze di polizia. In modo dannoso, secondo l’attivista: “Invece di fornire protezione e assistenza trattano gli abitanti dei nostri quartieri come criminali, effettuando raid e arresti”.

Da "corrieredellosport.it" il 17 aprile 2020. Shock in Brasile. Sul web gira un video che mostra i corpi delle vittime di Coronavirus che giacciono accanto ad alcuni pazienti vivi ma intubati, che stanno ancora combattendo contro questo maledetto virus. Ne ha dato notizia il Daily Mail mostrando le forti immagini registrate da un'infermiera dell’ospedale di Manaus. “Queste persone sono morte tra la notte del 15 e la mattina del 16 - ha detto alla stampa il sottosegretario alla sanità -. Cinque corpi sono già stati rimossi”. Altri, invece, sono ancora in attesa dei familiari e dei certificati di morte.

Da video.lastampa.it il 22 aprile 2020. Fosse comuni nell'Amazzonia brasiliana per far fronte all'aumento di decessi per l'epidemia di coronavirus. Il sindaco di Manaus, Arthur Virgilio Neto, lo ha annunciato tra le lacrime, affermando che Manaus "non sta vivendo un'emergenza ma una calamità naturale". La capitale amazzonica registra al momento 1.664 contagi ufficiali, dei quali 166 mortali.

Francesco Padoa per “il Messaggero” il 17 aprile 2020. «Sono due mesi che combatto questa battaglia: sono stanco, adesso basta»: lo sfogo del ministro della Sanità brasiliano, Luiz Henrique Mandetta, è il ritratto perfetto delle tensioni ormai insanabili tra lui e il presidente della Repubblica, Jair Bolsonaro. Il ministro ha rassegnato le dimissioni ieri sera: lo ha comunicato lui stesso sui social, dopo un incontro a Brasilia con il presidente. I due da settimane erano in contrasto aperto sulle misure da prendere contro la pandemia, che nel Paese sudamericano ha fatto registrare finora oltre 30mila casi e quasi 1.800 morti: Mandetta difende il distanziamento sociale, mentre Bolsonaro si mostra più preoccupato per le conseguenze economiche della crisi sanitaria e vorrebbe riaprire le principali attività. Le dimissioni dell'esponente del governo erano inevitabili, e sono arrivate nonostante la contrarietà del 76,2% della popolazione, che credeva nel lavoro di Mandetta e lo avrebbe voluto ancora alla guida del dicastero. «Da due mesi misuro le parole. Quando sembra tutto a posto, ecco che il discorso cambia di nuovo. Ora basta. Abbiamo già aiutato molto», ha rincarato la dose Mandetta. La goccia che ha fatto traboccare il vaso probabilmente è stata l'intervista concessa domenica scorsa da Mandetta a Rede Globo, la principale emittente brasiliana, accusata dal presidente di divulgare «fake news» al suo riguardo. «Abbiamo visioni diverse sulla stessa questione», ha sintetizzato diplomaticamente Mandetta, che però non ha risparmiato velate critiche al comportamento di Bolsonaro, visto più volte per strada a stringere mani e ad abbracciare i suoi simpatizzanti, quasi a ribadire il suo scetticismo per le raccomandazioni non solo del suo ministro, ma della stessa Oms. I due si trovavano in disaccordo anche sul ricorso alla clorochina per curare i pazienti affetti da Covid-19: l'uso del farmaco è difeso da Bolsonaro, nonostante molti esperti, anche brasiliani, mettano in guardia sugli effetti collaterali. Il sostituto scelto dal capo dello Stato è l'oncologo Nelson Teich, un nome che gode di stima in ambiente medico, fanno notare i media, che ora scommettono su un allentamento di alcune misure restrittive.

L’ex ministro della sanità: “Brasile a rischio collasso”. Prima di lasciare il ministero della Sanità del Brasile, in seguito alla rimozione voluta dal presidente della Repubblica Jair Bolsonaro, Luiz Henrique Mandetta ha parlato di "ingratitudine" nei suoi confronti e del rischio di collasso del sistema sanitario del Paese. "Quando vediamo il sistema sanitario negli Stati Uniti, quando vediamo New York al collasso, Chicago al collasso, pensiamo al nostro Brasile e alla nostra popolazione e diciamo: Santa Dulce, nostra signora, aiutaci", ha detto Mandetta rivolgendosi alla prima santa del Brasile, la suora Dulce Lopes Pontes.

Rocco Cotroneo per il “Corriere della Sera” l'1 aprile 2020. Rimasto isolato persino dall' amico Donald Trump e da altri ex ostinati negazionisti come il messicano López Obrador, il presidente brasiliano Jair Bolsonaro insiste nella sua linea sulla pandemia, creando l' ennesimo caso internazionale e un impasse interno di rara complessità. «Meglio morire di coronavirus o di fame?», è l' ennesima provocazione lanciata ieri ai giornalisti che lo attendevano fuori dalla residenza ufficiale, e ai quali Bolsonaro ha dedicato la dose quotidiana di insulti. Negli ultimi giorni il leader di estrema destra è stato sommerso dalle critiche per aver passeggiato tra la folla alla periferia di Brasilia, e aver spinto per il ritorno al lavoro e alla normalità. Contro le indicazioni dello stesso ministro della Salute, la cui poltrona è in serio pericolo, e di quasi tutti i governatori e i sindaci che con le loro ordinanze hanno chiuso i brasiliani in casa. Dopo che Bolsonaro e i suoi tre figli hanno postato in modo provocatorio i video del bagno di folla di domenica, i social hanno optato per una decisione umiliante. Facebook, Instagram e Twitter hanno cancellato i messaggi del clan presidenziale, perché, hanno detto, «la disinformazione» in essi contenuta può provocare «gravi danni alle persone». Nei giorni scorsi il presidente aveva definito il Covid-19 «una influenza come tante». Gli effetti pratici della posizione di Bolsonaro, per ora, sono pochi. I brasiliani che possono permetterselo continuano a rispettare la quarantena e il presidente ha dovuto rinunciare a due iniziative. Una campagna nazionale dal titolo «Il Brasile non può fermarsi» è stata bloccata sul nascere dalla giustizia, e anche la tentazione di emettere decreti federali contro quelli degli enti locali si è rivelata una strada difficile. La Corte suprema potrebbe dichiararli nulli.

Da repubblica.it il 4 aprile 2020. I simpatizzanti più agguerriti di Jair Bolsonaro si stanno mobilitando sui social per appoggiare le posizioni del presidente brasiliano - che si oppone alle misure di isolamento sociale varata in vari Stati e città del Brasile - da una posizione inedita: tenendo in conto la loro strenua difesa del golpe militare del 1964, denunciano online quello che definiscono il dilagare delle "misure autoritarie" varate per contenere l'epidemia di coronavirus nel paese. "In vari punti del paese, agenti pubblici stanno usando l'epidemia di coronavirus per attaccare le libertà individuali e il diritto al lavoro, condannando il popolo al silenzio e alla fame", scrive ad esempio il sito Brasil Sem Medo (Brasile senza paura), considerato vicino a Olavo de Carvalho - il guru intellettuale di Bolsonaro - in un articolo intitolato 'Il virus della tirannia'. Da parte sua, Ailton Benedito, responsabile del settore dei diritti umani nella Procura Generale (Pgr) e bolsonarista di ferro, ha denunciato che le autorità stanno varando misure che limitano la libertà di movimento e di espressione "senza che esista nessuna dichiarazione di uno stato di emergenza che le giustifichi", prima di chiedere con tono indignato: "ma che paese è questo?". L'ipotesi di una proclamazione dello stato d'assedio è stata rilanciata da molti attivisti filogovernativi online, come Allan dos Santos, che ha perfino lanciato su Twitter un'inchiesta fra i suoi lettori, chiedendo loro di rispondere alla domanda: "Pensi che Bolsonaro dovrebbe chiedere un intervento dei militari in Brasile?". Per il momento, più di 40 mila persone hanno risposto, ma il risultato sarà reso noto solo sabato. E in questa situazione, erano circolate anche voci riguardo a una destituzione del presidente.

Rocco Cotroneo per corriere.it il 10 aprile 2020. Prima di arrendersi all’evidenza, hanno tenuto aperte le loro chiese - o templi, come preferiscono chiamarli - fin quando hanno potuto, incuranti dell’affollamento. Ma in nome della guerra alla pandemia maligna, opera del demonio, non hanno rinunciato a chiedere libertà piena e una franchigia alle restrizioni. Lassù c’è qualcuno che li appoggia in tutto, e non è il padreterno, ma Jair Messias Bolsonaro, il capo di Stato più negazionista del pianeta.

Disputa teologica. E così in un Paese dove il coronavirus è assurto a disputa più teologica che scientifica, il legame tra le chiese evangeliche brasiliane e il governo di estrema destra si è ulteriormente consolidato, in nome di una lotta alla pandemia del tutto originale. A differenza dei cattolici che hanno seguito tutte le disposizioni di Roma e l’esempio del Papa. Vescovi e apostoli pentecostali battono duro attraverso la capillarità dei social e influenzano la politica: vorrebbero continuare a poter ricevere i fedeli, quasi tutti in quartieri poveri e favelas, e temono di perdere l’enorme flusso che arriva loro attraverso la decima obbligatoria. Denaro senza il quale non possono tenere in piedi mega strutture con decine di migliaia di sedi e pastori, giornali, catene di radio e televisione e naturalmente il tenore di vita elevato dei loro leader, in centinaia di sigle diverse tutelate dall’esenzione fiscale e dagli obblighi contabili.

La lobby politica. Sono decine e decine i parlamentari a Brasilia legati al voto evangelico e dedicati a sostenere la causa nella lobby più potente del Brasile. Lo stesso Bolsonaro deve loro l’elezione, così come molti amministratori locali, come il «vescovo» Marcelo Crivella, sindaco di Rio de Janeiro. Con un bilancio di vittime che si sta impennando, seppure in ritardo rispetto a Europa e Stati Uniti, in Brasile i luoghi di culto evangelici hanno via via dovuto chiudere i battenti. Obbedendo alle disposizioni di governatori e sindaci, e costretti dall’atteggiamento della grande maggioranza dei cittadini, che si sono imposti la quarantena quando hanno potuto.

Satana e quarantena. Lo scorso 26 marzo, Bolsonaro era riuscito a inserire le chiese nella lista dei «servizi essenziali» che avrebbero dovuto continuare a funzionare. Leader religiosi con milioni di fedeli come Edir Macedo e Silas Malafaia assicuravano che l’apertura si rendeva necessaria per consentire le preghiere che avrebbero annientato la piaga. Il primo, leader della potente Universal del Regno di Dio, scriveva che il virus era una tattica satanica, nulla di più di una semplice influenza e che i fedeli non si sarebbero dovuti preoccupare. Malafaia intanto sposava e rilanciava le teorie di Bolsonaro sui danni dell’isolamento sociale, sulla fame che provocherà tra i più poveri, con danni assai maggiori di quelli del virus.

Scacco a Bolsonaro. Poi la forza degli eventi ha prevalso e per Bolsonaro è arrivato lo smacco. Il suo decreto di flessibilizzazione delle chiusure, che comprendeva i luoghi di culto, è stato fermato dalla giustizia. Il Brasile sta arrivando rapidamente alla cifra di 1.000 morti e le comunità più povere, dove gli evangelici dominano la scena religiosa, sono diventate vere e proprie bombe biologiche a tempo. Dalle voci nell’etere, i pastori invitano ad assistere ai culti online dove possibile, ma soprattutto a non dimenticare i versamenti mensili, sempre attraverso la rete. Un giovane e sveglio imprenditore del web, Rafael Lazzaro, ha raccontato al sito Agencia Publica come la sua app per le donazioni online «Eu Igreja» abbia avuto un boom senza precedenti. Tecnologie di oggi applicate a schemi di sempre: dalle loro magioni in Florida i leader evangelici ringraziano.

Da "Ansa" il 10 aprile 2020. Il governo del Brasile ha annunciato il primo caso di coronavirus in una comunità indigena dell'Amazzonia: si tratta di una donna di 20 anni della tribù dei Kokama, che vive in un villaggio nel distretto di Santo Antonio do Iá, vicino al confine con la Colombia. Lo riporta il Guardian. Secondo gli esperti il virus potrebbe decimare la popolazione indigena del Brasile, che attualmente conta 850.000 persone. Nello stesso distretto erano già stati accertati quattro casi, incluso un medico che era risultato positivo la settimana scorsa. Secondo le autorità la donna, che è un'operatrice sanitaria, sarebbe venuta in contatto con il medico.

Coronavirus: confermato primo caso nella tribù Yanomami in Amazzonia. Alberto Pastori l'11/04/2020 su Notizie.it. Il coronavirus raggiunge anche le tribù indigene situate nelle zone più remote dell'Amazzonia: grave un 15enne della tribù Yanomami. I funzionari sanitari brasiliani hanno confermato il primo caso di coronavirus tra la remota tribù Yanomami in Amazzonia. Il ministro della Sanità Luiz Henrique Mandetta, durante la conferenza stampa che ha tenuto mercoledì 8 Aprile, ha dichiarato che un ragazzo di 15 anni della tribù indigena è risultato positivo al virus. Mandetta si è detto molto preoccupato per le possibili conseguenze, in particolare a causa della separazione della comunità dal mondo esterno. Secondo il quotidiano brasiliano Globo, il ragazzo è stato ricoverato nel reparto di terapia intensiva in un ospedale di Roraima, lo stato più settentrionale del Brasile, situato nella regione amazzonica, lo scorso 3 Aprile. Il 15enne soffriva di respiro corto, febbre, dolore toracico e mal di gola. Sempre in base a quanto riportato dal Globo, il ragazzo prima è risultato negativo per la malattia, mentre in seguito è risultato positivo. La tribù Yanomami è composta da circa 38.000 persone ed è considerata la più grande tribù isolata del Sud America, con oltre 9,6 milioni di ettari (2,3 milioni di acri) di terra lungo il confine venezuelano. In passato la tribù ha affrontato epidemie mortali di malattie infettive, tra cui il morbillo, quando agenzie militari, minatori e gruppi di missionari religiosi avevano esposto la tribù a malattie a cui non avevano immunità. Gli indigeni di diversi stati hanno chiuso i villaggi dall’arrivo di comunità esterne per proteggersi dal coronavirus. Secondo il Globo, la malattia respiratoria è già la principale causa di morte tra le popolazioni native in Brasile. Il Ministero della Salute del paese ha creato un comitato nazionale di crisi al fine di monitorare gli impatti di COVID-19 sulle popolazioni indigene e prevenire un’ulteriore diffusione.

Francesco Padoa per ilmessaggero.it il 26 marzo 2020. Brasile nel caos istituzionale. Il coronavirus sta mettendo a dura prova il Paese, e la divergenza di vedute tra il presidente Bolsonaro e i Governatori di quasi tutti i 27 stati del Paese sulle misure da adottare sta complicando la situazione. Anche il vicepresidente, Hamilton Mourao, ha preso le distanze dalle dichiarazioni da Bolsonaro - che si è detto contrario all'adozione di misure restrittive per combattere l'epidemia di coronavirus - sostenendo che «la posizione del nostro governo, per quanto mi risulta, è una sola: isolamento e distanziamento sociale». In una intervista in teleconferenza, Mourao si è riferito al discorso di Bolsonaro, trasmesso a reti unificate martedì sera - nel quale si è detto contrario alle restrizioni varate dai governatori di vari Stati per controllare l'epidemia di coronavirus, sostenendo che si tratta di un «isterismo» e di una politica della «terra bruciata» alimentata dai media, e che è necessario «tornare alla normalità» - sostenendo che il presidente «forse non si è espresso nel migliore dei modi». «Quello che (Bolsonaro) voleva esprimere è la preoccupazione che abbiamo tutti riguardo alla seconda fase» dell'emergenza coronavirus, cioè il suo impatto sull'attività economica del paese. Il discorso del presidente è stato respinto dalle più alte cariche dello Stato e criticato dalla maggioranza dei governatori delle 27 entità federali del Brasile, che si sono riuniti mercoledì, in assenza del capo dello Stato, per coordinare le loro misure contro l'epidemia, mantenendo le restrizioni alle attività economiche e l'isolamento sociale. La quasi totalità dei governatori delle entità federali brasiliane - 25 su 27 - hanno infatti annunciato oggi che manterranno le restrizioni delle attività economiche e le misure di isolamento sociale, malgrado il presidente Bolsonaro abbia chiesto che si ponga fine alla »quarantena di massa« e a quello che ha definito una politica di »terra bruciata« che crea »isterismo« nella popolazione. Secondo un rilevamento del sito news G1, solo i governatori degli Stati di Rondonia e Roraima - ambedue nel Nord del Paese - non hanno preso posizione sulla questione, mentre 19 governatori hanno criticato in termini più o meno forti il discorso di Bolsonaro, trasmesso martedì sera a reti unificate. Dopo la presa di posizione del governatore di San Paolo, Joao Doria - che si è scontrato con Bolsonaro in teleconferenza - anche il suo collega di Rio de Janeiro, Wilson Witzel, ha detto che il presidente »si è opposto chiaramente alle raccomandazioni dell'Oms«, per cui nel territorio del suo Stato »andremo avanti con fermezza, seguendo gli orientamenti medici e salvando vite». In particolare il governatore di uno dei principali stati, quello di San Paolo, Joao Doria, si è detto «deluso» dall'atteggiamento assunto dal presidente Jair Bolsonaro durante la riunione con i governatori del Sudest del Brasile, svoltasi a Brasilia, che ha definito «deplorevole e preoccupante». E nello stato di Rio de Janeiro si sta pensando di trasformare il leggendario stadio Maracanà in un ospedale da campo per assistere i malati di coronavirus. Lo annuncia il governatore dello Stato di Rio, Wilson Witzel. «Nei prossimi 15 giorni prepareremo almeno 800 posti letto per i pazienti contagiati in ospedali di campagna, abbiamo acquistato materiale medico di emergenza e respiratori, ed istalleremo una struttura principale, probabilmente nel Maracanà».

Da noticias.uol.com il 22 marzo 2020. Il governatore Joao Doria (PSDB) ha imposto la quarantena per tutti i servizi non essenziali nello stato di San Paolo a partire dal prossimo martedì 24 marzo, a causa del corona virus. La misura sarà valida per 15 giorni con la possibilità di essere prorogata. "E' obbligatoria la chiusura delle attività commerciali e servizi non essenziali alla popolazione in tutto il territorio di San Paolo  fino al 7 Aprile. La misura potrebbe essere ulteriormente estesa", dice il governatore tramite una comunicazione di questa mattina (21 marzo). Doria mette in chiara evidenzia che la decisione non ha impatto sul funzionamento delle industrie. Una delle misure messe in atto dal governatore include la chiusura dei bar e ristoranti in tutto lo stato. Le attività interessate potranno continuare tramite l'opzione delivery. "Bar, ristoranti e caffè dovranno chiudere. Questi potranno continuare lavorando come delivery per mantenere una fonte di reddito e preservare il lavoro degli impiegati. I panifici hanno il divieto di vendere i loro prodotti nei propri negozi e dovranno ricorrere ai servizi a domicilio, come le altri attività commerciali citate." I servizi di sanità, sia umana che veterinaria, alimentari e di sicurezza - i quali sono considerati fondamentali - non saranno impattati dalle misure. Il prefetto Bruno Covas (PSDB), ha espresso la sua opinione sulle misure. "Molta gente pensa che si tratta di una piccola ondata, tuttavia l'isolamento sociale è necessario. E' un atto di rispetto verso il prossimo, di umanità. Non sono ferie". Doria ha espresso il suo disprezzo verso le feste in qualsiasi comunità e comunica che userà le forze dell'ordine per evitare agglomerazioni sociali. "Nessun interesse economico può sovrastare quello della salute sociale. Manifestazioni come feste, bailes funk o di qualsiasi altro di tipo saranno proibiti. Il mio disdegno va verso chi promuove questo tipo di eventi", afferma Doria. Doria prosegue rassicurando che "non avremmo un fallimento del sistema sanitario nello stato di San Paolo, né in tutta la prefettura. Questo ve lo posso garantire. Ho la certezza che anche in ambito nazionale i governatore e prefetti non permetteranno questo collasso". 

Francesco Padoa per il Messaggero il 22 marzo 2020. Prima vittima per il coronavirus in Brasile, un Paese che solo ora comincia a prendere consapevolezza della gravità della situazione. La segreteria di Sanità dello Stato di San Paolo ha confermato che un residente della città omonima è morto ieri mattina. Secondo l'ultimo bilancio ufficiale, nello Stato di San Paolo si concentra il maggior numero dei casi di coronavirus confermati in Brasile, che in totale sono 321. Il segretario esecutivo del ministero della Sanità brasiliano, Joao Gabbardo, ha dichiarato che il governo sta studiando l'importazione di test rapidi per il nuovo coronavirus. Gabbardo ha tuttavia precisato che non saranno cambiati i criteri adottati nell'attuale fase di mitigazione. Al momento quindi, a Rio de Janeiro e San Paolo, gli Stati più colpiti, saranno sottoposte a test solo le persone in gravi condizioni. Oltre al primo decesso, le autorità sanitarie di San Paolo stanno esaminando altri quattro casi di pazienti morti nella rete di unità dell'Ospedale Israelita Albert Einstein della città, che potrebbero essere legati anch'essi all'epidemia. Lo ha detto il responsabile della task force locale, David Uip, in una conferenza stampa. La prima vittima del coronavirus nel paese sudamericano, ha indicato Uip, era un uomo di 62 anni, che era stato ricoverato lo scorso 14 marzo. Questa persona soffriva di altri problemi di salute - diabete, ipertensione e iperplasia della prostata - e non era stato recentemente all'estero. E proprio a San Paolo, dove si è registrata la prima vittima, e a Rio de Janeiro, è stato dichiarato lo stato d'emergenza per l'epidemia. Le misure prevedono, tra l'altro, la chiusura di scuole e università, limitazioni al trasporto pubblico, sanificazione di treni, bus e metropolitane, la sospensione della circolazione a targhe alterne per le auto private, la cancellazione di spettacoli pubblici. Lo stato di San Paolo ha invitato gli ultrasessantenni e le persone con gravi patologie cliniche a rimanere a casa per 15 giorni. Attività ridotta anche nei tribunali, dove il personale over 60 è stato invitato a rimanere a casa, e blocco delle visite in carcere per due settimane. Nello stato di Rio de Janeiro, sono state sospese tutte le ferie del personale sanitario. Chiusa anche la celebre teleferica che porta al Pan di Zucchero, una delle attrazioni della città. Vietate anche le concentrazioni di persone in spiaggia. E mentre l'ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva si è messo in quarentena volontaria dopo essere ritornato in Brasile giovedì scorso, al termine di una tournée di 12 giorni in vari paesi europei (ma non si è sottoposto al test per il coronavirus), l'attuale presidente Jair Bolsonaro si è sottoposto al secondo test per il coronavirus. Il primo test, venerdì scorso, aveva dato esito negativo. Il risultato è atteso per oggi. Il governo brasiliano ha deciso di istituire un Comitato di crisi per la supervisione e il monitoraggio degli impatti dell'emergenza Covid-19. Il comitato agirà in coordinamento con il Gruppo esecutivo interministeriale sull'emergenza sanitaria pubblica di importanza nazionale e internazionale. Il comitato sarà coordinato dal ministro della Casa civile, Walter Souza Braga Netto, e avrà la partecipazione di altri 14 ministri. Dell'organismo faranno parte, inoltre, il procuratore generale dell'Unione, André Mendon‡a; il presidente della Banca centrale, Roberto Campos Neto; il presidente del Banco do Brasil, Rubem Novaes; il ceo dell'Agenzia nazionale di sorveglianza sanitaria, Antonio Barra Torres; il presidente della Caixa Economica Federal, Pedro Guimaraes; il presidente della Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale, Gustavo Montezano; e la persona che sarà incaricata di coordinare il Centro operativo di emergenza per la salute pubblica della segreteria per la Sorveglianza sanitaria del ministero della Sanità. Il ministro dell'Economia, Paulo Guedes, ha annunciato un pacchetto di misure di emergenza volte a iniettare fino a 147,3 miliardi di reais (circa 26 miliardi di euro) nell'economia verdeoro nei prossimi tre mesi, nel tentativo di alleviare l'impatto del nuovo coronavirus. Tra le misure vi sono l'accesso ai prelievi dal Fondo di garanzia, l'anticipazione della tredicesima delle pensioni e la sospensione per tre mesi del pagamento di alcune tasse. Il ministro ha spiegato che fino a 83,4 miliardi di reais saranno assegnati ad azioni per la popolazione più vulnerabile. Altri 59,4 miliardi di risorse andranno invece al mantenimento dei posti di lavoro, mentre almeno 4,5 miliardi di reais serviranno per combattere direttamente la pandemia. L'epidemia coronavirus ha causato anche un'altra emergenza, quella delle carceri. Centinaia di detenuti sono fuggiti dai penitenziari di varie città dello Stato di San Paolo, in alcune delle quali ci sono state rivolte, dopo che le uscite sono state sospese per il pericolo di contagio. «Più di mille prigionieri» sono fuggiti e ci sono state rivolte in almeno quattro prigioni lungo la costa e nell'entroterra dello Stato, centri di detenzione dove c'è una forte presenza dell'organizzazione criminale Primeiro Comando da Capital.

·        …in Colombia.

Coronavirus, in Colombia gogna pubblica per chi viola la quarantena. Jacopo Bongini il 28/04/2020 su Notizie.it. In Colombia le autorità della città di Tuchin hanno adottato il metodo della gogna pubblica per punire chi viola la quarantena anti coronavirus. Costretti a terra per decine di minuti con una gamba bloccata in una gogna: è cosi che le autorità della città di Tuchin, in Colombia, hanno deciso di punire i cittadini che vengono sorpresi a violare le normative di quarantena disposte per contenere il coronavirus. Un metodo che a prima vista può sembrare barbaro ma che in realtà affonda le sue radici nella cultura popolare indigena della città colombiana, situata nella parte settentrionale del dipartimento di Cordova. Nella città colombiana chi viene sorpreso a violare la quarantena viene infatti bloccato a terra con una gamba inserita in una lunga gogna di legno e li lasciato sotto il sole per venti minuti. Minuti che crescono in maniera graduale a seconda che sia la prima infrazione o una recidiva. Oltre al tempo trascorso alla gogna, il trasgressore deve ascoltare anche una personale ramanzina da parte delle forze dell’ordine sui rischi che si corrono uscendo di casa senza protezioni e su cosa bisogna fare per evitare di contrarre il coronavirus. Anche se decisamente insolita, la misura è stata difesa dal sindaco di Tuchin Alexis Salgado, il quale ha affermato che la punizione è stata decisa dalla guardia indigena prendendo spunto proprio dalle antiche punizioni delle popolazioni locali: “È importante dire che questa misura fa parte delle sanzioni contemplate nella legge di autogoverno del popolo Zenú. È una sanzione preesistente che fa parte del regime disciplinare e sanzionatorio per i membri della riserva“. La stragrande maggioranza degli abitanti di Tuchin appartiene infatti all’etnia Zenù e l’applicazione di questo tipo di sanzionale consente alla popolazione di mantenere la propria identità culturale.

·        …in Paraguay.

Da "ilmessaggero.it" il 16 aprile 2020. La corsa in ospedale, le speranze che si riducevano al lumicino di ora in ora e poi il triste annuncio dei medici: Gladys Rodríguez Duarte, 50enne di Coronel Oviedo, in Paraguay, non ce l’aveva fatta. Secondo i dottori era stata stroncata dal cancro alle ovaie. La notizia ha devastato la famiglia che non si attendeva un epilogo così accelerato. In realtà, mentre i familiari piangevano, la donna si stava già dimenando dentro la sacca nera di plastica consegnata dall'ospedale all'agenzia di onoranze funebre che doveva preparare il cadavere per il funerale. Gladys era stata portata d'urgenza alla clinica di San Fernando sabato mattina, dopo un improvviso aumento della pressione arteriosa: secondo il rapporto della polizia è stata ricoverata alle 9.30 e affidata alle cure del dottor Heriberto Vera, che alle 11.20 ha comunicato la notizia della morte della donna al marito Maximino Duarte Ferreira e alla figlia Sandra. Per il medico, Gladys era stata stroncata dal cancro. L'ospedale ha consegnato la sacca con il corpo della donna a un'agenzia di onoranze i cui addetti sono però sono allibiti nel vedere movimenti all'interno della sacca. Mentre uno di loro cercava di assistere quella donna, per fortuna non ancora del tutto cosciente, i colleghi hanno chiamato i soccorsi e ora la mamma è ricoverata in un altro ospedale: le sue condizioni sono stabili.  La figlia ha attaccato pesantemente il dottor Vera accusandolo di non aver nemmeno tentato di salvarla: «L’ha consegnata nuda come un animale insieme al certificato di morte. Non ha nemmeno tentato di rianimarla. Ci siamo fidati di lui, ecco perché siamo andati lì. Ma i medici non hanno fatto altro che consegnarla alle onoranze funebri».

·        …in Ecuador.

Da "Ansa" il 6 aprile 2020. Il vice presidente dell'Ecuador, Otto Sonnenholzner, si è scusato dopo che decine di corpi sono stati lasciati per le strade della città portuale di Guayaquil, duramente colpita dal coronavirus. Nei giorni scorsi i residenti della città avevano pubblicato dei video sui social media che mostravano corpi abbandonati nelle strade. All'inizio di questa settimana, le autorità hanno raccolto almeno 150 cadaveri da strade e case, ma non hanno confermato il numero di morti provocati dall'epidemia. «Questa settimana abbiamo subito un netto deterioramento della nostra immagine internazionale, abbiamo visto immagini che non avrebbero mai dovuto esistere» e «mi scuso per questo», ha detto il vicepresidente Sonnenholzer, che dirige la risposta al virus del Paese, in una dichiarazione trasmessa sabato dai media locali. L'Ecuador ha registrato quasi 3.500 casi confermati di Covid-19 a partire da domenica scorsa, e 172 decessi. Il governo ha imposto uno stato di emergenza e introdotto un coprifuoco notturno nel tentativo di contenere la diffusione della malattia. La città di Guayaquil, nel sud-ovest dell'Ecuador, si è dotata di oltre 4.000 bare di cartone per accelerare le sepolture dei corpi che continuano ad accumularsi a seguito dell'emergenza sanitaria da coronavirus. Lo riferisce l'agenzia Efe. Circa 3000 cadaveri sono stati raccolti dall'esercito e dalla polizia, che li hanno prelevati da case, strade e ospedali negli ultimi giorni. Si tratta in molti casi di membri di famiglie con scarse risorse e che non possono dunque farsi carico delle spese per il funerale.

Da leggo.it il 27 aprile 2020. Una donna di 74 anni, dichiarata morta a causa del coronavirus, è stata invece ritrovata viva dopo un mese in ospedale in seguito a un caso di scambio di identità.  trovata viva, in un caso di scambio d'identità denunciato in Ecuador. La famiglia di Alba Maruri è stata informata della sua morte il mese scorso, e in seguito ha ricevuto quelle che avrebbero dovuto essere le sue ceneri. Ma la signora Maruri, dopo un coma durato tre settimane, si è risvegliata e ha chiesto di telefonare alla sorella. La famiglia della donna è stata ovviamente felicissima di scoprire che Alba fosse ancora viva e l'ospedale si è scusato per lo scambio di persona, ma al momento non è ancora stato chiarito di chi siano le ceneri che hanno ricevuto e custodito in casa credendole della loro parente. Alba Maruri vive nella città di Guayaquil, l'epicentro dell'epidemia di Covid-19 in Ecuador. Secondo il quotidiano locale El Comercio, la signora Maruri è stata ricoverata in ospedale il mese scorso con febbre alta e difficoltà respiratorie. Il 27 marzo alla sua famiglia fu detto che era morta e le fu mostrato un cadavere in obitorio, m a grande distanza a causa del rischio contagio. Fu il nipote della donna a dire ai funzionari che pensava si trattasse proprio di sua zia: «Avevo paura di vederla in faccia», ha detto ad AFP. «Ero a un metro e mezzo di distanza. Aveva gli stessi capelli, lo stesso tono di pelle». Il corpo fu così portato via e cremato, e le ceneri furono inviate alla famiglia. Ma poi giovedì, la signora Maruri ha ripreso conoscenza e ha detto ai medici stupiti il suo nome, fornendo il numero di telefono di casa e chiedendo della sorella, Aura. «È un miracolo. Per quasi un mese abbiamo pensato che fosse morta», ha dichiarato la donna. La famiglia afferma ora di volere un risarcimento per il danno subito e il rimborso del costo della cremazione.

Il coronavirus in Ecuador e il dramma di Guayaquil: “Come a Hiroshima”. Le Iene News il  9 maggio 2020. L’Ecuador è finito sui media di tutto il mondo per le immagini dei cadaveri abbandonati per strada e dati alle fiamme. Adesso arrivano numeri sconvolgenti: nella provincia di Guayas, dove c’è la città di Guayaquil, nell’ultimo mese i morti sono quintuplicati. “Un terzo della popolazione è contagiata”, ha detto la sindaca. Intanto in Sudamerica iniziano le rivolte delle favelas: “Non faremo la loro fine”. “È come a Hiroshima”. Dopo le immagini dei cadaveri abbandonati per strada, dei corpi dati alle fiamme e dei morti lasciati in bare di cartone improvvisate, adesso arrivano i numeri a raccontare il dramma che sta travolgendo l’Ecuador e la città di Guayaquil. Un dramma che noi di Iene.it vi abbiamo già raccontato qui. Il paese sudamericano è duramente colpito dalla pandemia del coronavirus. Secondo le stime ufficiali del governo sono 28.818 i malati e 1.704 i morti. Ma in tanti temono che i numeri possano essere molto più alti: la sanità è infatti stata completamente travolta dal virus e non è riuscita a far fronte all’emergenza. Le immagini dei cadaveri abbandonati per strada o nelle case, dei corpi dati alle fiamme e delle bare di cartone sui marciapiedi hanno fatto tristemente il giro del mondo. La zona del paese più colpita, quella da dove arrivavano molte delle immagini che avete visto, è la provincia di Guayas. Lì c’è la città di Guayaquil, la più popolosa dell’Ecuador. Si stima che circa il 70% dei casi di coronavirus siano stati registrati in quella zona, dove il contagio è arrivato con la “paziente zero” ecuadoriana: una donna rientrata da Madrid a metà febbraio. La pandemia è divampata come un incendio, anche a causa delle precarie condizioni igieniche dei quartieri più degradati della città. “Sono come scene di guerra”, ha detto la sindaca di Guayaquil Cynthia Viteri: “È come se una bomba fosse esplosa sopra una città: un attacco aereo come a Hiroshima”. Un vero dramma, e adesso a dare un quadro più preciso della dimensione della tragedia sono arrivati i numeri: secondo quanto riportato da Al Jazeera, le autorità locali hanno detto che i morti totali nella provincia di Guayas lo scorso mese sono state 10.200. In media in quella provincia i decessi sono intorno ai 2mila. I morti sono quindi quintuplicati. Non si sa con esattezza se tutte queste vittime in più siano state causate dal COVID-19, perché spesso i corpi vengono seppelliti o cremati prima di ricevere il tampone. Ma un aumento così netto, simile a quello registrato in Italia a Bergamo, fa pensare che i numeri ufficiali dei morti con il coronavirus siano di molto sottostimati. E a confermare questa possibilità è la stessa sindaca di Guayaquil: in città sono stati fatti test a campione, e sembra che un terzo degli abitanti della città sia stato contagiato dal COVID-19. E parliamo di una città che ha quasi tre milioni di abitanti: “In base alle nostre stime ci sono ancora mezzo milione di persone contagiate”, ha detto la sindaca. Fortunatamente le misure imposte dalle autorità in tutto il Paese, sebbene in ritardo, hanno dato i loro frutti. Nelle ultime settimane sembra che i nuovi casi di COVID-19 e i morti stiamo diminuendo ovunque, tanto che dal 4 maggio in quasi tutto l’Ecuador sono state alleggerite le misure di quarantena in modo simile all’Italia. In tutto il Paese tranne che nella provincia di Guayas, dove per tornare all’aria aperta sarà necessario attendere ancora. “Se le persone ancora malate non si autoisolano e iniziano a spostarsi, ci sarà una seconda ondata”, ammonisce la sindaca di Guayaquil. La tragedia di Guayaquil ha già fatto il giro di tutto il Sudamerica, nella paura che una simile strage possa ripetersi nelle zone più povere del continente. In Brasile chi vive nella favela di Paraisopolis, la più grande di San Paolo, si sono ribellati al grido di “Non faremo la fine di Guayaquil”. Anche qui il coronavirus sta colpendo duramente e la paura degli abitanti della favela è di precipitare in un incubo simile a quello ecuadoriano. E tra chi ha paura non ci sono solo i troppi poveri del Sudamerica, ma anche le comunità indigene: in Ecuador la comunità dei Siekopai ha lanciato un appello al governo per chiedere aiuto, dopo aver rilevato 16 casi di COVID-19 tra la sua gente. Sedici casi in una comunità di 744 persone. Justino Piaguaje, il leader indigeno, ha denunciato la mancanza di test e protocolli medici per proteggere la sua comunità. "Non possiamo essere esclusi dalle cure mediche”, ha detto. Una tragedia a cui non sembra esserci fine.

Coronavirus in Ecuador, morti per strada: governo si scusa e polizia recupera cadaveri. Le Iene News il 7 aprile 2020. L’Ecuador è uno dei paesi al mondo più colpiti dal covid-19. Il governo si scusa per i cadaveri abbandonati per le strade, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo. Intanto la polizia recupera questi corpi. E alla fine sono arrivate le scuse. Per quelle immagini “che non sarebbero mai dovuto esistere” e che hanno causato “un netto deterioramento della nostra immagine internazionale”. A dirlo è il vice presidente dell'Ecuador, Otto Sonnenholzner, che si è scusato pubblicamente dopo che decine di corpi sono stati lasciati per le strade della città di Guayaquil, uno degli epicentri del coronavirus. Due terzi delle vittime dell’Ecuador, infatti, sono della provincia di Guayas, dove si trova Guayaquil. Le immagini di quei corpi abbandonati hanno fatto il giro del mondo. Al momento il numero confermato di morti è di almeno 318. Da questa settimana una parte de corpi sono stati raccolti dalle autorità da case e strade, come potete vedere nel video qui sopra, dove un cadavere è stato abbandonato in un sacco nero sul ciglio di una strada. I corpi vengono recuperati dalla polizia. “Abbiamo dovuto coprirlo per portarlo via, fratello. Non ha famiglia”, dice un poliziotto coperto solo con una mascherina. Il corpo è in mezzo a rovi e sterpaglie sul ciglio di una strada. “Lasciarlo lì nella casa dove vive, sarebbe contaminazione ambientale”. Una persona lì accanto lo conosceva: “Era un brav’uomo, un cristiano, viveva solo, era conosciuto qui”. Per ostacolare la diffusione del contagio il governo ha imposto uno stato di emergenza introducendo un coprifuoco notturno nel tentativo di contenere la malattia. Una parte dei corpi delle vittime del coronavirus vive conservata in gigantesche celle frigorifere. Mentre centinaia di morti di Guayaquil hanno riempito obitorio e ospedali, la città si è dotata di oltre 4mila bare di cartone per accelerare le sepolture dei cadaveri che continuano ad accumularsi a seguito dell'emergenza sanitaria. Nel frattempo il presidente Lenin Moreno ha smentito la presenza di fosse comuni. Secondo alcuni video diventati virali e bollati come fake news, qui verrebbero sepolte le vittime del coronavirus dopo essere state cremate. I filmati, sempre secondo il governo ecuadoriano, farebbero parte di una manovra promossa dai sostenitori dell'ex presidente Rafael Correa per destabilizzare l'attuale esecutivo soprattutto con "l'avvicinarsi del 7 aprile", giorno in cui la giustizia ecuadoriana è chiamata pronunciare una sentenza su un’accusa di corruzione ai danni di diversi esponenti del precedente governo. Intanto in questi giorni drammatici ci sono buone notizie per i cento italiani rimasti in Ecuador a causa della chiusura delle frontiere. Il gruppo di turisti, studenti e lavoratori tornerà a casa entro la prossima settimana. 

Coronavirus, cadaveri abbandonati per strada in Ecuador. Alessandra Tropiano il 02/04/2020 su Notizie.it. La pandemia è globale, sta colpendo ogni parte del mondo, dagli Stati più ricchi a quelli più poveri. Nei Paesi in via di sviluppo, dove il sistema sanitario è meno preparato ad affrontare una situazione di emergenza, emergono situazioni di crisi: come in Ecuador, dove i cadaveri dei pazienti positivi al coronavirus vengono lasciati per strada per paura di contrarre l’infezione. Sono scene davvero drammatiche quelle vissute nella città di Guayaquil, capoluogo di regione dell’Ecuador. Nella città che più di tutte le altre registra casi positivi di coronavirus, i corpi dei deceduti vengono abbandonati in strada. Così nei portoni, agli angoli dei marciapiedi e nei bidoni dell’immondizia appaiono cadaveri avvolti in rudimentali sacchi di plastica. Il problema del recupero delle persone decedute in città dura da più di una settimana. Intanto, le drammatiche foto dei cadaveri in strada hanno fatto il giro del web. Stando a quanto riportano i media locali, i cittadini, per paura di contrarre il virus e per il ritardo nel ritiro delle salme, avrebbero iniziato ad abbandonare i corpi per strada. Testimoni denunciano di aver chiamato i numeri di emergenza per far ritirare i morti, ma nessuno ha dato loro una soluzione e i corpi sono rimasti in casa per due e anche quattro giorni di attesa. Guayaquil è la città dell’Ecuador con i più alti casi di positivi e decessi per Covid-19. Il capoluogo della provincia di Guayas conta 1.615 casi sui 2.302 presenti in totale nel Paese. Le autorità ecuadoriane hanno ammesso le difficoltà nel ritirare i cadaveri delle persone decedute, e di fronte a questa situazione il presidente Lenín Moreno ha annunciato lunedì la creazione di una Task Force sotto la responsabilità di Jorge Wated, in modo che i compatrioti che sono morti a Guayaquil abbiano la degna sepoltura che meritano”.

Dagonota il 3 aprile 2020. - Anche oggi gira via Whatsapp un video-bufala, in varie versioni. Il filmato purtroppo è di questi giorni e riguarda un'emergenza Coronavirus, ma non in Italia né negli Stati Uniti, come è scritto nei messaggi che lo accompagnano, bensì in Ecuador, dove l'emergenza sanitaria è forse tra le peggiori registrate finora. Su ItalPress il video è stato pubblicato come se venisse dall'Italia (''probabilmente Bergamo''), e nel frattempo è stato rimosso. Mentre via social appare spesso insieme ad altre immagini degli ospedali improvvisati a New York, facendo intendere che questa situazione da terzo mondo in realtà starebbe accadendo nel cuore dell'Occidente. Invece è proprio terzo mondo, visto che l'Ecuador è uno dei paesi più poveri del Sudamerica e già praticamente al collasso. Un giornalista ha verificato i nomi sui sacchi dei cadaveri (prima di oscurarli), e corrispondono a quelli dei necrologi ecuadoriani. Le stesse immagini erano state poi pubblicate da cittadini dell'Ecuador nei giorni scorsi.

Chiara Fanti per ilmanifesto.it il 3 aprile 2020. Ospedali allo stremo, cadaveri che si accumulano negli obitori e che i familiari non riescono a recuperare, corpi lasciati a casa per giorni e poi, in assenza di risposte da parte del sistema sanitario, abbandonati in strada dentro sacchi di plastica o dati alle fiamme. Sono immagini dantesche quelle che giungono da Guayaquil, in Ecuador, uno dei paesi latinoamericani più colpiti dal coronavirus: oltre 2.700 contagi, di cui 1.900 nella provincia di Guayas, e 93 vittime ufficiali. «Che sta succedendo al sistema di salute pubblica del paese? Nessuno vuole raccogliere i morti», ha denunciato, in polemica con il governo Moreno, la sindaca di Guayaquil Cynthia Viteri, risultata anche lei positiva al Covid-19. «L’intenzione del governo è che tutti, non solo le vittime del coronavirus ma tutti i defunti di questi giorni, abbiano una degna sepoltura», ha assicurato il vicepresidente Otto Sonnenholzner, dopo l’ondata di indignazione provocata dalla sua precedente dichiarazione che i morti per Covid-19 – peraltro difficilmente individuabili in assenza di tamponi – sarebbero stati seppelliti in fosse comuni. La realtà parla piuttosto di un collasso totale dei servizi sanitari e di quelli mortuari, aggravato dal rifiuto di molte agenzie funebri di continuare a lavorare per paura del contagio. Solo l’ultima settimana la polizia ha recuperato più di 400 cadaveri dalle strade della seconda città più importante del paese e ne restano ancora 115. Né certamente è di aiuto alle operazioni di raccolta il coprifuoco di 15 ore decretato dal governo di Lenin Moreno insieme allo stato di eccezione in vigore ormai da tre settimane. Una militarizzazione dell’emergenza fortemente criticata dagli organismi dei diritti umani, che denunciano violenze e atteggiamenti vessatori da parte delle forze di sicurezza nei quartieri popolari, in cui oltretutto stentano ad arrivare gli aiuti dello Stato. E un ulteriore motivo di difficoltà è legato al fatto che, di fronte alla decisione del governo di rendere obbligatorie le cremazioni, in città «esistono solo tre forni crematori, tutti privati, che chiedono cifre impossibili per le classi popolari», come denuncia Billy Navarrete, segretario esecutivo del Comitato permanente per la difesa dei diritti umani di Guayaquil: «È incredibile – ha detto – ma in questo quadro c’è anche chi persegue il profitto». La situazione, in ogni caso, non è destinata a migliorare nell’immediato se è vero che, come ha affermato il ministro della Salute Juan Carlos Zevallos, la curva dei contagiati è esponenziale e le autorità sanitarie prevedono che solo nella provincia di Guayas, in cui si trova Guayaquil, le vittime arriveranno a una cifra compresa tra 2.500 e 3.500. In tale contesto grande preoccupazione è stata espressa dalla Conaie – la Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador che ha giocato un ruolo determinante nella rivolta anti-governativa dello scorso ottobre – riguardo l’assenza di risposte concrete da parte del presidente Moreno verso la popolazione più vulnerabile: il governo, esigono in una nota le organizzazioni indigene del paese, deve adottare «tutte le misure necessarie, culturalmente appropriate ed efficaci, per proteggere le comunità e i territori da cui dipendono».

Ida Artiaco per fanpage.it il 2 aprile 2020. Sono immagini drammatiche quelle che arrivano direttamente dalla città di Guayaquil, in Ecuador, la più colpita del Paese sudamericano dall'emergenza Coronavirus: i cadaveri dei deceduti per Covid-19 e non solo vengono lasciati in strada, gettati nell'immondizia avvolti in sacchi di plastica o dati alle fiamme in attesa di essere seppelliti, il tutto mentre intorno continua a scorrere la vita di tutti i giorni. I social network sono stati invasi da video e foto degli utenti che hanno denunciato una situazione diventata insostenibile. In uno di questi filmati, addirittura, data la mancanza di ambulanze e la scarsa capacità di capienza degli obitori, che sono ormai pieni, si vede un gruppo di agenti di polizia lanciare da un camioncino una salma in strada. Anche le famiglie dei defunti sono costretti a portare i corpi senza vita dei loro cari fuori dalle abitazioni, negli angoli, nei portoni o nei contenitori dell'immondizia, avvolti in rudimentali sacchi di plastica, per evitare ulteriori contaminazioni all'interno. Alcuni testimoni hanno raccontato di aver chiamato i numeri di emergenza per far ritirare i morti, anche per patologie non strettamente legate al Coronavirus, ma nessuno ha dato loro una soluzione, il sistema funerario è collassato e i corpi sono rimasti in casa per due e anche quattro giorni di attesa. Da qui la decisione di lasciarli in strada. Di fronte a questa situazione, che va avanti da almeno una settimana, il presidente Lenín Moreno ha annunciato lunedì scorso la creazione di una task force sotto la responsabilità di Jorge Wated, in modo che i compatrioti che sono morti a Guayaquil abbiano la degna sepoltura che meritano, ma al momento la crisi non è ancora stata risolta, con le autorità che continuano a riconoscere le difficoltà nel ritirare i cadaveri delle persone decedute. Sconvolgente la testimonianza di una donna, Jésica Castañeda, rilasciata alla BBC Mundo: "Mio zio è morto il 28 marzo e nessuno viene ad aiutarci. Gli ospedali ci hanno detto che non avevano barelle e lui è deceduto a casa. Il corpo è ancora lì, a letto, perché nessuno può toccarlo". E ancora un'altra: "Il clima qui rende il livello di decomposizione dei cadaveri più veloce che in altre parti del paese. Ho sentito parlare del caso di un defunto nella sua camera da letto i cui parenti hanno portato il corpo sul materasso direttamente sul marciapiede". Sono già 300 i cadaveri recuperati in queste condizioni. A Guayaquil, capoluogo della provincia di Guayas da 2.8 milioni di abitanti che sorge sulle coste del Pacifico, si registrano al momento 1.615 casi sul totale di 2.302 in tutto l'Ecuador, ma molti pazienti non vengono neppure controllati. Anche la sindaca della città, Cynthia Viteri, ha annunciato di essere positiva al Covid-19: la donna ha attaccato duramente il governo centrale, che dovrebbe essere il responsabile della raccolta dei cadaveri. "Nessuno vuole recuperarli", ha detto in un video messaggio su Twitter, mentre si lavora alla creazione di una fossa comune in cui seppellire i deceduti. Il comandante della Marina nazionale, Darwin Jarrín, che ha assunto il coordinamento militare e di polizia per la provincia di Guayas il 30 marzo, ha assicurato sempre a BBC Mundo che entro giovedì 2 aprile tutti i defunti saranno sepolti a Guayaquil. Ma quella legata alle sepolture non è l'unica emergenza che il Paese sudamericano sta affrontando. Non bisogna dimenticare neppure quella sanitaria: stanno facendo il giro del web le immagini che ritraggono alcuni medici utilizzare come maschere di protezione delle bottiglie d'acqua di plastica mentre negli ospedali non c'è più neanche un posto libero e i pazienti vengono lasciati a loro stessi. Il primo caso confermato in città risale al 29 febbraio scorso: si trattava di una donna di 70 anni che era arrivata due settimane prima dall'Italia e risiedeva fuori Guayaquil, come riporta il Los Angeles Times. È morta due settimane più tardi, poco prima che il presidente Moreno imponesse misure restrittive per il contenimento dell'infezione e chiudesse in confini. Molti accusano i "ricchi" del Paese di essere stati i responsabili dell'arrivo dell'infezione: sotto accusa anche le profonde relazioni con la Spagna, grande focolaio europeo del Coronavirus. "Il nuovo virus è arrivato attraverso chi viaggiava, si è diffuso durante alcune feste e ricevimenti, soprattutto tra le persone ricche – ha spiegato Guayaquil Anastasio Gallego, uno dei responsabili nella città dell’Hogar de Cristo, il centro di accoglienza per poveri, senza dimora e migranti gestito in collaborazione con i gesuiti -. I contagiati sono in gran parte o dell’alta società oppure del segmento più basso, cioè chi alle feste prestava servizio. Sono pochi, invece i malati nella classe media".

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 4 aprile 2020. «Mio zio è morto tre giorni fa, ma nessuno è venuto a prendere il cadavere. Siamo costretti a metterlo in strada, l' odore in casa è insopportabile». Decine di messaggi come questo sono arrivati nell' ultima settimana alla redazione del quotidiano Expresso di Guayaquil, tanto che la giornalista Blanca Moncada ha deciso di trasformare il suo account twitter in un bollettino con morti, indirizzo e recapiti. «Famiglia Munoz; madre e figlio. Morti il primo aprile, callejon 120, Cerro Santa Ana». «Bolivar Tinajero Guevara, morto il 30 marzo alle 17.00, incrocio di José Mascote e Huancavilla, senza telefono». La lista è lunghissima, la città più popolosa dell' Ecuador è anche quella più colpita dal coronavirus con un aumento impressionante di numeri di morti che non vengono contabilizzate nelle statistiche ufficiali. Un ritmo di oltre 300 decessi al giorno, fino a dieci volte la media abituale, quasi tutti morti senza che sia fatto loro il test del tampone. Di fronte al diniego da parte delle imprese di pompe funebri di andare a rimuoverli molti hanno deciso di lasciare i cadaveri per strada, una distesa di morti che abbandonati per giorni. La sindaca Cynthia Viteri ha chiesto al governo di Quito l' autorizzazione per rimuoverli e ha allestito quattro grandi container per conservarli in attesa di trovare spazio nei cimiteri. All' inizio è circolata l' ipotesi di gigantesche fosse comuni, ma le proteste dei famigliari hanno fatto cambiare idea e da mercoledì una squadra speciale è al lavoro giorno e notte per scavare nuove fosse nei camposanti. Dal cimitero Parque de la Paz escono ogni giorno quattro auto che setacciano la città per ritirare i cadaveri, seguendo spesso le indicazioni della Moncada. «Possiamo solo ringraziare tutti quelli che stanno dando una mano - spiega la giornalista - grazie anche alla stampa internazionale che ha permesso di fare luce su quello che sta succedendo; non era mai successa una tragedia così grande nella nostra città. Il sistema di salute è collassato, nessuno sta facendo l' esame per sapere se la persona è morta di Covid-19 o no, i famigliari aspettano diversi giorni perché arrivino a casa a ritirare il defunto». Il presidente Lenin Moreno ha dovuto ammettere che la situazione è fuori controllo e che probabilmente i morti per il virus sono molti di più rispetto ai 150 contabilizzati nei registri ufficiali, una cifra già di per sé elevata se si considera che è la metà di quelli registrati in Brasile, che ha 15 volte gli abitanti dell' Ecuador. Guayaquil è la città dove il virus galoppa più velocemente e non è un caso trattandosi della capitale economica del Paese, snodo commerciale e del traffico nazionale e internazionale. La quarantena imposta del governo è arrivata tardi, gli ospedali sono pienissimi, il governo ha detto che la capacità dei laboratori pubblici e privati non arriva a 1.400 test al giorno, troppo pochi rispetto a decine di migliaia di possibili contagiati. Sono partite diverse campagne di raccolta di fondi, mobilitati anche i tantissimi emigrati negli Stati Uniti e in Europa, angosciati per la sorte dei loro cari. A Guayaquil i funerali venivano fatti spesso a distanza di una settimana dal decesso per permettere proprio l' arrivo dei famigliari dall' estero. Oggi la lista d' attesa è ancora più lunga per trovare una fossa e non essere costretti ad abbandonarli in strada.

·        …in Perù.

"Io, italiano in Perù. Tra uscite a sessi alterni e nuove disuguaglianze". Il lockdown che viene prorogato nel paese sudamericano, la differenza tra ricchi e poveri che si aggrava, la speranza per il futuro. Ci scrive un lettore dallo Stato andino. Mario Zanatta Salvador il 24 aprile 2020 su L'Espresso. Questa testimonianza di un italiano all'estero è stata raccolta grazie alla collaborazione di Giovani Italiani nel mondo. "Voglio immaginarmi il giorno in cui le porte delle case peruviane si riapriranno, dopo sei o più settimane di quarantena. Qui in Perù, inizialmente, la fine del lockdown era programmata il 13 aprile, dopo 28 giorni di serrata generale, ma adesso è stata posticipata al 27 e, chissà, forse verrà spostata un po' più in là. Sono nato e cresciuto in Perù, da padre italiano e mamma peruviana. Sono vissuto a Lima, la capitale, fino a due anni fa, quando ho poi preso la decisione di trasferirmi a Cusco, a 3.400 metri di altezza dal mare, incastonato fra le Ande peruviane, che un tempo fu la grandiosa capitale dell'Impero Inca. Fino a poco più d’una settimana fa in Perù vigeva una strana regola, un'uscita a giorni alterni per donne e uomini solo per comprare prodotti di prima necessità (gli uomini potevano uscire di casa il lunedì, il mercoledì e il venerdì): ma poi questa norma è stata sospesa. Detto questo, anche in Perù stiamo attraversando settimane surreali, che sanno facendo emergere il meglio e il peggio di noi. All'inizio qualcuno diceva che il coronavirus è democratico, perché colpisce tutti, ricchi e poveri. Ma qui in Perù le disuguaglianze sono diventate ancora più visibili e accese: il divario fra chi ha di più e chi ha di meno è diventato immenso perché la maggioranza delle persone vive alla giornata e si è ritrovata senza pane, perché obbligata a stare a casa, senza possibilità di guadagnare alcunché. Per quello il governo ha disposto degli aiuti economici per le famiglie più in difficoltà. Nelle provincie, come a Cusco, non mi sembra abbiamo avuto ancora problemi di approvvigionamento. A Lima invece la situazione sembra più difficile. Va detto che il Perù gira intorno a Lima, dove vivono 9 dei 32 milioni di cittadini. I servizi assistenziali e l'accesso agli ospedali, invece, sono un problema ovunque e per questo il paese ha preso fin da subito misure drastiche e rapide: se avessimo avuto i casi di Covid-19 dell'Italia, qui sarebbe stato un disastro. A Cusco la maggioranza di gente sta rispettando le misure, come in parte delle Ande dove, del resto, fa molto freddo e le persone restano più volentieri nelle loro case, al caldo. A Lima, nelle provincie sulla costa e nella foresta, la situazione invece e più difficile, in parte a causa del clima caldo ed estivo. Non voglio dire che questa quarantena obbligatoria non sia stata una buona decisione, tutt'altro. Contro ogni pronostico, siamo uno dei paesi meno colpiti, in buona parte grazie alle decisioni di un Presidente che non abbiamo nemmeno eletto noi. Siamo un Paese talmente paradossale, che in mezzo a questa crisi globale riusciamo a scorgere una tenue luce di speranza (o al meno io lo spero così). Voglio immaginarmi il giorno che si riapriranno le porte uscendo dalle nostre case, ammirando un paese nuovo, con strade linde e fiumi puliti. Magari che non ci venga la voglia di costruire un Perù migliore, più sostenibile e più di tutti alla fine di tutto questo.

·        …in Messico.

DAGONEWS il 9 maggio 2020. Il governo messicano sta nascondendo centinaia, o forse migliaia, di morti per coronavirus a Città del Messico, licenziando coloro che riferiscono che nella capitale ci sono il triplo delle vittime. È quanto si legge in un reportage del New York Times che ha esaminato come nel Paese la situazione sia grave e come le autorità continuino a nascondere il drammatico bilancio delle vittime. I medici negli ospedali raccontano di come nella Capitale la realtà venga nascosta: in alcuni nosocomi i pazienti giacciono sul pavimento, distesi su materassi. Le persone anziane vengono appoggiate su sedie di metallo perché non ci sono abbastanza letti, mentre i pazienti vengono rimbalzati e mandati a cercare posti letto in altri ospedali non specializzati. Molti di loro muoiono prima di aver trovato un ospedale pronto a ricoverarli. Secondo i dati a Città del Messico ci sono stati 2.500 morti per il virus o per gravi malattie respiratorie che i medici sospettano siano correlate al Covid-19. Eppure per il governo federale i morti sono circa 700 nell'area che comprende Città del Messico e i comuni alla sua periferia. A livello nazionale, il governo federale ha riferito di circa 3.000 decessi confermati a causa del virus, oltre a circa 250 sospettati di essere correlati, in un paese di oltre 120 milioni di persone. Ma gli esperti affermano che il Messico non ha idea di come si stia diffondendo il virus tra la popolazione visto il numero irrisorio di tamponi effettuati: solo 0,4 persone su 1.000 nel Paese sono state testate per il virus. 

Guido Olimpo per "corriere.it" il 17 aprile 2020. I narcos sono in lotta tra loro per il controllo dei traffici. Una rivalità che, nelle ultime settimane, si è estesa alla beneficienza: c’è la gara nel distribuire aiuti alla popolazione colpita dal virus. Tra i primi a muoversi sono stati il cartello del Golfo e quello di Jalisco-Nuova Generacion. In numerosi villaggi sono arrivati i camioncini dei criminali e qui hanno scaricato pacchi di cibo destinati agli abitanti. Una dimostrazione di solidarietà (e di forza) documentato con filmati sul web, foto, messaggi. Gli scatoloni, con dentro riso, olio e altre cibarie, hanno il logo delle rispettive formazioni oppure del capo locale. La famiglia de El Chapo è entrata in campo con il suo stile. Una delle figlie del boss, Alejandrina, ha donato carta igienica e viveri nella zona di Guadalajara: anche in questo caso c’era il marchio sui rifornimenti. Il clan ha usato il brand registrato «El Chapo 701», usato in passato per altre iniziative. L’azione dei network rientra in una strategia consolidata. In occasione di calamità naturali e in periodo festivi, i boss hanno cercato di conquistare cuori, menti e favori con iniziative a sostegno delle famiglie in difficoltà. È una strategia scontata quanto efficace. Riempiono il vuoto lasciato dallo Stato, si presentano come salvatori, acquistano credito e dimostrano efficienza grazie alle enormi risorse finanziarie. Sono regali interessati, perché quando verrà il momento andranno all’incasso. Mai dimenticare che l’attività delle bande armate punta molto sul tessuto sociale, sulla complicità volontaria, comprata o forzata. Un esempio: i gruppi specializzati nei furti su larga scala di idrocarburi non di rado usano i civili come pedine negli assalti e si fanno scudo di loro.

·        …in Russia.

DAGONEWS il 26 ottobre 2020. «Cadaveri, cadaveri ovunque». Il video horror girato da un operatore sanitario russo mostra decine di corpi di vittime del coronavirus ammassate in un obitorio. Il filmato è stato girato nella città siberiana di Novokuznetsk, a quasi 500 chilometri dal confine con il Kazakistan. «Abbiamo un corridoio pieno – dice l’uomo mentre inquadra sacchi di cadaveri sul pavimento – Ci sono cadaveri ovunque, si può inciampare e cadere. Sto camminando letteralmente sulle teste dei morti». Il ministero della sanità locale nella regione di Kemerovo ha confermato l'autenticità del video. Oleg Evsa, capo del dipartimento locale del ministero, è stato licenziato dal governatore locale Sergey Tsivilev, al momento in quarentena anche lui per aver contratto il coronavirus. In un comunicato si legge: «Dato l'aumento del numero di casi nelle ultime tre settimane, c'è un aumento del numero di morti. A causa di un ritardo nella consegna dei corpi alle famiglie vengono trattenuti in ospedale. Molti parenti delle vittime hanno il Covid e non posso venire a recuperare i loro cari». Immagini simili sono state registrate in un ospedale a Barnaul mentre una clip girata a Zheleznogorsk mostra decine di persone costrette a fare la fila a temperature sotto zero per vedere un medico. Code simili sono state viste a Krasnoyarsk. In alcuni ospedali mancano gli antibiotici mentre a Rostov sul Don 13 pazienti sono morti dopo che l’ospedale aveva esaurito le scorte di ossigeno. In Russia sono stati registrati 1.531.224, contagi, ma il contatore delle vittime è fermo a 17.347 morti. Un dato che, come già successo all’inizio della pandemia, non fa altro che confermare che nel Paese il numero ufficiale non sia quello reale dei morti.

La Russia approva due farmaci per il trattamento del Covid-19. Andrea Walton su Inside Over il 19 settembre 2020. La Federazione russa ha compiuto un importante passo in avanti per giungere ad una cura del Covid-19. Le autorità sanitarie del Paese hanno autorizzato la distribuzione nelle farmacie di due rimedi in grado di curare i casi d’infezione lievi e moderati provocati dal virus Sars-CoV-2. Si tratta dell’Areplivir, prodotto dalla Promomed e del Koronavir, che è stato sviluppato dalla R-Farm. Entrambi i farmaci sono varianti del favipiravir, un antivirale sviluppato dalla giapponese Fujifilm che viene raccomandato in alcuni Paesi, tra cui Cina, India e Russia, per curare le infezioni provocate dal coronavirus. R-Farm ha dichiarato che il Koronavir dovrebbe ridurre lo sviluppo di complicazioni legate al Covid-19. Il 50% dei pazienti che lo hanno assunto nell’ambito delle sperimentazioni avrebbe mostrato segni di miglioramento nel giro di sette giorni.

Una questione di metodo. La R-Pharm ha reso noto di aver ricevuto l’autorizzazione per la produzione di massa del Coronavir dopo aver completato la Fase 3 dei test clinici, che ha coinvolto appena 178 pazienti. Si tratta di un problema ricorrente nella Federazione russa e che ha segnato anche il vaccino Sputnik V, che dovrebbe essere lanciato nel mese di novembre. Le fasi uno e due della sperimentazione dello Sputnik V hanno visto la partecipazione di appena 76 volontari ed il vaccino è stato brevettato prima dell’inizio della decisiva fase tre dei test. Si tratta di una procedura del tutto inusuale in Occidente: la fase 3 di una sperimentazione, che è di vitale importanza per comprendere la reale efficacia di una cura e la presenza di gravi effetti collaterali, vede coinvolte molte migliaia di volontari. Mosca ha però deciso di bruciare le tappe spinta da motivazioni geopolitiche: lo sviluppo di una cura in grado di fermare il Covid-19 consentirebbe all’economia russa di ripartire per prima e di espandere la sfera d’influenza del Cremlino. La comunità scientifica mondiale è focalizzata, ormai da mesi, sullo sviluppo di un trattamento farmacologico o di un vaccino per riuscire ad imbrigliare il virus Sars-CoV-2.

Le complesse trame geopolitiche. Il compito non è dei più semplici: normalmente servono anni per raggiungere un risultato di questo genere. I tempi sono stati compressi per ovvie esigenze economiche e sanitarie ed il Cremlino potrebbe trarne dei vantaggi politici. La Federazione russa ha recentemente raggiunto un accordo con l’India per la fornitura di cento milioni di dosi dello Sputnik V a Nuova Delhi in cambio della produzione di 300 milioni di dosi del vaccino da parte delle autorità indiane. Il vaccino russo fa gola anche all’Egitto che, stando a quanto riferito dai vertici del Fondo di investimento russo, potrebbe fungere da porta di accesso per il resto dell’Africa. Sono poi state siglate intese con Brasile e Messico per rifornire i due Paesi con 80 milioni di dosi del trattamento.

Tentativi di normalizzazione. Le autorità russe non sembrano comunque preoccupate dalla diffusione del Covid-19 nel Paese. Il virus ha infettato oltre un milione di cittadini e provocato la morte di quasi ventimila persone ma, secondo la Ria Novosti Rospotrebnadzor, il servizio federale dei consumatori, si starebbe adattando alla popolazione umana e potrebbe divenire una malattia stagionale. Una tesi che sarebbe corroborata, secondo l’ufficio stampa di Rospotrebnadzor. dal calo del tasso di mortalità del Covid-19, passato dal 7.2 al 3.2 per cento e dalla crescente trasmissibilità della malattia. Il calo del tasso di mortalità è stato osservato anche in altre nazioni del Vecchio Continente ed è stato giustificato dal fatto che i nuovi casi di infezione hanno coinvolto, nel corso dell’estate, principalmente le fasce d’età giovanili, meno propense a sviluppare sintomi severi oppure a perdere la vita a causa del morbo.

Il vaccino russo può aiutare il mondo. Andrea Walton su Inside Over il 14 ottobre 2020. Nessuno dei duemila volontari che hanno ricevuto la doppia somministrazione del vaccino Sputnik V è stato infettato dal virus SARS-CoV-2. A riferirlo (al portale Eastern Herald) è stato Alexander Gintsburg, a capo del Centro Nazionale di Ricerca per l’Epidemiologia e la Microbiologia Gamaleya di Mosca, che ha curato lo sviluppo del preparato vaccinale. Il medico ha voluto smentire le voci circolate in merito alle infezioni di alcuni volontari che, malgrado la presenza di anticorpi, avrebbero comunque contratto il Covid-19. Ginsburg ha chiarito come una persona sia da considerare vaccinata solamente 21 giorni dopo la seconda somministrazione dello Sputnik V e che il preparato necessita di tempi lunghi per favorire la produzione di anticorpi protettivi nel ricevente.

Un rischio calcolato. La Federazione Russa è stato il primo Paese al mondo a brevettare un vaccino, denominato Sputnik V, contro il Covid-19. Lo sviluppo dello Sputnik V è avvenuto in brevissimo tempo ed il farmaco è stato registrato ancor prima del completamento della Fase 3 della sperimentazione clinica, un passaggio fondamentale volto a verificarne la sicurezza e l’efficacia. Nel corso della Fase 3 il vaccino viene inoculato su decine di migliaia di volontari e si cerca di capire, a distanza di molti mesi, se ha prodotto gravi effetti collaterali o se si è rivelato inefficace nella lotta contro il virus. Si tratta di un passaggio complesso e difficoltoso, che può segnare la fine di progetti ambiziosi. La Russia intende dare inizio alla vaccinazione di massa mentre i test clinici sono ancora in corso, una scelta che ha sollevato perplessità in alcuni osservatori. Gintsburg ha difeso le scelte di Mosca ed ha dichiarato all’agenzia Reuters che queste tempistiche sono state adottate a causa della pandemia, dato che “le persone muoiono come in guerra” ed ha affermato che nessun aspetto relativo alla sicurezza dello Sputnik V è stato trascurato. I primi 5mila volontari sono stati vaccinati il 9 settembre e le prime evidenze potranno essere pubblicate nel mese di ottobre o quello di novembre. La Russia potrebbe essere il primo Paese al mondo ad annunciare i risultati della Fase 3 della sperimentazione.

Una speranza per il futuro. Vladimir Putin ha puntato molto sull’efficacia dello Sputnik V e sulla possibilità che fornisca un contributo fondamentale nel porre fine alla pandemia. Mosca ha già firmato una serie di accordi per fornire oltre un miliardo di dosi vaccinali a 10 Paesi in Asia, America Latina e Medio Oriente ( tra cui ci sono Arabia Saudita e Brasile) ed il preparato potrebbe rivelarsi una formidabile arma propagandistica per rilanciare le prospettive del Cremlino sullo scenario mondiale. Il rischio, però, è che la reputazione russa possa crollare, a causa di un effetto boomerang, qualora il vaccino dovesse risultare poco efficace o insicuro. Un rischio tremendo che il Presidente Putin, con tutta probabilità, ha già calcolato. Il Capo di Stato è deciso a limitare, per quanto possibile, le ricadute del virus sull’economia del Paese. Le previsioni fornite dal Fondo Monetario Internazionale nel mese di giugno erano poco incoraggianti e stimavano che il Prodotto Interno Lordo potesse contrarsi del 6,6 per cento nel 2020 per poi rimbalzare del 4,1 per cento nel 2021. Un quadro fosco che potrebbe ovviamente aggravarsi (oppure attenuarsi) a seconda dell’evoluzione del quadro epidemiologico. L’arrivo della stagione fredda ed il forte aumento dei casi giornalieri registrati nella Federazione Russa, che hanno recentemente superato quota 13mila, non infondono ottimismo. L’implementazione di un nuovo lockdown su scala nazionale potrebbe avere effetti disastrosi sulla tenuta del sistema produttivo statale e sul tasso di approvazione del Capo dello Stato. Sullo sfondo ci sono Cina e Stati Uniti, le due superpotenze mondiali che auspicano un ridimensionamento della Russia per poter espandere i propri interessi strategici.

Antonio Socci e Putin: "Il suo vaccino contro il coronavirus è efficace, la sinistra lo snobba". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 07 settembre 2020. C'è uno slogan del Sessantotto che ha fatto tanti danni: «Tutto è politica». Siccome dovunque l'establishment è costituito (o egemonizzato) da ex Sessantottini, questa è diventata ormai la mentalità dominante. Tutto è politica significa che tutto è propaganda. La realtà per loro non esiste e la verità cambia a seconda delle convenienze. Lo si vede in questi giorni con i vaccini anti-Covid. Per mesi tutti, a cominciare da Onu e Oms, hanno enfatizzato il salvifico arrivo del vaccino presentato come la panacea che avrebbe risolto tutti i nostri problemi e il magnate Bill Gates sui media vestiva i panni del "messia" dei vaccini. Ogni volta che i medici, in questi mesi, hanno scoperto farmaci che concretamente combattono il Covid e portano a guarigione, sono sorte polemiche e quei farmaci sono stati ignorati o svalutati (nonostante i risultati clinici): si pensi al protocollo messo a punto dal professor Didier Raoult, l'infettivologo direttore dell'ospedale universitario di Marsiglia. Ricordo pure - per fare un esempio italiano - la storia e i risultati del primario del reparto di oncologia dell'ospedale di Piacenza, Luigi Cavanna. È bastato che Trump invitasse a valorizzare l'idrossiclorochina per farla "scomunicare". Così ha valorizzato il plasma iperimmune e aveva ragione. E però tutti ci hanno ripetuto per mesi che l'unica speranza era l'arrivo di un vaccino. Poi, l'11 agosto, la notizia: «Il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che Mosca ha registrato il primo vaccino contro il Covid-19, sviluppato dall'istituto Gamaleya». Si poteva credere che quanti da mesi invitavano a sperare solo nel vaccino salvifico si sarebbero spellati le mani per gli applausi. Invece no. Mica si poteva applaudire "il cattivo" Putin È noto che la Russia - da quando è stata abbattuta la sanguinaria tirannia comunista - è diventata la bestia nera della stampa e della politica progressiste (anche di quelli che esplicitamente un tempo acclamavano i regimi comunisti). Così il vaccino di Putin è stato ridicolizzato, snobbato, accantonato con disprezzo come fosse una fake news. Addirittura lo si è ritenuto pericoloso perché non abbastanza testato. L'annuncio (sobrio) - A dire il vero Putin era stato molto sobrio in quell'annuncio d'inizio agosto: aveva spiegato che la fase 3 dei test clinici era iniziata da una settimana e che la vaccinazione sarebbe stata «assolutamente volontaria». Aveva poi dichiarato: «So che altri istituti stanno lavorando su vaccini simili in Russia. Auguro successo a tutti gli specialisti. Dovremmo essere grati a coloro che hanno fatto questo primo passo estremamente importante per il nostro Paese e per il mondo intero». Putin aveva riferito che anche una delle sue figlie era fra i volontari a cui era stato somministrato il vaccino sperimentale e che stava bene: dopo la prima dose aveva avuto la febbre a 38, il giorno dopo era scesa poco sopra i 37 gradi, «poi, dopo la seconda dose, ha avuto di nuovo una leggera febbre e, dopo, tutto era a posto, si sente bene e ha un alto numero di anticorpi». Ma nonostante questi toni sobri e consapevoli, in occidente l'annuncio di Putin è stato seppellito dalle pernacchie e dalla dura freddezza dell'Oms. Chi si credeva di essere, Bill Gates? Il posto di salvatore dell'umanità era già stato assegnato, in anticipo, al fondatore di Microsoft. Mica poteva essere spodestato da un "cattivo" come Putin, disprezzato dall'establishment liberal. Per un mese dunque si è fatto finta che l'annuncio di Putin fosse una bufala e il vaccino non fosse ancora stato realizzato. Poi, l'altroieri, una nuova doccia fredda. Secondo la celebre rivista scientifica Lancet, sembra che il vaccino russo «abbia la capacità di produrre anticorpi, senza importanti effetti collaterali». Infatti dai primi dati scientifici risulta che c'è una risposta immunitaria in tutti i 76 volontari che sono stati coinvolti nelle fasi 1 e 2 della sperimentazione (si tratta di adulti sani tra i 18 e i 60 anni). Insomma, il vaccino russo è una cosa seria. Lo scorno - Che scorno... Come se non bastasse a far schiattare di rabbia certi ambienti, potrebbe entrare clamorosamente in scena anche l'altro "cattivo" della narrazione dominante: Donald Trump. Venerdì, intervenendo in videoconferenza al Forum di Cernobbio, Hillary Clinton, dopo aver fatto un comizio per Biden, ha dichiarato masticando amaro: «Non sarei stupita che Trump prima delle elezioni si presentasse nel Giardino delle rose, davanti alla Casa Bianca, e annunciasse che l'America ha un vaccino. È probabile che accada». Naturalmente la Clinton considera questa eventualità come una pessima e cinica trovata dell'odiato Trump, ma in realtà il presidente nei mesi scorsi ha fortemente impegnato la sua amministrazione per arrivare quanto prima al vaccino. È uno dei suoi meriti nella lotta al Covid che ovviamente gli avversari non gli riconoscono. Ora, in odio a Trump e Putin, gli illuminati progressisti cominceranno a fare tali distinguo da somigliare ai loro detestati avversari no-vax. Per certi ambienti servirebbe un altro vaccino: quello contro la faziosità. Ma purtroppo non esisterà mai.

Il vaccino di Putin funziona. Lo dice Lancet. Il Dubbio il 4 settembre 2020. I primi dati della sperimentazione sull’uomo del vaccino russo ‘Sputnik V’ contro Covid-19 evidenziano “un buon profilo di sicurezza senza eventi avversi per 42 giorni”, inoltre è stata verificata “una risposta degli anticorpi entro 21 giorni”. I primi dati della sperimentazione sull’uomo del vaccino russo ‘Sputnik V’ contro Covid-19 evidenziano “un buon profilo di sicurezza senza eventi avversi per 42 giorni”, inoltre è stata verificata “una risposta degli anticorpi entro 21 giorni”. E’ quanto evidenziano i risultati preliminari di due studi non randomizzati di fase 1-2, pubblicati su ‘Lancet’ e condotti su 76 volontari a cui è stato somministrato il vaccino in due ospedali di Mosca. La ricerca è stata condotta dal Gamaleya Institute of Epidemiology and Microbiology (Mosca). Il 26 agosto è stata approvata la fase 3 della sperimentazione del vaccino su 40 mila volontari che verranno costantemente monitorati attraverso un’applicazione online. Uno degli studi ha preso in esame la formulazione congelata del vaccino e un altro la formula liofilizzata. La prima è prevista per un uso su larga scala, la seconda è stata sviluppata per le zone difficili da raggiungere e, in quanto è più stabile, il futuro vaccino potrà essere conservato a 2-8 gradi centigradi. “Sono state adottate misure senza precedenti per sviluppare in Russia un vaccino anti-Covid – ha sottolineato Alexander Gintsburg, tra i curatori degli studi del Gamaleya Institute of Epidemiology and Microbiology – Sono stati effettuati studi preclinici e clinici che hanno permesso di approvare provvisoriamente il vaccino ai sensi dell’attuale decreto del Governo della Federazione Russa del 3 aprile 2020. Questa autorizzazione provvisoria richiede uno studio su larga scala e consente la vaccinazione della popolazione nel contesto di uno studio di fase 3, utilizzando il vaccino sotto stretta farmacovigilanza e somministrandolo a gruppi a rischio”.

"Mosca, protezione vaccino russo per almeno due anni". Lo ha detto direttore del Centro nazionale di ricerca Gamaleya. (ANSA il 13 agosto 2020) - Le proprietà protettive del vaccino russo contro il coronavirus saranno intatte per almeno due anni dopo la sua somministrazione. Lo ha detto il direttore del Centro nazionale di ricerca Gamaleya per l'epidemiologia e la microbiologia del Ministero della sanità russo, Alexander Gintsburg. "Il periodo di efficacia del vaccino, le sue proprietà protettive non dureranno per un breve periodo ma per almeno due anni", ha detto in un'intervista sul canale televisivo Russia-1. Lo riporta la Tass. 

Fabrizio Dragosei per il "Corriere della Sera" il 13 agosto 2020. Le critiche al vaccino russo che sarà sfornato a breve e che è stato testato anche sulla figlia di Vladimir Putin «sono assolutamente prive di fondamento» e dettate dall'invidia dell'Occidente. Piccate per la valanga di perplessità piovuta sulla scienza del Paese dopo l'annuncio fatto in tv dallo stesso presidente russo, le autorità di Mosca rispondono per le rime. Lo Sputnik V, come è stato chiamato in onore del primo satellite artificiale sovietico del 1957, è «efficacissimo». Il ministro della Sanità Mikhail Murashko ha usato il sarcasmo per controbattere le accuse. «Sembra che i nostri colleghi stranieri siano rimasti molto colpiti dai vantaggi competitivi del farmaco russo e stanno esprimendo pareri che a nostro avviso sono completamente privi di fondamento». Anche l'Oms ieri ha nuovamente invitato alla cautela. Una sperimentazione troppo breve? Oggi, dopo due mesi, è cominciata la fase tre con test che coinvolgeranno più di duemila persone in Russia e in altri Paesi. Finora la sostanza è stata provata su militari volontari (quanto volontari? Ci si chiede), sullo stesso direttore dell'istituto di ricerca Gamaleya di Mosca e su altri personaggi, come la figlia di Putin. La donna avrebbe avuto due giorni di febbre, «a 38 e poi a 37 gradi», secondo quanto ha raccontato il padre. L'autorizzazione concessa dal ministero della Sanità prevede la somministrazione a persone «a rischio», a cominciare dai medici, gli insegnanti e gli anziani. Le autorità hanno precisato che tutto avverrà su base volontaria. Si partirà pure in Brasile, Messico, negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita. Si era parlato anche di Cuba ma il capo epidemiologo dello Stato caraibico ieri si è mostrato molto cauto. A una domanda specifica sul vaccino russo ha preferito non rispondere. Poi ha aggiunto: «Continuo a credere che un farmaco sarà disponibile per il mondo e per noi dal 2021; durante il prossimo anno, probabilmente dai primi mesi».  Sui tempi si è espresso ieri anche il prestigioso istituto tedesco Robert Koch che è più ottimista. «Proiezioni preliminari fanno sembrare possibile la disponibilità di uno dei vari vaccini sperimentati dall'autunno del 2020», si legge in un comunicato uscito in Rete, e poi ritirato poche ore più tardi perché «finito per sbaglio sul web». L'istituto però aggiunge che «sarebbe pericoloso a questo punto confidare nel fatto che una vaccinazione a iniziare dall'autunno 2020 possa controllare la pandemia». Insomma, cautela. Anche perché la produzione non potrà essere velocissima. La Binnopharm russa, che sfornerà lo Sputnik, dice che sarà in grado di rendere disponibili 1,5 milioni di dosi all'anno e che spera di aumentare la produzione. In ogni caso Mosca precisa che il vaccino sarà destinato al mercato interno. Solo dopo potrà essere fornito all'estero.

Igor Pellicciari per "formiche.net" il 13 agosto 2020. Tra le regole auree del ricercatore spicca quella del non farsi trascinare nel commento del quotidiano; esercizio pericoloso che espone ad evidenti rischi – primo tra tutti quello di essere smentito nel breve – da cui egli, con la scusa di non (saper) essere un giornalista, si sottrae volentieri. Eppure, eccoci qui a scrivere a caldo dell’annuncio di Mosca di avere scoperto quello che sembra essere (il condizionale è d’obbligo) il primo vaccino in assoluto contro il Covid-19. Con lo spirito di chi cerca scuse razionali per convincersi di scelte in realtà emozionali, giustificheremo questa nostra discesa forse prematura sul tema dicendo che lo consideriamo l’epilogo di una storia iniziata mesi orsono, con l’esplosione della pandemia e l’arrivo dei militari russi in Italia, piuttosto che argomento nuovo dai contorni ancora poco chiari. Nulla possiamo dire sulla efficacia reale del vaccino dal punto di vista medico, su cui come è ovvio la comunità scientifica, per bocca della rivista “Nature”, si è già espressa con grande cautela. In ogni caso, abbiamo oramai imparato che quella dei virologi è tutt’altro che una scienza esatta. Il fatto che Vladimir Putin – consapevole del proprio carisma da “silent man” (in questa fase maggiore a livello internazionale che interno) – si sia così esposto in prima persona annunciando la scoperta e addirittura sottolineando che il vaccino è stato sperimentato su una delle sue due figlie, fa tuttavia presupporre che la notizia abbia un suo fondamento e non sia una semplice esagerazione dell’informazione di agosto. Inoltre, altri elementi sembrano confermare che potremmo essere in presenza di una qualche scoperta di rilievo. In primo luogo, la storia ci dice che la Russia ha una forte tradizione di grandi traguardi scientifici ottenuti seguendo uno schema rigidamente autarchico, sia per motivi politici interni (rafforzare il prestigio dell’Impero agli occhi della opinione pubblica) che esterni (resistere all’ isolamento che ne ha contraddistinto decenni di relazioni internazionali). Gran parte della ricerca russa è da tempo rigidamente auto-referenziale, con pochi contatti con l’esterno – anche perché coinvolge attivamente il settore Difesa, che spesso è il primo traino allo sviluppo di nuove tecnologie che, prima di approdare al civile, passano per un’ampia applicazione militare. È un tipo di ricerca che proprio per questo taglio statalista e militare – va detto – si pone come obiettivo assoluto il raggiungimento del fine che si è posto, senza badare ai costi (non vi è ricaduta commerciale) o andare per il sottile quando si tratta di studiare gli effetti collaterali, anche se gravi. Ad esempio, chiunque abbia vissuto in Russia sa che, all’arrivo di improvvise indisposizioni stagionali più o meno serie, vengono proposti efficaci rimedi farmacologici locali introvabili all’estero che sembrano fatti apposta per “rimettere in piedi il soldato”, costi quel che costi. Funzionano nell’oggi, con conseguenze spesso sconosciute nel domani. Se è normale che il primo comunicato stampa sul nuovo vaccino sia stato del ministero della Salute – pare che il ministero della Difesa abbia avuto un ruolo determinante nella sua definizione sperimentale iniziale su cui però è probabile verrà mantenuto uno stretto riserbo, da segreto militare. Ed è difficile non collegare questa vicenda alla esperienza sul campo che il contingente russo altamente specializzato in guerra bio-chimica ha maturato durante la campagna degli aiuti nella Fase 1 a Bergamo e Brescia; grazie alla possibilità che ha avuto di raccolta diretta di prima mano di sequenze virali, pare inedite. Qualunque cosa i russi abbiano scoperto, hanno di certo fatto tesoro di questa importante esperienza di intelligence sanitaria sul campo in quello che è stato il primo vero scenario pandemico accessibile fuori dalla Cina. Inoltre, sorprende che l’annuncio di Mosca sia caduto non in prossimità di un appuntamento politico importante (solo un mese fa si è svolto il referendum per la nuova Costituzione), quasi a volere fugare il sospetto che il risultato sia stato ispirato – e quindi esagerato – da una tempistica istituzionale. Infine, il nome scelto dai Russi per il vaccino – Sputnik, il primo satellite umano ad entrare in orbita –  è una sorta di simbolo sacro del positivismo tecnologico (maturato soprattutto nel campo aerospaziale) che tanto ha marcato lo spirito identitario russo nel periodo sovietico e che è sopravvissuto ai giorni nostri. È difficile che un nome del genere (al pari di Gagarin, Pobeda, Zvezda etc.) usato in passato per celebrare grandi ricorrenze o monumenti,  venga “bruciato” agli occhi dell’opinione pubblica interna per battezzare qualcosa che non abbia una qualche credibilità. Vorrebbe dire esporsi ad un back-fire di contraccolpo negativo che porterebbe discredito ad altri simboli simili che rappresentano le fondamenta della legittimità del Cremlino (come ad esempio accadde 20 anni fa per il disastro del sommergibile Kursk – amplificato anche dal nome dello stesso, evocativo di una epica vittoria sovietica contro i nazisti). La considerazione finale riguarda l’impatto dirompente che questa notizia avrà sul contesto geo-politico mondiale e di cui stiamo già osservando i primi risultati. Il fatto che l’annuncio della scoperta provenga da Mosca lo ha già trasformato in un elemento divisivo a livello internazionale che riprodurrà i due classici schieramenti contrapposti tra chi plaude al risultato in chiave filo-russa e chi invece ne fa oggetto di critica politica al Cremlino. La corsa al vaccino è da subito sembrata la vera competizione che si è scatenata a livello planetario, appena il Covid ha fatto la sua comparsa. A questa competizione (non ancora finita) partecipano soggetti privati-commerciali e pubblici-statuali. Se per i primi l’arrivo al traguardo significa profitti stratosferici, peraltro in un contesto politico-sociale più favorevole (i no-vax sono uno dei movimenti usciti più indeboliti dalla epifania del Covid);  per i secondi equivale all’ottenimento di un asset strategico che alcuni hanno paragonato – forse esagerando – all’ordigno nucleare nel secondo dopoguerra mondiale. Se l’efficacia del vaccino russo fosse confermata, è presumibile che osserveremmo una serie di impatti a catena sulle relazioni internazionali che sarebbe troppo lungo elencare qui. Di sicuro porterebbero al rimescolamento delle alleanze a livello mondiale; all’indebolimento ulteriore del livello multilaterale rispetto a quello bilaterale e ad un’ impatto su importanti questioni (vedi sanzioni e prezzo del greggio) o scenari aperti (su tutti Ucraina e Medio Oriente) di vitale importanza per il Cremlino. Per non dire – scivolando nella fantapolitica – dell’impatto che potrebbe avere sulla competizione elettorale americana un accordo di uno dei due candidati con Mosca per una fornitura preferenziale di massa del vaccino agli Usa. Ma – questo sì – è argomento prematuro dal quale il ricercatore si sfila con piacere, lasciandolo al giornalista.

Vittorio Feltri, Vladimir Putin e il vaccino anti Covid: "La differenza con i comunisti". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. Vladimir Putin ha annunciato urbi et orbi: la Russia ha approntato il vaccino anti Covid e ha avviato la sperimentazione, a cui è stata sottoposta perfino la figlia del signor presidente, il quale evidentemente si fida della scoperta degli scienziati suoi compatrioti. Basta questo dettaglio per convincersi che non deve trattarsi di una bufala? A me pare di sì. Ma io non conto niente, vivo di sensazioni. Mentre l'Organizzazione mondiale della sanità arriccia il naso e afferma di non sapere nulla del medicinale, ammesso che si possa definire tale. A dire il vero tutto il pianeta pare perplesso davanti al nuovo prodotto cui si attribuisce la forza di sconfiggere il micidiale virus. Perché? Probabilmente prevale in parecchi studiosi il pregiudizio secondo cui Putin è un fanfarone buono solo a tenere al guinzaglio il proprio popolo. Ma applicando ai fatti il criterio pregiudiziale spesso si sbaglia e si scambiano lanterne per lucciole. La Russia, dalla caduta fragorosa del comunismo, avvenuta 30 anni orsono, si è rapidamente sviluppata specialmente in senso economico, vi circolano molti quattrini e moltissimi ricchi, le sue strutture anche scientifiche sono diventate importanti, e ricordiamo che già nel Cinquanta essa spedì nello spazio il famoso Sputnik. Non prendere sul serio questa enorme nazione potente mi sembra un atto di imperdonabile superficialità. La cosa strana tuttavia è un'altra e la segnalo. Quando l'URSS agiva sotto l'insegna di falce e martello, guidata da feroci dittatori quali Stalin e Breznev, non era da tutti amata ma da tutti rispettata e temuta. Alla morte del citato Breznev, una folta delegazione di politici italiani si recò a Mosca per assistere ai suoi funerali, se non ricordo male alle esequie era presente addirittura il capo dello Stato, Sandro Pertini. Poi ci fu il ribaltone e addio bandiere rosse sventolanti. Sappiamo come è andata a finire. L'avvento di Putin ha segnato un cambiamento radicale della Russia, che non sarà diventata la madre della democrazia, però non è più un covo di assassini dediti a inviare nei gulag gli oppositori del regime. Quindi non un passo avanti, bensì dieci, e non è un caso che Putin sia ora amico di Berlusconi, che avrà tanti difetti tranne quello di essere un tiranno e socio di tiranni. Nonostante ciò rilevo l'esistenza di un fenomeno abbastanza ridicolo. Allorché l'URSS era un inferno nel quale trionfavano la miseria e il terrore era ossequiata e i progressisti la guadavano con malcelata ammirazione, adesso che la Russia sta democraticamente sul mercato è considerata la patria del diavolo. E se scopre il modo per sconfiggere il Covid una moltitudine di cretinetti in vacanza si dichiara incredula. Personalmente sono convinto che il carburante di tale assurda diffidenza sia solo l'invidia.

Quando nel '57 spuntò il primo satellite russo. Sputnik V, un satellite e un vaccino per rispolverare le vecchie glorie dell'homo sovieticus. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Agosto 2020. Quel giorno d’ottobre del 1957, io avevo compiuto diciassette anni ed ero da poco diventato un fervente comunista dopo aver divorato l’appassionante biografia di uno che era fuggito dal comunismo, mio padre fece irruzione nella mia camera come una furia: “I russi hanno fatto un satellite artificiale. Sono avanti a tutti e presto verranno qui”. Mi guardò come se anch’io facessi parte del grande complotto contro l’Occidente, con lancio di satelliti intorno alla Terra. Avevo letto Ho scelto la libertà di Viktor Andreievic Kravscenko che – fervente rivoluzionario leninista – aveva preferito chiedere asilo all’America e diventare con il suo libro un fortissimo strumento di propaganda, piuttosto che essere mandato ai lavori forzati o fucilato come i suoi superiori fra cui il celebre Grigorij Ordzonikidze, un fedelissimo di Stalin che lo stesso Stalin costrinse al suicidio. Il fatto è che quel libro era bellissimo, appassionato e anche se raccontava nei dettagli i crimini di Stalin, restava l’opera di uno che ci credeva. E così io, adolescente in un’epoca in cui si viveva solo di libri e qualche film al cinema, mi dichiarai comunista con grande disappunto in famiglia. Quando si seppe del satellite (un satellite! umano! anzi comunista! intorno alla Terra!) chi stava per i russi saltava e ballava di gioia, chi era anticomunista si sentiva depresso e ansioso. Gli americani, spinti dalla loro stampa liberal, conclusero subito che tutto il loro sistema scolastico era sbagliato, che bisognava gettare nella spazzatura il loro sistema di education dalle scuole medie all’Università e che bisognava studiare il sistema russo che aveva dimostrato di essere vincente. Sputnik, come imparammo subito in russo vuol dire “compagno di viaggio”, ma il significato di quella parola si trasformò subito in un altro: Sputnik equivale a “successo trionfale e inaspettato” della Russia sovietica. Dunque nessuna meraviglia se il nome dell’antico satellite è stato scelto da Putin per suggerire al mondo che “ancora una volta” la Russia stupisce il mondo e trionfa su ogni altra nazione grazie all’ingegno dei suoi scienziati, nel caso del vaccino, virologi e biologi. Il poeta italiano e premio Nobel Salvatore Quasimodo compose una fortunata lirica in cui dichiarava che un nuovo dio l’uomo aveva aggiunto altri astri, al firmamento uscito dal big bang. Tutte le forze socialiste del mondo, anche se anticomuniste, si sentirono coinvolte in quel successo perché sembrava ovvio che un risultato tanto impressionante e addirittura cosmico, non poteva che essere stato raggiunto da un sistema superiore per intelligenza, organizzazione, coraggio e capacità. Il colpo fu dunque enorme e per ottime ragioni. Molti anni dopo lessi la dettagliata intervista agli scienziati sovietici che avevano messo in orbita lo Sputnik ed erano molto modesti e spiritosi nel loro racconto pieno di empiriche incertezze e colpi di fortuna arricchiti da un tocco di genio creativo come quello di mettere all’oggetto spaziale un aggeggio con le batterie che per qualche giorno emetteva un bip-bip. Al mio amato Kravscenko fuggito a New York dopo aver “scelto la libertà” (l’espressione diventò uno degli slogan della guerra fredda) andò malissimo: si suicidò gettandosi da un grattacielo dopo una lunga depressione, quando ormai la sua fuga non aveva più alcun valore ideologico e propagandistico. I russi, anzi i sovietici, misero poi in orbita un secondo satellite, stavolta con un povero essere vivente al suo interno, l’involontariamente eroica e disgraziatissima cagnetta Laika dal muso bianco e nero, tutta imbragata in una gabbia di cinture. Anche lei emise i suoi bip finché durarono le batterie del suo cuore di cane. Oggi un tale esperimento forse farebbe insorgere milioni di animalisti, allora fu considerato un altro gigantesco passo avanti dell’umanità nello spazio, ma non una umanità qualsiasi: si trattava sempre e comunque dell’umanità che aveva prodotto il nuovo uomo, la mutazione ideologica e sociale e dunque anche scientifica e politica, dell’homo sapiens che era rimasto impigliato nelle catene cavernicole del capitalismo borghese. L’uomo finalmente libero di esprimere la sua sete di futuro non era l’uomo borghese, ma l’homo sovieticus. Da allora la parola Sputnik è stata usata e abusata in tutte le salse: esistono catene di prodotti, un’agenzia di stampa e un’intera letteratura che usa il fortunato brand di Sputnik. Ciò che da allora impallidì fino a svanire fu la grande tradizione culturale russa che fra il Settecento e il Novecento aveva donato alla cultura mondiale fra i più grandi capolavori di letteratura, musica, chimica, fisica, biologia, matematica, non è il caso di fare un elenco perché ne mancherebbero sempre decine. L’ultima volta che la cultura russa ha fatto il botto planetario fu il grande romanzo Zivago di Boris Pasternak, portato in Italia da Feltrinelli. Ma da allora, più nulla di eccezionale: non un brevetto, un computer, una sinfonia, un brevetto farmaceutico (salvo adesso questo dubitabile vaccino Sputnik Quinto per Covid, cotto e mangiato in fretta e furia). La grancassa propagandistica russa in questo momento copre una necessità di fatto: il crollo del prezzo del petrolio ha dissanguato le risorse di quel Paese che produce soltanto ciò che la terra nasconde nel sottosuolo e la popolarità di Putin viene data in costante calo in un mondo dalle alleanze e prospettive incertissime. In questo clima di fragilità, la rievocazione della parola Sputnik equivale forse a una richiesta disperata di aiuto da parte russa, come dire noi siamo qui, esistiamo, guardate, abbiamo perfino fatto un vaccino che ancora non ha alcun valore accertato ma che intanto fa notizia, vi supplichiamo: manteneteci nella zona alta delle notizie, siamo ancora in grado di stupire. Che dire? Sarebbe davvero una grande notizia sapere che la grande Russia, anziché rivendicare i confini imperiali di Caterina, Pietro e Stalin, riportasse in vita quella borghesia intellettuale anche un po’ matta che prima Lenin e poi Stalin con grande accuratezza sterminarono fisicamente, insieme a una popolazione rurale altrettanto accuratamente ammazzata a milioni di esemplari. Vecchie storie, per carità, ma mai abbastanza ricordate. Tuttavia se lo spirito del primo satellite a forma di palla con una radiolina che faceva bip-bip è ancora vivo anche sotto forma di quella produzione intellettuale scientifica che per decenni è stata una delle anime della Russia, batta un colpo sul terreno della libera ricerca, dell’umorismo (altra vittima rimasta cadavere), della molteplicità delle opinioni e di tutto ciò che distingue una società che produce scienza, tecnologia, libera ricerca storica e arte, senza dover far ricorso al nome di un vecchio glorioso barattolo che produsse sull’Occidente l’effetto di una pera di adrenalina di cui però si è persa la memoria e lo slancio propulsivo.

 “La Russia ha tentato di rubare le ricerche sul vaccino anti Covid”: l’atto di accusa di Regno Unito, Canada e Usa. Redazione su Il Riformista il 16 Luglio 2020. Volano gli stracci tra i servizi di intelligence di Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna da una parte, e la Russia dall’altra. Le accuse che arrivano dai tre Paesi occidentali sono di quella da far tremare le diplomazie: secondo il National Cybersecurity Centre del Regno Unito hacker russi hanno tentato di rubare informazioni dai ricercatori che sviluppano un vaccino per il Covid-19. A mettere in atto il piano il gruppo di hacker APT29, noto anche come Cozy Bar e ritenuto parte dei servizi d’intelligence russi. Secondo quanto ricostruito dai servizi di intelligence, gli hacker hanno ripetutamente attaccato istituzioni accademiche e farmaceutiche coinvolte nello sviluppo del vaccino nel tentativo di rubare proprietà intellettuale, non operazioni destinate a minare la ricerca. Il National Cybersecurity Centre del Regno Unito, coordinatosi con le autorità di Usa e Canada, ha sottolineato che i dati confidenziali di persone coinvolte non dovrebbero essere stati compromessi. Una conferma in tal senso è arrivata dalla durissima nota del segretario agli Esteri Dominic Raab. Il numero uno del Foreign Office ha chiesto infatti “la fine degli irresponsabili attacchi informatici dei servizi d’intelligence russi, che stanno raccogliendo informazioni su sviluppo e ricerca dei vaccini contro il Covid-19″. “Mentre altri perseguono i loro egoistici interessi con comportamenti sconsiderati, Regno Unito e alleati stanno andando avanti con il duro lavoro di trovare un vaccino e proteggere la salute globale – prosegue Raab -. Il Regno Unito continuerà a contrastare coloro che conducono attacchi informatici di questo tipo e lavorare con i nostri alleati perché i responsabili ne rispondano”. Accuse rispedite al mittente dalla Russia perché ritenute “inaccettabili”, ha spiegato il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, citato dai media russi.

LE INTERFERENZE NELLE ELEZIONI BRITANNICHE – Sempre Raab ha inoltre accusato la Russia di aver interferito nelle elezioni nel Regno Unito del 2019, “diffondendo online documenti governativi illecitamente acquisiti”. Nel dettaglio il segretario agli Esteri ha parlato di un report su accordi commerciali Londra-Washington, utilizzato in campagna elettorale dall’ex leader laburista Jeremy Corbyn per sostenere che i conservatori avevano intenzione di “svendere” il Sistema sanitario nazionale (Nhs) agli Stati Uniti.

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 17 luglio 2020. I governi di Stati Uniti, Canada e Regno Unito accusano: «I russi stanno cercando di rubare informazioni sui vaccini anti-Covid». A Washington l’allarme arriva dalla Nsa, National security agency, la struttura che coordina i servizi segreti americani. L’intelligence sostiene che gli hacker, conosciuti come «I Duchi» o gli «Orsacchiotti», hanno cercato di introdursi nei server delle società farmaceutiche e delle istituzioni pubbliche impegnate nella ricerca, nella sperimentazione e, si spera a breve, nella produzione dei vaccini. Gli incursori, classificati anche con la sigla Apt29, sono una vecchia conoscenza per il controspionaggio Usa. Sono considerati i più pericolosi, i più efficaci e, soprattutto, i più collegati al Cremlino. «Hanno una lunga storia di azioni contro enti pubblici, sedi diplomatiche, centri studi e poli sanitari», spiega al New York Times Anne Neuberger, direttrice della sezione «cybersecurity» della Nsa. Gli hacker avrebbero cercato di carpire notizie utili, inviando e-mail fasulle e contaminando il software delle reti aziendali. Al momento non è chiaro se l’offensiva abbia raggiunto gli obiettivi. Da Londra, Paul Chicester, responsabile del National Cyber Security Center, conferma i sospetti: «Condanniamo queste spregevoli minacce contro le realtà in prima linea nella lotta al Covid-19». Il ministro degli esteri britannico, Dominic Raab, per altro, sostiene che «entità russe abbiano cercato di interferire» nelle elezioni nazionali del 2019. Mosca respinge tutti gli addebiti. Dmitri Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha dichiarato: «Non abbiamo alcuna informazione su chi possa aver condotto operazioni di hackeraggio contro le società farmaceutiche e i centri di ricerca britannici. Ma possiamo dire una cosa: la Russia non ha nulla a che fare con questi tentativi». Peskov ha anche smentito ogni intromissione nella politica britannica. L’amministrazione americana ritiene che il fronte delle minacce sia più ampio. Due mesi fa un rapporto dell’Fbi avvertiva che anche la Cina sta provando a «sottrarre informazioni sui vaccini negli Stati Uniti». Giovedì il ministro della Giustizia William Barr ha detto: «Pechino è stata colta con le mani nel sacco mentre tentava di coprire la diffusione del contagio. Ora è alla disperata ricerca di un colpo per riabilitarsi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale». Nell’elenco dei Paesi sospetti c’è anche l’Iran. E’ chiaro, però, che la corsa al vaccino sia ormai una questione geopolitica e geo economica. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha censito più di 160 progetti, ma solo 23 hanno iniziato la sperimentazione sugli esseri umani. Americani e britannici sembrano i più avanti. Sul campo si sono formate alcune alleanze tra i società farmaceutiche. Per esempio quella tra la statunitense Pfizer e la tedesca BioNtech. Oppure collaborazioni tra enti di ricerca e industria, come tra la britannica Oxford University e la multinazionale AstraZeneca. I leader delle principali nazioni, a cominciare da Donald Trump, assicurano che la formula anti-Coronavirus sarà messa a disposizione di «tutto il pianeta». In realtà non ci sono al momento meccanismi sovranazionali che possano garantire un’ordinata e universale distribuzione delle dosi. Finora si è vista più competizione che cooperazione tra le diverse aree del mondo. Tanto che sono entrate in gioco anche le spie.

Da "Agi" il 12 maggio 2020. Dmitri Peskov, portavoce del presidente russo Vladimir Putin, ha annunciato di essere risultato positivo al coronavirus. All'agenzia di stampa Ria Novosti ha riferito di essere ricoverato in ospedale. "Sì, sono malato e sto ricevendo cure", ha affermato Peskov, confermando di avere il virus. Il presidente russo Vladimir Putin è in auto-isolamento da diverse settimane e non è chiaro quanto sia stato a contatto di recente con Peskov. I giornalisti che seguono il Cremlino hanno sottolineato che l'ultima volta che Peskov è apparso in pubblico, in un incontro con Putin, era il 30 aprile scorso. Il portavoce del Cremlino non è il primo rappresentante dei vertici della Federazione a risultare positivo al Covid-19: il premier Mikhail Mishustin ha annunciato il 30 aprile di essere stato contagiato. Il primo maggio era stato il ministro delle Costruzioni, Vladimir Yakushev, a rivelare di essere ricoverato per coronavirus mentre il 6 maggio è stata la volta della ministra della Cultura, Olga Lyubimova, a riferire di essere risultata positiva al Covid-19.

Virus, la Russia è il terzo paese più colpito al mondo. Marco Alborghetti l'11/05/2020 su Notizie.it.  La Russia è il terzo paese più colpito al mondo per numero di contagi: si attende il discorso del presidente Putin alla nazione. Nonostante il lockdown, secondo le stime dell’OMS la Russia ha registrato oltre 221 mila contagi da coronavirus, diventando il terzo paese più colpito al mondo per numero di casi confermati dopo Usa (un milione e 270 mila) e Spagna (224 mila), superando anche l’Italia (219 mila). Mosca rimane la città più colpita, con 115mila infetti. Nel pomeriggio di lunedì 11 maggio è previsto discorso di Putin alla nazione. In Russia si continuano a registrare dati davvero preoccupanti sul fronte coronavirus, dati che hanno spinto il presidente Putin a tenere un discorso alla nazione. Oggi, lunedì 11 maggio, termina infatti il periodo di lockdown varato per contenere l’epidemia. Con i dati delle ultime 24 ore, sono saliti a 221mila i contagi in Russia. Numeri che la proietta tra i primi tre paese più colpiti, dopo Usa e Spagna. Mosca è la capitale europea più colpita: sono 6.169 i nuovi positivi che portano il totale degli infetti a 115.909. Vladimir Putin nei giorni precedenti ha ordinato al governo russo di presentare entro il primo giugno un piano d’azione nazionale per rilanciare l’economia, aumentare l’occupazione e i redditi della popolazione. “Il governo russo – fa sapere il Cremlino sul suo sito web – dovrà sviluppare, assieme agli alti funzionari degli enti russi e ai rappresentanti delle unioni degli imprenditori, e presentare un piano d’azione nazionale che assicuri il ristabilimento dell’occupazione e dei redditi della popolazione, la crescita dell’economia e cambiamenti strutturali a lungo termine nell’economia”. Sempre dal Cremlino fanno sapere che Vladimir Putin nel pomeriggio dell’11 maggio un nuovo discorso alla nazione. Discorso in cui parlerà della situazione sanitario-epidemiologica nel Paese e indicherà le nuove misure da attuare nella fase successiva.

Terzo Paese al mondo per casi. L’anomalia della Russia: più contagiati che Italia ma per le autorità ci sono solo 2mila morti. Redazione su Il Riformista l'11 Maggio 2020. Record di contagi in Russia: nelle ultime 24 ore le autorità nazionali hanno registrato un incremento di ben 11.656 persone positive al coronavirus portando il bilancio dei contagiati a 221.344, più dell’Italia e del Regno Unito, entrambi a poco più di 219mila casi accertati. Eppure, nonostante l’alto numero di persone positive al Covid, che porta la Russia ad essere il terzo paese al mondo per numero di contagi, dopo Stati Uniti e Spagna, il numero dei morti resta basso. Secondo la task force nazionale le morti imputabili al coronavirus sarebbero appena 2009, un dato sensibilmente più basso rispetto agli altri Paese: sia in Italia che in Gran Bretagna il bilancio ha superato le 30mila vittime.

DAGONEWS il 9 maggio 2020. Quando la pandemia di coronavirus ha preso piede in Russia, Aleksei A. Mordashov, magnate dell’acciaio, ha chiamato quattro governatori regionali e li ha esortati a chiudere le città in cui fa affari. Per Andrei A. Guryev, rampollo di un impero di fertilizzanti, limitare il viaggio in due città artiche di 80.000 persone dove gestisce una miniera di fosfato è stato ancora più facile visto che la sua compagnia possiede l'aeroporto e la stazione sciistica che attira gli estranei. «Li abbiamo messi in lockdown – ha detto Guryev - La decisione è stata solo nostra». Ci sono due elementi inconfutabili di questa pandemia in Russia: da una parte l’inadeguatezza del sistema sanitario, dall’altra il fondamentale contributo che gli oligarchi stanno dando in quelle regione e in quelle città dove hanno i loro interessi commerciali. Se infatti l’avvento di Putin ha trasformato gli oligarchi in ricconi dipendenti del Cremlino, ora la crisi del coronavirus rappresenta per loro una svolta: la più grande minaccia economica degli ultimi decenni unita all’enorme stress al quale è sottoposto lo Stato può trasformarsi per loro in un’enorme ricchezza. Un’opportunità che non si stanno lasciando sfuggire diventando figure centrali in quelle cittadine che controllano con le loro industrie. La Russia ha riportato oltre 177.000 casi di coronavirus e oltre 1.600 morti. Circa la metà dei casi è a Mosca, il che suggerisce che il resto del paese è ancora nelle prime fasi della pandemia. E se Mosca può tentare di affrontare una pandemia, fuori dalla Capitale è un disastro. Ed è in quel vuoto lasciato dallo stato e dal sistema sanitario che molti oligarchi stanno lavorando distribuendo milioni di dollari, acquistando materiale sanitario,, sollecitando al contempo le autorità regionali che si muovono lentamente ad agire con maggiore determinazione. Un processo che sta rivelando le debolezze dello stato russo e quanto il sistema di governance di Putin si basi ancora su alleanze con i potenti oligarchi che grazie alle loro enormi ricchezze sono gli unici destinati a sopravvivere alla pandemia, accrescendo la loro influenza. «Stiamo lavorando per quelle persone che le misure dello stato non hanno raggiunto» ha detto Lyudmila A. Guseva, che sta aiutando a mettere in atto alcuni degli interventi di soccorso del colosso siderurgico di Mordashov, Severstal. Oleg V. Deripaska, il magnate del metallo colpito dalle sanzioni americane nel 2018, sta pagando per la costruzione di tre centri con 160 letti per combattere il coronavirus in Siberia. Gennady N. Timchenko, uno stretto collaboratore di Putin, anch'egli soggetto a sanzioni, ha dichiarato che spenderà 17 milioni di dollari per sostenere enti di beneficenza e acquistare ventilatori, scanner e dispositivi di protezione individuale per gli ospedali russi. Vladimir O. Potanin, l'uomo più ricco della Russia e il suo gigante minerario Nornickel, hanno stanziato circa 150 milioni di dollari per la lotta contro il coronavirus. E Mordashov ha aiutato a progettare il lockdown di Cherepovets, una città di oltre 300.000 persone, dove un abitante in età lavorativa su quattro è impiegato all’acciaieria Severstal. Severstal ha fornito maschere alla polizia, ha consegnato unità abitative mobili per la quarantena, ha reclutato dipendenti della compagnia per unirsi alle pattuglie della polizia e ha usato i suoi ingegneri per progettare un software per monitorare che si rispettasse la quarantena. Finora le misure di soccorso del Cremlino hanno offerto scarso aiuto alle persone senza lavoro, suscitando un crescente malcontento. Ma a Cherepovets, Severstal ha organizzato il proprio intervento di soccorso di emergenza. La società ha dichiarato che avrebbe dato ai residenti che hanno perso  le loro entrate a causa della crisi dei buoni regalo di circa 80  dollari ciascuno per ogni membro della famiglia. Il salario minimo in Russia è di circa 160 dollari al mese. «Siamo responsabili della stabilità sociale delle regioni in cui siamo presenti» ha affermato Shevelev. Una delle ragioni per cui il ruolo degli oligarchi è fondamentale nella risposta della Russia è che circa il 10 percento della popolazione vive in "monotown" remote come Norilsk, dov esiste un singolo datore di lavoro o una sola industria. Lo stretto coinvolgimento degli oligarchi nella lotta contro il coronavirus della Russia fa luce sul loro contratto non scritto con il Cremlino. Rimanere nelle grazie di Putin li aiuterà a trarre enormi vantaggi dall'immensa ricchezza di risorse naturali della Russia. Non è un caso che i magnati siano così strettamente coinvolti in operazioni statali tanto da essere considerati parte di una grande impresa, la "Russia Inc." E a marzo, i proprietari di Alfa Bank, la più grande banca privata della Russia, hanno donato 13 milioni di dollari per combattere la pandemia. Il denaro non è andato in beneficenza, ma direttamente alla task force del coronavirus del governo russo. «In Russia, la comunità imprenditoriale - soprattutto le grandi imprese - svolge tradizionalmente una funzione sociale più di quanto non si faccia in Occidente» ha affermato Vladimir V. Verkhoshinsky, C.E.O. di Alfa Bank.

Rosalba Castelletti per "repubblica.it" il 23 aprile 2020. Pur di commemorare il 150° anniversario della nascita di Vladimir Lenin, hanno sfidato il blocco imposto per far fronte alla pandemia di coronavirus. Uno sparuto gruppo di nostalgici guidati da Ghennadij Zjuganov, leader del Partito comunista, muniti di bandiere rosse, ha marciato attraverso la Piazza Rossa e deposto fiori di fronte al Mausoleo che ospita la salma del leader bolscevico. Qualcuno indossava la mascherina e manteneva una parvenza di "distanza sociale". Una cerimonia in sordina, tra le polemiche e le minacce di chi, come Vladimir Zhirinovskij, leader nazionalista del Partito liberal democratico, sosteneva che i seguaci dell'eroe della Rivoluzione andassero arrestati per aver violato la quarantena. Se non fosse stato rinviato a causa dell'emergenza coronavirus, oggi in Russia si sarebbe tenuto il "voto popolare" sull'agognata riforma costituzionale che, se vorrà, permetterà all'"altro Vladimir", il presidente russo Putin, di restare al Cremlino almeno fino al 2036. Un tentativo, secondo il Partito comunista, di oscurare le celebrazioni. Del resto, sebbene non ceda alle pressioni per far rimuovere il Mausoleo della Piazza Rossa, Putin non ha mai nascosto la scarsa simpatia per il padre della Rivoluzione che nacque il 22 aprile del 1870. Troppo "rivoluzionario", appunto. E mentre Komsomolskaja Pravda ha pubblicato "un’intervista a Lenin" citando le sue numerose opere su che cosa risponderebbe oggi parlando di crisi, Ucraina, corruzione e sesso, Novye Izvestia ha titolato "Il terrorista n.1" sostenendo che Vladimir Ilic respingesse ogni compromesso e promuovesse la violenza come soluzione di qualsiasi problema. Bandito il Pcus dopo il fallito golpe dell'agosto 1991 ed emarginati i movimenti della sinistra più radicale, a difendere l'eredità politica di Lenin non resta che il Kprf guidato da Zjuganov, seppure sia accusato di far parte della cosiddetta "opposizione sistemica" e di contrapporre solo una resistenza di facciata al Cremlino in Parlamento. "Per me Vladimir Ilich è il satellite di tutta la mia vita, il barometro, il diapason morale", s'infervora parlando con Repubblica Daria Mitina, 46 anni, tra le fondatrici nel 1993 del rinnovato Komsomol, l'Unione comunista della gioventù, tappa obbligata nella vita dell'homo sovieticus, e oggi membro del movimento Partito Comunista Riunito. Oggi sul canale tv Cultura sarebbe dovuta andare in onda una puntata tutta dedicata a Lenin della trasmissione Che fare? di Vitalij Tretijakov, ex direttore di Nezavisimaja Gazeta e attuale preside della facoltà di giornalismo televisivo dell'Università Lomonosov di Mosca. Registrata già un mese fa, prevedeva la partecipazione della stessa Mitina e di altri storici illustri, ma è stata cancellata. "È stata sostituita da terapia sociale e psicologica", liquida Mitina. "In era sovietica questo 150° anniversario sarebbe stata festa nazionale, mentre adesso le autorità russe preferiscono farla passare, pudicamente, inosservata usando l'alibi del coronavirus", si rammarica Serghej Udaltsov, fondatore del Fronte di sinistra e reduce da quasi cinque anni di prigione in seguito alle proteste in piazza Bolotnaja nell'inverno 2011-2012. Per commemorare la data, il Fronte ha invitato tutti a esporre bandiere rosse alle finestre e organizzato comizi in Rete. Rinviata invece a novembre anche la conferenza internazionale che si sarebbe dovuta svolgere oggi, ma il deputato comunista Dmitrij Novikov ha assicurato al giornale Sovetskaja Rossija che verrà realizzato "realizzato tutto quello che era stato progettato, senza rinunciare a niente, senza cancellare niente". "Le teorie di Lenin vivono ancora. Tutto quello che funziona in questo Paese, che dà da mangiare, bere, costruire, coltivare, insegnare e curare, nonché luce alle case e alle strade e permette le trasmissioni via radio e tv, lo abbiamo ereditato da Lenin", si consola Mitina. "Lenin - aggiunge - è immortale".

Giuseppe Agliastro per “la Stampa” il 14 aprile 2020. L'epidemia di Covid-19 si sta diffondendo anche in Russia costringendo Putin a mettere le mani avanti e a sottolineare che «sfortunatamente» la situazione «sta cambiando in peggio» e bisogna essere pronti a «tutti gli scenari, anche i più difficili e straordinari». Ieri le autorità sanitarie russe hanno annunciato che nelle ultime 24 ore sono stati accertati 2.558 nuovi casi: una cifra mai raggiunta prima, che fa salire a 18.328 il totale dei contagiati, mentre i morti sono finora 148. I numeri dell' epidemia in Russia sono molto più bassi di quelli che si registrano in Europa o negli Usa. Ma sono in aumento e il picco non è ancora stato raggiunto. Putin è consapevole della situazione. Lo era già tre settimane fa. «Quello che oggi sta avvenendo in molti Paesi occidentali può diventare il nostro prossimo futuro», aveva detto allora. Eppure in quei giorni di fine marzo il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, sosteneva ancora che in Russia non si potesse parlare di una vera e propria epidemia e che il merito fosse tutto delle misure di prevenzione adottate dal governo. Ora il contesto appare molto diverso e ieri Vladimir Putin non ha escluso la possibilità di ricorrere a medici e attrezzature sanitarie delle forze armate per vincere la battaglia contro il nuovo virus. La Russia ha già inviato specialisti e apparecchiature del ministero della Difesa in alcuni Paesi stranieri, tra cui Italia, Cina e Stati Uniti: aiuti che secondo alcuni esperti hanno anche obiettivi geopolitici, come quello di dimostrare la fine dell' isolamento internazionale di Mosca. Presto queste risorse potrebbero essere usate anche in Russia, dove, per cercare di frenare l' epidemia, le attività produttive "non essenziali" sono state congelate almeno fino a fine mese e - come ormai avviene in tantissimi posti nel mondo - molte regioni e città permettono agli abitanti di uscire di casa solo per andare a lavorare, fare la spesa, buttare l' immondizia, passeggiare con il cane o per motivi di necessità. Una stretta ritenuta indispensabile, soprattutto nella città più colpita della Russia, Mosca, dove da domani per viaggiare in auto o sui mezzi pubblici sarà necessario un permesso elettronico speciale. Cina preoccupata L' aumento del contagio in Russia potrebbe ora preoccupare pure la Cina, che per evitare una seconda ondata di infezioni ha rafforzato i controlli al confine, già quasi sigillato. Liu Haitao, un funzionario del Dipartimento Immigrazione, sottolinea però che la frontiera cinese «è lunga e oltre ai punti di passaggio e attraversamento ci sono un gran numero di passi di montagna, sentieri, traghetti e piccole strade, e la situazione è molto complessa». La Cina ha quasi bloccato il contagio all' interno del suo territorio, ma domenica ha annunciato 108 nuovi casi, il numero massimo giornaliero finora registrato dallo scorso 5 marzo. Ben 98 di queste persone risultate positive erano entrate in Cina dall' estero, e quasi la metà sono cittadini cinesi tornati in patria dall' estremo oriente russo attraversando la frontiera nella provincia di Heilongjiang. Si tratta di numeri piuttosto esigui per un Paese di 1,4 miliardi di abitanti, ma per ridurre il rischio di nuovi contagi le città di Suifenhe e Harbin impongono 28 giorni di isolamento e sottopongono al tampone coloro che arrivano dall' estero.

Coronavirus, si ferma anche la Russia. Putin: state a casa per una settimana. Da lastampa.it il 25 marzo 2020. La Russia «è riuscita a contenere il coronavirus» fino ad ora, ma il Paese non è in grado di «bloccare» completamente la minaccia. Lo ha detto Vladimir Putin parlando alla nazione, sottolineando che adesso è «imperativo» rispettare le indicazioni delle autorità. Per contenere l'epidemia, ha annunciato che verrà introdotto «una settimana di stop» alle attività «non essenziali», dal 28 marzo al 5 aprile. «State a casa», ha detto Putin in televisione. «Ora è estremamente importante prevenire la minaccia della rapida diffusione della malattia, pertanto la prossima settimana sarà una settimana di ferie e provvederà il pagamento dello stipendio», ha aggiunto. E poi: «Tutte le raccomandazioni devono essere seguite, dobbiamo proteggere noi stessi e coloro che ci sono vicini. Credetemi, la cosa più sicura in questo momento è restare a casa». Il presidente russo ha precisato che lo stop non verrà applicato ad alcuni settori chiave del Paese, come gli operatori sanitari, i trasporti, le banche e alcuni rami della pubblica amministrazione. Putin ha chiesto ai datori di lavoro di non far aumentare la disoccupazione e ha promesso un pacchetto di aiuti, dedicato soprattutto alle piccole e medie imprese.

Fabrizio Dragosei per "corriere.it" il 7 aprile 2020. La Russia sta adottando quasi dappertutto restrizioni contro la diffusione del coronavirus che sono quasi la fotocopia di quelle italiane. Ma ad alcuni, quelli che sono sempre «più uguali» degli altri e che qui chiamano «nuovi russi», i divieti piacciono poco. Così è spuntato un fiorente mercato di locali clandestini per pochi clienti fidati disposti a pagare. Ristoranti dove si entra con la parola d’ordine; palestre sotterranee nelle quali ci si allena con macchinari sofisticati; sale gioco e internet point per appassionati di videogame e per chi deve lavorare on line e non può farlo da casa. Il quotidiano Moskovskij Komsomolets ha scoperto con un’inchiesta che il fenomeno si è diffuso a macchia d’olio in pochi giorni, si potrebbe dire in poche ore, visto che fino alla settimana scorsa le attività commerciali erano tutte aperte. Con una rapidità sorprendente, imprenditori senza scrupoli si sono organizzati per violare le norme, favoriti anche dal fatto che le multe, almeno per i clienti, non sono trascendentali: quattromila rubli, pari a meno di cinquanta euro. I ristoratori pagherebbero parecchio di più ma molti sono abituati a «mettersi d’accordo» lì per lì con i poliziotti quando vengono colti in fallo. A un ristorante «sotto traccia» l’inviato del quotidiano moscovita ha chiesto di organizzare una cena per il suo compleanno con una ventina di ospiti. «Nessun problema, ma che tutti tengano la bocca chiusa», è stata la risposta. Pagamento solo in contanti, ovviamente, almeno 120 euro a testa. Niente carte di credito che potrebbero essere monitorate dalle autorità. Alcuni titolari di palestre hanno affittato al volo degli scantinati nei quali hanno trasferito le macchine più in voga, Biceps bar, Treadmill, Squat machine delle case più note, compresa l’italiana Technogym. Ingresso sul retro di un palazzo e pagamento sempre in contanti: per una seduta di allenamento non meno di venti euro. All’ingresso flaconi con disinfettante e mascherine. Ma pare che queste non vengano usate da nessuno perché i clienti sono convinti che la distanza tra le macchine sia sufficiente a evitare il contagio, anche mentre si suda e si respira profondamente. Pure le sale giochi prosperano. Un locale a Mosca, vicino alla stazione della metro di Rechnoy Vokzal, è aperto 24 ore su 24. Per una giornata di gioco non-stop il proprietario ha chiesto un biglietto d’ingresso di 17,500 rubli per cinque persone, più di duecento euro. Poi occorre comprare i normali gettoni per ciascuna partita. In clandestinità sarebbero entrati anche alcuni gruppi di Alcolisti Anonimi, sempre secondo Moskovskij Komsomolets. Sessioni di mezz’ora con i partecipanti ben distanziati fra loro. Al giornale i responsabili hanno spiegato che il coronavirus è terribile ma per alcuni dei loro associati ricadere nel bere sarebbe peggio.

Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2020. Se prima il giocattolo più ambito per i super ricchi russi erano gli yacht da ancorare sul fiume di Mosca dove non c' è nemmeno spazio abbastanza per farli virare, ora sono arrivati i ventilatori polmonari. Per oligarchi e ricchi in generale, la cosa peggiore in questo Paese è sempre stato il pericolo di finire in ospedale in mezzo a gente comune o, addirittura, tra i poveri. Così molti si stanno organizzando per evitare questa eventualità che ritengono peggiore della malattia. Si sono ritirati nelle loro dacie di campagna (spesso veri e propri castelli) e le stanno attrezzando con mini reparti di terapia intensiva, magari realizzati nei bunker atomici fatti costruire in passato. Intanto chiedono di modificare i filtri del sistema di aerazione per rendere il rifugio a prova di virus. Ma la questione più delicata è acquistare privatamente ventilatori polmonari che sul mercato sono diventati quasi introvabili. Una azienda del settore, la Technomed, ha detto ai media russi che la domanda è salita di dieci volte e che i prezzi sono più che raddoppiati. Dinara Yanokayeva, sales manager della società Oxy2.ru, ha raccontato al Moscow Times : «C' erano talmente tante chiamate che abbiamo dovuto smettere di accettare ordini». I medici spiegano che senza adeguata assistenza un ventilatore è inutile. Ma nelle strade dei super ricchi alle porte di Mosca, molti hanno già assoldato medici e infermieri. E alle porte di Tver, tra Mosca e San Pietroburgo, è stata messa in vendita una villetta alla quale si accede tramite un ponte che attraversa una palude. «E da lì un tiratore abile può tenere a bada eventuali nemici per settimane».

"Noi medici russi costretti a mentire. Numeri al ribasso". Rosalba Castelletti per “la Repubblica” il 22 marzo 2020. Con 306 casi accertati e nessun morto in un Paese da circa 145 milioni di abitanti, la Russia vanta uno dei tassi di contagi da coronavirus più bassi al mondo. Merito delle misure adottate con tempestività, dicono le autorità: il confine con la Cina chiuso già il 20 febbraio e l' obbligo di quarantena per chiunque arrivasse dai Paesi toccati dalla pandemia. Eppure i medici della Federazione raccontano un' altra realtà. «Non solo sono numeri al ribasso, ma si tratta di bugie spudorate», sbotta al telefono con Repubblica Anastasija Vasilieva, a capo del sindacato Alleanza dei medici e autrice di una videodenuncia su YouTube visualizzata da oltre 250mila persone. «È tutta propaganda perché il Cremlino non vuole annullare il referendum costituzionale del 22 aprile». La verità, sostiene Vasilieva, sarebbe nelle pieghe delle percentuali diffuse da Rosstat e rilanciate dal giornale economico Rbk . Dal gennaio 2019 al gennaio 2020, l' Istituto russo di statistica ha registrato un aumento del 37 percento dei casi di "polmonite acquisita in comunità", o Cap, ossia quasi 2mila casi in più. «Le autorità sovrappongono Pac a coronavirus per evitare il panico», prosegue Vasilieva. «Da noi nessuno dirà mai la verità su quanta gente è morta e di che cosa è morta. Medici ci hanno riferito che è stato vietato loro di diagnosticare il coronavirus post mortem pena il licenziamento». Anche in vita le diagnosi non sono immediate. «I tamponi si fanno solo nel caso di contatto con pazienti positivi o di rientro dai Paesi dov' è in corso l' epidemia», spiega a Repubblica il deputato comunista Aleksej Kurinnyj, membro della Commissione Sanità della Duma. Non solo, fino a pochi giorni fa solo un laboratorio nella città siberiana di Novosibirsk, 3.300 km a Est da Mosca, era autorizzato a confermare i risultati dei tamponi effettuati. Ora sono una quindicina, comunque pochi per oltre 17 milioni di km quadrati di territorio. In più, ha rivelato il sito di medicina Pcr , la versione russa del tampone non sarebbe abbastanza accurata. «La situazione è sotto controllo», ha detto invece il leader del Cremlino Vladimir Putin. Tuttavia, negli ultimi giorni, le misure sono state rafforzate: divieto d' ingresso per gli stranieri fino al primo maggio, chiuse scuole e monumenti, vietati a Mosca gli eventi all' aperto e gli assembramenti al chiuso di oltre 50 persone. E ci si sta affrettando a costruire entro un mese un ospedale alla periferia della capitale. Segno per molti russi che anche le autorità si preparano al peggio. Tanto che, memori di Chernobyl, fanno scorte di viveri. «L' unica consolazione - conclude Vasilieva - è che in Russia non c' è un' alta densità di popolazione, non si viaggia molto e le babushke , le anziane, stanno chiuse in casa. Fattori che ci aiuteranno a scongiurare alti tassi di mortalità». Resta poi l' umorismo russo: «Passata la frontiera russa - ci si scherza su - il coronavirus diventa un' influenza stagionale».

Fabrizio Dragosei per il “Corriere della Sera” il 20 marzo 2020. Finora era sembrato uno strano miracolo, con il Paese quasi totalmente immune dal coronavirus. Poche decine di casi tra i quasi 150 milioni di abitanti, mentre intanto fioccavano da Stati Uniti ed Europa accuse di diffusione di notizie false e tendenziose sull' epidemia nel resto del mondo. Un' epidemia che secondo alcuni account fasulli sui social, sarebbe stata scatenata da entità segrete occidentali. La situazione sanitaria però sta lentamente cambiando, e purtroppo non in meglio. Il tutto mentre la tendenza ufficiale è a minimizzare quello che accade e le poche misure di sicurezza varate vengono prese sottogamba dalla popolazione. Quanto alle interferenze dei soliti troll russi in Occidente, la risposta del Cremlino è secca: «Parliamo di accuse infondate che sono probabilmente il risultato di un'ossessione antirussa», ha dichiarato il portavoce del Cremlino Peskov. Il Paese più grande del mondo che ha con la Cina una frontiera terrestre di 4.200 km, aveva fino a lunedì sera solo 93 infettati, con nessun decesso registrato. Poi si è passati a 114 martedì e a 147 ieri. In tutta la Russia, secondo la vicepremier Tatyana Golikova, ci sono 55 mila posti letto pronti. Le autorità hanno finora sottovalutato l' epidemia. A fine febbraio il responsabile delle malattie infettive dell' ospedale Botkin di Mosca Vladimir Beloborodov diceva che in Russia «non ci sarà alcuna epidemia; qualcuno si ammalerà e tutto finirà lì». Ora i trasporti sono in funzione; poi scuole aperte, bar, ristoranti e cinema pieni. Solo martedì sera sono state emanate nuove regole: chiusi musei, cinema, teatri e circhi. Ristoranti e bar rimangono in funzione ma i clienti devono lavarsi le mani prima di entrare. Tra i tavoli viene disposta la canonica distanza di un metro (ma non tra le persone che siedono assieme). Chiuse anche tutte le frontiere. Ieri, comunque, nessuno rispettava le disposizioni, almeno in alcune zone di Mosca. Che succede veramente in Russia? Gli oppositori dubitano delle cifre ufficiali. Un ex professore dell' Università di Mosca, il dissidente Valerij Solovey, parla addirittura di 150 mila contagiati con 1.600 morti. Ma non ci sono prove. Intanto continuerebbe il lavoro di disinformazione da parte di organismi legati allo Stato russo. L' amministrazione Trump ha parlato di un flusso di fake news proveniente da «una potenza straniera». Il che sembra voler dire o Cina o Russia. Facebook e Twitter hanno individuato e bloccato un network di profili fasulli riconducibili alla Russia. L' Europa conferma: 80 casi di «bufale» dal 22 gennaio

Riccardo Amati per "lettera43.it" il 20 marzo 2020. La Russia ha oltre 4.200 chilometri di confine e un interscambio transfrontaliero forte e – fino al gennaio scorso – privo di formalità con la Cina,  ma sembra uno dei Paesi meno colpiti dal coronavirus. I contagiati ufficiali lunedì 16 marzo erano 93, di cui solo due in terapia intensiva. E si tratta soprattutto di persone che avevano viaggiato all’estero. L’incremento però è del 47% rispetto al giorno precedente. Il che fa sospettare – e non c’è bisogno di una laurea in statistica – che i malati siano molti di più, e che la conta sia stata iniziata in ritardo. «Anche dal punto di vista teorico, è chiaro che i russi colpiti dal Covid-19 sono tantissimi», secondo il direttore dell’ospedale privato Semeinya di Mosca Pavel Brand. L’istituto federale di indagini statistiche Rosstat ha registrato un aumento delle polmoniti a Mosca pari al 37% in questo gennaio rispetto al gennaio del 2019. La authority per i consumatori e la salute Rospotrebnadzor ha subito chiarito che tutti i pazienti con polmonite sono stati sottoposti al tampone per identificare l’eventuale positività al virus. Fatto sta che nelle ultime settimane di tamponi ne sono stati fatti pochi. I media russi hanno riportato la vicenda di una persona con tosse forte e febbre alta rientrata dal Nord ItaIia e in isolamento da due settimane come richiesto (pena: cinque anni di galera), a cui i medici non hanno fatto il test spiegando che «son passati 14 giorni dal rientro e quindi non può avere il coronavirus». Diagnosi piuttosto singolare. La vice premier Tatiana Golykova ha detto che si stanno producendo 100 mila kit giornalieri per il test, e che ne verrà allargato l’utilizzo, anche in assenza a di sintomi. E anche negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie e in quelle degli autobus. È evidente che finora si sia cercato di minimizzare, ma che ci si stia infine preparando ad affrontare la grande epidemia. A Mosca il sindaco Sergei Sobyanin ha ridotto da 5 mila a 50 persone il limite dei pubblici assembramenti. Significa niente più concerti né spettacoli. Il Bolshoi e gli altri teatri hanno cancellato tutto il cartellone almeno fino al 10 aprile. Dal 21 marzo al 12 aprile saranno chiuse scuole e università della capitale. Il presidente Vladimir Putin ha creato un gruppo di lavoro del Consiglio di Stato per la lotta al Covid-19, presieduto da Sobyanin. Tutte le università del Paese hanno la raccomandazione di continuare i corsi via internet. Nuove responsabilità sono state assegnate ai datori di lavoro:  si deve misurare la temperatura dei dipendenti, distanziare le postazioni lavorative e disinfettare gli uffici. E si stanno preparando provvedimenti molto più radicali se le cose si dovessero metter male. Intanto, secondo un piano comprensivo di cui i quotidiani Vedemosti e Kommersant hanno anticipato i dettagli, il governo ha stanziato l’equivalente di 36 miliardi di euro a sostegno delle famiglie e delle aziende. Queste alcune delle altre misure che si stanno valutando: le persone in quarantena saranno considerate in malattia; niente tasse per chi perde il lavoro e imposte ridotte per le piccole e medie aziende; pagamento anticipato delle pensioni; stop agli eventi sportivi; consegna a domicilio dei medicinali; riconoscimenti e bonus ai medici; fornitura garantita di materiali protettivi; azzeramento delle tariffe sull’import di apparecchiature medicali. Ma la Russia ha vietato di esportare all’estero le mascherine che produce. Una fonte vicina all’amministrazione presidenziale ha riferito al quotidiano online Meduza che Putin, in un appello alla nazione, annuncerà il rinvio del referendum sugli emendamenti alla Costituzione previsto per il 22 aprile. Mosca, nel frattempo ha cancellato il Forum dell’Economia che avrebbe dovuto tenersi a San Pietroburgo dal 3 al 6 di giugno. Si tratta della “Davos russa”, alla quale avrebbero dovuto partecipare lo stesso Putin insieme a centinaia di leader politici e imprenditoriali di tutto il mondo. Potrebbero saltare anche i solenni festeggiamenti  del 9 maggio anniversario della vittoria nella “Grande guerra patriottica” contro il nazismo. Secondo il Brand, solo verso la prima settimana di maggio si potrà iniziare a valutare l’impatto dell’epidemia sulla Russia. Brand teme che se i numeri fossero equivalenti a quelli che stiamo vedendo in Italia sarebbe una catastrofe: «Negli ospedali di Mosca ci sono al massimo tra 1.500 e 2 mila posti in terapia intensiva, e Mosca è tra cinque e se volte più grande di Milano. Inoltre, la parte pubblica e la parte privata del sistema sanitario non comunicano né si compensano. Il sistema scoppierebbe. È necessario prendere da subito misure di contenimento drastiche quanto quelle italiane». I contagiati probabilmente sono molti di più dei 93 ufficializzati. Ma l’esplosione ancora non c’è stata e si sarebbe ancora in tempo per limitarla. A Mosca, finora la vita è andata avanti come sempre. Ristoranti e bar sono aperti. All’ora di punta di lunedì 16 marzo alla centralissima stazione di Kitai Gorod si aspettava la metropolitana pigiati l’uno all’altro come sempre. Centinaia di persone sulla piattaforma della linea 8. Tra queste, solo due con una mascherina di protezione. 

Coronavirus: Mosca chiude le scuole fino al 12 aprile. (ANSA il 16 marzo 2020) - Dal 21 marzo al 12 aprile tutte le scuole di Mosca saranno chiuse. Lo ha detto il sindaco della capitale Sergey Sobyanin sul suo sito. "Da sabato 21 marzo (compreso) fino a domenica 12 aprile (compreso), le scuole statali di educazione generale, le scuole sportive e gli istituti di educazione complementare saranno chiusi", ha detto. I casi di coronavirus in Russia sono saliti a 93. Lo ha detto la vice premier Tatiana Golikova. Si tratta dall'incremento più massiccio in 24 ore da quando è iniziata l'epidemia (l'ultimo bollettino parlava di 63 contagi). Di questi, 86 casi sono stati "importati" dall'estero. I restanti dunque sono contagi avvenuti in territorio russo. Il sistema sanitario del Paese, ha assicurato Golikova, è pronto a "qualunque evoluzione del virus". Lo riporta Interfax. La portata della diffusione del nuovo coronavirus in Russia è più grave di quanto riportato dai media. Lo ha detto il presidente bielorusso Alexander Lukashenko. "Come ha detto ieri il primo ministro russo, la situazione lì è altamente infiammabile e i media non hanno riportato tutto: hanno una situazione difficile", ha detto Lukashenko in un incontro con il capo dello staff presidenziale Igor Sergeyenko e il segretario di Stato del Consiglio di sicurezza Andrei Ravkov. Confrontando le dimensioni dei due Paesi, sarebbe più logico se la Bielorussia temesse che la Russia possa infettarla, ha detto Lukashenko. "Siamo noi che dovremmo temere questa situazione, perché la Russia ha paura della Bielorussia? Considerando il modo in cui stiamo controllando e affrontando il problema, facciamolo insieme. Ma no, hanno chiuso il confine, questa è la loro decisione", ha aggiunto. La Russia permetterà ai suoi cittadini di essere testati per il nuovo coronavirus anche senza sintomi. Lo ha detto il primo ministro russo Mikhail Mishustin. "Su istruzioni del consiglio di coordinamento, il capo della sanità pubblica russa ha introdotto una nuova procedura di test che amplia le capacità dei laboratori di diagnostica. Questo riguarda principalmente le persone che desiderano testare se stessi alla presenza del coronavirus senza sintomi", ha detto Mishustin alla prima riunione del consiglio di coordinamento governativo anti-coronavirus. Lo riporta Interfax. La Russia ha cancellato tutti gli eventi sportivi internazionali sul suo territorio, a partire dal 16 marzo, nell'ambito della lotta contro il coronavirus. Lo ha dichiarato il servizio stampa del Ministero dello Sport. "Il Ministero dello Sport ha ordinato a tutte le federazioni sportive russe e regionali in diversi sport di garantire il monitoraggio dell'attuazione di questa decisione". Lo riporta Interfax.

Da ilsussidiario.net il 12 aprile 2020. Un autentico “boom” di contagi record nelle ultime 24 ore è quanto viene registrato in Russia: le ultime notizie sulla diffusione del contagio da coronavirus nel vaso Paese euroasiatico mostrano altri 2186 casi positivi in più rispetto a ieri, facendo lievitare il bilancio generale a 15770 persone infettate dal Covid-19 in tutta la Russia. Nel bollettino quotidiano diffuso dal quartier generale operativo del Cremlino si stimano anche 130 vittime totali (+24 morti nelle ultime 24 ore), 1291 guariti (+246 rispetto a sabato). Tra le zone più colpite Mosca (+1306), la regione della capitale (+278), San Pietroburgo (+69), oltre alla regione di Murmansk (+61), riporta il bollettino mostrato da Sputniknews.com dove si evidenziano come 14 dei 24 morti russi sono registrati nella sola città di Mosca. Per affrontare il pericolo di un maxi contagio, il Governo di Putin mette sul campo per contrastare il contagio da coronavirus (con focolaio nella Capitale) il metodo tedesco: «Non ci sono paesi che siano in grado di affrontare questa pandemia senza doversi trovare a gestire un sovraccarico del sistema sanitario: ne sono purtroppo un esempio paesi come gli Stati Uniti, la Spagna o l’Italia» ha spiegato ieri il portavoce del Cremlino, Dmitrij Peskov, durante un intervento sull’emittente “Pervij Kanal”, perciò la Russia «più gestibile, anche se comunque preoccupante, è la situazione in Germania, ed è per questo che cercheremo di gestire l’emergenza seguendo il loro modello». (agg. di Niccolò Magnani).

·        …in Cina.

Guido Santevecchi per corriere.it il 30 novembre 2020. La circolazione del Covid-19 è stata contenuta in Cina, dove ormai da mesi si registrano non più di 10-20 casi di contagio al giorno, quasi tutti in arrivo dall’estero. Vinta la battaglia sanitaria contro l’epidemia, la stampa di Pechino, ispirata dalle dichiarazioni di scienziati locali e dalle veline del Partito-Stato, sta cercando di imporre una versione secondo la quale il coronavirus non è partito da pipistrelli tenuti in gabbia nel famigerato mercato alimentare di Wuhan, dove i primi casi di polmonite «anomala» furono scoperti esattamente un anno fa. Il Quotidiano del Popolo ha appena sostenuto che «ogni prova disponibile» induce a sospettare che il coronavirus sia solo emerso e non partito da Wuhan. Sarebbe arrivato con le derrate alimentari surgelate importate dall’estero. Secondo l’ultima ipotesi degli esperti cinesi, il salto dal coronavirus da un animale all’uomo e poi la trasmissione tra persone si sarebbe verificata nel «subcontinente indiano». In base a questa idea il mercato di Wuhan sarebbe stato solo un «amplificatore» del contagio arrivato da fuori. Dice Wu Zunyou, dirigente del Centro per il controllo delle malattie infettive di Pechino: «I primi contagiati di Wuhan lavoravano nell’area del pesce surgelato del mercato Huanan». La catena del freddo usata per importare i prodotti ittici è entrata nella narrazione cinese a metà giugno, quando a Pechino scoppiò un focolaio di infezione nel gigantesco mercato Xinfadi: tracce del Sars-Cov-2 che causa il Covid-19 furono trovate allora sui banchi dove si tagliavano i salmoni provenienti dal Nord Europa. 4. Le autorità però furono pronte a sfruttare l’appiglio per lanciare una campagna di controllo delle importazioni alimentari, arrivando anche a fare il tampone ad alcuni salmoni. I salmoni risultarono «sani» e a quel punto le indagini si spostarono sugli imballaggi. Di volta in volta sono finiti sul banco degli accusati i contenitori usati per la catena del freddo della carne di maiale tedesca, delle ali di pollo brasiliane, del manzo argentino, dei filetti di pesce indiani, del salmone scandinavo e canadese, dei gamberi sudamericani. Prodotti spediti da una ventina di Paesi nel cui imballaggio è stata ufficialmente isolata qualche traccia virale. Su plastica e cartone degli imballaggi sono state trovate tracce di coronavirus. Da allora gli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità non hanno ancora potuto visitare il famoso e famigerato mercato alimentare di Wuhan. A luglio da Ginevra partirono un paio di studiosi dell’Oms, per preparare la missione, ma passarono due delle tre settimane di permanenza in Cina chiusi in un albergo di Pechino per la quarantena. Ora si torna a parlare di un’ispezione nel mercato, chiuso dal primo gennaio e ampiamente disinfettato: è chiaro che un’ispezione fatta ora non potrebbe dare alcuna risposta scientifica sulle origini dell’epidemia. Quanto all’insistenza cinese sulla catena del freddo che avrebbe portato il coronavirus a Wuhan, Mike Ryan dell’Oms la definisce «altamente speculativa e ipotetica».

Cina, ingresso vietato agli italiani anche per lavoro. Notizie.it il 06/11/2020. Cina, ingresso vietato per gli italiani. La sospensione è stata annunciata dall'ambasciata di Roma, una misura anti Coronavirus. In Cina è vietato l’ingresso agli italiani, non importa che sia per lavoro, affari o ricongiungimento familiare. Secondo le nuove disposizioni, diffuse dall’Ambasciata cinese nel nostro Paese, per contrastare una nuova insorgenza di Covid vige una temporanea sospensione del flusso in entrata. La nota diffusa dall’Ambasciata specifica che tale misura è stata adottata visto il diffondersi del Covid in Italia. L’unica eccezione riguarda i titolari di visti come quello diplomatico, di servizio, di cortesia, di tipologia “c” e di quelli rilasciati dal 3 novembre 2020 in poi. “La Cina rivedrà le misure in tempo in relazione al mutamento delle circostanze sul Covid-19″, prosegue la nota, “L’Ambasciata e i consolati generali della Cina in Italia non provvedono più i servizi di vidimazione della dichiarazione dello stato di salute ai suddetti richiedenti”. Gli italiani non sono gli unici esclusi dall’ingresso in Cina, da Pechino arriva anche la comunicazione di divieto per chi arriva da Regno Unito e Belgio, Bangladesh e Filippine. Londra ha diffuso una nota dell’Ambasciata cinese in loco, per la quale tale misura ha immediata applicazione, anche se i cittadini posseggono un visto che permette un soggiorno in territorio cinese. Prima di passare a questa stretta sulle misure anti Coronavirus, la Cina aveva deciso che per viaggiare dall’Italia alla Repubblica Popolare Cinese, dal 4 novembre 2020 si sarebbe dovuto portare con sé il risultato di un recente test sierologico e successivo tampone negativi. Per quanto riguarda chi fa ingresso in Cina da Stati Uniti, Germania, Repubblica Ceca e Francia, a partire dal 6 novembre 2020 si dovrà risultare negativi al Covid e a un test per gli anticorpi entro 48 ore dal viaggio. Il giorno dopo l’entrata di queste persone nel Paese, potranno sbarcare i provenienti dalla Danimarca e quello dopo ancora da Australia, Singapore e Giappone.

Da ilmessaggero.it il 28 ottobre 2020. Il suo caso aveva fatto il giro del mondo. Yi Fan, medico cinese di Wuhan che aveva preso il Covid curando i suoi pazienti nel cuore della pandemia, dopo l'aggravarsi dei suoi sintomi, si era risvegliato in un reparto di ospedale con la pelle di un colore diverso rispetto al suo colorito naturale. A causa di una cura a base di antibiotici molto pesanti, la sua epidermide era diventata di un colore tendente al nero. Assieme a lui era stato ricoverato anche un collega, il dottor Hu Weifeng, ma lui, a differenza di Yi Fan, non ce l'ha fatta ed è morto a inizio giugno dopo quattro mesi di agonia. Più fortunato il collega, che ora è tornato per la prima volta a mostrarsi in pubblico da quando il suo colorito è tornato alla normalità. Yi Fan, infatti, si è ripreso completamente e in alcuni video  pubblicati da Hubei Today, il medico ringrazia lo specialista di terapia intensiva che ha contribuito a salvargli la vita. In un altro video, pubblicato lo scorso 20 aprile, si vede il medico parlare tranquillamente con i giornalisti, anche se non ancora pienamente in grado di alzarsi dal letto dell'ospedale. Il dottor Yi è stato dimesso dall'ospedale all'inizio di maggio ed è tornato a vivere una vita normale. Il ricovero dei due medici era avvenuto lo scorso 18 gennaio. Entrambi sono stati portati prima all'ospedale polmonare di Wuhan e poi trasferiti alla filiale Zhongfa Xincheng dell'ospedale di Tongji, secondo l'emittente statale cinese CCTV. Il farmaco che è stato somministrato ai due dottori è il Polymyxin B, un antibiotico utilizzato solo in casi estremi. Il farmaco aveva causato una iper-pigmentazione della loro pelle, anche se inizialmente, il team medico pensava che quel colore scuro fosse causato da squilibri ormonali dopo che il virus aveva danneggiato il loro fegato. La strana condizione è poi completamente scomparsa, ma il loro caso è destinato entrare negli annali di medicina.

Da "corriere.it" il 23 ottobre 2020. «Da focolaio mondiale #covid19 a meta turistica più ambita dalle vacanze cinesi... Un week-end nella più popolare città cinese del 2020»: così Ilham Mounssif, ambasciatrice culturale in Cina racconta la vita oggi a Wuhan. Sarda di origini marocchine, in Cina per lavoro, Ilham mostra con un video una delle strade più frequentate della città cinese da cui si è diffusa l’epidemia di coronavirus. «Qui si passeggia senza mascherina, i ristoranti sono pieni e aperti fino a tardi, la gente mangia nelle strade e anche le sale giochi sono aperte» racconta dai social.

La Cina dopo il coronavirus: ristoranti e discoteche aperte. Perché in Italia non è così? Le Iene News il 30 ottobre 2020. Roberta Rei ci porta a Wuhan attraverso i video e le testimonianze di chi adesso si trova nella città da dove è scoppiata la pandemia. E mentre in Italia la seconda ondata di coronavirus impone nuove chiusure, lì vediamo ristoranti pieni e discoteche affollate. Tutto questo è stato possibile con la strategia delle 3T: testare, tracciare, trattare. Discoteche aperte, persone senza mascherina libere per strada. Così si vive oggi in Cina. Roberta Rei ci porta a Wuhan attraverso i video e le testimonianze di chi adesso si trova nella città da dove è scoppiata la pandemia. E mentre in Italia la seconda ondata di coronavirus impone nuove chiusure, lì vediamo ristoranti pieni e discoteche affollate. I negozi hanno ripreso a lavorare e l’inferno sembra alle spalle. Invece in Italia i contagi schizzano alle stelle, le file ai pronto soccorso si allungano e si avvicina lo spettro di un nuovo lockdown mentre scattano nuovi divieti. Che cosa ha fatto la Cina di diverso da noi? Perché i nostri sforzi sembrano vanificati? Tutto questo è grazie al modello basato sulle 3 T: testare, tracciare, trattare. Un modello che in Italia è stato usato solo in Veneto e che l’Oms aveva caldeggiato per bloccare i contagi, ma poi ignorato. Oltre a testare attraverso un uso capillare dei tamponi, in Cina hanno saputo tracciare mediante i big data attraverso App. Dati incrociati con dichiarazioni spontanee dei cittadini in grado di fare il tracciamento preciso di dove si trovasse una persona e quindi metterla in isolamento. Rimane però un interrogativo: noi saremmo stati capaci di tollerare un'intrusione nelle nostre vite per tutelare salute e economia?

Cina, a Qingdao oltre tre milioni di test in un giorno. Estratto da repubblica.it il 13 Ottobre 2020. La città portuale cinese di Qingdao ha testato oltre tre milioni di persone per il Covid-19, circa la metà dei residenti dei cinque distretti dell'area urbana, in un solo giorno, dopo che è emerso un focolaio in un ospedale della città. Tutti i tamponi hanno dato esito negativo. Nella città costiera cinese è stato innalzato il livello di allerta del distretto dove si trova il Qingdao Chest Hospital e dove sono stati riscontrati i primi casi positivi. L'obiettivo è di arrivare a testare in cinque giorni nove milioni di persone e, per controllare la diffusione della malattia, sono state isolate le comunità residenziali e gli esercizi pubblici dove sono stati rilevati i nuovi casi di contagio, riporta il tabloid Global Times. Secondo l'ultimo bollettino della Commissione nazionale per la sanità, ieri sono stati registrati 13 nuovi contagi in Cina, sei dei quali nella provincia orientale dello Shandong, dove si trova Qingdao. Dall'inizio dell'epidemia sono 85.591 i contagi confermati in Cina, e il totale dei decessi rimane fermo a quota 4.634.

Cina, Qingdao lancia test di massa dopo 6 contagi. Da Affari Italiani il 12 ottobre 2020. In Cina la città orientale di Qingdao ha lanciato una campagna di test di massa per il Covid-19 dopo che sono confermai sei contagi e altrettanti asintomatici, tutti collegati a un ospedale locale. Qingdao effettuerà il test su nove milioni di persone nei prossimi cinque giorni: già nella giornata di oggi, video diffusi dai media cinesi mostrano code di residenti alle postazioni Covid istituite in alcuni punti della città. Secondo gli ultimi dati diffusi dalle autorità urbane, dei 377 contatti stretti dei pazienti risultati positivi al coronavirus, nove sono risultati positivi al test, tra cui la famiglia di uno dei primi contagiati e membri del personale sanitario dell'ospedale in cui si è verificato il focolaio. Con l'esclusione di questi casi, riferisce il tabloid "Global Times", il personale e i nuovi pazienti degli ospedali della città portuale cinese sono stati sottoposti al tampone e sono tutti risultati negativi. I dati della municipalità non risultano ancora nel bollettino nazionale diffuso oggi che riferisce soltanto di 21 casi confermati tutti "importati" e conta solo tre casi di infezione asintomatica di provenienza locale, per un totale di 85.578 contagi confermati dall'inizio dell'epidemia, mentre il totale dei decessi resta fermo a quota 4.634.

Coronavirus, la Cina fuori dall'emergenza: "Un'operazione titanica con i tamponi per evitare l'aumento di contagi". Giuliano Zulin Libero Quotidiano il 16 ottobre 2020. A Qingdao, grande città cinese di 11 milioni di abitanti che si affaccia sul mar Giallo, sono stati scoperti pochi giorni fa 12 positivi al Covid. Da Pechino è partito subito l'ordine: fare tamponi a tutti per bloccare i contagi. Così la municipalità della megalopoli a sud-est della Capitale è partita con un'operazione titanica: l'obiettivo è testare gli abitanti in cinque giorni. Ripetiamo: 9 milioni di esami da eseguire in 5 dì. Ebbene, ieri mattina oltre 7,5 milioni di persone risultavano essere state sottoposte a tampone molecolare. La commissione sanitaria municipale di Qingdao ha fatto sapere che finora sono stati analizzati più di 4,06 milioni dei campioni raccolti e, ad eccezione dei casi già segnalati (poco più di una decina), non sono stati rilevati altri positivi. L'agenzia Ansa riferisce che Chen Wansheng, un funzionario del Comune, ha spiegato come cinque città della regione dello Shandong si siano unite a Qingdao per aiutare a somministrare e analizzare i tamponi e più di 1.200 persone sono state inviate nella città per assistere con i test. Mobilitati più di 10.000 medici e 20.000 volontari. Secondo Zhang Huaqiang, della commissione sanitaria municipale, per migliorare l'efficienza è stato adottato un approccio di test misto. In pratica «se un campione "10 in 1" risulta positivo, informiamo le 10 persone di sottoporsi separatamente all'isolamento e ai test per identificare ulteriormente il portatore del morbo».

Altro film - Dalla Cina a Roma. Altro film. L'Unità di crisi Covid-19 della Regione Lazio ha comunicato la situazione delle attese ai drive-in regionali. Asl Roma 1: Labaro 110 auto in coda per l'esame, San Giovanni 91 (e 253 persone in fila al drive in pedonale), Santa Maria della Pietà 82; Asl Roma 2: Togliatti 200, Odescalchi 90, Campus Biomedico 198, Istituto Zooprofilattico 250, Santa Lucia Ardeatina 35. Capite allora perché nell'ex celeste impero non si riscontri un incremento degli infetti, mentre da noi continuano a salire? È l'approccio diverso. Senza certamente elogiare il regime comunista cinese, bisogna però sottolineare come Pechino punti ad attaccare il virus, a individuarlo il prima possibile per isolarlo in modo da salvaguardare la società, la sanità e l'economia. L'atteggiamento italiano e, in generale, occidentale è invece attendista. Noi lo aspettiamo il Corona e poi cerchiamo di incrementare il numero di posti letto. Solo Luca Zaia, per primo, aveva intuito la forza della prevenzione. I primi drive-in, ovvero i luoghi dove il personale medico attende potenziali contagiati per eseguire il tampone fuori dagli ospedali, sono scattati a fine marzo in Veneto. E subito dopo in Emilia-Romagna e via via nelle varie Regioni. Certo, serviva personale e reagenti per analizzare i test. Mesi fa scarseggiavano entrambi, adesso c'è tutto però mancano i macchinari che processano i test. Si forma in pratica, come ha scritto pochi giorni fa Lorenzo Mottola su Libero, un imbuto che non permette la proliferazione dei tamponi. Non parliamo poi della burocrazia o delle gelosie fra camici bianchi, le quali non permettono agli studi privati di accelerare la mappatura dei contagi in Italia. Risultato finale: siamo indietro.

Costi e benefici - In realtà, dicevamo, è l'intero Occidente che forse ha sbagliato approccio, rimanendo sulla difensiva. Ad aprile la Rockefeller Foundation aveva fatto un calcolo: se in America facessimo 30 milioni di tamponi a settimana, torneremmo alla normalità il più presto possibile. Certo, all'epoca i tamponi costavano: per 30 milioni di esami sarebbero serviti 100 miliardi di dollari. Quasi 400 miliardi al mese. Uno sproposito. Ma quanto ha perso in termini di Pil, di posti di lavoro, di fiducia il tessuto sociale americano ed europeo. Gli 11.700 miliardi stampati dalle banche centrali o distribuiti dai governi non hanno né salvato l'economia (ancora in difficoltà) né sconfitto il morbo. Non era meglio allora "tamponare" tutti? Servivano risorse e personale? Ovvio, ma i costi sanitari ed economici sarebbero stati inferiori. In base ai dati diffusi ieri il Friuli Venezia-Giulia ha effettuato 496 tamponi ogni 100mila abitanti, il Veneto 430, l'Emilia Romagna 350, la Lombardia 289, il Lazio 263, la Campania 196, la Puglia 145, la Sicilia 140 e la Calabria 125 (record negativo italiano). Fatalità, questi numeri sono proporzionali al tasso di occupazione di letti in ospedale da malati, più o meno gravi. È proprio vero: chi trova un tampone, trova un tesoro. 

Gianluca Baldini per “la Verità” il 13 ottobre 2020. Carlo G. è un imprenditore italiano che vive a Hong Kong da diversi anni. Lavora per una grossa multinazionale e la settimana scorsa è dovuto andare a Shanghai per lavoro. Prima di sbarcare in Cina il manager è costretto a passare due settimane di quarantena in un albergo scelto dal governo cinese. Dalla sua camera alla periferia della megalopoli cinese spiega alla Verità come la Cina sta gestendo la quarantena.

Cosa ha dovuto fare per venire a Shanghai?

«Il viaggio deve essere preparato in primis con una lettera di invito da parte di una entità giuridica cinese. La lettera di invito viene registrata presso il distretto in cui l' azienda ha sede. Dopodiché viene inviata all' ufficio visti di Shanghai. In casi di approvazione tutto viene inviato al governo di Hong Kong che rilascia il permesso per partire. Ci sono poi alcune procedure ben precise da seguire: due settimane prima della partenza bisogna fare un test salivare che va ripetuto fino a un massimo di 72 ore prima del volo. Se è negativo, prendi l' aereo. Nel mio caso l' aeroporto di Hong Kong era semideserto, così come quello di Shanghai. Io sono arrivato nel terminal che raccoglie i Paesi di lingua cinese».

Poi cosa succede?

«Uscito dall' aereo c' è un percorso predefinito e delimitato da transenne. Il personale ha tutte le protezioni: tuta bianca, mascherina, guanti, cappuccio e occhiali protettivi. Si arriva a un punto in cui si deve fare un altro tampone. Successivamente si arriva alla raccolta delle valigie. A quel punto si prendono i bagagli e si viene smistati tra coloro che restano a Shanghai e chi deve andare verso altre destinazioni. Si arriva poi a un recinto dove si procede alla registrazione che serve per accedere ai mezzi di trasporto che porteranno alla destinazione finale. Ci sono controlli continui per verificare che le persone che sono nel primo recinto siano quelle che effettivamente devono prendere l' autobus per andare nell' hotel previsto dal governo. Giunti a destinazione c' è un altro controllo al centro di isolamento per verificare che le persone scese dall' autobus siano quelle che devono entrare nelle camere. Tutto viene controllato scrupolosamente per evitare errori. Gli hotel sono tutti transennati con barriere alte almeno due metri e c' è un solo ingresso e una sola uscita».

L' hotel com' è?

«Si tratta di un albergo decente. Potendo, certo, avrei scelto diversamente. Se non altro la stanza è spaziosa. In camera viene fatto trovare un pacchetto con tutti i beni di prima necessità come spazzolini, acqua da bere, disinfettanti per le pulizie. Il frigo bar è stato tolto. Non so perché. C' è proprio il buco, dove prima è chiaro ci fosse. Non si può uscire dalla stanza. Ci sono centri dove non si può nemmeno aprire la porta da dentro. Nel mio caso si può aprire, ma ci sono delle telecamere da dove guardano se violi l' isolamento. Fuori dalla mia stanza c' è un tavolino dove appoggiano il cibo per colazione, pranzo e cena. Per fortuna c' è una scrivania dove posso lavorare. Internet è decente la mattina, la sera lentissimo. C' è anche la televisione, solo cinese ovviamente».

Le pulizie chi le fa?

«La pulizia è a tuo carico. Ti viene dato uno straccio e le fai da solo. L' isolamento è completo e rigoroso. Non si possono avere contatti con nessuno, se non con il medico che, tutto bardato, viene a provare la febbre ogni giorno».

Il cibo com' è?

«È tutto confezionato e prodotto da una cucina interna. Si tratta di cibo cinese. A volte lo lascio perché immangiabile, altri giorni più passabile».

Gli hotel sono tutti dello stesso livello?

«Non saprei con certezza. Conoscendo la Cina, posso dire che gli hotel sono di livello decente nelle grandi città. Chi deve andare in ambienti più rurali non so cosa possa trovare».

Quando tornerà a Hong Kong la attendono altri 15 giorni di quarantena?

«Spero di no. Dovrò stare qui due mesi e mi auguro che la situazione migliori. A Hong Kong, comunque, i controlli sono molto più all' acqua di rose, infatti ci sono molto più contagi. Molte persone giunte dall' India hanno portato anche il virus».

Cina, perché il coronavirus non circola più? L'italiana che lavora lì spiega tutto. Libero Quotidiano l'08 ottobre 2020. Com'è possibile che il virus circoli ancora ovunque tranne nel Paese in cui è nato? Selvaggia Lucarelli si è posta questa domanda su Twitter e poco dopo è arrivata la risposta di una ragazza, Veronica Banfi, che lavora in Cina e ha spiegato perché - a suo avviso - il coronavirus sia ormai un ricordo lontano in quel Paese. Gli ingredienti principali usati dal governo cinese per contrastare la pandemia sono stati per lo più i numerosi controlli sulla popolazione. "Per ritornare qui ho fatto 14 giorni di quarantena centralizzata in hotel, più altri 14 di simil lockdown a casa, richiesti dal mio distretto, e 5 tamponi - ha scritto Veronica -. All'esterno pochi hanno la mascherina, nei luoghi chiusi pochissimi, molto usata invece in stazioni e mezzi pubblici". Ciò che ha fatto davvero la differenza secondo la ragazza è stata la loro prontezza nel rispondere al problema: "Loro sono stati attenti subito all'inizio, la gente ha avuto davvero paura, zero spavalderia". Quando viene trovato un caso, la loro risposta è solo una: test, test, test. "Dove trovano casi fanno test di massa a tappeto. Chi arriva dall'estero, come me che arrivavo dall'Italia, fa quarantena centralizzata sotto sorveglianza medica riportando la temperatura due volte al giorno e molti tamponi, di cui uno poco prima di partire - ha continuato Veronica su Twitter -. La mia vita qui è esattamente identica a quella che conducevo pre Covid, unica differenza gel mani nei negozi e riportata data sanificazione".

Da ilpost.it l'11 ottobre 2020. Wuhan fu al centro delle cronache internazionali per settimane e settimane, all’inizio di quest’anno. Poi, quando il coronavirus venne scoperto man mano in tutti i paesi del mondo, le notizie dalla metropoli cinese da cui si pensa sia cominciata la pandemia si fecero sempre più sporadiche. Peter Hessler, giornalista americano esperto di Cina, ci è stato per alcuni giorni, raccontando che aria tira in un lungo articolo pubblicato dal New Yorker. La vita in città oggi è tornata a “una relativa normalità”, come si dice, che è molto più normale di quella della maggior parte dei paesi europei: non vengono registrati contagi da mesi, e pian piano hanno ripreso anche gli eventi che prevedono assembramenti al chiuso, dalle serate in discoteca alle partite nei palazzetti con il pubblico. Tra il 23 gennaio e l’8 aprile, Wuhan fu sottoposta a un lockdown durissimo, come non se ne sarebbero visti nemmeno nei paesi che presero le misure più severe come l’Italia. Tutti in città si ricordano le date più importanti della scorsa primavera, racconta Hessler. Vengono menzionate con le parole fengcheng, “città sigillata”, e jiefeng, “togliere il sigillo”. Le immagini degli abitanti positivi al coronavirus trascinati fuori dalle loro case da funzionari statali vestiti con tute e mascherine generarono polemiche all’estero e sofferenze tra chi le subì. L’architetto Kyle Hui ha raccontato a Hessler che sua madre morì di COVID-19 a gennaio. Dopo aver raggiunto la città per la cerimonia di cremazione, Hui tornò a casa nella provincia di Jiangsu. Pochi giorni dopo Wuhan fu messa in lockdown, e un gruppo di funzionari gli sigillò il portone con del nastro che indicava che ci era stato di recente. All’inizio Hui protestò, ma gli fu detto che in alternativa sarebbe stato portato in un centro di isolamento. Successe un po’ ovunque, in Cina: anche a Chengdu, a oltre mille chilometri di distanza, dove vive Hessler. I funzionari passavano diverse volte al giorno a chiedere se qualcuno era stato nella provincia dell’Hubei, quella di Wuhan: nel quartiere di Hessler trovarono una persona che era tornata da poco, la testarono e risultò positiva, anche se non aveva sintomi. Nel tempo si è convinto che quelle rigidissime misure furono necessarie, ha detto a Hessler. Dopo alcune settimane di ritardi e confusione (e insabbiamenti, dicono molti indizi) dovuti al panico della scoperta di una nuova polmonite virale, le procedure di contact tracing e isolamento organizzate in Cina furono massicce, a partire dalla metà di gennaio. Diecimila persone furono messe al lavoro soltanto a Wuhan per fare le indagini epidemiologiche e il tracciamento dei contatti; gli operatori sanitari vissero per mesi in albergo; moltissimi edifici e locali furono riadattati per garantire il distanziamento e posti in cui tenere i positivi in isolamento. Un impresario edile ha raccontato a Hessler che in quelle settimane gli operai guadagnavano l’equivalente di centinaia di dollari al giorno, per via dei rischi di contagio e degli orari estenuanti. I compensi arrivarono fino a 7.000 dollari in una settimana, e comunque non si trovavano abbastanza persone disposte a lavorare. A un certo punto, l’impresario decise di rimanere con loro nei cantieri per dimostrare che non c’erano pericoli. In realtà non lo sapeva nemmeno lui, perché all’inizio le comunicazioni ufficiali furono molto frammentarie. Il bilancio ufficiale dei morti a Wuhan è di 3.869, ma un esperto di malattie infettive che lavorò nella città ha detto a Hessler di ritenere che siano stati fino a tre o quattro volte di più. A lungo molti malati e molti morti non furono testati (una cosa successa un po’ ovunque nel mondo, anche in Italia). Il bilancio ufficiale nel resto della Cina è straordinariamente più basso: a Pechino risultano soltanto 9 morti. Non si sa quanto siano affidabili i dati cinesi, ma sicuramente la disastrosa gestione delle prime settimane di epidemia a Wuhan provocò moltissimi morti, che altrove si evitarono grazie alle rigidissime misure applicate in seguito. A Wuhan, però, non viene registrato un caso di trasmissione locale di coronavirus dal 18 maggio. Hessler scrive che è la città più testata della Cina – «non ho mai incontrato un tassista che non abbia fatto almeno due volte il tampone» – con i suoi 321 centri dedicati e talmente tanti operatori che a giugno ne furono mandati una settantina a Pechino per aiutare a contenere l’epidemia. Oggi a Wuhan i cinema sono aperti, così come le discoteche, e nei ristoranti non ci sono particolari restrizioni sui posti a sedere. Le persone indossano la mascherina un po’ ovunque, ma per il resto non ci sono grandi misure per evitare assembramenti e garantire il distanziamento. L’inizio dell’anno accademico è stato celebrato con cerimonie con migliaia di studenti in spazi chiusi, per esempio. Hessler ha anche portato i suoi occhiali da sole a riparare al mercato coperto del pesce, il luogo dove si pensa sia cominciato il contagio. In realtà non è detto che il contagio sia partito dal mercato del pesce di Wuhan. Lì furono scoperti i primi casi della misteriosa polmonite, e il fatto che venissero venduti animali selvatici vivi ha fatto supporre che il coronavirus abbia fatto lì il famoso spillover, il passaggio di specie. In realtà in quel mercato erano pochi i banchi in cui si vendevano animali vivi, perché a Wuhan non se ne mangiano molti. Sono più popolari in altre città, come Guangdong, e infatti c’è chi crede che la pandemia possa essere cominciata lì. Peter Daszak, scienziato esperto di coronavirus che ha lavorato all’Istituto di Virologia di Wuhan per sedici anni, ha spiegato a Hessler che secondo lui il virus circolava già settimane prima che fosse scoperto al mercato. A Wuhan d’inverno ci sono pochi pipistrelli, animali che molto probabilmente sono stati tra quelli che hanno portato il coronavirus fino all’uomo (anche se si crede che l’ultimo animale della catena possa essere stato un pangolino). Secondo le sue ricerche, nel Sud Est Asiatico ogni anno oltre un milione di persone sono contagiate da coronavirus che provengono da pipistrelli. «Di solito si tratta di persone che vivono vicino alle caverne in cui ci sono i pipistrelli, che di notte si muovono defecando e urinando. Feci e urine finiscono su superfici o vestiti, e qualcuno le tocca e poi si porta le mani alla bocca» ha spiegato Daszak. C’è chi dice che si sarebbero potute avere prove più certe per ricostruire l’origine del contagio se il mercato di Wuhan fosse stato trattato diversamente dopo la scoperta dei contagi. Ma è normale, ha spiegato Daszak: se si scopre un nuovo virus si mandano i dottori, che pensano prima di tutto a pulire l’area e a fermare le infezioni. Una teoria complottista molto diffusa dice che fu proprio l’Istituto di Virologia di Wuhan ad aver creato il virus, sfuggito poi dal laboratorio. Non c’è nessuna prova che sia successo niente di simile, e anzi sembra molto improbabile. In Cina gli scienziati sono sottoposti a grandissime pressioni per pubblicare le loro scoperte, ha spiegato Daszak, e se fosse stato scoperto un coronavirus come quello che provoca la COVID-19, capace di contagiare l’uomo, sarebbe stato senz’altro reso noto. All’Istituto di Virologia di Wuhan erano invitati di continuo scienziati stranieri, a testimonianza che non erano in corso esperimenti segreti. Non a caso, l’Istituto fu rapidissimo nel pubblicare la sequenza del genoma del virus, per permettere al resto del mondo di lavorarci sopra. Il problema non fu la reazione degli scienziati, a Wuhan, ma quella della politica locale, che inizialmente cercò di insabbiare le scoperte sull’estensione del contagio e la gravità della malattia causata dal virus. È una dinamica frequente, in Cina: quando si resero conto di aver sbagliato a valutare ciò che stava accadendo, i funzionari cercarono di non farlo sapere ai superiori. Ma tra gli esperti c’è comunque chi riconosce che gestire una situazione di quelle proporzioni, senza saperne niente, era difficilissimo. Secondo Jennifer Nuzzo, epidemiologa del Johns Hopkins Center for Health Security, ha detto a Hessler che «è irrealistico pensare che un qualsiasi paese avrebbe saputo fermare questo virus all’origine». Un giornalista di Wuhan ha raccontato a Hessler che nelle prime settimane di gennaio lavorare in un giornale aveva qualcosa di anomalo rispetto al solito: c’era una libertà mai vista, tanto che emersero storie come quella di Li Wenliang, medico che fu tra i primi a dare l’allarme sul coronavirus e fu per questo messo a tacere dal governo cinese (morì poi a febbraio, dopo essersi contagiato). Già da febbraio le cose cambiarono, e il governo impose una rigidissima censura. Il giornalista ha spiegato che molti scienziati e funzionari che lavorarono al contenimento dell’epidemia si sono rifiutati di parlare, dicendo che forse racconteranno quello che sanno tra dieci anni, se il clima nel frattempo sarà cambiato. Secondo Hessler, passati alcuni anni, scopriremo pian piano molte cose in più su quelle settimane di gennaio a Wuhan: «ma questo ritardo è importante per il Partito Comunista Cinese. Gestisce la storia come ha gestito la pandemia: un periodo di isolamento è cruciale». Chiedendo ai suoi interlocutori cosa ha lasciato l’epidemia alla città, Hessler ha ricevuto risposte molto diverse, da chi ne è uscito più diffidente nei confronti del governo a chi è più fiducioso. Ma i mesi passati, hanno detto tutti, hanno confermato molte cose che sappiamo sulla Cina. Un paese in cui lo Stato non ha mai sentito l’esigenza di spiegare ai suoi cittadini in dettaglio cosa stesse succedendo, sapendo che la popolazione era disposta ad accettare misure severissime per contribuire al contenimento del virus. Se fosse andata come negli Stati Uniti, in proporzione, la Cina avrebbe avuto oltre un milione di morti.

Discoteche piene a Wuhan. Il Covid non fa più paura? Federico Giuliani su Inside Over il 26 settembre 2020. Discoteche prese d’assalto da centinaia di ragazzi, molti dei quali senza mascherina. Ristoranti e pub pieni come ai vecchi tempi, con tavolini esauriti in ogni ordine di posto, sia all’interno che all’esterno. Feste e party che durano tutta la notte per celebrare l’effettivo ritorno alla normalità. Una normalità che da queste parti mancava dallo scorso gennaio. Benvenuti nella nuova Wuhan dell’era post-Covid, una città oggi completamente diversa dalla megalopoli fantasma apparsa sui nostri teleschermi nei momenti più duri dell’emergenza sanitaria. Se chiudiamo gli occhi e torniamo con le lancette dell’orologio alla fine del 2019, a cavallo tra i mesi di dicembre e gennaio, abbiamo ancora impresse le inquietanti immagini trasmesse dai telegiornali. Wuhan, fino ad allora un centro urbano che in pochi conoscevano, era l’epicentro mondiale della pandemia di Covid. In quel periodo, nell’enorme conglomerato urbano da circa 11 milioni di abitanti, una misteriosa polmonite stava iniziando ad aggredire i polmoni. I primi pazienti contagiati avevano visitato il mercato ittico di Huanan, a pochi passi dalla stazione ferroviaria, nel cuore di una città crocevia all’interno del sistema infrastrutturale cinese. Le autorità chiusero e isolarono subito l’enorme magazzino, sperando di mettere sotto controllo il nemico invisibile. Ben presto si capì che la situazione era più grave del previsto. Le persone continuavano ad ammalarsi, gli ospedali traboccavano di pazienti, i morti aumentavano giorno dopo giorno. Nessuna medicina era in grado di sconfiggere il male misterioso. Nessuno sapeva spiegare cosa stesse succedendo. Fu così che il governo cinese – secondo alcuni con colpevole ritardo, per altri travolto da un nemico infimo e invisibile – decise di chiudere la città.

Dal lockdown alla rinascita. La durata complessiva del lockdown è stata di 76 giorni: dal 23 gennaio all’8 aprile 2020. Da allora le misure restrittive, severissime, sono stata progressivamente allentate, fino alla ripresa delle attività economiche e sociali. Il sistema di monitoraggio, tracciamento e trattamento cinese ha funzionato alla perfezione. Lo scorso giugno le autorità hanno effettuato uno screening di massa su una decina di milioni di abitanti. Detto altrimenti: quasi tutta Wuhan è stata controllata. Soltanto da quel momento in poi l’epidemia è stata giudicata conclusa. La capitale della provincia dello Hubei non registra un caso di trasmissione locale da metà maggio. Grazie a numeri del genere la città è letteralmente tornata a vivere. Basta dare un’occhiata alla vita notturna dell’ex epicentro della pandemia di Covid mondiale. Le strade isolate, i negozi chiusi e la completa scomparsa del traffico sono un lontano ricordo.

La vita notturna di Wuhan. In piena estate il video di un maxi party in piscina, arricchito con tanto di dj set, ha fatto il giro del mondo. Adesso, sempre da Wuhan, arrivano altre immagini che confermano il ritorno alla quotidianità. I locali e le discoteche sono tornate a riempirsi, senza obblighi di mascherina e senza la necessità di mantenere la distanza di sicurezza. E così, mentre gran parte del mondo occidentale è ancora alle prese con il virus e teme una possibile seconda ondata, là dove tutto è iniziato non sembrano esserci più problemi. Nello Hubei i bambini sono tornati regolarmente a scuola, i cittadini possono riunirsi, anche in numeri elevati, uscire senza adottare protezioni individuali e godersi la tanto desiderata libertà. Baci, abbracci, feste di gruppo: a Wuhan, adesso, tutto è possibile.

Coronavirus in Cina, “a Urumqi cittadini ammanettati ai palazzi durante il lockdown”. Le Iene News il 26 agosto 2020. Nello Xinjiang, regione semiautonoma della Cina dove vive la minoranza musulmana degli Uiguri, da luglio è stato imposto un nuovo lockdown a causa dell’emergere di un nuovo focolaio. In rete però hanno iniziato a circolare informazioni di presunte violenze compiute ai danni della popolazione: cittadini ammanettati alle loro case, porte chiuse con il fil di ferro, obbligo di assumere medicine tradizionali cinesi. Lockdown durissimo, obbligo di assumere medicine tradizionali cinesi, cittadini chiusi in casa con il fil di ferro e ammanettati ai palazzi qualora violino la quarantena. E’ questo lo scenario dipinto sui social network dello Xinjiang, regione semiautonoma della Cina dove vive la minoranza musulmana degli Uiguri. A luglio l’intera regione è stata posta sotto nuove e pesanti misure restrittive a causa dello sviluppo di un focolaio di coronavirus. Misure durissime e forse eccessive, che secondo quanto riporta il Guardian avrebbero portato i cittadini locali a manifestare il loro disagio sui social network come Weibo e Twitter. E in effetti, cercando gli hashtag #Xinjiang e #Urumqi si leggono moltissime denunce di quanto starebbe accadendo nella regione. Come sempre avere informazioni precise su quanto succede in Cina è molto difficile, in particolare in regioni come lo Xinjiang dove da molto tempo le minoranze etniche e religiose vengono sottoposte a una pesante repressione da parte del governo centrale. Le autorità hanno invece dichiarato che da domenica alcune restrizioni del lockdown saranno alleggerite per le comunità dove il coronavirus ha smesso di circolare. Ciò che non ha smesso di circolare, invece, sono le denunce online. In alcuni video, che potete vedere qui sopra, si vedono persone ammanettate alle ringhiere perché avrebbero violato le misure di contenimento: sebbene non sia certa la ragione per cui quelle persone fossero ammanettate, l’emittente pubblica australiana Abc ha confermato che le immagini provengono dalla città di Urumqi. In altre immagini i residenti della capitale sembrano gridare disperati dalle finestre di casa. L’autore del post sui social ha poi specificato trattarsi di “mostrare le espressioni delle emozioni depresse dei cittadini locali” e non una critica al governo, ma appare più un modo per evitare la censura del governo che una smentita delle immagini. Immagini che sembrano mostrare uno spaccato inquietante di una zona già duramente colpita dal governo cinese.

Da ansa.it il 17 agosto 2020. La Cina ha dato la sua prima approvazione a un possibile vaccino contro il Covid-19: è l'Ad5-nCoV, sviluppato da CanSino Biologics con l'Istituto di biotecnologia dell'Accademia delle scienze mediche militari.  Il via libera spiana la strada alla possibile produzione di massa in tempi rapidi nel caso di un ritorno della pandemia, ha spiegato precisato la China National Intellectual Property Administration, citata dal network statale Cctv. L'approvazione, ricevuta l'11 agosto scorso ma resa nota solo ora, "è un'ulteriore conferma dell'efficacia e della sicurezza" del prodotto messo a punto, ha detto in una nota il gruppo di Tianjin, i cui titoli hanno intanto registrato cospicui rialzi in Borsa.

La Cina brevetta il suo vaccino prodotto dall'azienda CanSino. Pubblicato lunedì, 17 agosto 2020 da La Repubblica.it. Il vaccino cinese di CanSino ha ottenuto un brevetto ufficiale a Pechino. E’ uno dei candidati allo stadio più avanzato, con dei buoni dati pubblicati alcune settimane fa sulla rivista medica The Lancet e una sperimentazione di fase tre – quella conclusiva – in corso sia in Cina che in Canada, Russia, Brasile, Cile e Arabia Saudita. L’azienda biotech ha lavorato con l’Accademia militare delle scienze mediche e ha annunciato la somministrazione del vaccino su tutti i soldati dell’Armata Rossa a partire dal 25 giugno. Il vaccino di CanSino usa il metodo del vettore virale, anche detto del “cavallo di Troia”. Un virus della categoria degli adenovirus (quelli che causano il raffreddore) viene reso inoffensivo poi iniettato nell’uomo, dove inizia a infettare le nostre cellule. Al suo interno contiene un frammento di Dna aggiunto in laboratorio, che ordina alle nostre cellule di produrre la proteina spike di Sars-Cov-2: la punta della corona del coronavirus. La spike è innocua per il nostro organismo, ma è sufficiente a stimolare il sistema immunitario, come hanno dimostrato le fasi uno e due delle sperimentazioni di CanSino. La memoria immunitaria immagazzinerà fra i suoi “ricordi” quello della spike. Se e quando entreranno in contatto con Sars-Cov-2, le nostre difese saranno così pronte a scattare in modo efficiente. L’uso di un adenovirus umano lascia perplessi alcuni: il sistema immunitario li ha incontrati e ne conserva memoria in circa metà degli individui. Le nostre difese potrebbero dunque contrastare l’infezione delle cellule da parte dell’adenovirus, rendendo inefficace il vaccino. Gli Stati Uniti, che sarebbero un ottimo terreno per la sperimentazione perché i suoi cittadini hanno un basso livello di immunità contro l'adenovirus usato da CanSino, non hanno dato il via libera alla sperimentazione a causa dell'ostilità fra i due governi. Il vaccino oggi è considerato un bene di importanza strategica assoluta. Chi lo otterrà per primo, potrà limitare i danni della pandemia e riavviare la vita economica e sociale del paese. Per ovviare al problema dell'immunità da adenovirus, il vaccino di Oxford e quello di Johnson&Johnson ne usano uno proveniente dello scimpanzé, a noi sconosciuto. L’azienda italiana ReiThera si è orientata invece verso un adenovirus dei gorilla. Ma ci si attende che nessuno dei circa 200 vaccini allo studio (una decina in sperimentazione sull’uomo) offra una protezione al 100% dal contagio, se non dai sintomi. La messa a punto di tante strategie diverse viene considerata un punto di forza della nostra lotta contro l’epidemia. Il brevetto, secondo un reportage della televisione nazionale cinese Cctv, permetterà la produzione del vaccino su larga scala. Secondo l’azienda che ha sede a Tianjin, che ha registrato un grosso balzo in borsa (sul mercato di Hong Kong il valore delle sue azioni è triplicato dall'inizio dell'anno), è “un’ulteriore prova della sua efficacia e sicurezza”. La Cina spinge molto per accelerare la sperimentazione. Oltre a CanSino, Pechino ha in corso un’altra sperimentazione nelle fasi finali sull’uomo, con il candidato prodotto dall’azienda Sinovac. A differenza del vaccino annunciato dal presidente russo Vladimir Putin la settimana scorsa, chiamato Sputnik V e dato come pronto all’uso generale nella popolazione, i ricercatori cinesi hanno pubblicato i loro dati su riviste scientifiche qualificate. Ma il nazionalismo resta un rischio concreto: l'azienda di Tianjin, che in passato ha messo a punto anche un vaccino contro Ebola, non lo ha mai distribuito al di fuori dei suoi confini nazionali. 

Sandro Modeo per corriere.it il 16 agosto 2020. Per parafrasare, girandolo in esortazione negativa, il titolo di un romanzo di Philip K. Dick, bisognerebbe, se possibile, non svegliare i dormienti. Dove per dormienti si intendono gli agenti patogeni (in primis virus e batteri) in molte aree del globo, ma soprattutto in quelle della Cina meridionale e in particolare nello Yunnan, dove la convivenza tra gli stessi patogeni e gli animali è consolidata da millenni, o meglio milioni di anni. Lo Yunnan è infatti decisivo per spiegare la provenienza sia dei coronavirus (e di altri virus) del millennio in corso, sia del batterio della peste in quello precedente, ma riemerso nei giorni scorsi in Mongolia (un morto originario della Bandiera Anteriore di Urad e lockdown per il villaggio di Bayannur, coi testati tutti negativi). Ma procediamo con ordine.

Lo Yunnan, i pipistrelli e i coronavirus. Abbiamo ormai imparato a familiarizzare con la Cina meridionale e lo Yunnan studiando l’origine di Sars- CoV (la Sars-1, 2002-2004) e della sua evoluzione Sars-CoV-2 (Covid-19): tutti e due i virus umani (e la relativa patologia) sono mutazioni di un virus di certe specie di chirotteri (pipistrelli), che con quei virus (e con molti altri) coabitano da tempi remoti tanto da esserne diventati i reservoir o «ospiti serbatoio». Il passaggio all’uomo è avvenuto per «salto di specie» o spillover attraverso un «ospite intermedio»: nel primo caso, la civetta delle palme; nel secondo (forse) il pangolino, anche se la questione è tutt’altro che risolta (potrebbe trattarsi anche di animali domestici come cani e gatti, prossimi a quelli «selvatici» nei famigerati wet markets cinesi, e altrettanto diffusi come pasti «esotici» della cucina sino-meridionale). Leggermente diverso, molto probabilmente, l’iter geografico: Sars-1 si irradia dal Guangdong, (capitale Guangzou alias Canton — concentrato di ristoranti «esotici» —, con altre città di irraggiamento come Shenzhen e Zhongshan); Sars-CoV-2, com’è noto, si diffonde da Wuhan (più a nord, nell’Hubei). In tutti e due i casi, non è detto lo Yunnan sia la fonte «prossima» (ma non è nemmeno escluso): per Sars-1 tutto potrebbe essere partito o passato dal confinante Guangxi, area di «caverne» di chirotteri non meno nota dello Yunnan (vedi quelle di Guilin, esplorate da David Quammen con l’amico-ricercatore Aleksei Chmura in Spillover); per Sars-CoV-2, molti studiosi parlano di un vero outbreak «molto più a sud» di Wuhan (nei prossimi mesi ne sapremo di più). Ma lo Yunnan è, in ogni caso, la probabile origine «remota» (ecologico-evolutiva) di tutte e due le pandemie. Non a caso, lo Yunnan è stata l’area in cui ha lungo stazionato per un quindicennio la studiosa più autorevole in materia e più «discussa» (eufemismo) di questi mesi, Shi Zhengli alias «Batwoman», la virologa 55 enne specializzata nello studio del genoma dei pipistrelli e — soprattutto — responsabile del Centro malattie infettive dell’Istituto di Wuhan. Per i complottisti di ogni latitudine è stato un riflesso pavloviano cedere alla falsa correlazione del 2+2=4 e farne l’artefice luciferina nelle varie teorie del «virus da laboratorio», quella hard (virus «creato ad arte») e quella soft (virus «sfuggito al controllo»). Come abbiamo già scritto e ricordato, Shi inizia la sua ricerca a Nanning, popolosa città del Guangxi, dove scopre — ormai non sperandoci più: per serendipity — «anticorpi specifici» della Sars in alcuni pipistrelli «ferro di cavallo», deducendone come la «presenza effimera e stagionale» del virus si traducesse in una reazione immunitaria estesa «da qualche settimana a qualche anno». Tutti i successi e le acquisizioni degli anni successivi, invece, arriveranno operando soprattutto nello Shitou, sito proprio dello Yunnan, dove grotte e caverne sono nascoste tra ridenti villaggi collinari noti per le rose, le arance, le noci e il biancospino. Tra quei successi, ne risaltano due: uno nel 2012, quando Shi e i suoi colleghi — indagando sul «profilo virale» di una miniera nella contea montuosa di Mojiang, sempre Yunnan — scoprono che 6 minatori colpiti da polmonite atipica (2 morti) l’hanno contratta toccando un fungo cresciuto sul guano dei pipistrelli (modalità di contatto-contagio da aggiungersi come variabile a quella dei wet markets); e uno nell’ottobre 2015, quando scovano tra gli abitanti di un villaggio 6 individui (su 200, cioè il 3%) dotati di anticorpi simili a quelli della Sars nei pipistrelli stessi, a riprova di possibili «convivenze» asintomatiche.

Lo Yunnan, i ratti e la peste. Per contestualizzare la notizia di pochi giorni fa sulla peste (bubbonica) in area mongola, dobbiamo immaginare gli stessi villaggi e le stesse montagne battute palmo a palmo da Shi Zhengli, ma in epoche ben più remote o arcaiche, comunque precedenti l’irruzione della «civiltà», specie di quella occidentale. Passando, però, per una chiarificazione storico-tipologica. Quando si dice «peste», si intende di norma bubbonica, che pure in certe fasi e aree appare in alternanza con quella «polmonare», invernale e ancora più letale. Osservata «in lunga durata», la peste bubbonica si articola in tre grandi cicli pandemici: il primo, nell’Alto Medioevo, come «peste di Giustiniano», che produce «venti ondate», tra 542 e 767, lungo la tratta Mar Rosso-Costantinopoli- Roma; il secondo esteso tra la Morte Nera del ‘300 e le pestilenze del ‘600-‘700 (le pesti di Manzoni e Defoe), ultime ondate prima del declino della malattia; il terzo relativo alla «fase asiatica», a partire dalla seconda metà dell’800 e fino ai primi del’900.

Lasciando fuori il primo ciclo, il secondo e il terzo sono strettamente legati allo Yunnan. Tutto comincia nel ‘200, quando i mongoli irrompono nello Yunnan governato da Kublai Khan (il Gran Khan di Marco Polo); in particolare, quando le armate Yuan (dinastia in discendenza diretta da Gengis Khan) conquistano il regno di Dali, area-chiave della regione in quanto base per campagne militari verso il sud-est asiatico. È durante le incursioni in queste regioni (e nella confinante Birmania, ora Myanmar) che i mongoli vengono a contatto col patogeno attraverso gli «ospiti» (i roditori selvatici o «ratti neri» diffusi nella regione, specie alle pendici dell’Himalaya), importandolo nelle steppe dell’Asia Centrale (tra Altaj e Tuva) intorno al 1331. E da lì — sempre seguendo il filo dell’espansionismo mongolo — il passaggio all’’Europa: evento decisivo, l’assedio del khan Djanisberg e dell’Orda d’Oro (1347) alla base commerciale genovese di Kaffa, sul Mar Nero, coi cadaveri dei pestilenti gettati oltre le mura per contagiare e fiaccare il nemico. È l’innesco della Morte Nera, la pandemia di peste che produrrà 25 milioni di morti in 5 anni sollo in Europa. Quel secondo ciclo, com’è più o meno noto, comincia a ritrarsi intorno al 1640, per concludersi intorno al 1722 a Marsiglia (dopo fiammate come Londra), ed è così violento da aver fatto ipotizzare il raggiungimento di una sorta di un’immunità di gregge; in realtà, il batterio regredisce da un lato per la nuova profilassi (il sapone, proprio di Marsiglia), dall’altro — soprattutto — per mutamenti climatici che introducono al posto del ratto nero quello grigio (surmolotto), molto più resistente al bacillo. Non solo: più di una scomparsa si tratta — almeno in parte — di un’ennesima migrazione, in questo caso di un feedback verso l’Asia, dove la peste bubbonica torna a manifestarsi a partire dal 1855. Almeno in parte perché il «terzo ciclo» dipende anche da una «ri-attivazione», in cui centrale — ancora una volta — è lo Yunnan. Dopo le incursioni mongole, lo Yunnan torma a essere per secoli una dimenticata «regione interna», «protetta» tra il Vietnam del Nord e la cordigliera tibetana, nella sua totale autonomia economica (per lo più agricola) e nel suo totale isolamento, anche «epidemico»: fino all’inizio dell’800, i pochi casi di peste sono rari, raramente mortali e subito confinati in luoghi appartati, con la malattia che si manifesta «in modo discreto e lontano dalle luci del mondo». Il break avviene quando gli inglesi cercano di ampliare a ogni costo il set delle loro rotte commerciali, non accontentandosi del solo porto di Canton: a lungo, le autorità cinesi resistono, con momenti di tensione altissima (vedi, a metà ‘700, lo scontro con l’inflessibile imperatore Quianlog, che arriva a far frustare ed espellere i mercanti stranieri); ma, alla fine. gli inglesi troveranno un «varco» attraverso la diffusione e il commercio dell’oppio. In generale, l’Impero britannico riesce a convertire quella droga (per lo più proveniente da India, Persia e Turchia) in entrate ingenti di argento cinese; nel particolare, quel commercio penetra anche nello Yunnan (invaso da mercanti stranieri e mosso da nuovi flussi migratori) rompendo l’antico isolamento e aprendo nuove vie agli agenti patogeni, peste in primis. Che infatti approderà finalmente da lì alla vicina Canton nella primavera-estate del 1894, provocando solo tra maggio e luglio 70.000 morti.

La vittoria sulla peste tra Cina, Hong Kong e India. Il passaggio seguente — da Canton a Hong Kong —è la prima delle due svolte biomediche decisive sulla peste. Hong Kong non è più il folcloristico villaggio di pescatori degli anni ’40 (quando vi si era rifugiato il capitano Elliot, comandante inglese nella «prima guerra dell’Oppio»), ma una ricca città di 200.000 abitanti: nel solo 1894, la peste ne colpirà 2679, uccidendoli quasi tutti. Per studiare la malattia «in vivo», vi approda in giugno un geniale batteriologo svizzero (naturalizzato franco-vietnamita) Alexandre Yersin, della scuola di Pasteur, e in quanto tale visto come «avversario» da un altro autorevole scienziato presente sul posto, il giapponese Shibasaburo Kitasato, «allievo» di Koch. Il contrasto tra scienziati e «scuole» è aspro: Kitasato osteggia Yersin negandogli le necropsie dei cadaveri e costringendolo a studiare in un capanno improvvisato di paglia e bambù. Tutti e due isoleranno il bacillo: ma Yersin (che lo trova ispezionando — in quelle condizioni di minorità operativa — il pus dei bubboni e non il plasma sanguigno) otterrà risultati più precisi e accurati, tanto che il patogeno verrà ufficialmente classificato (nel 1954) come Yersinia Pestis. Risultato coronato due anni dopo dal successo nella ricerca del vaccino, quado Yersin tornerà in Asia allestendo un laboratorio sperimentale in Vietnam (a Nha Trang) e guarendo il primo paziente nell’epicentro cinese della pandemia, a Xiamen, nel Fujian, a est del Guangdong. Subito dopo, la peste arriva a Bombay, chiudendo immediatamente la città in una quarantena che delinea uno scenario poco gradito alla Corona inglese: su un versante, navi ferme al largo con merci da scaricare; sull’altro, prodotti deteriorati al molo d’imbarco (spesso aggrediti dai ratti, i diffusori del batterio). Ma mentre il Paese viene stretto nell’eterno dilemma che l’aveva già assillato nelle varie fasi epidemiche di un altro batterio, il vibrione del colera, originario della valle del Gange (dilemma familiare, in tempo di Covid, a tanti Stati liberal-liberisti d’Occidente), la peste deflagra: molti degli 800.000 abitanti di Bombay (ammassati in case diroccate e infestate dai topi) fuggono terrorizzati per le strade interne, portandola verso il centro e il sud, e poi ovunque. Anche stavolta — come a Hong Kong — arriva Yersin (Bombay, 5 marzo ’97); ma vi resterà solo tre mesi perché richiamato da altri incarichi, lasciando il campo a un altro scienziato allievo di Pasteur, Paul-Louis Simond. Indagando in un ambiente dominato dalle credenze arcaico-religiose sia dei musulmani (che vedono nella malattia l’opera di uno «spirito maligno» da allontanare con scritte nelle strade) sia degli indù (che vi vedono, secondo visione pre-ippocratica, una castigo divino per comportamenti umani sacrileghi), Simond individua nelle stesse aree dei bubboni (ascelle e inguini) delle micro-lesioni, vescicole o piccole bolle, ipotizzando che tra l’«ospite» del patogeno (il ratto) e la «porta d’ingresso» umana (la pelle) possa operare un «vettore» di trasmissione, presto individuato nella pulce parassita del ratto, Xenopilla cheopis. Insieme avvincente e disturbante è l’esperimento risolutivo di Simond, che dispone due topi (uno sano e uno malato) in una gabbia circolare separata da apposite sbarre, in modo da poter permettere il contatto solo attraverso le pulci. Al quinto giorno, il test sembra fallito, col topo sano ancora perfettamente attivo. Verso sera, però, i suoi movimenti si fanno difficoltosi, e il giorno dopo muore, con la necropsia che conferma la presenza del batterio e l’ipotesi di Simond. È il 2 giugno 1898: della peste — grazie a Yersin e Simond — si conoscono ormai agente patogeno, siero e vettore di trasmissione.

Il Sapiens e i dormienti. Eppure, acquisizioni biomedico-epidemiologiche così risolutive non saranno sufficienti a impedire nuove ecatombi. La stessa India, tra la fine dell’800 e il primo ventennio del ‘900, avrà 12 milioni di morti per la peste (1896-1912), 4 milioni e mezzo — di nuovo — per il colera (1905-1910), e dai 14 ai 17 milioni (anche se ridotti dalle stime recenti di David Arnold a «soli» 12, comunque, il 5% della popolazione totale di allora) per l’influenza spagnola, il maggior numero al mondo (1918-19).

La morale è brutale. Non basta trovare un vaccino se poi i Paesi colpiti non sono in grado di produrlo, testarlo e distribuirlo (e la comunità internazionale non è in grado di sopperire): e non è semplice trovare condotte di profilassi all’altezza, specie in Paesi demograficamente fuori controllo (spesso con densità urbana altissima e ancora crescente). Né, in generale, è possibile tranquillizzare del tutto la specie rispetto a risorgenze di patogeni che si credevano estinti (o «dormienti») per sempre (concetto biologicamente assurdo); tra questi, la peste bubbonica, che pure al momento ha risvegli episodici e perimetrati come quello di questi giorni (arriviamo a qualche centinaio di casi all’anno nel mondo) e che — presa per tempo — è oggi curabile con comuni antibiotici. Da questo punto di vista, aveva già riassunto (quasi) tutto il microbiologo-Nobel Joshua Lederberg, quando scriveva nel 1988 (ed eravamo «solo» 5 miliardi) che nella contesa evolutiva futura tra umani e virus «l’Eden consisterebbe nel ridurre la popolazione mondiale all’1 per cento di quella attuale». E forse non basterebbe. Perché non dovremmo solo essere molti di meno; dovremmo anche essere molto meno dinamici e intraprendenti. Osservando a ritroso lo Yunnan dal ‘200 a oggi, sarebbe facile dedurne che ci saremmo risparmiati qualche centinaio di milioni di morti con qualche «se»: se i mongoli avessero inibito il loro espansionismo; se i colonizzatori inglesi non avessero preteso di allargare la loro rete commerciale e i loro profitti; e così via. Sono dei «se» che presuppongono un intervento della «cultura» sulla «natura» umana molto più esteso e profondo di quanto permettano i vincoli biologici cui siamo sottoposti. Persino un obiettivo doveroso e in teoria più alla portata come quello che ci coinvolge ora — costringere la Cina a chiudere i wet markets, indiziati principali nell’outbreak e nella diffusine delle due Sars — si scontra con ragioni economiche (annienterebbe un settore del valore di 76 miliardi di dollari e costerebbe 14 milioni di disoccupati) e resistenze antropologiche (quelle «tradizioni» culinarie) difficili da aggirare. Ovviamente, questo non può opacizzare qualunquisticamente in una nebbia indistinta le politiche di tutti i Paesi, rimuovendo le responsabilità di alcuni (e dei loro leader) sia rispetto ai loro stessi cittadini che verso la società globale; né assolvere il Sapiens (per riprendere il libro di Amitav Ghosh) sulle «cecità» della sua condotta. Il che vale per tanti snodi: per il global warming (cui si riferisce Ghosh), per le crisi economico-finanziarie, per le pandemie stesse. Ma un bilanciamento tra tensione ideale e realismo ci ricorda come in fondo siamo soprattutto macchine biologiche tese a convivere con le pressioni di altri viventi o con quelle che ci auto-imponiamo; e in quanto tali costrette a sempre nuovi, più impegnativi adattamenti.

Gabriella Colarusso per "la Repubblica" il 25 giugno 2020. Nel pieno della crisi del coronavirus, a metà febbraio, un'area del parcheggio del Tongji Hospital di Wuhan era stata convertita in discarica temporanea. L'ospedale produceva troppe tonnellate di rifiuti e i dirigenti non sapevano dove stoccarle e sterilizzarle. Durante il picco dell'epidemia, dagli ospedali della città epicentro del contagio in Cina sono uscite 240 tonnellate di rifiuti medici al giorno, sei volte il livello normale e una quantità di gran lunga superiore alla capacità di smaltimento degli inceneritori cittadini, che è di 49 tonnellate al giorno. Questi dati, forniti dal ministero dell'Ambiente cinese e dall'Asian Development Bank, raccontano una delle conseguenze più problematiche della pandemia di Covid 19: l'aumento esponenziale, nel mondo, di rifiuti medici e di plastica. Il fenomeno registrato a Wuhan si è verificato in tutta l'Asia: Manila, la capitale delle Filippine, ha prodotto almeno 280 tonnellate di rifiuti sanitari al giorno; Giacarta, in Indonesia, 212; Bangkok, in Thailandia, 210; Hanoi, in Vietnam, 160; Kuala Lumpur, in Malesia, 154. Il Thailand Environment Institute ha calcolato che ad aprile, in Thailandia, gli ospedali hanno prodotto 50 tonnellate di rifiuti infetti al giorno, ma gli inceneritori del Paese avevano una capacità di smaltimento per sole 43. A Madrid la produzione di rifiuti ospedalieri è aumentata del 300% durante la pandemia, in un Paese che ha solo 11 inceneritori per i rifiuti urbani. Molti di questi rifiuti speciali finiscono nelle discariche insieme al resto dell'immondizia indifferenziata, aggravando le conseguenze ambientali della crisi sanitaria. Ma il sovraccarico degli ospedali è solo una delle ragioni dell'aumento dei rifiuti nel mondo. La pandemia ha imposto ai cittadini l'utilizzo di dispositivi di protezione come guanti e mascherine, che ora rischiano di non essere correttamente smaltiti. I giornali inglesi hanno raccontato in diversi articoli come sulla riva del Tamigi, a Londra, si siano accumulate grosse quantità di guanti di plastica, mentre ha fatto molto scalpore a Hong Kong la scoperta di Gary Stokes, fondatore dell'organizzazione ambientalista OceansAsia, che durante una missione sulle isole Soko ha ritrovato settanta mascherine chirurgiche su cento metri di spiaggia. Secondo le stime di Grand View Research riportate dall'Economist , il giro d'affari del mercato delle mascherine usa e getta passerà dagli 800 milioni di dollari del 2019 ai 166 miliardi nel 2020. La pandemia rischia anche di riportare in vita abitudini che si erano a fatica ridotte tra la popolazione, come il consumo di plastiche monouso e imballaggi usa e getta dovuto alla crescita degli acquisti online durante i lockdown: a marzo, le visite su Amazon sono aumentate del 65% rispetto all'anno scorso, i cinesi hanno acquistato online più del 25% dei loro prodotti nei primi 3 mesi dell'anno. Secondo il settimanale britannico, il consumo di plastica monouso negli Stati Uniti potrebbe essere cresciuto del 250-300%. Per questo oltre 100 esperti di salute pubblica e ricercatori da tutto il mondo hanno lanciato un appello attraverso Greenpeace per rassicurare i cittadini: i contenitori riutilizzabili, se opportunamente disinfettati, sono sicuri tanto quanto quelli usa e getta.

Cina: salvati centinaia di gatti pronti a finire sulle tavole nonostante il divieto. Cecilia Lidya Casadei il 12/06/2020 su Notizie.it. Circa 700 gatti salvati in Cina da una fine terribile. I felini sarebbero stati uccisi per il consumo umano, quando invece tuttora è vietato. Gatti salvati in Cina dalla morte per il consumo umano. Ben 700 felini sono stati sequestrati a Liucun, contea di Shenze, tutti stipati e rinchiusi in gabbie arrugginite in attesa della destinazione finale. Alcuni attivisti locali sono intervenuti, scoprendo il traffico illecito e requisendo gli animali per liberarli dalla prigionia. Secondo quanto dichiarato dal Governo cinese, il consumo di carne di cane e gatto è vietato dal alcuni mesi, come quello di animali esotici nei mercati. È quindi illegale uccidere e mangiare questi animali in Cina, eppure 700 felini erano pronti ad essere uccisi per questo scopo. Un gruppo di soccorso locale, di nome Linfen Small Animal Rescue, ha sventato la tragedia facendo irruzione in un cortile dov’erano stipati i gatti. È stata la signora Li a lanciare l’allarme, segnalando l’immagine delle gabbie stracolme di felini e alcuni strazianti video. “Stamattina abbiamo rilevato una zona in cui erano nascosti dei gatti nella città di Liucun, centinaia di animali tenuti in piccole gabbie”, recita un post pubblicato dall’associazione, “I sospetti criminali sono tutti indagati”. Probabile che i 700 gatti siano stati rapiti da trafficanti di animali, si trovavano infatti nel cortile defilato di un hotel. Ad allertare la signora Li, un gruppo di operai che lavorava presso la struttura: “Ci sono centinaia di gatti qui, centinaia. Stanno aspettando di essere serviti come cibo sul tavolo. Aiutali”, le avrebbero detto.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2020. Il Festival di Yulin, mattatoio pubblico di cani, non si è fermato neanche dopo lo sdegno e la paura suscitata dal «wet market» di Wuhan da dove è partito il coronavirus. Wet market significa mercato bagnato. Inzuppato dal sangue degli animali uccisi e squartati in condizioni sanitarie da voltastomaco. Succede anche a Yulin, anche se in questa città del Guangxi, povera provincia sudoccidentale della Cina, non si vendono pipistrelli, pangolini, serpenti o altri animali selvatici. Le vittime sono i cani. Ogni anno, a partire dal solstizio d' estate, questa sagra dell' orrore richiama migliaia di persone: razziatori, venditori, macellai, cuochi, ristoratori e appassionati che amano nutrirsi di carne di bestiole che fino a qualche settimana fa giocavano con i loro padroni. E ogni anno ci sono proteste internazionali, petizioni di gruppi animalisti anche cinesi, incursioni di cittadini che cercano di salvare qualche bestiola ricomprandola dal racket che ne fa commercio, o facendo blocchi stradali intorno a Yulin per fermare i carri che le trasportano al mercato. Niente da fare. Dal 22 giugno sono dieci giorni di mattanza in cui vengono abbattuti, squartati e cucinati migliaia di cani. Yulin è cominciato puntuale e inesorabile anche quest' anno, all' era del Covid-19 che aveva spinto il governo centrale di Pechino a promettere un intervento per chiudere il circo che non piace neanche alla maggioranza dei cinesi. E finalmente, lo scorso aprile, era intervenuto il ministero dell' Agricoltura di Pechino, con una bozza di legge sul «riordino delle risorse alimentari». Il provvedimento conteneva l'elenco del bestiame, dai maiali al pollame, che può essere allevato per finire nella catena alimentare; i cani (e i gatti) non erano inclusi. In realtà non erano mai stati inseriti nel «catalogo ministeriale degli animali da carne». Ma questa volta il legislatore cinese si è interessato ai cani, osservando che «con il progresso della civiltà e le preoccupazioni della gente per la protezione della natura, i cani non sono più considerati solo animali domestici, ma compagni dell' uomo, come nel resto del mondo». La bozza è rimasta bozza. Ci sono altre priorità al Congresso nazionale del popolo di Pechino. Non è servito nemmeno che città pilota come la grande Shenzhen abbiano vietato il «consumo dei cani». I preparativi per il Festival di Yulin sono andati avanti e la mattanza è cominciata ieri. Gli attivisti andati in città per cercare di limitare i danni riferiscono che le bancarelle con le loro gabbie che rinchiudono cani ancora vivi da offrire ai compratori, le rastrelliere con i ganci che esibiscono le carcasse di quelli già sacrificati, sono state allontanate dalle vie principali di Yulin. Il cosiddetto Festival si svolge in periferia ed è meno affollato del solito. Ma c' è comunque gente che paga e il business è in corso. Perché, secondo antiche credenze, la carne di cane in estate riduce il calore interno del corpo, aiuta la circolazione del sangue, rinforza la virilità. Ogni anno diecimila cani vengono massacrati a giugno a Yulin. Se la tradizione risale a quanto sembra a quattro o cinque secoli fa, il Festival è stato lanciato solo nel 1995, per richiamare gente a Yulin e aumentare la clientela nei ristoranti specializzati. Eppure, come detto, questo è ormai un fenomeno di nicchia. La classe media cinese ha scoperto il piacere di tenere in casa animali da compagnia. Solo a Pechino un milione di famiglie hanno almeno un cane a casa. Commenta con amarezza Peter Li, dirigente cinese di Humane Society International: «Spero davvero che sia l' ultima volta, lo spero non solo per il bene degli animali, ma anche per la sicurezza sanitaria della popolazione». «È sconfortante constatare che neppure la dura lezione impartita dal Covid-19 sia servita a chiudere definitivamente questa barbarie sempre più impopolare tra la stessa popolazione cinese - ha detto a LaPresse l' onorevole Michela Vittoria Brambilla, presidente della Lega italiana per la Difesa degli Animali e dell' Ambiente - questa volta non solo gli animali rischiano di finire all' inferno: Yulin è un wet market dove non vengono rispettate neppure le più elementari norme igieniche e si commette una vergognosa strage di animali».

Il Covid non ferma il festival della carne di cane di Yulin. Federico Giuliani il 23 giugno 2020 su Inside Over. Tra i palazzoni di Yulin, una città cinese non distante dal confine vietnamita, il vociare dei venditori si confonde al rumore dei clacson. I clienti arrivano sul posto in sella ai loro scooter, parcheggiano a ridosso dei banchetti e si avventurano tra uno stand e l’altro, alla ricerca dell’affare migliore. Fino a pochi anni fa, con 18 yuan si potevano portare a casa 500 grammi di carne di cane.

Un festival controverso. Siamo nella regione autonoma del Guanxi, Cina meridionale, in uno dei numerosi mercati cittadini che offrono agli avventori la specialità della casa: carne di cane. A Yulin, proprio in questi giorni, sta andando in scena il Lychee and Dog Meat Festival, meglio conosciuto come Festival della carne di cane di Yulin. La manifestazione, che si svolge ogni anno dal 2009, inizia il 21 giugno, in concomitanza con il solstizio d’estate, e prosegue ininterrottamente per dieci giorni. Alla base del festival, durante il quale vengono uccisi e mangiati migliaia e migliaia di cani, c’è un’antica credenza, secondo la quale mangiare carne di cane aiuterebbe ad affrontare meglio l’imminente calura estiva e porterebbe fortuna e buona salute. Un’antica tradizione che, a giudicare dalle passate edizioni, ha riscosso un discreto successo, vista l’ingente quantità di visitatori attratta.

Al via l’edizione 2020. A differenza dai quanto si potesse pensare, e nonostante la recente pandemia di Covid, con tutte le polemiche relative allo scarso igiene presente nei wet market, il Festival di Yulin si è svolto anche quest’anno. Certo, ci sono meno visitatori e l’epicentro della compravendita non avviene più nel cuore della città, nel mercato Dongkou, bensì in periferia, nella zona del mercato di Nanchao. Ma i cambiamenti rispetto al passato sono davvero pochi. L’unica novità è rappresentata dalle mascherine celesti indossate da venditori e clienti. Per il resto, i banchi continuano, come ogni anno, ad abbondare di carne lavorata all’istante, senza il benché minimo rispetto di alcuna norma sanitaria. Altro che misurazione della temperatura e distanziamento sociale: sembra quasi che a Yulin le ferree normative cinesi anti Covid non valgano. Gli animali venduti al Festival – non ci sono solo cani, ma anche gatti e altre specie – vengono infatti trasportati in loco al termine di lunghi viaggi, durante i quali sono costretti a stare in piccolissime gabbie, in condizioni pessime e assieme a tanti altri esemplari. Insomma, condizioni perfette per assistere ad altri possibili spillover.

La Cina e gli animali domestici. Al netto del Festival, che ricalca un’usanza che può essere fatta risalire ad almeno 400 anni fa, occorre fare alcune precisazioni. In Cina, almeno per il momento, mangiare carne di cane non è illegale. Gli atteggiamenti stanno tuttavia cambiando, e poche sono le persone attratte da piatti simili. Se è vero che durante i terribili anni della Rivoluzione culturale era vietato possedere animali domestici, oggi avere un amico a quattro zampe è diventato popolare tra gli esponenti della nuova classe media cinese. In tutto il Paese il numero di animali domestici registrati si aggira intorno ai 62 milioni di esemplari. Un sondaggio del 2017 rivelava come a Yulin quasi tre quarti delle persone non mangiassero regolarmente carne di cane. Un altro sondaggio, condotto nel 2016, a livello nazionale, evidenziava invece come il 64% dei cittadini cinesi volesse interrompere il Festival di Yulin e come il 69,5% di loro non avesse mai mangiato carne di cane. Due sono gli schieramenti contrapposti, il primo dei quali molto più nutrito del secondo. Molti cinesi ritengono infatti che la manifestazione annuale del Guanxi non rifletta le abitudini alimentari della maggioranza della popolazione; altri fanno notare che esiste una netta distinzione tra i cani domestici e quelli allevati in apposite fattorie.

La posizione del governo. Il festival di Yulin nasce per dare impulso al commercio cittadino e, nei primi anni, l’evento riceveva perfino il benestare del governo. Nel 2014 Pechino ha fatto un passo indietro. Da quel momento in poi non esiste più alcun “festival ufficiale“, anche se i commercianti locali continuano, annualmente e in via ufficiosa, a portare avanti la manifestazione. Dal canto suo, il governo municipale di Yulin dice di avere le mani legate e di non essere in grado di interrompere un festival che non esiste come evento ufficiale. Detto altrimenti, siamo di fronte a una sorta di “vuoto normativo”. Già, perché le autorità nazionali non saprebbero come giustificare il fatto di bollare come illegale il consumo di carne, solo per dieci giorni all’anno e solo in una città del Paese. Come detto, infatti, mangiare carne, in Cina, non è un reato.

Le ultime leggi. Eppure qualcosa si sta muovendo. Nei mesi scorsi il Ministero dell’Agricoltura e degli Affari Agricoli ha deciso di classificare i cani come “animali domestici” anziché come bestiame, anche se non è chiaro come la riclassificazione influenzerà il commercio di Yulin. Il coronavirus, che si ritiene abbia avuto origine da pipistrelli in vendita in un mercato della città centrale cinese di Wuhan, ha costretto la Cina a rivalutare il suo rapporto con gli animali e a promettere di vietare il commercio di animali selvatici. Il governo sta adesso elaborando nuove leggi per vietare il commercio di animali selvatici e proteggere gli animali domestici. Ad aprile Shenzhen, seguita poco dopo da Zhuhai, è diventata la prima città cinese a vietare la vendita e il consumo di carne di cane e gatto oltre al divieto verso gli animali selvatici. Secondo il People’s Daily, Shenzhen, in quanto città di primo livello della Cina e centro internazionale di commercio e tecnologia, ha fatto un ulteriore passo estendendo il divieto a cani e gatti. I nuovi regolamenti, approvati martedì, sono entrati in vigore a maggio. “Cani e gatti come animali domestici hanno stabilito un rapporto molto più stretto con le persone rispetto a tutti gli altri animali e vietarne il consumo è una pratica comune nei paesi sviluppati e in Cina, a Hong Kong e Taiwan”, ha affermato un alto funzionario dell’organo legislativo del Congresso popolare di Shenzhen. “Questo divieto risponde anche alla domanda e allo spirito della civiltà umana“, ha aggiunto. La massima legislatura cinese, l’Assemblea nazionale del popolo, ha dichiarato alla fine di febbraio il divieto di commercio e consumo di animali selvatici. I governi provinciali e delle città di tutto il paese si sono mossi per far rispettare la sentenza, ma Shenzhen è stata la più esplicita sull’estensione di tale divieto a cani e gatti. La pratica di mangiare carne di cane in Cina non è così comune; secondo il quotidiano la maggior parte dei cinesi non l’ha mai fatto e non vuole farlo. Solo poche persone in luoghi come la regione autonoma del Guangxi, la Cina nord-orientale e la provincia dello Zhejiang mantengono ancora tale abitudine e tradizione. Gli analisti hanno affermato che la legge di Shenzhen potrebbe essere promossa in più regioni della Cina poichè si tratta di un passo positivo per migliorare l’igiene e la sicurezza alimentare. Ma – sottolineano fonti di agenzia – per le persone che avevano il diritto di mantenere le loro tradizioni, i governi locali potrebbero prendere in considerazione normative più specifiche per aiutare le persone a cambiare o consentire il consumo di carne di cane in base a rigide normative sanitarie in quelle regioni specifiche.

La Cina e la carne di cane: “Il mercato non si è mai fermato”. Le Iene News il 18 giugno 2020. A Iene.it parla Davide Acito, che anche quest’anno coordina la missione di Action project animal per cercare di salvare quanti più cani possibili alla vigilia del festival di Yulin: “Non è stato imposto nessun divieto esplicito sulla carne di cane, e così il mercato nero continua”. E anche quest’anno il terribile festival si celebrerà. “Il mercato dei cani non si è per niente fermato”. A raccontare a Iene.it quello che sta accadendo è Davide Acito, attivista fondatore di Action project animal, che anche quest’anno ha organizzato una missione per cercare di salvare quanti più cani possibili alla vigilia di Yulin, il famoso festival della carne di cane. Solo poche settimane fa in Italia si è esultato per la storica decisione del ministero dell’Agricoltura di non comprendere i cani e i gatti nella nuova lista degli animali commestibili. “E’ un primo passo, ma di certo non un punto di arrivo” ci spiega Acito. “Nella lista i cani e i gatti non ci sono, però non è previsto alcun divieto esplicito a livello nazionale. E così il mercato della carne di questi animali continua, anche perché nella stragrande maggioranza è un mercato nero”. A differenza di quanto fatto a Shenzhen, infatti, sebbene i cani e i gatti non siano inseriti nell’elenco degli animali considerati bestiame “non è prevista alcuna sanzione. I ristoranti di alto livello e attività simili si sono dovuti fermare, ma il 99% della carne viene venduta come street food o con altre forme al mercato nero: la loro attività non è cambiata”, ci racconta Acito. Così, nonostante il passo avanti compiuto dalle autorità, sembra che nulla sia ancora cambiato: “Infatti anche quest’anno il festival di Yulin si celebrerà”, ci spiega Acito. “Con i nostri collaboratori siamo nella regione di Guangxi - quella dove si trova la città di Yulin - per documentare le condizioni dei cani e cercare di salvarne quanti più possibile: la situazione sembra perfino peggiore di quella dell’anno scorso”, racconta. E anche le immagini strazianti a cui ci siamo purtroppo abituati, continuano ad arrivare. Nel video che potete vedere qui sopra si vedono molti cani, chiusi in gabbie piccole e sporche, che attendono il loro turno per essere macellati. “Sono state girate oggi”, ci racconta ancora Acito. “Abbiamo deciso di restare vigili nonostante il trionfalismo che ha accompagnato la notizia sulla lista del ministero dell’Agricoltura in Italia, e a quanto pare abbiamo fatto bene”. Una situazione ancora più incredibile, se si pensa che a Pechino è esploso un nuovo focolaio di coronavirus in un mercato e la pandemia sembra essere partita proprio da un wet market dove si vendono diverse specie di animali: “E’ inaccettabile che nella capitale ci sia di nuovo il lockdown e dall’altra parte della Cina si celebra un festival dove torturano, scuoiano e mangiano i cani senza nessuna sicurezza alimentare”.

In Cina è esplosa la “bolla” delle mascherine. Federico Giuliani il 12 giugno 2020 su Inside Over. Quando lo scorso gennaio la Cina si è trovata a fare i conti con la diffusione del nuovo coronavirus, Pechino ha scoperto di essere a corto di dispositivi di protezione individuali (DPI). Senza un farmaco né un vaccino disponibili, gli esperti hanno consigliato ai cittadini di munirsi di guanti, gel igienizzante e mascherine per evitare il contagio. Molti Paesi, che certo non immaginavano di essere le prossime vittime del mondo, hanno quindi spedito ingenti quantità di aiuti sanitari al governo cinese. Il Dragone ha apprezzato il supporto ricevuto, tanto che, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo – quando il Covid, oltre la Muraglia, iniziava la sua fase discendente – il gigante asiatico ha restituito il favore, inviando tonnellate di pacchi in giro per il mondo. Ventilatori polmonari, tute, guanti e loro: le immancabili mascherine. Nel giro di pochi mesi, insomma, dall’essere a corto di DPI, la Cina si è trasformata in uno dei maggiori produttori mondiali. Non solo: Xi Jinping ha approfittato della resilienza delle industrie nazionali per lanciare la Via della Seta Medica, cioè un insieme di collegamenti diplomatici basati sull’invio di aiuti sanitari alle nazioni in difficoltà. Anche l’Italia, il primo Paese europeo travolto dal Covid, ha ricevuto, tra gli altri strumenti, milioni di mascherine.

Cavalcare l’onda, capitalizzare il boom. Ben presto numerose aziende cinesi hanno riconvertito la loro produzione industriale. Le mascherine sono diventate un vero e proprio business. “All’inizio dell’epidemia – ha spiegato al South China Morning Post Huang Wensheng, un “veterano” nella produzione di mascherine – la gente comprava qualsiasi maschera fosse disponibile nei negozi. Ma, da quando la situazione è migliorata, la gente ha più scelta. Di conseguenza i produttori non qualificati sono stati eliminati dal mercato”. È la dura legge della domanda e dell’offerta. In un primo momento chiunque si gettava nel giro delle mascherine aveva l’occasione di realizzare ottimi guadagni. A lungo andare si è tuttavia creata un’inevitabile bolla. Il motivo è semplice: migliaia di produttori opportunisti – racconta ancora il South China Morning Post – si sono gettati nell’industria cinese delle mascherine solo e soltanto per capitalizzare il boom durante la fase più critica della pandemia. La conseguenza? La bolla si è gonfiata fino a esplodere. I produttori meno esperti nel maneggiare tessuti sono quindi stati costretti a chiudere la saracinesca delle loro attività.

La bolla delle mascherine. Nella corsa all’oro delle mascherine, aziende che mai avevano realizzato oggetti del genere hanno investito piccole fortune per convertire le loro linee di produzione. Molte di loro sono riuscite ad accumulare tessuto ma non sono state in grado di produrre una sola mascherina. Altre, che invece hanno ingranato, sono presto cadute in disgrazia. Nel momento di massima emergenza, imprese del genere mantenevano le macchine in funzione 24 ore su 24, sette giorni su sette. Oggi quel periodo sembra soltanto un lontano ricordo. Basti pensare che, secondo Tianyancha, un sito di informazioni sulla registrazione delle società, nei primi cinque mesi dell’anno ben 70.802 nuove società si sono registrate per fabbricare o scambiare maschere made in China, con un aumento del 1.256% rispetto all’anno precedente. A maggio ecco la repentina inversione del trend: le nuove registrazioni di società sono calate del 70,84%. Un po’ per la concorrenza, un po’ per il calo dei prezzi e in parte per le nuove regole di esportazione (è diventato più complicato esportare le mascherine all’estero, senza severi requisiti di licenza), un discreto numero di “produttori speculativi” ha alzato bandiera bianca. C’è chi “spera” in una seconda ondata per smaltire le scorte rimaste invendute. Ma la maggior parte dei “giocatori di marea” – termine cinese usato per definire individui intraprendenti che si gettano per primi in un business fiorente, senza averne adeguate conoscenze – ha dovuto arrendersi.

I punti oscuri della gestione dell’epidemia da parte di Pechino. Antonio Selvatici su Il Riformista il 24 Giugno 2020. Massimo D’Alema e la scrittrice Fang Fang: la Cina e il Coronavirus visti da due angolazioni differenti. L’ex Presidente del Consiglio è l’autore del libro dall’importante titolo: Grande è la confusione sotto il cielo, da poco uscito per i tipi della Donzelli. La massima di Confucio (da molti attribuita a Mao Tse Tung, oppure, al contrario, una massima di Mao Tse Tung attribuita a Confucio): «Grande è la confusione sotto il cielo. La situazione, quindi, è eccellente» ha un significato profondo: i recenti movimenti geopolitici dove porteranno? Chi scrive è il Massimo D’Alema Professore alla Link Campus University di Roma il cui presidente è l’onorevole nonché ex ministro democristiano Vincenzo Scotti. Un doveroso breve inciso: è in quella Università’ che si sono formati, già prima che l’ex segretario della Fgci fosse cooptato nel corpo docente, alcuni futuri importanti politici del Movimento Cinque Stelle. Tra i più noti l’ingegnere Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa (ex membro del Copasir), nonché l’ex Ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Torniamo al testo vergato da Massimo D’Alema. Il libro è un antologia: raccoglie i testi di alcune lezioni tenute dall’ex Ministro degli esteri, ma la parte del libro più interessante, pungente e citata è la lunga introduzione “La bufera del coronavirus”, curiosamente scritta o per lo meno terminata, come riportato sul testo, il 25 aprile quando si festeggia la Liberazione. Trattando di riflessioni sulla crisi dell’ordine mondiale la Cina è un importante attore della dissertazione. Massimo D’Alema ha ragione quando scrive: «La Cina sembra essere in grado di tornare a parlare al mondo. La crisi ha messo in luce i difetti e le qualità del socialismo con caratteristiche cinesi. Il ritardo nell’allarme è il prezzo pagato alla mancanza di libertà». L’altra faccia della medaglia è nota: «La forza della risposta, la coesione e la disciplina con cui i cinesi hanno saputo arginare l’epidemia e rimettersi in cammino dimostrano non solo l’efficacia di un sistema in cui la politica è in grado di prendere decisioni ed eseguirle, ma anche la robustezza delle radici culturali e civili della potenza cinese». Ci sono diversi però. È vero ed è noto: dopo “il secolo delle umiliazioni” la Cina vuole tornare a essere considerata una grande potenza (così come per raggiungere il medesimo obiettivo anche la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump fanno leva su sentimenti nazionalistici). È vero che l’allargamento del consenso della Cina è passato anche attraverso la “politica delle mascherine”, ma è anche vero che, come con grande onestà scrive l’autore, il modello di governance autoritario cinese ha prodotto “il ritardo nell’allarme” quando il virus in Cina era già presente e individuato da molti medici. Ma non è forse vero che questo doloso ritardo è la causa della tragedia globale? Senza inciampare nella retorica catastrofista e complottista non possiamo forse affermare che, studi alla mano, la pandemia in quanto tale è figlia dei ritardi, delle timidezze, delle minacce del “socialismo con caratteristiche cinesi”? La seconda parte dell’affermazione di Massimo D’Alema è tragicamente vera: le democrazie sono deboli, il sistema a partito unico cinese «è in grado di prendere decisioni ed eseguirle». Da quelle parti non si discute sull’ambiguità della parola “congiunti”: si ubbidisce e basta. Da quelle parti la censura regola toni e giudizi, il dissenso non è omologato. E la disobbedienza al verbo del Partito unico può comportare un prezzo molto alto. Ed ecco che qui s’inserisce il libro (anche questa è un’antologia) di Fanf Fang, nota scrittrice cinese, alcuni suoi romanzi sono stati tradotti anche in italiano. Wuhan. Diari di una città chiusi (Rizzoli) ci fa capire quali angosce abbiano vissuto quest’inverno gli abitanti della città focolaio cinese. Dove i medici che avevano fin dall’inizio intuito la gravità e la contagiosità della malattia non avevano il «coraggio di dirlo, avevano tutti paura di essere messi a tacere». La censura e il tacere ricorrono spessissimo nel testo. La scrittrice insiste: «anche se tutti i miei post vengono cancellati dalla censura subito dopo essere stati pubblicati. Molti miei amici mi hanno chiamato per spronarmi a continuare; approvano ciò che sto facendo. Altri temono che possa trovarmi in una situazione difficile, ma io penso che andrà tutto bene». Alcune descrizioni di quando il virus inizialmente a Wuhan dilagava sono strazianti: «molti infetti stanno trascinando i loro corpi malati in giro per la città in cerca di cure. Non hanno scelta; sono costretti a farlo se vogliono sopravvivere. Non c’è alternativa». Ancora una volta Massimo D’Alema ha ragione quando affrontando il tema della politiche interne all’Europa afferma «non ci sarebbe affatto da lamentarsi se l’Unione europea imponesse un coordinamento delle politiche fiscali in modo tale da impedire la scandalosa concorrenza per attrarre, attraverso la detassazione, capitali e imprese. Non farebbe scandalo se l’Unione stabilisse degli standard dal punto di vista dei diritti sociali in modo tale da evitare il dumping e soprattutto da offrire un quadro di garanzie a tutti i cittadini europei». D’accordo. Perché, parimenti, non s’invoca con forza la reciprocità con la Cina? Il dumping sociale è solo intra o può essere anche globale? I diritti dell’uomo sono universali o, come ben descrive la scrittrice Fang Fang, sono un privilegio non per tutti. Molti ex politici italiani sono diventati consulenti della Cina (Massimo D’Alema lo è nel settore sanitario), non c’è nulla di male: pecunia non olet. Calpestare la storia, le lotte e i diritti non è reato, ma potrebbe essere imbarazzante.

Nato il figlio di Li Wenliang, medico eroe che diede l’allarme Coronavirus: “Mio marito ci guarda da lassù”. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2020. “Marito mio ci puoi vedere dal cielo? L’ultimo regalo che mi hai fatto è nato oggi. Lavorerò duramente per amarli e proteggerli”. Con queste parole FuXuejie, vedova del medico Li Wenliang annuncia da un ospedale di Wuhan la nascita del loro secondo figlio. Li Wenliang è noto come il dottore che a dicembre per primo lancio l’allarme sulla diffusione di un nuovo coronavirus nella metropoli cinese. A riportare la notizia è il South China Morning Post che rilancia una notizia di Litchi News. Dopo aver scoperto la diffusione a macchia d’olio del covid-19, il medico ne è stato contagiato ed è morto a soli 33 anni lo scorso 6 febbraio.

LA STORIA – Li Wenliang aveva raccontato alla Cnn di aver avuto la conferma del contagio sabati 1 febbraio dopo l’iniziale ricovero avvenuto il 12 gennaio. Nel suo gruppo sulla popolare app di messaggistica cinese WeChat il 30 dicembre aveva scritto ai suoi contatti che a sette pazienti che erano stati nel mercato ittico locale era stata diagnosticata una malattia simile alla Sars, perché potessero mettere in guardia i propri familiari. Gli screenshot dei suoi messaggi sono però diventati virali, senza oscurare il suo nome, e Li è stato accusato dalla polizia e messo in guardia dal diffondere “interpretazioni false”.  I fatti, però, hanno confermato la sostanziale fondatezza dei messaggi del medico e poco dopo la Commissione sanitaria municipale di Wuhan ha emesso un avviso di emergenza sul virus. Li ha dovuto firmare una dichiarazione riconoscendo il proprio “reato” e impegnandosi a non commettere ulteriori “atti illeciti” nel timore di essere incarcerato. Il 10 gennaio, dopo aver inconsapevolmente trattato un paziente con il coronavirus di Wuhan, ha sviluppato tosse e febbre. È stato ricoverato in ospedale il 12 gennaio e poi trasferito nel reparto di terapia intensiva. Sabato 1 febbraio è risultato positivo al coronavirus e qualche giorno dopo è morto.

 (ANSA il 9 giugno 2020) - Le immagini satellitari che mostrano un'impennata del numero dei veicoli fuori dai principali ospedali di Wuhan lo scorso inverno suggeriscono che il coronavirus potrebbe essere stato presente ed essersi diffuso in città mesi prima che le autorità riconoscessero la malattia. E' quanto emerge da uno studio dalla Harvard Medical School, Boston University of Publich Health e Boston Children's Hospital, dopo l'analisi delle immagini satellitari dei parcheggi dei principali ospedali di Wuhan tra gennaio 2018 e aprile 2020, e le tendenze nelle ricerche su Internet. Lo riporta il Guardian. Secondo lo studio, che è ancora in fase di revisione, le immagini dei parcheggi hanno mostrato un "forte aumento" a partire da agosto 2019 e con un picco a dicembre 2019. Tra settembre e ottobre, cinque dei sei ospedali analizzati hanno visto il loro più alto volume giornaliero di automobili. Quanto alle ricerche sul web, l'utilizzo delle parole "diarrea" e "tosse" è aumentato notevolmente circa 3 settimane prima del picco nei casi confermati di Covid-19 alla fine del 2019. Gli autori dello studio hanno affermato, che sebbene non potessero confermare se l'aumento del traffico dei veicoli fosse direttamente correlato al nuovo virus, l'evidenza "supporta altri lavori recenti che dimostrano che l'emergenza è avvenuta prima dell'identificazione (del coronavirus) nel mercato del pesce di Huanan", alla fine di dicembre, quando i funzionari cinesi avevano riferito di un cluster al mercato nel centro di Wuhan.  "Questi risultati confermano anche l'ipotesi che il virus sia emerso naturalmente nella Cina meridionale e che potenzialmente fosse già in circolazione al momento del cluster di Wuhan", afferma il rapporto. "Stava succedendo qualcosa in ottobre", ha detto alla Abc News John S Brownstein dell'ospedale pediatrico di Boston. "Chiaramente, un certo livello di disagio sociale si stava verificando ben prima di quanto venne identificato l'inizio della nuova pandemia di coronavirus". La Cina ha bollato come "ridicolo" uno studio dell'Harvard Medical School che sostiene che il coronavirus sia comparso nella città di Wuhan, epicentro della pandemia, già lo scorso agosto. "E' ridicolo, incredibilmente ridicolo arrivare ad una conclusione del genere basandosi su osservazioni così superficiali come l'aumento del traffico", è stato il commento della portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, secondo quanto riportato dalla Bbc. Lo studio mette in relazione un aumento delle automobili nei parcheggi degli ospedali della città cinese ad agosto 2019 con le parole più cercate sul web nello stesso periodo, "diarrea" e "tosse", e conclude che il Covid-19 si sia cominciato a manifestare a partire da quel periodo con un picco a dicembre.

DAGONEWS l'8 giugno 2020. Cosa ci ha nascosto la Cina? È una domanda che tutto il mondo si pone da gennaio, e più passa il tempo più la risposta sembra essere: tanto, troppo, tutto. Alcuni ricercatori dell’università di Harvard, per esempio, hanno analizzato i dati dei satelliti e hanno scoperto un traffico anomalo nelle vicinanze degli ospedali di Wuhan. Quando? Alla fine della scorsa estate! In quel periodo, secondo lo studio guidato dal Dr. John Brownstein, da quella zona c’è stato un picco di ricerche su internet dei sintomi tipici del Coronavirus, come tosse, difficoltà respiratoria, eccetera. Peccato che Xi Jinping non abbia notificato nulla all’OMS del fido Ghebreyesus fino al 31 dicembre. Brownstein sostiene che nei presidi sanitari della città da cui tutto è partito i parcheggi erano stracolmi a settembre/ottobre. Per fare un esempio: il 10 ottobre 2019 al Tianyou Hospital c’erano 285 auto parcheggiate, il 67% in più delle 171 che si contavano lo stesso giorno di un anno prima. Ma in altri ospedali l’aumento sarebbe arrivato al 90%. “È evidente che i parcheggi si riempiono quando un ospedale è pieno, ed è pieno perché qualcosa sta succedendo nella comunità, come un’infezione che si diffonde”.

Marina Valensise per “il Messaggero” il 24 maggio 2020. È la prima volta, dalla rivolta in piazza Tienanmen nel 1989, che i cinesi si ritrovano una narrazione alternativa a quella ufficiale. Effetto del coronavirus, la cosa imprevedibile, oltre al favore telematico di massa, è che a proporla non è un dissidente, ma una scrittrice di 65 anni, figlia di una famiglia di letterati. Vivendo a Wuhan, Fang Fang, al secolo Wang Fang, ha iniziato un diario della quarantena, letto in mezzo mondo (in Italia dal 3 giugno), postandolo ogni sera sulla piattaforma digitale Weibo, poi sul blog della rivista online Caixin, e da lì su WeChat. Ex presidente dell' Associazione scrittori della Provincia di Hubei, Fang Fang ha una figlia che rientrata dal Giappone si è messa in isolamento, un ex marito dimesso da un ospedale di Shanghai per un raffreddore, tre fratelli universitari che sin dal 31 dicembre l' allertano sul primo caso sospetto di quel virus sconosciuto, e un vecchio cane con cui vive nel quartiere di Jiangxia. Appena inizia l' epidemia, si attacca al computer e ogni notte a mezzanotte inizia a postare le sue cronache lette da 20-30 milioni di internauti. Per due mesi, dal 25 gennaio al 24 marzo, descrive nel suo stile dimesso l' angoscia per le voci in circolazione, lo sgomento alle notizie dei primi morti, le visite in ospedale agli amici malati, l' ansia di non trovare le mascherine N95, o di trovarne uno stock privo di confezioni individuali, e decidere di non comprarle, perché il farmacista le smaneggia a mani nude, mettendole in vendita a un prezzo esorbitante. Confessa lo stupore di ritrovarsi confinata, con 11 milioni di abitanti, in una città fantasma avvolta nel silenzio, senza traffico, senza rumore, senza notizie. Confessa la paura, l' ossessione del contagio, il calcolo retroattivo delle probabilità di esserne entrata a contatto, l' alea dell' esistenza legata a una gocciolina invisibile. Descrive l' operosità dei concittadini che non si arrendono, chiudono il mercato del pesce abbandonando carcasse di bestiole puzzolenti, ma costruiscono ospedali in pochi giorni; racconta la generosità dei vicini di compound che si mobilitano per portarle panini caldi, e le sue prodezze di madre che esce di casa per portare da mangiare alla figlia, inabile alla cucina. Il suo diario di quarantena è la cronaca di un' esperienza ormai comune al mondo intero. L' unica differenza è l' allerta continua che corre lungo le sue pagine come un filo rosso. Fang Fang ama ripetersi e pontifica volentieri: «L' umanità non può continuare a perdersi nell' arroganza, a pensare di essere il centro del mondo». Non risparmia i suoi connazionali: «I cinesi non hanno mai avuto la passione di ammettere i propri errori, non hanno un forte senso del pentimento e non sono molto propensi a alzarsi in piedi». Ma ha il coraggio di sfidare a viso aperto la censura del regime comunista, aprendo una falla che rischia di minare dall' interno l' autocrazia cinese: «Weibo fa credere agli utenti che i loro post sono stati caricati con successo, mentre in realtà restano invisibili agli altri utenti. Una volta scoperto questo trucchetto di programmazione, ho capito che la tecnologia può anche essere dannosa come il contagio di un virus», nota nel primo post. Da allora, non passa giorno senza denunciare il governo che nasconde la natura dell' epidemia e si autocelebra autorizzando assembramenti criminali. Inietta la sua dose quotidiana di critica al regime: «I funzionari in Cina hanno sempre emanato direttive scritte, così, privi di copione, sono completamente persi e non sanno come guidare la nave». E sottolinea senza riserve la «servitù volontaria» che è l' altra faccia del dispotismo cinese. È per questo che il suo libro disturba: osannata in America - e speriamo in Europa - Fang Fang in Cina passa per una traditrice da mettere al bando, come vorrebbero i nazionalisti che l' attaccano con virulenza, denunciando il complotto occidentale, e riversandole contro l' odio della rete.

Fang Fang, la scrittrice cinese che ha raccontato l’epidemia di Wuhan. Federico Giuliani l'1 giugno si Inside Over. Fang Fang è lo pseudonimo letterario di Wang Fang, una scrittrice cinese diventata famosa in tutto il mondo per aver raccontato quotidianamente, e senza filtri, quanto stava accadendo nella città di Wuhan durante il lockdown, al tempo del coronavirus. Dal 23 gennaio all’8 aprile, a causa dell’epidemia di Covid-19, le autorità cinesi impongono la quarantena totale all’intera provincia dell’Hubei, di cui la megalopoli di 11 milioni di abitanti fa parte. Fang decide così di prendere carta e penna per raccontare la sua versione dei fatti. Prima sui social network cinesi, con lunghi post pubblicati sui social network cinesi Weibo e WeChat. Poi sul sito Caixin, attraverso alcuni articoli di opinione. Infine con un libro-diario. Già, perché quei dispacci non attirano solo l’attenzione dei cittadini cinesi, ma del mondo intero. Il 15 maggio, tradotto in inglese, per HarperCollins, esce ”Wuhan Diary: Dispatches from a Quarantined City”. Il successo è immediato: il libro fa breccia nell’opinione pubblica occidentale e viene tradotto in altre lingue (l’edizione italiana uscirà il prossimo 3 giugno).

L'infanzia, la formazione, la carriera. Il ”Diario di Wuhan” è soltanto la punta dell’iceberg di una carriera prolifica e ricca di soddisfazioni. Fang nasce a Nanchino nel 1955 da una famiglia benestante di letterati. Nonno filologo, padre linguista: vita complessa nella Cina di quel periodo, in cui si respirava il clima anti intellettuale della Rivoluzione culturale. All’età di 2 anni la sua famiglia si trasferisce a Wuhan. Prima di studiare Letteratura all’università locale e intraprendere la carriera da scrittrice, Fang finisce a scaricare casse lungo gli argini del Fiume Azzurro che bagna la città. Sono questi gli anni formativi che plasmano l’animo artistico di Fang e le forniscono materiale per i primi lavori letterari. Tutti i suoi testi sono ambientati a Wuhan, così come tutti i suoi personaggi appartengono al popolo della città. Lo stile di Fang Fang inizia a prendere forma, testo dopo testo. In patria lo chiamano ”nuovo realismo”, per indicare la maniacale attenzione che la scrittrice presta alla rappresentazione della vita quotidiana di persone comuni. Nel 2010 vince il prestigioso premio letterario Lu Xun, uno dei primi quattro premi letterari della Cina. Viene assegnato dalla China Writers Association ogni tre anni, dal 1995 in poi, e prende il nome da Lu Xun, figura di spicco della moderna letteratura cinese. Nel 2011 Fang viene nominata ”autore dell’anno” dalla Chinese Media Award in Literature. Un anno più tardi visita il Regno Unito e partecipa al Cheltenham Literary Festival.

Le opere più importanti. Fang inizia a scrivere poesie nel 1975. Il suo primo romanzo, che può essere tradotto in italiano come ”Sulla roulotte”, viene pubblicato nel 1984 dalla Changjiang Literature and Art Publishing House. Il capolavoro che la fa conoscere al grande pubblico è ”Landscape”, una novella uscita nel 1987 e vincitrice del Premio Novella 1987-1988. La lista dei suoi scritti è lunghissima: romanzi, scritti brevi, novelle, poesie, saggi e perfino un libro per bambini. La maggior parte delle sue opere ruota attorno alla vita autentica di persone comuni, spesso umili. A detta di molti critici, il segreto del successo di Fang Fang starebbe nella sua capacità di catturare la complessità di una vita in continua evoluzione senza mai perdere il filo della narrazione. A fare da cornice al ”nuovo realismo” di Fang c’è sempre la città di Wuhan. Il capoluogo dell’Hubei si trova anche nel suo ultimo romanzo uscito prima del diario dell’epidemia, ”Wuchang: a City under Siege” (2011). In quelle pagine si racconta la battaglia combattuta nel 1926 tra gli allora Signori della guerra e il Kuomintang durante la ”spedizione del Nord”. Tra i titoli più noti, oltre a ”Diary of Wuhan”, troviamo il racconto breve ”Mille frecce” e ”Soft Burial”, romanzo uscito nel 2016.

Il "Diario" di Wuhan. Durante il lockdown di Wuhan, Fang ha tenuto ”compagnia” ai residenti (e non solo) pubblicando ogni tarda serata, sui social network cinesi, un resoconto personale di quanto stava accadendo in città. Ogni post puntava ad essere oggettivo, ma nelle parole usate dalla scrittrice c’erano tutte le sue emozioni, unite alle svariate testimonianze raccolte presso parenti, amici, conoscenti, medici e accademici. Ciascun frammento pubblicato online è diventato una pagina del ”Diario”. Non c’è più nemmeno bisogno di specificare ”Diario di Wuhan”, perché, quando usiamo quella parola associata a Fang Fang, la mente vola subito nel cuore dello Hubei, nell’epicentro della pandemia di Covid-19 che, a cavallo tra gennaio e aprile, ha paralizzato la Cina. ”…avevo persino mandato un messaggio a uno dei miei gruppi WeChat affermando: ”Il governo non oserebbe mai provare a nascondere qualcosa di così enorme. Ma in realtà, per come le cose si sono evolute secondo quanto vediamo ora, sappiamo che una parte di colpa per questa catastrofe risiede nell’errore umano”. E ancora: ”Dopo avere ponderato le cose, sento davvero che non c’è modo di perdonare certi operatori irresponsabili; dovrebbero tutti pagare un prezzo per la loro incompetenza”. Questi sono solo alcuni dei passaggi che si trovano all’interno del Diario. Un diario che ruota attorno alle stesse tematiche evocate dalla stampa internazionale, con il plus ultra di uscire direttamente dalla pena di chi, in quei drammatici giorni, si trovava in prima fila a Wuhan. L’occultamento della verità, con autorevoli scienziati che hanno negato la trasmissione fra umani del nuovo coronavirus; la scarsa preparazione del sistema sanitario locale, con la gente che si trascinava per strada perché rifiutata da ospedali stracolmi e che, tornando a casa, infettava l’intera famiglia; le sanzioni e il bavaglio al medico Li Wenliang, che aveva denunciato la nuova epidemia, prima di morire dopo essere stato contagiato. Le autorità cinesi non hanno calato la mannaia della censura all’ennesima potenza, se non per bloccare l’account Weibo della scrittrice. D’altronde i pensieri espressi da Fang Fang erano gli stessi di milioni di cinesi: frustrati per una situazione drammatica, arrabbiati con i funzionari locali di Wuhan e dello Hubei, e stanchi di vedere i loro cari portati via avvolti in sacchi neri.

Morte e silenzio. Morte e desolazione. C’era soltanto questo a Wuhan, nelle lunghe settimane di lockdown. I cittadini erano rintanati nelle proprie abitazioni per sfuggire a un nemico invisibile che stava mietendo vittime a un ritmo mai visto. Il silenzio degli stradoni a quattro corsie di scorrimento era infranto dallo stesso suono: il rumore delle ambulanze che trasportavano i malati negli ospedali della città, ormai al collasso. Ecco altri flash della Wuhan in quarantena. Un giorno Fang racconta di essere uscita per ”cercare mascherine, introvabili”. La scrittrice si imbatte improvvisamente in un ”urlo penetrante di una ragazza che vedeva portar via il corpo della madre”. ”Le autorità devono ringraziare le migliaia di famiglie che hanno visto morire i loro cari per l’epidemia – si legge, invece, su Caixin – devono inchinarsi di fronte alle decine di migliaia di medici e infermieri che combattono per noi e per loro (al termine del lockdown Xi Jinping in persona ha ringraziato il personale medico ed elogiato tutti gli abitanti di Wuhan ndr)”. Il Diario termina con una citazione di San Paolo (seconda lettera a Timoteo): ”Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. A chi le ha chiesto che cosa farà adesso, Fang Fang ha spiegato che continuerà a scrivere ”come sempre”. Nel corso di un’intervista via mail rilasciata a Caixin, Fang ha approfondito alcune questioni rilevanti. La donna ha ripercorso gli istanti di quanto, per la prima volta, si è resa conto dell’apocalisse che stava avvolgendo Wuhan: “Era il 31 dicembre, ho tre fratelli e il più grande ci ha detto via chat di aver sentito che le autorità avevano informato l’Organizzazione mondiale della sanità di una polmonite di causa misteriosa”. Quando, a metà gennaio, l’infezione continuava a diffondersi, l’amarezza si è fusa con la rabbia: “La morte mi ha rattristato, la fine di amici, di compagni di scuola e sapere di tanta gente sconosciuta disperata alla ricerca di aiuto medico e sapere di non poterla aiutare. E quello che mi ha reso furiosa è il ritardo di venti giorni tra lo scoppio del coronavirus e l’intervento, il caos che ha causato, una catastrofe. E la cosa più toccante è stata la mancanza di paura dei medici e degli infermieri di Wuhan e la resistenza della gente”.

Accuse e critiche. Il Diario di Fang Fang ha ricevuto apprezzamenti ma anche molte critiche. Al di là delle possibili conseguenze politiche derivanti dalla pubblicazione di temi così delicati, la scrittrice è stata attaccata da alcuni connazionali, accusata di aver offerto “munizioni agli Stati Uniti” per danneggiare la Cina. A tutte queste persone, Fang ha risposto che il Diario “è solo il punto di vista di una singola vittima, ho scritto quello che provavo, la vita si compone di piccole questioni personali”. Eppure la testimonianza di Fang è stato quasi un atto dovuto per ricordare i morti dell’epidemia e i tanti medici caduti sul campo di battaglia per salvare la popolazione. Nel Diario non si cerca un colpevole: si chiede soltanto giustizia. Da questo punto di vista, a detta del governo, giustizia è stata fatta, visto che sono stati spazzati via centinaia di funzionari locali, rei di aver gestito in malo modo l’emergenza sanitaria. Fang, a 65 anni, dopo una vita da scrittrice apprezzata, non è mai stata catalogata come dissidente. È anche per questo, forse, che la sua denuncia non è stata considerata un pericolo, quanto piuttosto una dura critica fatta a fin di bene. Non a caso l’autrice del Diario non ha scelto di pubblicare questo libro per schierarsi da una parte o dall’altra. Anche perché la stessa Fang non risparmia critiche anche alle leadership occidentali: “Prima il negligente atteggiamento della Cina, poi l’arroganza dell’Occidente manifestata con la sua sfiducia nell’esperienza cinese di lotta al coronavirus, hanno contribuito entrambi a un’incalcolabile perdita di vite, a una innumerevole lacerazione di famiglie. L’intera umanità ha accusato un duro colpo”. Per smorzare un dibattito fin troppo acceso Fang Fang ha comunque ribadito, sempre su Caixin, che il suo libro “aiuterà il Paese” e che non vi è alcun tipo tensione tra la scrittrice e la Cina.

Cecilia Attanasio Ghezzi per ''la Stampa'' il 10 maggio 2020. La Cina riformerà il suo sistema di prevenzione e controllo delle malattie. Ad affermarlo è Li Bin, numero due della Commissione per la salute pubblica che dichiara pubblicamente come «l' epidemia ha esposto le debolezze nel modo in cui abbiamo risposto al contagio e nel nostro sistema di sanità pubblica». Il viceministro ha sottolineato anche che Pechino coopererà con la comunità internazionale e condividerà la sua esperienza nel contrastare il Covid19 e la diffusione di quel nuovo coronavirus che ha ormai infettato quasi quattro milioni di persone in tutto il mondo. Ma quello che a noi suona come una rara ammissione di colpa, un mea culpa per il ritardo e la poca trasparenza con cui si è affrontato il focolaio di Wuhan, per Pechino è un modo di riaffermare il controllo su una situazione che gli è sfuggita di mano. E non c' è nulla che la leadership comunista teme più del «luan», il caos. Così, tra i pochi punti chiari espressi dal viceministro c' è una nuova catena di comando «efficiente e centralizzata» che sappia usare al meglio big data e intelligenza artificiale e assicurare l' approvvigionamento di dispositivi medici di emergenza. Non si tratta di novità. Diversi governi locali hanno cominciato a sperimentare applicazioni per identificare e tracciare i potenziali portatori del virus già a febbraio scorso e negli ultimi mesi circa 38mila aziende hanno riconvertito la produzione a favore di mascherine e ventilatori polmonari. Ma questo fiorire spontaneo di soluzioni si è tradotto in disordine. Attualmente sono all' incirca un centinaio le applicazioni che assegnano un codice sanitario sulla base di complessi algoritmi che incrociano storia medica, spostamenti e incontri di ogni singolo cittadino e, anche se le più diffuse girano sui portafogli elettronici dei colossi del web WeChat e Alibaba (oltre un miliardo di utenti ciascuno), i criteri non sono stati ancora unificati. Per quanto riguarda la produzione di dispositivi medici, poi, la situazione non è certo più ordinata. È in atto «una nuova corsa all' oro», che ha travolto tutti i sistemi di certificazione e licenze in essere e obbedisce solo alla velocità con cui cresce la domanda nazionale e mondiale. Ecco, Pechino non può permettersi di affrontare un nuova ondata di contagio con questi mezzi. Ma soprattutto non può permettersi di perderne il controllo.

Razzismo in Cina? "Cacciato da hotel e spiaggia perché straniero”. Le Iene News il 29 aprile 2020. Pietro racconta a Giulia Innocenzi per Iene.it tutti gli episodi che gli sono successi in Cina in quanto straniero una volta uscito dalla quarantena: "è razzismo di stato". “In Cina è stato ufficialmente avviato il razzismo di stato”. Parte così l’email che ci scrive Pietro (nome di fantasia, ndr), italiano che vive da diversi anni in una città a circa 500 chilometri da Wuhan. Giulia Innocenzi lo ha intervistato per Iene.it: aspettando Le Iene, e Pietro ha messo in fila una serie di episodi che gli sono successi da quando è uscito dalla quarantena. Episodi che vanno ad aggiungersi a notizie allarmanti di taglie sugli stranieri e africani buttati fuori casa. Ma andiamo con ordine. Pietro rientra in Cina un mese fa, per la precisione tre giorni prima che il paese vieti agli stranieri anche residenti l’ingresso. “Così parte la mia quarantena. Prima in un albergo a mie spese, poi, quando viene fuori grazie al tracciamento dell’app che il passeggero seduto vicino a me in aereo è risultato positivo al coronavirus, vengo trasferito in una struttura per quelli più a rischio. Questa era bella fatiscente, ma comunque finisco i miei giorni e finalmente torno a casa”. Con il certificato alla mano che attesta che non ha contratto il coronavirus può finalmente tornare ad abbracciare la sua famiglia, moglie cinese e due figli, 9 e 6 anni. Ma da lì cominciano i problemi. “Dovevo rinnovare il passaporto”, racconta alla Innocenzi, “e così decidiamo di andare al consolato di Canton e approfittiamo per trascorrere un finesettimana in famiglia”. Al telefono la prima brutta scoperta: “in quanto straniero non potevo prenotare un albergo. Ho provato con diverse strutture, ma mi hanno risposto tutte allo stesso modo: ‘per disposizioni governative non sono ammessi gli stranieri’”. Partono lo stesso, grazie all’ospitalità offerta a casa di amici, e lì il secondo brutto episodio. “Entro in un garage sotterraneo e il parcheggiatore si sbraccia invitandomi a fermarmi. Ci spiega che in quanto straniero non posso entrare”. Pietro gli mostra il certificato che attesta la sua negatività al coronavirus, ma non c’è niente da fare. “Sono dovuto scendere dalla macchina e uscire, ha parcheggiato mia moglie”. Ma non è finita qui. Con la famiglia e gli amici decidono di trascorrere qualche ora al mare. Anche lì, non appena vedono che Pietro è straniero, mostrano un cartello che recita testuale: “Per disposizioni governative, momentaneamente non possiamo autorizzare l’accesso agli stranieri”. E tutto questo davanti agli occhi dei suoi figli, con la più grande pronta a intervenire per spiegare che il papà non è infetto. La bambina è intervenuta anche qualche giorno fa, mentre era con altri bambini in una salagiochi. Quando hanno visto il suo papà gli hanno puntato il dito e hanno cominciato a gridare che aveva il coronavirus, così ancora una volta è dovuta intervenire la bambina, che ha spiegato che straniero non equivale a infetto. “E poi gli ha anche detto che i contagiati erano loro”, chiosa Pietro. Che da questa serie di episodi è molto provato, soprattutto perché ci vanno di mezzo i suoi figli. “Ma lo sapete che mia figlia, che fra poco tornerà a scuola, ha dovuto fare il tampone perché ha il papà straniero? Gli altri bambini cinesi non l’hanno dovuto fare”. E non si può stare tranquilli nemmeno a casa propria. “Nel nostro centro residenziale hanno messo un avviso di segnalare tutte le persone sospette che sembrano rientrate dall’estero”. A Pietro scappa un sorriso: “Se io vedo un cinese in giro difficilmente posso sospettare che sia rientrato dall’estero, ma se vedi uno come me, lo pensi immediatamente”. E il suo condominio non è l’unico che ha disposto nuove regole contro gli stranieri. Greta Pesce, studentessa italiana che vive a Shanghai, ha dovuto prendere in affitto un nuovo appartamento (leggi qui l'articolo), perché non è potuta rientrare nel suo perché il condominio ora non ammette stranieri. Pietro parla di una vera e propria “caccia allo straniero”. “L’altro giorno mentre passeggiavo uno mi ha scattato una foto e poi ha fatto una telefonata. Ho continuato a camminare e me lo sono trovato girato l’angolo, mi stava seguendo”. Ma la situazione è molto più problematica in altre due province in Cina, a Heilongjiang e a Guangdong. Nel nordest della Cina, al confine con la Russia, le autorità offrono una vera e propria taglia sugli stranieri: 3000 yuan, circa 390 euro, per chi aiuta a beccare chi è entrato nel paese illegalmente. Somma che sale a 5000 yuan, 650 euro, per chi li cattura e consegna alle forze dell’ordine. Misure che prendono di mira gli stranieri adottate dopo che la curva dell’epidemia è salita a causa del cosiddetto contagio di ritorno da chi rientrava dall’estero, in particolare dalla Russia. Nella provincia di Guangdong, a sud nella Cina, e in particolare nella città di Guangzhou, a essere attenzionati sono gli africani, per la maggior parte nigeriani. Gli africani infatti sono stati letteralmente buttati fuori dalle case e dagli alberghi dove soggiornavano, come mostriamo in questo video (clicca qui per vederlo), nonostante la maggior parte di loro non mettesse piede fuori dal paese da tempo. A Guangzhou risiede la più grande comunità africana in Cina, e la tensione sarebbe scoppiata quando si sono registrati dei casi di coronavirus anche fra loro. Secondo la CNN, oltre ad aver cacciato dalle proprie abitazioni diversi africani, che sono rimasti senza un tetto sotto cui dormire, a molti è stato imposto il tampone e altri avrebbero dovuto fare la quarantena, nonostante non fossero rientrati dall’estero. Il consolato americano ha consigliato gli afroamericani di evitare di recarsi in viaggio in città. Nella dichiarazione del consolato si legge che “la polizia ha ordinato ai bar e ai ristoranti di non servire clienti che sembrano di origini africane”. Al centro delle polemiche è finita anche McDonald’s, dopo che sui social è comparso un video che mostrava come in uno dei punti della catena americana a Guangzhou fosse stato esposto un cartello che recitava: “Siamo stati informati che d’ora in poi le persone di colore non possono entrare nel ristorante”. McDonald’s, una volta a conoscenza dell’accaduto, ha chiuso quel ristorante e ha chiesto scusa. Il consolato americano inoltre informa che “le autorità locali hanno imposto tamponi obbligatori e quarantene per chiunque abbia avuto ‘contatti africani’, senza tenere conto se siano rientrati da un viaggio o meno”. 

Coronavirus: cos'è successo davvero a Wuhan e il futuro dell'Italia. Le Iene News il 22 aprile 2020. Wuhan è uscita dalla quarantena l’8 aprile. Con l’aiuto di un contatto locale la nostra Roberta Rei ci racconta cos’è successo davvero in Cina in queste settimane e come sta andando il ritorno alla normalità. Anche l’Italia seguirà gli stessi passi?

L’8 aprile la quarantena di Wuhan è finita: dopo 76 giorni l’epicentro della pandemia da coronavirus la metropoli da 11 milioni di abitanti ha iniziato a tornare alla normalità. Una festa ha illuminato il cielo: immagini che speriamo di poter vedere presto anche noi quando le misure di contenimento dell’epidemia verranno ammorbidite. Ma non è tutto oro quello che luccica. Sebbene piano piano Wuhan stia tornando verso la normalità, ci sono molti dubbi su cosa sia successo davvero. La nostra Roberta Rei è riuscita a mettersi in contatto con un abitante della città, che ci ha raccontato alcune delle cose accadute nei mesi scorsi e di come potrebbe essere l’Italia una volta finita l’emergenza: “Noi siamo tutti arrabbiati a Wuhan”, ci dice. “Voi siete molto angosciati per la situazione perché da voi l’informazione è trasparente”. E, a sentire le sue parole, da loro non sarebbe proprio così. “Tutto il mondo si è basato sulle informazioni che venivano dalla Cina, ma la Cina non comunicava i suoi dati reali”, dice l’uomo alla Iena. “E quindi la pandemia si è purtroppo diffusa. Il governo ha prima imbrogliato i cinesi, poi tutto il mondo”. E non è certo l’unico ad aver sollevato perplessità su trasparenza e la correttezza delle informazioni rivelate dal governo cinese. Altri hanno posto questo problema e sembra ne abbiano pagato le conseguenze, come potete vedere nel servizio qui sopra. Oggi però la situazione della città è migliorata, tanto che la gente ha potuto ricominciare a girare per strada e alcune attività hanno riaperto. I ristoranti possono di nuovo distribuire cibo all’esterno, i barbieri sono aperti su appuntamento. Per prendere i mezzi pubblici o entrare nei negozi bisogna usare un’app che permette di tracciare i propri spostamenti e quegli degli altri per prevenire una seconda ondata del coronavirus. Un sistema, questo dell’app, su cui sta lavorando anche il nostro governo. Che il nostro futuro sia simile a quello che si sta vivendo adesso a Wuhan? Nelle immagini che potete vedere qui sopra il nostro contatto ci ha mostrato come è ora la quotidianità nella prima città colpita dal coronavirus. “Fra quanto si potrà andare al ristorante con gli amici?”, chiede la Iena. “Spero tra 3 o 4 mesi”, risponde l’uomo. Succederà lo stesso in Italia? “Fate ginnastica ogni giorno e continuate a comunicare: vi dovete sostenere l’un con l’altro. Se noi dobbiamo ringraziare qualcuno non è il governo ma la gente di Wuhan. In questi mesi abbiamo combattuto restando in casa: sono le persone che hanno vinto”.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2020.  Un tagliando rosa dove si segna l' ora di uscita da casa e quella di rientro. Un altro foglio da riempire per controllare dal punto di vista sanitario l' accesso al posto di lavoro. E una app sul telefonino che permette alle autorità di tracciare gli spostamenti e i contatti (ma questa non è una novità sconvolgente per il sistema sociale cinese). E la mascherina, sempre obbligatoria all' aperto. A Wuhan, prima città martire del coronavirus, la quarantena imposta il 23 gennaio è terminata l' 8 aprile. Ma l' allarme sanitario e sociale non è finito. C' è stata la dichiarazione di «guerra contro il demone nascosto coronavirus» (frase usata da Xi Jinping), ma non c' è ancora la dichiarazione della vittoria, che pure farebbe politicamente molto comodo al Partito-Stato. Conforta che non siano segnalati nuovi casi nella città di 11 milioni di abitanti (tanti quanti quelli della nostra Lombardia, quindi un possibile metro di paragone sanitario per noi). Il bollettino di ieri, quindicesimo giorno della riapertura, rilevava solo 69 pazienti di Covid-19 e altre 28 guarigioni. Ma la settimana scorsa le autorità hanno improvvisamente ricalcolato il numero dei morti, aggiungendone 1.290, il 50% in più.

Per evitare che il ciclo di contagi riparta, la vita non è tornata alla normalità a Wuhan e nel resto della Cina. La ripartenza è lenta. Basta vedere le immagini delle file ordinate e distanziate all' ingresso della metropolitana per rendersi conto che qualcosa è cambiato nel comportamento dei cinesi. La calca delle ore di punta si è dissolta, nessuno spinge, nessuno cerca di infilarsi tra i corpi di chi lo precede per arrivare primo al tornello, al vagone, al sedile.

Conta solo distanziarsi dal pericolo di contatto e contagio. I ristoranti possono fare solo pasti da portare via, Starbucks serve i clienti all' aperto, sul marciapiedi. I tassisti raccontano di aver avuto «due clienti in due settimane, chi può usa solo la sua auto». Oltre alla maschera obbligatoria, chi può si infila anche una tuta protettiva, nonostante il caldo che a Wuhan si fa già sentire. Alcune aziende cinesi stanno sviluppando tute sanitarie lavabili e riutilizzabili, segno che fiutano il business: la mascherina diventerà un' abitudine come gli occhiali da sole e la tuta bianca potrebbe sostituire l' impermeabile, almeno nei periodi di ritorno dell' allarme. Dice al Corriere la professoressa universitaria Sara Platto, che vive e insegna all' università di Wuhan: «Le uscite non per lavoro sono limitate a un paio d' ore, il necessario per fare la spesa. Si segnano i propri dati su un tagliando rosa al posto di controllo del proprio comprensorio residenziale, all' uscita e al rientro. All' ingresso dei negozi viene presa la temperatura. Tagliando anche per l' ingresso negli uffici. Università e scuole sono chiuse, il Gaokao (l' esame di maturità, ndr) si terrà a luglio, sappiamo che ci sarà un caldo torrido ma era l' unica soluzione, posticipare il più a lungo possibile». La dottoressa Platto comunque non si è ancora avventurata sulla metropolitana: «Voglio aspettare un po'...».

Wuhan e il resto della Cina temono la «seconda ondata». Lo sforzo è per ritardarla il più possibile, nella speranza che in autunno siano stati trovati farmaci decisivi per curare i malati e magari un vaccino. Ma Wuhan è un grande polo industriale e di servizi, proprio come la Lombardia: la chiusura a tempo indefinito in attesa di vaccino o nuove medicine non è possibile. La sua economia è quasi morta sul tavolo dell' operazione per tagliare via il Covid-19 dal corpo del Paese: il Pil della metropoli e della provincia dello Hubei hanno perso il 39% nel primo trimestre (il dato del resto della Cina è stato «solo» -6,8 per cento), l' incertezza per il futuro di imprese e posti di lavoro non conosce confini, come il coronavirus. Da Wuhan sono ripresi i viaggi interni alla Cina. Pechino però continua ad accettare solo mille arrivi al giorno dall' ex ground zero del Covid-19. E in stazioni e aeroporti, sia in partenza sia in arrivo, si compilano moduli su moduli, si controlla la temperatura, si finisce in quarantena al minimo indizio di contagio.

Greta, uscita dalla quarantena in Cina: “Vi mostro come viviamo”. Le Iene News il 22 aprile 2020. Greta Pesce, italiana in Cina da cinque anni, ha documentato per noi la vita durante l’emergenza coronavirus: dalla sua quarantena durata 28 giorni, alla riapertura di palestre e ristoranti nella “fase 2” dopo il lockdown. Greta Pesce è una studentessa italiana che vive in Cina, a Shanghai, da cinque anni.  Tornata il 14 marzo da un viaggio all’estero, ha documentato per noi la sua quarantena in Cina, a Quingdao, e la riapertura graduale del paese dopo il lungo lockdown. Dopo quasi un mese di quarantena, Greta può finalmente uscire e tornare a Shanghai, dove vive stabilmente. Ha documentato per noi la vita in questi giorni: continui controlli di temperatura e tracciamento tramite app sono all’ordine del giorno. “Prima di salire in metro bisogna scannerizzare questo codice QR”, spiega Greta. “Così se nei prossimi giorni dovessi ammalarmi, possono rintracciare chi era vicino a me in metro”. E oltre alla tecnologia, anche la pulizia degli ambienti è fondamentale in questa fase. “Ogni volta che una persona entra in un bancomat per ritirare, appena ha finito, un operatore disinfetta maniglia e schermo”, come si vede nel video qui sopra. Abbiamo intervistato Greta per chiederle come sta vivendo questa fase, in cui molte attività sono aperte, come la palestra e i ristoranti, ma non l’Università. “Il 27 aprile apriranno le scuole superiori, ma non c’è ancora una data per gli altri istituti”, spiega Greta. Aperitivi fuori si possono fare? “Sì, al momento non ci sono particolari distanze di sicurezza da rispettare perché in Cina i ristoranti hanno aperto già dal primo marzo. All’inizio queste misure c’erano poi sono state allentate. Non c’è l’obbligo di mascherina, ma qui tutti la indossano. I cinesi hanno ancora molta paura”. “Per le strade c’è gente, ma non tanta come prima”, ci spiega Greta. “Anche perché tante persone non sono ancora rientrate a Shanghai. Io sono fortunata perché sono rientrata in tempo, ma dal 28 marzo gli stranieri, anche se residenti in Cina, non possono rientrare se si trovano fuori dal paese, neanche se qui hanno famiglia o un’impresa”. “È difficile il ritorno a questa normalità in cui però ci sono tante regole da seguire”, confida Greta. “Per esempio il fatto di non poter andare nel mio residence universitario a riprendere la mia roba, perché lì chi è stato fuori da Shanghai per ora non può entrare". Greta ha documentato per noi anche la lunga quarantena che ha dovuto fare al rientro da un viaggio in Giordania, il 14 marzo. "Quando sono tornata in Cina dal viaggio non sono potuta rientrare in città perché la mia residenza universitaria al momento non accetta persone dall’estero”, ci ha raccontato Greta, che inizialmente, dato che non veniva da una zona a rischio, è stata messa in isolamento a casa del suo ragazzo, a Quingdao. Ma dopo sette giorni è arrivata una telefonata. “Le autorità del governo locale mi hanno chiamata e mi hanno detto che sull’aereo dove avevamo viaggiato c’erano stati dei contagi e quindi dovevamo prepararci perché ci avrebbero fatto fare la quarantena centralizzata in un albergo messo a disposizione dal governo. Infatti, nonostante fossi già in quarantena, dal momento che sul mio aereo c’erano stati contagi era più probabile che avessi contratto il virus. Ci sono venuti a prendere e ci hanno disinfestato la casa”. Greta ha documentato i giorni passati in albergo, in una stanza separata dal suo ragazzo, tra continui controlli sanitari e il cibo lasciato fuori dalla porta. Passati 14 giorni Greta è tornata a casa, dove però ha dovuto fare altri 14 giorni in isolamento. “In tutto nella città di Quingdao sono 28 giorni di quarantena se hai avuto dei casi di contagio sul tuo volo”. Nella fase di riapertura che sta interessando la Cina, oltre a regole ferree, anche la tecnologia ha un ruolo fondamentale: “Noi qui siamo abituati. Tutti usano WeChat e sono tracciati e fanno regolarmente pagamenti tramite il telefono”, spiega Greta. E in Italia a che punto siamo? Abbiamo chiesto di spiegare quale sarà la app di tracciamento e come funzionerà in Italia a Martina Pennisi, giornalista del Corriere della Sera. “Dal punto di vista tecnologico la strategia per ora è molto diversa da quella che stanno usando in Cina. Non c’è ancora un’applicazione nazionale, il governo ne ha selezionata una, si chiama Immuni, ha ancora bisogno di test e probabilmente sarà scaricabile volontariamente, quindi non sarà obbligatoria, dai primi di maggio. Non dovrà quindi essere mostrata per avere accesso a mezzi o luoghi pubblici, ma servirà per tracciare i contatti, quindi per digitalizzare un processo che già avviene a voce. Sarà l’applicazione con lo smartphone a registrare i codici, dichiarati anonimi e criptati, delle persone che ci sono state vicine ad almeno un metro per un numero sufficiente di secondi. Se dovessimo risultare positivi, ci viene dato un codice che permette di sbloccare una lista di persone che potrebbero essere a rischio. A questo punto queste persone vanno gestite, quindi devono essere contattate e bisogna dire loro cosa fare e sottoporle a test il prima possibile. L’applicazione è solo un pezzo e se non ha attorno una struttura adeguata rischia di rivelarsi inutile”.

Wuhan città aperta? Report Rai PUNTATA DEL 06/04/2020. Torniamo in in Cina con nuove immagini esclusive, per capire quanta strada dobbiamo ancora percorrere per uscirne. Dopo due mesi il cuore di Wuhan torna a pulsare: chi lavora può uscire dai compound, e quella che era diventata una città fantasma ricomincia timidamente a vivere. Ma a quale prezzo?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora come lunedì scorso andiamo a buttare un occhio in Cina, per capire quanta strada ancora dobbiamo fare per uscirne. Ecco, proprio il primo aprile, pochi giorni fa, nella provincia, nella contea di Jia nella provincia dello Henan, che confina con l’Hubei, dove si è scatenata tutta la pandemia, sono state messi in isolamento 600mila persone a rischio contagio, perché l’infezione, il contagio, era stata portata da un medico di ritorno da un ospedale di Wuhan, dove aveva prestato soccorso. Proprio ora che Wuhan si appresta a tirar via le barriere e ripartire. Ma quale prezzo?

CLIP WUHAN VOCE NARRANTE Il quartiere centrale, il cuore di Wuhan ha ricominciato a pulsare. Dopo due mesi si vedono le prime auto in circolazione. E quella che era diventata una città fantasma ricomincia timidamente a vivere.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Oggi per la prima volta possiamo uscire dal compound. Puoi farlo se lavori attraverso il certificato del datore di lavoro, oppure solo dopo aver ritirato un codice al check point. Dove accertano la tua identità.

IMPIEGATO Vale per una settimana, puoi uscire una volta al giorno per un massimo di due ore.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Questo è il mio codice sanitario elettronico verde. Con questo posso uscire, ma prima devo misurare la temperatura.

VOCE NARRANTE Non dovete scansionare il codice?

SIGNORA No, l’importante è che torni entro le due ore, il codice te lo scansionano fuori.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Al mercato Huanan, dove è cominciata la pandemia hanno tolto le barriere di plastica gialle, sono rimaste quelle blu. Ci possiamo avvicinare. É rimasta anche l’insegna con il nome. I negozi all’interno, invece sono stati svuotati e disinfettati. Le barriere resteranno ancora per molto. Non è prevista la riapertura del mercato con quella della città. Dove c’erano i parcheggi, oggi ci sono i contenitori di disinfettante. Molti negozi sono ancora chiusi. Non hanno avuto l’autorizzazione dal Governo. Come questo. Quando vede la telecamera ci chiude la saracinesca in faccia. E visto che il mercato di Huanan è ancora chiuso, il pesce viene venduto nei piccoli negozi dove gli animali vivi vengono conservati condizioni igieniche poco rassicuranti. Non tutti gli esercizi riapriranno. Come questo albergo, uno dei più importanti della città. È fallito. Lo Stato ha pensato all’assistenza sanitaria e al cibo. Ma non ha dato contributi economici agli esercenti.

VOCE NARRANTE Quasi tutti i ristoranti avevano chiuso prima del capodanno cinese. Poi è scoppiata l’epidemia. Adesso avete riaperto?

RAGAZZA Noi non abbiamo mai chiuso, siamo stati uno di quei ristornati incaricati di cucinare per medici, infermieri e personale ospedaliero.

VOCE NARRANTE Se portate il cibo in ospedale immagino che i vostri controlli siano molto severi.

RAGAZZA Certamente, ogni giorno c’è la disinfestazione e bisogna misurare la temperatura a tutti.

VOCE NARRANTE E chi vi porta la verdura e carne per cucinare?

RAGAZZA Anche loro devono essere controllati attentamente.

VOCE NARRANTE C’è qualcuno incaricato alla disinfestazione di cibo, lavoratori e mezzi di trasporto?

RAGAZZA I mezzi di trasporto sono del nostro ristorante, prima di andare e appena rientrati disinfestiamo tutto.

VOCE NARRANTE Ma possono riaprire tutti i negozi?

SIGNORA Non tutti. Per aprire devi avere la pistola per misurare la temperatura dei clienti e la luce ultravioletta germicida. E devi avere il codice sanitario elettronico verde.

VOCE NARRANTE Quindi se voglio comprare qualcosa devo avere anche io un codice verde?

SIGNORA Sì, non posso venderti nulla se hai la tosse, o se uno dei tuoi familiari ha qualche problema di salute.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Anche le linee della metropolita hanno aperto. Dentro la sorveglianza è alta. VOCE NARRANTE Mi scusi, qual è il codice da scansionare?

ADDETTO ALLA SICUREZZA Vanno bene tutti quelli che vedi.

VOCE NARRANTE Cosa devo fare?

ADDETTO ALLA SICUREZZA Devi soltanto aspettare che diventi verde, poi puoi entrare.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Sono obbligato a registrare la mia presenza attraverso il qr code, e comunicare il mio certificato. Solo se nella schermata appare il verde sono autorizzato a entrare. Solitamente a quest’ora la banchina della metro è affollata, ma oggi c’è pochissima gente. Un volontario passa tra i vagoni e mostra un cartello dove ricorda che è obbligatorio indossare la mascherina, rispettare le distanze di sicurezza e ricorda anche ai passeggeri, che prima di uscire devono scansionare il proprio codice all’interno del vagone. Per entrare nel centro commerciale, dobbiamo rispettare la distanza di un metro e mezzo, un termoscan misura la temperatura attraverso una video camera e qui, appena entrati dobbiamo scansionare il codice. Non ci sono molte persone dentro. Eppure è una delle catene più famose di bubble tea cinese. Volevo bere qualcosa ma purtroppo non posso. Sono autorizzati solo effettuare consegne. Devo sbrigarmi a rientrare, stanno per scadere le mie due ore. Prendo l’autobus per tornare al compound. Alla fermata c’è un volontario che aiuta le persone che hanno problemi con la scansione del codice.

VOCE NARRANTE Immagino che alcune persone, soprattutto gli anziani, abbiano difficoltà a capire come funziona il codice

VOLONTARIO Sì. VOCE NARRANTE E voi vivete qui vicino?

VOLONTARIO No, l’azienda dove lavoravamo è momentaneamente chiusa, ci hanno proposto di svolgere il servizio di volontariato.

VOCE NARRANTE Sapete quante linee di autobus che hanno ripreso a circolare?

VOLONTARIO Circa il 30%.

VOLONTARIA 2 Prima passava un autobus ogni 10 minuti per tutte le linee. Ora uno ogni mezz’ora o addirittura uno ogni ora.

VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Per ogni autobus ci sono più persone incaricate a misurare la temperatura dei passeggeri. Il codice dell’autobus è verde, anche il mio. È verde. In teoria dovrei viaggiare al sicuro. Sulla schermata del mio smartphone appaiono tutte le informazioni relative alla corsa, numero di targa, orario. Sono arrivato, anche prima di scendere devo scansionare il qr code sulla porta. Alla fine della giornata le autorità conoscono ogni mio movimento. Sanno dove siamo stati e per quanto tempo.

ADDETTO SICUREZZA Il certificato lo devi mostrare più avanti, saranno loro a scrivere a che ora sei rientrato nel compound. VOCE NARRANTE FUORI CAMPO Se si dovesse scoprire infetto qualcuno che è stato con noi nello stesso posto e nello stesso momento, il codice di ognuno diventerebbe giallo per avvisarci del rischio di contagio. Allora scatterebbe l’obbligo di rimanere a casa o di andare in ospedale.

SIGFRIDO RANUCCI FUORI CAMPO Insomma sono loro che dovranno poi gestire il 5g nel nostro Paese e non solo. Quello che è certo è che il tema della tracciabilità per contenere i contagi è nelle agende dei governi di tutto il mondo, insomma, e a Wuhan ancora oggi però lo slogan del partito comunista è quello di “state a casa e uscite solo in caso di necessità”, estrema necessità. La strada purtroppo è ancora lunga. Mentre la nostra puntata termina qui, lunedì prossimo alle 21.20 parleremo invece partendo da un lungo viaggio, dal Mato Grosso, dall’Amazzonia, e andremo a vedere come il cambiamento climatico può contribuire alla diffusione del virus. Bene, adesso rimanete qui, la nostra puntata la potete rivedere sul nostro sito e in replica sabato alle 16.30, ma non andate via perché l’offerta della qualità di Rai3 continua con Massimo Recalcati, “La lucidità dell’odio”. Perché poi odiarsi se fuori c’è la grande bellezza che salverà il mondo, che ci aspetta. Grazie per averci seguito.

Wuhan fase 2. Report Rai PUNTATA DEL 20/04/2020. Come da nostra tradizione andiamo a gettare uno sguardo laddove hanno avuto a che fare con il virus prima di noi. A Wuhan dopo l’apertura dell’8 aprile, c’è la sensazione che anche un’economia forte e potente come quella cinese stia raccogliendo un po’ di cocci, e si aprono le prime crepe.

WUHAN FASE 2 SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora come è nostra tradizione andiamo a gettare uno sguardo laddove hanno avuto a che fare con il virus prima di noi. A Wuhan dopo l’apertura dell’8 aprile, c’è la sensazione che anche un’economia forte e potente come quella cinese stia raccogliendo un po’ di cocci, e si aprono le prime crepe.

VOCE NARRANTE Siamo nel Nord Est di Wuhan. Gli argini delle risaie disegnano i tasselli di un gigantesco mosaico d’acqua. Ma se ti avvicini, una delle ricadute della quarantena sull’economia della zona è questa: centinaia di chili di radici di fiori di loto destinati all’alimentazione marciti. Oltre la metà di quello che doveva essere raccolto galleggia nelle risaie.

UOMO Chi doveva comprare le radici di loto non ce l'ha fatta. Abbiamo perso tutti i clienti. Se il governo riuscisse a trovare un modo per farci vendere i nostri prodotti, potrebbe minimizzare la nostra perdita, ma finora non ha preso alcuna misura. Vedere le nostre radici di loto marcire ci spezza il cuore. È difficile per noi accettare la realtà.

VOCE NARRANTE Sperano che la crisi termini presto. E cominciano a riprogrammare il futuro.

UOMO Ora siamo tornati al lavoro. E se non piantiamo le nostre radici soffriremo ancora di più.

VOCE NARRANTE La Cina ritiene che la pandemia sia partita da un mercato di animali selvatici, per questo ne ha vietato il commercio e il consumo. A Zisiqiao, la maggior parte della popolazione ha vissuto per generazioni allevando serpenti. Ora si trovano da mesi in una profonda crisi economica e di identità. Gli abitanti sperano una volta che l'epidemia sarà conclusa, di riprendere le loro attività.

UOMO Non è semplice vivere in queste condizioni.

VOCE NARRANTE Era grande il suo allevamento di serpenti?

UOMO Io ne allevavo molti prima, ogni famiglia qui alleva serpenti. Questo è noto per essere il villaggio dei serpenti.

VOCE NARRANTE Anche il ristorante che serviva menù a base di carne di serpente è finito sul lastrico.

DONNA MANAGER DI RISTORANTE SPECIALIZZATO IN SERPENTI Questo è il magazzino dove conservavo i serpenti per il ristorante. Per colpa dell’epidemia ora abbiamo sanificato l’ambiente ed è tutto vuoto. VOCE NARRANTE Siamo sulla strada Hanzheng, qualche giorno fa qui si è tenuta una manifestazione. Il 16 aprile i negozi hanno riaperto, ma qui ci sono ancora i sigilli della polizia e molti esercizi sono ancora chiusi.

COMMERCIANTE I nostri vestiti non scadono, se non vendo questi calzini oggi posso venderli domani. Chi vende stock invece, tratta grandi quantità, ogni anno ci sono collezioni differenti, se non vendono quest’anno chi garantisce che il prossimo anno non debbano completamente cambiare l’inventario?

RAGAZZO COMMERCIANTE Noi ci occupiamo di vendite all’ingrosso, ed è indispensabile vendere grandi quantità. In ognuno di questi stand ci sono 2/3 negozi, quindi ci sono circa 1000 esercizi differenti.

RAGAZZA COMMERCIANTE Non c’è nessun negozio aperto. Prima della pandemia qui c’era sempre tanta gente, il fine settimana era impossibile camminare per i corridoi. Gli affari andavano benissimo, per questo motivo l’affitto di ogni negozio era abbastanza caro.

CAMERAMAN Di che cifre parliamo?

RAGAZZO COMMERCIANTE Duecentomila Yuan all’anno, 25.000 euro.

CAMERAMAN E quanto è grande lo spazio all’interno?

RAGAZZO COMMERCIANTE Dai 5 agli 8 metri quadrati.

VOCE NARRANTE Su alcuni negozi è stato incollato questo adesivo. C’è scritto “Debito da saldare, il proprietario del negozio è pregato di presentarsi in direzione munito di documento di identità. RAGAZZA COMMERCIANTE I miei clienti abituali mi hanno contattata per dire che non se la sentono di venire a Wuhan, per cui non so cosa fare con tutti i vestiti che sono ancora in magazzino. Inoltre, ho già pagato l’affitto per tutto quest’anno.

CAMERAMAN Perché quel ragazzo sta uscendo con un sacco pieno di roba?

RAGAZZA COMMERCIANTE Alcuni stanno portando fuori la merce dello scorso anno che è ancora in magazzino, sperando di riuscire a vendere fuori il centro commerciale. Pensa che solitamente questi vestiti venivano venduti a 70 yuan al pezzo. Ora invece sono venduti a 10 yuan.

RAGAZZA COMMERCIANTE 2 Oltre all’affitto del negozio, paghiamo anche l’affitto delle nostre case, il magazzino al piano superiore, le utenze e gli stipendi per il personale.

RAGAZZA COMMERCIANTE Speriamo che qualcuno ci aiuti con l’affitto.

VOCE NARRANTE Solitamente queste vie sono trafficate: auto e furgoni ovunque che caricano e scaricano merci. Ora si ricomincia a vedere solo qualche piccolo carretto. I prezzi dei vestiti esposti sono scontati fino all’80%.

CAMERAMAN Signora, sulla strada c’è poca gente, lei si occupa del trasporto della merce? SIGNORA Sì, io faccio la facchina, ma la gente in strada è pochissima e non c’è lavoro. Prima dell’epidemia quelli come me, che si occupavano di caricare e scaricare la merce per rifornire i magazzini, arrivavano a guadagnare un centinaio di yuan al giorno. Io oggi non ne faccio neanche uno. E sono mesi che per esempio non mi posso permettere di mangiare carne.

VOCE NARRANTE Questo è il centro di Hankou, una delle principali strade commerciali di Wuhan. A cinque minuti a piedi da qui c’è una strada: è chiusa. Di nuovo. Anche questo compound era stato aperto ma da qualche giorno sono rispuntate barriere ai lati della strada. Non lontane, sono parcheggiate alcune ambulanze. Alcuni negozianti che già avevano aperto, per continuare a lavorare si sono “arrangiati” come potevano.

CAMERAMAN Sapete perché ci sono le ambulanze parcheggiate qui fuori e perché le strade sono state nuovamente chiuse?

SIGNORA Io le ho viste anche fuori altri compound.

CAMERAMAN Forse in questo ci sono stati nuovi casi di persone contagiate? SIGNORA A DESTRA Non lo sappiamo, non viviamo qui, lavoriamo qui vicino.

VOCE NARRANTE Questa invece è una strada pedonale nel cuore della città vecchia. Solitamente c’è molta gente che passeggia, ma oggi la strada è quasi deserta.

CAMERAMAN Siete di Wuhan?

UOMO Si. CAMERAMAN Vostro figlio ancora non ha ricominciato ad andare a scuola?

DONNA Dovrebbe frequentare il sesto anno, ma non può ancora tornare in classe.

UOMO A noi piaceva molto viaggiare, ora però non possiamo andare da nessuna parte. Abbiamo paura che essendo di Wuhan molti hotel non ci accettino.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Un giovane venditore dice: "Il mondo ha paura della Cina, la Cina ha paura di Wuhan. Hanno già telefonato alcuni clienti che dicono: non veniamo a comprare la merce da voi. Abbiamo paura. Soprattutto perché poi se veniamo a Wuhan dobbiamo affrontare una quarantena”. Ecco, sembra di assistere agli effetti raccontati nel libro “Cecità” di Saramago, dove un’epidemia che colpisce la vista genera delle reazioni inaspettate sulla popolazione; genera panico, violenza, terrore, soprattutto sono gli effetti della patologia sulla convivenza sociale che sono devastanti. "Non si può mai sapere in anticipo di cosa siano capaci le persone, bisogna aspettare, dar tempo al tempo, è il tempo che comanda, e il tempo è il compagno che sta giocando di fronte a noi, e ha in mano tutte le carte del mazzo, a noi ci tocca inventarci le briscole con la vita, la nostra”. La Cina in questo momento è alle prese con il riconteggio dei morti e anche con un’accusa, quella di essersi fatta scappare il virus da un laboratorio.

Il ''pacco della salute'' che la Cina invia agli studenti in Italia. L'ambasciata cinese in Italia ha inviato a molti studenti cinesi un ''pacco di salute''. Al suo interno, tra mascherine e gel disinfettanti, anche una medicina tradizionale per mitigare i sintomi del coronavirus. Federico Giuliani, Venerdì 17/04/2020 Il Giornale. Una medicina tradizionale cinese per aiutare a mitigare gli effetti del nuovo coronavirus. Che si tratti dell'ennesima leggenda metropolitana oppure, questa volta, l'ipotesi è sorretta da un fondo di verità? È ancora presto per avere certezze ma intanto l'ambasciata cinese in Italia ha inviato un ''pacco di salute'' a molti studenti cinesi rimasti nel nostro Paese. Al suo interno, tra mascherine e gel disinfettanti, è presente anche questo particolare farmaco. Partiamo dall'inizio. In questi giorni complicati sulla rete circola di tutto. Soltanto poche settimane fa si era sparsa la voce che in Giappone esistesse un farmaco miracoloso capace di far guarire i malati dal Covid-19: l'Avigan. Il medicinale, in realtà, è stato approvato in Giappone nel 2014 ma non è stato scelto specificatamente per trattare il nuovo coronavirus, né, al momento, può essere venduto al pubblico. Non è inoltre distribuito nelle farmacie ed è controllato dal governo, che deve autorizzarne l'uso. Tokyo ha deciso di provarlo, ma in modo limitato e sotto controllo.

Il ''pacco della salute'' donato dall'ambasciata cinese in Italia. Bene, di presunti farmaci miracolosi in grado di debellare il Covid-19 è pieno il web. Ma questa volta vale la pena approfondire la questione. Altro giro, altra corsa. Siamo sempre sui social, per la precisione sulla piattaforma TikTok. In un filmato, una ragazza cinese mostra un ''pacco della salute'' ricevuto dall'ambasciata cinese in Italia. In giro per il mondo, dalla Gran Bretagna alla Germania, le ambasciate cinesi si sono date da fare per distribuire alcuni kit salva vita e materiale per la prevenzione agli studenti cinesi residenti all'estero. Tornando alla nostra clip, la ragazza svela il contenuto del pacco: mascherine Ffp2, mascherine chirurgiche, fazzoletti disinfettante e una non meglio specificata ''medicina tradizionale cinese'' utilizzata in ''Cina per curare il Covid-19''.

La medicina tradizionale cinese. Di che cosa si tratta? Sulla confezione c'è scritto Lían Hua qing wen Jiao nang, ed è un antiinfiammatorio formato da varie erbe, tra cui lian qiao, jin yin hua, zhi ma huang e altre ancora. Solitamente viene utilizzato per combattere raffreddore ed influenza, ma il medicinale è stato usato anche per trattare casi lievi di Covid-19. Un altro medicinale appartenente alla farmacia tradizionale cinese, sottolinea Luciosotte, è il Qing Fei Pai Du Tang. Come sottolinea il portale, questo è un farmaco che in Cina è stato distribuito ai pazienti con interessamento polmonare in corso da infezione di coronavirus, soprattutto quando non era possibile fare una diagnosi più specifica a causa della confusione creatosi negli ospedali. Il Qing Fei Pai Du Tang non sarebbe altro che un assemblaggio di più formule, la cui origine risalirebbe addirittura ad un antico trattato risalente al II secolo d.c. Le formule originali mescolate sarebbero quattro: Decotto Minore di Bupleurum, Polvere dei Cinque Ingredienti e Poria, Decotto di Belmacanda ed Efedra e Decotto di Ephedra, Ameniaca, Gypsum e Glycyrrhiza. Secondo quanto riferito dall'Ansa, che richiama l'agenzia Xinhua, in Cina l'osservazione clinica ha mostrato che la medicina tradizionale cinese si è dimostrata efficace nel trattamento di oltre il 90% di tutti i casi confermati di Covid-19. I dati, tra l'altro, sono stati diffusi da Yu Yanhong, responsabile del Partito dell'Amministrazione Nazionale della Medicina Tradizionale Cinese. Il signor Yu ha dichiarato che la prescrizione di medicina tradizionale cinese avrebbe alleviato i sintomi della malattia, rallentato la sua progressione, migliorato il tasso di guarigione, abbattuto la mortalità e favorito la guarigione dei pazienti. In attesa di un vaccino anti Covid-19 adesso si fa strada pure la pista che porta alla medicina tradizionale cinese, anche se i dubbi continuano a essere tanti.

Francesco Tortora per corriere.it il 16 aprile 2020.

L'incredibile performance. La fase 2 in Cina è iniziata alla grande, almeno per il comparto del lusso. Lo dimostra la performance della nuova boutique di Hermès a Canton che sabato scorso ha riaperto i battenti dopo le interminabili settimane di lockdown. Secondo quanto scrive il magazine americano "Women's Wear Daily" in un solo giorno l'atelier della maison francese ha registrato un incasso di 2,7 milioni di dollari (circa 2,5 milioni di euro), fatturato mai raggiunto prima da un negozio in Cina.

Nuova sede. I ricchi cinesi sono arrivati in massa nella nuova sede di quasi 2 mila metri quadrati, precedentemente occupata da Prada, attratti soprattutto dalla Himalayan Birkin, borsa tempestata di diamanti e creata dalla maison francese appositamente per l'occasione.

Le spese pazze dell'influencer. L'influencer Atomniu, molto popolare in Cina, ha pubblicato diverse foto nel negozio e ha dichiarato di aver speso quasi 1 milione di renminbi (circa 130 mila euro). Tra i beni che ha portato a casa ci sono una Birkin 30 in coccodrillo nero, vestiti e scarpe.

Il comunicato. La maison ha rilasciato un breve comunicato: "Questa riapertura - si legge nella nota - conferma l'impegno del marchio in Cina meridionale e segna un nuovo capitolo per la casa parigina a Canton, dove è presente dal 2004".

Indicatore. Gli esperti di economia stanno tenendo d'occhio la Cina ora che è iniziata la graduale riapertura delle attività. La risposta dei consumatori dell'ex Celeste Impero è un interessante indicatore per comprendere come potrebbero comportarsi anche gli italiani una volta completato il periodo di quarantena.

Vendite record e "revenge spending". Le vendite record di Hermès suggeriscono che i ricchi cinesi sono pronti a una nuova fase di «revenge spending» (spesa di vendetta): dopo lunghi mesi dedicati ai consumi essenziali, ora vogliono «consolarsi» con acquisti di lusso. Il «revenge spending» fu un'espressione lanciata negli anni '80 per descrivere la fame di prodotti stranieri che in Cina erano stati a lungo proibiti fino a quando Deng Xiaoping non aprì il Paese all'economia di mercato.

Dagospia il 16 aprile 2020. Dalla rassegna stampa di epr comunicazione. Articolo di Bloomberg. Più gomma, meno ferro: il trasporto post emergenza Covid 19, scrive Bloomberg. All'inizio di quest'anno, i volumi di traffico giornaliero di veicoli in autostrada in Cina sono stati inferiori a quelli dell'anno precedente grazie alla riduzione dell'attività durante il blocco. All'inizio di marzo, tuttavia, il traffico giornaliero cinese era costantemente superiore a quello dell'anno precedente. Anche l'acquisto di auto a Wuhan, l'epicentro originario di Covid-19 e la prima città ad essere isolata per impedirne la diffusione, ha fatto registrare una ripresa. Come ha detto un rappresentante commerciale di Audi AG: "È come un boom dopo due mesi di inattività. Pensavo che le vendite sarebbero state congelate". C'è un'eccezione all'aumento del traffico autostradale cinese: il festival di Qingming , quando il numero di auto in circolazione era molto inferiore a quello di un anno prima. Questo suggerisce che le persone fanno più spostamenti in auto, ma riducono comunque i loro spostamenti per le vacanze.  Gli operatori dei trasporti pubblici statunitensi, stanno iniziando ad adeguare il servizio di conseguenza. Secondo la giornalista specializzata in  trasporti del Los Angeles Times Laura Nelson, il personale della Metro stima che i tagli rappresentino una riduzione del 29% annuo del servizio di autobus e del 14% annuo del servizio ferroviario. Covid-19 ha portato a cambiamenti che gli urbanisti una volta sognavano. La città di Oakland, California, ha designato 74 miglia di strade di quartiere solo per "biciclette, pedoni, persone su sedia a rotelle e veicoli locali". Il ministro dei trasporti della Nuova Zelanda ha annunciato che il Paese finanzierà il 90% del costo delle piste ciclabili e dei percorsi pedonali.  Ma quando usciremo dai nostri lunghi giorni feriali che sembrano domeniche, la gente ricomincerà a muoversi. L'esempio della Cina suggerisce che il traffico automobilistico personale rimbalzerà, probabilmente non succederà altrettanto col trasporto su ferro.

Francesco Bonazzi per ''la Verità'' il 12 aprile 2020. Già il coronavirus era un' arma batteriologica degli americani, ma ora, dopo che grazie al coraggioso impegno del Partito comunista cinese l' epidemia è stata quasi debellata in tutta la Cina, se in alcune zone c' è una seconda ondata è colpa degli stranieri. Anche di quelli che non se ne sono mai andati. E gli italiani sono i primi a essere guardati con sospetto. Ancora un mese, e l' avremo inventato noi, il Covid-19. A parlare con i nostri connazionali che vivono nel Sud della Cina, si raccolgono racconti tra l' incredulo e lo sconsolato. E del resto anche il console generale a Canton, Lucia Pasqualini, nei giorni scorsi ha registrato il cambio di clima ed è dovuta intervenire pubblicamente, chiedendo di «non dare la colpa agli stranieri» e di continuare ad andare tranquillamente nei locali italiani. La Pasqualini è stata molto vicina ai cinesi. Quando questi sono stati oggetto di qualche episodio di razzismo in Italia e quando in Cina c' era ancora una parvenza di senso di colpa, adesso totalmente sparita grazie ai «successi» del governo di Pechino nella lotta alla pandemia e ai generosi invii di materiale sanitario anche in Italia, la diplomatica italiana aveva fatto sentire tutta la vicinanza della comunità italiana di Canton. Intervistata da un giornale online locale GdToday, il 14 febbraio la Pasqualini aveva detto: «Siamo contro ogni forma di razzismo e discriminazione. Fobie e paure sono come malattie, seminate da Internet e dai social media. Dovremmo lavorare insieme per creare più comprensione reciproca tra i popoli». Ma nel frattempo le cose devono essere un po' cambiate se nei giorni scorsi, su Gdio News, la stessa Pasqualini ha affermato: «Abbiamo sempre sostenuto l' impegno delle autorità nel contenimento del virus. Il virus non ha confini e non fa distinzioni tra i popoli. Questa pandemia deve essere affrontata con spirito di collaborazione e solidarietà». E fin qui, tutto bene. Ma poi arriva la sottolineatura amara: «Spiace constatare che negli ultimi tempi gli stranieri vengano incolpati di portare in Cina un virus di cui non si conosce ancora con certezza definitiva l' origine, ma che ha colpito duramente all' inizio questo Paese prima di altri. L' accanimento su chi di volta in volta viene colto dalla malattia non è il modo per risolvere il problema». Chi vive in Cina non ha pieno accesso a Internet, le chat sono controllate e uno dei pochi mezzi per parlare con i nostri connazionali di temi delicati è Skype, in italiano. Un ristoratore laziale che ha un' attività a Canton non nasconde né il fastidio né la preoccupazione. «Leggo sui siti dei giornali italiani notizie che sono principalmente traduzioni di Xinhua, Global Times e Cctv, oppure che arrivano da personaggi che hanno grossi interessi in Cina come calciatori o simili», attacca P.D, «ma la situazione qui è tutt' altro che migliorata». C'è il noto problema delle statistiche ufficiali (e tardive) su morti e contagi e tutto quello per cui, da qualche secolo, almeno in Occidente, è risaputo che conviene vivere in una democrazia. Il nostro connazionale è un fiume in piena: «Siamo sempre bloccati, altroché. Sono appena uscito da una quarantena che mi ha imposto la polizia, lo scriva così, la polizia, solo perché sono italiano. E ormai quasi non esco lo stesso per paura di farmi vedere». Non va meglio a Nanning, 6,5 milioni di abitanti e Capitale della regione autonoma del Guangxi (la «Florida della Cina» per il clima sempre mite), non lontano dal Vietnam. Anche qui riusciamo a parlare con un italiano, un veneto, che ha un' attività commerciale e conferma un certo accanimento: «Noi stranieri veniamo messi in quarantena arbitrariamente dalle autorità locali e abbiamo restrizioni sulle libertà personali». Per esempio? «Se voglio andare in un' altra città, nonostante abbia l' app per la salute sbandierata anche in Italia e che traccia i miei movimenti, succede che ogni provincia ne ha una differente quindi in ogni posto in cui vuoi spostarti devi fare 14 giorni di quarantena alla volta». Se non fosse un dramma, ci sarebbe quasi da ridere per una certa analogia tra Cina e Italia sul fronte del «regionalismo». Molti italiani hanno protestato con i vari consolati, ma le nostre rappresentanze diplomatiche non possono certo far togliere le quarantene ai singoli. Di sicuro, è antipatico subire discriminazioni solo perché gli stessi media locali che dapprima hanno indicato l' origine del virus in una fantomatica arma batteriologica americana, adesso hanno puntato sull' Italia come punto di origine del virus. Alla Verità raccontano anche la storia di una cittadina britannica che frequenta la comunità italiana di Nanning e che, suo malgrado, è diventata una piccola celebrità tra gli stranieri. La signora K. ha dovuto fare tre test al virus e ben quattro quarantene. Per tornare a casa ha preso un treno con cuccetta, in stazione le hanno misurato la febbre e l' hanno fatta partire, ma con un poliziotto tutto per lei, che la controllava e impediva ai cinesi di parlarle. Arrivata a casa, l' hanno portata al suo appartamento in ambulanza e a sirene spiegate e ora i vicini la guardano come una lebbrosa. La storia della signora inglese, del resto, è perfetta per la propaganda del Pcc. I media cinesi, ormai, tentano di far passare con insistenza la «notizia» che esistono solamente i contagi di «ritorno», accusando in sostanza gli stranieri per un virus che è made in China, che si è sviluppato nei folli mercati alimentari di animali vietati e che è stato «comunicato» al mondo con oltre un mese di ritardo e dopo aver richiamato in Cina materiale sanitario da tutto il mondo.

Guido Santevecchi per corriere.it il 2 aprile 2020. Ritorno alla vita normale, vicini ai colleghi di scrivania e ai compagni di banco a scuola, immersi nel meraviglioso affollamento, tutti appiccicati come sardine sull’autobus o in metro. Potrebbe anche non essere proprio così la nostra vita dopo la pandemia. Potrebbe sconsigliarcela, una vita senza costanti precauzioni aggiuntive, l’ipotesi «seconda ondata» del coronavirus che sta allarmando l’Asia. Osservando la strategia attuata da Pechino, Hong Kong, Tokyo, Singapore, Wuhan ci si rende conto che il contrasto dell’epidemia da Covid-19 avviene a fasi. Quella più drastica è ormai nota in tutto il mondo come «lockdown», la chiusura generale, la quarantena collettiva per milioni di persone con le attività economiche sospese e i cittadini in casa. Ma quando la curva dei contagi finalmente si appiattisce, le autorità debbono continuare a imporre precauzioni che cambiano la socialità e il modo di muoversi della gente. Hong Kong finora dal punto di vista sanitario ha resistito: nella fase più grave dell’epidemia si è sigillata per evitare il contagio dal resto della Cina; quando il peggio è passato ha richiamato al lavoro gli impiegati della City finanziaria. Ora che teme un’ondata di ritorno, contagi di nuovo importati e coronavirus rimesso in corsa, ha dichiarato una nuova stretta, non lockdown ma chiusura per due settimane della vita notturna, dai pub ai ristoranti, dai karaoke alle sale di mahjong (il gioco da tavolo più amato dai cinesi). Anche lo storico ippodromo di Happy Valley, che con gli enormi incassi per le scommesse è il principale contribuente fiscale, opera a porte chiuse: corse senza pubblico e puntate solo online. L’ippodromo era rimasto aperto anche nel 1941 quando Hong Kong era stata invasa dall’armata giapponese, si è arreso al Covid-19 invisibile. I locali pubblici che non chiuderanno dovranno far usare le maschere al personale e controllare la temperatura dei clienti. Nei ristoranti di Hong Kong, per i prossimi 14 giorni, sono ammessi tavoli con un numero massimo di 4 avventori: è stato rilevato infatti che la distanza ravvicinata a tavola riaccende focolai. Le autorità hanno dichiarato che dal 19 marzo 573 casi di infezione sono stati importati dall’estero, ma che 132 sono stati contagi interni tra hongkonghesi (il 23% dunque). E di questi 69 hanno colpito persone che erano state in bar e pub della città. Per evitare questi contatti rischiosi in ambienti ristretti, bar e pub vengono chiusi da venerdì 3 aprile, per 14 giorni. In totale, dall’inizio dell’epidemia, Hong Kong ha registrato 802 casi di Covid-19, pochi in una popolazione di circa 7,2 milioni di residenti, ma sufficienti a mantenere alto il preallarme. Di particolare interesse anche per l’Italia la gestione degli ingressi a Hong Kong, considerando che la città non vive solo di alta finanza ma anche di turismo. L’aeroporto resta semideserto, per evitare lo sbarco o il transito di viaggiatori internazionali in arrivo da Paesi a rischio. «La strategia chiusura-riapertura controllata è decisiva in questa fase, le misure di controllo dovranno continuare con varie gradazioni fino a quando non si verificherà una di queste due circostanze: lo sviluppo naturale di immunità nella popolazione, causata da infezione e guarigione; la scoperta e la diffusione di un vaccino affidabile». La strategia di lungo periodo è di Gabriel Leung, preside di medicina alla University di Hong Kong, un luminare nel campo delle epidemie da coronavirus, essendo stato in prima linea contro la Sars nel 2002 e 2003. Conclusione del professor Leung: passeremo attraverso “diversi cicli” di rilassamento e strette nelle misure di contenimento prima di trovare la soluzione definitiva (le sue considerazioni si possono leggere integralmente su The Atlantic.

Remo Sabatini per "leggo.it" il 31 marzo 2020. Neanche il tempo di abbassare le mascherine anti-Coronavirus che, in Cina, tornano i mercatini dell'orrore. Da Guilin, località nel sud ovest del Paese, fino a Dongguan, più a sud, la merce in vendita continua ad abbaiare e non solo. Sì perchè come vi fosse stato un balzo temporale all'indietro di un paio di mesi, cani e gatti, scorpioni e serpenti, i famigerati pipistrelli e chissà cos'altro, come documentato da alcuni corrispondenti del Daily Mail, sono tornati ad occupare le solite gabbie strette e arrugginite che forse, durante le scorse settimane di emergenza sanitaria, non hanno mai lasciato. E allora eccoli di nuovo lì, mentre si contano ancora i morti, come nulla fosse accaduto, gli animali sono di nuovo appiccicati uno sull'altro. Aspettano di finire in padella, alla brace o nelle zuppe e in chissà quale altro manicaretto. Alcuni di loro saranno addirittura trasformati in miracolose pillole e polveri che però, non curano neanche un raffreddore.     

DAGONEWS il 21 aprile 2020. Per molte persone i topi sono ospiti indesiderati in casa. Ma in Cina possono essere una prelibatezza da gustare. Tra le prelibatezze cinesi figurano i ratti da bambù, allevati da migliaia di famiglie povere e osannati dagli chef su internet che lo hanno reso un piatto celebre anche tra i millennials, fino a quando la pandemia non ne ha fermato il commercio. I ratti di bambù cinesi sono noti per la loro corporatura massiccia, possono pesare fino a cinque chilogrammi e crescere fino a 45 centimetri di lunghezza. Non sono un piatto nuovo nel Paese visto che il consumo risale alla dinastia Zhou (1046-256 a.C.). Secondo la medicina tradizionale cinese, la loro carne può disintossicare il corpo e migliorare le funzioni dello stomaco e della milza. Una tradizione culinaria che va avanti da secoli e che è cresciuta in modo esponenziale in Cina nel 2018, quando due giovani uomini della provincia di Jiangxi hanno iniziato a caricare video del loro allevamento. Gli allevatori cinesi avevano ripreso con forza ad allevarli negli anni '90, ma gli animali sono tornati in voga sulle tavola con i "Hua Nong Brothers" che, con i loro video sui social in cui mostrano 100 modi per poterli cucinare, li hanno resi un piatto appetibile anche tra i millennials. I due, con oltre tre milioni di fan sulla piattaforma video Watermelon, hanno escogitato diversi motivi per mangiare i topi e mostrano agli spettatori come macellarli e cucinarli.  Nel 2018, le loro clip si sono rivelate così popolari che sono diventate un argomento di tendenza su Weibo, l'equivalente cinese di Twitter. Oggi i ratti da bambù possono valere oltre 100 euro per coppia viva o quasi 40 euro al chilo. Su YouTube, lo chef cinese e food writer Wang Gang, che ha 1,35 milioni di seguaci, mostra ai suoi spettatori come cucinare ratti del bambù fritti in un video che è stato visto più di sei milioni di volte. Quando è scoppiata l’epidemia di coronavirus, c'erano circa 25 milioni di ratti del bambù allevati in varie fattorie cinesi, principalmente nelle zone meridionali del paese, come il Guangxi e il Guangdong, dove i residenti amano il piatto. Nel Guangxi, una provincia in gran parte agricola con circa 50 milioni di persone, oltre 100.000 persone stavano allevando circa 18 milioni di topi del bambù secondo il China News Weekly.

A.M. per “Libero quotidiano” il 5 aprile 2020. Bile d' orso e corna di capra condite con erbe medicinali come capirfoglio e forsizia. I cinesi oramai si fidano più della pozione magica tramandata dalla loro medicina tradizionale che dei trattamenti consigliati dalla loro sanità pubblica, della quale hanno costatato il fallimento. Lo avevano provato anche un secolo fa, nella versione "vegana" dello yin qiao san, per curare l' influenza spagnola, salvo poi scoprire che si trattava soltanto di un placebo, forse efficace per rincuorare i pazienti e convincerli che guariranno, ma inutile dal punto di vista farmacologico. Le autorità sanitarie cinesi hanno autorizzato infatti una cura a base di bile di orso per trattare i casi più critici di Covid-19, riferisce l' emittente britannica Bbc, riportando il via libera della Commissione sanitaria nazionale al Tan Re Qing, che consiste in iniezioni contenenti bile d' orso, corna di capra e piante. Sempre meglio delle false cifre fornite dal regime di Xi Jinping, per chi aveva dovuto sperimentare l' effetto letale della menzogna ben prima che i servizi segreti Usa qualche giorno fa rivelassero al presidente Donald Trump come Pechino abbia sottostimato sia i casi totali di contagio sia i decessi causati dal Covid 19. Secondo uno studio dell' università inglese di Southampton, se la Cina avesse agito in modo responsabile una, due o tre settimane prima, il numero dei contagiati dal virus sarebbe stato minore rispettivamente del 66%, dell' 86% e del 95 per cento. E ora sul resto del mondo non si stenderebbe l' ombra della morte. Neghino pure la realtà, sostenendo che la pandemia scoppiata nella provincia cinese di Hubei alla fine del 2019, ha causato la morte di appena 3.207 persone e 82.543 casi di infezione. Ma che il comunismo possa coincidere con il progresso dell' umanità è un mito sfatato ogni giorno che il coronavirus ci lascia ancora campare. Ora pare che il metodo di Pechino sia la panacea di tutti i mali. Non la pensano così i cinesi, che hanno visto fallire l' esperimento di contenimento totalitario, che ora fa temere una seconda ondata di contagi proprio nell' epicentro dell' epidemia, Wuhan. Ora pensano piuttosto di tornare indietro, per ripartire da dove hanno sbagliato strada. Meglio ispirarsi al confucianesimo, che almeno provoca meno disastri, carestie e stermìni dell' ideologia maoista. E, già che ci sono, si rifanno alla scienza medica cristallizzata da secoli, che tuttavia sacrifica la vita degli orsi bruni, minacciandoli di estinzione. Nella logica dell' emergenza, per disperazione, si coltiva anche l' illusione che sacrificare una bestia possa salvare una vita umana. Ma un' evidenza sperimentale rimane cosa diversa da una credenza popolare.

Ilaria Floris per adnkronos.com il 6 aprile 2020. "Mettere al bando i wet market, mostrando alle persone il ruolo che questi mercati hanno avuto nelle epidemie passate e rivelare la crudeltà inflitta agli animali con queste pratiche". Questo è l’obiettivo della campagna di Animal Equality, l’organizzazione animalista internazionale che, attraverso una petizione alle Nazioni Unite, chiede di vietare i mercati di carni animali come quello - oramai tristemente famoso - cinese di Wuhan. "In meno di 24 ore, la petizione è già vicina alle 100mila firme, solo in Italia abbiamo superato le 25mila - spiega all’Adnkronos Matteo Cupi, direttore esecutivo di Animal Equality Italia- Noi crediamo che l’Onu possa far pressione su questo tema". Si tratta, spiega Cupi, "di un discorso culturale, nei paesi asiatici (e anche in Africa, ndr) vengono mangiati quasi tutti i tipi di animali. Ma non essendoci nessun tipo di regolamento, gli animali vengono brutalmente macellati per clienti che desiderano mangiare questo tipo di carne fresca". Inoltre, c’è il discorso relativo alle condizioni igieniche. "Stiamo parlando di animali che vengono tenuti rinchiusi insieme in gabbie molto piccole e molto sporche - dice ancora Cupi - e questo crea terreno fertile per quelle che sono chiamate malattie zoologiche, che a lungo andare diventano una minaccia per la salute pubblica, tanto che in passato sono stati anche fonte di epidemia. Sars e influenza suina sono due esempi di epidemia che hanno avuto origine dagli animali che poi sono arrivati all’essere umano causando pericolosi focolai". Per quanto riguarda il Covid-19 le origini non sono ancora chiare, "ma - osserva il direttore di Animal Equality - molti scienziati e ricercatori credono che tutto sia partito dal mercato del pesce di Wuhan". L’organizzazione mette a disposizione alcuni impressionanti video che mostrano le condizioni igieniche di questi mercati, tra cui anche quello di Wuhan. "Spiego un’ultima cosa: si chiama wet market perché il sangue e le viscere degli animali quando vengono macellati cadono per terra e bagnano i pavimenti delle bancarelle. E’ un gesto di folklore che viene particolarmente apprezzato dagli appassionati".

Cina, Wuhan vieta caccia e consumo di fauna selvatica, stop per 5 anni. Cecilia Lidya Casadei il 21/05/2020 su Notizie.it. Wuhan, Cina, vieta la caccia e il consumo di animali selvatici per almeno 5 anni. I bracconieri tremano. La Cina, più precisamente a Wuhan, vieta caccia e consumo di animali selvatici per 5 anni. Un’altra svolta storica per il Paese, che poco prima aveva vietato la vendita di carne di cani e gatti nei wet market locali, chiusi temporaneamente a seguito della pandemia Coronavirus. La città epicentro della pandemia ha sancito, pubblicando un comunicato ufficiale sul sito web del Governo, la fine temporanea della caccia, che spesso si traduce in bracconaggio, pratica illegale in tutto il mondo. Nei mercati della carne cinesi e indonesiani non è raro infatti vedere sul banco animali selvatici come pipistrelli, serpenti di ogni misura, alligatori e addirittura pangolini. Al mercato Huanan di Wuhan non si vedrà niente di tutto ciò per almeno 5 anni. La nuova normativa vuole tutelare la fauna esotica, soprattutto quella in via d’estinzione, vigilando inoltre sugli allevamenti di animali selvatici e cercando di sensibilizzare i cittadini. Sono partite infatti alcune campagne pubblicitarie per educare ed informare la popolazione sulla protezione della fauna. Da febbraio 2020, la Cina ha rafforzato la sua battaglia per la repressione della caccia illegale e sfruttamento degli animali selvatici, sotto la direzione della National Forestry and Grassland Administration. Secondo la United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC), sono circa 7mila le specie minacciate dalla pratica del bracconaggio, per un business che si aggira tra i 7 e i 23 miliardi di dollari l’anno. I bracconieri ora si spera verranno in maggior parte dissuasi dal giro di vite operato dal Governo cinese.

A Shenzhen vietato mangiare cani e gatti: rivoluzione post coronavirus. Riccardo Castrichini il 02/04/2020 su Notizie.it. Shenhzen vieta di mangiare cani e gatti dopo il coronavirus, è la prima città a farlo in tutta la Cina. Dopo l’esplosione della pandemia di coronavirus, Shenzhen è la prima città in Cina a vietare ai propri cittadini mangiare cani e gatti. La decisione sarebbe arrivata dopo che diversi scienziati hanno segnalato come l’inizio dell’emergenza Covid-19 sarebbe collegata alla commercializzazione di carne di animali selvatici in molti mercati del paese. Un cambiamento importante per la cultura cinese, che tradizionalmente consente il consumo di carne di quelli che in Occidente sono considerati animali da compagnia (un’usanza che il governatore del Veneto Zaia aveva connesso proprio all’epidemia di coronavirus, scatenando polemiche). Stando ai dati diffusi dalla Humane Society International, in Asia verrebbero uccisi ogni anno circa 30 milioni di cani a scopo alimentare, di cui 10 milioni nella sola Cina. Sarebbero invece 4 milioni i gatti. L’amministrazione della città di Shenzhen ha affermato che “i cani e i gatti domestici hanno stabilito un rapporto più stretto con gli uomini di altri animali e vietare il consumo della loro carne è una pratica comune nei Paesi sviluppati, e a Hong Kong e Taiwan. Questo divieto risponde anche alla richiesta e allo spirito di civilizzazione”. Inoltre, secondo il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie, l’uso di cani e gatti a scopo alimentare in Cina non sarebbe collegato ad una mancanza di carne in quanto “il pollame, il bestiame e il pesce disponibili sarebbero sufficienti”. Per quanto limitata ad una sola città della Cina, la scelta adottata a Shenhzen ha ricevuto il consenso di molti gruppi che si battono per il benessere degli animali. Un piccolo passo verso quella che si spera possa presto diventare una pratica comune in tutta la Cina, così come in tutta l’Asia.

Filippo Santelli per "repubblica.it" il 30 marzo 2020. Da una parte la provincia dello Hubei, liberata dalla quarantena dopo due mesi, da cui molti cittadini premono per uscire. Dall’altra lo Jiangxi, le cui autorità temono un’invasione, di persone e virus. In mezzo, un lunghissimo ponte sul Fiume Azzurro, a segnare il confine tra i rispettivi territori. Venerdì quel ponte, molto più di una barriera amministrativa, è diventato il luogo di disordini violenti, che testimoniano il livello di tensione accumulato in queste settimane di isolamento all’interno e ai margini del focolaio dell’epidemia di coronavirus. I video circolati online mostrano un faccia a faccia, a tratti degenerato in corpo a corpo, tra le forze di polizia e i cittadini delle due province confinanti. A incendiare le proteste, secondo le ricostruzioni di alcuni testimoni (per ora non confermate dalle autorità), sarebbe stato il tentativo degli agenti dello Jiangxi di bloccare i viaggiatori provenienti dallo Hubei, creando un posto di blocco non autorizzato al confine. Martedì il governo ha ufficialmente “liberato” la provincia epicentro dell’epidemia, ad eccezione del capoluogo di Wuhan. Dopo essere rimasti isolati dal 23 gennaio, i cittadini dello Hubei che vivono o lavorano in altre province della Cina possono uscire dai confini, purché muniti di un certificato, cartaceo o digitale, in grado di attestare che non sono contagiati. Per gli abitanti della contea di Huangmei, nello Hubei, è un po’ più complesso: la stazione ferroviaria più vicina infatti si trova oltre il Fiume Azzurro, nella contea di Jiujiang, provincia dello Jiangxi. Per facilitare e controllare questo flusso, scrivono i media locali, le autorità di Jiujiang hanno organizzato delle navette che attraversano il confine. Venerdì mattina però qualcosa non ha funzionato. Secondo alcuni testimoni, che hanno pubblicato dei video sui social, la polizia di Jiujiang avrebbe creato un posto di blocco all’ingresso del ponte, impedendo alle vetture con targa dello Hubei di passare. L’azione avrebbe provocato una reazione dei cittadini e della polizia di Huangmei. Un video mostra centinaia di persone, alcune in divisa e altre in abiti civili, marciare sul ponte gridando: “Hubei! Hubei!”. In altri video un fronte di agenti in tenuta antisommossa, probabilmente di Jiujiang, bloccano con gli scudi la folla, che lancia pietre contro i mezzi della polizia e riesce a rovesciarne uno. I poliziotti delle due parti sarebbero addirittura venuti alle mani, le autorità stanno indagando. I disordini sembrano in ogni caso essere rientrati nel pomeriggio. Un uomo che in un video si identifica come Ma Yanzhou, capo del Partito comunista di Huangmei, invita la folla (senza mascherine, notano i media ufficiali) a disperdersi, assicurando che discuterà la situazione con i responsabili della provincia dello Jiangxi. L’incidente però, uno dei più eclatanti verificatisi finora, testimonia l’esasperazione dei cittadini dello Hubei, molti dei quali stanno facendo fatica a ottenere le certificazioni necessarie per uscire della provincia o a trovare i mezzi di trasporto per raggiungere le città in cui lavorano. I video degli scontri, diventati virali sui social media cinesi, hanno provocato un’ondata di indignazione contro le autorità dello Jiangxi, accusate di alimentare lo stigma nei confronti degli abitanti dello Hubei. Nelle scorse settimane i cittadini della provincia bloccati in altre parti del Paese hanno subito episodi di discriminazione da parte dei “locali”. E anche ora che il contagio è stato di fatto contenuto gli altri cinesi continuano a guardarli con sospetto. Ad alcuni di loro che in questi giorni sono riusciti a tornare nelle città dove lavorano è stato impedito di rientrare nelle proprie abitazioni.

Coronavirus, a Wuhan finisce la quarantena tra feste e fuga dalla città. Le Iene News l'8 aprile 2020. L’8 aprile è arrivato e la città è tornata a una parziale libertà: allo scoccare della mezzanotte i palazzi al centro del primo focolaio del coronavirus si sono illuminati a festa. Nel frattempo però le vie d’uscita della città sono state prese d’assalto, e più di 65mila persone hanno lasciato Wuhan nelle prime ore. Sollievo, festa e fuga. A Wuhan è finita, almeno in parte, la grande quarantena che ha tenuto in casa 11 milioni di persone per oltre due mesi. L’8 aprile, come previsto dal governo, alcune delle restrizioni imposte il 23 gennaio: a mezzanotte la città s’è illuminata a festa, come potete vedere nelle immagini qui sopra. Ma a fianco alla gioia c’è stato anche il sollievo di chi è rimasto bloccato a Wuhan in questi mesi e finalmente ha potuto lasciare la città: appena i varchi d’uscita sono stati aperti, moltissime auto hanno lasciato la zona, come potete vedere nelle immagini qui sopra. E all’alba anche i treni e gli aerei sono stati presi d’assalto. Le prime stime parlano di almeno 65mila persone che hanno lasciato Wuhan dall’alba. Wuhan, insieme alla provincia dell’Hubei, è stata la prima zona del pianeta a essere colpita dalla pandemia del coronavirus. Nella regione, secondo le stime ufficiali, sarebbero 3.213 le persone morte e oltre 67mila quelle colpite dal COVID-19. Ci sono però dubbi sulla veridicità di queste informazioni, che secondo alcuni sarebbero state artificiosamente riviste al ribasso dalle autorità di Pechino. Da giorni, comunque, nella zona non si registrano nuovi casi di coronavirus e nonostante la paura di una possibile seconda ondata pandemia la vita inizia a tornare alla normalità. Immagini di speranza anche per noi, nell’attesa che il virus finisca sotto controllo anche in Italia.

Michelangelo Cocco per “il Messaggero” il 9 aprile 2020. Dopo 76 giorni, undici settimane di segregazione domestica, i cinesi di Wuhan ieri hanno potuto finalmente riabbracciare la loro città, uscendo liberamente in strada, incontrando amici e parenti, utilizzando i mezzi pubblici per andare a lavorare. Ad attenderli però gli abitanti del capoluogo della provincia dello Hubei hanno trovato una vita nuova, scandita da ritmi e riti diversi da quelli che si erano lasciati alle spalle il 23 gennaio scorso, quando le autorità avevano imposto alla metropoli attraversata dai fiumi Azzurro e Han un isolamento rigidissimo per fermare l'epidemia di Covid-19. A causa delle misure di distanziamento sociale e dei controlli della temperatura, nella stazione ferroviaria di Wuhan si sono formate code infinite, più lunghe di quelle in occasione dell'esodo per il Capodanno cinese. I viaggiatori coperti con mascherine, guanti e occhiali protettivi - hanno dovuto mostrare sugli smartphone il codice QR che ne attestava lo stato di salute, che non avessero avuto contatti con persone positive al nuovo coronavirus. Oltre 55 mila persone si sono messe in viaggio verso la provincia industriale del Guangdong, Shanghai e altre città ricche che accolgono i lavoratori migranti. Molto più difficile raggiungere Pechino, che permette l'accesso a massimo 1.000 residenti di Wuhan al giorno e solo dopo che si sono sottoposti a un apposito test dell'acido nucleico. Riaperto anche l'aeroporto dal quale sono decollati un centinaio di voli così come le autostrade che collegano la capitale cinese dell'automobile al resto del Paese. Le autorità chiedono comunque ai residenti di rimanere il più possibile nei loro quartieri, di non uscire dalla città né dalla provincia. Moltissimi negozi restano chiusi: alcuni non riapriranno più, altri si risolleveranno grazie ai sussidi . Wuhan ha pagato il prezzo più caro, con 2.571 dei 3.300 morti ufficialmente registrati in Cina. Ieri la propaganda ha celebrato «la solidarietà, la risposta collettiva del popolo, un esempio di guerra popolare». Martedì, per la prima volta dall'inizio dell'epidemia, in Cina non era stata registrata nessuna morte da coronavirus. Ieri sono stati segnalati 62 nuovi contagi, che hanno portato il totale di quelli importati da fuori nelle ultime settimane a 1.042. Preoccupa in particolare la situazione lungo i 4.300 chilometri di confine con la Russia, dove la Cina ha chiuso tutti i posti di frontiera: gran numero di casi sospetti a Manzhouli, nella Mongolia interna. Suifenhe, città con più di 60.000 abitanti della provincia del nordest di Heilongjiang, è chiusa come era Wuhan . La città ha segnato un picco giornaliero di 25 casi importati con i viaggiatori tutti cinesi provenienti dalla Russia. Sempre ieri si è svolta una riunione del Comitato permanente dell'Ufficio politico del Partito comunista per fare il punto sull'epidemia e sull'economia. Il presidente cinese, Xi Jinping, ha rilevato che il problema dei casi importati ha fatto emergere «nuove difficoltà per la ripresa delle attività lavorative e per lo sviluppo economico e sociale del Paese». Pechino ha appena ottenuto un prestito di 350 miliardi di dollari dalla Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali per il sistema sanitario. Fondata nel 2014, la Aiib doveva essere il motore finanziario della nuova via della Seta voluta da Xi, ma sotto l'urto del coronavirus, ci sono nuove priorità nazionali. Unico settore in crescita, l'export di materiali protettivi. Dalla fine di marzo, la Cina riesce a esportare tra 300 e 400 milioni di mascherine al giorno.

A Wuhan finisce la quarantena. E scoppia la rivolta: migliaia contro la polizia. Il Dubbio il 27 marzo 2020. La sommossa spontanea dopo oltre tre mesi di restrizioni delle libertà individuali e di dura repressione da parte delle autorità cinesi. . – Una sommossa spontanea è scoppiata nella regione di Wuhan al confine tra la province dello Hubei e dello Jiangxi, nella Repubblica Popolare Cinese, dove diverse migliaia di cittadini hanno attaccato la polizia, malmenando gli agenti e devastando diversi automezzi delle forze dell’ordine. Le immagini dei disordini, riprese da privati cittadini con i telefonini, sono state veicolate sul web e un video è stato postato anche da Voice of America nell’edizione cinese, come riferisce l’agenzia Agi. La rivolta ha avuto luogo nella contea di Huangmei nello Hubei,sul lungo ponte che attraversa il fiume Yangtze e che conduce alla città di Jujiang, nella provincia dello Jiangxi. La rabbia popolare è scoppiata al termine della quarantena nel territorio dell’Hubei, che conta circa 60 milioni di abitanti di cui 11 sono concentrati nella metropoli di Wuhan, focolaio originario della pandemia di coronavirus. La mitigazione delle restrizioni sanitarie imposte alla provincia cinese (che a Wuhan invece dureranno fino all’8 aprile) ha consentito, dal 25 marzo, la parziale ripresa degli spostamenti individuali. Le autorità locali nello Jiangxi hanno tuttavia condizionato l’accesso ai residenti dell’Hubei alla presentazione di un certificato medico. Stamattina l’applicazione di questa misura avrebbe prima provocato uno scontro fra gli agenti di polizia delle due province, quindi ha dato luogo alla rivolta di massa.Migliaia di cittadini della contea di Huangmei, provati da un isolamento di sessantadue giorni che li ha privati persino delle libertà individuali, si sono diretti sul ponte e hanno sopraffatto gli agenti di polizia dello Jiangxi dando sfogo alle violenze. Per sedare la sommossa è intervenuto il segretario del Partito Comunista di Huangmei, assicurando un confronto con le autorità della città di Jiujiang per risolvere la questione. Le difficoltà dei residenti nella contea di Huangmei, che ora tornano a lavorare fuori della provincia, sono acuite dai collegamenti ferroviari, perchè sono costretti a raggiungere lo snodo collocato nella provincia confinante.

Era scomparso a Wuhan da due mesi, il giornalista ricompare: “Dio benedica la Cina”. Redazione de Il Riformista il 24 Aprile 2020. Si erano perse le sue tracce a Wuhan dallo scorso 26 febbraio. Li Zehua aveva postato dei video drammatici sui social: un inseguimento e un’irruzione, aveva raccontato in presa diretta, nel suo appartamento da parte di agenti di pubblica sicurezza. Il giornalista cinese è ricomparso mercoledì scorso, in un video dove ha dichiarato di essere stato costretto alla quarantena prima a Wuhan e poi a casa sua, in un’altra provincia. Si era recato nella città focolaio del Covid-19 per raccontare l’emergenza causata dal virus. Prima di lui, nella stessa Wuhan, era scomparso un altro giornalista, Chen Qiushi. Li Zehua viene definito dai media internazionali un “citizen journalist” (chi pratica giornalismo partecipativo, in italiano), precedentemente aveva lavorato per il media di stato CCTV. Nei suoi primi video girati a Wuhan aveva spiegato perché si fosse recato nella città: “Prima di arrivare un amico che lavora per un media mainstream cinese mi aveva detto che tutte le brutte notizie sul coronavirus sono raccolte dal governo centrale. I media locali raccontano solo le buone notizie sulla guarigione dei pazienti e via dicendo. Ovviamente, non è certo che questo sia vero, perché è solo ciò che ho sentito dai miei amici”. Le sue corrispondenze da Wuhan – caricate e visualizzate milioni di volte su Youtube, Twitter e piattaforme cinesi – avevano quindi fatto riferimento a dei presunti insabbiamenti sull’emergenza e ai forni crematori pieni. Successivamente il giovane aveva incrociato delle persone a bordo di un pick-up bianco nel distretto di Wuchang che prima gli avevano intimato di fermarsi e poi lo avevano inseguito. Li Zehua si era filmato nella sua autovettura, visibilmente terrorizzato, e aveva postato il video con il titolo SOS. Poi si era rifugiato nel suo appartamento e aveva trasmesso una lunga diretta fino a quando delle persone, ore dopo, non erano entrate. Bbc riporta come queste, qualificatesi come agenzi di sicurezza, abbiano trasportato il giornalista in una stazione di polizia, abbiano preso impronte digitali e campioni del sangue e poi lo abbiano sottoposto a interrogatorio. Li Zehua era stato così dichiarato sospetto di disturbare l’ordine pubblico e quindi costretto alla quarantena per essere stato in “aree sensibili per l’epidemia”. “Durante questo periodo la polizia ha applicato la legge in modo civile, ha assicurato il mio riposo e il cibo”, ha detto Li Zehua mercoledì. “Sono grato a tutte le persone che si sono prese cura e si sono preoccupate per me. Vorrei che tutte le persone che stanno soffrendo per l’epidemia possano a farcela. Dio benedica la Cina. Vorrei che il mondo possa essere unito.” Il Guardian ha fatto notare come il tono e le parole del giornalista, “neutrali e patriotiche”, siano state marcatamente diverse da quelle di febbraio. Non si hanno ancora notizie invece di Chen Qiushi e Fang Bin, altri due giornalisti dei quali si sono perse le tracce a Wuhan nei mesi scorsi.

Paolo Salom per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2020. Questione di criteri. Uno studio, pubblicato dal Lancet, e realizzato dai ricercatori del Dipartimento di sanità pubblica dell' Università di Hong Kong, corregge al rialzo le statistiche sui contagiati da Covid-19 in Cina nel corso di quella che è stata definita la «prima ondata» della malattia. Dunque: se le autorità di Pechino avevano dichiarato poco più di 55 mila positivi al virus, ora da Hong Kong la cifra è corretta al rialzo: 232 mila, ovvero quattro volte le statistiche ufficiali. Lecito immaginare che la stessa proporzione possa essere attribuita ai decessi. Che cosa è successo davvero? Come mai questa variazione così sostanziale? Da notare, intanto, che questo dossier arriva non da una qualche università occidentale, potenzialmente «ispirata» dal proprio governo (o parti di esso) nel mettere in cattiva luce Pechino. Hong Kong, per quanto autonoma, è pur sempre Cina e dunque questi numeri vanno valutati con grande attenzione. I ricercatori hanno dunque analizzato i dati forniti all' Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al 20 febbraio scorso, alla luce delle sette differenti e sempre più accurate definizioni utilizzate, volta per volta, dalle autorità della Repubblica Popolare, per stabilire chi fosse o meno positivo al coronavirus: intensità dei sintomi, luogo di residenza, decorso dell' infezione e altri parametri medici. È proprio in questi criteri che si è stabilita una sorta di ambiguità statistica che ha, alla fine, tenuto sotto controllo la curva ufficiale dei contagi. «Se si fosse applicato - dice lo studio tra l' altro - il quinto criterio per verificare tutti i casi la cifra ottenuta sarebbe stata 232 mila, e non i 55.508 dichiarati». Una differente realtà con una scala decisamente più ripida. E comunque ottenuta con criteri «domestici». Peraltro che i numeri cinesi fossero sottostimati lo avevano denunciato numerose cancellerie occidentali. Il presidente Trump ha più volte messo in discussione la «sincerità» del suo «amico Xi Jinping», arrivando a ipotizzare numeri di contagiati e di deceduti «dieci volte maggiori» di quanto ammesso al mondo. E persino Angela Merkel, leader di un Paese, la Germania, che ha sempre considerato la Cina un partner economico privilegiato (e finora ne è stato il principale interlocutore in Europa), ha messo sul tavolo i suoi dubbi sulla veridicità delle dichiarazioni di Pechino. Rifatti i conti, tuttavia, resta il problema di affrontare una crisi epidemiologica che ormai ha coinvolto il mondo intero: e da tempo non è più soltanto una questione cinese.

Coronavirus, Wuhan rivede i numeri dell’epidemia: 1290 morti in più. Asia Angaroni il 17/04/2020 su Notizie.it. Più di 140mila le vittime nel mondo per coronavirus: intanto Wuhan, focolaio della malattia, ammette 325 casi e quasi 1300 morti non riconosciuti. Negli Usa nuovo record di vittime, con 4.591 decessi in 24 ore. Dall’inizio dell’emergenza sono 33.286 i morti. 671mila i contagiati complessivi. Numeri che spaventano, ma Donald Trump intende riaprire il Paese. Secondo il presidente americano, infatti, “il picco è passato” e vuole allentare le restrizioni imposte per frenare la pandemia. Trump ha fatto sapere, inoltre, che sono in corso indagini sulla possibilità che il virus sia “sfuggito” a un laboratorio di Wuhan, come in tanti credono. L’intelligence e il governo statunitensi stanno esaminando la possibilità che il Covid-19 sia nato in laboratorio a Wuhan (non nel mercato di fauna selvatica) e poi diffuso per errore. Pechino respinge ogni accusa. Secondo le autorità cinesi, infatti, non ci sarebbero “basi scientifiche” a queste teorie. E mentre nel mondo si contano finora oltre 140mila vittime per coronavirus, a sorpresa Wuhan, focolaio della malattia che solo l’8 aprile ha messo fine al lockdown, rivede il numero dei contagi e delle vittime, con un aumento rispettivo di 325 e 1290 unità. Aumentano così i dubbi sulle informazioni rese note dalla Cina e sui reali numeri dell’epidemia. Dalla Cina arrivano nuovi dati sulla pandemia. Si contano 325 contagi in più, portando i casi a 50.333 unità. 1.290 i morti finora non registrati, per un totale di 3.869 persone decedute. Secondo i media locali, la “revisione è conforme a leggi e regolamenti e al principio di essere responsabili verso la storia, le persone e i defunti”. Non si arrestano le polemiche sull’affidabilità delle informazioni rese note da Pechino. Il primo trimestre del 2020 è negativo per l’economia cinese, che conta una contrazione del 6,8% rispetto allo stesso periodo del 2019. Si tratta del primo declino del Pil cinese dal 1992. Da ottobre a dicembre 2019, invece, il Pil cinese era salito del 6%.

Coronavirus, i morti di Wuhan sarebbero molti di più: l’inchiesta. Debora Faravelli il 28/03/2020 su Notizie.it. I morti con coronavirus a Wuhan potrebbero essere molti di più di quelli diffusi dal governo: a insinuare il dubbio un quotidiano cinese. Il Caixin, un giornale finanziario con sede in Cina ha aperto un’inchiesta sul reale numero dei morti con coronavirus a Wuhan. Diversi elementi da esso raccolti potrebbero insinuare il dubbio che i decessi siano molti di più di quelli che compaiono nelle statistiche uffiicali. L’indagine parte dalla testimonianza di un camionista che ha affermato di aver consegnato circa 5.000 urne all’obitorio di Hankou, uno dei principali quartieri della città cinese da cui hanno avuto inizio i contagi. Osservando invece i dati comunicati dal governo si legge che i decessi avvenuti a Wuhan nell’ambito dell’epidemia sono pari a 2.535, su un totale di 50.006 casi positivi. É vero: magari non tutte le urne trasportate avevano un’utilizzo immediato e legato alle persone decedute con coronavirus. Eppure diversi altri elementi suggeriscono una disparità tra i dati reali e quelli comunicati. Tra questi una foto scattata all’intero dello stesso obitorio che mostra sette pile di urne per un totale di 3.500 unità. Stando a quanto riferito la struttura le distribuirebbe al ritmo di 500 al giorno fino al Giorno della Tomba fissato per il 4 aprile. Contando che Wuhan ha sette obitori, se tutti funzionano in questo modo vorrebbe dire che in una decina di giorni le urne consegnate sarebbero oltre 40 mila, un numero ben diverso da quello corrispondente ai morti accertati secondo le statistiche. Inoltre le strutture si sarebbero rifiutate di comunicare il numero di cremazioni svolte a inizio 2020, altra circostanza che mette in dubbio l’attendibilità dei dati.

Coronavirus, lunghe code a Wuhan per ritirare le ceneri delle vittime del contagio. Redazione de Il Riformista il 28 Marzo 2020. Il prossimo 4 aprile in Cina si celebra la festa del Qingming, durante la quale si onorano le tombe dei defunti. È forse anche per questo se centinaia, forse migliaia di persone, si starebbero accalcando in lunghissime code nei pressi dei Funeral Parlour di Wuhan, la città nella provincia dello Hubei che è stato il principale focolaio del coronavirus. È presso queste strutture che le persone starebbero recuperando le urne che contengono le ceneri dei loro cari morti durante il lockdown imposto per contrastare il contagio. Circolano delle immagini su Weibo (una sorta di social network cinese) che ritraggono delle file lunghissime – secondo quanto scritto da alcuni utenti sui social – controllate dalle forze dell’ordine in divisa e in borghese affinché nessuno scatti delle foto. Le code mettono qualche dubbio sul reale numero dei contagi nella città. Una foto mostra una lunga fila che si sarebbe creata pressi del Funeral Parlour nel quartiere di Hankow. I commenti sui social scrivono di file lunghissime e di altrettanto lunghe attese. Le persone, stando sempre ai racconti, verrebbero accompagnate da membri dello staff della struttura o dell’amministrazione locale nel ritiro delle urne. Le immagini fanno sorgere qualche sospetto sul bollettino dei decessi da coronavirus da parte di Pechino. Scrive l’Asian News che “un’altra ‘sala per funerali’ a Wuchang (altro quartiere di Wuhan, ndr) ha annunciato che i familiari possono venire a ritirare le urne con le ceneri dal 23 marzo. Il Funeral Parlour prevede di distribuirne 500 al giorno, fino al Qingming. Questo significa circa 6.500 urne per tutto questo periodo. Wuhan ha sette Funeral Parlour: se si calcola che ognuno di essi distribuirà urne con lo stesso ritmo di quello di Wuchang, si arriva fino a 45.500 urne per la sola città di Wuhan”. Se pure in questo calcolo ipotetico dovessero essere coinvolte le morti che non centrano con il coronavirus, i decessi dichiarati dalla Cina (3.298) solleverebbero comunque dei dubbi. Durante il lockdown i defunti sono stati cremati senza cerimonie funebri. A indagare sulla questione era arrivato a Wuhan il giornalista Lei Zehua, ex presentatore televisivo della CCTV, che aveva raccontato come fossero stati chiesti turni-extra, fino a 19 ore al giorno, ai lavoratori. Del 25enne – del caso si è occupato anche il Guardian – si sono perse le tracce dagli inizi di marzo. Lei Zehua aveva postato dei video live nei quali sosteneva di essere inseguito da qualcuno. “Non voglio restare in silenzio o chiudere i miei occhi e tappare le mie orecchie – dichiarava il giornalista – sto facendo questo perché spero che i giovani possano, come me, svegliarsi”. I suoi video caricati su Youtube e su Weibo sono stati cancellati. Si sono perse le tracce a Wuhan anche di due blogger, Fang Bin e Chen Qiushi. Anch’essi stavano lavorando a Wuhan. “Non è ancora chiaro se siano stati portati via dalla polizia o messi in quarantena forzata”, aveva denunciato a metà febbraio Patrick Poon, ricercatore con Amnesty International, alla Bbc. 

Coronavirus, «in Cina pile di urne cinerarie». Crescono i dubbi sul numero dei morti a Wuhan. Un giornale cinese stima che il numero dei decessi nella città epicentro dell’epidemia sia stato almeno dieci volte più alto della stima ufficiale. E una radio calcola che i caduti siano in realtà 42.000. Guido Santevecchi il 28 marzo 2020 su Il Corriere della Sera. Il 4 aprile è Qingming in Cina. La ricorrenza dei defunti, il Giorno della Pulizia delle Tombe. E anche Wuhan si prepara a celebrarlo, come ogni anno, ma questa volta con un carico di sofferenza e morte reso ancora più pesante dall’epidemia assassina. Ci sono 2.535 defunti in più da onorare in questo Qingming.

Il virus dei sospetti. Tanti sono i cittadini che hanno perso la battaglia con il Covid-19 nell’epicentro del contagio in Cina, secondo la statistica ufficiale. Ma anche intorno a questo numero tragico serpeggia l’altro virus: quello dei sospetti, dei dubbi, che partono dall’origine della nuova malattia (il mercato della carne selvatica di Wuhan), includono la sottovalutazione e le reticenze iniziali da parte delle autorità locali e centrali, arrivano alle dichiarazioni di questi giorni che danno per sconfitto il coronavirus nello Hubei e nel resto del Paese. Circolano sul web cinese foto di casse con le urne per le ceneri dei corpi cremati in questi due mesi. In Cina i defunti si cremano e molte province incoraggiano la gente a seppellire le urne sotto alberi, o a versare le ceneri in mare, altrimenti i cimiteri dovrebbero essere grandi come megalopoli e la terra è troppo preziosa. Con la quarantena stretta imposta dal 23 gennaio, i parenti dei morti non hanno potuto né partecipare alla cerimonia di addio nei crematori, né andare a ritirare le urne. Fatale che si siano accumulate. Ma la rivista Caixin, nota per il suo giornalismo investigativo, ha pubblicato foto di file troppo lunghe davanti alle grandi agenzie di pompe funebri di Wuhan e di cumuli di casse che sembrerebbero in notevole eccesso rispetto all’esigenza di raccogliere le polveri dei 2.535 morti dichiarati dalle autorità.

42mila vittime. È atroce fare conti quando si vedono persone addolorate, accasciate su sedie di plastica ben distanziate le une dalle altre, in attesa che inservienti sigillati in tute bianche, con mascherine e guanti, consegnino le urne. Ma è stato fatto: Caixin ha scritto che 5.000 urne sono state fornite questa settimana in un solo giorno all’agenzia mortuaria Hankou, una delle otto di Wuhan. In totale, le otto agenzie avrebbero cominciato a consegnare dal 23 marzo 3.500 urne al giorno ai parenti, con l’obiettivo di concludere il lavoro il 3 aprile e consentire ai superstiti di celebrare degnamente Qingming. Dodici giorni, per 3.500, farebbe 42.000 vittime, calcola Radio Free Asia. Circola la voce che durante la crisi siano stati fatti affluire nella città assediata dal virus addetti alla cremazione da altre parti del Paese, per tenere gli impianti in funzione 24 ore su 24.

I dubbi. Dunque, le autorità hanno comunicato un numero di decessi inferiore al reale? Non lo sappiamo. Qualcuno dice che Caixin sarà punita per aver messo in dubbio la cifra ufficiale; altri sostengono che le autorità hanno consentito la pubblicazione delle foto per preparare la gente alla diffusione dei numeri effettivi. In guerra ci sono i morti riconosciuti, con i loro nomi incisi sui memoriali collettivi. Ma ci sono anche i dispersi, quelli che non sono mai tornati a casa e che le statistiche si ostinano a non inserire nel bollettino dei caduti, per settimane e mesi. In guerra, sottostimare il numero delle proprie perdite serve ai governi per non deprimere il fronte interno e illudere i soldati che le cose non sono andate così male. Il fronte interno, la popolazione, e i soldati, medici e infermieri sono finiti tutti in prima linea in questa situazione. Non solo in Cina ma in tutto il mondo: anche noi siamo scossi dalle immagini dei camion militari che portano via le bare da Bergamo. Quella contro il Covid-19 è una guerra. L’ha dichiarata Xi Jinping a fine gennaio, definendo il coronavirus «un demone», anche per far passare tra le masse cinesi il messaggio che solo la natura malefica, incorporea e invisibile del male aveva potuto mettere in difficoltà il sistema sanitario governato dal Partito-Stato.

La statistica. Un altro salto nella statistica, fredda e livellata come il tavolo di marmo di un obitorio: a Wuhan nel quarto trimestre del 2019, prima quindi dell’epidemia, sono stati cremati 56.007 corpi. Quante urne non erano ancora state consegnate ai parenti prima del 23 gennaio, quando la città è stata bloccata per la quarantena? E ancora, quanti sono i morti «da» coronavirus e quanti quelli «con» Covid-19 sommato ad altre patologie?

·        …in Giappone.

Da "leggo.it" il 13 maggio 2020. In Giappone è morto il primo lottatore di Sumo a causa del coronavirus. Si tratta di Shobushi, nome d'arte di Kiyotaka Suetake, atleta di 28 anni appartenente alla quarta divisione della categoria, deceduto per complicazioni legate al Covid-19: lo ha reso noto la Japan Sumo Association (Jsa). Il lottatore era risultato positivo il 10 aprile e le sue condizioni si erano aggravate nove giorni dopo, riportano i media locali, tanto da rendere necessario il ricovero d'urgenza in terapia intensiva in un ospedale di Tokyo. Shobushi, che è anche la prima vittima in Giappone del Covid-19 nella fascia d'età tra 20 e 30 anni, era diventato professionista nel 2007. Il suo allenatore ed un compagno di allenamenti sono a loro volta risultati positivi ma le loro condizioni sono migliorate e hanno già lasciato l'ospedale.

Luciana Grosso per it.businessinsider.com il 20 aprile 2020. C’è il Covid 19 in giro e non ci si può stringere la mano, figuriamoci fare sesso a pagamento. Così, anche se, poco se ne parla, uno dei settori più colpiti dalla crisi è quello della prostituzione e del sesso a pagamento, completamente fermo da mesi e senza grandi speranza di ripresa nel breve periodo. Per questo il Giappone ha deciso di dare accesso alle misure di sostegno post CoVid (circa 989 milioni di euro) anche a chi (di entrambi i sessi) si prostituisca. La decisione ha suscitato grande sollievo nel settore, ma anche molte polemiche visto che, in teoria, la prostituzione è illegale in Giappone, anche se, a conti fatti, sembra generi un mercato da circa 24 miliardi di dollari secondo Havocscope , un’organizzazione di ricerca sul mercato nero globale.

Chiede il tampone tre volte, ma lo rimandano a casa con i mezzi pubblici: era positivo. Redazione su Il Riformista il 10 Aprile 2020. Tre volte è andato in ospedale lamentando i sintomi del coronavirus. Tre volte dall’ospedale gli hanno detto di non potergli fare il test e l’hanno rimandato a casa con i mezzi pubblici, e con il rischio di moltiplicare il contagio, senza nessun tipo di assistenza sanitaria. La storia, raccontata da Sky tg24, riguarda un cittadino americano in Giappone che, durante un viaggio di lavoro, ha contratto il virus. Non appena ha iniziato ad avvertire tosse e febbre ha chiesto a diversi ospedali di poter effettuare il test diagnostico ma ha sempre ricevuto risposta negativa. Poi, è arrivata la chiamate della compagnia aerea con la quale aveva viaggiato che lo ha avvertito che il passeggero accanto a cui aveva viaggiato era morto per coronavirus. A quel punto è riuscito ad avere il test: positivo. Il Giappone, nonostante il numero limitato di contagi, intorno ai 5mila, negli ultimi giorni sta vedendo crescere il tasso di positivi in maniera esponenziale. Tanto che alcuni governatori spingono affinché si attui il lockdown anche lì. A preoccupare, infatti, è il basso numero di tamponi fin qui effettuati che avrebbe potuto restituire, fino ad oggi, un quadro distorto dell’avanzata dell’epidemia nell’isola.

Coronavirus a Tokyo, chiudono gli internet caffè: dove andranno i 4000 giapponesi che dormono lì? Le Iene News l'8 aprile 2020. Il governo giapponese ha dichiarato lo stato d’emergenza e tantissime persone senza casa potrebbero riversarsi nelle strade con un alto rischio di contagio. A Tokyo sono circa 4mila i senzatetto che di notte dormono negli internet caffè aperti 24 ore su 24. Ora che il governo giapponese ha dichiarato lo stato d’emergenza, tutti questi homeless rischiano di trovarsi costretti ad andare per strada, come si legge sul sito della tv giapponese Nhk. A causa del coronavirus, infatti, gli internet caffè verranno chiusi temporaneamente. “Vorrei che rimanessero aperti”, dice alle telecamere di Nhk un 30enne. “Ma in queste circostanze è dura”. Gli internet caffè sono un’opzione per chi cerca un posto dove dormire a basso costo. Per tutte queste persone, tra le quali ci sono anche molte donne fuggite da situazioni di violenza domestica, il rischio di contagio se dovessero ritrovarsi per strada sarebbe molto alto. La principale catena nazionale di internet caffè, spiega Nhk, opera in circa 12 zone e tutti i punti verranno chiusi per rispettare le disposizioni del governo. “Queste persone potrebbero spostarsi in altri caffè che sono ancora aperti”, dice alla trasmissione l’esperto di social welfare Inaba Tsuyoshi. “Oppure passeranno la notte nei fast-food aperti 24 ore su 24 o nei ristoranti familiari. Così però questi posti diventeranno molto affollati”. Inaba suggerisce che vengano prese delle misure per fornire alla popolazione senza una casa dei ripari d’emergenza. Lo stato d’emergenza è stato proclamato ieri ed è un lockdown che non prevede multe ma fa leva sul senso civico dei cittadini. La misura sarà in vigore fino al 6 maggio e oltre all’area metropolitana di Tokyo interessa altre sei prefetture in Giappone. Nel paese i contagi hanno superato quota 4.800 e i decessi sono 108. Nella capitale, la più colpita nel paese, attualmente sono 1.116 le persone contagiate.

Come mai i giapponesi sembrano immuni al Coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 7 aprile 2020. Mentre mezzo mondo si è chiuso a riccio per limitare i danni provocati dal Covid-19, il Giappone sembrerebbe essere stato appena sfiorato dall’ondata scatenata dal nuovo coronavirus. A Tokyo e dintorni la vita prosegue più o meno come sempre, fatta eccezione per alcune regole introdotte dalle autorità per evitare possibili focolai. I numeri, sottolineati anche dal quotidiano La Stampa, sono emblematici. Nella capitale giapponese si contano appena 24 pazienti ricoverati in terapia intensiva e solo 93 morti su 10 milioni di abitanti. Com’è possibile? Quattro sono le ipotesi. La prima: il Paese è immune al virus per una ragione ben precisa che analizzeremo di seguito. La seconda: l’epidemia deve ancora scatenarsi. La terza: il governo di Abe Shinzo nasconde i numeri. L’ultima: le misure chirurgiche attuate dallo stesso Abe sono state tanto sufficienti quanto efficaci. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. La prima opzione è quella sollevata dalla task force allestita dalle autorità. La seconda non convince gli esperti: data la vicinanza con la Cina e l’episodio della Diamond Princess, il virus ha avuto tutto il tempo per insidiarsi nella popolazione locale. Se adesso il Giappone conta pochi malati, la risposta va cercata altrove. Nascondere le cifre poteva avere un senso prima dello spostamento delle Olimpiadi ma al momento è un’azione inutile; senza considerare che eventuali trucchi sarebbero stati smascherati nel giro di poche settimane.

Uno stato di emergenza sui generis. Soffermiamoci adesso sul piano d’azione di Abe. Soltanto adesso è stato proposto lo stato di emergenza, anche se il premier  giapponese, citato dalla Cnn, ha affermato che lo stato di emergenza del Giappone sarà diverso da quello dei Paesi occidentali. “L’attività economica di base” continuerà, ha detto, portando come esempi il trasporto pubblico e i supermercati. Il Comitato consultivo del primo ministro ha raccomandato lo stato di emergenza per sette prefetture giapponesi, tra cui la capitale Tokyo e la seconda città più grande, Osaka. In elenco anche Kanagawa, Saitama, Chiba, Hyogo e Fukuoka. Alcune misure restrittive sono scattate ieri e dureranno circa un mese. Tra le disposizioni, il governo potrà imporre restrizioni all’assembramento di persone e allo svolgimento delle attività sociali nei luoghi pubblici. Come se non bastasse, Tokyo potrà requisire proprietà private e gli edifici idonei nel caso di una ipotetica paralisi del sistema sanitario nazionale. Insomma, il Giappone inizia a preoccuparsi del virus ma lo fa senza alcuna isteria.

Immunità giapponese? Le autorità hanno scelto di adottare fin da subito una strategia molto particolare, a cominciare dalla scelta di effettuare i test per stabilire la positività al Covid-19 solo alle persone che mostravano gravi sintomi. A tutti gli altri è stato chiesto di restare a casa, così da evitare mini-pandemie all’interno delle strutture ospedaliere. Per il resto, fin da febbraio, in tutto il Paese si trovavano contenitori di gel sterilizzante all’ingresso dei negozi mentre le mascherine erano pressoché introvabili. Secondo un ricercatore che fa parte della task force governativa per contrastare la diffusione del nuovo coronavirus, i giapponesi potrebbero addirittura essere immuni all’agente patogeno. “A dicembre e gennaio – spiega la fonte anonima – abbiamo registrato dei casi d’influenza la cui sintomatologia era diversa da quella stagionale, febbre a temperature inferiori e molta tosse, ma nessuno allora l’avrebbe potuto associare al Covid-19”. Nello stesso lasso di tempo il Giappone ha accolto più di cinque milioni di turisti cinesi. Ebbene, a detta del ricercatore, quel ceppo di Covid-19 era più debole rispetto a quello della seconda ondata, ovvero l’attuale. Nel frattempo il sistema immunitario giapponese sarebbe riuscito a prendere le misure al virus, limitandone la pericolosità. Prima di appurare la veridicità della tesi avanzata da Tokyo, è necessario però scoprire  se i pazienti guariti dal Covid-19 sono immuni alla malattia e, in caso affermativo, per quanto tempo restano tali. Soltanto in quel momento avremo un quadro più dettagliato.

Come il Giappone sta gestendo l’emergenza Coronavirus. Daniele Dell'Orco su Inside Over il 13 marzo 2020. All’inizio dell’epidemia, il Giappone, insieme alla Corea del Sud, figurava tra gli stati più colpiti dalla diffusione del Covid-19 proveniente dalla Cina. A distanza di un paio di mesi, però, i casi registrati sono “solo” 639, con 16 morti e oltre 100 guariti. In tutto il Giappone si contano meno casi che in Svizzera, per fare un esempio. E meno casi di quelli confermati a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera che rimase bloccata per giorni nel porto di Yokohama con 691 persone infettate e quattro passeggeri morti. Uno scenario per molti versi rassicurante, se paragonato a quelli di Italia, Francia, Germania, Spagna e la stessa Corea del Sud (dove i casi accertati sono quasi 8mila ma i morti “solo” 66). Eppure la diffusione del coronavirus sta creando enormi problemi politici al primo ministro Abe Shinzo, che sta accusando un crollo dei consensi ed è finito sotto accusa per aver sottovalutato l’epidemia sin dall’inizio. Gli oppositori politici sostengono che i tanti anni al governo (ben sette, lo scorso novembre è diventato il primo ministro più longevo nella storia del Giappone) abbiano azzerato le iniziative interne da parte dei ministri e dei consiglieri, e soprattutto che non essendo certa la sua ricandidatura a presidente del Partito liberal democratico stia giocando una sorta di “all-in” pokeristico legato alle Olimpiadi di Tokyo, che dovrebbero tenersi a luglio, ma a questo punto l’uso del condizionare è d’obbligo. Nel frattempo il governo sta da un lato preparando un pacchetto di stimoli all’economia da quasi 15 miliardi di euro per sostenere le imprese e le famiglie messe in ginocchio dall’emergenza coronavirus (prestiti a tasso zero garantiti dallo stato, 35 euro al giorno per gli autonomi costretti in auto quarantena, interventi sui tassi da parte della Banca del Giappone per evitare che le imprese finiscano in crisi di liquidità etc.), dall’altro però non riesce a varare misure davvero drastiche per bloccare il paese e, complici gli aspetti culturali intrinseci di una società fortemente dedita al lavoro e che considera gli anziani (i principali esposti al pericolo Covid-19) una sorta di zavorra sociale, sembra per ora voler assecondare una sorta di “laissez faire” sociale. Ne abbiamo parlato col dott. Piero Carninci, uno dei più grandi esperti di genomica al mondo impegnato dal 1995 nel centro di ricerche Riken in Giappone.

Probabilmente per via della vicinanza con la Cina e del massiccio interscambio di lavoratori e turisti tra i due Paesi, il Giappone è stato tra i primi ad essere colpito dai focolai di Covid-19. Ora l’aumento dei contagi sembra bloccato. Ci aiuta a ricostruire l’evoluzione, anche temporale, del fenomeno?

«Ovviamente il flusso di persone ha aiutato, ma ricordiamoci che l’epidemia si è propagata soprattutto durante il capodanno cinese, periodo in cui molti cinesi viaggiano in tutto il mondo. Da notare che il focolaio nella provincia dell’Hubei rimane comunque relativamente ristretto nella Cina. Ci sono aziende giapponesi che producono in Cina vicino al focolaio e non sono mancati episodi di viaggi, fughe improvvise etc… fin dall’inizio. Senza una severa politica di controllo e quarantena per chi è rientrato precipitosamente dalla Cina non è stato possibile per nessuno limitare il contagio. Per la cronologia accurata, stanno lavorando in molti».

Quali sono le misure che ritiene siano state più efficaci tra quelle adottate dal Governo Abe?

«Imporre immediatamente una quarantena di 14 giorni a chi proveniva dalla Cina, o era stato in contatto con chi veniva dalla Cina. Un approccio molto rapido, ben comunicato e attuato in modo relativamente tempestivo nelle policy aziendali o quelle del mio istituto. Ci sono però anche delle falle nel sistema…»

Ad esempio?

«Le scuole sono state interrotte fino a fine marzo, ma i bambini sono ancora accettati al doposcuola, oppure spendono ore al parco a giocare con gli amici. La sospensione della scuola spinge molti genitori a stare a casa e lavorare da remoto, il che ha aiutato un po’ a ridurre la concentrazione umana nelle metropolitane. Ma purtroppo questo è solo parzialmente efficace. Molte aziende hanno accettato il principio del telework, ma l’autorizzazione sta nelle mani del capo ufficio, che spesso preferisce il controllo diretto sui dipendenti e avere tutti in ufficio. In generale forse appena il 10% delle persone lavora da remoto».

Che altro?

«Aspetti culturale come il senso di responsabilità verso i colleghi. La religione del non recare danno ai colleghi a qualunque costo tipicamente giapponese. Se molti qui sono pronti a morire per i lavoro, cosa vuole che sia per loro un virus che uccide “solo” il 3% e per lo più persone anziane, malate, debilitate… la pressione del dovere aziendale è molto più sentita quotidianamente. Questo può costare caro se non ci si ferma veramente».

Eppure nel caso della Diamond Princess è stato usato il pungo di ferro, criticato da molti…

«Non c’era molta scelta. Un’alternativa sarebbe stata quella di testare, mettere in quarantena separatamente, e ritestare prima di rilasciare gli ospiti della nave. Questo avrebbe prevenuto contagi sulla nave e alcuni decessi. Il problema era però relativo alle strutture che avrebbero dovuto ospitare le persone. Strutture che non erano pronte. In un albergo i contagi sarebbero avvenuti comunque? Come si potevano gestire i passeggeri separandoli? Di certo una critica procedurale da muovere è che i passeggeri sani non sono stati ritestati prima di essere rilasciati».

Tutto considerato, quindi, pensa che in Giappone ci sia una sottostima dei casi? O che vengano effettuati pochi tamponi?

«È chiaro che c’è una sottostima. Fonti autorevoli dicono che l’efficacia della Pcr (tecnicamente “reazione a catena della polimerasi”, che si misura col semplice tampone, Ndr) è del 60-70%. Il 30-40% dei contagiati risulta negativo, probabilmente perché il kit utilizzato è nuovo per molti laboratori. In più ci sono molti asintomatici che non vengono testati (proprio perché portatori e asintomatici). Le istruzioni datemi al momento del rientro dall’Italia alcuni giorni fa sono state “misurati la febbre ogni giorno e se vai al di sopra del 37.5, chiama le autorità”. È chiaro che questa politica non tiene in conto gli asintomatici e non tiene in conto che il virus è presente prima della manifestazione della malattia».

Com’è organizzato il Sistema Sanitario per poter fronteggiare la crisi?

«La sanità in Giappone gode di un supporto pubblico, ma il sistema è frammentato tra ospedali pubblici (cittadini, prefetturali, nazionali) e moltissimi privati, che si parlano poco e non condividono i dati. Alcuni ospedali privati rifiutano sospetti casi di coronavirus per “non recare una cattiva reputazione all’ospedale” e non rallentare il business degli altri pazienti. L’unica cosa che aiuta sono le informazioni accurate fornite sui siti web delle singole città o del ministero della Salute. Anche se chiaramente sono principalmente accessibili a chi padroneggia bene il giapponese».

Da quello che ci dice però non sembra che i giapponesi abbiano cambiato molto le loro abitudini, anche perché ad esempio l’uso di mascherine protettive è una norma quasi “culturale” in Giappone…

«L’uso delle mascherine è sistematico. Ho postato un tweet con una foto per la prima di campionato di calcio, (poi sospeso fino ad aprile) presa sulla tribuna centrale, con 99,9% degli spettatori con la mascherina. Forse questo sta facendo la differenza, oltre alla qualità delle mascherine stesse. È un’ipotesi. Un’altra cosa: per i giapponesi il contatto fisico, fatto di abbracci e baci, è da sempre molto limitato. Non si danno nemmeno la mano, semplicemente si inchinano ad un metro circa l’uno dall’altro (a meno che non si scambino i biglietti da visita). Questo è sicuramente d’aiuto. Tuttavia, a parte la cancellazione di eventi sportivi, le scuole chiuse e l’invito ad usare il telelavoro per chi può, ci sono ancora milioni di persone impacchettate ogni giorni sui treni, shopping center pieni e gente che va in giro normalmente. Sembra la quiete prima della tempesta. Ovviamente spero di sbagliarmi. La gente deve capire che deve stare in casa. I giapponesi sono molto obbedienti e lo farebbero se ricevessero istruzioni più stringenti che però non arrivano. Il governo dovrebbe prendere misure più drastiche, ma pare che la legge non permetta di ordinare chiusura di aziende, centri commerciali, etc. a meno che non si tratti di un’emergenza nazionale. Spesso parlo con chi sta elogiando il sistema giapponese (ma anche ieri abbiamo avuto un +10% di casi accertati). I conti si fanno alla fine, stiamo attenti».

Il vero obiettivo di Abe, oltre a stimolare l’economia, è salvare le Olimpiadi. Pensa sia possibile?

«È la grande scommessa del governo. Che però è proprio una scommessa ed è anche miope. Se i contagi vanno fuori controllo, l’economia deve fermarsi momentaneamente comunque. E le Olimpiadi sono perse. Servono advisor che si intendano di epidemiologia. Tutti gli stati partecipanti (e quindi tanti dei turisti che dovrebbero venire) hanno il virus in crescita esponenziale. Si potrebbero limitare le visite agli atleti soltanto, dopo quarantena domestica nel villaggio olimpico per 14 giorni prima di gareggiare (ma per gli allenamenti?) e quarantena anche per i dirigenti. Il tutto dopo screening all’aeroporto e senza pubblico e turisti. A meno che il mondo intero non intervenga improvvisamente come in Cina riducendo notevolmente il problema in 2 mesi. La maggior parte dei Paesi europei, invece, si troverà nella stessa condizione dell’Italia di oggi entro fine marzo. Gli Usa staranno anche peggio, forse, perché il Sistema sanitario è strutturato in maniera completamente diverso. Se tutti bloccassero tutto e subito come in Cina (e ora anche in Italia), a fine maggio si potrà decidere se fare le Olimpiadi. Altri modi di vincere questa battaglia non ci sono e non guardare in faccia la realtà comporterà un costo notevole. A meno che non compaia dal nulla improvvisamente un vaccino…»

·        …in Corea del Sud.

(ANSA il 17 agosto 2020) - Oltre 300 persone legate alla chiesa Sarang Jeil di Seul sono risultate positive al coronavirus- Lo riporta la Cnn. Le autorità sudcoreane hanno deciso di denunciare il pastore capo della Chiesa, Jun Kwang-hoon, per aver ignorato le misure anti-Covid-19 e organizzato comunque maxi-assembramenti. Oltre 4.066 hanno frequentato la chiesa di recente secondo la polizia ma di queste 550 non hanno lasciato i propri contatti e 495 non hanno risposto al telefono.

Da adnkronos.com il 28 maggio 2020. La Corea del Sud ha ripristinato le misure di lockdown nell'area metropolitana di Seul, dove vive metà dei 52 milioni di abitanti che compongono la popolazione totale del Paese. E questo dopo un nuovo record giornaliero dei contagi di coronavirus, il più alto in circa due mesi. Lo ha annunciato il ministro della Sanità Park Neung-hoo, spiegando che musei, parchi e gallerie d'arrte verranno nuovamente chiusi a partire da domani e per due settimane. E' stato inoltre chiesto alle aziende di reintrodurre lo smart working e altre misure di lavoro flessibile. Gli abitanti di Seul dovranno anche evitare di ritrovarsi in gruppo o di recarsi in luoghi affollati, compresi bar e ristoranti. Gli istituti religiosi e i luoghi di culto dovranno essere particolarmente vigili per far rispettare le regole imposte per contenere i contagi. Non sarà invece rinviata la riapertura delle scuole. Le limitazioni erano state revocate lo scorso 6 maggio, quando la pandemia sembrava essere sotto controllo.

DAGONEWS il 14 maggio 2020. Un focolaio di casi di coronavirus collegato ai locali notturni di Itaewon, a Seoul, ha causato come effetto a catena il licenziamento di un numero considerevole di dipendenti nelle boutique di lusso del grande magazzino Lotte a Myeong-dong. Come mai? Alla luce delle speculazioni sulla sessualità del lavoratore infetto, si vocifera che alcuni negozi di marchi di lusso stiano pensando di cacciare alcuni membri del personale perché sospettano che alcuni dei loro dipendenti siano omosessuali. Secondo il Lotte Department Store, un impiegato di sesso maschile che lavora presso il negozio di Gucci è risultato positivo al COVID-19 la scorsa settimana. I grandi magazzini hanno immediatamente chiuso il negozio la mattina dello stesso giorno e l'intero edificio per la disinfezione. «Non abbiamo mai sentito parlare della storia dei licenziamenti e non siamo coinvolti nelle scelte del personale delle boutique di lusso nei nostri punti vendita - ha detto un portavoce del Lotte Department Store - Tuttavia, ciò che possiamo confermare è che altri dipendenti che hanno lavorato con l'uomo il 5 e il 6 maggio sono risultati negativi al COVID-19 e attualmente sono in quarantena a casa». Una fonte che lavora nel settore della moda di lusso ha dichiarato che ci sono molti omosessuali che lavorano nelle case di moda di lusso e alcuni marchi hanno lanciato una indagine interna per verificare chi tra i loro dipendenti sia stato in uno dei club coinvolti nel nuovo cluster della scorsa settimana: «I marchi non stanno cercando di scoprire quali membri dello staff siano omosessuali. Stanno cercando di individuare quelli che potrebbero essere positivi per limitare il contagio». Tre dei cinque club visitati dal super-untore sono gay friendly. Tra i 102 nuovi casi confermati di COVID-19, a partire da martedì, 73 di loro avevano recentemente visitato discoteche a Itaewon. L'autorità sanitaria ha dichiarato che 92 pazienti confermati con il COVID-19 correlati al cluster di infezione di Itaewon sono uomini. Con l'aumentare del numero di infezioni in relazione all'area di Itaewon, aumenta anche la discriminazione contro le minoranze sessuali sia online che offline. Il contraccolpo pubblico sembra inevitabile, soprattutto perché il caso è scoppiato il giorno in cui il governo ha allentato le misure sul distanziamento sociale. I Korea Centers for Disease Control and Prevention (KCDC) avevano consigliato di mantenere rigide normative per i locali notturni e le strutture di intrattenimento, ma il governo ha deciso di ridurre le limitazioni in tutti i settori per favorire la ripresa economica. «Spero che ciò non porti alla discriminazione delle minoranze sessuali visto che la società è ancora molto conservatrice» ha aggiunto la fonte dimenticando di aggiungere come nel Paese l’omosessualità sia ancora considerata un tabù.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2020. «Non sarà finita sino a che non sarà finita». Il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in ha messo così in guardia la popolazione dopo l' esplosione di un improvviso focolaio di contagi a Seul. La capitale aveva ripreso a vivere da due settimane con l' apertura di locali, bar e discoteche quando, sabato scorso, il sindaco Park Won-soon è stato costretto a ordinare una nuova chiusura. È bastato un «super diffusore», un ragazzo di 29 anni, a far salire di nuovo l' allarme nel Paese che era stato additato a modello nella gestione della pandemia. Il focolaio, 86 contagi in 48 ore (35 solo domenica scorsa), si è sviluppato ad Itaewon, un popolare quartiere della vita notturna della capitale, dove il giovane ha passato alcune serate tra il primo e il tre maggio soprattutto in locali Lgbt. L' uomo è stato scoperto grazie alla app governativa «Corona 100 m», tra le meno rispettose della privacy al mondo, e subito è scattato il controllo di massa. Le autorità di Seul hanno chiesto la collaborazione di tutti coloro che si erano recati nei locali notturni della zona tra il 24 aprile e il 6 maggio scorso: si tratta di 5.517 persone, ma solo 2.405 di loro hanno risposto all' appello mentre altri 3.112 risultano ancora irreperibili. Il che non sorprende in un Paese dove l' omosessualità è ancora un tabù e le persone Lgbt sono spesso discriminate. Ora si teme una nuova caccia alle streghe. «I dati della mia carta di credito sono stati passati alle autorità - ha detto al Guardian Lee Youngwu, uno degli avventori dei locali dove si è diffuso il contagio - se mi fanno il test la mia azienda saprà che sono gay. Perderò il mio lavoro e sarò umiliato». Il primo ministro, Chung Sye-kyun, ha invitato la popolazione «a non criticare una certa comunità perché questo non servirà a fermare la pandemia». Ieri il governo ha deciso di rinviare la riapertura delle scuole, prevista per domani: «Una decisione inevitabile» ha detto il vice ministro dell' Istruzione Park Baeg-beom. Una doccia fredda per la popolazione. Soltanto la scorsa settimana i contagi sembravano azzerati, tanto che il governo aveva autorizzato un allentamento delle già blande misure di distanziamento sociale in vigore. In totale, secondo i dati del Korea Centers for Disease Control and Prevention , sono a oggi 10.909 i casi accertati di coronavirus nel Paese asiatico, mentre per il quarto giorno consecutivo non si verificano nuovi decessi, a quota 256. La vicenda del «super diffusore» evidenzia però che il virus può propagarsi rapidamente in qualunque momento anche in una nazione come la Corea del Sud, tra le prime ad essere colpita dalla pandemia, che si è distinta per aver affrontato l' emergenza in modo veloce ed esemplare. Le peculiarità del modello coreano sono due: la protezione e il monitoraggio continuo del personale sanitario, ma anche l' attivazione precoce di un protocollo di tracciamento, test e isolamento delle persone venute in contatto con soggetti infetti. «Trasformeremo questa crisi in un' opportunità», ha promesso ieri il presidente sudcoreano. Ma il timore è che arrivare a una situazione di stabilità sarà difficile a Seul come altrove. La scorsa settimana i ricercatori della Columbia University Mailman School of Public Health avevano messo in guardia dalle riaperture perché avrebbero inevitabilmente portato a «nuovi casi di contagio». Moon già pensa con preoccupazione a «una ripresa del virus in autunno» ma forse dovrebbe preoccuparlo più il presente.

·        A morte gli amici dell’Unione Europea. 

Il governo italiano è filocinese alla Farnesina, filoamericano con Giuseppi e filorusso nelle periferie. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Maggio 2020. L’Italia potrebbe essere a nostra insaputa uno dei campi di battaglia della guerra occulta fra Cina, America e Russia? Dipende dai punti di vista. E poi: esiste oggi qualcosa che possa definirsi “impero americano” con le sue “aree di influenza”, fra cui la nostra? Sembra una sciocchezza. L’America si ritira da ogni terraferma e bada solo al controllo delle rotte marittime: via dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Iraq e quanto all’Europa manterrà un presidio significativo solo in Polonia perché i polacchi lo vogliono. Quanto all’Italia, agli americani interessa soltanto coltivarne l’avversione per la Germania. Probabilmente l’America ci amerebbe nell’alleanza dei mari anziché delle steppe, se facessimo squadra con Londra e Washington, ma non è un progetto attuale. Però qualcosa bolle in pentola perché lo scontro con la Germania resta alto e cresce la visibilità dei cinesi e dei russi nel Belpaese. Questo fatto preoccupa gli americani? Secondo quel che si capisce dai think tank, Washington non se ne preoccupa più di tanto, al massimo esclude dalla partnership delle notizie riservate, chi amoreggia troppo con Cina e Russia, ma senza farsene ossessionare. Ma adesso c’è di mezzo il Covid19 e lo scenario diventa mobile, tutti stanno ricalcolando e riposizionando, dunque l’Italia è comunque interessante perché può essere o non essere una autostrada cinese. Però il Covid19 c’è, e il nostro governo è filocinese al ministero degli Esteri con Di Maio, filoamericano a Palazzo Chigi con “Giuseppi”, e filorusso nelle periferie. Allora: questa della guerra segreta è soltanto una Conspiracy Theory o, come diciamo noi, una bufala? Nel libero campo delle fantasie ci si può liberamente e utilmente accapigliare ma accade anche che emergano intelligenze capaci di connettere e mettere in relazione i fatti con idee chiare e distinte. Uno dei migliori oggi è l’americano George Friedman, nato a Budapest nel 1949, uno dei più nitidi e dunque irritanti interpreti dello Zeitgeist, lo spirito dei tempi visto dall’America. Il suo punto di vista è questo: «Noi americani siamo diversi perché veniamo tutti da qualche altro posto che o non ci voleva o che noi non volevamo. Abbiamo per questa nostra ipersensibilità delle crisi cicliche e rivoluzionarie durante le quali ci sbraniamo finché non ricostruiamo da capo il nostro Paese, sempre gridando che mai i tempi sono stati peggiori e infami come quelli presenti. Nessuno è più antiamericano degli americani e anche così desiderosi di vivere da soli a casa, senza aver bisogno di nessuno, mentre tutti hanno bisogno di noi». George Friedman presenta il suo ultimo libro The Storm before The Calm, la tempesta prima della calma, rovesciando il tema beethoveniano. L’idea è che il caos attuale, anche dell’inaspettata epidemia, non possa che preludere ad una nuova sistemazione mondiale in cui non ci sarà alcuna guerra e Cina e Russia, pur facendo ciascuno i suoi capricci, non potranno fare a meno dall’America, così come anche l’America preferisce non fare a meno della Cina, e un po’ meno della Russia capace soltanto di pompare petrolio che oggi non vale nulla. Devo all’ultimo numero di Limes diretto da Lucio Caracciolo, la conoscenza di questo straordinario analista. Limes prova a vedere l’affare Covid19 anche sotto l’aspetto strategico e di questa ipotetica guerra sul suolo italiano fra Cina, Russia e Stati Uniti. L’America non ama stare con gli altri e si preoccupa soltanto di poter commerciare liberamente, specialmente sui mari. Lì comincia e lì finisce la sua vocazione imperiale, che ha avuto soltanto, pentendosene, quando per mezzo secolo si incamerò le Filippine dopo aver distrutto l’impero spagnolo. Tutti abbiamo colto la presenza cinese in Italia fortemente accentuata dopo il Covid, con un governo italiano il cui ministro degli esteri si dichiara filocinese. La Cina poi diffonde un video sconosciuto in Italia in cui masse di italiani in delirio cantano la loro gratitudine. Dall’altra parte un fenomeno non meno curioso: la Russia manda in Italia per la prima volta nella storia non già un aereo di linea con un centinaio di medici pronti ad aiutare il nostro Paese nell’emergenza, ma fa sbarcare una rappresentanza dell’Armata Rossa con camion, militari in uniforme e bandiere che attraversano l’Italia da Pratica di Mare (dove atterrano i grossi Tupolev e Iliushin) fino a Milano, con eccezionale parata attraverso il centro di Roma. Non c’erano i cosacchi, niente cavalli, i medici e gli infermieri hanno dovuto fare un corso di italiano prima per essere preparati a dare una mano negli ospedali, ma il punto è che questa manifestazione medico-amicale-militare è stata esaltata dal governo russo come una magnifica novità a riprova della crescente amicizia fra Mosca e Roma. Molto curioso. Di qui il sospetto: vuoi vedere che l’Italia è diventata uno dei campi di battaglia di una guerra poco visibile ma molto reale fra Russia e Cina che si contendono il nostro Paese e gonfiano i muscoli per grandi operazioni di propaganda come l’Armata Rossa dei medici turisti, le donazioni di mascherine e respiratori venduti a prezzo di mercato oltre l’esaltazione della Via della Seta e del 5G? Gli indizi ci sono, e visibili. Allora, domanda successiva, che fanno gli americani? Sono ancora una potenza imperiale che ci tiene al guinzaglio? Cinesi e russi hanno comunque da oltre mezzo secolo un solo comun denominatore: una certa ma variabile dose di antiamericanismo, perché mettere gli americani in cattiva luce fa sempre bene alla salute dei loro governi. La Russia trasmette negli Stati Uniti un programma di news che si chiama Russia Today confezionato in americano a Mosca che raccoglie soltanto notizie negative sull’America commentate da americani arrabbiati con l’America. Va in onda 24 ore al giorno e sarebbe assolutamente impensabile che gli americani avessero in Russia un analogo programma televisivo in lingua russa per tenere sotto i riflettori i disastri del governo russo. Friedman: «Noi americani abbiamo questa caratteristica: di pensare sempre che i tempi che stiamo vivendo siano i più terribili e infami e che dobbiamo assolutamente ribellarci all’attuale establishment anche in maniera violenta, per rigenerarci periodicamente: è successo con la guerra civile, con la Prima guerra mondiale e con la seconda re la guerra fredda, sta succedendo di nuovo oggi. Ma al di fuori dell’America pochi capiscono e infatti noi americani ci sentiamo sicuri soltanto dentro casa nostra e non abbiamo bisogno di nessuno e sappiamo cavarcela da soli in caso di crisi economica, peggio per chi non potrà più venderci la sua merce, perché noi sappiamo fare a meno di voi».  È un dato di fatto che cominciai a comprendere soltanto vivendo negli Stati Uniti: gli americani hanno una passione sfrenata per l’antiamericanismo, sono i più fecondi produttori di teorie cospirative in cui la Cia, il neoliberismo, la finanza, i servizi segreti e il “Deep State”.

Ferruccio Michelin per formiche.net il 26 marzo 2020. Ci sono aiuti rumorosi, che forse presuppongono un altro interesse, ce ne sono altri molto più silenziosi, che si portano dietro uno spirito di condivisione reale, profondo. La situazione con il coronavirus ha esposto l’Italia su un terreno rischioso: la campagna di propaganda che diversi Paesi hanno provato a costruire attorno alla gestione e alla reazione alla pandemia. È un interesse profondamente strategico, che colpisce la Penisola in un momento delicato. Mentre dalla Russia si alza lo spin mediatico sull’invio di alcuni equipaggiamenti, che si portano dietro il mistero di quanti soldati russi arriveranno in Italia, e mentre la Cina usa ogni mossa per la sua competizione globale, farcendo ogni azione di propaganda, nel pieno della campagna revisionista per sganciarsi dalle responsabilità sull’epidemia, dagli Usa si muovono dinamiche più silenziose. Oggi dalla base di Ramstein, in Germania, è decollato un C-130J Super Hercules dell’86esimo stormo Airlift Wing dell’aviazione statunitense con a bordo un sistema mobile di stabilizzazione dei pazienti (Erpss, fornisce 10 posti letto e può supportare un totale di 40 pazienti per un periodo di 24 ore). L’areo è atterrato ad Aviano e consegnerà il nuovo equipaggiamento alla Difesa italiana – il rapporto tra Palazzo Baracchini e Pentagono è attualmente, con il Quirinale, lo snodo delle relazioni tra Roma e Washington. Oggi, senza clamori, l’ambasciata americana in Italia ha ripreso con uno statement il tweet dell’Usafe-Afafrica, ossia struttura regionale che segue l’area europea e africane e gestisce le operazioni umanitarie e la Nato. Citata la dichiarazione del comandante, il generale Jeff Harrigian: “Questo sforzo è la prova del nostro sostegno reciproco, mentre lavoriamo insieme per rispondere a questa emergenza sanitaria. Siamo in stretto contatto con i nostri amici italiani, con il Dipartimento di Stato e con il comando europeo degli Stati Uniti per fornire attrezzature adeguate in modo sicuro e tempestivo. È un privilegio sostenere gli sforzi italiani in risposta all’emergenza, il nostro impegno costante riflette il valori del popolo americano: fornire assistenza quando e dove è necessario”. Nei giorni scorsi, all’aeroporto di Villafranca di Verona è arrivato un Dc8 decollato Greensboro, North Carolina. Portava a bordo un ospedale da campo con apparecchiature tecniche spedito in Italia dalla Samaritan’s Purse, un’organizzazione umanitaria cristiana evangelica americana (il mondo dei cristiani evangelici è quello a cui appartiene il vicepresidente Mike Pence, che la Casa Bianca ha scelto come riferimento per la gestione del contrattacco all’epidemia; mondo che per altro fa da constituency anche per il presidente Donald Trump). L’ospedale è ora operativo a Cremona, una delle aree più colpite dalla sindrome Covid-19 connessa alla coronavirus. Val la pena riprendere un commento di Oscar Giannino, che condividendo l’articolo con cui The Aviotionist ha descritto i dettagli tecnici del volo di trasferimento, ha twittato: “Solo per dirvi che non sono solo cinesi russi e cubani ad aiutarci, altri lo fanno più silenziosamente perché non interessati a propaganda di regime”. Nei giorni scorsi, la Fondazione Eli Lilly ha fatto sapere senza troppo clamore che donerà agli ospedali italiani un milione di euro di insulina. “Vogliamo dare il nostro contributo e lo facciamo con uno dei farmaci che produciamo in grandi quantità”, ha spiegato a Formiche.net Concetto Vasta, direttore Public affairs della multinazionale americana e direttore generale della Fondazione Eli Lilly. “Produrre un farmaco come l’insulina sul nostro territorio è importante, perché ci consente di averne sempre a disposizione, anche in casi di emergenza”.

Igor Pellicciari per formiche.net il 26 marzo 2020. Ancora si fatica ad abituarsi a nuove routine come il seguire la terribile conta dei decessi dovuti al Covid-19 che – superati gli iniziali sensi di colpa e per esorcizzare la lunga durata della emergenza – ognuno nel suo settore d’interesse si chiede quali saranno i cambiamenti che si lascerà dietro questa crisi. È probabile che sul piano geo-politico le conseguenze saranno di tale portata da non essere tutte ora prevedibili. Ce ne accorgeremo con ritardo e a rilascio progressivo, spesso a cambiamenti già consolidati. Come dopo un furto in abitazione, quando si continua a scoprire via via nelle settimane ciò che manca in casa. Alcuni trend sono visibili già da ora: uno su tutti – la rafforzata centralità degli aiuti internazionali nel definire le relazioni tra Stati sovrani nell’acutizzarsi delle crisi mondiali. Va detto che è da censire come “aiuto tra Stati” non solo quello classico umanitario o della cooperazione internazionale – ma qualunque trasferimento a condizioni favorevoli tra un donatore ed un beneficiario, a prescindere dall’oggetto della transazione stessa (e quindi vanno considerati anche trasferimenti di energia, finanza, armamenti, know how tecnologico…). Non è un fenomeno nuovo ma è interessante il vigore che ha registrato in questi giorni concitati del Covid-19 mentre altri strumenti classici della diplomazia (uno su tutti, il Consiglio di Sicurezza Onu) sembrano sospesi quando non addirittura evanescenti. È dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, passando per la guerra nei Balcani, il dissolvimento dell’Urss fino a scenari recenti come quelli in Afghanistan, Ucraina e Siria  – che aiuti organizzati da Stati e/o organizzazioni internazionali si sono presi la scena e hanno inciso sul ridefinirsi delle relazioni internazionali uscite dalle crisi. Trattando dell’aiuto le narrative (giornalistiche e non) si sono soffermate ad osservare il bisogno del beneficiario che si dichiara di andare a coprire. Molto meno (anzi, quasi mai) le motivazioni politiche del donatore, ovvero quel set di obiettivi “razionali” di politica estera – di rado dichiarati – che ogni Stato-Nazione ha quando decide di privarsi di proprie risorse a favore di soggetti terzi stranieri. Si è così detto e scritto molto più sui valori che sugli interessi legati agli aiuti di Stato internazionali. In secondo ordine è passato il fatto – conclamato tra gli studiosi di Relazioni internazionali – che l’aiuto è diventato potente strumento di obbligazione politica in mano al Paese donatore, elemento della sua power politics (politica di potenza), al pari di strumenti tradizionali come la diplomazia classica, il commercio, la guerra. In definitiva, se uno Stato organizza un aiuto non lo fa per le stesse logiche che muovono un individuo ad essere un donatore, ma ha degli obiettivi di politica estera che è importante comprendere, senza cadere nella tentazione di santificarli o demonizzarli. Ebbene, grande attenzione in questi giorni ha suscitato l’annuncio dell’arrivo di assistenza medica all’Italia proveniente da Cina, Russia e Usa (peraltro davanti a un’apparente inerzia dell’Ue nel regolamentare la distribuzione interna di materiale medico di emergenza). Senza volere sminuire il bisogno che questi aiuti andranno si spera efficacemente a colmare, si possono intanto fare delle prime riflessioni sulla novità di questa situazione e sulle ripercussioni che avranno nel sistema delle relazioni donatore-beneficiario. La prima riguarda l’eccezionalità dello status del beneficiario di questi aiuti, ovvero l’Italia: Paese del G7 e una delle principali economie mondiali, con un consolidato sistema politico costituzionale democratico. Non esistono – nella dinamica donatore\beneficiario – precedenti storici di rilievo di Paesi riceventi aiuti di tale livello di sviluppo al contempo politico ed economico-sociale, se non gravati dall’instabilità di una transizione post-bellica (nei Balcani) e\o post-autoritarie (i paesi nati dalla fine dell’Urss). Questo significa che i donatori – a crisi finita – potranno usare la loro posizione di forza per trarre benefici maggiori da un beneficiario che ha qualcosa da offrire perché tutt’altro che sottosviluppato o senza un governo certo. Tanto più che l’Italia, nonostante una cronica debolezza politica internazionale, ha sviluppato negli ultimi decenni una diplomazia culturale e commerciale che ne ha aumentato il peso e l’attrattiva geopolitica a livello internazionale, anche se lungo direttrici diverse rispetto a quelle del periodo della Guerra Fredda. La seconda riflessione riguarda il tratto che accomuna i donatori dell’Italia. Sono tutti campioni dell’idea di un Mondo dove primeggiano le azioni di pochi Stati-Nazione, piuttosto che delle organizzazioni internazionali cui pure essi aderiscono, spesso con poca convinzione. Dalla Cina, alla Russia, agli Usa, gli aiuti vanno a rafforzare un rapporto diretto tra Stati, tagliando fuori i livelli sovranazionali che rincorrono le iniziative dei singoli Stati, incapaci di coordinarli in via preventiva. Senza avventurarsi in previsioni sulle future fortune politiche delle opzioni sovraniste, è tuttavia prevedibile che il Covid-19 darà il colpo di grazia a un certo multilateralismo, già in profonda crisi prima di questa pandemia, a tutto vantaggio di una dimensione bilaterale delle relazioni diplomatiche, con al centro la difesa degli interessi dello Stato-Nazione.  Riascoltare oggi il discorso di Trump alle ultime Assemblee Generali dell’Onu suscita molta meno ilarità di quella che lo accolse all’epoca tra gli addetti al settore. Una considerazione (per ora) finale riguarda la gara cui si è assistito tra i donatori per aiutare lo stesso beneficiario inaspettato, ovvero l’Italia. Per la verità, la donors competition è un fenomeno non nuovo, osservato in non pochi scenari di crisi degli ultimi decenni. Se lo Stato-donatore indirizza il proprio aiuto per degli obiettivi di ritorno politico, spesso si è assistito a scenari con più donatori che beneficiari, intesi non come Paesi con un particolare tipo di bisogno ma come target geopoliticamente interessanti per giustificare il costo di un intervento. Questo ha portato spesso (vedi in Bosnia e Kosovo) a fenomeni di donors overload (sovraffollamento di donatori in uno stesso scenario) e aid overlap (sovrapposizione di aiuti sullo stesso beneficiario). Nel mondo post-bipolare con una mancanza di chiarezza (e di accordo) sulla spartizione delle zone di influenza tra i grandi key players, è probabile che il Covid-19 porti a replicarsi altrove la competizione tra donatori che abbiamo visto nel caso italiano. È presumibile che vi sarà un moltiplicarsi di crisi sub-regionali in forma di “guerre degli aiuti” per accaparrarsi prima il beneficiario, tanto più se inaspettato e sviluppato come nel caso italiano e puntellare un influenza geopolitica su nuove zone divenute improvvisamente accessibili. Parafrasando Von Clausewitz, se è vero che la guerra è continuazione della politica con altri strumenti, allora gli aiuti (dati e ricevuti) saranno un’altra forma di guerra. In tutto ciò la Golden Card sarà nelle mani dello Stato\donatore che riuscirà per primo a produrre (non necessariamente ad elaborare) il vaccino contro il Covid-19 e controllarne la distribuzione a paesi terzi. Sarà uno strumento, potentissimo, di obbligazione politica; che ridefinirà zone di influenza e alleanze per gli anni a venire. Almeno fino alla prossima pandemia.

Andrea Bassi e Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 26 marzo 2020. La grande famiglia europea ha una naturale tendenza a sgretolarsi davanti all'emergenza. Non appena il Covid- 19 ha manifestato la sua virulenza in Italia, è scattato il si-salvi-chi-può. Ognuno per se. Forniture di mascherine bloccate, ventilatori e respiratori scomparsi dal mercato comune e segregati nei depositi dei singoli Paesi. Prendiamo la Germania. Quando ha capito quali erano i dispositivi salva-vita per contrastare la pandemia, ha subito bloccato le esportazioni appellandosi ad un comma, a dire il vero presente in quasi tutti gli ordinamenti dei Paesi europei Italia compresa, che vieta di vendere all'estero beni necessari in caso di crisi sanitaria. Un comportamento che ha fatto saltare la mosca al naso persino a europeisti convinti come il rappresentante permanente italiano a Bruxelles, l'ambasciatore Maurizio Massari. «L'Italia», ha detto Massari, «ha chiesto da tempo di attivare il Meccanismo di protezione civile dell'Unione europea per la fornitura di attrezzature mediche per la protezione individuale. Ma, sfortunatamente, non un solo paese dell'Ue ha risposto all'appello della Commissione. Solo la Cina ha risposto bilateralmente. Certamente, questo non è un buon segno di solidarietà europea». Insomma, Berlino non è stata l'unica. Nella prima fase dell'emergenza anche Parigi ha chiuso le frontiere a mascherine e ventilatori. Qualcuno, come gli svedesi, si è fatto persino vanto della propria capacità superiore di fronteggiare la crisi rispetto agli italiani. Come se nella casa comune che brucia solo chi sta nel salotto sarebbe in grado di salvarsi. Ci ha pensato l'ambasciatore a Stoccolma Mario Cospito a rispondere per le rime ad Anders Tegnell, direttore dell'Agenzia di salute pubblica svedese, ricordandogli la capacità e l'abnegazione con cui il sistema sanitario italiano sta reagendo alla crisi. Ma la verità è che in mancanza di un coordinamento europeo, anche Roma è costretta a pensare solo per se. I carichi di dispositivi sanitari necessari a fronteggiare l'emergenza vengono ogni giorno bloccarti nei porti e negli aeroporti dai doganieri e dalla Guardia di finanza. Solo qualche giorno fa è stato sequestrato ad Ancona un camion che stava per imbarcarsi su una nave diretta in Grecia. Nel cassone custodiva 1.840 circuiti respiratori (tubo, pallone, valvola e maschera respiratoria) per la ventilazione meccanica dei pazienti con gravi patologie. Il sequestro delle fiamme gialle, inconsueto in tempi di pace, è legittimato dall'ordinanza della Protezione civile che vieta alle imprese di cedere all'estero determinati dispositivi medici. Nella latitanza della solidarietà tra i Paesi europei, gli aiuti che arrivano dagli extracomunitari rendono ancora più evidenti le distanze tra i partner del Vecchio continente. La Cina  il 13 marzo ha inviato  31 tonnellate di materiali, tra cui equipaggi per macchinari respiratori, tute, mascherine. Ci sono anche alcune medicine anti virus insieme a sangue e plasma. Dalla Russia il 23 marzo sono arrivati 100 specialisti e attrezzature sanitarie. Le foto della delegazione cubana composta da 37 medici e 15 infermieri hanno fatto il giro del web. Anche gli Usa, in piena crisi sanitaria, non hanno fatto mancare il loro sostegno. Il 22 marzo dalla base di Ramstein, in Germania, è decollato un C-130J Super Hercules dell'86esimo stormo Airlift Wing dell'aviazione statunitense con a bordo un sistema mobile di stabilizzazione dei pazienti. Un interventismo che ha smosso anche la lenta Europa . La Germania ha inviato 830 mila mascherine e un centinaio di ventilatori polmonari. Berlino ha anche accolto tre connazionali nei suoi ospedali e altri ne ospiterà nei prossimi giorni. La Repubblica Ceca ha sbloccato un altro carico di mascherine destinate all'Italia. E oggi potrebbe esserci un passo avanti più consistente. Nella bozza di comunicato dei Capi di governo che si riuniranno oggi, c'è anche la creazione di un Centro europeo di gestione delle crisi. «Dobbiamo trarre lezione dall'attuale crisi» sul coronavirus «e iniziare a riflettere sulla resilienza delle nostre società. È arrivato il momento di mettere in campo un sistema di gestione delle crisi più ambizioso e di più ampio respiro - si legge - incluso ad esempio, un Centro europeo di gestione delle crisi». Una prima risposta. Ancora timida.

·        A morte gli amici della Cina. 

«Pechino rispetta l’alleanza tra l’Italia e gli Stati Uniti». Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 su Corriere.it da Guido Santevecchi. L’ambasciatore Li Junhua rappresenta la Repubblica popolare cinese in Italia.

Come vede da Roma la strategia italiana per fermare l’epidemia? Secondo lei abbiamo adottato il «Modello Wuhan»?

«Per controllare l’epidemia non esiste un modello fisso e valido per tutti i Paesi, occorre invece avere misure ad hoc per ciascun Paese, guidate dai risultati. Credo che l’Italia abbia fatto una sintesi dei punti di forza e delle differenze e messo in atto un modello di contrasto dell’epidemia che le si addicesse. Un modello che prevede di salvare le vite al primo posto e al contempo un serrato e diffuso “stare a casa”; un modello con una chiara guida da parte del governo centrale e al contempo con la possibilità di intraprendere azioni locali e con un incoraggiamento della pubblica partecipazione. La realtà dei fatti dimostra che tutti questi sono atteggiamenti corretti, efficaci e che hanno condotto a un evidente rallentamento dell’epidemia».

Siamo entrati nella Fase 2, troppo presto? Che cosa consiglierebbe agli italiani: mascherine sempre, per evitare il contagio?

«Con l’impegno protratto per mesi del governo e dei cittadini, l’Italia è uscita dal momento più buio dell’epidemia ed è entrata in nuova fase. Ho visto tutto questo da vicino ed esprimo la mia profonda ammirazione e le mie congratulazioni per i risultati raggiunti. Credo che la “Fase 2” continuerà a progredire in sicurezza. La più grande prova che ogni governo ha davanti, ora, è trovare l’equilibrio tra la prevenzione di un’ondata di contagi di ritorno e le attività di stimolo per la ripresa economico-sociale. Dico sempre che il metodo migliore è quello più adatto a sé stessi. Credo che il popolo italiano farà tesoro dei risultati per niente scontati ottenuti sinora e che si comporterà in base alle indicazioni degli esperti nella “Fase 2”, continuando a indossare le mascherine, a lavare le mani e a mantenere il distanziamento sociale, insieme alle altre prassi per la prevenzione».

C’è un aspetto della risposta italiana all’emergenza che ha segnalato a Pechino come degna di nota?

«Quello che mi ha più colpito è stato come l’Italia abbia sempre rispettato la realtà dei fatti, tarato le misure su basi scientifiche e come i cittadini abbiano partecipato. Nelle otto settimane di “chiusura” ho visto il rispetto dell’Italia per la vita e l’attenzione alla salute; ho visto la professionalità, il coraggio e il senso di responsabilità del personale sanitario impegnato in prima linea; ho visto il senso di solidarietà, ottimismo e rispetto delle regole della popolazione. Ho visto anche l’Italia avviare attivamente la cooperazione mondiale per la lotta alla pandemia, sentendosi sulla stessa barca con gli altri Paesi, Cina compresa, per affrontare insieme le avversità».

La globalizzazione è in terapia intensiva, prognosi incerta... Ci siamo accorti di essere dipendenti dalla Cina anche per le mascherine; abbiamo visto che se si fermano le vostre catene di approvvigionamento industriale si paralizzano le nostre fabbriche. Così molti politici ed economisti sostengono che bisogna riportare nei nostri Paesi linee produttive e industrie strategiche. Un rischio per la Cina?

«La pandemia da Covid-19 non può e non deve essere il “funerale” della globalizzazione, al contrario, deve essere un catalizzatore in grado di far uscire la globalizzazione dalla “terapia intensiva” e spingerla verso uno sviluppo sano. La formazione e lo sviluppo di catene di produzione e di fornitura globali è il risultato della regolamentazione dei mercati e del ruolo giocato dalle imprese. Tutelare delle catene di produzione e fornitura globali aperte, stabili e sicure risponde agli interessi comuni di tutti i Paesi. Molti investitori hanno i loro asset produttivi in Cina, perché apprezzano le capacità e l’efficienza del settore manifatturiero cinese, ma ancor di più perché danno importanza al potenziale e alla crescita del mercato dei consumi cinese. Gli ultimi dati mostrano che nel mese di aprile gli investimenti esteri realmente utilizzati sono stati pari a 70,36 miliardi di renminbi, con un incremento del 11,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Nell’ultimo periodo, il governo cinese ha intrapreso una serie di 6 azioni importanti per stabilizzare il commercio e gli investimenti esteri da applicare a tutte le aziende in Cina. In realtà, la ripresa completa ed effettiva del lavoro e della produzione in Cina ha già risollevato la fiducia complessiva ed è stata di aiuto perché il mondo intero si mettesse all’opera per far ripartire l’economia. È necessario un avvertimento: alcuni politici promuovono con entusiasmo lo stop e il trasferimento delle linee produttive o la sospensione delle catene di fornitura. Tale atteggiamento equivale alla diffusione di “un virus politico”. Non so chi potrebbe trarne profitto, ma certo non sarebbe la maggioranza dei consumatori e sicuramente non porterebbe all’aumento della produttività. Gestire l’economia di mercato senza parlare del mercato stesso, questo è il vero pericolo».

Il governo italiano nel marzo 2019 ha aderito alla Belt and Road Initiative: in cambio furono annunciati investimenti cinesi per meno di 3 miliardi di euro. Il ministro Luigi Di Maio disse: «Aspettiamo un anno per fare i conti sul volano della Via della Seta per la nostra economia». Purtroppo un anno dopo stiamo facendo i conti con perdite di vite umane e disastro economico. Che cosa possiamo aspettarci ora, ragionevolmente, dal rapporto Italia-Cina?

«In base agli ultimi sondaggi cinesi, da gennaio ad aprile 2020, l’interscambio commerciale tra la Cina e i Paesi lungo la “Belt and Road” (Via della Seta) ha raggiunto i 2.760 miliardi di renminbi, con una crescita dello 0,9%, un risultato non trascurabile in un momento di pandemia. La cooperazione per la Via della Seta è un processo di promozione a lungo termine basato sul vantaggio comune, su molteplici forme di cooperazione e risultati diversificati. Ad esempio, l’Italia ha emesso per la prima volta i “panda bond” in Cina; ha partecipato alla China International Import Expo e ottenuto importanti risultati. I due Paesi hanno da poco siglato un accordo per l’esportazione in Cina di riso e carni bovine italiane e le aziende cinesi hanno investito nella “Motor Valley” italiana. Ancora più importante è il fatto che la Via della Seta non ha solo avvicinato i due Paesi in termini di commercio e investimenti, ma anche migliorato il sentimento di amicizia tra i due popoli e gli scambi culturali. Di fronte a una pandemia senza precedenti, i popoli dei nostri due Paesi hanno dimostrato la volontà di sostenersi a vicenda e di affrontare insieme la difficoltà. La connessione tra persone, la vicinanza tra cuori, il rispetto culturale sono la base fondamentale per lo sviluppo della cooperazione. Non dobbiamo permettere all’epidemia di spezzare né la Cina né l’Italia. Nella situazione attuale, dobbiamo, invece, riflettere su come, sotto l’egida della Via della Seta, far riprendere completamente e rafforzare la cooperazione in tutti i settori, per aiutare la ripartenza e la forte ripresa economica post-pandemia. Dopo la pioggia viene sempre il sereno, su questo non ho dubbi e sono fiducioso».

Il ministro Di Maio, che è il grande sostenitore del rapporto con la Repubblica popolare, ha detto al Corriere che «la Cina è un partner, gli Stati Uniti l’alleato principale». Che ne pensa?

«Rispettiamo l’alleanza che esiste tra Italia e Stati Uniti, al contempo non crediamo che questa debba diventare un ostacolo alla partnership tra Italia e Cina. Le nostre sono due civiltà antichissime che godono di grandi tradizioni culturali e credono nei rapporti basati sull’affinità, sperano che gli amici dell’altro possano diventare anche propri amici o almeno che non diventino nemici. Apprezziamo che l’Italia conduca la sua politica estera in modo autonomo e indipendente basandosi sui propri interessi. La Cina è disponibile, sulla base del rispetto reciproco, a promuovere il partenariato strategico globale con l’Italia e facendo sì che i contatti continui migliorino l’amicizia e che la cooperazione porti benefici per i popoli dei due Paesi».

C’è un nuovo progetto di Via della Seta sanitaria? E a parte il flusso di materiale utile a contenere il coronavirus, che cosa può significare d’altro? Ha un valore politico o può rappresentare un vantaggio economico anche per l’Italia?

«Il presidente Xi Jinping nel 2016 aveva già proposto di mettere in atto un impegno congiunto per creare una “Via della Seta della Salute”, ovvero rafforzare la cooperazione in materia sanitaria tra i Paesi lungo la Via della Seta e creare uno sviluppo sano. Dopo la lotta alla pandemia, la promozione di questa “Via della Seta della Salute” appare ancora più significativa. Rafforzare la cooperazione di mutuo vantaggio in ambito di prevenzione delle epidemie, di sostegno sanitario, di ricerca medica, di formazione di personale e nel campo di tutela della salute; aumentare la capacità di reazione alle situazioni sanitarie improvvise, tutto questo diventerà contenuto importante della “Via della Seta della Salute”. In ambito sanitario, Italia e Cina hanno sia necessità comuni sia ottime basi per la cooperazione. Il “Piano di azione per la cooperazione nel settore sanitario e scienze mediche 2019-2021” e il relativo “Programma di attuazione” firmati dai due Paesi contengono già disposizioni in questo senso. In generale, l’obiettivo centrale della Via della Seta della Salute è quello di migliorare la salute e il benessere comune di tutte le persone. L’Italia gode di molti punti di forza in ambito sanitario e attendiamo un suo ruolo forte nel discorso».

Per anni la vostra presenza diplomatica nel mondo è stata silenziosa, molto riservata, perché ora molti ambasciatori della Repubblica popolare cinese alzano il volume? Si parla di “Wolf Warrior” per la battaglia di dichiarazioni ingaggiata dalla diplomazia cinese. Lei è un Lupo Guerriero?

«Nel Dna dei cinesi è iscritta l’importanza della pace e l’idea di contraccambiare il rispetto ricevuto con il doppio. Quindi, la politica estera della Cina si è sempre basata su mutuo rispetto, trattamento egualitario e cooperazione di mutuo vantaggio. Ciò che ci dispiace è che c’è sempre qualche politico o gruppo che diffonde pregiudizi e inimicizia nei confronti della Cina e nell’ultimo periodo ha usato l’epidemia per riprendere diffamazioni e screditare la Cina. Senza far riferimento al grande sacrificio che il popolo cinese ha fatto nella prevenzione e nel controllo dell’epidemia, solo tra marzo e aprile di quest’anno la Cina ha esportato in totale 27,8 miliardi di mascherine e 130 milioni di tute protettive e 73,41 milioni di kit per tamponi e 49.100 respiratori. Tutto ciò ha contribuito fortemente al contrasto all’epidemia. Le chiedo, le sembrano giuste le diffamazioni ai danni della Cina? Le sembrano etiche? Per questo, i diplomatici cinesi debbono spiegare la verità dei fatti ai cittadini e ai media del Paese in cui si trovano in missione, chiarendo l’origine dei fatti e le ragioni. Tutto ciò al fine di difendere equità e giustizia per la Cina, ma anche per tutelare l’etica a livello internazionale. Sono convinto che il corpo diplomatico di qualsiasi Paese di fronte alla stessa situazione reagirebbe allo stesso modo. Credo, personalmente, che l’etichetta di “Wolf Warrior” non sia adeguata, forse sarebbe una metafora più azzeccata parlare di “Kungfu Panda”».

Lavorate ancora alla visita in Cina del presidente Mattarella che era prevista per la seconda metà del 2020?

«Le interazioni e l’amicizia ai vertici sono due componenti molto importanti delle relazioni bilaterali e hanno un ruolo di guida della cooperazione bilaterale in tutti i settori. Quest’anno celebriamo il cinquantenario delle relazioni diplomatiche e i rapporti bilaterali sono di fronte a nuove prospettive e opportunità di sviluppo. Abbiamo sempre mantenuto stretti contatti con le controparti italiane per svolgere il lavoro preparatorio per ogni tipo di visite ad alto livello».

I rapporti tra Cina e Stati Uniti si sono fatti ancora più tesi. Crede che la collaborazione potrà essere recuperata o pensa che resterà il clima di sfida e sospetto tra le due superpotenze?

«La cooperazione tra Usa e Cina è vantaggiosa per entrambi, lo scontro dannoso per entrambi, è provato dalla storia e dalla realtà dei fatti. Speriamo che i due Paesi possano rispettarsi a vicenda e cercare punti di convergenza e superare le divergenze, promuovere la cooperazione. Noi al contempo ci atterremo ai principi e agiremo senza timori. Nella prima fase della pandemia il popolo, le imprese e le organizzazioni della società civile hanno fornito assistenza alla Cina, ne siamo stati commossi e non lo dimenticheremo. Quando la situazione epidemica è peggiorata negli Stati Uniti, il popolo, le imprese e le organizzazioni cinesi, nei limiti delle proprie possibilità, hanno fornito aiuto. Tutto ciò ha mostrato che “Il virus è spietato, ma tra gli esseri umani c’è amore” e che tra i due popoli esiste una profonda amicizia e sentimento di umanità, che fornisce basi per affrontare insieme la sfida della pandemia. Tuttavia, alcuni politici statunitensi hanno messo da parte la coscienza e la moralità più elementare per i loro scopi egoistici, e sono arrivati al punto di diffamare e “scaricare il barile” sulla Cina, fino al punto di “opporsi alla Cina in ogni caso”. Non si può permettere che le relazioni sino-americane siano trascinate in un pantano di conflitti e scontri dalle manovre politiche di pochi. Speriamo che gli Stati Uniti e la Cina si muovano l’uno verso l’altro e ritornino sulla strada giusta al più presto. Questo nell’interesse dei popoli cinese e americano».

Per chiudere il capitolo dei sospetti sull’origine del coronavirus non sarebbe giusto aprire le porte del famoso laboratorio di Wuhan agli scienziati internazionali? Lei lo consiglierebbe al suo governo?

«L’Organizzazione mondiale della sanità e la comunità scientifica hanno chiarito più volte che il virus ha avuto origine in natura e non è stato creato in laboratorio. Dopo l’esplosione dell’epidemia, la Cina ha sempre avuto un atteggiamento aperto, trasparente e responsabile e ha avviato la cooperazione per contrastare l’epidemia sia con l’Oms sia con la comunità internazionale, anche in ambito di ricerca dell’origine del virus. Siamo d’accordo che l’Oms, al momento opportuno, effettui riflessioni, conclusioni al fine di migliorare la governance sanitaria globale e affinché in futuro la comunità internazionale sia in grado di affrontare l’emergere di nuove e importanti patologie virali. Tuttavia, alcuni singoli Paesi stanno cercando di politicizzare la questione dell’origine del virus e sono ansiosi di effettuare una “indagine internazionale” sulla “presunzione di colpevolezza”, con l’obiettivo di avanzare presunte “rivendicazioni” e “risarcimenti” nei confronti della Cina. Esprimiamo la nostra più forte condanna di fronte a tali atteggiamenti».

DAGONOTA il 6 maggio 2020. Luigino Di Maio ha tirato fuori gli artigli. E ha fatto bene. Nell’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, il ministro degli Esteri ha chiarito alcuni punti sulla politica estera italiana che è bene ricordare, dopo le manifestazioni di “sovranismo” a cui abbiamo assistito in Olanda, Austria e Germania in piena emergenza Coronavirus. Alla domanda sui rapporti con la Cina, Luigino - ispirato dal diplomatico Sebastiano Cardi, che è il suo suggeritore - fa capire chiaramente che l’Italia non deve vergognarsi degli affari conclusi con Pechino. Anche perché gli altri paesi europei non hanno riserve etiche né sensi di colpa nel perseguire il loro “interessa nazionale”: “La Cina ha strettissimi rapporti commerciali anche con Francia e Germania in vari settori. La cancelliera Angela Merkel è stata in vista in Cina molte volte e nessuno la ha accusata di essere filocinese”. Non ha senso - è il ragionamento di Di Maio - dare continue rassicurazioni di fedeltà atlantica solo perché intrecciamo rapporti commerciali con Cina e Russia. Se lo fanno Germania o Francia nessuno fiata. Perché noi dovremmo scusarci in continuazione?

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2020.

Ministro Di Maio, gli Stati Uniti sostengono che la Cina è responsabile del Covid-19, sfuggito a un laboratorio. Pechino respinge le accuse. Chi ha ragione?

«Non voglio entrare nel merito, prendiamo seriamente le preoccupazioni di Washington, così come le posizioni assunte dall' intelligence Usa e dai loro esperti. Credo che la cosa più saggia da fare in queste circostanze sia affidarsi alla scienza. Solo la scienza può darci delle risposte e ritengo che questa discussione sull' origine del virus non debba avere lo scopo ultimo di individuare un colpevole, ma quello di comprendere come equipaggiarci in futuro di fronte a una minaccia diversa, quale è ad esempio la pandemia in corso».

Altri Paesi sospettano comunque una scarsa trasparenza di Pechino sulla diffusione del virus. Così Francia, Gran Bretagna, Germania.

«La questione della trasparenza è fondamentale, soprattutto nei rapporti internazionali. Quando è iniziata la crisi sanitaria a tutti i miei interlocutori esteri ho assicurato che l' Italia avrebbe agito con massima trasparenza. E lo stiamo facendo. La stessa trasparenza la chiediamo naturalmente a tutti i nostri partner».

Alcuni Stati Usa come il Missouri hanno fatto causa alla Cina. Anche la Lombardia sta valutando azioni.

«Ne ho visti altri, come quello di New York, ringraziare la Cina per gli aiuti. Ma vede il punto non è questo, non si può disperdere tutto ogni volta nello scontro tra Est e Ovest, io credo che chi ha il dovere di rappresentare le istituzioni debba tenere sempre a mente un concetto molto chiaro: l'interesse nazionale. Che significa avere dei valori, a cui siamo legati, come quelli euroatlantici. Non a caso l'Italia è e resta saldamente nella Nato e nella Ue, ma non perché per noi sia un vezzo, bensì perché rappresenta un interesse strategico. E poi ci sono dei partner, con cui dialoghiamo con franchezza. Tra questi c'è anche la Cina, che le vorrei ricordare ha strettissimi rapporti commerciali anche con Francia e Germania in vari settori».

A molti osservatori il governo sembra privilegiare un asse con Pechino e Mosca. C'è chi vi accusa di aver dato molta più enfasi agli aiuti cinesi o russi, che a quelli americani.

«Mi faccia dire: gli Stati Uniti sono il nostro principale alleato. Con gli Usa condividiamo molto, sia in termini commerciali che valoriali. La stessa commessa vinta da Fincantieri nei giorni scorsi è la testimonianza delle fortissime relazioni con Washington, di cui siamo orgogliosi. Il presidente Conte ha un ottimo rapporto con Donald Trump, io mantengo lo stesso rapporto cordiale con il mio omologo Mike Pompeo. Questi sono i fatti. Il baricentro non si sposta, non c' entra nulla la politica estera con gli aiuti in questa emergenza sanitaria in cui abbiamo visto morire migliaia e migliaia di nostri cittadini. L' Italia è un Paese forte, autonomo, che pensa con la propria testa. Ringrazia un Paese quando viene aiutata, ma non si lascia condizionare e francamente trovo singolare anche solo parlarne. In nessun altro Paese Ue è sorto questo dibattito. La cancelliera Angela Merkel è stata in vista in Cina molte volte e nessuno la ha accusata di essere filocinese».

Ma lei è il ministro che ha firmato la «Via della Seta».

«Ecco, anche qui. Si ricorda quando all' Italia è toccata la presidenza del G7? Glielo dico io: nel 2017. Noi eravamo all'opposizione. E già allora, pur nel ruolo di Paese presidente del G7, l' Italia prese parte alla prima edizione del forum sulla Belt and Road . La Via della Seta può aprire nuove opportunità commerciali per il made in Italy. Mi dica perché nel 2017 non si levò lo stesso dibattito mediatico di oggi. Le ripeto: il punto è l'interesse nazionale. Noi siamo con la Nato, al fianco degli Usa e dei nostri alleati e manteniamo relazioni commerciali anche con altri partner, inclusa la Federazione Russa, non vedo dove sia il problema».

Se le tensioni internazionali cresceranno, quale sarà la strategia dell' Italia?

«Ci auguriamo che non aumentino. In una situazione del genere è auspicabile che il mondo si unisca, non che si divida».

Le tensioni politiche sono anche a Roma. Il premier è stato attaccato da Renzi ma anche nel Pd ci sono state critiche sulla gestione della fase 2. Il governo regge?

«Sono decenni che ci domandiamo se il governo regge. Solo in Italia nel corso di una pandemia, con medici, infermieri e operatori sociosanitari che lavorano h24 ci si mette a discutere sull'ipotesi di cambiare governo. Dovremmo lavorare tutti al servizio di chi sta combattendo il virus in prima linea. Non abbiamo bisogno di polemiche in questo momento, ma di far ripartire il Paese e l' economia, con la prudenza che la scienza ci suggerisce».

Il M5S potrebbe aderire a un governo di unità nazionale? Si voterebbe su Rousseau?

«Un governo c'è e va sostenuto. Punto. Restiamo lontani dai giochi di palazzo. Non ci interessano».

Tra la base M5S c' è malessere per le parole del pm Di Matteo, da voi sempre considerato un modello, sul ministro Bonafede.

«Siamo entrati in Parlamento con il chiaro intento di fermare il malaffare e debellare le mafie. Il ministro Bonafede ha sempre dimostrato di avere la schiena dritta e non mi sembra che ci sia stata la reazione che lei descrive, anzi Alfonso è stato sostenuto da tutti e dal governo».

La Corte costituzionale tedesca si è espressa con riserva sul Quantitative easing. Cosa pensa del caso?

«Qui la questione è molto più ampia e gira tutta intorno a una domanda: l' Europa vuole salvaguardare il proprio futuro, crede nel suo progetto? Il nostro domani risiede in questa risposta. L' Ue non può pensare di fare l'Ue solo quando c'è da dettare regole sul mercato interno. Bisogna comprendere che questa è una sfida comune».

Sulla via della seta medica aiuti, dottori e mascherine. Pechino si fa globale per battere il virus. Cinitalia, Domenica 03/05/2020, su Il Giornale. Dall'Italia alla Francia, dalla Spagna all'Ungheria, dal Pakistan alla Nigeria. I primi aiuti sanitari anti Covid-19 provenienti da Beijing hanno raggiunto decine e decine di Stati sparsi in tutto il mondo mentre altri carichi arriveranno a destinazione da qui alle prossime settimane. La Cina affianca così quella che può essere definita Via della Seta sanitaria all'ormai nota Nuova Via della Seta commerciale. L'obiettivo della Cina è uno: creare un fronte comune con le nazioni colpite dalla pandemia per sconfiggere il nuovo coronavirus. E così, fin da subito, da quando cioè la Cina ha iniziato la sua battaglia contro il virus, il governo cinese è stato chiarissimo nel sottolineare come la cooperazione internazionale fosse l'unica arma vincente da opporre a un nemico invisibile. Attraverso la Via della Seta medica, la Cina intende aiutare quante più nazioni possibili a uscire dall'incubo provocato dal Covid-19. Non a caso gli esperti cinesi hanno partecipato a una serie di scambi con le proprie controparti in più di 100 Paesi nel mondo attraverso videoconferenze per condividere l'esperienza maturata dalla Cina nella lotta al nuovo coronavirus. È impossibile fare una lista completa degli Stati aiutati da Pechino e dalle società cinesi, visto che l'elenco sarebbe lunghissimo. È tuttavia possibile soffermarci ad analizzare due esempi concreti. Prendiamo il Pakistan. Per aiutare Islamabad ad alleviare la carenza di forniture mediche necessarie per contrastare la diffusione del virus, il China Three Gorges Group ha donato al governo locale 13 tonnellate di materiali sanitari, comprendenti di 750mila mascherine mediche, tute di protezione per uso giornaliero e ventilatori. Prendiamo adesso l'Italia. Il supporto cinese è stato il primo ad arrivare nel nostro Paese. La Croce Rossa cinese ha donato inizialmente oltre 30 tonnellate di materiali, a cui sono seguite altre forniture mediche e tre squadre di medici con compiti di consulenza. Aiuti, questi, che si sono rivelati fondamentali per alleggerire la pressione sugli ospedali italiani sull'orlo del collasso. In questo momento, la Cina è pronta a intensificare i rapporti internazionali già consolidati e crearne di nuovi. Se la Nuova Via della Seta ha il compito di creare una comunità commerciale condivisa win-win, la Via della Seta sanitaria si prefigge di creare una comunità con un futuro condiviso. Un futuro libero dalla minaccia del nuovo coronavirus.

Gli Istituti Confucio cavalli di Troia della propaganda. Michele Marsonet su Il Dubbio il 30 aprile 2020. I CENTRI CULTURALI PROMOSSI DAL REGIME NEL MONDO GIOCANO UN RUOLO CENTRALE NELLA SFIDA DELL’EGEMONIA. C’è stato un tempo in cui le università di tutto il mondo, incluse quelle italiane, facevano a gara per avere un “Istituto Confucio”. Tali Istituti sono uno degli strumenti che il governo di Pechino ha escogitato per diffondere all’estero la lingua e la cultura cinesi. La loro grande diffusione si è verificata in contemporanea con l’ascesa politica ed economica della Cina negli ultimi decenni, ascesa che sembrava inarrestabile. Tuttavia la pandemia di coronavirus e la repressione di Hong Kong hanno allertato l’opinione pubblica occidentale circa i pericoli che un’alleanza troppo stretta con Pechino può comportare. In teoria i suddetti Istituti sono solo centri creati presso Università straniere – in particolare americane ed europee – nei quali si tengono corsi culturali e di lingua, di solito sotto la supervisione di un direttore cinese. Nessuna meraviglia quindi. I “Confucio” sono simili agli analoghi centri del British Council, della Alliance Française e della Dante Alighieri che si propongono di diffondere nel mondo, rispettivamente, lingua e cultura inglese, francese e italiana. Notevoli anche le analogie con i vecchi centri della Usia ( United States Information Agency) che svolgevano compiti analoghi per gli Stati Uniti d’America. Il fatto è che gli Istituti Confucio, emanazione diretta del governo di Pechino, sono diventati strumenti di propaganda del Partito Comunista Cinese, al quale interessa diffondere ovunque la “visione del mondo” cinese. Apparentemente virtuosa perché garante di ordine e stabilità ( vale a dire di “armonia” intesa nel senso confuciano del termine). Essa è tuttavia basata anche, se non soprattutto, sul totale controllo del governo della vita politica e sociale, nonché dell’economia. Ed è pure fondata, com’è ovvio, sulla presenza di un partito unico – quello comunista – che non ammette alternative di sorta al suo potere. Gli Istituti hanno avuto una crescita impetuosa in ogni parte del globo. Possono contare su cospicui finanziamenti del governo di Pechino e operano in collaborazione con le università straniere ospitanti, che forniscono gli spazi per la loro attività. Questo trend così favorevole sta ora giungendo a termine. Tutti hanno infatti capito che gli Istituti Confucio hanno tra i loro compiti principali quello di fare propaganda a favore del modello cinese, soprattutto tra i giovani, e questo ha finito col creare tensioni in molte nazioni occidentali, Stati Uniti in testa. Impossibile per esempio parlare della repressione a Hong Kong e nel Tibet, o menzionare Taiwan come nazione del tutto indipendente dalla Repubblica Popolare. Ovvio, quindi, che molti governi siano diventati molto prudenti. Gli Istituti cercano di ostacolare iniziative culturali sgradite al Partito Comunista Cinese, per esempio tutte quelle che riguardano il tema dei diritti umani. Si è quindi avuta la chiusura di parecchi centri in America, Europa e Australia. La notizia più clamorosa, tuttavia, è che la Svezia ha deciso di chiudere tutti gli Istituti Confucio presenti sul suo territorio, senza eccezione alcuna. E ciò è assai significativo perché il governo svedese era tra i più attivi nel promuovere accordi accademici con le Università cinesi. Il motivo risiede nel peggioramento netto dell’opinione che i cittadini svedesi hanno della Repubblica Popolare. Neppure gli intensi rapporti economici e commerciali sembrano aver scoraggiato le autorità di Stoccolma. Si rammenti, tra l’altro, che la Volvo, fiore all’occhiello dell’industria svedese, è ora di proprietà della casa automobilistica cinese Geely Automobile. Mette conto rammentare che le preoccupazioni per la crescente propaganda di Pechino non sembrano, almeno per ora, toccare l’Italia. Questo è naturale, poiché la componente grillina del governo ha una netta posizione filo- cinese. Il nostro Ministro degli Esteri ha detto che Hong Kong è un “affare interno” della Cina, mentre un altro esponente di M5S ha affermato che “la Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo”. E’ lecito preoccuparsi, giacché mai come in questo periodo il modello cinese dimostra di essere pericoloso ed estraneo ai valori occidentali.

Arrivano i medici cinesi con tonnellate di forniture sanitarie. E per il web sono i nuovi liberatori. Sono sbarcati a Fiumicino con respiratori, defibrillatori e una buona dose d’esperienza nella lotta contro il virus. Il Dubbio il 13 marzo 2020. L’aereo è sbarcato intorno alla mezzanotte di giovedì a Fiumicino. Sul muso le stelle rosse della Repubblica popolare cinese e a bordo il team di nove medici cinesi, che hanno combattuto nella trincea di Wuhan, e un di forniture mediche: almeno una tonnellata. Le foto dei medici sono diventate virali in pochi minuti e il popolo del web li ha salutati come i nuovi liberatori. Il gruppo di lavoro e’ composto da medici di diversi istituti tra cui il Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie e l’Ospedale della Cina occidentale nella provincia del Sichuan. Il materiale inviato include attrezzature per i reparti di terapia intensiva, equipaggiamento protettivo e farmaci antivirali. “Adesso quella contro il coronavirus e’ una lotta globale”, ha detto prima della partenza Sun Shuopeng, vicedirettore della Croce Rossa e capo del team cinese al “Global Times”. Il team ha portato con sè oltre 700 strumentazioni fornite dall’ospedale Ruijin della School of Medicine dell’Universita’ di Shanghai Jiaotong, inclusi ventilatori, monitor e defibrillatori. “Le forniture sono destinate alla creazione di un’unita’ di terapia intensiva per i pazienti infetti da Covid-19”, ha detto Chen Haitao, vice capo dell’ospedale. “In base ai requisiti della parte italiana, abbiamo selezionato le attrezzature che si sono dimostrate utili durante le pratiche cliniche”. “Molti dottori ed esperti medici italiani vorrebbero esprimere la loro gratitudine ai loro colleghi cinesi, ma non tutti possono uscire dalla città in questo momento straordinario”, ha detto una fonte della Croce Rossa italiana. Le forniture mediche provengono da diverse città della Cina e comprendono anche alcune medicine a base di erbe cinesi come la capsula Lianhuaqingwen. “La capsula di Lianhuaqingwen si è dimostrata efficace nel trattamento della Covid-19. Altri paesi stanno iniziando ad apprezzare l’efficacia del trattamento con le medicine tradizionali cinesi”, ha detto Sun. Liang Zongan, direttore del Dipartimento di terapia respiratoria e di terapia intensiva presso l’Ospedale della Cina occidentale, anch’egli membro del team inviato in Italia, ha dichiarato che i medici cinesi hanno portato con se’ alcuni rapporti di ricerca e linee guida sull’esperienza del controllo e del trattamento dell’epidemia acquisiti in Cina, e spera di condividere le informazioni con esperti locali in Italia. Sun ha riferito al “Global Times” che il ritorno in Cina del team medico dipendera’ dall’evoluzione della situazione in Italia. 

Coronavirus, cos’hanno portato con sé i medici giunti a Roma dalla Cina? Jacopo Bongini il 13/03/2020 su Notizie.it. Sono volati dalla Cina a Roma per aiutare l'Italia a combattere il coronavirus: con sé hanno portato 31 tonnellate di materiale sanitario. Nella serata del 12 marzo è giunta all’aeroporto di Roma Fiumicino un’equipe di medici proveniente dalla Cina, partita assieme a 31 tonnellate di forniture sanitarie per supportare gli operatori sanitari italiani nella lotta al coronavirus. L’equipe cinese, composta da personale del National Health Commission of China e della Croce Rossa locale, è arrivata nel nostro Paese anche al fine di condividere l’esperienza maturata nel corso delle ultime settimane nella città di Wuhan, epicentro mondiale dell’epidemia. Con sé i medici specializzati hanno portato anche del prezioso materiale ospedaliero che utilizzeranno per combattere l’epidemia nel nostro Paese.

Cosa portano con sé? Sono oltre 700 gli strumenti medici portati con sé, da Roma alla Cina, per un totale di 31 tonnellate: dimostrazione di una solidarietà che va ben oltre le parole. “Abbiamo selezionato le attrezzature che si sono dimostrate utili durante le pratiche cliniche” spiega il vicedirettore della Croce rossa cinese e leader del team, Sun Shoupeng. Sull’Airbus A-350, insieme al personale sanitario, c’erano 9 bancali con decine di migliaia di mascherine, ventilatori, elettrocardiografi e molto altro. Tra i materiali compaiono anche medicine tradizionali cinesi, per lo più estranee all’esperienza dei medici occidentali, a partire dalla capsula Lianhuaquingwen. A detta di Sun Shoupeng, la capsula “si è dimostrata efficace nel trattamento della Covid-19. Altri Paesi stanno iniziando ad apprezzare l’efficacia del trattamento con le medicine tradizionali cinesi”. Come sottolineato dall’ambasciata cinese a Roma sui suoi profili social, i medici erano partiti poche ore prima da Shanghai per poter fornire il loro supporto all’Italia in questo momento di grave difficoltà: “Quasi 10.000 chilometri da Shanghai a Roma, ma c’è grande entusiasmo. Ora poche ore di riposo e il team di medici cinesi sarà pronto per dare il suo contributo alla lotta dell’Italia contro il COVID-19″. Una volta atterrati è stato interpellato dai giornalisti Sun Shuopeng, il capo squadra dell’equipe di medici, il quale ha spiegato come tra le forniture sanitarie siano presenti anche medicinali a base di erbe tradizionali cinesi come la capsula Lianhuaqingwen, che stando a Sun si è dimostrata: “Efficace nel trattamento della Covid-19. Altri paesi stanno iniziando a imparare l’efficacia del trattamento con le medicine tradizionali cinesi”.

Il commento di Luigi Di Maio. Sull’arrivo dei medici cinesi si è espresso anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, che in una diretta social trasmessa nella serata del 12 marzo ha voluto mettere in risalto il gesto di solidarietà compiuto da Pechino: “Stasera voglio farvi vedere i primi aiuti che sono arrivati dalla Cina e che in questo momento sono a Roma per fornire informazioni preziose che possono aiutare il nostro personale medico. Questa è quella che definiamo solidarietà. Ce ne sarà altra. Non siamo soli, ci sono persone nel mondo vicine all’Italia. Non possiamo abbracciarci adesso, ma torneremo a sorridere. L’Italia è un paese dove non vince l’egoismo, in cui tante persone stanno lavorando per il prossimo”.

Mario Giordano per “la Verità” il 13 marzo 2020. Nuova parola d' ordine: i cinesi salveranno il mondo. Non contenti di aver festeggiato l' inizio dell' epidemia ingozzandosi di involtini primavera e riso alla cantonese. Non contenti di aver aperto le porte a tutti quelli che arrivavano da Pechino al grido di «la quarantena è razzista». Non contenti di averli abbracciati a favore di qualsiasi telecamera, bollando chi non lo faceva come pericoloso fascioleghista. Non contenti di aver preteso le scusa da chi aveva detto il vero sulle loro abitudini alimentari. Non contenti di tutto ciò, i nostri immarcescibili mâitre à penser ora stanno dando prova delle loro inesauribili capacità, compiendo un altro decisivo balzo in avanti: in queste ore, infatti, stanno decretando la nomina dei cinesi a salvatori dell' universo, angeli del pianeta, buoni samaritani, quasi messia reincarnati. Praticamente un' assunzione diretta e collettiva in Paradiso. Non solo infatti i cinesi, a quanto si legge sui principali giornaloni, ci stanno indicando la strada da seguire con il «modello Wuhan», che tutto il mondo dovrà imparare a memoria e recitare cinque volte al giorno rivolgendosi alla Lunga Muraglia. Ma ci stanno anche venendo in soccorso vendendoci 100 milioni di mascherine, che noi pagheremo care e salate, ovviamente dopo aver fatto l' inchino.

Del resto, la salvezza val bene un' umiliazione, no? «Modello cinese», titola l' editoriale La Stampa. «Modello cinese», rimbalza sul Corriere della Sera. «Modello cinese», dicono un po' tutti voltando la testa a Oriente e riempiendo gli occhi di ammirazione. Il tam tam è partito, lo si capisce: i giornali pullulano di racconti su quanto sono bravi, belli e buoni i cinesi. Hanno sconfitto il virus, hanno preso le decisioni giuste, hanno ridotto i casi (solo 8 a Wuhan), hanno superato il picco. E poi hanno le fabbriche più belle (producono mascherine al ritmo di 100 al minuto), hanno i tecnici migliori, gli ingegneri migliori, e anche i medici migliori, anzi se stiamo bravi ce ne mandano pure qualcuno qui. L' Organizzazione mondiale della sanità li elogia perché da loro la mortalità è stata più bassa che in Italia. I giornali esaltano le comunità cinesi nostrane che hanno saputo imporsi da sole le regole. Ci mancano solo la proposta di nominare il raviolo al vapore patrimonio dell' Unesco e quella di sostituire la Madonnina con la statua di Mao Tse Tung e poi le avremmo viste tutte. L' unica messa che si sta celebrando in Italia, in queste ore, è quella al Sacro Cuore dell' Eroico Cinese. Ora noi non vorremmo rovinare questo coro entusiasta e devoto, perciò ci permettiamo di suggerire ai paladini della beata cinesitudine di formulare e diffondere apposito vademecum per cronisti e telegiornalisti. Così che non sbaglino. Perché, si capisce, nell' esaltare le prodezze dei salvatori del mondo a qualcuno potrebbe sfuggire di penna che le mascherine che si stanno producendo nelle operose officine d' Oriente non arriveranno gratis, bensì saranno fatte debitamente pagare. Sarebbe disdicevole che qualcuno lo annotasse, non vi pare? Dunque nessuno avanzi il sospetto che la messianica Cina voglia fare affari anziché beneficenza, avendo tra l' altro a disposizione alcune delle migliori aziende di prodotti sanitari del mondo. E nessuno osi ricordare che invece qualche settimana fa dall' Italia partivano vagonate di mascherine, queste sì gentilmente offerte da Vaticano e affini. Altresì è meglio evitare di sottolineare che anche i mille ventilatori polmonari promessi da Pechino saranno regolarmente acquistati dall' Italia: l' eroico colosso cinese si è limitato a garantire che metterà il nostro ordine tra le sue priorità. Evitare di commentare il prezzo. Sottolineare la generosità di cotanto gesto. Bisognerebbe inoltre informare i cronisti che è cosa buona e giusta elogiare le gloriose e imperiture decisioni delle comunità cinesi in Italia, che hanno scelto autonomamente la quarantena e che si sono così sottratte all' infezione (oltre che alla vista). Ma attenzione a non nominare mai, come taluni improvvidamente fanno, che queste attività sono spesso irregolari e fanno concorrenza sleale agli italiani, preparandosi generosamente a gettarci sul lastrico, casomai riuscissimo a sopravvivere al coronavirus. Ergo, occorre apporre nel vademecum apposite norme cromatiche: esaltare le zone rosse, dimenticare il lavoro nero. Ma soprattutto per poter santificare come si conviene la superiorità dei cinesi rispetto alla vituperata Italia occorre dimenticare che se siamo in queste condizioni lo dobbiamo esclusivamente a loro. Ai loro silenzi. E ai loro ritardi. Si raccomandino pertanto i cantori del Cina-Per-Sempre-Show di omettere dai loro racconti e dai loro orizzonti il fatto che la dittatura comunista, prima di applicare le misure di contenimento financo eccessive e prive di ogni scrupolo umano come solo una dittatura può fare, ha tenuto nascosto per settimane le informazioni, ha sbattuto in cella il medico Li Wenliang che aveva detto la verità (e che per questa verità è poi morto), ha arrestato giornalisti, professori e scienziati che cercavano di sollevare il velo di silenzio, ha mentito sui dati, ha perso tempo e ha permesso così al virus di circolare liberamente nel mondo fino a metterlo in ginocchio. Sia fatta la massima attenzione perché se solo qualcuno ricordasse uno di questi particolari l' epopea del modello cinese crollerebbe di botto. Per fortuna gli italiani hanno la memoria di un pesciolino. Ovviamente rosso.

Dalla Cina maxi donazione all’Italia di Tocilizumab, l’introvabile farmaco della Cura Ascierto. Redazione de Il Riformista il 28 Marzo 2020. La Cina arriva in soccorso dell’Italia. Pechino ha infatti deciso di donare il tocilizumab, il farmaco per l’artrite reumatoide che, grazie al ‘protocollo Ascierto’, l’oncologo del Pascale di Napoli che per primo ha avuto l’intuizione di usare il farmaco per le complicanze della polmonite da Coronavirus, è attualmente oggetto di una sperimentazione coordinata dall’Aifa. Da alcuni giorni infatti la Roche, la casa farmaceutica produttrice del tocilizumab, ha comunicato ad alcune regioni che ne fanno uso per la somministrazione ai pazienti ricoverati di non avere più scorte. A fronte di una domanda di circa 4000 trattamenti, ne avrebbe a disposizione circa la metà. Un aiuto fondamentale è arrivato quindi dalla Cina, che stando alle comunicazioni ufficiali di Pechino ha praticamente arrestato il contagio. La Croce rossa italiana ha infatti ricevuto un’importante donazione dagli omologhi cinesi: 3045 fiale di Tocilizumab. Il farmaco è stato successivamente donato all’Aifa e alla Regione Lombardia. Le fiale sono state quindi ripartite sull’intero territorio nazionale, mentre la Croce Rossa ha costituito due punti di distribuzione alle farmacie regionali, uno presso il suo Nucleo di pronto intervento di Legnano e uno presso il suo Centro operativo nazionale emergenze di Roma. La stessa Croce Rossa ha poi consegnato il farmaco direttamente a Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Piemonte e Valle d’Aosta.

Il leader degli studenti di Hong Kong: «L’Italia stia attenta a non diventare una provincia cinese». Il Dubbio il 29 marzo 2020. Joshua Wong, leader del partito Demosisto e degli studenti di Hong Kong, mette in guardia l’Italia dall’espansionismo cinese. «Al di là di ogni dubbio, la Cina sta sfruttando l’invio delle sue mascherine sanitarie allo scopo di ottenere una futura influenza politica. La generosità insincera ha un prezzo». Così Joshua Wong, leader del partito Demosisto e degli studenti di Hong Kong, mette in guardia l’Italia. Parlando con l’Agi, Wong, che lo scorso anno ha capeggiato le durissime proteste per la democrazia a Hong Kong, chiede al nostro Paese di non abbassare la guardia per evitare di trasformarsi in «una provincia in più della Repubblica Popolare Cinese». Il timore è che Pechino «si stia comprando l’Italia. Se il governo italiano mancherà di proteggere la nazione contro le ambizioni autocratiche della Cina, le conseguenze di una perdita di sovranità e di autonomia saranno ancora più disastrose». Il giovane leader punta anche il dito contro il governo di Pechino, responsabile di omissioni e censure sui dati sanitari. Il coronavirus «è ben più di una semplice malattia: si tratta di una sequela di errori prettamente umani. Poteva essere contenuta se i medici che la denunciarono non fossero stati incarcerati. E anche adesso le autorità di Pechino stanno continuando a mettere il bavaglio alle critiche che circolano sul web nei confronti della cattiva gestione dell’epidemia da parte del governo», insiste Wong. «Per mantenere bassi i numeri delle statistiche ufficiali sui casi accertati, gli ospedali cinesi adesso rifiutano l’accettazione di nuovi pazienti, mentre quelli ancora in via di guarigione sono costretti a terminare il trattamento e i pazienti asintomatici non sono conteggiati nella casistica totale, secondo quanto riferiscono numerosi organi di informazione». Infine, un pensiero solidale: «Noi hongkonghesi siamo tutti quanti al fianco di ciascun italiano. E sono sicuro che potremo superare questi difficili momenti in poco tempo».

Francesco Bechis per formiche.net il 25 marzo 2020. L’Italia non è sola. In queste due settimane di crisi sanitaria lo Stivale è finito al centro di una staffetta di aiuti umanitari, mascherine, respiratori, équipe mediche dall’estero per combattere il coronavirus. Fra i donatori ci sono gli Stati Uniti, ma anche Paesi al di fuori dell’alveo Nato come Cina, Russia, perfino Cuba. Si tratta, ovviamente, soprattutto nel caso dei rifornimenti cinesi, di un’iniziativa globale, che tocca da vicino diversi altri Paesi europei entrati ora nel vortice dell’emergenza. È vero però che a Roma ha trovato un’accoglienza particolarmente calorosa. Di qui la promessa di alcuni esponenti di punta del governo italiano di mostrare eterna riconoscenza ai soccorritori. Riconoscenza o debito? Se lo chiedono in questi giorni molti a Washington Dc. Oltreoceano l’arrivo di aerei cargo cinesi e russi, e la campagna diplomatica e mediatica che li ha accompagnati, sono visti con una certa preoccupazione dall’amministrazione di Donald Trump. L’idea è che, presto, all’Italia sia presentato il conto di questi gesti solo apparentemente gratuiti. Ne è convinto chi alla Casa Bianca ha lavorato e conosce da vicino l’Italia. Come Edward Luttwak, già stratega del Pentagono, analista e politologo americano. Nonostante il momento di prova per l’Italia, il suo giudizio è impietoso e le sue parole corrosive. “Gli italiani di oggi non ricordano una vecchia espressione: sciuscià. Erano gli scugnizzi napoletani che un tempo pulivano le scarpe ai soldati americani. Ecco, oggi il governo italiano è questo, uno sciuscià” – dice a Formiche.net dalla sua casa nel Maryland – anche il Bangladesh e l’Afghanistan presto manderanno aiuti, magari anche il Congo. Il Congo Brazzaville, ovviamente. Immagino che sarà preparato per loro un gran ricevimento al ministero degli Affari Esteri (ride, ndr). Questa non può essere una mentalità da Paese G7”. A nulla serve fargli notare che la sanità al Nord è al collasso, e che forse gli aiuti dall’estero una mano la possono dare. Luttwak è furibondo, soprattutto sulla nuova spedizione di militari e macchinari inviata dal presidente russo Vladimir Putin e accolta alla base di Aviano dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. “Chiunque non si metta a ridere di fronte a una notizia del genere è un cretino. In Russia non hanno la più pallida idea di quanta gente sia infettata, perché non fanno i test. Chi è malato non viene trattato, gli ospedali non curano quasi nessuno”. “In Russia, a Mosca, c’è gente che muore in ospedale per mancanza di antibiotici comuni o medicine come l’aspirina, altro che Sars e coronavirus – aggiunge – nei centri periferici, nelle cittadine sperdute, c’è chi muore dentro le ambulanze. Questa mentalità fa pena. L’Italia, che ha un’economia pari o superiore a quella russa, doveva rifiutare questi aiuti, il cui volume peraltro è dubbio”. Il sospetto è che, nonostante le smentite del ministero degli Esteri russo, dietro la spola di aerei ci sia una contropartita politica. Più che sospetto, una certezza. L’obiettivo di Mosca, dice Luttwak, è la rimozione delle sanzioni Ue: “Sai che novità. L’Italia sta facendo lobbying da anni in Europa per rimuovere le sanzioni e poter esportare un po’ di salami. Anche questo in onore alla solita mentalità da sciuscià: l’ordine internazionale viene gestito da Paesi seri, l’Italia guarda il suo ombelico”. Non più generoso il bilancio dei soccorsi arrivati dalla Cina, e dall’Hubei, la regione della città di Wuhan, dove tutto è nato. Sono stati i primi ad atterrare in Italia, e i più sostanziosi. Accompagnati da una squadra di medici. “Magari una parte di queste era già installata in Italia, a Prato”, scherza Luttwak, poi torna serio. “Anche qui non mi sorprendo. Dopotutto un anno fa Xi è stato accolto come un imperatore a Roma. Voleva essere accolto da tutti i Paesi europei, ma in tanti lo hanno rifiutato, perfino il Portogallo e la Danimarca. L’Italia gli ha offerto una sontuosa cena di Stato. Mi chiedo se sia stata a base di brodo di uiguro e dessert tibetano”. C’è la partita del 5G dietro la “Via della Salute”, una nuova puntata della “Via della Seta” nel campo sanitario annunciata in una telefonata fra Giuseppe Conte e Xi Jinping? “Non c’è di mezzo il 5G, c’è di mezzo il 5G a Huawei, perché, ovviamente, quello prodotto dalle europee Ericsson e Nokia non va bene – risponde secco lo stratega americano –. Questa storia del cloud degli ospedali, poi, è il colmo: la gente sta morendo o è in terapia intensiva, e ora l’emergenza è installare una nuova rete cinese negli ospedali?”. Il politologo prende di mira il Movimento Cinque Stelle, che da anni è in prima fila a tessere la tela dei rapporti con Pechino, e ora si è fatto avanti con un appello alla comunità internazionale: rimuovere le sanzioni contro Venezuela, Iran, Cuba, Siria, perfino Corea del Nord, per alleviare la lotta di questi Paesi contro il virus. “Vogliono inviare aiuti a questi bei Paesi? Li posso aiutare io, mi organizzo con un amico e magari invio un pacchetto di aiuti anche Afghanistan, con le debite istruzioni per evitare che sia toccato solo da uomini, o da donne coperte dalla testa ai piedi. Anni fa i Cinque Stelle hanno assorbito l’entusiasmo e le speranze di tanti giovani italiani nella speranza di un cambiamento. Il cambiamento non c’è stato, e ora la tragedia è diventata farsa”. Luttwak boccia anche un’altra proposta che si fa strada fra le fila grilline, quella di rimodulare le missioni all’estero per richiamare in patria una parte dei militari. “L’Italia ha delle forze dell’ordine molto preparate, in particolare i Carabinieri e la Guardia di Finanza. Non penso valga la pena mobilitare tutti questi soldati dall’estero, peraltro mettendoli a disagio, e a rischio, con tutti gli spostamenti che sarebbero necessari”.

Marco Antonellis per Dagospia il 25 marzo 2020. Monta la rabbia del Pd sul Di Maio filo cinese. Ieri sera, dopo l'ennesima comparsata di Giggino in Rai per parlare delle mascherine trovate in giro per il mondo (seppur è innegabile che il Ministro degli esteri si sia impegnato a fondo) e - soprattutto - mettere di nuovo sul piedistallo la Cina e la via della Seta, è partita una gragnuola di commenti sferzanti contro il ministro 5 Stelle da parte del Pd. Soprattutto dai deputati di Base Riformista, la componente di  Lorenzo Guerini, il Ministro della Difesa. Quello in diretto contatto con la Nato, cioè con l'America di Trump, che continua a chiamare il Covid-19 il "virus cinese". Questa emergenza del Coronavirus finirà, si dice che tutto cambierà, ma qualcosa di certo resterà immutata: il no degli Usa ad uno sbarco in grande stile in Italia della Cina Comunista che, a quanto si apprende, sarà già stato fatto recapitare ai massimi vertici istituzionali del paese. Insomma, cara Italia, niente scherzi. Lo zio Sam non vuole. Soprattutto per via della rete 5G, dove la cinese Huawei cerca da tempo entrare nella realizzazione della nostra struttura, vitale per la comunicazione e anche per la difesa. Di Maio è avvisato. Ora la palla passa a Conte. Giuseppi lo chiamó Trump. Chissà se lo rifarebbe ora? Quanto agli scenari politici futuri, a proposito del possibile approdo di Draghi a Palazzo Chigi per la ricostruzione del Paese "ora è possibile scrivere qualunque cosa" spiegano autorevoli fonti di maggioranza. Nel senso che nessuno lo sa. Per ora non si tocca nulla al governo, ed anche la proposta di Bettini di ieri serve a rafforzare il governo, cioè porta a livello parlamentare e istituzionalizza  i vari problemi che esisteranno sempre fra destra (+Renzi) e l'attuale compagine di governo. Poi dopo si vedrà. "Dipende da quanto durerà la crisi, se prenderà altri paesi, quali fondi metterà in campo l'unione europea". È tutto molto prematuro. Insomma, almeno per il momento Giuseppi può stare tranquillo.

Ps: qualcuno dica a Rocco Casalino che dalle parti del Colle (ma anche del Pd) non sono particolarmente soddisfatti (eufemismo) delle performance comunicative del Premier. Il timore è che a lungo andare possano ritorcersi contro il governo. Se i cittadini dovessero cominciare ad arrabbiarsi e potrebbe accadere molto presto (non dimentichiamo che oltre all'emergenza virus c'è anche l'emergenza economica) i milioni di "like" appena conquistati ci metterebbero un attimo a trasformarsi in "dislike"...

(LaPresse il 24 marzo 2020) - "È atterrato a Malpensa il volo Neos partito ieri dalla Cina con a bordo 25 tonnellate di materiale sanitario: circa 1.5 milioni di maschere, 155 ventilatori polmonari, 205mila guanti di lattice, 1.000 kit diagnostici e altrettante tute protettive". Lo scrive su Facebook il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.

Lucia Pozzi per “il Messaggero” il 24 marzo 2020. Ambasciatore Li Junhua, l'Italia sta vivendo una fase estremamente critica e la Cina sta facendo molto per aiutarci concretamente, dall'invio di medici specializzati a mascherine e ventilatori. Un aereo è arrivato nei giorni scorsi a Roma, un altro a Milano. Quali altre iniziative sono in programma?

«Stiamo seguendo, fin dall'inizio e con grande partecipazione, le difficoltà che il popolo italiano sta vivendo di fronte all'epidemia. Come ha dichiarato il presidente Xi Jinping nel suo colloquio telefonico con il premier Giuseppe Conte, qualche giorno fa, abbiamo molto a cuore le preoccupazioni del governo e dei cittadini italiani. Per questo motivo inviamo in Italia i team di esperti medici, e forniremo aiuti in termini di materiali sanitari e altro. Il primo team medico cinese e 31 tonnellate di materiale sanitario sono arrivati in Italia il 12 marzo. Nei giorni scorsi la squadra, che ha avuto contatti e incontri diretti con il personale sanitario italiano impegnato in prima linea a Roma, Padova e Milano, ha condiviso la prassi nella lotta all'epidemia e ha ottenuto buoni risultati. Il 18 marzo, a Milano, è atterrato il volo con a bordo il secondo team medico cinese e 9 tonnellate di donazioni di materiali sanitari. Il team cinese si è unito al personale medico della Lombardia nella guerra contro l'epidemia e nel lavoro di prevenzione e di contenimento. Arriverà in Italia ancora un team di esperti cinesi nei prossimi giorni. La Cina è disponibile a continuare a rafforzare la comunicazione scientifica con la controparte italiana, e ad avviare maggiori cooperazioni nel campo della ricerca e sviluppo in telemedicina, farmaceutica e vaccini. Siamo fiduciosi che l'Italia vincerà la lotta contro il virus. E siamo convinti che, con l'impegno congiunto dei nostri due Paesi, daremo un contributo alla cooperazione internazionale nella lotta all'epidemia e alla creazione della Via della Seta della Salute».

La necessità di forniture sanitarie, dai macchinari per la ventilazione alle apparecchiature per allestire postazioni di terapia intensiva, è un'emergenza. Come funziona il meccanismo dell'export dalla Cina verso gli altri Paesi di queste forniture specializzate?

«La Cina ha già registrato un cambiamento positivo nell'andamento dell'epidemia e, in questa fase, sta ottenendo importanti risultati. La ripresa dello sviluppo socio-economico sta accelerando, e la produzione di materiale sanitario, a partire dalle mascherine, è in aumento. La domanda per questi prodotti in Cina è ancora alta e permane lo squilibrio tra domanda e offerta: l'epidemia è spietata. Ma le persone hanno un cuore. Comprendiamo pienamente la pressione a cui sono sottoposti gli altri Paesi che stanno affrontando l'epidemia. Sosterremo, dunque, le aziende impegnate nell'export ad organizzare la fornitura di materiale sanitario all'estero e contribuiremo alla lotta al Covid-19 su scala mondiale. La Cina non attua alcuna misura di controllo o limitazione delle esportazioni di materiale sanitario e le aziende operano in base ai principi del mercato. L'esportazione dei materiali sanitari cinesi avverrà in base alle richieste del Paese di destinazione: ad esempio, le merci destinate ai Paesi dell'Unione Europea devono avere la certificazione CE».

Esistono aziende cinesi certificate per l'export di queste apparecchiature, quali e quante sono?

«La Cina dispone di una grande produzione di apparecchiature medicali e di molte aziende esportatrici, e la Ue è uno dei principali mercati di destinazione di tali prodotti: molte aziende cinesi sono pronte a esportarli. Su richiesta della controparte italiana, abbiamo tempestivamente fornito informazioni su oltre 10 aziende cinesi, coadiuvando in modo attivo il matching tra queste e le aziende italiane per l'acquisto di materiali sanitari».

Poiché non solo l'Italia è in emergenza, ma anche molti altri Paesi, il criterio che stabilisce le priorità è quello del momento di arrivo della richiesta di fornitura, quello del maggior prezzo offerto dal potenziale acquirente o altro?

«Attualmente l'epidemia sta esplodendo in molte zone del mondo e il trend è in crescita. La Cina comprende benissimo le necessità di approvvigionamento di materiale medico e sanitario per far fronte all'emergenza, sia in Italia sia in altri Paesi. Le aziende cinesi forniscono le merci in base ai principi di mercato. Tuttavia, vista la gravità della situazione epidemiologica in Italia, e alla luce del rapporto di amicizia e di cooperazione che lega Italia e Cina, la parte cinese si sta attivando per aiutare le aziende italiane che hanno necessità di interfacciarsi con le controparti cinesi, al fine di poter distribuire le merci nel minor tempo possibile. Nessuno sa prevedere con certezza quanto durerà questa fase buia, ma la Cina, dopo mesi durissimi e con un conto economico da pagare molto pesante, si sta riprendendo ed è una speranza per tutti».

Cosa si aspetta dal futuro delle relazioni internazionali dopo la tempesta coronavirus?

«Dopo diversi mesi di faticoso impegno, l'andamento dell'epidemia in Cina sta vedendo importanti risultati. Tutto ciò è di aiuto per dare fiducia ai Paesi, Italia compresa, che stanno lavorando per prevenire e contenere i contagi. Quest'epidemia costituisce una prova davvero seria, lo è per l'Italia quanto per la Cina. In un momento difficile come questo, i popoli dei nostri due Paesi hanno dimostrato la volontà di sostenersi a vicenda, come se fossero sulla stessa barca. Nell'anno del Cinquantesimo anniversario delle relazioni bilaterali italo-cinesi, i due Paesi attraversano un momento di difficoltà e vanno avanti insieme: si tratta di un'altra pagina di storia che stiamo scrivendo insieme. Quest'epidemia sta mostrando a tutti che al mondo non esistono isole di salute e sicurezza, e che l'umanità è una comunità dal futuro condiviso. Le sfide globali si possono affrontare solo se tutti i Paesi lottano fianco a fianco. Attendiamo con impazienza il momento in cui, superata questa guerra contro l'epidemia, ogni Paese aumenterà la propria consapevolezza circa l'importanza dell'unità e dello spirito di collaborazione. Sarà quello il momento in cui, insieme, promuoveremo la costruzione di una casa più sana, più tranquilla e più bella per tutti».

Li Zehua, il Covid-19 e la censura cinese. L’affondo di Terzi.  Giulio Terzi di Sant'Agata su formiche.net il 07/03/2020. In un clima di emergenza nazionale sarebbe opportuno non farci prendere in giro da Pechino e dai suoi numerosissimi, non sempre disinteressati, sostenitori e ammiratori, anche qui in Italia. Il caso di Li Zehua letto dall'ambasciatore Giulio Terzi, già ministro degli Esteri. Il caso di Li Zehua, ex giornalista cinese della CCTV che ha documentato l’assenza di trasparenza e la propaganda del Partito comunista cinese nella gestione dell’emergenza del Covid-19 e di cui da giorni non si hanno più tracce, riaccende i riflettori sulla manipolazione e falsificazione dell’informazione da parte del governo cinese. Dalla Sars in poi la Cina ha nascosto, censurato e truccato i dati sulla sanità pubblica, impedendo di reagire in tempo grazie al suo dominio delle agenzie Onu. Perché, oggi, l’Oms non ha ancora dichiarato lo stato di pandemia? Semplice. Perché dovrebbe imporre alla Cina, legalmente e obbligatoriamente, di fornire dettagliate e comprovate informazioni su origine e diffusione del virus, sulle misure adottate, e soprattutto su come la pandemia sia stata irresponsabilmente “esportata” in tutto il mondo. Purtroppo, sembra che il direttore esecutivo dell’Oms debba stare dov’è solo per dire quanto è bravo e saggio Xi Jinping. Le responsabilità globali che la Cina afferma in misura sempre più ideologica – ad esempio la conclamata superiorità del modello comunista/maoista rispetto alla democrazia liberale e la pretesa, vantata ormai da anni (soprattutto dal 2012), di essere una potenza globale che deve poter dettare le sue leggi, i suoi asseriti diritti (es. Mar della Cina), e i suoi “modelli” nell’Intelligenza artificiale, nella Cyber Security, nella proprietà intellettuale – ecco tutte queste “responsabilità” del governo comunista non valgono assolutamente più nulla non appena si scatena – proprio dalla Cina, e per le immense carenze del sistema di prevenzione e della politica igienico-sanitaria – una pandemia che continua ad essere manipolata dalla propaganda e falsificata sui media. Alla luce di tutto questo, è triste, oltre che incredibile, pensare che l’Italia sia stata il primo Paese in Europa ad aprire l’intero continente alla Via della Seta e alla dominazione economica, politica e strategica cinese. Stupisce, inoltre, che all’indomani di un’immensa crisi sanitaria di origine cinese, nessuno da Roma abbia lontanamente suggerito agli “amici” a Pechino di fornire all’Italia e all’Europa tutti i dati e le informazioni rilevanti per contenere il contagio. E infatti poco o nulla oggi si sa su natura, velocità di propagazione, ripetibilità del virus. In un clima di emergenza nazionale come quello che viviamo, sarebbe opportuno, almeno, non farci prendere in giro da Pechino, e dai suoi numerosissimi, non sempre disinteressati, sostenitori e ammiratori, anche qui in Italia.

DISINFORMAZIONE E FAKE NEWS NEI GIORNI DEL CORONAVIRUS. Pubblicato il  18 Marzo 2020 da Massimiliano Di Pasquale su stradeonline.it. Mercoledì 11 marzo Tedros Adhanom Ghebreyesus, Direttore Generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, durante un briefing a Ginevra, ha annunciato che la malattia virale COVID-19, nota come coronavirus, che si è diffusa in almeno 114 paesi uccidendo oltre 4.000 persone, è ufficialmente una pandemia, ossia “un’epidemia con tendenza a diffondersi ovunque, cioè a invadere rapidamente vastissimi territorî e continenti”. La nota ufficiale dell’OMS e, qualche ora più tardi, quella del governo italiano, che annunciava l’entrata in vigore di norme ancora più restrittive per prevenire il contagio – norme che prevedono la chiusura di negozi e locali garantendo solo servizi essenziali, alimentari e farmacie fino al 25 marzo –, non sono state le uniche notizie che hanno monopolizzato l’attenzione degli italiani. Su Facebook, Twitter e Instagram una delle notizie più condivise di quel giorno riguardava infatti la presunta donazione all’Italia, da parte del governo cinese, “di 1000 ventilatori polmonari, 50mila tamponi, 20mila tute protettive, 100mila mascherine di massima tecnologia, 2 milioni di mascherine ordinarie”. L’infografica diffusa dal Movimento Cinque Stelle, condivisa su molti account social, sovente accompagnata da lodi al regime cinese, da attacchi all’Unione Europea e/o da frasi che sottolineano la superiorità dei regimi autoritari, Cina e Russia, rispetto alle democrazie, è diventata nell’arco di poche ore più virale del virus stesso.  Peccato che le informazioni contenute nell’infografica dei grillini fossero false. L’operazione conclusasi venerdì 13 marzo con l’arrivo in Italia del materiale, dopo il contatto telefonico tra il ministro degli Esteri italiani, Luigi Di Maio e la sua controparte cinese, Wang Yi, è infatti una normale transazione commerciale, non una donazione come vorrebbe farci credere la propaganda del Movimento Cinque Stelle. Come sottolinea il portale Money.it non si tratta affatto di un regalo, ma di una vera e propria strategia economica del governo cinese, che avrebbe chiesto alle aziende di avviare un’esportazione massiccia di questi dispositivi nei Paesi più colpiti dal coronavirus. Qualche giorno prima dell’accaduto, l’ex Ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant'Agata, in un articolo pubblicato sul sito Formiche.net, stigmatizzava proprio l’atteggiamento acritico  del governo italiano e di gran parte dell’opinione pubblica nazionale rispetto alle responsabilità della Cina nella gestione della crisi legata al coronavirus. A detta di Terzi non solo “dalla Sars in poi la Cina ha nascosto, censurato e truccato i dati sulla sanità pubblica, impedendo di reagire in tempo grazie al suo dominio delle agenzie Onu”, ma la scomparsa di Li Zehua, ex giornalista cinese della CCTV che ha documentato l’assenza di trasparenza e la propaganda del Partito comunista cinese nella gestione dell’emergenza del Covid-19, di cui non si hanno più notizie da giorni, “riaccende i riflettori sulla manipolazione e falsificazione dell’informazione da parte del governo cinese”. Torniamo ora alla fake news sulle donazioni cinesi all’Italia. Quella diffusa mercoledì 11 marzo è infatti solo l’ultima di una lunga serie di narrazioni disinformative legate al coronavirus che imperversano su media e social media da più di due mesi, ossia da quando sono emersi i primi casi di contagio legati al COVID-19. Il fenomeno delle fake news, di cui in Italia si parla troppo poco e quando lo si fa, lo si fa ancora con approssimazione, merita invece di essere analizzato in profondità. Il case study del coronavirus è per certi versi emblematico di come funzioni una campagna di disinformazione e degli obiettivi politici e geopolitici che si propongono gli attori che promuovono questo tipo di operazioni. Prima di esaminare in dettaglio le fake news e le narrative legate al COVID-19, ritengo opportuno aprire una parentesi di carattere metodologico e storico, utile per comprendere l’attuale scenario e le sue implicazioni in chiave geopolitica. Le fake news sono un virus, non biologico ma politico e la possibilità che molti di noi ne siano già stati infettati è piuttosto elevata. Se non sappiamo più a chi credere, se siamo stufi della mole di notizie da cui siamo bombardati e se pensiamo che la cosa migliore sia fregarsene, beh allora la probabilità di essere stati già contagiati è davvero alta. Lo scopo delle fake news, parola recente ma concetto molto vecchio, in epoca sovietica si chiamavano Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive) come conferma l’ex agente del KGB Ladislav Bittman, è quello di distruggere le democrazie occidentali dal loro interno. Ladislav Bittman, scomparso nel 2018 all’età di 87 anni, era considerato uno dei massimi esperti di questa pratica. Nel corso di un’intervista realizzata con il New York Times qualche mese prima della sua scomparsa,  Bittman fornisce una sua definizione di fake news. “Le fake news sono informazioni deliberatamente distorte e inserite segretamente nel processo di comunicazione al fine di ingannare e manipolare”. L’ex agente ricorda come all’epoca della Guerra Fredda ad ogni ufficiale del KGB fosse richiesto di dedicare almeno il 25% del proprio tempo alla fabbricazione di fake news. Passando all’analisi tecnica delle operazioni Bittman rivela che il KGB, una volta prodotta una fake news, cercava di piazzarla in qualche giornale in lingua inglese di un Paese del Terzo Mondo come India o Thailandia dove era più facile l’opera di inganno o di corruzione dei giornalisti. Lo step successivo era riproporre dopo un paio di anni la stessa notizia in un giornale russo citando come fonte quella indiana o thailandese. Era questo il modo per distanziarsi da una bugia da loro stessi creata. Nel 1986 – spiega sempre Bittman – il KGB voleva diffondere la notizia del virus dell’HIV prodotto in laboratorio dagli americani in Occidente e così si avvalse di due scienziati della DDR. Nell’arco di qualche mese la notizia divenne virale e, diffondendosi in tutto il mondo, arrivò anche in America. Oggi, sottolinea l’ex spia sovietica, grazie ai media digitali è molto più facile rendere virale una fake news. Il lasso di tempo tra la produzione di una fake news e la sua diffusione virale può essere ridotto a mesi o addirittura a settimane, a seconda dello scopo che ci si prefigge. Torniamo ora al coronavirus e, avvalendoci del sito Eu vs Disinformation, proviamo a vedere quali sono stati i messaggi relativi all’epidemia veicolati dai media legati al Cremlino in Europa e nel nostro Paese.  È importante sottolineare che nel mondo globalizzato, grazie alle tecnologie digitali, anche narrative promosse al di fuori dell’Italia possono facilmente diffondersi da noi alla stregua di un vero e proprio virus contaminando le nostre percezioni. Domenica 15 marzo, facendo una ricerca mirata con la keyword coronavirus nel database dei casi di disinformazione, troviamo ben 78 “entries”.   

Vediamo quali sono le principali narrative di disinformazione. 

La narrativa più ricorrente è quella secondo la quale il virus è un’arma biologica creata dall’Occidente –  dalla CIA, dalla NATO, dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra – per isolare la Cina, per provocare una Sinofobia, per muovere una guerra ibrida contro la Cina, per indebolire economicamente la Cina, per fare fuori la Russia, la Cina o più in generale gli avversari degli Stati Uniti. Tecnicamente tutti questi fake sono classificabili come teorie cospirazioniste (o del complotto) ossia teorie alternative più complesse rispetto alle versioni ufficiali e critiche nei confronti del senso comune o della verità circa gli avvenimenti comunemente accettata dall'opinione pubblica. Per definizione tali ipotesi non sono provate perché se lo fossero cesserebbero di essere “teorie”. Le teorie cospirazioniste vengono sovente elaborate in occasioni di eventi, in questo caso la pandemia da coronavirus, che catturano l’interesse dell'opinione pubblica. La strumentalizzazione politica dei complotti non è peraltro cosa recente basti solo pensare all’utilizzo fatto dal regime nazista dei Protocolli dei Savi di Sion un falso documentale creato dalla polizia segreta zarista, con l'intento di diffondere l'odio verso gli ebrei nell'Impero russo. È importante notare come questo falso storico creato più di 100 anni fa nella Russia imperiale, in forma di documento segreto, attribuito a una fantomatica cospirazione ebraica e massonica il cui obiettivo sarebbe stato impadronirsi del mondo, sia ancora attuale. La narrativa delle élite contro il popolo utilizzata nell’ultimo lustro dalla disinformazione russa per screditare la UE e più in generale le istituzioni liberali dando in pasto alla “maggioranza silenziosa” capri espiatori quali banchieri, grandi corporazioni, ebrei, oligarchi, musulmani, burocrati di Bruxelles la ritroviamo puntualmente in questi giorni in molti dei fake sul coronavirus.  Prendiamo per esempio questo fake diffuso da Zvezda rete televisiva  dello stato russo gestita dal Ministero della Difesa, puntualmente smascherato dal team di esperti di EU vs Disinformation. “C'è un biolaboratorio a Wuhan – di cui fino a poco tempo fa non si sapeva nulla. Il suo indirizzo è Gaoxin 666 - il numero menzionato nella Bibbia, sotto il quale è nascosto il nome della bestia dell'Apocalisse. Ma è ancora più simbolico che esista grazie ai soldi del famoso banchiere George Soros, che condivide le idee globaliste di Bill Gates. Questo potrebbe far parte di un piano astuto. Il coronavirus colpisce solo i rappresentanti della razza mongoloide, il che è molto sospetto e solleva domande”. Se analizziamo questo fake, che ad alcuni può apparire abbastanza rozzo, ma che è stato attentamente pianificato per un’audience russa sostanzialmente americanofoba e sensibile ad argomentazioni “religiose” (lo storico Timothy Snyder nel suo libro La Paura e la Ragione parla per il regime putiniano di Fascismo Cristiano), notiamo che la narrativa cospirazionista antioccidentale utilizza i classici cliché complottisti dell’ebreo ricco (Soros), del capitalista americano (Gates), delle élite segrete e dell’occidente satanico e perduto. Quella dell’Occidente corrotto e dissoluto è un altro dei caposaldi della dezinformatsiya russa per demonizzare Unione Europea, Stati Uniti e più in generale il mondo liberale. Secondo questa narrativa, utilizzata principalmente per sfidare gli atteggiamenti progressisti occidentali nei confronti dei diritti delle donne, delle minoranze etniche, religiose e dei gruppi LGBT, l’Occidente effemminato sta marcendo a causa della decadenza, del femminismo e della correttezza politica, mentre la Russia incarna i valori tradizionali. La disinformazione basata sui valori è di solito incentrata su concetti minacciati come “tradizione”, “decenza” e “senso comune” – termini che hanno tutti connotazioni positive ma che raramente sono chiaramente definiti e definibili. È interessante osservare come il fake del coronavirus quale arma biologica inventata dagli americani, non solo si stia diffondendo a macchia d’olio – il sito Geopolitica.ru di Aleksandr Dugin in data 15 marzo pubblica un articolo intitolato  “L’ex aiutante di Putin: il coronavirus è un’arma biologica americana” – ma presenti inquietanti similarità con l’operazione Infektion condotta negli anni Ottanta dal KGB. Nel luglio 1983 un giornale di Nuova Delhi, il Patriot Magazine, pubblica una notizia secondo cui il virus dell’HIV sarebbe stato creato dagli scienziati americani che lavorano per il Pentagono al fine di sterminare afro-americani e gay. Per rendere credibile quella che poi si sarebbe rivelata una clamorosa fake news, la testata menziona uno stabilimento realmente esistente in Maryland, quello di Fort Detrick, dove sarebbero avvenuti gli esperimenti. Due anni più tardi, nel settembre 1985, la notizia appare sui quotidiani di diversi stati africani. Un anno dopo due biologi della DDR, Lilli e Jakob Segel, affermano sulle pagine di un giornale tedesco che loro sono in grado di provare che il virus è stato creato dagli americani. Alla fine del 1986 la notizia viene rilanciata da quotidiani in Camerun, Finlandia, Pakistan, Bulgaria, Kenya, Bangladesh e anche dal britannico Daily Express. Il 30 marzo 1987 anche un’emittente televisiva americana dà la notizia. La fake news creata dal KGB, dopo quattro anni, è arrivata negli Stati Uniti creando un effetto destabilizzante sulla società americana. L’Active Measures Working Group, voluto da Reagan al momento dell’insediamento alla Casa Bianca nel 1981 per combattere la dezinformatsiya russa, riuscirà a dimostrare, grazie alla collaborazione di ex agenti del KGB come la fake news sia stata prodotta dal Cremlino. Un dossier dettagliato sull’operazione Infektion verrà presentato anche a Mikhail Gorbaciov, che durante un incontro con Ronald Reagan si scuserà personalmente con il Presidente americano, non potendo negare il contenuto di quel dossier. Grazie a uno staff di poche unità con un piccolo budget, specie se paragonato alle ingenti risorse impiegate dai sovietici, gli Stati Uniti furono in grado di smascherare l’operazione Infektion ma non di eliminare tutti gli effetti ‘tossici’ legati ad essa. Ancora oggi nei testi delle canzoni di alcuni rapper, in certe pellicole televisive, addirittura nei sermoni di alcuni predicatori religiosi, si accredita la tesi dell’HIV come virus creato dal Pentagono per liberarsi di neri e omosessuali. Lo stesso dicasi per analoghe fake news diffuse dal Cremlino in quegli anni, quali la tesi secondo cui JFK sia stato ucciso dalla CIA (Oliver Stone ha girato un film su questo falso storico), l’attentato a Giovanni Paolo II ordito dalla CIA e i rapimenti dei bambini in America Latina ordinati sempre dagli americani per alimentare il traffico d’organi. Con il collasso dell’URSS nessuno, neppure gli americani, credeva che la Russia avrebbe continuato a usare questi metodi. La Guerra Fredda era finita e si apriva, a detta di molti, una nuova stagione di collaborazione tra Est e Ovest. Dopo gli anni di relativa distensione della presidenza Eltsin, periodo in cui la Russia valuta addirittura l’ipotesi di entrare a fare parte della NATO, la situazione muta completamente con l’avvento sulla scena politica russa di Vladimir Putin, prima (1998 – 1999) come direttore dell’FSB, i servizi segreti federali eredi del KGB, poi come Primo Ministro (1999) e infine come Presidente (2000 – 2008; 2012 – oggi). Ex ufficiale del KGB dal 1975 al 1991, in servizio a Dresda (DDR) dal 1985 al 1990 presso la STASI, Putin, salito al potere, inizia un’opera di ripristino del vecchio apparato di intelligence. Nella prima fase, che possiamo chiamare di consolidamento, si ricreano i media – nel 2005, per esempio, avviene il lancio di Russia Today (RT) emittente russa globale in lingua inglese –, nella seconda avviene il loro utilizzo in senso offensivo come strumento di information warfare. Uno dei primi esempi di utilizzo della dezinformatsiya si ha in concomitanza con l’invasione russa in Georgia nell’agosto del 2008 e durante il cyber attack del 2007 agli enti governativi dell’Estonia. Nel 2013 il Cremlino crea l’Internet Research Agency. Le nuove tecnologie digitali schiudono infatti enormi possibilità alla propaganda. L’obiettivo della Russia di Putin, ben consapevole di non poter competere a livello politico ed economico con un’Europa coesa, è dividere l’Ovest e favorire lo scontro tra i Paesi dell’Europa. Il mezzo utilizzato è la disinformazione veicolata attraverso fake news. Lo scopo è destabilizzare le democrazie, sovvertirle instillando nella popolazione un senso di confusione e di demoralizzazione usando argomenti divisivi, mettendo per esempio bianchi contro neri, giovani contro vecchi, ricchi contro poveri. In queste settimane la diffusione deliberata da parte dei media russi di teorie cospirazioniste e di false informazioni sul coronavirus per seminare caos e paura è chiaramente finalizzata alla distruzione dell’Europa e a staccare l’Italia dal blocco occidentale. I più di 400 articoli pubblicati da Sputnik Italia sul coronavirus in soli 2 mesi, fotografano la centralità di questo tema all’interno della strategia comunicativa del principale outlet russo in Italia. In questa fase Sputnik Italia, che da qualche tempo ha scelto di usare toni apparentemente moderati nel tentativo di catturare un’audience più mainstream rispetto a quella di altri media filorussi italiani come Geopolitica.ru e l’Antidiplomatico, ha preferito un approccio basato sul diffondere narrative contraddittorie e divisive evitando fake grossolani.  Alcune delle narrative sul coronavirus apparse su Sputnik Italia, utili per comprendere come questa scelta sia solo apparentemente meno destabilizzante e meno pericolosa dei fake più apocalittici, sono le seguenti:

•Il coronavirus rappresenta una “minaccia biologica” per la popolazione russa 

•La Russia sta adottando misure preventive efficaci 

•Un regime autoritario come la Cina sta dimostrando una maggiore efficacia nel gestire la crisi rispetto alle democrazie occidentali 

•L'UE è completamente inefficace nella gestione della crisi del coronavirus, non è in grado di prendere misure per contenere la diffusione del virus e non è venuta in aiuto dell'Italia

•L'epidemia di coronavirus potrebbe provocare un crollo del trattato di Schengen e del concetto stesso di UE 

•I concorrenti italiani nell'UE mirano a sfruttare la crisi del coronavirus in Italia al fine di ottenere vantaggi politici ed economici, compresa l'acquisizione di società italiane strategicamente importanti 

•Il coronavirus potrebbe creare una situazione socialmente esplosiva in molti paesi europei e innescare proteste popolari più bellicose contro l'élite 

•La crisi del coronavirus è solo l'inizio del crollo del sistema globale post-Seconda Guerra Mondiale 

•L'esercito americano potrebbe aver portato COVID-19 a Wuhan 

Ma le mire egemoniche nei confronti del nostro paese non solo appannaggio di Mosca. Anche in Cina guardano con grande interesse all’Italia e non certo per ragioni umanitarie come qualche politico italiano sembra volerci far credere. 

Il fatto che qualche giorno fa il portavoce del Ministero degli Esteri della Cina, Hua Chunying abbia postato sul proprio profilo Twitter un video relativo a un flash mob avvenuto sui balconi di Roma per esorcizzare il coronavirus con il commento in inglese  “gli italiani stanno cantando Grazie Cina” dovrebbe farci riflettere. Il rischio è che una volta sconfitto l’incubo coronavirus, l’Italia debba affrontare un’altra emergenza: quella democratica. L’autoritarismo, che all’epoca del crollo del Muro di Berlino si credeva debellato per sempre, ritorna come forza geopolitica a livello mondiale con Russia e Cina, alfieri di un modello illiberale che, grazie a operazioni di sharp power, hybrid analytica e disinformazione, trova estimatori anche in Italia. Sarebbe opportuno che tutti gli italiani, dal primo cittadino che siede al Colle al cittadino comune iniziassero a riflettere sulle drammatiche conseguenze di queste minacce, sperando che non sia già troppo tardi. 

La Cina vuole aiutarci, c’è da fidarsi? Antonio Selvatici de il Riformista il 20 Marzo 2020. È una guerra non convenzionale. Da un lato il virus, dall’altro la competizione tra Stati e tra modelli di governance. Del virus che furbescamente s’insinua nei polmoni sappiamo poco, così poco che, per ora, non riusciamo né a sconfiggerlo né ad ammaestrarlo. Della competizione tra stati sappiamo qualcosa di più. Partiamo dalla Cina, la grande potenza dove è iniziato tutto questo. Come avevamo anticipato la tendenza è che la Cina da causa diventi la soluzione. Autorevoli commentatori hanno iniziato a recitare il mantra “la Cina è la locomotiva della ripresa”. L’immagine che sta passando è quella dell’Italia questuante in cerca di carità, piegata scientificamente e materialmente agli aiuti provenienti da Pechino. Sono arrivati i medici e gli infermieri dall’estremo Oriente, sono arrivate (pagate o donate?) mascherine, grembiuli ed altro materiale sanitario. Una copertura mediatica a tutto tondo per farci sperare e sognare. Atteggiamento finanche comprensibile: quando il dolore è così forte si è pronti a tutto. Dalla Cina una decina, tra medici ed infermieri, e due pallet di presidi sanitari sono diventati un fenomeno paragonabile solo al vecchio post bellico Piano Marshall. Naturalmente dobbiamo essere grati alla Cina, e a qualsiasi altro paese che s’adopera a portare aiuto. Senza dimenticare che si tratta di buoni azioni già contraccambiate: il 15 febbraio scorso dall’aeroporto di Brindisi è partito un carico di mascherine diretto in Cina. Così le cronache locali descrivono il pacco dono: «È partito questo pomeriggio dalla Base di pronto intervento della Nazioni Unite di Brindisi un volo umanitario diretto in Cina per fronteggiare l’emergenza sanitaria del Coronavirus. Il volo è decollato alle 14.50 ed è diretto a Pechino. Sul velivolo sono state imbarcate diciotto tonnellate di materiale medico-sanitario di protezione personale donato dalla Cooperazione Italiana e dall’Ambasciata cinese in Italia. Si tratta di mascherine, tute, occhiali protettivi, guanti e termometri». Che cos’è il soft power? Per il vocabolario Treccani: “l’abilità nella creazione del consenso attraverso la persuasione e non la coercizione” e per coercizione s’intendono anche le bombe i cannoni. Soft power è il termine anglosassone, senza dubbio più elegante e dotto dell’italianissimo imbonire, nel senso di rendersi favorevole a qualcuno. Non con le sberle e i calci, ma con gentilezza e fermezza. La pubblicazione, nel circuito cinese, della clip che mostra l’Italia sostenuta da due infermiere cinesi ben rappresenta una distorsione della realtà. Altri messaggi (a volte ambigui) li troviamo in newsletter diffuse da associazioni cinesi con sede in Italia. Qual è il confine tra innocente beneficenza e collaborazione-aiuto interessato? Huawei Italia, per contribuire alla lotta contro il Coronavirus, ha offerto non solo di donare apparati di protezione, ma anche la possibilità di collegare in cloud gli ospedali italiani tra loro comunicando con le unità di crisi. Senza dubbio gesti apprezzabili, ma il collegamento fra ospedali e unità di crisi non può forse essere inserito in un contesto di “sicurezza nazionale”? In questo periodo così importante la conoscenza, il conoscere come in realtà si sia propagato il Coronavirus è un elemento imprescindibile. Avere a disposizione un chiaro panorama di come si è sviluppato e diffuso è fondamentale per aiutare tutti, soprattutto i medici e i ricercatori. Il famoso virologo Roberto Burioni nel libro a sua firma appena uscito non lascia spazio ad interpretazioni: “dei dati cinesi c’è davvero poco da fidarsi”. A supporto della tesi due recenti importanti articoli apparsi sul South China Morning Post. Il primo raccoglie la testimonianza di Ai Fen, direttore del dipartimento di emergenza del Whuan Central Hospital che conferma quanto condiviso dal defunto “eroe nazionale” Li Wenliang, (il medico che anzitempo condivise mezzo WeChat con i colleghi il timore della presenza di un virus simile alla SARS, venne severamente ammonito dalle autorità locali e costretto a fare pubblica ammenda), cioè di avere notato «un flusso di pazienti da polmonite settimane prima che i funzionari confermassero che la trasmissione del virus da uomo a uomo era possibile». L’intervento del medico Ai Fen originariamente è apparsa su un settimanale cinese, prima di essere censurata. Il secondo articolo racconta come il primo caso di Coronavirus risalirebbe a metà novembre, quindi due settimane prima del 1 dicembre: data indicata dalla rivista medico scientifica The Lancet come quella dell’apparizione dei primi sintomi del contagio. Anche una superficiale lettura del triste bollettino di guerra giornaliero impone alcune riflessioni. Arrotondiamo. Perché in Cina si contano “solo” 3.300 deceduti e in Italia superano i 3.000? Non vi è proporzione tra il numero dei deceduti, il numero di abitanti, la densità abitativa, la dimensione geografica e il periodo intercorso dal primo caso tra Italia e Cina. Sembra che noi siamo particolarmente vulnerabili al virus. Muoriamo molto di più dei cinesi. Perché? Siamo vulnerabili come lo è la nostra borsa, i cui titoli fortemente castigati dagli eventi diventano appetibili. Siamo sul mercato a basso prezzo. L’Europa ha, ancora una volta, dimostrato la fragilità e la frammentazione. Non esiste uno spirito europeo, ma nazionale. Ogni nazione pensa a sé, al suo tornaconto economico. Poi, forse, c’è anche chi ha pensato di fare un po’ di speculazione. Il Coronavirus è una cartina di tornasole: evidenzia latenti scontri culturali. L’Italia è stata in Europa la prima nazione ad essere colpita, la prima che ha dovuto fare i conti con il Coronavirus, la prima che ha adottato alcuni drastici provvedimenti. Chiudere le scuole, i locali pubblici, limitare i contatti, cantare insieme al pomeriggio, ora che il contagio si diffonde provvedimenti e atteggiamenti vengono copiati da altri Paesi che fino a pochi giorni fa li giudicavano esagerati. L’Italia è stata criticata e derisa, forse per esorcizzare il male che era già arrivato ma che non si voleva vedere. Ed ora che la Cina può (deve?) diventare la “locomotiva della ripresa” forse occorre una seria riflessione sul modello di globalizzazione in vigore fino ad oggi.

Di Maio lavora a fornitura 100 milioni di mascherine. (ANSA il 19 marzo 2020) – Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio sta lavorando ad una fornitura diretta da parte di un'azienda cinese di 100 milioni di mascherine verso l'Italia. Lo si apprende da fonti informate, secondo cui DI MAIO avrebbe già parlato dell'operazione al premier Conte, al ministro Speranza e ai commissari Borrelli e Arcuri. Il contratto della commessa, si apprende, sarebbe già siglato. Dopo l'arrivo di diversi ventilatori polmonari dalla Cina e altri Paesi, l'emergenza ora riguarda anche le mascherine in dotazione soprattutto a medici, infermieri e operatori sanitari. Senza mascherine al personale sanitario, verrebbero meno le condizioni di sicurezza negli ospedali per poter continuare a operare. Da qui, e dopo alcuni blocchi doganali registrati in questi giorni su aiuti diretti al nostro Paese, la linea di azione che sta portando avanti la Farnesina per individuare una fornitura diretta e affidabile che garantisca l'arrivo di mascherine in Italia.

Da Formiche.net - estratto il 19 marzo 2020. Ieri in conferenza stampa il segretario di Stato americano Mike Pompeo, dopo aver sottolineato la vicinanza degli Stati Uniti all’Italia (unico Paese europeo a essere citato nell’intervento), ha dichiarato che “verrà un giorno”, quando il virus sarà sconfitto, “in cui andremo a valutare la risposta del mondo intero”, a partire dalla (lenta) reazione cinese. Ma gli Stati Uniti valuteranno anche, si legge tra le righe del messaggio del capo di Foggy Bottom, il comportamento di chi ha offerto il fianco alla propaganda cinese.

Francesco Bechis per formiche.net il 19 marzo 2020. Geopolitica e finanza sono parte di uno stesso intreccio, e le crisi globali come quella innescata dal Covid-19 lo dimostrano puntualmente. Carlo Pelanda, economista e analista geopolitico, ne è convinto: ora che l’Italia è gravemente esposta sui mercati internazionali e lo spread è alle stelle la prudenza è d’obbligo. Prima di saltare l’asticella dei rapporti atlantici con un balzo verso la Cina, “dovrebbe confrontarsi con Washington: senza gli Stati Uniti l’economia italiana è finita”.

Professore, a cosa si riferisce?

«L’emergenza sanitaria sta dimostrando che in Italia la lobby pro-Cina è sempre più forte. Per il momento prevale quella filoatlantica. Roma dovrebbe confrontarsi con Washington per capire fin dove può spingersi, perché fra Stati Uniti e Cina è in corso una guerra, non solo economica».

Qual è la linea rossa?

«Bisogna stare molto attenti. L’Italia ha bisogno dei turisti cinesi, che in media quando arrivano lasciano 2300 euro a testa, ma deve anche evitare strappi. Non si possono chiudere le porte alla Cina ma neanche spalancare. Se la Cina blocca le importazioni dall’Italia abbiamo un piccolo danno, se lo fanno gli Stati Uniti siamo finiti».

Anche sui mercati ci possono essere ripercussioni?

«L’Italia senza l’ombrello americano è economicamente morta. Un anno fa è stato commesso l’errore di portare la relazione con la Cina oltre la soglia politica. Washington è intervenuta, e Roma ha tirato il freno. Rimane, come ho detto, una forte pressione di una lobby filocinese, con alcuni esponenti del mondo politico a libro paga di Pechino, e oltre Tevere una continua attività diplomatica del Vaticano, che ha bisogno di trovare un accordo per la Chiesa cattolica in Cina».

Come si spiega l’esposizione delle aziende italiane quotate andata in scena a Piazza Affari giovedì scorso?

«Non credo sia in corso un complotto contro l’Italia, né che la temporanea fragilità del Sistema Paese sui mercati finanziari apri a una svendita immediata dei nostri asset. Vedo piuttosto, da parte di Stati europei e soprattutto della Francia, un tentativo di mettere all’angolo l’Italia in alcuni settori strategici come Aerospazio e Difesa, ma è un movimento avviato da tempo e non legato al coronavirus».

La turbolenza dei mercati è destinata a durare?

«Sì, gli attori di mercato fiutano il rischio e reagiscono di conseguenza: fuggono, shortano o speculano. L’Italia paga una debolezza al pari degli altri Stati europei: la Bce è un’istituzione incompleta, perché non ha la garanzia di ultima istanza, è l’unica al mondo a non funzionare come prestatore di ultima istanza. Ora i grandi speculatori hanno iniziato a bussare, per vedere fin dove la Bce può spingersi».

Goldman Sachs per l’Italia ha una previsione particolarmente nera: -3,4 punti percentuali di Pil in un anno.

«Hanno ragione, forse sono un po’ ottimisti. Tutti i grandi istituti formulano sempre tre scenari, e questo mi sembra a metà fra quello intermedio e quello peggiore. Se contiamo che il 13% del Pil e il 12% dell’occupazione italiana derivano dal turismo ci rendiamo conto della gravità del momento. Un crollo fra il 3 e il 4% del Pil non è il worst scenario».

Il decreto “Cura Italia” basta a tamponare?

«Cose da ridere, secondo le nostre stime per uscire dal guado servono 220 miliardi di euro. Se immetti liquidità le aziende resistono anche sei mesi, con 25 miliardi neanche per sogno. La Germania ha annunciato crediti per 550 miliardi per le imprese sotto il ferro della crisi, di cui 100 a debito. E il governo tedesco si è detto disposto a nazionalizzare le grandi aziende in difficoltà, come Lufthansa e Volkswagen. C’è chi dice che questo primo stanziamento è una prima leva per arrivare a 300 miliardi di euro, non è chiaro come. La prudenza italiana è dettata dal fatto di non avere alle spalle un prestatore di ultima istanza europeo per il suo debito. Se alza la posta, il mercato la fa saltare».

Si discute di un possibile ruolo di Cdp a sostegno delle imprese in crisi, e delle aziende quotate esposte. Lei è d’accordo?

«Io sono un liberista. Ma di fronte a una crisi del genere ripongo in bacheca la statuetta della dea libertà e dico: usiamo tutti gli strumenti che possiamo adoperare. Se servono, ben vengano anche le nazionalizzazioni, si penserà in un secondo momento come fare un passo indietro».

Cdp ha i requisiti per operare come fondo sovrano?

«Cdp purtroppo non ha la struttura e la mission della sua equivalente tedesca, la Kwf, ma ha il vantaggio di poter spendere soldi al di fuori del perimetro di bilancio dello Stato. Da sola però non ha il capitale per svolgere questo compito. Dovrebbe essere affiancata da un nuovo fondo sovrano italiano, che raccoglie il risparmio con la garanzia di capitale e interviene in periodi d’emergenza, ovviamente offrendo remunerazioni ai risparmiatori. Con una macchina di questo tipo potremmo davvero sventare gli scenari peggiori».

·        A morte gli amici della Russia. 

Coronavirus, la Russia sospende l'uso dei ventilatori donati all'Italia: "Sono pericolosi". Dopo due incendi che hanno ucciso sei pazienti vietato l’impiego dei ventilatori Aventa-M. Mosca ne aveva donati 150 a Bergamo e Milano: ma il blocco riguarda solo i modelli prodotti più tardi. Le autorità lombarde ora valutano di fermarli. La Repubblica il 13 maggio 2020. La diplomazia dei ventilatori rischia adesso di rivelarsi un autogol. Nello scorso mese la Russia ha vantato le sue capacità di fronteggiare l’epidemia donando apparati respiratori a diversi paesi: all’Italia, alla Serbia e persino allo Stato di New York. Ma adesso Mosca ha sospeso in patria l’uso di questi strumenti, con il sospetto che siano pericolosi. Ieri infatti c’è stato un rogo in un reparto di terapia intensiva a San Pietroburgo: fiamme e fumo hanno provocato la morte di cinque pazienti, tutti ricoverati per il coronavirus. E sabato scorso un incendio è scoppiato in un ospedale di Mosca, uccidendo un malato con i polmoni aggrediti dal Covid-19. Le autorità russe ipotizzano che in entrambi i casi il fuoco sia scaturito da un malfunzionamento dei ventilatori. Nel mirino degli investigatori ci sono gli Aventa-M, gli unici strumenti di concezione nazionale prodotti dalla Upz. Con un comunicato Roszdravnadzor, l’ente statale che controlla il Sistema sanitario, ha annunciato di avere vietato l’impiego dei ventilatori di questo tipo costruiti dopo il primo aprile. La società Radio-Electronic Technologies Concern (KRET), che possiede Upz, ha dichiarato che le sue strumentazioni hanno superato tutte le certificazioni e sono in dotazione agli ospedali russi dal 2012, senza mai avere creato problemi di sicurezza. Ora le indagini cercheranno di capire la natura del malfunzionamento: se è legato a un difetto di fabbricazione o alle reti energetiche degli ospedali. Ma la sospensione decisa da Mosca sta aprendo gravi problemi. In patria e all’estero. L’operazione “Dalla Russia con amore” ha consegnato circa 150 di questi ventilatori alla Lombardia: sono stati utilizzati nell’ospedale da campo della Fiera di Bergamo e in quello della Fiera di Milano. Le apparecchiature però sono state trasportate nel nostro Paese con il ponte aereo del 22 marzo: le scatole con la scritta Aventa-M erano visibili durante lo scarico a Pratica di Mare dei grandi cargo volanti Ilyushin. Non dovrebbe quindi trattarsi dei macchinari colpiti dalla sospensione decida da Mosca, perché sono stati costruiti prima di inizio aprile. In ogni caso, anche alla luce della ridotta necessità di posti in terapia intensiva, le autorità sanitarie lombarde stanno valutando se rinunciare ai sistemi “Made in Russia”. Anche i respiratori fatti arrivare a New York dovrebbero appartenere a lotti di produzione anteriori al bando. Doni che non risultano essere mai stati distribuiti ai centri clinici, come ha detto Janet Montesi, portavoce della Fema: “La diminuzione dei ricoveri non li ha resi necessari”. Il problema principale quindi riguarda la Federazione russa, dove i contagi continuano a salire: ieri si era arrivati a 240 mila casi, il numero più alto a livello mondiale dopo gli Stati Uniti. E dove le terapie intensive faticano adesso a fornire assistenza senza i respiratori “bloccati” dopo gli incendi: trovarne di nuovi sul mercato internazionale in questo momento è praticamente impossibile.

Claudio Tito per “la Repubblica” il 6 maggio 2020. I militari russi in Italia hanno concluso la loro missione. Ed entro domenica prossima inizierà il loro ritiro. Che sarà graduale ma anche rapido. Negli ultimi giorni, dunque, è stata messa la parola fine ad una presenza che aveva destato non poche polemiche, un bel po' di imbarazzo dentro il governo e tanti dubbi tra i nostri principali partner internazionali. A cominciare dagli Stati Uniti e dalla Nato. Il contingente, che con una dose massiccia di propaganda Mosca ha chiamato "Dalla Russia con amore", ha quindi concluso il suo lavoro tra la provincia di Bergamo e quella di Mosca. L' arrivo, sull' onda dell' emergenza Cornavirus, era stato concordato direttamente dal presidente del consiglio, Giuseppe Conte, con Vladimir Putin. A marzo il contingente era stato accolto con entusiasmo all' aeroporto militare di Pratica di Mare dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Si trattava di oltre 100 soldati dell' ex Armata Rossa: 8 squadre ciascuna composta da un medico generico, un epidemiologo, un anestesista e un infermiere. E poi un drappello di interpreti e di assistenti. Da oltre un mese hanno agito tra l' ospedale di Bergamo e una trentina di Rsa (le case di riposo), soprattutto in provincia di Brescia. Il compito era coadiuvare il personale medico e sanificare le strutture. Quel lavoro, secondo lo Stato Maggiore italiano, a questo punto si può considerare terminato. La decisione di archiviare la presenza della squadra moscovita è stata concordata tra i vertici dei due eserciti. E non deve essere stata una scelta del tutto prevista dal gruppo russo. Basti pensare che la scorsa settimana avevano fatto arrivare in un aeroporto veneto un altro volo militare carico di rifornimenti. Gli "inviati" di Putin, insomma, immaginavano di rimanere ancora lungo. Del resto Mosca aveva trasformato un' operazione di solidarietà in una gigantesca macchina della propaganda. È sufficiente sfogliare le pagine del sito web del ministero della Difesa russo per capirne l' uso "pubblicitario". Già nella prima fase l' idea che una brigata di soldati russi potesse aggirarsi liberamente in un' area del Paese che ospita anche alcune basi Nato, aveva sollevato più di una perplessità. La Difesa italiana infatti ha immediatamente predisposto un protocollo di sicurezza che prevedeva una vera e propria "scorta" 24 ore su 24 dei militi russi. La questione, però, in poco tempo è diventata un' altra. Ed è stata sollevata informalmente ma in maniera molto diretta dal Segretario alla Difesa americano, Mark Esper, nel corso dell' ultima riunione dei ministri della Difesa della Nato. Pur trattandosi di un vertice svoltosi in videoconferenza, l' amministrazione statunitense ha puntato l' indice contro il ritardo con cui gli alleati e gli stessi vertici del Patto Atlantico hanno compreso l' azione di propaganda compiuta dal Cremlino. E quindi ha marcato l' indugio con cui si è organizzato un piano di contro- propaganda. A quel punto un prolungamento della presenza russa, dunque, non era più sostenibile per le autorità italiane. Certo, la Regione Lombardia, guidata dal leghista Fontana, si è ripetutamente dichiarata entusiasta dell' aiuto di Mosca. Christian Rizzi, che al Pirellone ha la delega per i rapporti internazionali, ne ha costantemente sottolineato il «prezioso sostegno». E allora c' è chi sospetta che, visti i rapporti tra il segretario leghista Matteo Salvini e il Cremlino, possa essere la giunta lombarda a chiedere in extremis una proroga. Ma il capitolo, però, appare ormai chiuso.

Coronavirus, Russia manda aiuti medici a Italia. (LaPresse/AP il 22 marzo 2020) - Nove aerei cargo Il-76 vengono caricati all'aeroporto militare Chkalovsky di Mosca, per mandare personale e forniture mediche all'Italia, per combattere il coronavirus. La missione inizia oggi, il giorno dopo che il presidente russo Vladimir Putin ha offerto aiuto in una conversazione telefonica al premier Giuseppe Conte. La missione comprende otto team medici mobili, strumentazione medica e camion per disinfezione spray.

(Askanews il 3 aprile 2020.) - Lunedì 6 aprile le squadre di medici russi inizieranno il lavoro congiunto con il personale italiano sull'accoglienza e il trattamento dei pazienti con infezione da coronavirus. L'ospedale da campo è progettato per 142 malati, 72 dei quali destinati alla terapia intensiva e sub-intensiva, e i restanti a chi sta uscendo dalla fase critica. Mariano Marchesi, specialista in anestesia e rianimazione, spiega come ha condiviso la sua lunga esperienza con i medici russi: "Condivido l'esperienza come la condivido con gli altri medici di questo ospedale. Facendo una parte della formazione che consiste nel raccontare che cosa abbiamo visto e imparato, quindi come intendiamo trattare in questo momento la malattia, ma anche come si è modificata nel tempo in questo mese". Vi lavoreranno oltre 200 specialisti italiani e russi. Inizia così la seconda fase del lavoro dei militari russi, in Italia giunti in base a un accordo tra il leader del Cremlino Vladimir Putin e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. "Hanno avuto coraggio, hanno dato buon esempio, aiuto, anche materiale perchè ci hanno portato del materiale prezioso, speriamo che sia utile anche per loro".

Jacopo Iacoboni e Natalia Antelava per “la Stampa” il 2 aprile 2020. «È strano che i russi siano stati schierati. È vero che questo tipo di truppe NBC russe ha capacità di decontaminazione ma anche gli italiani hanno questa capacità, e quella italiana è più moderna». Hamish De Bretton-Gordon è l' ex comandante del Joint Chemical, Biological, Radiological and Nuclear Regiment, e del battaglione NATO' s Rapid Reaction. E' tra i tre o quattro massimi esperti europei di armi biologiche e chimiche e di intelligence, e ci aiuta a capire alcune cose sugli aiuti russi in Italia, parlandoci nell' ambito della collaborazione tra La Stampa e Coda Story. La vicenda degli aiuti russi ha suscitato perplessità e timori in Italia, sia in ambienti governativi sia militari.

Tra analisti e militari italiani c' è chi obietta che l' Italia ha due reparti chimico batteriologici ultra specializzati, perché usare i russi?

«È tutto molto strano e non torna - gli italiani sono in prima linea nella difesa delle armi chimiche e biologiche nella NATO e non hanno quasi bisogno dei consigli dei russi - li vedremo nelle strade di Londra dopo?».

Che tipo di reparto è il NBC russo guidato da Sergey Kikot?

«Si tratta di un' unità molto specializzata, e più di cento uomini sono un numero molto significativo. È davvero molto, come presenza. E tutto questo sarebbe inimmaginabile in qualsiasi altra situazione, avere queste truppe russe altamente addestrate in un paese della NATO».

Stiamo parlando anche di una presenza di intelligence russa?

«Senza alcun dubbio ci sono ufficiali del GRU tra loro. E possiamo supporre che vorranno scoprire il più possibile sulle forze italiane, istituiranno reti di intelligence, ci sarà un' enorme quantità di attività in corso proprio ora. Se sei a tuo agio con questi indumenti protettivi e riesci comunque a lavorare bene e funzionare in un ambiente altamente contaminato, indossando gli indumenti protettivi, puoi trarre molto da questo tipo di personale. Queste truppe russe sono molto abituate a operare in equipaggiamento protettivo, e la loro capacità - che è quella di cercare di imparare il più possibile sull' Italia e sul suo dispiegamento di forze - non ne risulterà diminuita».

Si tratta di un' operazione anche di propaganda?

«Non riesco a immaginare come sia potuto succedere, in un Paese Nato. È una situazione bizzarra, senza dubbio è sfuggita all' attenzione perché è sovrastata nell' enorme rumore mediatico prodotto dall' emergenza sul COVID-19. Ma possiamo vedere, dell' ampia copertura dei canali di notizie sponsorizzati dallo stato russo, che vedono l' operazione come un enorme colpo».

Perché è così sicuro che il GRU sia coinvolto?

«Tutto ciò che riguarda armi biologiche e chimiche avviene in Russia sotto i loro auspici. Il GRU e le altre agenzie di intelligence russe cercano sempre di ottenere informazioni sui paesi della NATO, e le attività di intelligence da tutte le parti non saranno sospeso certo a causa del COVID-19. Non perderanno un' occasione come questa per raccogliere informazioni e informazioni».

Quanto è sorpreso di vedere un' unità di 122 specialisti di armi chimiche dalla Russia sul campo in Italia, e quanto è significativa?

«Molto. Si può prevedere che queste truppe potrebbero essere recuperate poi in patria per aiutare i russi nella loro battaglia con questo virus».

Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 28 aprile 2020. Come si dice in russo "lascia o raddoppia"? Con l' avvicinarsi della riapertura, molti nel governo cominciano a sperare che la brigata chimica mandata da Mosca concluda presto la sua missione. Nessuno lo esplicita, perché l' aiuto è stato chiesto direttamente dal premier Conte a Putin e la generosità del Cremlino è stata notevole: in meno di 24 ore un ponte aereo ha trasferito in Italia una colonna di medici e sanificatori militari. Ma dopo oltre un mese la presenza di questa spedizione nel cuore della Nato, a meno di 50 chilometri dalla base americana che custodisce le bombe atomiche, sta creando malumori sempre più forti tra i nostri alleati. Invece il Cremlino propone la Fase Due dell' operazione "Dalla Russia con amore". Perché - come conferma l' ambasciata a Roma - «dalle varie regioni italiane giungono richieste per prestare la possibile assistenza al contrasto del coronavirus. Ovviamente le trattiamo con il più attento atteggiamento, esprimiamo la nostra solidarietà, la volontà e disponibilità a prestare aiuto». Ovviamente la prospettiva di un prolungamento piace a Mosca: l' attività dei militari in Italia è diventata un fenomenale argomento di propaganda. Sputnik , il canale online più vicino a Putin, gli ha già dedicato 64 articoli: «Noi abbiamo dato una mano all' Italia. Mentre l' Ue e la Nato, per usare un eufemismo, sono semplicemente rimasti a guardare». E ogni giorno il sito del ministero della Difesa russo presenta i loro successi, tradotti in cinque lingue diverse. Ieri, ad esempio, è stata la volta delle lodi del sindaco di Pontoglio, nel Bresciano: «Grazie per essere venuti qui ad aiutarci. I soldati russi parlano poco ma fanno molto». In effetti non perdono tempo. La colonna conduce una guerra lampo contro il virus: è stata già in azione in 80 comuni lombardi sanificando 91 residenze per anziani. Un pool di medici e rianimatori invece opera nell' ospedale degli alpini di Bergamo. Ma sono le bonifiche negli ospizi, l' epicentro dell' epidemia, che hanno catturato l' attenzione degli amministratori locali. Quindici giorni fa l' assessore piemontese Marco Gabusi ha chiamato la Protezione civile nazionale: «Non potete mandare un plotone di russi anche da noi?». La risposta di Angelo Borrelli è stata chiara: ora servono in Lombardia. «Ne ho parlato anche con i colleghi di Milano perché volevo evitare equivoci», spiega Gabusi: «Abbiamo comunque trovato un' altra soluzione. E da sabato sono scesi in campo gli alpini della Taurinense, che sanificano le nostre residenze per anziani». Il Piemonte però resta nei programmi della missione moscovita: l' ambasciatore Sergey Razov l' ha citata assieme al Friuli Venezia Giulia tra le regioni che hanno domandato il loro intervento. Ma l' ufficio del governatore Massimiliano Fedriga nega: «È una fake news. Noi abbiamo solo mandato una lettera il 28 marzo alle rappresentanze di Stati Uniti, Russia, Cina e Israele perché ci aiutassero a capire se le aziende dei loro paesi che vendevano mascherine erano serie». Se Torino e Trieste si sfilano, chi rimane a invocare il soccorso russo? C' è la Puglia di Michele Emiliano, storicamente legata al mondo ortodosso dal santuario barese di San Nicola, che vorrebbe i soldati venuti da Mosca per ripulire gli ospizi. Emiliano però si rimette alla decisione della Protezione Civile. Che replica di non essere mai stata investita della questione: sono scelte che spettano al governo. Un punto su cui insiste pure l' ambasciata russa: «Raccomandiamo a tutte le regioni, città e associazioni che si rivolgono a noi di formalizzare le richieste di assistenza al governo. Una decisione sul sostegno ad una regione, che potrebbe includere il coinvolgimento dei militari russi presenti in Lombardia, può essere presa solo dietro richiesta formale». La palla torna a Palazzo Chigi, che dovrà fare i conti con le diverse simpatie internazionali della maggioranza. Nel frattempo i russi hanno fatto arrivare una scorta di rifornimenti, pronti a proseguire la campagna d' Italia.

Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 28 aprile 2020. All' ombra di un glicine quasi fiorito, 90 anni ben portati sotto lo scialle blu e la coperta sulle ginocchia, Lucrezia Fiorini, una delle anziane più longeve di Ospitaletto, guarda con occhi spaesati i militari russi che riemergono dalla pancia della casa di riposo. Sorride. «Io sto bene, non sono ancora morta». I tre cecchini chimici arrivati da Mosca hanno appena bombardato il coronavirus: botte di alcol in soluzione al 70% (i colleghi italiani invece usano ipoclorito di sodio). Sono vestiti come gli astronauti. Ma alla signora Lucrezia, mentre si disinfettano alla fine delle operazioni, devono sembrare degli alieni. A lei e agli altri settanta ospiti della Rsa "Serlini" questa giornata gliel' hanno spiegata con le parole morbide che piacciono agli anziani.

«Oggi vengono a dare una bella pulitina». La colonna di camion militari parte da Bergamo all' alba. Il più ingombrante è il Kamaz russo: trasporta le apparecchiature per la sanificazione degli ospizi. Spruzzatori, bombole, generatori di corrente. E tutto il materiale per la vestizione: le tute, le maschere, calzari, guanti. «Non ce ne andremo dall' Italia finché insieme a voi non avremo sconfitto il virus». Si presenta così, con garbata diplomazia, il capo della squadra militare russa. Colonnello Igor Bogomolov, 47 anni, da Ekaterinburg, regione degli Urali. Coordina una delle tre squadre specializzate nella disinfezione degli ambienti inviate dal Cremlino in Lombardia e operative da fine marzo nelle province di Bergamo e Brescia: tra le più martoriate da Covid 19. Insieme con altri sette colleghi dell' esercito italiano - l' unità specialistica del 7° reggimento CBRN - la task-force oggi è in servizio in questa residenza di Ospitaletto. Cento anni di storia, una ventina di decessi nell' ultimo mese e mezzo (sui 37 morti Covid del Paese, numero sottostimato). Spiega Bogomolov: «Iniziamo dalle camere, poi i corridoi, i saloni, la lavanderia, uffici, dispensa. Passiamo come un rullo su tutto quello che può essere veicolo di trasmissione: dai pavimenti al soffitto. Ma all' essere umano può pensare solo l' essere umano. In questi posti sono fondamentali i dispositivi di protezione, e forse all' inizio non c' erano». È la piaga ancora aperta di tutte le Rsa. L' innesco dell' ecatombe degli anziani negli ospizi. Giovanni Battista Sarnico è sindaco di Ospitaletto, centrosinistra. «Sono grato a questi militari perché ci stanno dando una grande mano». I russi si muovono a chiamata. Da fine marzo a oggi hanno sanificato 91 case di riposo (73 nella Bergamasca, 18 nel bresciano). Lavorano sodo. Sanno anche comunicarlo. Soprattutto in patria. Ogni unità è formata da dodici militari compresi dei giornalisti. Pubblicano i video su Youtube. «Coi colleghi italiani c' è un' ottima collaborazione», spiega il colonnello Zenin Dmitrij. Le scene catturate dalla telecamera sono le tute blu alle prese con la distruzione dei germi patogeni. Gli ultimi spazi ripuliti dalla tempesta di alcol? Le cucine: i militari pranzano nell' ospizio. Insieme ai colleghi del nostro esercito, ai carabinieri, ai volontari della protezione civile. Le cuoche del "Serlini" hanno preparato tagliatelle, lonza con crema di carciofi, fragole, uova di cioccolato. Dopo il caffè i killer del Covid si infilano di nuovo le tute. Ultima passata. «Trenta minuti e l' alcol evapora», spiega Bogomolov. Il suo omologo italiano è Samuele Mazzotta, caporalmaggiore dell' esercito. Porta un saluto agli addetti della Rsa. «Ringraziamo i russi per il supporto». Tra le due componenti della task-force c' è un sano spirito di competizione militare. Quando la giornata di lavoro finisce i sanificatori rientrano a Bergamo. Qualcuno alloggia in hotel, altri a Stezzano. Il Kamaz riposa insieme agli altri mezzi nella caserma del III reggimento Aves Aquila, accanto all' aeroporto di Orio al Serio. Domani altre pulizie. Lucrezia magari si sentirà un po' più sola, ma più al sicuro.

Dagospia il 2 aprile 2020. Dichiarazione del maggior generale Igor’ Konašenkov, portavoce del Ministero della Difesa russo: “Abbiamo notato gli incessanti tentativi di ormai due settimane del giornale italiano “La Stampa” di screditare la missione russa, che ha risposto alla richiesta di aiuto del popolo italiano per la disgrazia che lo ha colpito. Nascondendosi dietro gli ideali di libertà di parola e di pluralismo delle opinioni, La Stampa sfrutta nei suoi materiali le fake news russofobe più basse da guerra fredda, facendo riferimento a sedicenti “opinioni” di fonti anonime “altolocate”. In tale contesto, “La Stampa” non disdegna di usare letteralmente tutto quel che gli autori riescono a inventare sulla base di raccomandazioni tratte da libri di testo di propaganda antisovietica evidentemente non ancora marciti del tutto. E così, “La Stampa”, riferendosi all’opinione di un maresciallo in congedo con vittorie mai avute, ha subito definito “inutili” le attrezzature russe per la lotta contro le infezioni virali consegnate in Italia. La maggior parte dei medici ed epidemiologi russi vengono definiti da questo giornale come “esperti di guerra biologica”. Coloro che non hanno avuto l’onore di rientrare in questa categoria sono stati prevedibilmente annoverati nella categoria di rappresentanti dell’intelligence militare russa (ufficialmente, il “Direttorato principale per l'informazione”). Tuttavia, a fronte di queste tese speculazioni, gli epidemiologi russi arrivati in Italia per combattere il coronavirus, e i loro colleghi italiani, nonostante le sensazionali intuizioni de “La Stampa”, invece della guerra biologica, distruggono il Covid-19 in 65 case di cura a Bergamo. I medici militari russi ogni giorno, fianco a fianco con i militari italiani, anziché creare “reti di intelligence”, stanno dispiegando unità di terapia intensiva per salvare gli italiani contagiati dal virus nel nuovo campo militare di Bergamo. Tutto questo viene effettuato utilizzando attrezzature e tecnologie russe presumibilmente inutili, secondo le fonti della pubblicazione…Contrariamente alle fake news imposte da “La Stampa”, gli obiettivi della missione russa 2020 a Bergamo sono aperti, concreti, trasparenti e puri. E’ un aiuto disinteressato al popolo italiano in difficoltà a causa della pandemia del Covid-19. E la migliore ricompensa per gli sforzi compiuti dagli esperti militari russi saranno le vite salvate e la salute del maggior numero possibile di cittadini dell’eterna Repubblica italiana. Nell’attuazione di questa nobile missione, nessun attacco ci costringerà a recedere dall’obiettivo, né scuoterà la certezza che la nostra causa è giusta. Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dei reali committenti della campagna mediatica russofoba de “La Stampa”, che conosciamo, consigliamo di apprendere un’antica massima dei latini: qui fodit foveam, incet in eam (che scava la fossa per un altro ci cadrà dentro lui stesso). Perché sia più chiaro: bad penny always comes back, la moneta falsa torna sempre indietro.

Ilpost.it il 3 aprile 2020. Il portavoce del ministero della Difesa russo, il generale Igor Konashenkov, ha pubblicato su Facebook una lettera indirizzata alla Stampa in cui accusa il giornale di aver pubblicato una serie di articoli non veritieri riguardo agli aiuti inviati dalla Russia in Italia per fronteggiare l’emergenza coronavirus. Le inchieste a cui si riferisce Konashenkov sono tre, firmate dal giornalista Jacopo Iacoboni: in una si sostiene che le forniture russe inviate in Italia siano per l’80 per cento totalmente inutili, o poco utili all’Italia: l’inchiesta cita fonti anonime (“fonti politiche di alto livello”) e sostiene che «a differenza, per dire, delle spedizioni cinesi (consistenti soprattutto in ventilatori polmonari e mascherine), quelle russe sarebbero attrezzature per la disinfestazione batteriologica di aree, un laboratorio da campo per la sterilizzazione e la profilassi chimico-batteriologica, e attrezzature di questo tipo». In un altro articolo si dice che un contingente esperto in guerra batteriologica russo, atterrato a Pratica di Mare, si sta dispiegando nell’area di Bergamo, senza che sia stato riferito dalle autorità italiane, e secondo fonti della Stampa trasporta «strutture per la disinfezione antibatteriologica di intere aree». A detta di queste fonti, «la reale contropartita della telefonata è stata dunque tutta geopolitica e diplomatica: Putin ha visto nel Coronavirus un’opportunità per incunearsi anche fisicamente nel teatro italiano, e al premier italiano non è dispiaciuto puntellarsi, in questa difficile crisi, accettando tutto ciò pur di consolidare un’ottima relazione personale con la sponda politica di Mosca». In un altro articolo si sostiene invece che tra i medici militari russi inviati in Italia si siano infiltrati anche ufficiali dell’intelligence russa. Secondo quanto riferito alla Stampa da Hamish De Bretton-Gordon, ex comandante del Joint Chemical, Biological, Radiological and Nuclear Regiment e del battaglione NATO Rapid Reaction, “CBRN”, nell’invio di militari russi in Italia c’è qualcosa che non torna. «Senza dubbio tra loro ci sono ufficiali del GRU (il direttorato dei servizi segreti militari russi). Vorranno scoprire il più possibile sulle forze italiane, stabiliranno reti di intelligence, ci sarà un’enorme quantità di attività in corso proprio ora», ha detto al giornale. Konashenkov – dopo che nei giorni scorsi già Sergey Razov, l’ambasciatore russo in Italia, aveva replicato alle posizioni della Stampa – ha criticato duramente il giornale italiano dicendo che «nascondendosi dietro agli ideali della libertà di parola e del pluralismo di opinioni, nei suoi articoli La Stampa manipola i fake russofobi della peggior specie dell’epoca della guerra fredda, citando non meglio definiti “pareri” di anonime “fonti altolocate”. Nel farlo, La Stampa non disdegna di far ricorso a qualunque invenzione dei propri autori, seguendo le linee guida dei manuali di propaganda antisovietica, a quanto pare, non ancora marciti». Konashenkov conclude la lettera con una frase piuttosto minacciosa: «Per quanto concerne i committenti veri della campagna mediatica russofoba di La Stampa, che ci sono noti, consigliamo loro di imparare un’antica saggezza: Qui fodit foveam, incidet in eam (chi scava una fossa al prossimo ci finirà prima). O, per essere ancora più chiari: Bad penny always comes back». Abbiamo notato i tentativi della testata italiana La Stampa, in corso ormai da due settimane, di screditare, la missione inviata dalla Russia in risposta alla richiesta di aiuto al popolo italiano, colpito dalla disgrazia. Nascondendosi dietro agli ideali della libertà di parola e del pluralismo di opinioni, nei suoi articoli La Stampa manipola i fake russofobi della peggior specie dell’epoca della guerra fredda, citando non meglio definiti “pareri” di anonime “fonti altolocate”. Nel farlo, La Stampa non disdegna di far ricorso a qualunque invenzione dei propri autori, seguendo le linee guida dei manuali di propaganda antisovietica, a quanto pare, non ancora marciti. Per esempio, le attrezzature russe per la lotta alle infezioni virali inviate in Italia sono state immediatamente definite da La Stampa, citando l’opinione di uno sconosciuto caporale delle vittorie mancate in pensione, come “inutile”. La maggior parte dei medici ed epidemiologi russi sono stati definiti dalla testata come specialisti di guerre biologiche. Quelli che non hanno avuto l’onore di venire inseriti in questa categoria sono prevedibilmente stati catalogati come emissari dello spionaggio militare russo (GRU). Nonostante le sensazionali rivelazioni de La Stampa, mentre vengono pubblicate queste speculazioni forzate, gli epidemiologi russi stanno eliminando dalla mattina alla sera il Covid-19 nelle residenze per anziani di Bergamo, insieme ai loro colleghi italiani. E I medici militari russi ogni giorno, spalla a spalla con I militari italiani, creano non “reti di agenti”, ma reparti di terapia intensiva per salvare I cittadini italiani colpiti dal virus nella nuova struttura da campo di Bergamo. Tutto questo viene fatto con l’aiuto delle attrezzature e tecnologie russe, giudicate inutili dalle fonti della testata. Contrariamente ai fake propinati da La Stampa, gli obiettivi della missione russa del 2020 a Bergamo sono aperti, concreti, trasparenti e puri. Si tratta di aiutare il popolo italiano che si è trovato in difficoltà per via della pandemia di Covid-19, senza chiedere nulla in cambio. E il miglior premio per gli sforzi degli specialisti militari russi saranno le vite e la salute salvati del maggior numero possibile di cittadini della eterna (così nel testo) Repubblica Italiana. Per quanto concerne I committenti veri della campagna mediatica russofoba di La Stampa, che ci sono noti, consigliamo loro di imparare un’antica saggezza: Qui fodit foveam, incidet in eam (chi scava una fossa al prossimo ci finirà prima). O, per essere ancora più chiari: Bad penny always comes back.

MOLINARI, LA NOSTRA RISPOSTA - Da lastampa.it il 3 aprile 2020. Il nostro giornale ha descritto gli aiuti russi all’Italia contro la pandemia al pari di quelli giunti da altri Paesi: come una dimostrazione di amicizia e solidarietà in un momento drammatico di difficoltà per il Paese. Al tempo stesso alcuni nostri articoli hanno riportato dubbi e perplessità, italiane e non, sulla possibile presenza nella missione russa di militari impegnati in missioni di intelligence. Si tratta di due aspetti della stessa notizia che i nostri giornalisti hanno affrontato con pari professionalità. Ci dispiace e sorprende che tale esempio di libertà di informazione abbia suscitato la forte irritazione del ministero della Difesa russo. E siamo convinti che la forza del legame fra Italia e Russia, testimoniato dall’attuale cooperazione contro il virus, non possa essere indebolito dal lampante mancato rispetto per il diritto di cronaca che traspare dagli espliciti insulti ricevuti dal general maggiore Igor Konashenkov.

Gabriele Carrer per formiche.net il 3 aprile 2020. Poche ore prima anche l’agenzia ufficiale Tass aveva messo nel mirino La Stampa citando le parole di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, secondo cui ci sarebbe una azienda britannica dietro i dubbi del quotidiano diretto da Maurizio Molinari sull’utilità degli aiuti russi all’Italia. Un’ipotesi che sembra trovare conferma nella frase finale del comunicato di Konashenkov, che cita con tono minatorio un motto britannico, “bad penny always come back, la moneta falsa torna sempre indietro”. Non è forse un caso che il primo e unico giornale internazionale a dare rilievo alla vicenda sia stato il britannico The Telegraph, con un ampio resoconto dell’intera missione russa in Italia e delle controversie che l’hanno accompagnata. Chissà se dopo queste dure parole della Difesa russa le istituzioni italiane decideranno di reagire, si chiede Gianni Vernetti, già deputato del Pd e sottosegretario agli Affari Esteri nel governo Prodi. “Il Ministero della Russia rivolge un attacco durissimo alla Stampa – ha cinguettato l’ex parlamentare dem, oggi editorialista del quotidiano torinese – Non ricordo simili minacce siano mai state pronunciate da parte di uno straniero ad un giornale italiano. Che fa il governo di Giuseppe Conte? Cosa dicono gli alleati di governo”.

Maurizio Molinari per “la Stampa” il 4 aprile 2020. Le minacce rivolte contro il nostro giornale dal general maggiore Igor Konashenkov, del ministero della Difesa della Federazione russa, pongono una questione che emerge spesso nelle situazioni di conflitto: i valori che separano gli alleati di una stessa coalizione. Non c'è alcun dubbio che Italia e Russia sono alleate nel rispondere all'aggressione della pandemia Covid-19: lo sono perché il virus colpisce entrambe (come un altro centinaio di nazioni), lo sono perché hanno un interesse comune a sconfiggere il contagio e lo sono perché collaborano, sul campo, a Bergamo dove unità russe ed italiane operano spalla a spalla per soccorrere le vittime. Ma ciò non toglie che Russia ed Italia sono divise da un'idea differente del rapporto fra Stato e cittadini: la libertà di stampa è al cuore di tale distanza. Se dunque un giornale italiano come il nostro pubblica gli articoli di Jacopo Iacoboni da cui emerge - sulla base di fonti convergenti italiane e non - il sospetto che alcuni dei militari russi giunti in Italia possono appartenere ad unità dell' intelligence non significa essere «russofobi», come il ministero della Difesa afferma, bensì limitarsi a rispettare il principio cardine della nostra professione: tutte le notizie meritano di essere pubblicate. In base agli stessi principi di libertà di stampa è doveroso per un quotidiano pubblicare le rettifiche da parte di chi si sente danneggiato - come abbiamo fatto con una lettera dell' ambasciatore russo a Roma, Sergey Razov, in merito proprio ai suddetti articoli - mentre le minacce, personali e collettive, appartengono ad un altro tipo di codici. Quando il general maggiore russo si rivolge a "La Stampa" affermando «consigliamo loro di imparare un'antica saggezza: Qui fodit foveam, incidet in eam, chi scava una fossa al prossimo ci finirà prima» varca una linea rossa perché trasforma il legittimo dissenso su uno o più articoli in una minaccia diretta ai redattori di un quotidiano definito «russofobo». Ovvero in un avvertimento contro ogni giornalista italiano: perché chiunque viene tacciato di «russofobia» sa ora che rischia di «scavarsi una fossa». È un approccio alla libertà di stampa segnato da un'aggressività incompatibile con lo Stato di Diritto, la Costituzione repubblicana, i valori della civiltà europea ed anche le buone relazioni bilaterali italo-russe. Dunque bene ha fatto il governo - con la dichiarazione congiunta dei ministeri della Difesa e degli Esteri - a respingere tale «inopportuna» ingerenza ribadendo che «la libertà di espressione e il diritto di cronaca sono valori fondamentali nel nostro Paese come il diritto di replica». Ferma restando la «gratitudine per gli aiuti ricevuti dalla Russia». Ovvero, siete i benvenuti nella lotta al virus ma rispettate le nostre leggi. L'interrogativo ora è quali saranno le conseguenze di questo serio incidente Russia-Italia: se dovesse portare ad indebolire la cooperazione anti-virus le conseguenze sarebbero negative per entrambi, se invece determinerà un maggior rispetto reciproco allora avrà l'effetto opposto, rafforzando l'impegno comune per battere la pandemia e costruire su questo una più solida partnership. In ultima istanza, il governo Conte esce da questo episodio più consapevole dei rischi che comporta la stretta cooperazione con Paesi che non appartengono a Nato o Ue così come la Russia ne trae la conclusione che inviare proprie truppe in un Paese occidentale significa esporsi al rischio del diritto di cronaca.

Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2020. "Per quanto riguarda i rapporti con i reali committenti della russofobia de La Stampa, i quali sono a noi noti, raccomandiamo loro di fare propria un' antica massima: Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita)". Firmato: il portavoce del ministero della Difesa russo, il maggior generale Igor Konashenkov. A Mosca l'articolo del collega de La Stampa Jacopo Iacoboni, critico sulla vera utilità degli aiuti inviati dalla Russia a favore dei cittadini bergamaschi, non è piaciuto e per farlo sapere hanno scelto una comunicazione un po' forte. Tanto che ieri anche la Farnesina e il ministero della Difesa hanno voluto precisare in un comunicato la propria attenzione alla "libertà di stampa". Non prima però di aver ribadito la propria riconoscenza alla Russia. "In questa fase di difficoltà l'Italia sta ricevendo aiuto e supporto da molti Paesi, ed è evidente il meccanismo di solidarietà scattato da parte della comunità internazionale" recita la nota dei ministeri diretti da Luigi Di Maio e Lorenzo Guerrini: "Il nostro Paese, oggetto di tale solidarietà, non può che esserne riconoscente". "Nell'essere grati per tale manifestazione concreta di supporto, continua la nota, non si può, allo stesso tempo, non biasimare il tono inopportuno di certe espressioni utilizzate dal portavoce del Ministero della Difesa russo nei confronti di alcuni articoli della stampa italiana. La libertà di espressione e il diritto di critica sono valori fondamentali del nostro Paese". "In questo momento di emergenza globale il compito di controllo e di analisi della libera stampa rimane più che mai essenziale". Insomma, il governo non ci sta a essere schiacciato sul fronte dell'est semplicemente perché ha accettato gli aiuti (tra cui 150 ventilatori polmonari, 330.000 mascherine, 10.000 tamponi veloci, 100.000 tamponi normali, un laboratorio di analisi e altro ancora). Nei giorni scorsi La Stampa ha scelto di portare avanti una campagna molto pretestuosa contro la presenza dei russi in Italia accusati non solo di voler incrinare l'alleanza con la Nato, ma anche di chissà quali intenti pericolosi. L'ambasciatore russo in Italia, Sergej Razov, ha scritto una lettera infuocata al direttore Maurizio Molinari. Ieri Di Maio e Guerrini hanno ribadito: la lealtà alla Nato non è in discussione.

(ANSA il 14 aprile 2020) - La Russia fornisce assistenza all'Italia nella lotta contro il coronavirus "su richiesta diretta" del presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Lo ha detto il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ai media russi e stranieri dopo le parole dell'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell'Ue Josep Borrell secondo cui la Russia e la Cina avrebbero utilizzato l'epidemia per rafforzare il loro ruolo geopolitico nel mondo. Lo riporta la Tass. "La Russia ha fornito assistenza all'Italia a seguito di una richiesta diretta del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte: credo che questo dica tutto", ha dichiarato Lavrov durante un'intervista online ai media russi e stranieri. "E' deplorevole che Borrell abbia detto quello che ha detto ed è deplorevole che ci siano persone che cercano di creare un caso e di presentare tutto ciò che viene fatto in Italia come un intervento militare nel territorio della Nato o dell'Unione Europea", ha sottolineato Lavrov. "Purtroppo queste accuse appaiono anche in alcuni media italiani. Proprio di recente il quotidiano La Stampa ha pubblicato un articolo su questo tema e ha tentato di sminuire e screditare senza fondamento l'importanza dell'assistenza della Russia all'Italia", ha proseguito.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 3 aprile 2020. A proposito di fake: vi devo un aggiornamento sulle truppe di occupazione russe inviateci da Putin sotto le mentite spoglie di medici ed esperti per l' ospedale di Bergamo, meritoriamente svelate su La Stampa dal purtroppo inascoltato Jacopo Iacoboni. Ieri il nostro eroe ha intervistato uno che, fra nome, cognome e qualifica, occupa mezza colonna di giornale: tale Hamish De Bretton-Gordon, "ex comandante del Joint Chemical, Biological, Radiological and Nuclear Regiment, e del battaglione NATO 's Rapid Reaction" (rapid, poi, con tutta quella pappardella, si fa per dire). Il quale non ha preso per niente bene gli aiuti russi all' Italia, anche se non riesce a spiegare il perché. "È tutto molto strano e non torna", scuote il capo l' ex comandante del Joint Chemical insomma quello lì. E perché? Boh. "Gli italiani non hanno quasi bisogno dei consigli russi". Quasi? Quasi. "Li vedremo nelle strade di Londra dopo?". E perché mai dovremmo? Mah. "Si tratta di un' unità molto specializzata". E allora, dov' è il problema? Chissà. "Vorranno scoprire il più possibile sulle forze italiane" e il nostro "dispiegamento di forze". Ma quali forze? Gli ex alpini dell' ospedale da campo di Bergamo? Ah saperlo. "Senza dubbio ci sono ufficiali del Gru tra loro". Apperò. "Istituiranno reti di intelligence, ci sarà un' enorme quantità di attività in corso proprio ora". E chi te l' ha detto? "Non riesco a immaginare come sia potuto succedere, in un Paese Nato". Se è per questo, pure gli Usa accettano aiuti dai russi, e senza dire niente a Hamish De Bretton eccetera: come sarà potuto succedere? Mah. "Non perderanno un' occasione come questa per raccogliere informazioni e informazioni". Due volte informazioni? Massì, abbondiamo! "Si può prevedere che queste truppe potrebbero essere recuperate poi in patria". Ah ecco, quindi non restano qui per sempre. E che tornano a fare? "Per aiutare i russi nella loro battaglia con questo virus". Russi che aiutano la Russia a combattere il virus: ma vi rendete conto? E questi scoop La Stampa li relega a pagina 12 in basso, anziché spararli in prima? E nessuno ne parla? E le task force anti-fake news che fanno, si grattano? Signora mia, dove andremo a finire.

Igor Pellicciari per formiche.net l'1 aprile 2020. Il clamore suscitato in tutto l’Occidente dagli aiuti Russi e Cinesi all’Italia è di per sé al contempo un segnale della tensione internazionale di questi tempi e notizia che il versante atlantista vive con preoccupazione il rischio che il fronte Nato non si mostri compatto di fronte all’emergenza Covid-19 (si veda l’infausto episodio del blocco in Turchia delle mascherine mediche destinate a Roma). Interessante è che, più ancora degli aiuti di Pechino (insidiosi perché ispirati alla proverbiale strategia di lungo periodo dell’azione cinese), l’alone di sospetto ha circondato quelli di Mosca, forse perché non hanno dissimulato la loro matrice apertamente militare. Non è da tutti i giorni vedere militari dell’Armija Rossii muoversi per le strade di un Paese dell’Alleanza atlantica ed è bastata la loro immagine per fare rivivere reminiscenze da Guerra Fredda e riconvertire il Pericolo Rosso di memoria sovietica in un nuovo Pericolo Russo 2.0. E tuttavia a lodare o criticare questi aiuti si sono confrontate opinioni sull’evento piuttosto che analisi fattuali a-valutative alla ricerca tecnica degli interessi strategici dell’intervento (ci sono sempre, quando ad essere donatore è uno Stato). Probabilmente con il passare del tempo avremo maggiori informazioni dettagliate che renderanno le analisi più articolate nei loro passaggi intermedi. Nel frattempo, intanto, possiamo avanzare l’ipotesi del coesistere di tre diversi tipi di interesse Russo ad aiutare l’Italia: geo-politico, politico interno, strategico-sanitario. La matrice geo-politica è la più immediata da contestualizzare perché segue una tradizione russa che da sempre con gli aiuti premia gli alleati o più genericamente i Paesi amici. Questo è un caposaldo della politica estera di Mosca, ripetuto quasi meccanicamente dopo che al Cremlino i diplomatici sono tornati ad essere veri front runner dell’azione di governo, da quando la Russia ha deciso di tornare ad essere un global player al pari di Usa e Cina. “Mai abbandonare gli alleati” e “premiare gli amici”, noncuranti delle analisi costi-benefici (a differenza dell’approccio americano), sono due precetti diventati quasi marchi di fabbrica della politica estera già ai tempi sovietici, rilanciati con vigore durante la legacy di Putin. Se gli aiuti di Pechino servono in primis per penetrare in nuovi spazi geo-politici, quelli di Mosca puntano a mantenere uno status-quo politico già ritenuto favorevole.  Sono premi per qualcosa di già ottenuto, piuttosto che incentivi elargiti per qualcosa ancora da ottenere. Ebbene, l’Italia da tempo si è consolidata come il Paese fondatore dell’Unione Europea più vicino al Cremlino, a prescindere dai governi che si sono succeduti a Roma e presenta un panorama unico nel suo genere in Occidente, con una componente filo-russa che, anche se in misura diversa, taglia trasversalmente tutte le forze politiche del panorama parlamentare e riflette un’opinione pubblica mai russofobica, anche quando critica. Dalla oramai aneddotica amicizia di Silvio Berlusconi con Vladimir Putin; a Romano Prodi che mantiene rapporti personali diretti con il Cremlino; a Gianni Letta unico leder Ue all’inaugurazione dei giochi olimpici di Sochi; a Matteo Renzi che critica apertamente il Consiglio Europeo per il rinnovo delle sanzioni contro la Russia; a un’intensa serie di accordi e protocolli di cooperazione economici, politici, culturali – l’Italia ha dato prova numerose volte di smarcarsi dalla mediana dell’azione occidentale verso Mosca, attirandosi per la verità non poche critiche da partner e alleati. Nell’impostazione geo-politica di Mosca, basta questo per avere un occhio di riguardo verso Roma, sia che si tratti di ordinaria amministrazione (tipo rispondere alla cronica dipendenza energetica italiana dalla Russia), che di eventi straordinari come la crisi sanitaria del Covid-19. Il secondo motivo dell’intervento riguarda la situazione politica interna russa e rimanda alla sistematica attenzione del presidente russo verso le opinioni di quella classe medio-bassa del settore pubblico che ne rappresenta la spina dorsale del consenso reale nel Paese. Ebbene, non vi è nel comune sentire popolare Russo una cultura occidentale più amata e attualmente diffusa di quella italiana e di tutti gli aspetti che le sono collegati. Elencarne i motivi qui richiederebbe troppo spazio. Ma chiunque abbia avuto modo di occuparsi di vicende russe non può che confermare la predominanza nel paese di una immagine stereotipata italiana, dove gli aspetti positivi vengono enfatizzati e quelli negativi minimizzati con argomenti giustificatori. Nella più classica delle confusioni di metodo, il “buono” e il “bello” vengono confusi. Il Paese bello non può che essere anche un Paese buono. A questo orientamento di base va aggiunto che dai primissimi giorni di diffusione del Covid-19, tutti i media del mainstream russo hanno dato una ampia copertura degli eventi in Italia con numerosi servizi di inviati sul posto ispirati da una pìetas verso il Paese Bello che svariati milioni di Russi hanno visitato negli ultimi 25 anni. Facile comprendere come la campagna di aiuto alla Italia, sponsorizzata da un slogan diretto ed emozionale (“dalla Russia con amore”) sia una mossa popolare destinata a legittimare ed aumentare il consenso di chi l’ha fortemente voluta, ovvero in primis il presidente. Beninteso, le voci interne critiche alla decisione di mandare aiuti ci sono state, ma sono state più relegate agli addetti al settore e comunque rivolte non tanto all’assistenza all’Italia quanto al dubbio che la Russia possa permettersi di essere un donatore in questa fase di crisi economica e assenza di risorse sufficienti anche per il fronte interno. Arriviamo infine al terzo possibile motivo degli aiuti Russi in Italia, che in forma evocativa abbiamo chiamato strategico-sanitario. Paese da sempre ossessionato dall’obiettivo di proteggersi da attacchi esterni e difendere un territorio troppo vasto per essere presidiato, la Russia ha dagli anni della Guerra Fredda simulato tra i vari scenari di difesa anche quelli conseguenti a un attacco chimico-batteriologico, collegati ad eventi bellici o ad attacchi terroristici. Dopo il crollo dell’Urss, e complici gli eventi della guerra in Cecenia, questa ipotesi è stata a lungo considerata più probabile dell’evenienza di un conflitto nucleare. Di conseguenza, nei decenni si sono riversate cospicue risorse per la ricerca militare nel campo chimico-batteriologico (peraltro in Russia la ricerca civile va da sempre a traino di quella militare, anche in campi che da noi non ricadono nel settore Difesa). È ipotesi credibile che davanti al rischio concreto di una mutazione del virus in certe zone lombarde, l’intervento russo sia stato mirato anche a raccogliere informazioni e sequenze virali direttamente sul campo per avere un quadro diretto e non mediato della situazione. Questo spiegherebbe perché Mosca ha mandato in particolare a Bergamo (dove la pandemia è stata più virulenta) una sua unità militare di élite altamente specializzata nelle operazioni di contenimento chimico-batteriologico, utilizzata già in altri recenti contesti delicati come in Siria. Come l’andamento del virus ha dimostrato negli ultimi mesi; avere informazioni di prima mano e con qualche settimana in anticipo sul Covid-19 (in questo caso, su una sua possibile mutazione in peggio), potrebbe fare la differenza per la sorte nel medio periodo di qualsiasi Stato. Tra il subire gravissimi costi economici e sociali di una pandemia o il cercare di contenerla e limitarne i danni, anche sul piano geo-politico.

Igor Pellicciari per formiche.net il 26 aprile 2020. Abbiamo in un precedente articolo su Formiche.net per primi tracciato i motivi degli aiuti russi in Italia,  indicandone tre predominanti, ovvero geopolitico, politico-interno e uno strategico-sanitario. Una serie di articoli de La Stampa ha mosso il sospetto (adombrato anche da alti vertici Nato) che l’intervento russo sia stato finalizzato a non specificate operazioni di intelligence militare in un Paese dell’alleanza atlantica, con gli aiuti, accusati peraltro di essere in larga parte inutili, a servire da mera copertura e scusa per l’ingresso nel Paese. La Russia si è opposta duramente a questi sospetti. Senza volere dirimere qui questa accesa polemica, tuttavia rilanciare e elaborare meglio oggi la chiave di lettura strategico-sanitaria da noi proposta a suo tempo può servire a trovare una possibile sintesi tra queste due posizioni opposte e forse farci giungere a nuove importanti deduzioni. Per prima cosa da chiedersi è perché Mosca abbia inviato un contingente militare e non civile. Da sempre ossessionata dalla difesa da attacchi esterni di un territorio talmente grande da non potere essere presidiato, la Russia ha dagli anni della Guerra Fredda curato una sua risposta a scenari da attacco chimico-batteriologico. La ricerca russa nel relativo campo è fatta nel settore militare, non per un preciso disegno bellico ma perché in Russia ricade nelle competenze della Difesa, come accade per molti altri settori di cui in Occidente si occupa la ricerca civile. La seconda domanda da porsi è se è credibile che nel contingente Russo vi siano stati degli operatori di intelligence, in particolare del Gru ovvero del servizio segreto militare di Mosca. Qui si può azzardare con certezza una affermazione positiva, anche se di per sé è una conclusione quasi scontata per chi sa come funziona l’esercito russo. È infatti caratteristica comune di un certo modello organizzativo dell’esercito (non solo russo) avere la presenza di membri dell’intelligence a partire dalle proprie unità militari di base, tanto più se si tratta di reparti specializzati in missione all’estero che gestiscono dati sensibili come quelli in oggetto. Esserne sorpresi equivale a meravigliarsi del collegamento all’intelligence di un attaché militare di una qualsiasi ambasciata. Nulla di strano: avviene di default. Piuttosto, ad essere meno scontata è la risposta a una terza domanda, forse la più importante, ovvero se questo personale di intelligence abbia svolto attività investigativa e, se del caso, su cosa esattamente. Qui obiettivamente le teorie che ipotizzano un intervento di Mosca alla ricerca di non meglio specificati segreti strategici italiani perdono credibilità logica e non offrono riscontri. Ammesso che vi siano ancora aspetti militari dell’Italia sconosciuti alla intelligence russa, il modo peggiore per raccoglierli sarebbe stato con una missione “allo scoperto” della Difesa. Dati i buoni rapporti tra i due Paesi, l’Italia è tutt’altro che inaccessibile alla Russia e offre molteplici possibilità di ingresso molto più discrete ed efficaci di un rumoroso arrivo con colonne di camion militari. Se intelligence vi è stata, è probabile che essa si sia concentrata sullo studio di aspetti della pandemia che potevano essere reperiti solo nella zona del manifestarsi più virulento dei virus al mondo (dopo la Cina): ovvero Bergamo e Brescia. Del primo aspetto abbiamo già scritto in anteprima mondiale su Formiche.net (senza ricevere smentite) e avrebbe riguardato l’osservare da vicino un’eventuale variazione della sequenza virale per comprenderne in anticipo una possibile mutazione in peggio. Un’informazione di vitale importanza per qualunque Paese, soprattutto se ricevuta con un certo anticipo. Ma, alla luce del dibattito che sta emergendo tra i virologi sull’origine del virus, vi potrebbe essere un secondo probabile filone di intelligence, di estrema importanza geopolitica, poiché potrebbe ridisegnare gli equilibri mondiali a seconda dei dati che facesse emergere e alle conclusioni di ultima istanza cui potrebbe portare. Si tratterebbe della possibilità di tracciare l’esatta genesi di un virus di cui nessuno, come di tutte le sciagure del pianeta, vuole rivendicare la paternità. È infatti possibile che i reparti di élite russi altamente specializzati abbiano scelto di andare nel bergamasco per osservare da vicino la primissima versione del virus cinese sbarcato in Europa con tutte le sue caratteristiche originarie, prima che subisse mutazioni o perdesse forza – per trarne informazioni strutturali (come ad esempio il vero tasso di mortalità e contagio) che finora sono mancate in parte perché sconosciute, in parte perché nascoste alla sua fonte, in Cina. Sono informazioni che, una volta raccolte, potrebbero aiutare a rispondere a una serie di dubbi ancora irrisolti. Primo fra tutti, se il Covid-19 ha avuto una genesi naturale (passaggio spontaneo da animale ad uomo) o artificiale (ed è il risultato – magari involontario – di un esperimento da laboratorio). È questo uno dei grandi punti interrogativi che ha accompagnato la nascita di questa pandemia e che ha generato un giro vorticoso di fantasiose teorie cospirazioniste che, come spesso accade in questi casi, non si sa se vengano create per accreditare o discreditare delle scomode verità. Fatto sta che, qualunque sia l’esito della ricerca, essa rappresenta per chi se ne occupa l’occasione di trovarsi tra le mani una “smoking-gun” con un enorme potenziale di impatto negoziale geopolitico, soprattutto nei confronti della Cina, sia nel rilasciarne che nel secretarne i dettagli. Una dimostrazione oggettiva di un’origine da laboratorio del Covid-19 potrebbe segnare per la Cina un ostacolo politico ed economico insormontabile. Economico perché, scenario senza precedenti, Pechino, pur non avendo perso nessuna guerra, potrebbe trovarsi a dovere pagare i costi di riparazione in un importo impossibile da reggere per nessuna economia al mondo. Politico, perché si andrebbe a creare una consolidata situazione di relazioni Cina vs Resto del Mondo, cui peraltro alcuni segnali di riavvicinamento tra Mosca e Washington fanno già pensare. Tutto dipenderà dal mistero se il Covid-19 sia nato in un mercato del pesce o in un laboratorio di Wuhan. E la soluzione potrebbe trovarsi in una casa di riposo di Bergamo.

Quelle polemiche infondate sugli aiuti russi all’Italia. Roberto Vivaldelli su Inside Over the world il 28 marzo 2020. Altro che “inutili” o “pretestuosi”: gli aiuti russi all’Italia si stanno dimostrando nei fatti estremamente preziosi, in barba a (quelle sì) pretestuose polemiche intrise di pregiudizi e tanta ideologia sorte nei giorni scorsi mosse anche da un illustre quotidiano italiano, che citando fonti politiche di alto livello (ovviamente anonime), spiegava che “tra quelle forniture russe l’80% è totalmente inutile o poco utile all’Italia”. La Federazione Russa è stata inoltre accusata di usare cinicamente il suo soft power per ingraziarsi l’opinione pubblica italiana, come se gli aiuti degli altri Stati fossero del tutto disinteressati: se i russi vengono ad aiutarci, ha detto o fatto intendere qualcuno in questi giorni, è sicuramente per un mero secondo fine. Secondo il presidente di +Europa, Simona Viola: “Se le ricostruzioni giornalistiche sono precise e veritiere vorrebbe dire che Conte ha accettato l’aiuto, offerto da Putin, non di medici civili, ma di un contingente militare composto da esperti in guerra batteriologica. Non ci troveremmo insomma di fronte a una forma di cooperazione in campo sanitario, ma a un atto di subordinazione politica dell’Italia nei confronti della Russia”. “Non ho tempo per le polemiche” ha replicato il Ministro degli esteri Luigi di Maio. “Qui non ci sono nuovi scenari geopolitici da tracciare, c’è un Paese che ha bisogno di aiuti e altri Paesi che ci stanno aiutando. Gli Stati Uniti, Francia e Germania. E la Russia, da cui sono arrivati aiuti dopo la telefonata tra Conte e Putin. E questo vale anche per la Cina, che è la stata la prima a rispondere. Non è questione di guerra fredda, è la realtà. O Realpolitik, la chiami come vuole”. “Sono polemiche politiche che io non raccolgo” ha sottolineato il presidente della Lombardia Attilio Fontana. “Io dico grazie agli amici russi che ci hanno mandato i medici, grazie per averci mandato altri uomini che possono partecipare alla sanificazione. Poi qualcuno che vuole speculare, qualche sciacallo c’è sempre”.

Quelle polemiche pretestuose sugli aiuti di Mosca. Sta di fatto che quelle accuse rivolte a Mosca si sono rivelate infondate e quegli aiuti inviati all’Italia nel momento più buio indiscutibilmente preziosi e utili ad affrontare l’emergenza coronavirus. Dagospia ha diffuso il video, postato in sui social network da alcuni utenti, in cui si vede l’unità russa all’opera nel bergamasco, intenta a sanificare le case di riposo dove sono morti molti anziani colpiti da Covid-19. “L’Unità di Putin a Bergamo – scrive Dagospia – fa quello che nessuno vuole fare: disinfettare la casa per anziani dove sono morti già 20 ospiti. I sanitari ringraziano i “pericolosissimi” medici russi” (Guarda il video delle operazioni della task force russa). “Mi occupo di aiuti da 25 anni” spiega il professor Igor Pellicciari, docente di Storia e Politica degli Aiuti Internazionali presso l’Università di Urbino. “Nessuno meno di me crede negli aiuti spassionati tra Stati. Ma sono da tenere in considerazione due cose. La prima: nel momento del bisogno, meglio chi ti aiuta per un interesse (Cina, Usa, Russia) di chi ha interesse a non aiutarti (Ue). La seconda: Gli aiuti si combattono con altri aiuti. Non con polemiche. lo dico da ricercatore sul tema ma anche da ex-bosniaco/erzegovese che l’ha vissuta sulla propria pelle”. Come ha documentato Gian Micalessin su Il Giornale, ad Alzano Lombardo e Nembro, due cittadine della Val Seriana decimate dal contagio, nessuno ha voglia di polemizzare. Qui, scrive Micalessin, i camion con la bandiera di Mosca scortati da carabinieri, Protezione civile e accompagnati da un’unità del 7° Reggimento Cbrn di Cremona – il reparto del nostro esercito specializzato nella difesa nucleare, biologica e chimica – sono i benvenuti. Come conferma la dottoressa Maria Giulia Madaschi, direttrice della casa per anziani Martino Zanchi, dove stanno operando i russi, “qui da quando è iniziato il contagio abbiamo avuto più di qualche ospite morto. Per questo l’offerta russa di sanificare l’edificio non può che farci piacere”. Altro che aiuti “inutili”, dunque (Guarda la gallery).

“Il nostro aiuto all’Italia? È stato Putin a volerlo”. Come ha chiarito in un’intervista rilasciata a Il Giornale l’Ambasciatore russo in Italia, Sergey Razov, la sera del 21 marzo su iniziativa della Russia “si è svolto un colloquio telefonico tra il presidente Putin e il presidente del Consiglio Cont”e. In risposta all’appello della parte italiana, spiega Razov, “il presidente Putin ha confermato la disponibilità della Federazione Russa a fornire immediatamente tutto l’aiuto necessario al governo e al popolo italiano. A due giorni di distanza dalla telefonata fra i due leader, nove aeromobili pesanti dell’aviazione di trasporto militare russa, con una portata massima di 60 tonnellate ciascuno, sono arrivati in Italia. Il giorno successivo altri 5 voli speciali hanno raggiunto la Penisola e ieri è partito un ulteriore cargo. In totale sono stati effettuati 15 voli speciali per la consegna di aiuti”. Aiuti russi che hanno dato parecchio fastidio a molti: non a chi, tuttavia, è impegnato sul fronte per combattere il coronavirus, dove le dietrologie e le speculazioni contano meno di zero e l’unica cosa che contano sono i fatti.

Dagospia il 27 marzo 2020. LETTERA DELL’AMBASCIATORE DELLA FEDERAZIONE RUSSA NELLA REPUBBLICA ITALIANA SERGEY RAZOV A “LA STAMPA”. Egregio Direttore con immutata attenzione e interesse leggiamo quanto pubblica il suo prestigioso e diffuso quotidiano. La nostra attenzione è stata attirata da due articoli firmati J. Jacoboni, del 25 e 26 marzo c.a. relativi agli aiuti russi all’Italia nella lotta al Coronavirus. A questo proposito vorremmo esprimere alcuni commenti e osservazioni. Il giornalista, facendo riferimento a informazioni ricevute da «fonti politiche di alto livello», afferma che l’80% degli aiuti russi sarebbe totalmente inutile o poco utile. Naturalmente non sappiamo a quali fonti si riferisca l’autore e ci atteniamo in primo luogo alle dichiarazioni pubbliche di rappresentanti ufficiali della Repubblica Italiana. Il Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana G. Conte nella conversazione telefonica del 21 marzo c.a. ha ringraziato il Presidente della Russia V. V. Putin per gli aiuti tempestivi e imponenti offerti all’Italia in questa difficile situazione. Il Ministro degli Esteri L. Di Maio ha ritenuto opportuno recarsi personalmente all’aeroporto militare di Pratica di Mare per accogliere gli aerei che hanno trasportato gli specialisti russi, i mezzi e le attrezzature, esprimendo la sua gratitudine alla Federazione Russa. Così come hanno fatto per esempio l’Ambasciatore dell’Italia a Mosca P. Terracciano, il Rappresentante dello Stato Maggiore della Difesa L. Portolano e molti altri. In ogni caso il giornalista non avrebbe dovuto disorientare gli stimati lettori in merito alla vera reazione dei vertici ufficiali italiani alle attività della Russia. Riguardo all’utilità o meno del contenuto degli aiuti russi, ci sembra che sarebbe stato meglio chiedere prima di tutto ai cittadini di Bergamo dove iniziano a operare i nostri specialisti e i nostri mezzi. Com’è noto si tratta di una delle città del nord Italia con il maggior numero di infettati, dove sono già morte 1267 persone e 7072 restano positive. I nostri epidemiologi, virologi, rianimatori, su richiesta dei colleghi italiani, cominceranno a lavorare nelle residenze per anziani strapiene della città in cui si è creata una situazione critica per la mancanza di medici e il bisogno di interventi di sanificazione di edifici, locali e mezzi di trasporto. L’autore dell’articolo dovrebbe capire che i militari russi, così come i loro colleghi italiani, andando a operare nell’area loro assegnata, mettono a rischio la propria salute e forse anche la vita. J. Jacoboni intravede un insidioso secondo fine della Russia nel fatto che siano stati inviati in Italia militari delle forze armate russe, tra  i quali anche esperti di difesa nucleare, chimica e biologica. A titolo di informazione per l’autore e per i Suoi stimati lettori, comunichiamo che i rappresentanti delle truppe russe di difesa nucleare, chimica e biologica, sono gli specialisti più mobili e più preparati con esperienze in diverse regioni del mondo, in grado di prestare assistenza efficace nella diagnosi e nel trattamento dei pazienti, così come nell’esecuzione delle necessarie misure di disinfezione. Per quanto riguarda il messaggio che spunta dal ragionamento dell’autore e cioè che l’invio di militari russi (a proposito, a titolo gratuito) avrebbe come scopo quello di causare un qualche danno ai rapporti tra l’Italia e i partner della NATO, offriamo ai lettori l’opportunità di giudicare da soli chi e come viene in aiuto al popolo italiano nei momenti difficili. In Russia c’è un detto: «Gli amici si vedono nel bisogno». E poi, il parallelo tracciato dal giornalista tra l’arrivo in Italia degli specialisti russi e l’ingresso delle truppe sovietiche in Afghanistan nel 1979, concedetemelo, è semplicemente fuori luogo e come si dice «non sta né in cielo né in terra». Confidiamo che, guidati dal principio fondamentale del giornalismo sull’imparzialità e obiettività dell’informazione e convinti che i media debbano riflettere punti di vista diversi, siamo certi troverete la possibilità di pubblicare la nostra risposta, che ci auguriamo possa aiutare a chiarire ai vostri lettori la realtà delle cose. Rispettosamente, Sergey Razov. Ambasciatore della Federazione Russa nella Repubblica Italiana.

LA RISPOSTA DI IACOBONI Egregio ambasciatore, grazie per l’attenzione e la cortese lettera, pubblichiamo volentieri i suoi commenti e osservazioni. Rispetto ogni opinione, peraltro autorevole come la Sua, tuttavia non posso non far notare due distorsioni dei fatti contenute nella lettera. Lei scrive: «Il giornalista, facendo riferimento a informazioni ricevute da “fonti politiche di alto livello”, afferma che l’80% degli aiuti russi sarebbe totalmente inutile o poco utile». Io non affermo nulla, mi limito a riportare quello che fonti politiche di alto livello hanno affermato a La Stampa. Sono loro ad affermare che «tra quelle forniture russe l’80% è totalmente inutile, o poco utile all’Italia. Insomma, poco più che un pretesto». Ancora, lei scrive: «E poi, il parallelo tracciato dal giornalista tra l’arrivo in Italia degli specialisti russi e l’ingresso delle truppe sovietiche in Afghanistan nel 1979». No. Non è un parallelo tracciato dal giornalista, ma da una importante fonte militare italiana, che io riporto. Qui in effetti nell’articolo un commento lo faccio: sottolineo appunto che questo ricordo è «ovviamente slegato dalla vicenda odierna». Sorvolo sulle sue valutazioni su «insidiosi» secondi fini russi che io intravedrei: sono appunto sue valutazioni, i lettori giudicheranno. Infine la rassicuro, non sussiste alcun dubbio che La Stampa continuerà ad attenersi al «principio fondamentale del giornalismo sull’imparzialità e obiettività dell’informazione», come non c’è dubbio che in Italia e a La Stampa continueremo a non farci dire da nessuno cosa un giornalista «avrebbe dovuto» fare o non fare.

Jacopo Iacoboni e Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 17 aprile 2020. Ai 104 militari russi impegnati a Bergamo nella missione concordata da Giuseppe Conte e Vladimir Putin si sono aggiunti fin dall' inizio 50 italiani dell' Unità specialistica dell' Esercito italiano, il settimo reggimento CBRN (chimica, biologica, radiologica, nucleare). Il comandante italiano è un tenente colonnello, Dario De Masi; il comandante del contingente russo è un generale, Sergey Kikot, e ha una storia importante alle spalle. Kikot è il vicecapo del reparto chimico e batteriologico della Russia, sottoposto direttamente al Ministero della Difesa russo (è il numero due di Igor Kirillov), ed è un esperto chimico al quale la Russia ha fatto ricorso in dossier di enorme rilevanza politica. Il più celebre è forse quello sull' uso delle armi chimiche sulla popolazione civile in Siria, a Douma, da parte di Bashar Assad. L' 11 marzo del 2019, a L' Aja, toccò a Kikot sostenere la relazione dell' ambasciatore russo presso l' OPCW (l' Organismo per la prevenzione di armi chimiche e batteriologiche), Alexander Shulgin, che contestava tutte le accuse ad Assad e sosteneva che le prove dell' attacco chimico erano state "messe in scena". «La Federazione Russa continua a insistere sul fatto che l' incidente di Douma e le prove a sostegno siano stati falsificati», concluse Kikot la sua relazione. Sputnik annunciò che non vi erano tracce di organofosforo e altre sostanze chimiche. Kikot mise in dubbio anche le analisi balistiche e la conta delle vittime, 43, più 500 feriti, dell' attacco avvenuto il 7 aprile 2018, conta che definì irrealistica e incongruente. Non un medico qualunque Arriva insomma in Italia non un medico qualunque, ma un esperto chimico e batteriologico al quale la Russia ha affidato questioni di primaria rilevanza geopolitica per il Cremlino (il contro-dossier sulla Siria fu esposto all' OPCW in tandem, da Russia e Siria stessa), che hanno assai diviso la Russia dall' Unione europea e dalla comunità occidentale. Un' inchiesta indipendente commissionata dall' OPCW smontò poi quelle conclusioni russe, ma questa sarebbe un' altra storia. Di sicuro il curriculum di Kikot è ragguardevole e merita di essere conosciuto, il generale è stato per conto della Difesa, almeno dal 2009, nel board di società che si occupavano di produzione e riparazione di armi e di apparecchiature chimiche, radioattive e di protezione biologica. È un grande esperto nello smaltimento delle armi chimiche e nello stoccaggio di materiali pericolosi. Fonti della struttura Onu impegnata nelle ispezioni sugli attacchi chimici in Siria confermano a La Stampa di averlo incontrato, e spiegano che veniva considerato come un diretto emissario del Cremlino, inviato per mettere in pratica le direttive di Mosca al massimo livello. Il suo in sostanza non era un incarico tecnico, per il quale c' era personale di livello più basso, ma politico. Una fonte operativa vicina alla comunità dell' intelligence americana riferisce questo: «Ogni volta che il Cremlino manda personale ufficiale in una missione diplomatica, è una regola ferrea che ci sono operativi dell' intelligence tra di loro. In questo caso, la mia valutazione è che la vasta maggioranza del personale inviato in Italia siano membri del GRU, il servizio di intelligence militare. Non c' è alcun dubbio che la Russia abbia approfittato di questo invito per condurre attività di intelligence». La ricerca su Ebola Risultano interessanti anche altri profili, dei russi arrivati nella missione intitolata "Dalla Russia con amore". Il gruppo comprende anche il tenente colonnello Alexander Yumanov, il colonnello Alexei Smirnov, il tenente colonnello Gennady Eremin e il tenente colonnello Vyacheslav Kulish. Si tratta di ufficiali che hanno preso parte al progetto riguardante la ricerca sul vaccino per il virus Ebola, progetto che era in capo al 48esimo Central Research Institute e a Vector SE del ministero della difesa russo, la società che fin dai tempi dell' Unione sovietica era impegnata nello sviluppo di armi biologiche. Le comunicazioni ufficiali russe li presentano come membri dell' Accademia medica militare con sede a Kirov, anche se diverse tracce riportano poi al 48esimo Central Research Institute. Kirill Shamiev, un analista di cose militari non sospettabile di russofobia, ha scritto qualcosa su di loro: Eremin, colonnello, è esperto in guerra batteriologica e ha lavorato contro la febbre suina. Il colonnello Viacheslav Kulish è un esperto nello sviluppo di attrezzature protettive contro agenti biologici virali, ha lavorato anche lui nei programmi contro Ebola e la peste. Alexander Yumanov, ha lavorato in Guinea su Ebola. Il colonnello Alexej Smirnov, è epidemiologo esperto in prevenzione delle malattie infettive, e fu coinvolto nello sviluppo di vaccini contro Ebola. Quando i primi grandi aerei Ilyushin sono arrivati a Pratica di mare, i comandanti della missione russa hanno chiesto che fossero gli italiani a pagare le cospicue spese di volo e carburante degli aerei, con l' Italia che si è dunque trovata in una posizione geopolitica non paritaria, come invece avviene di solito nelle relazioni tra alleati. Abbiamo infine chiesto alla parte italiana di questa storia con quali passaporti i militari russi siano entrati sul suolo italiano. Non riuscendo ad avere risposta da fonti governative, ci è stato infine detto dal Copasir che sono «info classificate». Inusuale, per una missione umanitaria.

Jacopo Iacoboni Paolo Mastrolilli per “la Stampa” il 23 aprile 2020. «Noi continuiamo a rimanere vigilanti contro gli sforzi di attori maligni, inclusa la Russia, per avvantaggiarsi di questo tempo di crisi globale allo scopo di perseguire agende destabilizzanti». È molto chiaro l' avvertimento che il dipartimento di Stato invia non solo a Roma e Mosca, ma presumibilmente anche a Pechino, in relazione alle politiche di assistenza legate all' epidemia di coronavirus. Quindi Washington aggiunge una precisazione importante, che riguarda tanto l' uso degli aiuti per secondi fini, quanto la necessità che avvengano nella massima chiarezza, accettando dunque che i media svolgano liberamente il loro dovere di informare: «Noi accettiamo con favore gli sforzi per aiutare ad alleviare le sofferenze causate dalla pandemia globale», ma devono essere «no-strings-attached» e «transparent», ossia senza condizioni di qualsiasi genere e trasparenti.

Aziende e sanzioni. A seguito dell' inchiesta condotta da La Stampa sugli aiuti inviati dalla Russia in Italia, che ha provocato una reazione da parte del ministero della Difesa di Mosca giudicata inaccettabile in una nota congiunta della Difesa italiana e della Farnesina, abbiamo posto due domande al Dipartimento di Stato. La prima riguardava il fatto che i ventilatori «Aventa-M» forniti al nostro Paese sono prodotti dalla Ural Instrument Engineering Plant (UPZ) nella città di Chelyabinsk, 1.500 chilometri ad est di Mosca. La UPZ è parte della holding Concern Radio-Electronic Technologies (KRET), unità del conglomerato statale russo Rostec. Siccome la KRET è sottoposta alle sanzioni del dipartimento al Tesoro americano dal luglio del 2014, abbiamo chiesto a Washington se ciò espone Roma al rischio di subire sanzioni secondarie. Foggy Bottom ha risposto così: «In linea generale, i nostri programmi di sanzioni non prendono di mira gli scambi, l' assistenza o le attività umanitarie in buona fede. UPZ non è un' entità designata. In base alle nostre informazioni, la holding KRET a cui appartiene, che è stata designata dall' OFAC, appare abbia meno del 50% di UPZ». Il messaggio è chiaro: Washington non vuole ostacolare gli aiuti umanitari, anche perché questi prodotti sono arrivati pure negli Usa, ma li monitora e controlla che non avvengano violazioni delle sanzioni inaccettabili. Anche perché, qualche giorno dopo, lo stesso Putin ha detto che Mosca acquista componenti dall' Italia, come se gli aiuti fossero in realtà transazioni a doppio senso. La seconda domanda riguardava invece più direttamente l' inchiesta della Stampa, e puntava a capire se gli Usa considerano un rischio per la sicurezza della Nato e le relazioni bilaterali il fatto che gli aiuti russi sono stati accompagnati da personale militare e di intelligence, come il generale Sergey Kikot, esperto di armi chimiche. Il dipartimento di Stato ha risposto così: «La relazione tra Usa e Italia resta forte, ed è basata su valori e priorità fondamentali condivise, inclusa la nostra continua cooperazione per sconfiggere il coronaviurs. Il 10 aprile, in risposta ad un bilancio di vittime senza precedenti in Italia, il presidente Trump ha autorizzato un robusto pacchetto di assistenza che aiuterà gli sforzi italiani di soccorso. Noi continuiamo a lavorare strettamente con tutti gli alleati e partner Nato, per coordinare gli sforzi contro il Covid-19». Washington quindi non vuole aprire un contenzioso con Roma, ma avverte: «Noi continuiamo a rimanere vigilanti contro gli sforzi di attori maligni, inclusa la Russia, per avvantaggiarsi di questo tempo di crisi globale allo scopo di perseguire agende destabilizzanti. Accettiamo con favore gli sforzi senza obblighi e trasparenti, per aiutare ad alleviare le sofferenze causate dalla pandemia globale».

«Nessuna condizione». Anche qui il messaggio è molto chiaro. Nel quadro di questa crisi, nessuno può opporsi all' assistenza onesta. Però gli Usa avvertono che deve essere tale, e non può portare con sé obblighi, secondi fini militari o di intelligence, tentativi di esercitare influenza politica e commerciale, oppure do ut des, magari finalizzati a usare il virus per indebolire il sistema delle sanzioni per l' Ucraina, o rafforzare la presa della Cina. L' aiuto poi deve essere trasparente, e i media hanno il diritto di informare. 

Luigi Ippolito per il “Corriere della Sera” il 17 aprile 2020. Non è ovviamente sfuggita alla Nato l' operazione condotta dalla Russia sul territorio italiano: assieme agli aiuti sanitari (come denunciato per primo dalla Stampa ), il Cremlino ha fatto affluire personale militare e dei servizi di intelligence (e il collega del giornale torinese si è beccato per questo le lugubri minacce di morte da parte di Mosca). Rispondendo alle domande del Corriere nel corso di una conference call, ieri il Comandante Supremo dell' Alleanza Atlantica in Europa, il generale americano Tod Wolters, ha detto di essere «molto, molto focalizzato su quelle transazioni». Non ha voluto entrare nel merito della decisione presa dal governo italiano, ma l' ha definita «fonte di preoccupazione»: e ha aggiunto di «prestare una strettissima attenzione alla maligna influenza russa». Dopo aver ripetuto più volte di essere ben consapevole di quanto sta accadendo in Italia, ha tenuto a sottolineare che la Nato «resta molto, molto vigile rispetto a quelle transazioni» e che «continua a monitorarle al massimo grado». È evidente che dietro l' epidemia di coronavirus si sta giocando una partita geopolitica cruciale, nella quale la Russia (e la Cina) provano a sfruttare le debolezze dei Paesi europei per allargare la propria sfera di influenza. Ma questo non significa che l' Occidente intenda starsene a guardare. Più in generale, Wolters ha ricordato che spesso gli equipaggiamenti forniti dalla Russia si sono rivelati difettosi. E ha stigmatizzato la campagna di disinformazione condotta dal Cremlino: «La Russia ha provato a inserirsi nell' informazione riguardante le forniture di aiuti medici da un Paese Nato all' altro e ha cercato di sminuirle: e questo in se stesso è una forma di disinformazione». Di conseguenza, ha sottolineato il comandante Nato, «neutralizzare la disinformazione e fornire fatti accurati è capitale»: perché in questo momento «la trasparenza è vitale» ed è «parte del nostro sistema democratico di valori». Dunque da una prospettiva americana ma certamente anche da una prospettiva europea «abbiamo l' obbligo di essere veritieri e accurati in ciò che diciamo e ciò che facciamo». Ma non è certo solo una guerra di notizie. Il generale Wolters ci ha tenuto a rimarcare che la Nato resta «focalizzata come un laser sulle operazioni di deterrenza e di difesa» e pertanto l' emergenza del coronavirus con comporta affatto abbassare la guardia per quanto riguarda la protezione dello spazio terrestre, aereo e cibernetico: «Le nostre forze continuano a essere pronte - ha ammonito -. Non distoglieremo gli occhi dalla palla». Il comandante Nato ha infine ricordato come le forze alleate stiano sostenendo gli sforzi civili contro il coronavirus. Gli americani hanno fornito in Europa equipaggiamenti medici, presi dai depositi del Pentagono in Italia, per un valore di mezzo milione di dollari. La Nato ha attivato il «Centro di coordinamento euro-atlantico di risposta ai disastri»: attraverso questo meccanismo la Repubblica ceca ha spedito aiuti a Italia e Spagna, incluse 10 mila tute mediche protettive ciascuna, mentre la Turchia ha fornito sempre a Italia e Spagna mascherine, disinfettanti ed equipaggiamenti protettivi. Sono stati predisposti ponti aerei, come quello che ha visto l' aviazione militare tedesca trasportare pazienti italiani e francesi ma anche medici da Polonia e Albania verso l' Italia, mentre gli aerei spagnoli hanno portato ventilatori dalla Germania alla Spagna.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 27 marzo 2020. Ambasciatore Sergey Razov, la Federazione Russa ha fornito all' Italia un aiuto enorme: gli Ilyushin atterrati a Pratica di Mare, hanno portato 122 specialisti, tonnellate di materiale, macchinari per analizzare i tamponi. Come è nata questa iniziativa?

«La sera del 21 marzo su iniziativa della Russia si è svolto un colloquio telefonico tra il presidente Putin e il presidente del Consiglio Conte. In risposta all' appello della parte italiana, il presidente Putin ha confermato la disponibilità della Federazione a fornire immediatamente tutto l' aiuto necessario al governo e al popolo italiano. A due giorni di distanza dalla telefonata fra i due leader, nove aeromobili pesanti dell' aviazione di trasporto militare russa, con una portata di 60 tonnellate ciascuno, sono arrivati in Italia. Il giorno successivo altri 5 voli speciali hanno raggiunto la Penisola e ieri è partito un ulteriore cargo. In totale sono stati effettuati 15 voli speciali per la consegna di aiuti».

Come verranno impiegati i vostri specialisti in Italia?

«Si è deciso di inviarli a Bergamo, dove l' altra sera e arrivata una colonna di mezzi speciali russi. I nostri medici lavoreranno fianco a fianco dei colleghi italiani».

Come viene seguita a Mosca la crisi italiana?

«È noto l' amore che i russi nutrono per l' Italia e la simpatia che provano per gli italiani. I russi sono dispiaciuti per l' epidemia che si è abbattuta sul vostro Paese ed esprimono tutta la loro solidarietà. L' invio degli aiuti è un' altra conferma di questa solidarietà».

C' è un mistero legato alla scarsa diffusione del virus in Russia.

«Non c' è nessun mistero. L' infezione da Covid-19 è arrivata in Russia più tardi che in Europa. Grazie alle misure prese in anticipo noi riusciamo a contrastare la diffusione della malattia. Noi da parte nostra informiamo il ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa e i vertici del Paese in merito alle misure prese dall' Italia».

Cosa sta accadendo ora in Russia: a che punto è il contagio e come si sta cercando di arginarlo?

«In Russia è stato creato un Centro operativo per contrastare il diffondersi del Coronavirus. Una serie di misure è stata messa in atto dal dicembre 2019 in conformità al Piano nazionale di prevenzione all' introduzione e alla diffusione della nuova infezione da Coronavirus dal momento in cui si è avuta la notizia dei primi casi di un' infezione, allora non ancora conosciuta, a Wuhan, in Cina. Nell' aeroporto di Sheremetyevo a Mosca, l' unico che accoglie voli da Paesi con una pesante situazione epidemiologica, è stato costituito un Terminal speciale. I passeggeri vengono visitati, intervistati e rinviati a osservazione medica presso il proprio domicilio. Tutti i passeggeri, provenienti da tali paesi, che non presentano sintomi, vengono messi in quarantena presso il proprio domicilio per 14 giorni. A oggi in Russia si sono registrati 658 casi e ieri, purtroppo, abbiamo avuto le prime due vittime. Ieri in tv Putin ha parlato di misure supplementari per bloccare la malattia».

Gli aiuti all' Italia sono il segno di rapporti di amicizia consolidati, anche negli anni delle sanzioni. In pochi giorni la vita del nostro Paese è cambiata. E la sua?

«Il nostro aiuto è la dimostrazione disinteressata della nostra solidarietà al popolo italiano indipendentemente dalla congiuntura politica. Per quanto riguarda le precauzione da noi prese, l' Ambasciata e i Consolati non possono interrompere il loro lavoro. Tra i nostri compiti c' è la tutela dei cittadini russi».

È vero che è in costruzione un maxiospedale alle porte di Mosca per i contagiati da Covid-19?

«Sì, è vero. A 50 km dal centro della capitale russa si sta lavorando per costruire in soli 30 giorni un nuovo ospedale che potrà accogliere i pazienti gravi affetti da coronavirus. Sono previsti 500 posti letto, di cui 260 attrezzati per la rianimazione».

La crisi sanitaria sta mettendo a dura prova le relazioni internazionali. Come reagisce a questo shock planetario la Federazione Russa?

«Il coronavirus ha cambiato radicalmente alcuni aspetti della nostra vita. Purtroppo è necessario chiudere le frontiere e limitare gli spostamenti tra Paesi. Misure indispensabili intraprese tra gli altri dal governo russo. Un terremoto di queste proporzioni modificherà anche le carte della geopolitica».

Che cosa accadrà nel Medio Oriente?

«Bisogna immediatamente porre fine alla violenza, introdurre il regime del cessate il fuoco, fare una pausa umanitaria. In caso contrario, si rischia una catastrofe umanitaria di dimensioni mondiali. Preoccupano particolarmente per ragioni ben chiare la Siria, la Libia, lo Yemen, l' Afghanistan e l' Irak».

La Russia ha varato negli anni scorsi un piano di sviluppo dell' industria che si riassume nelle formula import-substitution: i beni di consumo importati vengono sostituiti da beni prodotti sul mercato interno. Che prospettive offre questo modello all' export italiano, precipitato da 15 a 11 miliardi di dollari?

«A causa delle sanzioni introdotte per ragioni politiche, i produttori europei, inclusi quelli italiani, hanno subito e continuano a subire molte perdite economiche. Per gli esportatori non sarà facile tornare in Russia: il mercato è stato occupato da produttori nazionali e degli esportatori proveniente da altri Paesi».

Le sanzioni occidentali hanno dato un impulso allo sviluppo della sostituzione delle importazioni. In tal senso i produttori russi con il sostegno dello Stato hanno raggiunto dei buoni risultati in diversi campi, in primo luogo in quello agricolo, farmaceutico e in diversi settori industriali.

«Ma, nonostante tutto, l' Italia rimane uno dei nostri maggiori partner commerciali. Continua la collaborazione in importanti settori quali quello petrolchimico, energetico, quello della costruzione di infrastrutture per i trasporti e di infrastrutture pubbliche, l' agroalimentare. Secondo i dati della Confindustria-Russia sempre più aziende italiane localizzano la loro produzione in Russia, passando dalla vendita del prodotto finito alla vendita di tecnologie e alla produzione congiunta. Si va quindi dal made in Italy a un nuovo modello che si può definire made with Italy, Fatto con l' Italia».

Dalla Russia con amore, in arrivo gli aiuti di Putin. Laboratori mobili, medici militari, mezzi speciali. Nove jet sono in arrivo a Roma ed entro la notte i rinforzi saranno in Lombardia. Di Maio: "10 milioni di mascherine in arrivo. L'Italia non è sola". La Repubblica il 22 Marzo 2020. La mobilitazione è stata rapidissima. Sabato Putin ha chiamato il premier Conte, domenica pomeriggio il primo jet è decollato da una grande base alle porte di Mosca e nella serata è arrivato all'aeroporto militare a Pratica di Mare. Altri otto seguiranno nel giro di ore. Tutti i materiali raggiungeranno poi la Lombardia. Le foto diffuse dal ministero della Difesa russo mostrano la colonna di mezzi che sale sui velivoli. Si notano un laboratorio mobile, alcuni camion militari, una fila di ufficiali e diversi furgoni con aiuti medici. Sulle fiancate sono stati disegnati cuori con i tricolori dei due Paese e la scritta in tre lingue “Dalla Russia con amore”, come il film di 007. Ognuno dei nove Ilyushin 76 può caricare circa 45 tonnellate tra merci e uomini: sono “i muli” volanti, protagonisti della storia dell’Armata Rossa sovietica, tutt’ora in servizio dopo essere stati modernizzati nei motori e nelle strumentazioni. Difficile valutare l’esperienza dei rinforzi in arrivo da Mosca: in Russia ufficialmente l’epidemia è a livelli minimi, anche se i dati vengono contestati da molti osservatori. Il personale sembra proveniente dai ranghi della Protezione Civile, che fa capo al ministero dell’Interno, e da quelli delle forze armate. Dovrebbero essere parte delle unità pronte all’azione per fronteggiare le catastrofi e addestrate allo scenario della “guerra batteriologica”. E per questo in grado di operare con efficacia nella battaglia contro il coronavirus. L’elenco degli aiuti annunciato da Mosca infatti comprende anche veicoli speciali e strumenti per la “sanificazione dei trasporti”: una bonifica fondamentale per i reparti militari impegnati in zone contaminate e adesso utilissima anche negli ospedali lombardi. I camion inoltre trasportano scorte di mascherine, tute protettive e tamponi per i test. "Tra oggi e domani - ha dichiarato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha accolto all'aeroporto militare di Pratica di Mare l'aereo russo - arriveranno oltre 10 milioni di mascherine in Italia. Da mercoledì invece inizieranno ad arrivare 100 milioni di mascherine dalla Cina, così come comunicato nei giorni scorsi. Partirà un primo lotto da sei milioni e poi venti milioni di mascherine ogni settimana. Questo dimostra che l'Italia non è sola e che coltivare amicizie con altri Stati è fondamentale".

Gli aiuti russi e il nervo scoperto dell’Italia. Paolo Mauri su Inside Over the world il 25 marzo 2020. Mentre scriviamo un convoglio di attrezzature speciali con specialisti militari del ministero della Difesa russo sta viaggiando dalla base aerea di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, verso Bergamo per aiutare a combattere la diffusione dell’infezione da coronavirus. I mezzi speciali e l’equipe medica di Mosca sono arrivati a partire da domenica, quando il primo cargo Ilyushin Il-76MD delle Forze Aerospaziali Russe (le Vks – Vozdušno-Kosmičeskie Sily) è atterrato all’aeroporto militare laziale scaricando uomini e materiali. In totale la Russia ha effettuato 15 voli di cui l’ultimo arrivato proprio oggi, come riportato in una nota ufficiale. Il contingente russo è guidato dal maggior generale Sergey Kikot, esperto di antrace e vice capo di Stato maggiore del comando difesa Nbcr (Nucleare Batteriologico Chimico Radiologico) della Federazione Russa, ed insieme a lui altri 120 specialisti che, come riporta anche La Stampa, hanno i gradi di generali, colonnelli, maggiori, tenenti colonnelli, impegnati in passato in operazioni militari di contenimento del rischio batteriologico all’estero e in patria, come avvenne nel 2016 per contrastare la diffusione di un’epidemia di antrace nella regione di Yamal-Nenec, nella Siberia centro settentrionale. Gli aiuti russi sembra che consistano in cento ventilatori per le terapie intensive, 200mila mascherine, mille tute protettive, e soprattutto apparecchiature per le analisi della positività al virus. Due macchine che possono processare cento tamponi in un paio d’ore, un migliaio di tamponi veloci (2 ore) e 100mila tamponi normali. Queste, secondo le prime indiscrezioni, le forniture “a titolo gratuito” di Mosca anche se, come riportato sempre dal quotidiano torinese, l’elenco preciso del materiale verrà reso pubblico solamente domani da Palazzo Chigi. Insieme al materiale si sono visti anche mezzi per la disinfezione del tipo KDA “Orlan”, facenti parte della colonna, composta da 22 unità di equipaggiamento speciale russo nonché autobus con specialisti militari e veicoli di scorta e supporto tecnico forniti dall’Italia, che in queste ore è diretta a Bergamo, e che sono stati utilizzati per la prima volta dai russi proprio durante l’emergenza antrace del 2016. Un aiuto importante da parte di Mosca quindi, un aiuto che non può che essere di tipo militare dato che anche in patria, come abbiamo visto, l’esercito è chiamato a fronteggiare emergenze di carattere batteriologico. Per la prima volta nella storia mezzi e personale di una potenza che è stata nemica per 70 anni, si muovono sul territorio italiano per portare aiuto alla popolazione e al personale medico che è alle prese con la lotta al virus. Un aiuto portatoci non solo per puro altruismo. È evidente. Innanzitutto la Russia, grazie all’esperienza sul campo che faranno i suoi esperti militari, sarà in grado di fronteggiare meglio il possibile esplodere del contagio tra i suoi confini, che, come abbiamo già avuto modo di dire in precedenza, sono stati sì blindati, ma potrebbe comunque non essere un provvedimento sufficiente per evitarne una futura incontrollata diffusione. Proprio il ministero della Difesa russo, in queste ore, ha tenuto una riunione al vertice, a cui ha partecipato anche il presidente Vladimir Putin e altre massime cariche militari, per stabilire il piano di azione per salvaguardare non solo il sistema della Difesa della Federazione ma anche per stabilire gli eventuali piani d’azione per combattere una diffusione su vasta scala. Nella nota ufficiale si legge infatti che “lo scopo dell’audit è aumentare il livello di prontezza delle unità per risolvere, se necessario, i compiti per combattere l’infezione da coronavirus” e che saranno effettuate verifiche per un piano d’azione su due livelli: un primo di carattere esclusivamente militare atto a creare una zona batteriologicamente sicura di primo ingresso, ovvero “per eliminare le conseguenze della lotta contro le malattie nei luoghi di spiegamento del personale militare” ed un secondo in cui le unità mediche speciali dell’esercito, insieme ad altre unità militari regolari e della riserva saranno impiegate entro due giorni per combattere la diffusione del virus. Proprio in questo senso l’esperienza che i 120 specialisti “con le stellette” russi si faranno in Italia ed in particolare a Bergamo, ovvero in quel territorio che è attualmente il focolaio maggiore dell’epidemia in Italia, sarà preziosa per Mosca e contribuirà a determinare i protocolli d’azione per il contenimento di un patogeno di questo tipo, ben diverso rispetto all’antrace o ad altri ancora più letali. Non è forse un caso che la destinazione originaria, Sondalo in Valtellina, sia stata cambiata dopo poche ore a seguito della riunione con le autorità militari e di Protezione Civile italiane tenutasi ieri a Roma. Per quanto riguarda le finalità di più lungo periodo si apre una parentesi molto più complicata e che ha dei risvolti di sicurezza nazionale da non sottovalutare, ma che non c’entrano affatto con la possibilità che i militari russi possano andarsene “a zonzo” per il nord Italia a sbirciare nelle nostre basi ed in quelle della Nato. Un’ipotesi che non trova riscontri in quanto il personale di Mosca è stato fatto alloggiare in una base militare proprio per tenerlo sotto sorveglianza, e con ogni probabilità alloggerà in campi o strutture messe a disposizione dalla Difesa altrettanto sorvegliate. L’idea poi, in un regime di quarantena, che un militare russo possa allontanarsi dalle strutture sanitarie per intraprendere un lungo viaggio verso Ghedi o Solbiate Olona (le due basi più vicine a Bergamo) è molto irrealistica, e crediamo comunque che sia stata presa in considerazione come lontana eventualità dal nostro controspionaggio. Il vero problema, semmai, è quello di mostrare la debolezza di un intero sistema sanitario nazionale, che non è solo italiano ma di quasi tutto l’occidente. Potrà sembrare strano, ma le strutture sanitarie ed il livello di preparazione medica di un Paese è altamente tenuto in considerazione dai servizi segreti delle potenze mondiali perché se ne può dedurre la capacità di affrontare emergenze nazionali e la stessa capacità di resilienza del sistema Difesa. Periodicamente la Cia, insieme ad altri enti come il poco conosciuto National Center for Medical Intelligence (Ncmi), stilano rapporti sulle capacità sanitarie delle varie nazioni “sotto osservazione”, e non si parla solo di quelle ostili o potenzialmente tali. L’aver accettato l’aiuto russo, può potenzialmente aver palesato tutte le nostre carenze in questo senso davanti a degli osservatori sul campo che, una volta tornati in patria, verranno sicuramente chiamati a fornire dati e rapporti dettagliati su come l’Italia sta affrontando l’emergenza di un’epidemia, che, lo ricordiamo, è tra le possibili minacce di un attacco da parte di terroristi o da parte di agenti statuali, sempre nel quadro della biological warfare. Per capire meglio quali possano essere le nostre criticità, e quelle del sistema sanitario occidentale, dobbiamo soffermarci sulla lettera spedita al New England Journal of Medicine dai medici dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo di cui vi riportiamo alcuni ampi stralci. “La situazione è così grave che siamo costretti a operare ben al di sotto dei nostri standard di cura. I tempi di attesa per un posto in terapia intensiva durano ore” si legge, e ancora “nelle zone circostanti la situazione è anche peggiore. Gli ospedali sono sovraffollati e prossimi al collasso, e mancano le medicazioni, i ventilatori meccanici, l’ossigeno e le mascherine e le tute protettive per il personale sanitario. I pazienti giacciono su materassi appoggiati sul pavimento. Il sistema sanitario fatica a fornire i servizi essenziali come l’ostetricia, mentre i cimiteri sono saturi e (l’accumulazione dei cadaveri, ndr) crea un ulteriore problema di salute pubblica. Il personale sanitario è abbandonato a se stesso mentre tenta di mantenere gli ospedali in funzione. Fuori dagli ospedali, le comunità sono parimenti abbandonate, i programmi di vaccinazione sono sospesi e la situazione nelle prigioni sta diventando esplosiva a causa della mancanza di qualsiasi distanziamento sociale”. Una situazione che il personale russo toccherà presto con mano, almeno per quanto riguarda quella degli ospedali, e che dimostra come l’organizzazione sanitaria italiana, ma anche quella occidentale, abbia bisogno di un cambio di paradigma. Sono gli stessi medici bergamaschi a riferirlo quando scrivono “i sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care (un approccio per cui le decisioni cliniche sono guidate dai bisogni, dalle preferenze e dai valori del paziente, ndr). Ma un’epidemia richiede un cambio di prospettiva verso un approccio community-centered care. Stiamo dolorosamente imparando che c’è bisogno di esperti di salute pubblica ed epidemie”. Un atto di denuncia gravissimo per il peso che comporta proprio in merito alla necessaria ridefinizione di tutto un sistema sanitario. Una criticità condivisa da altre nazioni occidentali, come ad esempio dagli stessi Stati Uniti. Come abbiamo avuto modo di riportarvi in precedenza proprio negli Usa una commissione di inchiesta, la Bipartisan commission on biodefense, ha recentemente accertato che “molti ospedali e altre entità sanitarie operano al di sopra e spesso al di là delle proprie capacità, cercando di soddisfare le esigenze delle comunità in cui agiscono. Non possiedono la capacità superiore necessaria per rispondere a eventi biologici su larga scala”. Nemmeno oltre Atlantico quindi il sistema sanitario è basato su quella dottrina definita community-centered care se non è in grado di affrontare eventi biologici su larga scala, ed il personale russo, “sbirciando” da noi, potrebbe farsi un’idea sommaria di quanto avvenga in tutta la sanità dell’Occidente. Gli aiuti, che vengano dalla Russia, da Cuba o dalla Cina, non sono mai a titolo gratuito: hanno sempre un prezzo da pagare che sia di tipo indiretto, ovvero dato dalla possibilità di lasciare aperto uno spiraglio sulla nostra società, sistema militare o sanitario, o di tipo diretto riguardante le future implicazioni diplomatiche che ne conseguiranno. La strategia russa, ma anche cinese, è sempre quella di cercare di disgregare l’unità di intenti in Europa e di allontanarla, per quanto possibile quindi attualmente scarsamente, dall’influenza statunitense. In questo senso l’Italia, come è stato già detto, rappresenterebbe il “ventre molle” dell’Europa ma solo se la gestione di certi meccanismi diplomatici che vanno controtendenza viene fatta con scarsa lungimiranza e superficialmente, senza un piano strategico di medio lungo periodo, che vorrebbe dire far diventare il nostro Paese un vaso di coccio tra i vasi di ferro di Cina, Russia e Stati Uniti.

·        A morte gli amici degli Usa. 

Vincenzo Nigro per repubblica.it il 14 aprile 2020. Trump scrive che "la Repubblica Italiana, uno degli alleati più stretti e di vecchia data, è stato devastato dalla pandemia di Covid-19, che ha già portato via più di 18 mila vite, portando la maggior parte del sistema sanitario a un passo dal collasso, e minaccia di spingere l'economia italiana in una profonda recessione". Il governo italiano, continua Trump nel documento, ha "chiesto l'aiuto degli Stati Uniti. Sebbene la prima e più importante responsabilità del governo degli Stati Uniti sia nei riguardi del popolo americano, andremo in aiuto dell'Italia per sconfiggere l'epidemia di Covid-19 e mitigare l'impatto della crisi, mostrando allo stesso tempo la leadership degli Usa davanti alle campagne di disinformazione cinese e russe, riducendo il rischio di una nuova infezione dall'Europa verso gli Stati Uniti".

Coronavirus, Trump invia aiuti all’Italia per 100 milioni di dollari. Jacopo Bongini il 31/03/2020 su notizie.it. Il presidente Usa Donald Trump ha annunciato l'invio di aiuti medici all'Italia dal valore di 100 milioni di dollari per fronteggiare il coronavirus. Nella giornata del 30 marzo il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’invio di 100 milioni di dollari di aiuti all’Italia nel contesto dell’emergenza coronavirus. Gli aiuti consisteranno in attrezzature mediche e materiale ospedaliero che verrà spedito nel nostro Paese, ma anche altre nazioni riceveranno supporto simile dagli Stati Uniti. Nel suo intervento, Trump ha inoltre affermato di aver già sentito telefonicamente il premier Giuseppe Conte, il quale si è mostrato molto felice dell’offerta. L’annuncio dell’invio di aiuti all’Italia è avvenuto durante il consueto briefing con i giornalisti alla Casa Bianca, anche se molti commentatori sul web hanno ironizzato sulle incertezze linguistiche di Trump nel diramare il comunicato. Il presidente ha infatti esplicitamente detto che all’Italia verranno inviate “cose” mediche per aiutarla nel combattere il coronavirus. Nel suo intervento, Trump ha infatti affermato: “Ho appena parlato con il primo ministro italiano, abbiamo dotazioni supplementari, prodotti di cui non abbiamo bisogno. Manderemo circa 100 milioni di dollari di cose mediche, chirurgiche e ospedaliere all’Italia. Giuseppe era molto contento, stanno vivendo un momento molto difficile”. Durante la conferenza stampa il presidente Trump ha inoltre informato i giornalisti dell’attuale situazione negli Stati Uniti, dove al momento sono stati registrati dalla Johns Hopkins University 153.246 contagi e 2.828 decessi: “Sono 30 giorni vitali, ci giochiamo tutto. Il picco non arriverà prima di altre due settimane, se seguiamo le indicazioni salveremo più di un milione di vite. Il futuro è nelle nostre mani, non abbiamo altra scelta: ognuno di noi può avere un ruolo per fermare il virus. Oltre 1 milione di americani sono stati sottoposti a test”.

Stefano Pioppi per formiche.net il 27 marzo 2020. Aiuti contro l’emergenza e coordinamento sugli impegni comuni, dalla ricerca di un vaccino ai teatri operativi. Il tutto, nel segno dell’amicizia storica tra Italia e Stati Uniti, ancora più forte al tempo del Covid-19. È il succo della telefonata tra Lorenzo Guerini e Mark Esper, numero uno del Pentagono, nella sera in cui l’ambasciata Usa a Roma si illumina dei colori delle due bandiere. Il colloquio fa seguito agli assidui contatti tra i due e alle attrezzature inviate dallo US Army Europe alla Regione Lombardia per fronteggiare l’emergenza, parte di un sostegno che coinvolge il governo americano, tante aziende e Ong d’oltreoceano (pur facendo meno rumore degli aiuti cinesi e dei militari russi). La scorsa settimana, Guerini aveva scritto a Esper chiedendo supporto, ma anche esprimendo vicinanza all’alleato d’oltreoceano che, in questi giorni, affronta la medesima emergenza, rischiando tra l’altro di registrare numeri più pesanti di quelli italiani. Il Pentagono, inoltre, è tra le istituzioni americane quella che potrebbe subire il colpo più duro. Questo dà ancora più valore agli aiuti inviati all’Italia, sia con la US Air Force da Ramstein, in Germania, sia con lo US Army Europe fino in Lombardia. “Desidero prima di tutto ringraziarti a nome del governo e del popolo italiano per la solidarietà manifestata e per gli aiuti concreti inviati in questi giorni difficili – ha detto Guerini all’omologo americano – ancor più significativi in quanto l’emergenza investe anche il tuo Paese”. “Sappiamo di poter contare sugli amici”, ha detto il titolare della Difesa, ricordando che quella degli Usa  è “una manifestazione di solidarietà che testimonia ancora una volta le solide e storiche relazioni tra i nostri Paesi, sia sul piano della cooperazione militare, che i nostri dicasteri della Difesa convintamente portano avanti, ma anche sul piano della reciproca solidarietà in questo momento di emergenza”. Ne deriva la vicinanza contraccambiata al popolo americano, con la promessa di ricambiare il supporto manifestato. “La Difesa italiana – ha detto Guerini – è pronta a condividere con gli Stati Uniti l’esperienza sin qui maturata dal mio ministero che, fin dalle prime fasi di questa emergenza, è stato coinvolto a vario titolo”. I due hanno inoltre assicurato reciproca condivisione “sul piano della ricerca”, sottolineando che “ogni progresso verso la direzione di un vaccino e l’individuazione di terapie efficaci verrà condiviso reciprocamente”. Una cooperazione, quella nel campo della ricerca scientifica, che nasconde probabilmente anche il messaggio indiretto anche sul tema dei militari russi arrivati (inaspettatamente) in Italia con una missione nata dalla telefonata tra Vladimir Putin e Giuseppe Conte, gestita dalla Difesa con attenzione e controllo, vista una presenza senza dubbio anomala per un membro storico della Nato. Esper avrà chiesto a Guerini rassicurazioni, per un capitolo che è da sommare alle insofferenze trapelate negli States per il tappeto rosso steso alla propaganda cinese (nascosta dietro gli aiuti). Quest’ultimo tema è stato oggetto della telefonata (probabilmente più tesa) della scorsa settimana tra Mark Pompeo e Luigi Di Maio. D’altra parte, è la Difesa il canale al momento privilegiato dei rapporti tra Italia e Stati Uniti, complice il filo diretto tra Guerini ed Esper. Dalla telefonata dopo l’uccisione di Qassem Soleimani a inizio anno, fino alla visita di Stato del ministro italiano a fine gennaio, senza contare i vari incontri in ambito Nato. A Washington, era stato Guerini a ottenere dal collega “tutto il peso politico possibile degli Usa” per garantire il cessate-il-fuoco in Libia, nonché a incassare rassicurazioni sul coordinamento in merito alle iniziative adottate dagli Stati Uniti per quegli scenari che vedono impegnata l’Italia. Un elemento importante per non farsi trovare impreparati in caso di allunghi sul ritiro dall’Afghanistan o sull’evoluzione delle manovre Iraq. Poi è arrivato il coronavirus; ha conquistato le prime pagine e le agende governative, ma non ha eliminato le ragioni dell’impegno comune nei teatri operativi, né le esigenze di sicurezza internazionale. Anche di questo, con ogni probabilità, avranno parlato Guerini ed Esper, sulla linea del coordinamento che, dall’emergenza, si allarga al più abituale confronto sulle missioni comuni. La notizia di giornata è dunque il rientro in Italia, nei prossimi giorni, di 200 militari dall’Iraq, dove resteranno 600 unità nell’ambito delle missioni Nato e della Coalizione internazionale anti-Isis. Lo ha comunicato oggi il dicastero della Difesa, spiegando bene che non si tratta di un allungo rispetto ai partner né, tanto meno, di un abbandono della missione. La scelta di palazzo Baracchini segue infatti quanto deciso dalla Nato e dal comando multinazionale che coordina gli sforzi nel Paese mediorientale, in merito alla sospensione delle attività addestrative resasi necessaria a seguito dell’emergenza sanitaria. Da qui si è mosso lo Stato maggiore della Difesa che, attraverso il Comando operativo di vertice interforze (Coi) guidato dal generale Luciano Portolano, ha pianificato il rientro di una parte del contingente italiano diviso tra l’operazione Inherent Resolve (Prima Parthica per la componente italiana) e la Nato Training Mission. Tra Erbil (nel Kurdistan iracheno), Baghdad e Kuwait, restano “gli assetti essenziali per la lotta al terrorismo e alla sicurezza del popolo iracheno”, spiega la Difesa. D’altra parte, non è certo il momento di indebolire uno strumento che, apprezzato da alleati e partner, assicura all’Italia la difesa dei propri interessi strategici e il collocamento sulla scena internazionale. Non è casuale in tal senso la specifica di palazzo Baracchini: “Le Forze armate italiane, oggi impegnate 24 ore al giorno con uomini e mezzi per l’emergenza sanitaria, continueranno a contribuire, insieme agli alleati, alla lotta al terrorismo e a sostenere i popoli dei teatri dove operano in 24 Paesi con 24 missioni e 16 operazioni”.