Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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IL COGLIONAVIRUS

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

LE VITTIME

 

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali.

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

Fase 2: finalmente!

 “Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia Culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

 

SECONDA PARTE

 

LE VITTIME

 

·        I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Covid e medici di base, ecco chi deve fare i tamponi rapidi e perché non funzionano le cure a casa. Dataroom di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2020. Cosa dovrebbe fare un paziente che sta male per sospetto Covid? Chiamare il suo dottore, che lo prende in carico, verifica la positività, poi raccoglie al telefono i sintomi, offre consigli, eventualmente lo invia in ospedale per una valutazione o ricovero urgente, altrimenti monitora la situazione e se necessario fa una visita a domicilio (o invia le Unità speciali di continuità assistenziale, le note Usca). Invece nelle ultime settimane un contagiato su tre, impaurito e abbandonato a casa, va ad intasare i Pronto Soccorso, dove dovrebbero arrivare solo i pazienti Covid che richiedono una valutazione clinica complessa. Inoltre, negli ospedali un malato su tre occupa posti letto anche se potrebbe essere curato a domicilio. Eppure, in Italia ci sono 44 mila medici di famiglia. Dove si inceppa il meccanismo?

I doveri del dottore. La legge 833 del 1978 all’art. 25 dice: «L’assistenza medico-generica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel Comune di residenza del cittadino». Tra le due alternative, la scelta è caduta sulla libera professione in convenzione (legge 502 del 1992, art. 8), vuol dire che il lavoro dei medici di famiglia è disciplinato da accordi collettivi triennali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali e dalla Conferenza Stato-Regioni. Ogni prestazione aggiuntiva deve quindi passare da una contrattazione sindacale. L’accordo in vigore prevede che lo studio debba essere aperto 5 giorni a settimana, e il numero di ore dipende dal numero di assistiti: va dalle 5 ore settimanali fino a 500 pazienti, alle 15 per 1.500 assistiti, numero massimo consentito. La visita domiciliare deve essere eseguita nel corso della stessa giornata, se la richiesta avviene entro le ore 10, altrimenti entro le ore 12 del giorno successivo . L’organizzazione delle visite a casa, comunque, poi spetta al medico. La paga forfettaria complessivamente arriva più o meno a 86 euro a paziente. Calcolando che ogni medico ha mediamente 1.200 assistiti, lo stipendio annuo è di circa 104.000 lordi. Le spese a loro carico.

Chi deve assistere il paziente a casa. Per l’Agenzia italiana del Farmaco, il medico di famiglia deve fare la «vigile attesa» nella fase domiciliare del paziente, e trattare di fatto solo i sintomi febbrili. Il decreto dell’8 aprile 2020 dice che devono sorvegliare a casa i pazienti fragili e cronici gravi. A Milano sono stati segnalati ai dottori dall’Ats 127.735 malati da contattare telefonicamente per verificare la necessità di un supporto sociale, della terapia assunta e delle condizioni cliniche generali. L’incentivo previsto è di 3 euro a paziente. Ebbene, ne sono stati presi in carico solo 48.624. Gli altri 79.110 sono rimasti scoperti. Parliamo di pazienti il cui rischio di morte, in assenza di vigilanza, è di otto volte superiore. Lo stesso decreto sollecita i medici del territorio ad occuparsi dei loro pazienti in quarantena, o dimessi dagli ospedali ma non ancora guariti, attraverso il controllo telefonico o visite a domicilio. Di fatto ognuno decide per se stesso: chi vuole lo fa (abbiamo visto medici prodigarsi oltre i limiti umani senza attendere il decreto), chi non vuole non lo fa. Va detto che la distribuzione di dispositivi di protezione individuale, è arrivata con il contagocce, come anche la disponibilità di saturimetri (e ancora peggio va per gli strumenti minimi di diagnosi come l’ecografo toracico, al momento non pervenuti). Per coprire questo «buco» di assistenza sono stati incaricati i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl di fare le telefonate quotidiane per verificare lo stato di salute (temperatura, grado di ossigenazione misurato con saturimetro e test del cammino). Funziona un po’ si e un po’no, visto che il personale è sempre lo stesso. Invece per le visite a domicilio sono state create le Usca, ma sulle 1.200 previste, e finanziate con 721 milioni di euro, ne sono state istituite secondo gli ultimi dati disponibili la metà (Dl n. 14 del 9 marzo 2020, art. 8).

I test rapidi al via. Intanto il virus corre. Per una identificazione veloce dei focolai e l’isolamento dei casi, il 28 ottobre l’accordo collettivo nazionale in vigore è stato integrato su proposta dei ministri Roberto Speranza e Francesco Boccia: i medici di base sono chiamati a fare i test antigenici rapidi ai loro pazienti sospetti e ai relativi contatti stretti asintomatici. La retribuzione aggiuntiva è dai 12 ai 18 euro a tampone. Il 4 novembre il commissario straordinario Domenico Arcuri ha iniziato la distribuzione di 50 mila kit al giorno e oltre 3 milioni di pezzi a settimana di mascherine, visiere, guanti e tute. A questo si aggiunge la dotazione delle Regioni. I medici che non li fanno possono essere sottoposti a procedimento disciplinare. Ma l’accordo è sottoscritto solo dalla Fimmg che rappresenta il 63% dei medici di famiglia, e pure fra questi ci sono contrari e pronti a restituire la tessera sindacale. Il problema più ricorrente: gli studi sono dentro ai palazzi e i condomini si oppongono perché temono il va e vieni di contagiati. E’ però possibile farli in aree esterne messe a disposizione dai Comuni. Sta di fatto che la categoria è in subbuglio: in Lazio, per ora, hanno dato la disponibilità in 341 (su 4.600). In Veneto il governatore Luca Zaia ha firmato un’ordinanza: tutti i 3.198 medici di medicina generale sono obbligati a effettuare i test rapidi ai propri assistiti pena la perdita della convenzione. Il numero di adesioni in Emilia-Romagna è in alto mare, in Lombardia si conoscerà solo nei prossimi giorni.

Il giuramento di Ippocrate. Sono comprensibili le paure (la maggior parte di loro ha un’età compresa fra i 50 e 60 anni), e condivisibili i timori per il carico di responsabilità che nessuno ha definito, ma ogni medico il giorno della laurea giura «di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità». Negli ospedali, abbiamo visto, nessuno è stato tanto lì a discutere. Quello che sappiamo è che, anche per la semplice richiesta di esecuzione del tampone tradizionale, da marzo a ottobre a Milano il 39% dei casi sospetti Covid ha dovuto arrangiarsi da soli, mentre quelli segnalati dai medici di base sono stati il 61%. Fra questi c’è chi si è tirato il collo (l’8% ha segnalato oltre 200 casi) e chi ha fatto il meno possibile (il 20% si è fermato a 50 casi). In ogni caso nell’accordo con i sindacati nulla è stato previsto sulle visite a domicilio che consentirebbero agli ospedali di mandare a casa un po’ di pazienti. Ci sono solo iniziative in ordine sparso: il 30 ottobre la Regione Lazio ha fatto una call per trovare medici generici disponibili a fare le visite a domicilio nei primi due giorni di comparsa dei sintomi. Ci sarà anche un compenso economico, ma il quanto non è esplicitato nel bando.

I paradossi. Da mesi l’ordine è: potenziare la medicina del territorio. Nei fatti però i medici di base sono considerati dall’inizio una categoria di serie B, per almeno tre ragioni. 1) La borsa di studio dei neolaureati che si iscrivono al corso di formazione triennale per diventare medici di famiglia è di 11 mila euro l’anno, sono soggetti a Irpef e con contributi a carico; mentre quella per chi sceglie il corso di specializzazione è di 26 mila, contributi inclusi e senza Irpef. E’ evidente che il giovane laureato punterà alla specialità, anche se deve pagare 2.400 euro l’anno in media di retta universitaria. 2) Ne vengono formati sempre meno di quelli che servono: lo scorso anno 2.864 medici di medicina generale sono andati in pensione, ma sono solo 1.765 le borse di studio previste; nel 2020 scendono a 1.032 per sostituire 3.493 che quest’anno smettono l’attività. 3) Il finanziamento per i corsi di formazione triennale è di 38 milioni l’anno, la stessa cifra del 1989. Infine, la totale mancanza di pianificazione: il concorso per le borse di studio del 2019 si è tenuto a fine ottobre 2019, i corsi di formazione dovevano iniziare a marzo 2020, ma purtroppo sono slittati a fine settembre. Il concorso 2020 si terrà a gennaio 2021.

Nove milioni di italiani sono rimasti senza medico di famiglia. Nell'ultimo anno sono andati in pensione troppi dottori: i loro sostituti non ci sono e per formare nuove professionalità servono dieci anni. Un disastro annunciato. Andrea Tornago su L'Espresso il 03 novembre 2020. Potenziare la medicina di comunità, coinvolgere i medici di famiglia, incentivare la telemedicina. Così l’infezione si può curare prima e meglio, senza intasare i pronto soccorso. Perché la guerra contro il Covid si vince sul territorio, non negli ospedali. Quante volte abbiamo sentito questa formula magica? A trovarlo, un medico di famiglia. Nel corso del 2020 circa 9 milioni di italiani sono rimasti senza medico di base perché quello di fiducia è andato in pensione, perdendo la consuetudine e la conoscenza della storia clinica dei pazienti. E spesso trovarne un altro in grado di riassorbire le persone rimaste scoperte (fino a 1.500 pazienti per medico) può essere un’impresa: semplicemente i professionisti in grado di sostituirli non ci sono. I dipartimenti di cure primarie delle Asl fanno i salti mortali per assicurare la copertura degli assistiti in tempi rapidi. Ma quella della medicina generale è un’altra linea del fronte del sistema sanitario che si trova strutturalmente sguarnita al cospetto della pandemia, dopo quella della prevenzione e degli ospedali. Proprio mentre ai medici di base si vorrebbero affidare la gestione clinica a domicilio dei pazienti Covid, le campagne vaccinali di massa contro l’influenza, i test rapidi per la diagnosi dell’infezione da Sars-CoV-2.

I medici di famiglia si raccontano: "Quei giorni in cui correvo da un paziente all'altro per capire se avevano il Covid". Riccardo Munda, medico di medicina generale, su La Repubblica il 27 ottobre 2020. Fare il medico di base non è affatto una passeggiata, specialmente se ti trovi a dover fronteggiare una pandemia nel bel mezzo dell’occhio del ciclone. Il mio studio -anche se mi preme ricordare che sono un sostituto provvisorio- si trova a Selvino, in val Seriana, ma dal 13 marzo ho iniziato anche a sostituire un collega nel comune di Nembro. Nembro, quel piccolo paese che senza Covid-19 non sarebbe mai finito sotto le luci dei riflettori. In questi mesi ho potuto toccare con mano tutta la drammaticità della situazione. Il virus, secondo le ultime indagini sierologiche, si è diffuso in oltre la metà della popolazione dei comuni in cui presto servizio. Ho passato settimane drammatiche a correre da un malato all’altro cercando di impostare la miglior terapia. Fortunatamente tra i miei pazienti nessuno è deceduto per il virus. Ma se nella valle abbiamo avuto un’ecatombe molto è da imputare alla mancanza di assistenza domiciliare sul territorio. Molte delle persone che sono morte sono rimaste per settimane a casa senza assistenza. Gran parte di queste se ne sono andate senza vedere un medico. Questo è accaduto perché sul territorio siamo in pochi e in gran parte dei sostituti. Comprendo anche le mancate visite da parte dei colleghi più anziani, affetti a loro volta da qualche piccolo problema di salute. Io ho 39 anni e sono in buona salute. Cosa mi sarebbe successo con 20 anni in più a visitare al domicilio decine di persone al giorno positive al virus? Per non ritrovarci più nella stessa situazione occorre che le persone vengano visitate e seguite tempestivamente dai medici di assistenza primaria. Sono queste le strutture sul territorio che vanno rafforzate. Bisogna fare in modo che sempre meno persone arrivino ad aver bisogno di un ricovero in terapia intensiva perché non trattate adeguatamente al nascere dei sintomi. Occorre qualcuno che imposti la terapia ai primi sintomi, la modifichi se serve e li segua giorno dopo giorno. Ciononostante non è cambiato molto. Anzi, siamo passati da 1500 a 1800 assistiti come numero massimo per ogni medico di base. Ora siamo di fronte ad una seconda ondata anche se per ora, nella mia zona, tutto sembra più tranquillo dopo l’inferno dei mesi scorsi. Di una cosa sono però preoccupato. Per come siamo ancora organizzati sento sempre più diffidenza verso il sistema di gestione dell’emergenza. In molti, pur avendo qualche sintomo, preferiscono evitare di rivolgersi al medico. Sento la paura di queste persone di perdere il lavoro e bloccare nuovamente le proprie attività. Questo perché “ingabbiati” nelle lunghe trafile dei tamponi e quarantene.

Francesca Angeli per “il Giornale” il 29 aprile 2020. Nel fronteggiare l' epidemia di Covid 19 è mancato il modello assistenziale territoriale: come seguire il paziente sospetto positivo e i suoi familiari in casa. E neppure in vista della Fase 2 c' è un progetto chiaro di assistenza e contenimento sul territorio che presenta realtà molto diverse sia per quanto riguarda la diffusione dell' epidemia sia rispetto alla capacità di risposta per disponibilità di personale e presidi sanitari. É preoccupato Silvestro Scotti, segretario nazionale dei medici di medicina generale, Fimmg, tra i primi a denunciare la carenza di dispositivi di protezione individuale per i camici bianchi ma anche il mancato coinvolgimento dei medici di famiglia che «non compaiono in nessuna delle task force nominate dal governo».

Che cosa vi preoccupa di più rispetto alla Fase 2?

«Non è stata gestita neppure la Fase 1 per quello che riguarda l' assistenza dei pazienti in isolamento che sono oltre 80mila e dei loro familiari costretti alla quarantena».

A che cosa si riferisce?

«Un sistema burocratico farraginoso che di fatto complica la possibilità di un nostro intervento diretto perché occorre sempre che a richiedere il tampone siano i servizi di sanità pubblica. Io visito un mio paziente e sospetto che abbia il Covid ma non ho neppure un codice di diagnosi per denunciarlo perchè è previsto soltanto per gli ospedali. Problema superato: io lo uso lo stesso, viene identificato come errore ma tacitamente è implicito che ci si riferisce a un sospetto. Dunque si isola e si mettono in quarantena i parenti per 14 giorni e in alcuni casi non arriva neppure la conferma dalla sanità pubblica competente per disporre la quarantena. Dopo due settimane nessuno si è fatto vivo, il tampone non è stato ancora eseguito. Che cosa facciamo? Fino al 4 maggio comunque non si andava a lavorare ora invece riprendono le attività. Ma come?»

Teme risalgano i contagi?

«Poniamo che quel paziente al quale non è mai stato fatto il tampone sia guarito. Ma i suoi familiari? Io conosco i miei pazienti: con un bagno per 4 persone in una casa di 50 metri quadri è evidente che l' isolamento non è stato possibile».

Il rischio sono gli asintomatici?

«Ora sappiamo che circa il 30 per cento dei malati non presenta sintomi. Ieri il 90 per cento dei miei pazienti mi ha chiesto il certificato di buona salute perché un' ordinanza folle della regione nella quale lavoro, la Campania, prevede che si torni a lavorare soltanto se non si è affetti da Covid 19. Ma io non ho la possibilità di fare il tampone. E al momento non ci sono neppure evidenze scientifiche sull' acquisizione dell' immunità dopo aver contratto la malattia. A che cosa serve quel certificato?»

Nel dubbio che lei possa trovarsi di fronte una persona potenzialmente contagiosa come difende se stesso e i suoi pazienti?

«Ho comprato camici, guanti, visiere e mascherine usa e getta. Ad ogni visita li cambio: moltiplichiamo una necessità del genere per tutti i medici e tutte le visite ed è evidente che presto saremo scoperti. Gli studi medici si affolleranno anche perché ripeto è mancata la presenza della sanità pubblica sul territorio»

Gli ambulatori?

«Hanno addirittura interrotto le vaccinazioni obbligatorie. Possibile che non fossero in grado di garantire percorsi protetti per la profilassi dei bambini? Che cosa succederà quando milioni di persone si dovranno vaccinare per l' influenza stagionale? E perché non si attiva per il Covid il modello dei medici sentinella per l' influenza stagionale?»

E c’è un medico di base che sfida la legge  per salvare i pazienti dal coronavirus. Guido Galli visita a domicilio i malati di Covid-19: «Il giuramento di Ippocrate è più importante delle ordinanze». Francesco Specchia il 4 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Mi autodenuncio, sto violando la legge ma non me ne frega niente. Prima viene il giuramento di Ippocrate, dopo le ordinanze. Ma molto dopo…». Nella trincea del Covid19, in questi giorni, il padanissimo e solitamente mite dottor Galli sta sfondando la linea del Coronavirus con impeto quasi supereroistico. Mio figlio piccolo direbbe che usa la mascherina sciacquata nell’amuchina come lo scudo di Capitan America, lo stetoscopio a mo’ di ragnatela alla Spiderman e il ricettario tipo martello di Thor. Forse esagera. Però, in questo momento, il Galli, te lo vedi girellare come un pazzo in ogni angolo d’una Milano ingoiata dal silenzio, a stanar pazienti; ed è lì che li visita, li palpa, li ausculta, li rivolta come un calzino e prescrive loro – nonostante la legge glielo vieti – il mitico Plaquenil, il «farmaco per l’artrite reumatodide che blocca la cascata infiammatoria dei polmoni e, almeno per un po’, evita le ospedalizzazioni».

A TESTA BASSA. Il dottor Galli non è Massimo Galli, il noto infettivologo che va alla tv. No. E’ l’ “altro” Galli. E’ il meno conosciuto dottor Guido Galli, milanese, indomito medico di famiglia specialista in cardiologia ed endocrinologia con svariate esperienze all’estero, tre matrimoni alle spalle e 1.600 pazienti a carico. Pazienti che s’è messo in testa di sottrarre al ricovero e -quando può – alla tenaglia del virus. Il dottor Galli è una sorta di simbolo sussurrato: combatte a testa bassa contro i cretini della partita doppia sanitaria, i politici inadeguati infilati tra le corsie e la burocrazia lombarda che tende a ospedalizzare qualsiasi cosa in movimento dimenticandosi del grande filtro dei medici generali.

«La gestione dell’epidemia sanitaria è come lo spegnimento di un incendio: il nucleo principale è sempre l’oggetto dell’attenzione dei primi pompieri accorsi, i focolai periferici sono considerati secondari dai soccorritori, ma potenzialmente sono più pericolosi e difficili da gestire – racconta il medico – in Lombardia il fuoco principale è l’ospedale; giusto pensare prima all’inevitabile affollamento delle terapie intensive, ma incomprensibile essersi dimenticati del territorio». Al dottor Galli le regole stanno strette quanto i protocolli. Ha un approccio sportivo all’esistenza; d’altronde viaggia tra i 50 e i 60 ma tra arrampicate, triathlon e partite da arbitro di calcio, mostra vent’anni in meno; e se la quarantena non gli avesse chiuso i Navigli sarebbe ancora lì a spararsi la mezza maratona tre volte la settimana. Ma tant’è.

ACQUISTI DI “CONTRABBANDO”. Al dottor Galli preme molto la verità oltre le quotidiane conferenze stampa: «I focolai secondari dell’infezione non sono ancora stati bonificati, lo dimostrano i numeri, molti di noi medici generali, figli di un Dio minore, hanno provveduto in proprio alla personale sicurezza con l’acquisto quasi di “contrabbando” di mezzi di guanti e mascherine per cercare di essere il più possibile disponibili all’assistenza dei pazienti con febbre e affanno respiratorio». Il dottor Galli ce l’ha con tutti, anche con i colleghi seduti sulla massa dei propri assistiti: «Personalmente non capisco come un laureato in medicina possa negare la visita a un ammalato, avrei precettato molto dei miei colleghi, che hanno preferito imboscarsi nel momento in cui i sindacati, in assenza di Dpi, si sono lamentati. Inforcata mascherina e mezzi protettivi, quando si arriva a diagnosi di Covid manca ogni risorsa sia diagnostica che terapeutica applicabile al domicilio del paziente; al momento non sono disponibili protocolli di intesa scientifici tra specialisti ospedalieri e medici del territorio; perciò con l’aiuto di un amico “contrabbandiere” a cui peraltro devo la vita, sono riuscito ad avere una linea guida della Società Italiana di Medicina Generale che propone un trattamento domiciliare relativamente sicuro nelle fasi iniziali a base di clorochina come approvato recentemente da Aifa».

«RICERCA ASSURDA IN TV». Il dottor Galli ha pure cercato anche di rispondere alla “chiamata d’arruolamento” per i medici lombardi, «ma mi sono reso conto che era completamente assurdo ricercare professionalità non formate all’emergenza/urgenza attraverso canali televisivi». Al dottor Galli – come a tutti i lombardi autentici – l’ostentazione fa venire l’orticaria: «Cosa voglio? Cosa vuole che voglia? Farmaci, linee guida precise. Noi medici di base chiediamo la possibilità di fornire farmaci e supporto con ossigeno liquido al domicilio dei pazienti, se non si spegneranno i focolai residui prepariamoci ad una estate a bordo di un Corona materassino nelle acque dell’Idroscalo». Azzardò, l’anno scorso, il leghista Giorgetti al meeting di Cl: «Nei prossimi cinque anni mancheranno 45mila medici di base. È vero; ma chi va più dal medico di base?». Non so se l’onorevole conoscesse il dottor Galli…

Alessandro Mondo per “la Stampa” l'8 aprile 2020. «Troppi deficit nella gestione dell' emergenza. E dubbi sui dati diffusi». Il dottor Roberto Venesia, presidente regionale Federazione medici di famiglia piemontesi (Fimmg), va diritto al punto.

Quali dubbi?

«Quelli che emergono dalla ricerca condotta dal Gruppo ricerca e innovazione della Fimmg dal 26 marzo al primo aprile: 63 medici hanno registrato i dati di 77.216 pazienti, un campione corrispondente al 2,16 per cento della popolazione piemontese».

Risultato?

«Abbiamo avuto 422 segnalazioni di sospetti positivi. Interessante rapportare i nostri dati con quelli ufficiali. In quei sette giorni i casi accertati sono stati 3.183 su 3 milioni e mezzo di abitanti, cioè i piemontesi maggiorenni: ovvero un' incidenza nei sette giorni dello 0,55 per cento contro lo 0,09, una differenza di sei volte. Significa che se i nostri dati fossero validati, i nuovi casi nella popolazione in quei giorni monitorati corrisponderebbero a ben 19.495».

Conclusione?

«In Piemonte il dato dei casi totali, almeno fino al 19 marzo, sembra corrispondere al numero totale dei ricoverati ma sembra sottostimato, visto che non possiamo sottoporre i pazienti sospetti ad alcun test».

Più in generale?

«Finora in Piemonte l' emergenza è stata gestita con un approccio centrato sugli ospedali, senza considerare che la battaglia contro l' epidemia si vince sul territorio».

Come?

«Mettendo i medici in condizione di lavorare con adeguati livelli di sicurezza per prendersi cura dei malati. Inutile girarci intorno: la tecnologia aiuta, ma ad un certo punto i tuoi pazienti devi visitarli, e trattarli. Ora sto andando a ritirare una grossa partita di dispositivi di protezione: ce li siamo comprati da soli».

Anche le Rsa fanno parte del territorio.

«Le Rsa sono state colpevolmente abbandonate da almeno dieci anni: da allora vado ripetendo che l' assistenza in queste strutture non garantisce la stessa tutela di chi è trattato a casa».

Perché?

«Manca un' assistenza medica strutturata e adeguata».

E i tamponi? Troppo pochi?

«A mio avviso vanno riservati al personale sanitario. Noi possiamo e dobbiamo curare i malati a domicilio, impedendo l' evolvere della malattia con farmaci dai risultati promettenti, oltretutto noti da anni. Ma se non si predispongono i protocolli terapeutici non si combina nulla».

Coronavirus, ecco la città "bomba": "Solo qui 100mila contagiati". Bergamo e provincia sono falcidiate dalla pandemia di coronavirus. Un medico: "Numeri ufficiali non credibili. È una strage di Stato". Alberto Giorgi, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. "I numeri ufficiali non sono credibili. Si fanno tamponi solo ai ricoverati, ma qui stimiamo 100mila positivi non censiti su un milione di abitanti". Il qui sarebbe Bergamo e provincia e lo sfogo è di Mirko Tassinari, segretario dei medici di famiglia della città lombarda. Medico di base di professione, Tassinari è stato intervistato da La Stampa, per toccare con mano quella che è forse la situazione più drammatica in Italia, causa pandemia di coronavirus. Bèrghem e dintorni sono infatti falcidiati dal Covid-19 e nelle ultime ore, dopo quella straziante e indimenticabile carovana di camion militari che portavano fuori dalla città le salme dei morti per cremarle, ci sono ancora 170 bare di persone che il comandante provinciale dei carabinieri locali ha dovuto indirizzare nei forni crematori fuori dalla regione. Le parole di Tassinari dal "fronte" non possono certo passare inosservate, specialmente quando il medico di fatto smentisce i numeri – in calo – di ricoveri nelle strutture ospedaliere: "Il calo dei ricoveri non è un buon segnale. Calano perché non c'è più posto in ospedale. Talvolta non si ricovera più nemmeno con 85 di saturazione. Gestiamo a domicilio situazioni che due mesi fa avremmo ricoverato alla velocità della luce. Altrimenti non avremmo 1.200 pazienti in ossigenoterapia domiciliare…". E racconta di avere personalmente un centinaio di pazienti malati su un totale di 1.500, di cui una decina con polmonite "monitorati per telefono". E proprio su questo aspetto, il professionista dice che sostanzialmente non c'è più la Sanità Pubblica: "Non è più un sistema sanitario universalistico e uguale per tutti". Tassinari lo sostiene perché porta l'esempio, appunto, dell'assistenza domiciliare: dopo 12/24 ore una bomba di ossigeno è da cambiare, ma a farlo non ci pensa l'Asl, bensì il paziente stesso: "È una caccia al tesoro. Chi ha parenti, li manda in giro nelle farmacie. Dieci, venti tentativi. Poi magari una la trovi". Stesso discorso, dice sempre il medico, vale per il saturimetro, che misura appunto il livello di ossigeno presente nel sangue: "C'è chi l’ha comprato sul web, chi in farmacia, chi se lo fa prestare dal vicino di casa. Ci si arrangia. Ecco perché non è più un sistema sanitario universalistico e uguale per tutti". Anche Tassinari si è ammalato ed è stato uno dei primi medici della città a essere positivo al coronavirus. Dopo la tosse e la febbre, il tampone, l'esito e quindi la guarigione: "Ora lavoro da casa, dodici ore al giorno sabato e domenica compresi". E i medici di base che sono stati contagiati dal Covid-19 a Bergamo sono tanti-troppi: "Su 600 medici di famiglia ce ne sono 145 ammalati, di cui 5 morti. L'ultimo, Michele, due giorni fa. Non avrei mai pensato di dover aggiornare una lista di colleghi morti. Mandati a morire sul lavoro. È una strage di Stato".

Sara Bettoni e Gianni Santucci per corriere.it il 30 marzo 2020. Quando s’erano chiusi in casa, il 12 marzo, stavano tutti bene, all’apparenza». Venerdì pomeriggio però, da quell’appartamento, a Melzo, una donna chiama il 118: «Non respiro, ho la febbre». Il marito è in rianimazione. La donna dev’essere ricoverata. In casa ci sono i due figli piccoli. Comune e prefettura trovano una sistemazione. La storia ha un aspetto emblematico. Che permette di rispondere, almeno in parte, all’interrogativo che ci si pone ogni pomeriggio quando i dati certificano il continuo aumento di contagi: perché, con la popolazione blindata in casa, le persone continuano ad ammalarsi? Perché il contagio avanza proprio all’interno delle case. Un familiare asintomatico, uno che ha contratto il virus prima del lockdown e ha sviluppato i sintomi dopo il divieto: così si sono creati i focolai domestici. È l’emergenza del momento. Per contenere il contagio, le famiglie sono state confinate in microcosmi chiusi. Ma se il coronavirus è entrato (o entra) nel «recinto» casalingo, intere famiglie si ammalano. E infatti, il contagio casalingo sta aumentando. Sono decine le conferme tra medici di base e di ospedale raccolte dal Corriere negli ultimi giorni. Dal pronto soccorso dell’ospedale «Sacco»: «Sempre più spesso arrivano intere famiglie, magari con padre che ha bisogno dell’ossigeno, madre che ha solo febbre e figli con sintomi lievissimi». A volte, non tutti insieme: «Avevamo qui un signore dal mattino in attesa del tampone. Un’ambulanza, 6/7 ore dopo, ha portato una donna in codice rosso, molto grave. Era la moglie. Almeno siamo riusciti a farli salutare prima di ricoverarli». Conferma Irven Mussi, medico di base con studio in via Palmanova: «Ora la trasmissione del virus è principalmente domestica, è uno dei drammi più diffusi». Aggiunge Paola Pedrini, segretario lombardo della Federazione dei medici di medicina generale: «Quando un paziente inizia ad avere sintomi, pochi giorni dopo anche gli altri membri della famiglia si ammalano. Succede praticamente nella totalità di coppie anziane. Non c’è isolamento adeguato». Storie che si ripetono, e che dopo il «coprifuoco» sono diventate la norma: «Ho iniziato ad avere i primi sintomi — racconta un professionista che vive in zona “Romana” — poi si è ammalata mia moglie e uno dei miei due figli, per fortuna nessuno ha avuto bisogno dell’ospedale. Ora anche la colf, alla quale avevamo proposto di trasferirsi da noi per isolarsi e non dover usare i mezzi pubblici, inizia ad avere la febbre». Riflette Roberto Scarano, altro medico di base: «Abbiamo decine di pazienti a casa con febbre alta che non scende da una settimana o dieci giorni. Senza protezioni come si fa ad andarli a visitare? A nessuno viene fatto il tampone, e per arrivare a un ricovero le condizioni devono diventare davvero gravissime». In queste situazioni, la probabilità che si infettino madri, padri e figli è altissima. Anzi, diventa quasi una certezza: è la fase della «pandemia familiare», migliaia e migliaia di contagiati inconsapevoli che hanno portato il Covid-19 in casa prima della «blindatura» (con le unità domiciliari — Usca — messe in campo dalla Regione la settimana scorsa, che sono ancora «un’entità astratta», ripetono molti medici sul territorio). Paola Pedrini offre qualche indicazione: «Il primo che accusa sintomi deve chiudersi in una stanza; se può, usare un bagno separato, o igienizzare quello di uso comune, indossare guanti e mascherina al di fuori della sua stanza di isolamento». C’è però una riflessione più generale: «È difficile riuscire a isolare i sintomatici, non si sta applicando una strategia sul territorio, le strutture messe a disposizione al momento sono soprattutto per chi esce dall’ospedale e deve rimanere in quarantena, mentre l’isolamento e il trattamento precoce sono fondamentali per frenare i contagi». Da coronavirus sociale, a coronavirus casalingo. Un’evoluzione per la quale gli ospedali più avanzati si sono già attrezzati. «Spesso si ammala tutta la famiglia, compresi i nonni — spiega Vania Giacomet, responsabile di infettivologia pediatrica al “Fatebenefratelli-Sacco” — È difficile per le mamme rimanere in quarantena a casa e badare ai figli. Per questo abbiamo riaperto al “Sacco” un reparto per accogliere, nella stessa stanza, mamme con i bambini che hanno bisogno di cure. Abbiamo risposto a una lacuna che c’era nell’assistenza. Li seguiamo fino alla negativizzazione o alla fine dei sintomi».

Coronavirus, medici di famiglia senza linee guida. E ognuno cura a modo suo. Non esiste alcun protocollo. E i dottori di base sono alle prese con migliaia di pazienti coi sintomi del virus. C'è chi prescrive solo Tachiprina, chi aggiunge clorochina, chi manda bombole dell'ossigeno, chi fa ecografie al torace, chi visita in video, chi usa maschere anti Sars di 18 anni fa. Alessandro Gilioli il 30 marzo 2020 su L'Espresso. I pazienti chiamano da casa, tutti più o meno con gli stessi sintomi: febbre, tosse, difficoltà respiratoria, spossatezza, a volte congiuntivite, mancanza di gusto e di olfatto, diarrea. A questo punto il medico di famiglia capisce già con che cosa ha a che fare. E qui comincia il problema. Inutile pensare di fare il tampone: non lo si ottiene. Inutile anche basarsi su un protocollo: non esiste nulla di ufficiale, per i cosiddetti "sospetti Covid". Sicché ogni dottore di famiglia fa da sé. Con una propria terapia empirica, basata su intuito, esperienza, convincimenti. Il che porta spesso a trattamenti diversi tra pazienti che presentano tutti gli stessi sintomi e, al 99 per cento delle probabilità, hanno lo stesso virus. Si chiama, in gergo medico, "scienza e coscienza". È questa la situazione che si vive ogni giorno in Lombardia, oltre un mese dopo i primi casi a Codogno e con i numeri del contagio ancora in salita - numeri ufficiali che peraltro escludono, appunto, questa massa enorme di "Covid sospetti" che restano a casa loro, senza essere tamponati, curati dai medici di famiglia finché la situazione non diventa così grave da imporre il ricovero, quando si riesce a ottenerlo. Come si diceva, ciascun dottore fa da sé. Fin dal momento in cui arriva la telefonata: c'è chi va di persona dal malato (bardato come un palombaro) e chi ci parla solo al telefono, chi tenta una via di mezzo come la visita attraverso videochiamata WhatsApp, chi decide di volta in volta, a seconda della gravità della situazione per come l'ha capita al telefono. Anche i farmaci prescritti cambiano, con un solo elemento in comune, la Tachipirina (paracetamolo). A cui ogni dottore poi aggiunge altro - o non aggiunge nulla - a seconda della sua visione delle cose. Ad esempio Fiorentino Cuppone Curto, 58 anni, è medico di famiglia a Borgo San Giovanni, provincia di Lodi, una delle aree più calde della pandemia, e ha tra i suoi pazienti una ventina di  "Covid sospetti" a casa loro. Quando riceve una di quelle telefonate, si veste come un palombaro e va a visitarli a casa: «Ho un casco e una tuta che la nostra Asl ci fornì 18 anni fa, in previsione della prima Sars che poi in Italia non arrivò. Mai usati, allora. Per fortuna li ho tenuti e li uso adesso per le visite domiciliari, perché questa volta non ci hanno dato niente». La cosa più importante nella visita, dice Cuppone Curto, è la misurazione dell'ossigeno nel sangue, la saturimetria, «che è una spia importante, più ancora della temperatura corporea». Una volta capito come stanno le cose, il dottor Cuppone Curto prescrive ai suoi "Covid sospetti" il paracetamolo e basta: «Al massimo posso aggiungere Azitromicina, nome commerciale Zitromax, un antibiotico che ha anche funzioni antiinfiammatorie. Ma medicine off-label no, non mi sento di darle (si chiamano off-label i farmaci impiegati per usi diversi da quelli indicati dalle Agenzie del Farmaco, ndr). Non prescrivo neppure la famosa idroclorochina, "l'antimalarico" di cui tanto si parla. Ufficialmente per noi medici di famiglia è ancora off-label, appunto. È stata autorizzata solo per uso ospedaliero: potrei averne anche conseguenze legali se le cose al paziente non andassero bene». Diverso l'approccio diagnostico e terapeutico di un altro medico di famiglia lombardo, Franco Riili, 42 anni, studio in zona Loreto a Milano, che di "Covid-sospetti" ne ha quasi quaranta. Per prima cosa Riili suggerisce ai pazienti che lo chiamano di passare alla modalità video su WhatsApp, per una prima televisita e perché «così capisco meglio». Poi le cose cambiano a seconda se è un malato "fragile" (anziano, obeso o con altre patologie) oppure se è giovane e sano. Nel primo caso scatta la visita domiciliare, con relativa bardatura: «Tute usa e getta, visiere odontoiatriche, mascherine Fp3, guanti idonei. Ho acquistato tutto io su eBay e Amazon, l'Ats mi aveva passato solo mascherine chirurgiche e un gel per le mani, sarebbe stata una dotazione suicida per andare a casa dei pazienti Covid. Indosso tutto nel pianerottoli, suono il campanello, entro, passo al malato una mascherina chirurgica se già non ce l'ha, apro bene le finestre. Misuro la  febbre e la saturazione, ma soprattutto faccio un'ecografia del torace, con un macchinario portatile hi-tech che ho comprato sempre io e tengo nello zaino, ha una sonda che si attacca direttamente al mio cellulare. Così posso vedere se sono in corso polmoniti o se la pleura è infiammata con liquido a livello degli alveoli. Questo esame, associato ai sintomi, per me vale un tampone, se non di più, essendo l'esito del tampone sicuro solo al 75 per cento». A questo punto, una volta compreso che è in corso un attacco virale, Riili imposta  la terapia: «Certo, la base è la tachipirina, magari associata con un antibiotico per prevenire sovrainfezioni batteriche. Ma io aggiungo il Plaquenil, farmaco antiinfiammatorio di solito usato per artrite reumatoide (cioè l'idrossiclorochina, quella che viene chiamato sulla stampa "l'antimalarico", ndr). Se il malato è anziano, allettato, obeso o ha altre patologie, aggiungo anche anche un anticoagulante, il Clexane (nome commerciale dell'enoxaparina sodica). Sono iniezioni che si fanno sulla pancia e aiutano a evitare la Dic (coagulazione vasale disseminata) che spesso è la causa ultima dei decessi». Il dottor Riili poi mantiene quotidianamente i contatti con questi malati, preferibilmente in video, e di solito torna a fare un'altra visita di persona due o tre giorni dopo, per eseguire un'altra ecografia toracica e quindi verificare miglioramenti o peggioramenti. Anche Fabrizio Marrali, 58 anni, il medico di Rogoredo che ha già raccontato all'Espresso come da settimane visita i pazienti "normali" sul marciapiedi separato da un vetro e fa tutto al telefono, il protocollo se l'è fatto da solo, «confrontandomi con i colleghi soprattutto del lodigiano e del gruppo Facebook dei medici di famiglia, oltre che, naturalmente, considerando la letteratura scientifica». Spiega Marrali: «Non è facile fare un protocollo di cure domiciliari con una malattia sconosciuta e presente solo da un mese, allora si sperimenta in maniera empirica», con "scienza e coscienza" appunto. Attualmente Marrali ha dieci pazienti «altamente sospetti di Covid» che stanno a casa loro, «l'età varia dai 30 ai 91, i sintomi cambiano un po' a seconda dei giorno di malattia e del tipo di paziente». Durante un'epidemia, dice Marrali, «bisogna drizzare le antenne e fare ragionamenti clinici. Il paziente mi riferisce i sintomi, io chiedo con chi ha avuto contatti nei 7-10 giorni precedenti (i cosiddetti criteri anamnestici). Capisco che è "sospetto Covid" se la febbre dura giorni e la tosse secca non passa. È importante conoscere l’andamento nel tempo della febbre, più che la sua intensità». Marrali rifornisce i pazienti di saturimetro e li segue sette giorni su sette, monitorando temperatura e saturimetria. Quanto alla terapia, dice il dottore, «intanto va premesso che il medico, come il sarto, deve fare un vestito su misura, deve adattarsi al tipo di paziente, ognuno dei quali è unico come è unico il loro rapporto». Detto questo, oltre ai classici antipiretici e sintomatici, Marrali spiega di aver provato gradualmente «antibiotici, antimalarici ed enoxieparina (azitromicina, Plaquenil, Clexane). Il tutto, «con discreti benefici: diversi pazienti stanno meglio, tre sono quasi guariti». Il Plaquenil, cioè la idrossiclorochina, «non è sicuramente la cura risolutiva per tutti, ma era l’unico farmaco sul territorio. È difficile trovarla, non va presa in prevenzione, un recente decreto permette di prescriverla, poi il farmacista lo ordina e arriva. Io comunque da un mese fa avevo fatto scorta per i miei pazienti: con questo virus bisogna giocare d'anticipo, bisogna essere più rapidi di lui, questa è anche una guerra di velocità». In più, in alcuni casi questo medico di famiglia milanese ha trovato un infermiere coraggioso che, opportunamente protetto, va a domicilio a fare prelievi del sangue per valutare la situazione ematica durante la malattia. Emanuele Berbenni, 58 anni, è medico di famiglia a Montello, nella bergamasca, altra area caldissima del virus. Lui ha addirittura 200 pazienti "Covid sospetti" su 1.550 assistiti, dai diciottenni agli ottuagenari. Alcuni sono già guariti, altri stanno guarendo, 12 sono morti. Per lui, quando i pazienti sono a casa e hanno sintomi significativi, «è fondamentale l'ossigenoterapia a domicilio, più il paracetamolo in caso di febbre, la Cefixima  per scongiurare una sovrainfezione batterica e anche l'idrossiclorochina, oltre all'enoxaparina (o Clexane, di cui si è già accennato, ndr) per le continue segnalazioni di complicanze trombotiche. In più prescrivo il lansoprazolo in caso di emorragie digestive e il Racecadotril in caso ci sia anche diarrea». Per i pazienti con pochi sintomi «se la saturazione dell'ossigeno è buona non faccio fare altre indagini, per evitare spostamenti o contatti dell'ammalato con altre persone». Quelli con sintomi più gravi, con saturazione dell'ossigeno troppo bassa o che non rispondono alle terapie, «li mando al pronto soccorso per accertamenti strumentali: radiografia al torace o meglio - nel sospetto di polmonite interstiziale da Covid - una Tac al torace. Se gli esami strumentali confermano un quadro Covid e le condizioni cliniche sono preoccupanti, chiedo il ricovero». Con successo? «All'inizio dell'emergenza si sono avute difficoltà, ora, per fortuna, la situazione sembra in miglioramento», risponde Perbenni. Ma non sempre va così. Gli altri medici lombardi sentiti dall'Espresso dicono che le Ats, data la situazione di pressione, tendono spesso a rifiutare il ricovero o almeno a prendere tempo, a suggerire strade diverse come una chiamata alla Guardia Medica. Marrali dice di aver discusso più volte con i responsabili del 118, ma «alla fine, quando era indispensabile, il ricovero l'ho ottenuto sempre. I quattro "sospetti" che ho mandato in ospedale poi sono risultati tutti positivi al tampone». Altre volte invece gli esiti sono drammatici: «Io sono furibondo», dice Cuppone Curto parlando di un suo paziente di Pieve Fissiraga, vicino a Lodi: «Aveva 73 anni, era cardiopatico e diabetico. Non me l'hanno voluto ricoverare, non ce l'ho fatta in nessun modo perché dicevano che non aveva la saturimetria abbastanza bassa. Ma io lo vedevo che stava malissimo. È morto di Covid, è ovvio, prima dell'influenza faceva una vita normale. Non gli hanno fatto mai il tampone, non apparirà mai in nessuna statistica».

Coronavirus, medici di base senza protezioni: «Se ci ammaliamo contagiamo i pazienti». I sistemi sanitari regionali stanno distribuendo quasi solo mascherine chirurgiche, che evitano di infettare ma non di essere infettati. E si contano i primi morti. «E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori. Ma tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie A e di serie B». Federico Marconi il 26 marzo 2020 su L'Espresso. Una mascherina con dentro un assorbente. Una precauzione senza logica, e sicuramente inefficace a prevenire il contagio. Un gesto irrazionale, come quasi tutti quelli dettati dalla paura, in questo caso di ammalarsi. “So bene che non serve a molto, ma mi fa sentire più al sicuro”, spiega P., medico di famiglia. Vive e lavora nelle Marche, una delle regioni più colpite dal contagio. Ha una lunghissima carriera alle spalle – «Quasi una vita, 40 anni» – e ora, come tutti i suoi colleghi alle prese con l’epidemia di coronavirus: «Noi cerchiamo di continuare ad aiutare il più possibile i nostri pazienti, utilizzando la telemedicina. Ma ci sono casi che necessitano una visita in studio o a casa: e in quei casi i dispositivi di protezione non sono all’altezza». P. ha ricevuto infatti solo mascherine chirurgiche. «Sappiamo tutti ormai che sono utili solo a non trasmettere il virus se si è infetti, non a proteggersi dal contagio come le FFP2 o le FFP3», dice preoccupata. «Se noi ci ammaliamo, non mettiamo solo a rischio la nostra salute, ma anche quella di quei pazienti che ancora visitiamo». «È stata una situazione forse sottovalutata all’inizio», racconta F., medico che lavora a Roma. «Quando ancora non era stato imposto il distanziamento sociale, gli studi erano pieni come sempre. Un rischio molto alto: non solo per noi, ma anche per i nostri pazienti. Allora, forse più di adesso, è stato un periodo psicologicamente provante». Nella guerra contro il coronavirus, se gli ospedali sono la prima fila di trincea, i medici di famiglia sono la seconda. Anche tra di loro si contano vittime – ad oggi la metà dei 31 medici morti è un medico di base – e contagiati, e la preoccupazione cresce con il passare dei giorni. Ogni sistema sanitario regionale e ogni Asl (quasi 300 in tutta Italia), cerca di sostenerli come può. Ma non sempre i dispositivi di protezioni forniti sono sufficienti a tenerli al sicuro. «Adesso sembra che viviamo in un mondo mascherina: ne chiediamo agli altri paesi, facciamo riconvertire le fabbriche per farne produrre di più. Ma non bastano solo queste, né tutte sono adeguate a proteggere», afferma Claudio Cricelli, presidente della SIMG, la Società italiana di medicina generale. «Abbiamo bisogno di protezioni che non sono state neanche predisposte, come quelle totali. E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori, i disinfettanti per sanificare gli ambulatori», continua. Il problema principale: in Italia il numero di contagiati è almeno dieci volte superiore a quello comunicato dal bollettino quotidiano, e i medici di famiglia non sempre possono evitare le visite. «Anche se lo facciamo il più possibile: ormai i consulti sono fatti con il cellulare, stiamo cercando di realizzare il più possibile dei monitoraggi telematici, mandiamo le ricette per sms. E questo forse è un lato positivo di questa situazione: anche dopo questa crisi continueremo a risparmiare carta e a evitare le file ai nostri pazienti», racconta Cricelli. Le protezioni, però, servono: «Non ne abbiamo a sufficienza. Quello che sembra passato in secondo piano è che in Italia ci sono milioni di persone malate di cuore, di diabete, di cancro. Loro hanno bisogno delle nostre cure. Prima del Covid-19 in Italia morivano circa 200 persone al giorno, e sono tante le persone ammalate che si spengono in questi giorni: tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie a e di serie B».

·        Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

"Soffoco, aiutatemi": in Lombardia 60 mila interventi delle ambulanze del 118 nei tre mesi caldi del coronavirus. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da Ilaria Carra su La Repubblica.it Il bilancio degli operatori delle Areu regionali: a marzo 1.500 persone soccorse ogni giorno, epicentro nella Bergamasca e nel Bresciano. Poi le sirene, con il virus, si sono spostate verso Milano: "Anche per un incidente stradale usciamo con le protezioni, non sappiamo mai se chi soccorriamo è contagiato". Il giorno più drammatico di tutta l'emergenza sanitaria l'hanno vissuto tra Bergamo e Brescia. È in queste zone che il coronavirus ha corso più veloce quando in una sola giornata, il 13 marzo, le ambulanze sono uscite 694 volte solo per casi sospetti di Covid-19, quasi la metà, cioè, di tutti gli interventi nello stesso giorno in Lombardia. E poi 650 il giorno dopo, 555 il 22 marzo, 558 il 23. "Soffoco, aiutatemi" è la richiesta disperata che si sono sentiti ripetere gli operatori del 118. Persone che non respiravano più e che chiamavano urgentemente per essere soccorse a casa. E non era finita, perché oltre a questi casi c'erano poi da aiutare anche tutti gli altri malati della zona: infarti, ictus, incidenti. Bergamo e Brescia e Codogno le zone più colpite, e poi Milano. "Ricordo tra il 23 e il 24 febbraio il momento più buio, quando ho guardato il contatore delle telefonate a fine giornata ed era arrivato a 2.500 contro le 500 massimo di media - ricorda Fabrizio Canevari, responsabile della sala operativa del 118 di Pavia che copre anche Lodi e Cremona, quindi Codogno e la prima zona rossa - a quel punto ho pensato che il sistema non avrebbe retto se fossimo andati avanti così, c'era grande sconforto. Ma dovevamo reagire e l'abbiamo fatto, ci siamo riorganizzati ora per ora, abbiamo risolto problemi di minuto in minuto". Coronavirus, il lavoro quotidiano dei volontari della Croce Rossa: "Consoliamo i malati solo con lo sguardo" Il record di interventi fa emergere lo stress straordinario dei lettighieri e la sofferenza che ha attraversato, in momenti diversi, le varie province. E la doppia velocità di azione del virus negli ultimi tre mesi, feroce fino ai primi di aprile e da allora meno violento, ma che in 90 giorni ha richiesto il soccorso di circa 60 mila ambulanze. Le uscite "per motivi respiratori o infettivo" fotografano appunto l'evoluzione del Covid-19 e del suo impatto nelle vite di tutti. Dal 21 febbraio, quando scoppiò l'emergenza con il primo focolaio a Codogno, a oggi, i grafici sull'attività del 118 mostrano l'aggressività del coronavirus nelle varie zone. È da queste curve che si vede che agli inizi dell'epidemia e fino a fine febbraio, gli interventi delle ambulanze per problemi respiratori crescono un po' dovunque. In particolare a Milano e a Monza, a Bergamo e a Brescia e nel Pavese che è l'agenzia regionale di emergenza di riferimento per il Lodigiano, prima area rossa di tutta Italia. "Il primo mese è stato massacrante, i primi giorni eravamo tutti disorientati - aggiunge Canevari - la situazione superava le capacità di qualsiasi sistema. E poi riuscire a portare i pazienti in ospedale ma erano saturi, la coda delle ambulanze. Gli operatori erano molto provati. Anche ora quando usciamo per un incidente non abbiamo certezze su chi soccorriamo, se sia contagiato o meno. Quindi continuiamo a uscire bardati, la situazione continua a condizionarci molto". Cronaca Coronavirus, anticorpi in un milanese su venti già prima dell'epidemia Da fine febbraio si vede poi che c'è una curva nei grafici che stacca le altre. È quella della Bergamasca e del Bresciano, della Val Seriana e di Alzano Lombardo con le centinaia di contagiati nelle loro case. Per tutto il mese di marzo il dramma sanitario e umano si consuma principalmente qui. Poi il 30 marzo la sofferenza maggiore si sposta gradualmente altrove, a Milano e nella Brianza dove quel giorno le ambulanze sono intervenute 350 volte per sospetti contagiati contro i 342 di Bergamo. Il sorpasso avviene e si consolida nel tempo: da allora gli interventi del 118 nel Milanese sono sempre stati il numero più alto di tutta la Lombardia, fino a oggi. Numeri, va detto, lontani dalle oltre 1.500 ambulanze che uscivano in un giorno solo a marzo, se si considerano tutte e quattro le Areu della Regione. Ma comunque ancora significativi. Il 2 aprile 363 persone sono state soccorse dall'ambulanza nel Milanese, numeri che nel tempo sono scesi ma che solo a Milano rimangono tutt'oggi ancora a tripla cifra. Del resto le sirene in città si sentono ancora molto, troppo spesso. Lo scorso weekend, per dire, tra Milano e Monza in un giorno gli interventi di soccorso sono stati 135, contro i 55 della Bergamasca e i 54 del Lodigiano. Anche i flussi di accesso nei vari pronto soccorso sono cambiati. Un primo studio della Società scientifica dell'Emergenza sanitaria, la Siems, ha paragonato l'attività del 118 con le affluenze spontanee nei pronto soccorso durante la pandemia tra Milano, Genova e Roma. E osserva una più o meno brusca diminuzione del numero di accessi spontanei (dal 78 al 56 per cento del totale) a partire dal 21 febbraio, conseguenza anche degli appelli a non andare in ospedale per evitare rischi se non strettamente necessario. E un raddoppio, dal 22 al 44 per cento, della percentuale dei trasportati dal 118, segnale di un'attività capillare e fitta sul territorio delle ambulanze.

Il Coronavirus e il ruolo degli ospedali nel propagarsi dell'infezione: la partita tra Veneto e Lombardia. Massimiliano Boschi su altoadigeinnovazione.it il 21.03.2020. La puntata di due settimane fa era tutta concentrata sull’incertezza che circondava lo svilupparsi dell’epidemia e in particolare, si chiedeva se dovevamo attenderci un futuro lombardo (ai tempi 2259 positivi e 98 decessi) o veneto (407 positivi e 10 decessi) perché i numeri, e quindi le prospettive, sarebbero state completamente diverse. A quattordici giorni di distanza dall’articolo e a dieci dall’instaurazione della “zona rossa nazionale”, l’incertezza è la medesima e i dati provenienti dalla Lombardia e dal Veneto continuano a mostrare due “mondi” differenti. Era il 22 febbraio quando Conte firmava un decreto riguardante le aree dei due focolai del Lodigiano e di Vo’ Euganeo trasformandole in “zone rosse” da cui non si poteva uscire né entrare. Stesso trattamento, ma risultati opposti: a un mese dall’istituzione di queste due zone rosse la Lombardia ha fatto registrare 2549 decessi, il Veneto 131. Scendendo nei dettagli, nella sola giornata di ieri 20 marzo, la Lombardia ha fatto registrare 381 decessi quasi il triplo di quelli che in Veneto sono stati registrati complessivamente dall’inizio dell’epidemia, venti volte quelli registrati nella giornata di ieri (16). Riguardo al tasso di mortalità, in Lombardia è stato registrato un morto ogni 4000 (quattromila) abitanti, in Veneto ogni 38.000 (in Alto Adige, a oggi, uno ogni 25.000). Fortunatamente è il dato lombardo ad essere del tutto eccezionale, non solo a livello nazionale. Dei 4032 morti registrati in Italia, 2549 sono lombardi, quasi due terzi del totale. La seconda regione per decessi è l’Emilia Romagna con 640 morti, di cui circa 250 nella sola provincia di Piacenza, il cui capoluogo dista meno di 20 chilometri da Codogno. Dati alla mano risulta evidente che da Codogno e da Vo’ sembrano essersi diffusi virus completamente differenti. Perché? Ma, soprattutto, perché nessun altro luogo del mondo, sta registrando tassi di mortalità come quelli della Lombardia? (La sola Madrid sembra aver preso una direzione simile con molti giorni di ritardo. Al momento i morti registrati nella capitale spagnola sono 628 su 1094 totali della Spagna). Non sono domande retoriche, perché una risposta certa a queste domande avrebbe effetti e ripercussioni a livello mondiale. Perché, come noto, tutti stanno imitando il modello di chiusura all’italiana, ovvero un modello cinese partito in ritardo e meno rigoroso. Lo dimostrano le critiche di alcuni studiosi europei che hanno sottolineato, senza grande successo, come le misure italiane prese dal governo Conte per non intasare le terapie intensive non stiano funzionando. Critiche che hanno un fondamento consistente per quel che riguarda la Lombardia ma non riguardo al Veneto. Sono stati questi dati e queste domande a spingermi a due settimane di ricerca quasi ossessiva per comprendere quali fossero le differenze principali tra Vo’ e Codogno, quali fossero le variabili che potessero spiegare due sviluppi così diversi. La prima differenza è banale e riguarda la dimensione. Codogno è una città di 16.000 abitanti, Vo’ euganeo di 3.300. Non solo, la zona rossa istituita un mese fa riguardava anche città vicine a Codogno per un totale di circa 50.000 abitanti. Isolare un’area più piccola è ovviamente più semplice, ma l’altro dato che potrebbe risultare fondamentale lo si può trarre dalla pagina wikipedia di Codogno che sottolinea come la città sia frequentata “soprattutto per la presenza del presidio ospedaliero, delle industrie e delle scuole, che esercitano un forte richiamo sul circondario”. E’ proprio la presenza del “presidio ospedaliero di forte richiamo” a dare un primo contributo alla comprensione del quadro complessivo. Il secondo riguarda l’accusa di Conte rispetto ai protocolli che non sarebbero stati rispettati proprio in quell’ospedale. L’ospedale di Schiavonia nel padovano, dove sono stati ricoverati i primi malati di Coronavirus, è stato invece chiuso lo stesso 21 febbraio. Come ha titolato il Gazzettino lo scorso 27 febbraio: “Ospedale blindato a Schiavonia: medici e infermieri entrano ed escono ma fanno il tampone ogni volta”. A questo punto non è nemmeno così importante sapere se le parole di Conte fossero ingiuste (ma chi volesse approfondire può leggere questo resoconto dall’ospedale di Codogno), ma appare ormai chiaro a tutti che in Lombardia «si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio». (Massimo Galli, professore ordinario di “Malattie infettive” all’Università di Milano in un’intervista al Corriere della Sera). Chiarito questo primo aspetto, cosa ha spinto il virus a seguire, almeno per ora, i confini regionali lombardi arrivando a causare la morte di 695 persone nella sola provincia di Bergamo (oltre cinquanta in più dell’intera Emilia Romagna che segue la Lombardia per numero di decessi). Anche qui può essere utile seguire la strada degli ospedali. Alzano Lombardo è uno degli epicentri dell’epidemia, lì il 23 febbraio scorso, a seguito di due casi positivi, l’ospedale venne chiuso e poi riaperto poche ore dopo e proprio da quell’ospedale pare sia nato il focolaio di Bergamo. Ma per capire situazione, rabbia e frustrazione di chi ha frequentato quell’ospedale nel mese di febbraio è sufficiente un breve viaggio tra le testate locali bergamasche. Ma se queste notizie aiutano a spiegare i motivi della diffusione del virus, non aiutano a comprendere perché il tasso di mortalità sia così alto solo in Lombardia. A dare una risposta ci ha provato l’immunologo Sergio Romagnani, professore emerito dell’Università di Firenze che, dopo aver analizzato i dati dello studio epidemiologico effettuato dall’Università di Padova a Vo’ Euganeo, ha inviato una lettera alle autorità regionali toscane invitandole a seguire l’esempio di Vo’, e della Corea: “fate il tampone a tutti”. Una lettera, ormai notissima, che è stata ripresa e pubblicata da numerosi quotidiani italiani e stranieri tra cui il britannico “The Guardian”. Un documento in cui Romagnani prova anche a spiegare le differenze nel tasso di mortalità del virus: “Gli ospedali – spiega – rischiano di diventare zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun affetto è isolato. Il rischio di contagio per i pazienti e tra colleghi rischia di diventare altissimo ed esiste anche il rischio di creare delle comunità ad alta densità virale che sono quelle che, secondo lo studio di Vo’, favoriscono anche la gravità del decorso della malattia”. Romagnani indica quindi una correlazione tra la “densità virale” delle comunità e la gravità del decorso dalla malattia. Una teoria che sembra confermata dai dati ma che non si comprende su quali basi mediche si fondi. Non restava che contattarlo per chiedergli di spiegarci meglio il collegamento. Questa la risposta: “Non ci sono ancora prove, ma l’ipotesi è che il rimbalzo del virus più volte sullo stesso individuo (a cause delle sue piccole ma numerose mutazioni) provoca malattie più gravi. L’isolamento protegge non solo dal contagio, ma probabilmente rende meno grave l’evoluzione della malattia”. Dopo dieci giorni di “clausura”, sembra una buona notizia, la prima da tempo. Ma cosa pensa la comunità scientifica della tesi di Romagnani? Come si sta reagendo in Alto Adige rispetto alla sicurezza negli ospedali? Dobbiamo aspettarci dati lombardi o dati veneti? Almeno a quest’ultima domanda si può dare una prima risposta: al momento in Provincia di Bolzano non si registrano picchi paragonabili a quelli lombardi. Sui dettagli e sulle altre domande si tornerà nelle prossime puntate. 

Coronavirus, i medici del Nord alla rivista inglese: «In Italia infezione ovunque, si deve scegliere chi salvare». Il Messaggero Sabato 21 Marzo 2020. «L'infezione è ovunque in ospedale. Anche se indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi controllarla. Dobbiamo decidere chi può andare avanti». Lo racconta in maniera anonima uno dei tre medici di ospedali del Nord Italia, nella morsa dell'epidemia di nuovo coronavirus, intervistati dal New England Journal of Medicine, la più prestigiosa e antica rivista medica al mondo. «Sebbene la natura catastrofica dell'epidemia in Lombardia sia stata ampiamente pubblicizzata - si legge nell'articolo - quando abbiamo parlato con questi medici tutti e tre hanno richiesto l'anonimato, rispettando le indicazioni che gli sono state fornite. Il Dr. L., medico di un altro ospedale, ha ricevuto un promemoria ospedaliero che proibisce le interviste alla stampa per evitare di provocare ulteriore allarmismo pubblico. Tuttavia, come lui stesso ci ha detto, parlare al minimo della gravità della situazione sta avendo conseguenze letali. “I cittadini non accettano le restrizioni, ha detto, 'a meno che tu non dica loro la verità”». «Il sistema sanitario italiano - ricorda il Nejm - è molto apprezzato e ha 3,2 posti letto ospedalieri ogni 1.000 abitanti (rispetto ai 2,8 negli Stati Uniti), ma è stato impossibile soddisfare contemporaneamente le esigenze di così tanti pazienti in condizioni critiche. Gli interventi chirurgici elettivi sono stati annullati, le procedure semielettive posticipate e le sale operatorie sono state trasformate in terapie intensive di fortuna. Con tutti i letti occupati, anche i corridoi e le aree amministrative sono stati dedicati ai pazienti, alcuni dei quali ricevono una ventilazione non invasiva. Ma come trattare questi pazienti? Oltre al supporto ventilatorio per le polmoniti interstiziali gravi, la terapia è empirica, e si stanno provando i farmaci lopinavir-ritonavir, clorochina, o talvolta steroidi ad alte dosi». «E come prendersi cura dei pazienti che presentano malattie non correlate?», si chiede Nejm. «Sebbene gli ospedali stiano tentando di creare unità Covid-19, è difficile proteggere altri pazienti dall'esposizione. Il dottor D. ha detto, ad esempio, che almeno 5 pazienti che erano stati ricoverati nel suo ospedale per infarto miocardico si presume siano stati infettati da Covid-19 mentre erano ricoverati in ospedale. E se proteggere i pazienti è difficile, lo è anche proteggere gli operatori sanitari, inclusi infermieri, terapisti respiratori e coloro che hanno il compito di pulire le stanze. Quando ci abbiamo parlato, il Dr. D. era uno dei 6 medici della sua divisione che sospettavano l'infezione da Covid-19. Dati i ritardi nei test e la percentuale di persone infette che rimangono asintomatiche, è troppo presto per conoscere il tasso di infezione tra i caregiver. E sono proprio queste circostanze che rendono così difficile il controllo delle infezioni. «L'infezione è ovunque in ospedale», dice il dottor D. «Anche se indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi controllarla». «La sfida, ha detto il medico - prosegue Nejm - ha meno a che fare con la cura dei pazienti, nelle cui stanze i medici sono schermati con dispositivi di protezione, quanto con le molte altre attività quotidiane degli operatori sanitari: toccare i computer, salire sugli ascensori, vedere i pazienti ambulatoriali, pranzare. La quarantena obbligatoria dei lavoratori infetti, anche quelli con malattia lieve, è fondamentale per il controllo delle infezioni. Ma se non tutti sono ugualmente vulnerabili alle malattie gravi, c'è da pensare anche alla carenza di forza lavoro». «Un giovane medico, il dottor S., mi ha raccontato che nel suo ospedale ci sono giovani medici in prima linea, che fanno turni extra e lavorano anche al di fuori delle loro specialità. Hanno la paura negli occhi - dice - però vogliono aiutare».

Presidente medici Roma: “Un sistema fondato sugli ospedali: così in Lombardia il virus è esploso”. Marco Billeci su fanpage.it il 3 aprile 2020. “In altri territori ci sono specialisti ambulatori nelle Asl collegati anche ai medici di famiglia. In Lombardia tutto è concentrato negli ospedali. E così le strutture sono diventate focolai di contagio”. Il presidente dell’Ordine dei Medici di Roma Antonio Magi spiega così a Fanpage i numeri enormi di infetti e morti per Coronavirus in Lombardia. Magi poi lancia un allarme: “Per affrontare il virus, rischiamo di lasciare soli i pazienti cronici”. Antonio Magi – radiologo e presidente dell’Ordine dei Medici di Roma – già da settimane sostiene la necessità che anche chi non ha sintomi da Covid indossi la mascherina chirurgica per arginare il contagio. Una posizione che negli ultimi giorni ha guadagnato sempre più forza nel dibattito pubblico.

Perché secondo lei le mascherine sono utili per tutti?

«In ospedale le mascherine chirurgiche servono per evitare di contaminare il campo operatorio. Purtroppo non fermano la ricezione dei germi, ma bloccano l’uscita delle goccioline e l’aerosol. Per questo, se indossate, eviterebbero che chi ha il virus e non lo sa perché non ha sintomi particolari possa infettare gli altri. Per me il loro uso dovrebbe essere obbligatorio per chiunque esca di casa».

Il ministero della Salute e l’Istituto Superiore della Sanità però hanno detto fino a oggi che chi non ha sintomi respiratori non deve mettere la mascherina.

«Io rispetto l’Iss, ma questa posizione mi pare legata al fatto che c’è carenza di protezioni. Se di mascherine disponibili ce ne sono poche, è ovvio che vada privilegiato il loro utilizzo dove è più necessario, come negli ospedali. Ma da qui a dire che non si debbano indossare, il discorso è diverso. Il problema è che bisognava attrezzarsi prima, almeno da gennaio, quando ancora non c’era la corsa a cercare le mascherine in tutta Europa».

A Roma oggi ci sono mascherine per tutti?

«A Roma non ce ne sono ancora tante disponibili, alcune consegne previste devono ancora arrivare. L’obiettivo deve essere produrle nel minor tempo possibile, anche perché, quando la situazione si inizierà a sbloccare, saranno utili per evitare un’onda di ritorno».

Lei crede che aver fatto passare il messaggio che le mascherine per i sani non servivano abbia contribuito a diffondere il contagio?

«Non ho elementi per dire questo. Ci sono altri fattori. In Lombardia il focolaio si è amplificato perché in quella regione l’organizzazione della sanità è incentrata sugli ospedali. In altri territori ci sono più ambulatori e specialisti nelle Asl e a questo sistema sono collegati anche i medici di famiglia. In Lombardia l’attività specialistica per anni invece è stata svolta tutta all’interno degli ospedali. Per questo allo scoppio dell’epidemia, è successo che sia i pazienti con sintomatologia che quelli che dovevano fare visite di altra natura sono andati tutti nelle stesse strutture».

E cosa è successo?

«I pazienti non sono stati gestiti sul territorio ma sono andati tutti nei pronto soccorso e negli ospedali. Qua si sono trovati assieme pazienti sintomatici e asintomatici Covid e persone trattate per diverse patologie. Per questo motivo all’interno degli ospedali lombardi sono scoppiati i focolai e lì sono sorti i punti di massima diffusione del virus. Aggiungo che per giorni i medici sono rimasti privi di protezioni».

I DPI il personale sanitario sono arrivati in ritardo?

«Certo e i avere ventuno sistemi sanitari diversi non ha aiutato perché il federalismo ha comportato una mancanza di coordinamento. Ogni livello ha pensato che ad agire dovesse essere qualcun altro, c’è stato uno scaricabarile reciproco le cui conseguenze sono state pagate dai colleghi. Oggi tra i medici contiamo più di 70 morti, i sanitari positivi sono migliaia, solo tra quelli censiti. Molti altri sono “untori” senza saperlo perché i tamponi non vengono fatti a tutti. Secondo me hanno fallito un po’ tutti, regioni e governo».

Lei sarebbe favorevole a ridare tutte le competenze sulla sanità allo Stato?

«Io riporterei l’organizzazione generale del sistema al Servizio Sanitario Nazionale. Le Regioni devono avere un ruolo nell’identificare alcune peculiarità dei territori, in accordo con lo Stato centrale. È chiaro che nelle aree di montagna l’organizzazione deve essere differente da quelle di pianura o dalle isole, per esempio. Le Regioni devono poter dire la loro anche sulle specificità delle patologie legate ai diversi territori. Il pallino però va rimesso al centro, evitando nello stesso tempo di dare ancora la sanità in mano agli economisti e alla finanza. Oggi paghiamo anche quanto successo negli ultimi anni: il blocco del turnover, il taglio dei posti letto, il sottofinanziamento del sistema».

Cosa dobbiamo fare per prepararci alla fase del dopo emergenza?

«Io credo che comunque alla fine dell’anno i morti per Coronavirus saranno molti meno di quelli per patologie croniche come cardiopatie, diabete, tumori. Chi è affetto da queste malattie in questo momento sta soffrendo ulteriormente perché non riusciamo a seguirlo nel modo corretto. Queste persone oggi sono la parte debole del sistema e dobbiamo pensare anche a loro. Ricordiamoci peraltro che tra le persone con patologie pregresse il tasso di letalità del Coronavirus è molto più alto della media».

C’è il rischio che per provare ad arginare il Coronavirus si trascuri il resto?

«In queste settimane l’attività degli ambulatori è ridotta. Diciamo che su 20 appuntamenti nell’agenda di uno specialista in una giornata, quattro sono quelli che riguardano urgenze per cui le visite sono garantite. Gli altri sedici sono visite programmate o differibili, che oggi sono state bloccate. Io credo che allora gli specialisti dovrebbero poter contattare questi sedici pazienti in modalità smartworking o di telemedicina, per capire quale patologia hanno e perché avevano programmato una visita. Magari è gente che deve verificare l’andamento di una terapia oppure che ha finito un farmaco o ancora deve fare un ecografia periodica. Un triage telefonico può servire ai medici per capire chi tra questi ha bisogno di un intervento e nel caso chiamarlo in ambulatori. E anche in questo caso, indossare tutti le mascherine sarebbe di grande aiuto». Marco Billeci

Budrio, nuovo focolaio di Covid-19 all’ospedale. Verner Moreno su leggilanotizia.it l'8 Maggio 2020. Budrio (BO).  All’ospedale di Budrio nuovo focolaio di Covid-19. Sono quindici i pazienti risultati positivi. Oltre ai pazienti anche 4 infermieri risulterebbero positivi al tampone.  Presso il nosocomio in provincia di Bologna sono ricoverate 34 persone e prestano servizio 43 operatori.  Il via ai controlli in seguito alla positività riscontrata lo scorso 4 maggio in un paziente ricoverato per patologie non correlate al coronavirus. Paziente però risultato positivo dopo che nel corso della degenza ha sviluppato i sintomi della malattia. Quattro operatori sono stati sospesi dal servizio. I pazienti (14) sono stati trasferiti nei reparti Covid dell’Ospedale di Bentivoglio e Villa Erbosa. Si registra purtroppo già un decesso. Un paziente con un quadro clinico già compromesso.

Covid 19, contagiati 72 sanitari in ospedali pugliesi. Task force: «Rischio focolai». Nel documento si evidenzia il rischio che proprio negli ospedali, le strutture più a rischio, possano accendersi dei focolai, come già accaduto in Lombardia. Quotidiano di Puglia il 23 Marzo 2020. In Puglia 72 operatori sanitari ospedalieri sono stati contagiati dal coronavirus: il dato emerge da un documento trasmesso lo scorso 21 marzo dalla task force regionale alle Asl, ospedali, Irccs e laboratori di analisi. Nel documento si evidenzia il rischio che proprio negli ospedali, le strutture più a rischio, possano accendersi dei focolai, come già accaduto in Lombardia, in provincia di Bergamo e nel Lodigiano. «Al momento attuale - si legge nella circolare di sabato scorso - l’ambiente assistenziale in Puglia rappresenta una importante fonte di diffusione del virus Covid-19. Dei 241 di cui abbiamo informazione sulla professione, al momento 72 casi (29,8%) sono in operatori sanitari. Questi operatori hanno potuto contrarre l’infezione in comunità o durante l’attività lavorativa, ma il dato epidemiologico importante è rappresentato dal fatto che ben un terzo dei casi complessivi sono potenzialmente in condizione di accendere focolai ospedalieri, con potenzialità di diffusione comunitaria». 

Il coronavirus e il ruolo degli ospedali nel propagarsi deCovid-19, infetti record negli ospedali: la Regione ha tagliato sulla sicurezza. Da sardiniapost.it il 21 marzo 2020. Col passare delle ore, adesso che i contagi record negli ospedali sono ufficialmente il vero dramma dell’epidemia di coronavirus in Sardegna, spuntano errori e omissioni da parte della Regione. Una somma di manchevolezze che ha esposto medici, infermieri e operatori socio-sanitari alla malattia, con tutto ciò che ne consegue in termine di diffusione della malattia soprattutto tra le persone più vicine. Sardinia Post ha certificato ieri che i malati tra i dipendenti ospedalieri erano circa 50 per cento su 206, contro una media nazionale dell’8,3. Ora il nostro giornale è in attesa di sapere dall’Ufficio stampa della Regione come si è modificato il dato con gli 87 nuovi casi di coronavirus accertati nell’ultimo aggiornamento serale, sempre di ieri: un nuovo dato che ha portato a 293 il totale dei contagi e potrebbe aver aumentato ancora di più la percentuale di infetti tra il personale sanitario. Il primo documento che sorprende è l’allegato alla delibera 13/24, pubblicata sul sito della Regione alle 12 di ieri, 20 marzo, eppure approvata il 17. L’atto, che prova le contraddizioni dell’assessore Mario Nieddu, contiene tutte le norme che il personale sanitario ha l’obbligo di seguire nei diversi spazi degli ospedali e a seconda del paziente che si ha di fronte. Ovvero una persona con i sintomi del coronavirus o meno. Il testo risulta copiato dalle disposizioni dell’Istituto superiore della sanità (Iss), come è giusto che sia, visto che si tratta del massimo organo nazionale in materia di salute. Ma la Regione ha tolto dal proprio allegato le parti più restrittrive. Nel testo della Giunta di Christian Solinas non c’è l’obbligo della “vetrata interfono citofono” nella zona del triage, dove ai pazienti viene affidati un codice in base alla gravità. Per facilitare la comparazione, mettiamo a disposizione dei lettori entrambe le versioni: qui il testo dell’Istituto superiore di sanità; qui la delibera della Regione. Sempre per il triage, nel documento sardo, pagina 4/9, manca pure la misura alternativa alla vetrata, ovvero il “mantenere una distanza dal paziente di almeno un metro (dal paziente)” e “se possibile o indossare la mascherina chirurgica”, come scritto a pagina 7 nel file dell’Iss. Misure restrittive tolte anche per gli ambulatori: l’Iss ha previsto, a pagina 8, nel caso di esami a pazienti senza sintomi, “i dispositivi di protezione individuale per l’ordinario svolgimento della propria mansione con maggiore rischio”. Ma la Regione non ha inserito il “maggiore rischio” nella propria delibera (pagina 5/9). Dal testo sardo del 17 marzo sono stralciate del tutto le regole da seguire nelle aree amministrative. Anche sulle sale d’attesa le due versioni differiscono: l’Iss ha previsto la distanza di almeno un metro dai pazienti con sintomi respiratori (pagina 8); una disposizione, questa, che non figura nell’atto della Regione (pagina 6/9). Ma più di tutto l’elemento omesso è stata la mancata applicazione del principio precauzionale. Si tratta di un postulato chiave per la garanzia della sicurezza nei luoghi di lavoro, come richiamato in questi giorni dall’avvocato del foro di Cagliari, Giacomo Doglio, esperto diritto sanitario del lavoro e consulente di sindacati dei medici e del personale sanitario. “In materia di sicurezza – osserva – si applica il principio precauzionale, anche quando non si hanno certezze. La tutela dell’integrità fisica del lavoratore (articolo 32 della Costituzione e articolo 2087 del Codice civile) non tollera infatti alcun tipo di condizionamento, tantomeno di natura economica. Quindi di fronte all’evidenza che qualsiasi paziente che accede ad una struttura ospedaliera possa essere “sospetto” di affezione dal virus, tutto il personale deve disporre dei necessari presidi di sicurezza, che non esauriscono affatto le misure necessarie da adottare perché altrettanto importanti sono quelle di natura organizzativa. Alo stesso modo i tamponi devono essere estesi a tutti, operatori e pazienti”. In virtù del principio precauzionale, per ridurre al minimo il rischio dei contagi, le Assl della Sardegna avrebbero dovuto assicurare al personale ospedaliero i dispositivi di protezione individuale, a maggior ragione perché il coronavirus è una nuova malattia. E ugualmente la Regione avrebbe dovuto accertare, viste le funzioni di raccordo nell’emergenza, che tutto fosse in regola. Un punto, questo, su cui i sindacati dei medici hanno deciso di dare battaglia proprio in queste ore.

·        Eroi o Untori?

Lo sfogo di un’infermiera del reparto Covid: “Eravamo degli eroi…” Notizie.it il 14/12/2020. Il racconto di un'infermiera del reparto Covid dell'ospedale di Rovereto. Un’infermiera che lavora all’interno del reparto di rianimazione per degenti Covid all’ospedale di Rovereto ha deciso di sfogarsi, dopo aver lavorato a lungo in prima linea contro la pandemia. Le procedure sono complesse ed esigono grande impegno fisico e psicologico, con l’aggravante della delusione da parte delle persone. “A marzo eravamo eroi, ora capita perfino che ci accusino di portare in giro il virus. Ma andiamo avanti, cercando di fare del nostro meglio” ha dichiarato l’infermiera, intervistata dal quotidiano L’Adige. L’infermiera ha spiegato che in primavera erano stati presi alla sprovvista ma con la seconda ondata c’è stata un’organizzazione migliore negli ospedali. “Ora siamo più esasperati: siamo partiti con questi ritmi il 7 novembre, e la sensazione è che ne avremo per diversi mesi, il virus è ancora molto diffuso. I turni sono faticosi, vedo anestesisti che coprono anche diciotto ore di seguito, e tutti i 20 – 21 letti sono sempre pieni, di gente sempre più giovane. Nel corso della prima ondata c’erano molti grandi anziani, ma da un paio di settimane arriva gente sui settant’anni, e anche uno di 62” ha spiegato. La donna ha spiegato che si aspettavano la seconda ondata, ma lei è sempre stata ottimista e sperava che non ci fossero ulteriori emergenze. Durante le vacanze di Natale il rischio sarà ancora più alto e spesso si ha la percezione che si stia sottovalutando la cosa. L’organizzazione in ospedale ora è molto diversa. “Rianimazione è stata allargata per comprendere una parte del blocco della sala operatoria. L’assistenza è garantita con un infermiere ogni due pazienti e ogni oggetto è ripetutamente significato, c’è odore di cloro e antibatterico dappertutto .Lavoriamo in ambienti che originariamente non erano predisposti per le cure intensive, e così ci si deve inventare tutto, c’è sempre un ingegnarsi” ha spiegato l’infermiera, aggiungendo che dal punto di vista umano continuano a parlare con i pazienti, cercando di accompagnare i gesti con le parole. Esiste l’applicazione “vicino a te” che consente ai parenti di mandare messaggi ai pazienti, che loro stampano e attaccano vicino ai letti. Si tratta di un modo per migliorare lo stato d’animo delle persone, di consolarle e di star loro vicino. A volte usano anche la musica. “Il carico fisico adesso sta venendo fuori, e psicologicamente si fa sentire. Quando sto a casa un paio di giorni, al momento di salutare un paziente mi domando se lo ritroverò al mio rientro: è dura. Per fortuna c’è anche chi migliora e cambia reparto: salutano e ringraziano, e questo ci fa stare bene. Quello che invece ferisce è il fatto che, mentre prima eravamo addirittura eroi, ora è successo sia a me che ad altri colleghi, che ci dicessero che siamo pericolosi perché portiamo il virus fuori dall’ospedale. Ed è assurdo, perché le procedure sono dettagliate: a volte mi sento più sicura in reparto che non quando sono in giro” ha spiegato l’infermiera. La pronazione è un procedimento complesso, devono essere in cinque per poterlo fare ed ogni dettaglio è molto importante. “L’uso del casco provoca attacchi di panico, ma quando i malati respirano meglio, si tranquillizzano” ha aggiunto. “La cosa peggiore sono i negazionisti. Ho sentito delle porcate assurde ma cerco sempre di lasciare tutto nell’armadietto, sia quando vado a lavorare che quando poi torno a casa. Un giorno un collega ci ha guardato e ci ha detto: ‘Avete una faccia senza espressione’. Tra di noi ci sono persone che prendono psicofarmaci, c’è chi non riesce a dormire la notte, sta male. Io reagisco facendo passeggiate, e poi provo a non ascoltare le cavolate che vengono dette. Per alcuni è un complotto, dicono che tutti gli anni muore qualcuno e che questa è un’influenza come le altre, ma io non ho mai visto una distesa di persone intubate come questa. Faccio questo lavoro da oltre dieci anni, ma non mi sono mai trovata in una situazione del genere” ha spiegato l’infermiera di Rovereto. “La pandemia dovrebbe insegnarci una solidarietà più estesa” ha concluso.

 “Richiedi i danni se ti ammali in ospedale”, l’Ordine dei Medici contro il volantino che incita i pazienti a fare causa. Rossella Grasso su Il Riformista l' 11 Dicembre 2020. Circola in corsia e tra i pazienti il particolare volantino pubblicitario di uno studio legale che opera tra Napoli e Milano e che invita a fare causa ai medici. Si tratta di un colorato fumetto, ma quello che c’è scritto nei baloon è un vero e proprio invito a ricorrere alle vie legali che in tempi di pandemia risuona come l’ennesimo attacco ai medici. Il titolo del fumetto parla chiaro: “Diritto alla salute. Richiedi i danni, se ti ammali in ospedale”. Nella prima vignetta un paziente esce dall’ambulanza con il braccio rotto e trasportato in barella. Dice ai medici del 118: “L’asfalto era bagnato ed ho perso il controllo”. Dunque il paziente arriva in ospedale per un motivo diverso dal Coronavirus. Poi il paziente viene operato e pochi giorni dopo scopre di aver contratto il virus in ospedale. Il fumetto finisce con lo slogan pubblicitario vero e proprio dello studio legale: “Per fortuna posso individuare i responsabili del mio contagio…attraverso il supporto legale dello studio legale XXX”. E così lo studio cerca di reclutare nuovi clienti tra i pazienti. Una pubblicità che ha scatenato le ire di tutto il personale sanitario. “Vergognoso come, anche in piena emergenza covid, gli avvocati sciacalli stanno cercando di lucrare sulle disgrazie fomentando i pazienti a fare causa ai medici, l’ultima trovata sono delle vignette che circolano e spiegano come fare causa”, dicono i medici. Che si tratti di un messaggio fuori luogo ne è convinto Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli che ha invitato i colleghi dell’ordine degli avvocati a vigilare su iniziative di questo tipo: “I contenuti pubblicitari eccedono i limiti della deontologia e della correttezza – ha scritto in una nota – per cui, in tali termini, viene sottoposta alle valutazioni ed alle eventuali iniziative di codesta Federazione e/o degli Ordini territorialmente competenti”.

Estratto dell’articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Il Doc, quello vero, è in trincea contro il covid. Pierdante Piccioni, 61 anni, nato in provincia di Cremona e in servizio a Lodi, è il medico smemorato che ha ispirato la fiction Doc - nelle tue mani interpretata da Luca Argentero e trasmessa su Rai1 con ascolti record (già in cantiere, a furor di pubblico, la nuova stagione). Il 31 maggio 2013 Pierdante ebbe un incidente d' auto che lo mandò in coma. Sei ore dopo si risvegliò ma scoprì di aver perso completamente il ricordo degli ultimi 12 anni della sua vita. E, con l' aiuto sia delle terapie sia della famiglia, fu costretto a ricostruirsi da zero anche nella professione. Oggi il medico, che 7 anni fa era il primario del Pronto Soccorso nell' ospedale di Lodi, è tornato a lavorare nella stessa struttura: segue i malati di coronavirus e organizza il loro percorso di guarigione. In poche parole, gestisce il post-covid. […] «Essere stato un paziente ed essere oggi un disabile seguito dai neurologi mi ha insegnato l'empatia nei confronti dei malati, la necessità di andare emotivamente verso di loro. Prima ero il classico barone distante: chiamavo i pazienti con il numero del letto, tanto che mi avevano soprannominato Principe bastardo...Oggi stabilisco un rapporto diretto, mi immedesimo nelle loro emozioni e li chiamo per nome sfidando i paladini della privacy».

E cosa percepisce nei malati di covid?

«Incertezza. Paura. Terrore. Il virus provoca sensazioni devastanti. Gli imbecilli negazionisti dovrebbero vedere cosa prova un contagiato quando il respiro gli inciampa tra i denti. […]».

[…] Pensa che voi medici e il personale sanitario siate considerati ancora degli eroi?

«[…] la nostra immagine è stata inquinata dai cosiddetti esperti che infestano i media: virologi, immunologi e compagnia bella che da mesi dicono tutto e il contrario di tutto. Non rendono un buon servizio alla nostra categoria».

[…] Ci sono speranze che lei possa recuperare la memoria?

«Molto flebili. Continuo a curare la mia amnesia post-traumatica, ma se la memoria non mi è tornata dopo 7 anni dubito che tornerà mai. Tuttavia ho trovato l' equilibrio come uno strumento musicale riaccordato e sono felice di aver imparato a fare il medico in un altro modo».

Finiranno i contagi, torneremo alla normalità?

«Dobbiamo prepararci alla terza ondata ma sono sicuro che tutto finirà bene. […]».

Luca Telese per “la Verità” l'1 dicembre 2020. Dalla pandemia alla videopandemia. Ansiogeni, conflittuali, complessi (se non astrusi), spesso contraddittori rispetto alle loro stesse prese di posizione: così appaiono in tv i virologi agli italiani. E quando ai telespettatori si chiede di dare loro un voto, ecco le sorprese: il più visto è Andrea Crisanti, mentre il più «severo» è considerato Fabrizio Pregliasco. Comunque la si pensi in materia, dovremo rendere grazie a un sorprendente studio di Reputation Science, istituto che si è preso l' ingrato compito di sondare i cittadini su come percepiscono i protagonisti della pandemia. Il documento riserva non poche sorprese, e compila anche un' inedita classifica dello share, per dirci chi appare di più nei media nazionali. Nei sei mesi presi in considerazione, per esempio, Reputation Science certifica un record: quello del professor Crisanti, che da quattro mesi batte tutti gli altri con uno share medio impressionante, il 18% (in estate) e il 20% (in autunno). Solo Roberto Burioni era riuscito a insediare questo primato, in primavera, quando, grazie alla presenza fissa a Che tempo che fa, aveva accumulato molto minutaggio in una platea di prima serata (arrivando al 26%). Ma se la videopandemia è una gara che somiglia più alla maratona che ai 100 metri, non c' è dubbio che la costanza (e i piazzamenti) alla lunga paghino. È questo il caso del professor Massimo Galli, che - sommando tantissime partecipazioni - ha fissato un vero e proprio primato, quello di presenza contemporanea e simultanea in due programmi concorrenti (Stasera Italia e Otto e Mezzo). Galli è al terzo posto per visibilità con una percentuale fra l' 11% e il 13%. Se quindi prendiamo in considerazione la classifica «di arrivo» (l' ultimo bimestre) scopriamo che oltre ai primi tre (Crisanti, Andrea Ricciardi e lo stesso Galli), ci sono, nell' ordine, virologi come Matteo Bassetti, Fabrizio Pregliasco, Alberto Zangrillo, Roberto Burioni, Franco Locatelli e Ilaria Capua. Questa classifica è comunque (in parte) «bugiarda»: spiega chi gli italiani hanno visto di più, ma non cosa abbiano capito. Ecco perché è altrettanto utile, se non più interessante, (oltre allo share), la seconda parte dell' indagine: quella dove l' istituto indaga nelle tenebre della comprensione collettiva. Ed è qui che emerge il caos multiforme che le dispute tra epidemiologi hanno indotto nel grande pubblico. Nella difficoltà di capire il dettaglio dei dilemmi scientifici, su cui i protagonisti si accapigliano, la guerra dei virologi nei talk ha un effetto di amplificazione dell' angoscia. Un vero e proprio bombardamento di contenuti e messaggi contraddittori. Così nel report si legge: «Emerge non solo un volume di contenuti estremamente rilevante, ma anche», si legge, «un doppio livello di incoerenza nelle dichiarazioni rilasciate. Non solo infatti molti esperti hanno cambiato approccio nei vari mesi, ma in generale si è assistito a una forte divergenza tra opinioni riguardo alla gravità della pandemia e alla severità delle misure di contenimento». E ovviamente, si legge nel rapporto, «questo potrebbe aver reso gli alti volumi di contenuti registrati ancora più impegnativi da gestire per i cittadini». Lo studio analizza centinaia di dichiarazioni pubbliche sulla pandemia, e ne individua oltre 120 con «impatto mediatico significativo», e oltre 70.000 contenuti online tra Web e social network». Ovvero: una bomba opinionista o informativa, angosciofoba, una forza capace di prendere il controllo dell' agenda mediatica. Ma non finisce qui: «Durante i dieci mesi presi in esame, ogni giorno, queste esternazioni hanno generato circa 234 contenuti sul Web. Allo stesso tempo», si legge nel report, «secondo le analisi, ogni dichiarazione ha generato in media 586 contenuti online». Certo, l' opinionismo virologico ha seguito strategie comunicative opposte: «Alcuni virologi», spiega Sr, «hanno scelto di intervenire pubblicamente nei momenti in cui il trend dei contagi era in aumento, come Burioni o, al contrario, hanno concentrato i propri interventi quando i numeri dei contagi erano ai minimi, come Zangrillo. Gli altri dieci esperti hanno mantenuto tempistiche di intervento pressoché costanti». L' ultima sorpresa, però, sono le «pagelle» del pubblico. O meglio, i voti in decimali espressi da chi è stato coinvolto nella ricerca e chiamato a esprimere due distinti giudizi: uno sull'«indice di allerta» e l' altro sull'«indice di coerenza». Qui tutto si ribalta, e le valutazioni non hanno nessuna corrispondenza con lo share. I più severi sono Fabrizio Pregliasco, Walter Ricciardi e Galli. I meno coerenti solo risultati Matteo Bassetti, Alberto Zangrillo e Maria Rita Gismondo, che «pagano» quelli che sono stati percepiti come rispettivi cambi di opinione. Una valutazione di merito? Non necessariamente: questa, secondo Sp, è solo la percezione che ha avuto il pubblico, mentre cercava di farsi una opinione nel caos.

"Tutto il personale è disponibile anche alle richieste che avvengono con fare minaccioso e urla". Ricoverato nel Pronto soccorso del Cardarelli scrive ai media: “Basta fango, i pazienti qui diventano anarchici”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 17 Novembre 2020. Il terribile video girato nel Pronto Soccorso del Cardarelli ha letteralmente fatto il giro del mondo. Le immagini del paziente morto nel bagno hanno indignato e attirato le polemiche di molti, avviando un denigratorio circo mediatico nei confronti di uno degli ospedali più grandi del Sud Italia. E anche uno di quelli sempre in prima linea. Ma uno dei tanti che sfortunatamente ha dovuto ricorrere al pronto soccorso ha deciso di scrivere ai media per raccontare la sua esperienza di ricovero e cure e spiegare che quella che sta girando è solo una descrizione falsata della realtà. “Mi sento di fornire pubblicamente la mia esperienza nello stesso reparto (il Pronto Soccorso del Cardarelli, ndr), resa necessaria a causa del mio contagio da Covid 19”, ha scritto A.C. Descrive il suo calvario, iniziato con i primi sintomi venerdì 16 ottobre 2020. Poi il lunedì 19 ha avuto il risultato del tampone e ha scoperto di essere positivo. Inizialmente ha provato a curarsi presso il suo domicilio, ma il giorno 26 a causa del peggioramento dei sintomi e della scarsa saturazione ha chiamato il 118 “che mi ha prontamente assistito ma reso consapevole delle difficoltà oggettive associate all’emergenza posti letto – ha spiegato A.C. nella lettera – Ho deciso di temporeggiare un altro giorno fino a quando, a causa del peggioramento delle condizioni, ho scelto di non attendere il 118 ed ho provveduto da solo a recarmi di persona al Pronto Soccorso dell’Ospedale Cardarelli di Napoli intorno alle ore 20. Dopo qualche ora di attesa sono stato accettato al Pronto Soccorso Obi Covid”. “Entrato nella struttura – continua il racconto – diretto dal Primario Fiorella Palladino, ho da subito notato l’incredibile numero di pazienti sistemati in ogni angolo libero del reparto e nonostante tutto mi è stato assegnato un letto mobile con bombola di ossigeno. Non si può nascondere né negare che la mia prima impressione, da paziente ancora lucido e consapevole, era qualcosa di molto più simile ad un ambiente da ospedale in zona di guerra con impressionanti lamenti e continue richieste di soccorso. Tengo a testimoniare che, nonostante tutto, sono stato immediatamente sottoposto agli esami ed alla terapia d’urto con un concomitante e continuo cambio di bombole d’ossigeno”. “Il giorno seguente, le mie condizioni erano in peggioramento, e per questo motivo sono stato sistemato in un posto letto con ossigeno a muro e successivamente sottoposto a terapia con ossigeno ad alti flussi. Nel corso della mia permanenza in pronto soccorso/obi non ho potuto fare a meno che verificare la professionalità, l’efficienza e la grandissima umanità del personale sanitario che, nonostante la continua emergenza, si presta ai bisogni di tutti i pazienti, rivolgendo loro le dovute attenzioni anche quando le richieste avvenivano con fare minaccioso, con urla e con comportamenti evidentemente generati dallo stress e dalla paura che determinavano, di conseguenza, un clima di forte disagio, spesso per richieste d’aiuto anche non urgenti”. “Ogni paziente, in quelle condizioni, diviene istintivamente anarchico e si ritiene evidentemente eletto ad avere una sorta di diritto di prelazione alle cure che non tiene conto della visione più allargata di chi dall’alto riesce con obiettività ad individuare le priorità. Questo probabilmente genera una alterata idea di sotto attenzione che viene poi confusa con “mancanza” di attenzione. Dopo tre interminabili giorni sono stato trasferito al padiglione H in pneumologia covid, reparto diretto da Fausto de Michele, nel quale sono rimasto per undici giorni”. “Durante questa lunga degenza ho avuto conferma della professionalità di tutto il personale anche di questo altro reparto. La sera del 9 novembre sono stato dimesso, da paziente positivo in isolamento fiduciario, per poi proseguire la terapia presso la mia abitazione affinchè si potesse liberare il posto per le nuove urgenze”. “Ritenevo doverosa questa testimonianza in decisa controtendenza rispetto alle tante che leggo sugli organi di informazione che hanno perseguito l’obiettivo di denigrare il lavoro di tante persone che lottano con l’enorme amore per la professione ma con scarsissimi mezzi per affrontare questa pandemia. Le assicuro che le competenze non mancano così come è sempre palpabile l’affanno con il quale viene eseguita ogni prestazione di assistenza ai pazienti”. “Queste poche righe spero potranno esserle utili per comprendere quanto le dinamiche interne ad un reparto così esposto possano continuamente generare un’alterazione molto sensibile della realtà. Sono anche necessarie per ringraziare ancora una volta tutti coloro che mi hanno assistito, dai primari agli addetti alle pulizie, i quali nell’espletare i propri doveri hanno costantemente fornito anche parole di conforto alle persone ammalate, che oltre alla sofferenza fisica, sono esposti ad un terribile trauma psicologico che inevitabilmente si trascinerà nel tempo”.

Dagospia il 13 novembre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Martina Benedetti, infermiera che nella prima ondata di Covid in Italia divenne un simbolo grazie ad una foto pubblicata sui social e divenuta virale in tutto il mondo, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Martina ha parlato della seconda ondata: "Lavoro in Toscana, in un reparto Covid, in una terapia intensiva. Siamo diventati covid free in estate, purtroppo in questo ultimo periodo seguendo il trend nazionale siamo ripiombati nell'incubo covid. Almeno nella mia realtà, rispetto alla prima ondata, quando eravamo sprovvisti di mezzi di protezione individuale, riusciamo a proteggerci. Abbiamo le giuste armature. Molti operatori sanitari si contagiano perché è saltato il tracciamento. In estate abbiamo fallito nel sistema di tracciamento, che è sfuggito di mano. Com'è cambiato l'atteggiamento dei cittadini nei nostri confronti? Questa seconda ondata è ancora più difficile. Nella prima, non volendo, venivamo quasi celebrati come eroi, con i canti e gli applausi dai balconi, adesso succede che durante il periodo estivo abbiamo visto vari fenomeni aberranti, come i negazionisti o i no mask, movimenti fomentati anche da un giornalismo di bassa lega. Varie categorie di persone se la sono presa con noi. Da eroi per qualcuno siamo diventati assassini. Sono questi gli insulti che riceviamo sui social. Oppure ci scrivono "assicurati", quelli con lo stipendio statale, che devono stare zitti. Io e i miei colleghi siamo rimasti basiti, dopo tutto l'impegno che abbiamo messo a marzo e aprile e stiamo mettendo ora. Ti fai un turno massacrante in terapia intensiva, esci fuori e leggi certi commenti sui social, ti fa male". Martina Benedetti è un fiume in piena: "Tutto questo poteva essere previsto, era una situazione annunciata, non è stato fatto abbastanza. Gli hater sui social ce li ho anche io, li ho molti. Veniamo accusati di avere lo stipendio fisso e assicurato, quindi per questo non avremmo il diritto di parlare. Ma a me non dà fastidio il messaggio degli hater, ho un carattere di un certo tipo, mi dà noia la situazione generale, molti cittadini non hanno capito bene la situazione, sono stati gli stessi specialisti a minimizzare nei mesi scorsi, a creare una sorta di circo mediatico. Tutti questi scontri anche tra specialisti, tra virologi, che a mio parere sono assurdi. In reparto ne parliamo avviliti, ma spesso non c'è neanche tempo per stare dietro a tutte le dinamiche, il nostro obiettivo nell'immediato è di far star meglio il paziente che accede, non abbiamo nemmeno tempo per certe cose. Chi è in corsia tutti i giorni non apprezza chi minimizza, ma chi è realista e consapevole. La realtà in questo momento è drammatica. Dal punto di vista clinico sono stati fatti dei passi in avanti, i nostri medici hanno capito delle cose, la malattia viene curata in modo più efficace. Ma rimane il problema di posti letto. Più della letalità del virus, quello che le persone che non capiscono, è la capacità di tenuta del sistema sanitario il problema". Sul vaccino: "Pare che le prime dosi saranno destinate al personale sanitario? A livello pratico non ne stiamo parlando ancora, però ovviamente questa notizia non può che farci piacere. Vediamo come si evolverà la situazione e come verrà gestita".

Medico positivo continua a visitare pazienti a Cuneo: rischia l’arresto. Notizie.it il 5/11/2020. Un medico consapevole di essere positivo al coronavirus ha continuato a visitare i suoi pazienti: rischia arresto e sanzione. Un medico di Villafalletto, comune in provincia di Cuneo, ha continuato a visitare i suoi pazienti nonostante sapesse di essere positivo al coronavirus. Le forze dell’ordine lo hanno denunciato per violazione della quarantena e, oltre a provvedimenti disciplinari (l’Asl lo ha segnalato all’Ordine dei Medici), rischia un arresto da 3 a 18 mesi e un’ammenda da 500 a 5.000 euro. Tutto è iniziato giovedì 29 ottobre quando l’uomo ha ricevuto l’esito positivo del tampone effettuato il giorno prima. L’azienda sanitaria ha informato il sindaco che ha scritto al dottore invitandolo a isolarsi da subito per evitare di diffondere l’infezione. Ma lui non ne vuole sapere e venerdì 30 si è recato nuovamente nel suo ambulatorio visitando alcuni pazienti fino a quando non sono intervenuti i Carabinieri per riportarlo a casa. Ma c’è di più. Domenica 1 novembre il medico si è recato a casa di un paziente oncologico per visitarlo e il martedì successivo si è presentato in ufficio per stampare dei documenti. Il primo cittadino lo ha quindi nuovamente contattato ordinandogli di abbandonare immediatamente l’ambulatorio dove ha continuato a esercitare la professione pur consapevole di rappresentare un veicolo di contagio per i suoi pazienti. Ha inoltre precisato che l’accesso allo studio “sarà inibito con la sostituzione delle chiavi e altre modalità di ingresso della casa di riposo San Luigi Gonzaga“. Struttura a rischio che si trova nello stesso palazzo. Il medico ha provato a giustificare il suo comportamento spiegando che dopo aver effettuato il tampone risultato positivo ha fatto un test sierologico e un altro tampone che hanno dato esiti negativi. Non sapendo cosa fosse successo ha quindi continuato a recarsi in ambulatorio visitando i pazienti rispettando le misure. Quanto alla visita domiciliare, ha raccontato che “Mi ha telefonato il figlio di un paziente implorandomi. Il padre stava molto male e voleva il mio intervento, soltanto io potevo risolvere il problema. Ha insistito più volte, così sono andato”.

Lo sfogo: noi infermieri, prima angeli, poi untori. L'esperienza di un’infermiera contagiata dal Covid. La Voce di Manduria lunedì 02 novembre 2020. «Il comportamento delle persone ora che sono positiva al coronavirus fa più male del virus stesso». Questo lo sfogo di Gina Parisi (di Avetrana), infermiera in trincea che nella sua battaglia contro la pandemia è stata contagiata da uno dei numerosi pazienti che ha assistito. Ora che anche lei è infetta deve fare i conti con i fastidiosissimi e temibili sintomi della malattia e soprattutto con il pregiudizio della gente che le punta il dito come l'untrice del paese. «Sono disgustata e delusa», ripete l'infermiera che da una settimana, appena ha avuto l'esito del tampone, si è chiusa in casa con i suoi parenti. Gina lavora al pronto soccorso di un ospedale della provincia di Taranto (Manduria). È una delle più esperte e attente nel suo lavoro. E non è la sola ad essersi infettata nel suo ambiente. Ora però il suo problema è un altro.

Come ci si sente stando dall'altra parte?

«Naturalmente non è la prima volta che mi trovo a fare la paziente di me stessa, ma questa volta i dolori sono altri e non riguardano gli effetti del virus che prima o poi passeranno. Non passeranno le delusioni e la rabbia per alcuni comportamenti che mi hanno ferito».

Ce li vuole raccontare?

«Mi sono messa sempre a disposizione della gente che si rivolgeva a me per bisogno; certo, il nostro lavoro è questo, mai io credo di aver fatto molto di più di ciò che mi toccava e non credo che cambierò neanche dopo questa brutta esperienza. Accusano me e la mia famiglia di essere andati in giro sapendo di essere infetti e di aver seminato il virus rischiando di appestare il paese. Sono accuse che fanno male e che ti segnano. Prima le battutine sui social, poi accuse sempre più dirette che si palesano anche fuori da internet e fanno ancora più male».

Si sono comportate così anche persone che la conoscono?

«Io non conosco le persone che sparlano. Chissà, magari quelle stesse che, asintomatiche e infette a loro insaputa, mi hanno trasmesso il virus; perché è proprio questa la mia rabbia. Noi operatori della sanità siamo esposti al Covid ed anche alle persone che pur avendo avuto contatti a rischio ed hanno sintomi ce li nascondono per paura e per vergogna perché è questo il lato oscuro di questo maledetto virus: la gente ha vergogna a dire di essere contagiata, lo nasconde ed è su questi comportamenti che il coronavirus si moltiplica».

Lei ha sospetti di come potrebbe avere contratto il virus?

«Assolutamente no, può essere stato chiunque a trasmettercelo perché non sono l'unica. La mia è la voce degli infermieri e di tutti quelli che come me stanno passando questo brutto periodo. È vero che indossiamo sempre i dispositivi di prevenzione, mascherina, guanti e camice, ma il pronto soccorso e l'emergenza in genere non ti permettono mai la sicurezza al 100%. Chi non conosce il nostro lavoro non può capire, l'imprevedibilità è sempre in agguato. Un conto è sapere di avere a che fare con persone certamente contagiate, ma nei pronto soccorso anche chi viene per un mal di denti o per una caduta accidentale può essere un portatore asintomatico del virus».

Come giudica questa seconda ondata di contagi rispetto alla prima?

«Mi viene da dire che è più pericolosa questa e non lo dico perché mi è capitato adesso di essere contagiata. Per noi della provincia di Taranto che siamo stati fortunati a scansarcela nella prima ondata, la vera pandemia la stiamo conoscendo oggi. E questo mi fa paura perché sia noi sanitari che la gente potremmo cullarci o trovarci impreparati. Per non parlare delle stupidità di chi nega il problema. Sono più dannosi del coronavirus».

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2020. L'ultimo si chiamava Mirko Ragazzon, aveva 60 anni e due figlie. Era diacono nella parrocchia di Sant' Antonio a Brancaccio di Torre del Greco ed era un medico di famiglia. È morto il 24 ottobre nel reparto di rianimazione dell'ospedale del Mare di Napoli. I suoi colleghi, quando è passato il feretro, hanno improvvisato un picchetto d'onore con i camici indosso. È la vittima numero 183, tra i medici, dall'inizio della pandemia. Gli infermieri deceduti finora, invece, sono 44. Gli operatori sanitari che sono stati contagiati da quando si tiene la contabilità del coronavirus sono 42.071. Eppure queste persone sono passate da «eroi» a «collusi», «assassini», «bugiardi», «terroristi», «menagrami». Una settimana fa, di notte, nel parcheggio dell'ospedale Infermi di Rimini sono state vandalizzate una settantina di auto: finestrini spaccati, specchietti divelti, sportelli rigati. Dall'interno non è stato toccato niente. Andrea Boccanera, responsabile della sicurezza dei lavoratori dell'Ausl, al Resto del Carlino ha detto: «Non è certo il lavoro di un ubriaco o di qualche teppistello, è un attacco mirato contro i sanitari. La gente è sempre più esasperata e nervosa, forse ai loro occhi, con i nostri appelli sui social a rispettare le misure, creiamo allarmismo». I carrozzieri di Rimini e San Marino si sono offerti di riparare le auto gratis, l'assessore regionale alla Salute Raffaele Donini è andato a ringraziarli. Venerdì a Padova il presidente della Provincia, Fabio Bui, è stato fischiato quando ha espresso solidarietà per chi lavora in corsia ventiquattr' ore su ventiquattro. E il Mattino ha raccontato gli insulti che ricevono su Facebook medici e infermieri della Terapia intensiva. «La solita propaganda terroristica», «inizia a essere quasi giornaliera la foto della caposala, tra selfie e dichiarazioni varie, tra poco la vedremo da Barbara D'Urso», «ma stanchi di cosa?, fate solo il vostro lavoro come tanti altri», «bugiardi fate terrorismo». Fino al paradosso: «Questo lavoro lo avete scelto voi, gli eroi sono un'altra cosa». La presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, Barbara Mangiacavalli, è particolarmente avvilita dall'aggressività dei toni. Al telefono ci dice: «Non mi aspettavo questa violenza e questa acredine. Fin dai primi mesi abbiamo rifiutato la retorica degli eroi, ne comprendiamo il senso, ma siamo prima di tutto dei professionisti. Questi attacchi sono inaccettabili e la polizia postale dovrebbe intervenire per quel che è di loro competenza: invoco la tolleranza zero con chi insulta e addirittura ci minaccia». Gli infermieri, peraltro, sono stati i più vicini ai pazienti nel momento dell'ultimo saluto. In questi mesi hanno adempiuto a compiti che andavano ben al di là delle loro competenze e della loro formazione, sottoposti a uno stress emotivo che non prevede alcuna indennità in busta paga. Mangiacavalli insiste: «Essere accanto ai malati mentre se ne andavano ci ha lasciato una memoria di ricordi preziosissima e ha creato un legame privilegiato con i parenti, che poi hanno chiesto a noi qual era stato l'ultimo pensiero dei loro cari, se avevano ricordato i nipoti e i figli. Credo davvero che ci si debba fermare un attimo, i teatrini televisivi non ci stanno aiutando. Non dico di dare meno informazioni, ma di essere più cauti nel disegnare scenari sempre diversi. Altrimenti, se si sdoganano certe modalità di relazione più di pancia che di testa, il cittadino si sentirà autorizzato a replicarle».

DAGONEWS il 29 ottobre 2020. Ospedali italiani quasi al collasso. In 4 regioni - Lombardia, Piemonte, Lazio e Campania - i ricoverati con sintomi sono oltre il migliaio. Il Lazio ha già superato la propria capacità di posti letto, con le ambulanze ferme per ore nei parcheggi dei pronto soccorso. Le criticità non riguardano ancora le terapie intensive ma i posti ordinari. Ormai non si distingue più tra ospedali Covid 19 e non. Alla disperata ricerca di posti, i reparti vengono riconvertiti. Ma a mancare è anche il personale sanitario e per cercare di colmare questa pesante lacuna, una norma dello scorso mese di marzo, prevede che nel caso si venisse a contatto con individui positivi, bisognerebbe comunque proseguire la propria attività lavorativa, seppur sotto controllo. Un controllo che però non c'è come denunciano gli infermieri, che parlano di "una bomba ad orologeria" ben coscienti che i colleghi asintomatici possano contagiare personale e pazienti.

Ma alcuni infermieri e operatori del 118 denunciano - alla trasmissione Stasera Italia - una pratica non scritta che va oltre la norma del "semplice" contatto con individui positivi e che lascia a bocca aperta. Al personale sanitario infatti verrebbe richiesto di continuare a lavorare se si è positivi al Covid 19 ma asintomatici. Una pratica che molti di loro, in coscienza, rifiutano. Denunciando sintomi che non hanno pur di non andare a lavorare e rischiare di infettare qualcuno. E così una scelta impopolare come il lockdown, secondo alcuni sanitari, potrebbe essere l'unica soluzione per togliere questa soffocante pressione sugli ospedali. "O chiudiamo o crolla la sanità". 

Da ilgazzettino.it il 23 ottobre 2020. Il coronavirus ha colpito il cuore pulsante della macchina dei tamponi dell'azienda sanitaria trevigiana. Un nuovo focolaio è esploso proprio all'interno del dipartimento di Prevenzione che ha sede nel centro della Madonnina di Treviso. Sono emersi complessivamente 9 contagi tra il personale del servizio Igiene e sanità pubblica, Medicina legale, servizio Igiene degli alimenti e della nutrizione, Spisal e servizio Programmi di screening.

LA RICOSTRUZIONE. L'allarme è partito dal servizio Igiene e sanità pubblica, la cabina di regia del tracciamento delle persone positive nella Marca. Nei giorni scorsi un dipendente ha manifestato sintomi simil influenzali compatibili con l'infezione da Covid-19. Il tampone ha confermato il contagio. E così, parallelamente all'isolamento domiciliare, sono scattati i controlli sui colleghi di lavoro entrati in stretto contatto con lui. Tra questi, otto sono risultati a loro volta contagiati: 4 in Medicina legale, 2 nel servizio Igiene degli alimenti e della nutrizione, 1 allo Spisal e 1 agli screening. La scia di contagi ha stranamente colpito settori diversi, non solo persone che lavorano quotidianamente gomito a gomito. Da qui la decisione dell'Usl di avviare uno screening generale sui quasi 200 operatori della Madonnina. Non si parte da zero. Nelle scorse ore è già stato testato tutto il servizio Igiene e sanità pubblica. Sono state controllate complessivamente 60 persone. E tutte sono risultate negative. Un primo sospiro di sollievo, dato che il servizio diretto da Anna Pupo è più che mai strategico nel contrasto alla diffusione del Covid-19. Oggi toccherà a tutti gli altri: ci sono ancora circa 130 persone da controllare.

IL PUNTO. «La Madonnina resta aperta assicurano dall'Usl ora verrà applicato il protocollo ospedaliero con la ripetizione periodica dei test sugli operatori». La speranza è che il focolaio sia già stato circoscritto. In caso contrario si rischierebbero pesanti rallentamenti nell'attività di screening per il coronavirus. Come ha fatto il Covid a entrare nel dipartimento di Prevenzione che sorge in via Castellana, a due passi dalla strada Ovest? L'ipotesi avanzata dall'azienda sanitaria è che l'operatore del servizio Igiene e sanità pubblica sia stato contagiato in ambito familiare.  E che poi abbia diffuso il virus, ovviamente in modo inconsapevole, negli spazi comuni della Madonnina, come l'atrio, la zona delle macchinette del caffè e così via. Questo spiegherebbe l'andamento apparentemente puntiforme dei contagi. «Il primo contagio è avvenuto al 99% in ambito familiare fa il punto Francesco Benazzi, direttore generale dell'Usl della Marca dopo il primo screening generale, ci saranno controlli periodici sul personale tra 5 giorni, tra 10 giorni e tra 14 giorni». Non c'è il rischio che il primo operatore possa essersi contagiato proprio mentre eseguiva i tamponi? Il rischio zero non esiste. L'azienda sanitaria, però, tende a escludere tale ipotesi. «Gli operatori che eseguono i tamponi sono tra le persone più protette in assoluto», sottolinea il direttore generale.

L'APPELLO. In tutto ciò bisogna anche fare i conti con un altro contrattempo. L'Usl aveva lanciato un avviso pubblico per assumere 15 assistenti sanitarie a tempo determinato proprio per fare i tamponi. Ma alla fine se ne sono presentate solo 8. A novembre verrà pubblicato un nuovo avviso. Intanto bisogna stringere i denti. «Con le nuove assunzioni rafforzeremo il sistema di tracciamento dei casi positivi spiega Benazzi i numeri sono sempre più elevati. Anche se con qualche ritardo, nell'ordine di uno o due giorni, riusciamo comunque ancora a garantirlo. In caso di necessità, poi, andremo a ridurre attività diverse, come Medicina legale, per recuperare altre forze». Tutti si augurano che non serva.

IL BILANCIO. A livello generale, intanto, continuano ad aumentare i contagi. Ieri nel trevigiano sono emerse 125 nuove positività. Il totale delle persone che stanno attualmente combattendo contro l'infezione da coronavirus è salito a 2.115. Compresa un'operaia dello stabilimento Electrolux di Susegana, come evidenzia il gruppo sindacale Skatenati Electrolux, che il 10 ottobre aveva preso parte a un matrimonio trasformatosi in un focolaio con 28 contagi. Per i contatti stretti è scattata la quarantena precauzionale. Sempre ieri, inoltre, l'Usl ha portato a termine lo screening generale tra i lavoratori della cooperativa Co-Work, che opera per la società di logistica Xlog di Geox, dove si è arrivati a contare 48 positivi su 500 lavoratori. Il dato dei ricoverati, infine, resta in linea con quello di ieri. Al momento sono 57 i pazienti Covid positivi che hanno bisogno di cure ospedaliere. Due si trovano nella Terapia intensiva di Treviso, 24 sono ricoverati nelle unità di Malattie infettive e di Pneumologia dello stesso Ca' Foncello, altri 24 nella Medicina dell'ospedale di Vittorio Veneto e 7 nell'ospedale di comunità sempre di Vittorio Veneto. «Restiamo in fascia verde per quanto riguarda l'occupazione delle Terapie intensive», evidenzia Benazzi. E da oggi verranno riattivate le aree sub-intensive dei reparti Covid.

"Siamo usciti senza tamponi". Il giorno in cui esplose il virus. La rivelazione sui primi giorni di contagio. Il buco all'ospedale di Alzano: "Sembrava dovessimo scappare..." Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Giovedì 22/10/2020 su Il giornale. Pubblichiamo un estratto da Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni, 350 pagine, 20 euro), scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. Nei giorni successivi, all’ospedale di Alzano Lombardo, diventeranno positivi anche un primario e un caposala. Ed è proprio il pronto soccorso a finire nell’occhio del ciclone perché, dopo i primi allarmanti esiti dei tamponi, viene chiuso per la sanificazione, ma dopo solo un paio di ore viene riaperto. Succede tutto, nel giro di poche ore, la mattina del 23 febbraio. Delia, residente a Nembro, ha entrambi i genitori ricoverati in ospedale da diversi giorni. Passa a trovarli insieme al marito per dar loro una mano a mangiare. Giovanni, il padre, che da alcuni giorni ha la glicemia altissima, è in stato confusionale. Ad un certo punto sul cellulare di un compaesano, anche lui in reparto per assistere i propri cari, arriva un messaggio in cui si parla di un due casi di coronavirus nel nosocomio. Solo allora si accorgono che il via vai delle infermiere si è fatto sempre più frenetico e che la tensione sta aumentando di minuto in minuto. Quando il marito di Delia prova a tornare a casa, alla seconda rampa di scale viene fermato dagli infermieri e rimandato indietro. La comunicazione ufficiale tarda ad arrivare. Nel frattempo, però, le porte di uscita vengono sigillate e ai parenti dei malati vengono fornite mascherine chirurgiche. Fuori si può intravedere la calca di chi si presenta per le visite. Attraverso i vetri cercano di scambiarsi le poche informazioni che riescono a mettere insieme. Non hanno certezze. Ma, quando dalle finestre vedono giornalisti e cameraman aspettare davanti all’ingresso del Pesenti Fenaroli, capiscono che la situazione è davvero grave. Verso le cinque di pomeriggio le infermiere piombano nelle stanze del reparto. «Tirate su tutta la vostra roba – intimano – e uscite di qui». Non c’è tempo nemmeno per salutare i parenti. Il marito di Delia prova a prendere tempo. «Non posso – spiega – c’è mio suocero in bagno». «Deve andarsene assolutamente – insistono – lo lasci lì che, appena abbiamo tempo, ce ne occupiamo noi». «Non siamo nemmeno riusciti a salutarlo...», ci confida con rammarico Delia che, insieme al marito, lascia il nosocomio senza alcun tipo di controllo. Non viene nemmeno formulata l’ipotesi di sottoporli al tampone. «Andate direttamente a casa – è il suggerimento che viene loro dato – lavate i vostri vestiti e fatevi una doccia». Gli infermieri si limitano unicamente a farli passare da un’uscita secondaria per evitare la ressa che, nel frattempo, si è formata all’ingresso. «Sembrava quasi dovessimo scappare...», ci raccontano. Ovunque regna il caos. Le sensazioni dei Morotti trovano conferma nella testimonianza di Nadeem Abu Siam, medico palestinese di 29 anni che il 23 febbraio dovrebbe fare il turno di notte. Alle 17 gli arriva la prima telefonata: «Siamo chiusi, non venire in ospedale». Due ore dopo il telefono squilla di nuovo. Gli comunicano che deve presentarsi al lavoro. «Appena entrato nessuno sapeva cosa fare – confida – il flusso dei pazienti era ancora fermo. Fino a quel momento non avevamo mai usato mascherine in modo generalizzato e in tutto avevamo una decina di tamponi». Nei tre giorni successivi, inoltre, Delia continua a fare avanti e indietro dall’ospedale per portare il ricambio a entrambi i genitori. Il 27 febbraio, poi, la madre 82enne viene dimessa perché il tampone è negativo. Il suo, però, risulterà un falso negativo. Il 28, invece, è il padre a risultare positivo al test. L’incubo della famiglia Morotti era cominciato, però, a inizio mese, intorno al 10 febbraio, quando Giovanni viene portato per la prima volta al pronto soccorso di Alzano. Ha la febbre e la tosse gli toglie il respiro. La radiografia ai polmoni riscontra un inizio di focolaio. Viene, tuttavia, dimesso con una cura antibiotica. Nel frattempo anche la moglie inizia a stare male e per lei viene subito disposto il ricovero al Pesenti Fenaroli. Anche le condizioni di Giovanni peggiorano di giorno in giorno, nonostante le medicine che sta prendendo. «Gli si è ammalata la bocca», ci spiega Danilo, fratello di Delia. Perde completamente il senso del gusto e una violenta candidosi gli toglie l’appetito. Il 21 febbraio tornano, quindi, in ospedale e qui a preoccupare i medici sono soprattutto i valori del diabete. Da questo la decisione di ricoverarlo. Delia e Danilo riescono a vedere il padre 85enne un’ultima volta il 9 marzo, la sera prima che muoia. «Vostro papà è gravissimo», dice il dottore in una telefonata arrivata nel cuore della notte. «Se volete potete dargli un ultimo saluto, ma non toccate nulla... nemmeno il letto». In testa non ha più nemmeno il casco, la C–pap. Ha solo la mascherina. «Ho provato a chiamarlo due o tre volte – ci racconta Delia – ma non mi ha mai risposto». I medici hanno già iniziato a somministrargli la morfina. «Morire per soffocamento non è degno di un essere umano», gli spiega con pazienza un dottore. «Sarebbe come morire annegati... quindi stia tranquilla che lo accompagneremo con la morfina». Per altre ventiquattr’ore andrà avanti a lottare tra la vita e la morte. «Secondo me – taglia corto Delia – di quel reparto lì, ne sono rimasti in vita davvero pochi...». Il 13 marzo anche la madre si aggrava. Questa volta l’ambulanza la porta al pronto soccorso dell’ospedale di Seriate. I medici non la porteranno nemmeno in reparto: morirà lì tre giorni dopo. «Nel frattempo mi sono ammalato io di polmonite bilaterale», ci racconta Danilo a cui non sarà mai fatto il tampone. «Non è necessario – gli spiegano – dal momento che non ha crisi respiratorie». Per guarire, oltre agli antibiotici, un medico dell’ospedale San Raffaele di Milano gli prescrive anche l’antimalarica che, nel giro di un paio di giorni, gli spegne la febbre. Pure Delia si ammala, ma in forma molto lieve. Insieme a lei anche l’altra sorella e la nipote.

Potenza, entra in ospedale per partorire ed esce contagiata dal Coronavirus. La donna ha partorito nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove si è sviluppato un focolaio. Massimo Brancati il 18 Ottobre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra in ospedale per partorire ed esce con il virus in corpo. È travolta da sentimenti contrastanti: la felicità per aver dato alla luce il figlio e la rabbia per aver contratto l’infezione Covid-19 in un luogo che dovrebbe essere ultra-sicuro. A raccontarci la sua esperienza è una giovane donna della provincia di Potenza, di cui evitiamo di rendere noto le generalità, che la settimana scorsa ha partorito nel reparto di Ostetricia e Ginecologia del San Carlo di Potenza.

Ricostruiamo l’accaduto. Lei quando è entrata in ospedale?

«Sono stata ricoverata giovedì scorso e appena arrivata mi hanno fatto il tampone che è risultato negativo».

Quando è stata dimessa?

«Ho partorito e sono uscita domenica pomeriggio».

Prima di uscire le hanno rifatto il tampone?

«Macché. Niente. Ho appreso dai giornali quello che era successo in Ostetricia, con il contagio del personale. Nessuno mi ha chiamata, eppure io sono stata lì in quei giorni. Ho deciso di rivolgermi a un laboratorio privato per sottopormi al tampone e l’esito purtroppo è positivo».

Quindi ritiene che il virus l’abbia contratto proprio in Ostetricia?

«Certo, non ci sono dubbi. Io stavo bene e dopo essere uscita dall’ospedale sono andata a casa da dove non mi sono mossa. Sono veramente arrabbiata per quello che è accaduto, non è possibile che uno entri in ospedale ed esca infettato».

Avrà certamente letto delle polemiche sulla festa di un’ostetrica. La direzione ospedaliera ritiene che sia stata lì l’origine del contagio...

«Sciocchezze. Mi dovrebbero spiegare allora perché sono stata contagiata anch’io che mi trovavo in ospedale prima della festa di sabato scorso. Il virus era nel reparto, non raccontassero favole».

Ha avuto contatti con un’ostetrica in particolare?

«Con diverse. Devo dire che stavamo tutti in reparto sempre con la mascherina sia noi pazienti che loro».

Insomma, nonostante le precauzioni ha preso il virus...

«Già, non so come possa essere accaduto. Ma un fatto è certo: in reparto qualcuno era già infetto. Sono preoccupata per me, per mio figlio, i miei familiari, ma anche per tutti gli altri bambini che hanno avuto contatti con le ostetriche. Intendiamoci, non me la prendo con loro, ci mancherebbe. Io lancio un’accusa alla direzione sanitaria che evidentemente non ha previsto di fare tamponi nei reparti. Andrebbero eseguiti ogni tre, quattro giorni».

Come fa adesso con il suo piccolo?

«Spero di continuare ad essere asintomatica. Nel frattempo faranno i tamponi tutti della mia famiglia. Mi auguro che mio figlio non sviluppi l’infezione. Ma questa storia deve far riflettere sulla gestione dei reparti ospedalieri e sul fatto che se non avessi letto del caso di Ostetricia avrei potuto infettare mezzo paese».

Medici positivi, torna l'allarme. Focolai per matrimoni e rave. Ieri altri 5.456 casi, con 30 ricoveri in terapia intensiva. Tra i dottori primi casi di contagio in corsia e in famiglia. Patricia Tagliaferri, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Torna l'ansia quotidiana da bollettino. Quanti contagi ci saranno oggi? Ci sarà un nuovo lockdown? Con un occhio ai numeri del ministero della Salute e un altro alla politica che, in base a quei dati, decide quale pezzetto della nostra libertà sacrificare ogni volta per frenare la corsa del Covid. Passata la tregua estiva ci troviamo di nuovo nella fase in cui aspettiamo di sapere di quanto è salita ancora la curva epidemiologica, aspettando un'inversione di tendenza che ormai potrà arrivare soltanto quando si cominceranno a vedere gli effetti dell'ulteriore stretta in arrivo. Ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Un numero leggermente inferiore a quello del giorno prima, ma perché sono stati eseguiti 28.426 tamponi in meno, come accade sempre nel fine settimana. I ricoverati con sintomi sono saliti a 4.519 (183 in più in 24 ore) e purtroppo aumentano anche quelli in terapia intensiva: nelle ultime 24 ore si è arrivati a 420, con un incremento di 30 rispetto a sabato. È il dato che viene monitorato con più attenzione. Per il momento non è paragonabile con i numeri di fine marzo, quando gli ospedali non riuscivano a sostenere gli arrivi dei pazienti più gravi, ma il sistema sanitario non può permettersi di finire nuovamente in affanno. Tanto più ora che comincia a riproporsi il problema della diffusione dei contagi tra i medici. Sicuramente non ci sarà una nuova Caporetto nella categoria, come nei mesi più duri della prima emergenza perché gli operatori sanitari conoscono meglio il nemico da combattere e sanno come difendersi, ma i casi non mancano, anche legati alle infezioni intrafamiliari, che adesso sono quelle che preoccupano di più. Dopo la vicenda della festa privata in corsia, senza mascherine, nell'ospedale pediatrico Giovanni XVIII di Bari, per la quale 12 medici e 8 infermieri rischiano un procedimento disciplinare, la Regione Puglia è corsa ai ripari inviando agli operatori sanitari delle linee guida che vietano festeggiamenti vari, in luoghi improvvisati e al di fuori di ogni protocollo di sicurezza, mentre indossano il camice. È al sud, comunque, per lo più risparmiato dalla prima ondata, che si stanno registrando diversi contagi in ospedale: 17 nella clinica Mater Dei di Bari, 4 al Policlinico Riuniti di Foggia, 3 al Moscati di Avellino, 2 all'ospedale di Carbonia, in Sardegna. Ora la geografia del virus è cambiata, è diffuso su tutto il territorio. Il rialzo dei casi interessa il sud come il nord. La Lombardia ha scansato la Campania dal vertice delle regioni con il maggior incremento. Nelle ultime 24 ore si sono registrate 1.032 nuove infezioni, la maggior parte concentrate nel milanese (460) e a Milano città (211). Lieve calo in Campania (633), seguita da Toscana (517) e Veneto (438). I decessi sono stati 26. Cresce il numero dei focolai da monitorare. Il virologo Fabrizio Pregliasco ha detto che sono diffusi in 104 province. Dopo l'ultimo, con 13 positivi, legato ad un matrimonio con 200 invitati a Monte di Procida (Napoli), nel comune dei Campi Flegrei è scattato un mini lockdown, con la chiusura di scuole, parchi pubblici e il divieto di fare sport. A Ladispoli, invece, sul litorale di Roma, una sessantina di persone tra bambini e adulti è finita in quarantena dopo due feste di compleanno organizzate, scrive il Messaggero, dalla mamma di un bimbo di 8 anni nonostante avesse tosse e febbre. Mentre il governo valuta strette alla movida e le discoteche rimangono chiuse, i giovani trovano altre strade per divertirsi rischiando di fare impennare i contagi. Sabato a Settimo Torinese, nell'hinterland del capoluogo piemontese, è stato scoperto un rave party con 300 persone in una fabbrica abbandonata. Un altro, sempre con centinaia di giovani, è stato sventato nel novarese.

 (ANSA il 10 ottobre 2020) Baci e abbracci, senza indossare le mascherine di protezione obbligatorie in corsia, durante una festa privata organizzata in un reparto dell'ospedale Pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Le foto scattate dai protagonisti sono finite su facebook e, adesso, 12 medici e otto infermieri rischiano un procedimento disciplinare e persino una denuncia penale per interruzione di servizio pubblico. La festa privata, secondo la ricostruzione della direzione sanitaria dell'ospedale pugliese, infatti sarebbe avvenuta durante l'orario di servizio: l'indagine interna è partita venerdì sera, quando le fotografie sono finite sulla scrivania del direttore generale Giovanni Migliore: "Si tratta di un comportamento inaccettabile, per usare un eufemismo, e assolutamente irresponsabile", taglia corto il manager aziendale che ha dato immediatamente mandato di svolgere gli accertamenti per andare sino in fondo alla vicenda. In un momento in cui tutti gli ospedali sono in stato di massima allerta per l'emergenza coronavirus e le cliniche sono "blindate" per limitare i rischi di contagi, venti tra medici e infermieri che, senza indossare i dispositivi di protezione individuale, brindano e si abbracciano in corsia ha provocato imbarazzo all'intera struttura ospedaliera. Non è ancora chiaro cosa il gruppo di dipendenti stesse festeggiando, anche questo è un elemento su cui dovrà fare chiarezza la commissione procedimenti disciplinari che è stata incaricata di effettuare le verifiche e ascoltare tutti i protagonisti. Nel frattempo, la direzione sanitaria del Giovanni XXIII ha acquisito la documentazione fotografica che gli stessi dipendenti sanitaria avevano provveduto a pubblicare sui social network, come se nulla fosse. Grazie alle foto finite su facebook, la struttura ospedaliera è riuscita a identificare tutti i partecipanti. La commissione ascolterà anche il primario del reparto, al quale è stata già chiesta una relazione istruttoria. "E' evidente - prosegue Migliore -che c'è stato un mancato rispetto delle regole anti Covid, dal mancato distanziamento al corretto utilizzo dei dispositivi di protezione e delle procedure di prevenzione e controllo dell'infezione". Secondo la direzione sanitaria, la festa ha finito per mettere "a repentaglio la sicurezza degli operatori e la continuità delle cure". Ma la commissione d'indagine interna dovrà accertare anche se possa essersi verificata "una interruzione di pubblico servizio o altra condotta penalmente rilevante che darebbe luogo ad una responsabilità di natura penale, oltre che disciplinare". "Se così dovesse essere, trasmetteremo alla Procura tutta la documentazione in nostro possesso per l'accertamento delle responsabilità individuali", annuncia Migliore. Le verifiche saranno rapide, assicurano dalla direzione dell'ospedale. "Sono già partite ieri sera - spiega Migliore - non appena ho ricevuto le foto con una prima breve relazione. Attendiamo l'esito degli accertamenti, ma quello che è evidente è che si tratta di un episodio inaccettabile".

Record di casi positivi in Puglia: persone contagiate in corsia. Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2020. Cinque mesi dopo la riapertura delle frontiere nazionali e dei confini regionali e la ripresa delle scuole e di tutte le attività economiche, il bollettino regionale segnala 3.133 positivi. Il numero dei contagi è aumentato in misura esponenziale nonostante ci si trovi soltanto all’inizio della seconda fase prevista della pandemia. Quando si andava alla riapertura dopo il “lockdown” lo scorso 3 maggio, in Puglia c’erano 2.955 positivi al Covid-19, numero che fu il picco raggiunto nella prima ondata della pandemia. I 196 contagi in un giorno solo non raccontano tutto, infatti lentamente i numeri dei casi positivi sono scesi, sino all’annuncio trionfale di Emiliano e Lopalco di “Puglia regione Covid free“. Ai nostri giorni cinque mesi dopo la riapertura delle frontiere nazionali e dei confini regionali e la ripresa delle scuole e di tutte le attività economiche, il bollettino regionale segnala 3.133 positivi. Il numero dei contagi è aumentato in misura esponenziale nonostante ci si trovi soltanto all’inizio della seconda fase prevista della pandemia. Va segnalata una valutazione rilevante che può confortare in merito ai dati dei ricoveri: lo scorso 3 maggio negli ospedali pugliesi erano 410 i casi positivi , dei quali 40 erano i ricoverati nei reparti di terapia intensiva Covid; oggi sono 251 di cui 23 quelli in rianimazione, grazie al fatto che sono numerose le persone giovani contagiate. Esiste però il pericolo ed il rischio che i casi possano crescere, come verificatosi la scorsa primavera, alimentando una nuova epidemia tra malati cronici e persone anziane, che costituiscono i soggetti più fragili ed esposti. La situazione negli ospedali al momento appare ancora sotto controllo, ma non è da sottovalutare in quanto il quadro potrebbe mutare rapidamente. “Il virus circola e circola con grande intensità . È evidente che la ripresa di tutte le attività in tempo di pandemia, la riapertura delle scuole, il ritorno delle vacanze, hanno determinato un innalzamento dei contagi. La struttura ospedaliera pugliese, comunque, sta reggendo bene anche se, com’è ovvio, c’è grande attenzione nel rafforzarla ulteriormente. Si tratta in gran parte di persone asintomatiche o paucisintomatiche, quindi al momento non c’è uno stress della struttura ospedaliera e nessuna particolare preoccupazione” ammette Michele Emiliano riconfermato presidente della Regione Puglia. Sono però necessari interventi correttivi, soprattutto in alcuni settori come i trasporti: “Bisognerà prendere dei provvedimenti non solo mettere la mascherina sempre quando c’è un contatto ravvicinato con altre persone. Bisognerà fare in modo, ad esempio, che il trasporto scolastico possa essere meno stressato, ipotizzando anche orari delle lezioni sfalsati” dice Il presidente Emiliano che critica il Governo Conte: “I mezzi pubblici non sono aumentati anche perché il governo non ha ritenuto di stanziare nemmeno un euro per rafforzare il sistema“. Oltre ai contagi è aumentata parallelamente anche la possibilità di effettuare tamponi in Puglia. Ieri ne sono stati effettuati 4.822, ed anche questo numero rappresenta un record. 68 dei nuovi casi, riguardano la provincia di Bari, 7 la provincia Bat, 80 i casi nella provincia di Foggia, 3 nella provincia di Brindisi, 10 nella provincia di Lecce, e 27 nella provincia di Taranto. I pazienti guariti sono 4.883 (+54 rispetto a martedì) mentre sono 3.133 i casi attualmente positivi (+142), 274 dei quali ricoverati (+9) e 2859 a domicilio (+ 133). Soltanto lo 0,7% degli attuali positivi, è ricoverato nelle terapie intensive e l’8% negli altri reparti. “Come abbiamo imparato in tanti mesi di esperienza non è il dato di una giornata che deve essere valutato, ma l’andamento della curva nel suo complesso. Il dato di ieri è legato alla casuale coincidenza di un aumento di casi in due province. È una situazione da monitorare attentamente che deve comunque invitare tutti noi alla massima attenzione e prudenza” commenta il professore Pierluigi Lopalco, ex-consulente di Emiliano che lo ha nominato nuovo assessore regionale alla Salute. I casi aumentano a partire dagli ospedali alle scuole, senza tralasciare le Rsa, : sono stati 17 dipendenti tra medici e infermieri del reparto di Riabilitazione della clinica “Mater Dei” di Bari a risultare positivi al Covid-19. Nel capoluogo regionale, sono stati accertati 35 contagi nella Rsa “Oasi Santa Fara“, 20 dei quali riguardano degli anziani ospitati nella struttura, mentre sono 15 i contagiati tra gli operatori sanitari . Una pizzeria a Bari è stata costretta alla chiusura dopo la positività riscontrata a due dipendenti, e la ASL sta cercando di ricostruire la catena dei contatti richiamando anche i clienti. Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’OMS l’ Organizzazione Mondiale della Sanità, presente ieri a Bari in occasione del Forum “Mediterraneo Sanità” che si è tenuto presso la Fiera del Levante ha ricordato che “Gli ospedali non possono essere la prima linea di una risposta di una pandemia del genere, ma non dovevano essere la prima linea neanche come risposta alla normale influenza negli anni passati». Guerra ha lanciato l’allarma anche per il rischio di contagi nelle scuole: “Siamo all’inizio, è fondamentale che le misure di sicurezza predisposte all’interno degli istituti vengano garantire anche nel tragitto casa-scuola e viceversa“.

Coronavirus, sette tra medici e infermieri infettati ad Aprilia. Torna l'incubo degli ospedali-incubatori. Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Il cluster all'interno della casa di cura "Città di Aprilia", la principale struttura sanitaria della zona. Il focolaio partito da un chirurgo durante un intervento. Altri casi a Latina. Ospedali incubatori del virus. Torna l'incubo della prima ondata. La notizia è di queste ore: sette medici e infermieri sono stati infettati dal coronavirus nella casa di cura "Città di Aprilia", a Latina, dove  la nuova ondata del Covid si fa sempre più preoccupante e dove dal bollettino diramato ieri sono emersi altri 49 positivi, crescono in maniera preoccupante i contagi e torna a infettarsi pure il personale sanitario. Nella casa di cura apriliana, di fatto una sorta di ospedale in cui affluiscono pazienti dalla seconda città della provincia pontina e dal litorale romano, stando alle prime indagini svolte dall'Asl, il Covid ha colpito un infermiere della sala operatoria e un medico, che avrebbero poi infettato i colleghi. Gli accertamenti sono in corso ed è ancora presto per sapere se sono stati contagiati anche altri operatori sanitari e i pazienti. Problemi da giorni si stanno però manifestando anche all'ospedale "Goretti" di Latina, una città dove all'inizio della pandemia è anche deceduto un medico vittima del coronavirus e dove dieci giorni fa ha riaperto il reparto Covid, che dato il numero dei ricoveri è stato poi ben presto ampliato, con il risultato che vi sono ora pazienti ricoverati in tale reparto, in quello di malattie infettive e in un secondo spazio ricavato per far fronte all'emergenza. Al "Goretti" appunto sono risultati positivi un infermiere e un medico proprio del reparto di malattie infettive. Un altro infermiere della sala operatoria è poi risultato positivo al primo tampone e negativo al secondo, per cui è ancora da accertare se sia stato anche lui contagiato, e nei giorni scorsi positiva è risultata una dottoressa del reparto di otorinolaringoiatria. "Si tratta di contagi - specifica  il direttore generale dell'Asl di Latina, Giorgio Casati - avvenuti, in base a quanto sinora abbiamo potuto verificare, in ambito non ospedaliero". L'attenzione è comunque massima. Sono scattate le quarantene e sono stati eseguiti numerosi tamponi su medici e infermieri. Per evitare che il virus dilaghi ulteriormente e temendo che le Rsa tornino a trasformarsi in incubatori, l'Azienda sanitaria sta intanto attivando un protocollo sperimentale per controllare tutti gli anziani ospiti di tali strutture due volte al giorno e valutare così subito eventuali interventi utili a stroncare sul nascere possibili cluster. L'Asl inizierà con la Rsa dell'Icot e se i risultati ottenuti saranno buoni farà lo stesso con tutte le altre strutture della provincia. "Ricorreremo alla telemetria", precisa il direttore generale Casati.

Giulia Di Leo per la Stampa il 13 settembre 2020. Un medico è andato a lavorare con la febbre. Diceva che era una semplice influenza, poi la scoperta del Covid. È successo nel reparto di Ginecologia e Ostetricia dell' Ospedale Santi Antonio e Biagio di Alessandria. L' uomo ora è ricoverato, e le sue condizioni sono serie. Ora si farà il tampone a tutti quelli che sono entrati in contatto con lui. Resta da capire come abbia potuto eludere i controlli. A chiunque viene misurata la febbre: luce verde se la temperatura è sotto i 37,5 gradi, altrimenti con la luce rossa si torna a casa. Il medico con il Covid sarebbe riuscito a entrare addirittura con 38,5 di febbre, e ha pure lavorato in reparto. Non è ancora chiaro quali siano i giorni in cui ha lavorato benché febbricitante. Dall' ospedale arriva la conferma dei controlli a personale e pazienti del reparto. In una nota in cui vengono spiegate le procedure attuate, l' azienda ospedaliera precisa di aver già effettuato i tamponi. «L' obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione indivisuale vigente tutela la diffusione del virus tra pazienti e operatori - precisano -. Stiamo procedendo con i protocolli di sicurezza. Inoltre, sono previste specifiche indicazioni per operatori e visitatori che prevedono che a ogni ingresso sia rilevata la temperatura corporea ed effettuata l' igiene delle mani. A ogni accesso è stato predisposto un checkpoint con la presenza di personale, fornita di termoscanner e gel antisettico per le mani. L' uso dei dpi è obbligatorio per tutta la permanenza in ospedale e qualora gli operatori non seguissero le indicazioni fornite, a seguito di precise verifiche, sarà compito dell' Azienda avviare le azioni dovute». «Ci auguriamo che questo non sia il frutto di una falla dei controlli», dicono intanto dal Tribunale per i diritti del Malato di Alessandria, dove da giorni il telefono squilla incessantemente. A chiamare sono i parenti dei ricoverati, perlopiù anziani e con difficoltà cognitive, che sono ormai arrivati all' esasperazione perché non possono far loro visita e lamentano la carenza di comunicazioni anche da parte degli ospedali. Tutte difficoltà dovute alle grandi restrizioni anti-contagio: «È giusto che le regole valgano per tutti, non solo per i pazienti e i famigliari».

Guido Bertolaso a In Onda: "Così ho preso il Covid", quello che nessuno ha avuto il coraggio di fare. Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Guido Bertolaso è ospite di In Onda, la trasmissione condotta da Luca Telese e David Parenzo su La7. L’ex capo della Protezione Civile è tornato a parlare della sua esperienza diretta con il coronavirus, aggiungendo dettagli inediti su come lo ha contratto durante la collaborazione con la Regione Lombardia per la gestione dell’emergenza. “È stata un’esperienza scioccante, drammatica - ha dichiarato - io sono un soggetto a rischio vista l’età che ho, quindi quando ho scoperto di aver contratto il Covid mi sono molto preoccupato. L’ho preso visitando un ospedale perché volevo capire meglio come allestire e gestire un reparto di terapia intensiva in un momento così drammatico”. Bertolaso ha quindi fatto una cosa che nessun altro ha avuto il coraggio di fare: “Ero andato a salutare medici e infermieri, a parlare con loro visto che nessuno andava per paura del contagio. L’ho contratto in quel momento, ma dovevo capire e poi non ho infettato nessuno e l’ospedale alla Fiera è stato realizzato nei tempi previsti”. 

"Non devi essere risultato positivo". Lo Stato e la beffa ai medici-eroi. I giovani dottori in prima linea contro il Covid. Il Miur pubblica il bando di specializzazione: rischio trappola. Giuseppe De Lorenzo, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. Neolaureati eroi ieri, a rischio beffa oggi. Il diavolo - si sa - spesso si nasconde nei dettagli. E migliaia di giovani dottori oggi quel demone temono di averlo visto scritto nero su bianco nel bando ministeriale che divide le loro vite dal sogno della professione medica. Per partecipare al concorso infatti devono assicurare di “non essere risultati positivi al Covid-19” e di non essere stati recentemente a contatto con qualche infetto. E così chi tra loro si è speso in prima linea contro il virus, ora vive l’incubo di trovarsi fregato. In termine tecnico: cornuto e mazziato. Lo scorso marzo il dl “Cura Italia” li aveva abilitati per decreto e spediti al fronte senza tanti fronzoli. Freschi di laurea, molti giovani dottori hanno risposto alla chiamata alle “armi”: hanno stipulato un’assicurazione e si sono messi a disposizione delle Regioni. Nelle guardie mediche, nelle Usca a curare pazienti infetti a casa, nei servizi territoriali, nei centralini a rispondere alle chiamate disperate dei malati o a sostituire i colleghi più esperti come medico di famiglia. Un lavoro passato forse in sordina, ma decisamente utile nel pieno dell’emergenza coronavirus. Nei giorni scorsi il Miur ha pubblicato il tanto atteso bando per le specializzazioni. Migliaia di posti a concorso (si parla di appena 14.400) e troppi candidati, che dovranno fare a pugni per ottenere un posto. Niente di nuovo sotto al sole, se non fosse che questo è il maledetto anno del coronavirus. Dunque anche per gli aspiranti dottori il concorso sarà diverso dagli altri. Tra gli allegati al bando, infatti, ne appare uno dedicato interamente allo svolgimento dell’esame. Ovviamente tutti i candidati dovranno “rispettare scrupolosamente le misure di distanziamento”, portare mascherine, guanti e tutto il resto. Ma soprattutto dovranno presentare una dichiarazione in cui, pena conseguenze penali, dovranno dichiarare “di non essere sottoposti alla misura della quarantena” (e ci sta), di “non essere risultati positivi al Covid-19”, di non avere la febbre oltre 37,5° e “di non aver avuto contatti negli ultimi 14 giorni con persone risultate affette” da Sars-CoV-2. Ora, come detto il diavolo sta nei dettagli. E quel “non essere risultati positivi al Covid” non spiega se la misura vale per chi “in quel momento” è positivo o se riguarda anche il passato. Cioè: se l’ho avuto due mesi fa, non posso partecipare? E poi non essere stati vicini a un positivo può essere difficile per chi si è tirato su le maniche e sta dando una mano nelle Usca varie o in guardia medica. Il rischio beffa è dietro l’angolo. L’associazione ALS ha messo nero su bianco queste preoccupazioni. “Il Ministero della Salute ha più volte dichiarato che durante la pandemia molti giovani medici hanno contratto il virus per carenza di DPI - scrive - se un neolaureato impiegato nelle USCA ha contratto il Covid il 1° maggio non potrà partecipare al concorso anche se poi ha avuto due tamponi negativi?”. E ancora: “Non aver avuto contatti negli ultimi 14 giorni significa" indurre "dimissioni in massa di migliaia di medici impiegati nelle USCA, guardie mediche, sostituzioni di medicina generale". "Questi contratti sono a tempo - racconta al Giornale.it un medico che chiede l'anonimato - Quelli trimestrali e annuali si possono sospendere dando un preavviso di 30 giorni. Chi è che andrà a lavorare con il rischio di essere esposto? I neoabilitati daranno forfait, tutte queste postazioni resteranno vuote e forse non si riuscirà a garantire il servizio". Domande lecite, che fanno apparire il bando come “una trappola per ricorsi, con il rischio paralisi”. “Ragazzi scusate, ma chi è stato positivo al Covid come fa a fare l’iscrizione?”, si domanda una aspirante. Anche il Segretariato Italiano Giovani Medici (SIGM) ha sollevato le stesse problematiche e, come conferma al Giornale.it, ha già chiesto chiarimenti al ministero. Qualche medico ha pure provato a informarsi al Cineca, senza grossi risultati: “Il modello sarà fornito dal Ministero e non abbiamo alcuna indicazione al riguardo”. Intanto anche una delegazione del Pd e del forum sanità dei giovani dem è andata dal ministro Gaetano Manfredi per chiedere delucidazioni e modifiche alle frasi dubbie. Il rischio, altrimenti, è che ad essere beffati possano essere quei giovani medici che ogni giorno lavorano (e combattono) contro il virus. Uno smacco.

La denuncia. Da angeli ad appestati, operatori 118 cacciati da bar: “Non potete usare il bagno”. Redazione de Il Riformista il 18 Maggio 2020. Da angeli e supereroi del coronavirus ad appestati. Inizia in salita la Fase 2 per gli operatori del 118 a Napoli vittime di un episodio spiacevole avvenuto intorno alle 9 di questa mattina, lunedì 18 maggio. “Voi non potete usare il bagno” è questa la risposta fornita dal gestore di un bar alla postazione India del 118 che, dopo un intervento, si è fermata in un bar della centrale via Toledo per prendere due bottigliette d’acqua. Dopo aver pagato, l’operatore, considerato che l’ambulanza in questione non ha una postazione fissa con servizi igienici, chiede indicazioni per il bagno ma riceve l’inattesa risposta. A denunciare l’accaduto è l’associazione Nessuno Tocchi Ippocrate, da anni in prima linea per denunciare aggressioni e comportamenti incivili nei confronti dei sanitari di pronto intervento. “Dopo tale rifiuto l’equipaggio, basito e senza replicare, rientra in ambulanza e si allontana. Complimenti al gestore” commenta l’associazione. Non è la prima volte che, durante l’emergenza coronavirus, si verificano episodi del genere nei confronti del personale sanitario. Lo scorso 9 aprile, nel pieno della pandemia, Maurizio De Mauro, direttore dell’Azienda dei Colli di Napoli che comprende gli ospedali Monaldi-Cotugno-Cto, denunciò gli atti discriminatori che subivano i dipendenti dell’ospedale: “Qualcuno li ha considerati appestati, mi stringo vicino ai miei medici, infermieri e oss perché sono degli eroi, andrebbero abbracciati e non discriminati”. Il riferimento era ai problemi che hanno incontrato alcuni operatori dell’ospedale nel rientrare nelle proprie abitazioni e, dopo una giornata di duro lavoro, venivano tacciati come possibili untori dai loro vicini di casa. Un altro episodio assai spiacevole è andato in scena stamattina. Un dipendente dell’Azienda dei Colli è arrivato in taxi in ospedale: quando il tassista si è reso conto della destinazione ha iniziato a insultarlo pesantemente. Dura la reazione di Di Mauro: “C’è stato qualche nostro operatore discriminato perché lavora nei reparti dove si trattano malattie infettive. Questo non è corretto, non è giusto, anche perché abbiamo dimostrato al mondo di usare le tutele necessarie per non infettare noi stessi e non creare alcun disagio agli altri”.

Infermiere, da eroine a razza dannata. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 27 Giugno 2020. Non diamo la mano alle infermiere, in Italia. Meno peggio che in Francia, lì, a Farida, infermiera, in piazza a protestare per i diritti del personale sanitario, le hanno messo gli scarponi sulle mani, in faccia i manganelli, e invece delle carezze fra i ricci le hanno infilato artigli guantati per farle assaggiare la polvere, dopo la gloria tributatale nelle fasi più acute della pandemia.  In Italia le infermiere sono più discrete nelle rimostranze, i ritocchi economici li chiedono con pudore. Così, sfacciatamente glieli negano. Erano stati promessi loro bonus generosi che a curva covid in discesa sono diventati elemosine. Ma il trattamento economico non è il costume più mortificante, è che alle infermiere non si dà la mano: molte per mesi non sono tornate a casa, per non mettere in pericolo i famigliari o, tornando, si sono confinate in spazi minuscoli conducendo vite separate dai propri cari. I condomini, i vicini, hanno regalato sorrisi e saluti, solo da lontano, per tenere a distanza il male. E non è una vita facile, in ospedale i mostri bazzicano per tutti i giorni dell’anno, hanno nomi diversi dal covid, ma sono tanti, minacciano le infermiere e chi sta a contatto con loro. La loro professione le ha trasformate in una razza, quasi, verso cui utilizzare cautela, sempre. Che poi sono uomini e donne, eppure, per un riflesso culturale, dove c’è assistenza tutto va declinato al femminile: che la donna assiste e l’uomo riceve le attenzioni. E infatti il termine più usato in tempi recenti, verso il personale sanitario, è eroine, l’immaginario si è fissato sulle donne che assistono, così pure le gigantografie, i post sui social hanno violato le regole sul genere e si sono indirizzati a loro, sempre e solo infermiere pure se erano dottoresse, o.s.s., infermiere generiche o laureate, addette alle sanificazioni, operatrici tecniche. L’emergenza non è durata così a lungo da erigere loro statue, e statue dedicate alle donne, in genere, non è che ce ne siano tante in giro, pure per buttarle giù come un Montanelli qualsiasi, che se avesse brutalizzato un bambino non ci sarebbe stata una statua su cui discutere, e non ci sarebbero stati né usi né costumi, né epoche o anni ad attenuarne l’orrore che riesce invece a trasformare in donna una bambina: buona ad assistere, accudire, servire il guerriero. Fare l’amore con le infermiere è solo una leggenda metropolitana, per quanto sorridano, siano dolci, nelle corsie sono ricoperte dai nostri odori, umori, assorbono i nostri dolori, e con loro non siamo mai eccessivamente ossequiosi: di solito le trattiamo come il personale di un albergo, e se non sono leste a servirci, velocemente le ammoniamo col mantra dell’italiano medio, mediocre: “con le mie tasse le pagano lo stipendio”. Sì, è una fortuna che le infermiere in Italia non siano decise nelle rimostranze economiche. Come in Francia, come per Farida, sarebbe l’occasione giusta per accorciare le distanze fisiche, per sbattere loro la mano, da una parte qualunque.

ELISABETTA ANDREIS per il Corriere della Sera il 18 giugno 2020. La chiamata, nell'emergenza più cupa, aveva scosso tutta l'Italia. Da Nord a Sud infermieri e operatori sanitari avevano risposto all'appello di Regione Lombardia per essere arruolati nel nuovo ospedale dedicato al Covid realizzato in Fiera di Milano. A tutti gli assunti, dal primo giorno di servizio (7 aprile), è stato garantito l'alloggio spesato dalla Regione, in hotel. Era stato fatto firmare un foglio con la richiesta di mantenere quella condizione fino alla fine del contratto d'emergenza, fissato per quasi tutti al 31 luglio o, in qualche caso, al 30 settembre. Ed era stato dato a intendere fosse tutto a posto in quel senso. Venerdì scorso, però, la doccia fredda. Una ventina di infermieri, più gli operatori socio sanitari e diverse figure di supporto, si sono sentiti dire dalla reception dei loro hotel: «Entro due giorni dovete lasciare le camere, a meno che non vogliate pagarle di tasca vostra. La Regione ci chiede il check out entro 48 ore». Gli albergatori stessi si sono trovati spiazzati nel comunicare la notizia, figuriamoci i professionisti, quasi tutti giovani. Qualcuno ha trovato in fretta e furia un alloggio a pagamento («Sono andato ad abitare da un collega in un monolocale, ma non me lo posso permettere», riferisce un operatore che vuole rimanere anonimo, come tutti gli altri, per timore di ripercussioni). Qualche altro si è spostato al refettorio a pagamento del Policlinico, dove i professionisti sono stati ricollocati quando a sorpresa, il 5 giugno, la struttura inaugurata in pompa magna (e con grandi spese) alla Fiera ha chiuso i battenti, dopo soli due mesi di attività, visto che il drammatico allarme sanitario dei primi mesi era fortunatamente rientrato. La maggior parte degli infermieri e operatori socio sanitari è rimasta però in albergo dichiarando di non avere alcuna intenzione di lasciare le camere, e a loro è stata concessa una proroga fino a domani, 19 giugno, non chiarendo però a carico di chi sarebbero rimasti. «Ci siamo rimasti male anche noi, ci è arrivata una comunicazione inaspettata dal Policlinico e dalla Regione, dove si chiedeva il check out entro due giorni. E dove dovevano andare quei giovani? Ci è sembrato come di doverli scaricare dopo così tanto impegno», dice uno degli albergatori che li ospita.

Un altro: «Alloggiano da noi anche infermieri che sono andati ad aiutare in altri ospedali, come quello di Sesto. Per loro non ci era arrivata alcuna comunicazione sul check out, solo per chi aveva lavorato in Fiera - riferisce -. Sono persone d'oro, nell'emergenza si sono prodigati con spirito di servizio. Nel tempo libero non potevano neanche uscire dalla struttura, hanno accettato di vivere separati dalle loro famiglie. Era scontato che l'alloggio fosse pagato fino alla fine del contratto e non ci erano mai state date indicazioni contrarie, fino a venerdì scorso». Ancora ieri mattina una infermiera era nel panico: «Nessuno ci ha detto se i giorni di questa settimana ce li faranno pagare di tasca nostra».

Un altro: «Ho risposto alla chiamata dalla Sicilia, senza alloggio pagato non riesco a mantenermi a Milano. I patti non erano questi». E una Oss (operatrice socio-sanitaria): «Non ci hanno dato alcun preavviso, non si trattano le persone così».

Nel pomeriggio di ieri però, contattati dal Corriere , sono intervenuti prima il Policlinico e poi Regione Lombardia, con buone notizie. «Ci siamo impegnati a coprire noi i costi per la settimana di proroga, da domenica 14 a venerdì 19 giugno, e abbiamo attivato nel nostro convitto camere che sono a disposizione, a spese nostre», dicono da via Francesco Sforza. E la Regione: «Abbiamo allungato la convenzione e dunque la copertura della sistemazione alberghiera anche per chi ha lavorato alla Fiera, fino al 31 luglio». Ma, fino a ieri sera, ai lavoratori non era stata ancora alcuna comunicazione ufficiale.

«Vi racconto i 100 giorni dell’inferno a Cremona», la testimonianza di una dottoressa di Altamura. Parla Francesca, amica dell’infermiera premiata da Mattarella, fotografata proprio da lei, esausta, nel pronto soccorso. Franco Petrelli il 4 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La foto dell’infermiera Elena Pagliarini esausta nel pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, scattata dal medico altamurano Francesca Mangiatordi nei primi, terribili, giorni del Covid, ha fatto il giro del mondo. Quella immagine in bianco e nero è diventata un simbolo degli eroi in camice bianco, al punto che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha voluto includere anche la Pagliarini tra i destinatari della prestigiosa onorificenza di «Cavaliere al merito» (ne parliamo in altra pagina) per l’impegno esemplare nelle settimane della pandemia. Tra l’altro, l’infermiera lombarda ha contratto essa stessa il virus e ne è guarita. Francesca Mangiatordi, al telefono, commenta la notizia: «Grazie, Elena. Con la semplicità e l'umiltà che ti contraddistinguono hai dato voce a tanti tuoi colleghi e agli operatori sanitari che in questi mesi, tra gap burocratici e difficoltà effettive dovute a un “morbo” nuovo, hanno affrontato a testa alta questo enorme e complesso periodo». Quarantasei anni, sposata, madre di due figli di 13 e 11 anni, Mangiatordi lavora in Lombardia da due anni. Sta trascorrendo qualche giorno di meritato riposo in riva al lago d’Iseo. Il suo «viaggio all’inferno e ritorno» è durato cento giorni. Lavorare di fianco al coronavirus significa vedere pazienti morire, colleghi ammalarsi come la stessa Elena, camminare per ore nei nei corridoi, tra i letti di terapia intensiva che accoglievano persone intubate.

Dottoressa, tre mesi tremendi?

«Tutto è iniziato il 20 febbraio. La difficoltà era anche quella di capire come affrontare le conseguenze dell’infezione per via dell’interessamento di altri organi. La situazione è poi decisamente migliorata. Il pronto soccorso è la via di accesso all’ospedale e ora il numero di pazienti Covid è decisamente ridotto. In una giornata li contiamo sulle dita di una mano. Soprattutto ora non hanno bisogno di essere intubati o di una ventilazione forzata».

Avevate i dispositivi di protezione?

«Quelli li abbiamo sempre avuti, per fortuna. Una mia collega che lavorava in Spagna mi ha raccontato che loro usavano la stessa mascherina per 15 giorni consecutivi e per fortuna da noi non è mai accaduto. Il problema è che avere 200 accessi al giorno vuol dire che l’ospedale è saturo. In un giorno solo abbiamo avuto 218 accessi e in media ne entravano 180. Non avevamo posti letto».

Com’è l’inferno quanto ti arrivano di colpo 218 pazienti?

«Devi sistemarli nel miglior modo possibile e soprattutto dare un’assistenza dignitosa. Abbiamo tirato fuori lettini e brandine per gli ammalati con 40 di febbre. Molti collassavano, non ce la facevano a stare in piedi. Ogni ora l’infermiera mi chiamava dicendomi “dottoressa, questo paziente è svenuto”. I corridoi del pronto soccorso erano stracolmi di umanità sofferente. Passando, piangevo».

Ne ha visti morire tanti?

«In pronto soccorso per fortuna pochi. Comunque in tanti sono andati in Rianimazione. Per molti di loro l’evoluzione è stata verso il peggio. Abbiamo cercato di coprire i turni dei colleghi che si ammalavano. C’erano giorni in cui guardavamo il tabellario per vedere chi era in servizio».

Ha salvato molte vite?

«Non ho mai chiamato i pazienti per cognome ma per nome, per tranquillizzarli. Molti mi domandavano che fine avrebbero fatto. Altri vedevano intubare i pazienti di fianco e la paura cresceva. Cercavamo di rassicurarli ma i dati clinici spesso erano drammatici».

Ci racconti della famosa foto, per piacere.

«Elena lavorava con me, la notte tra il 7 e l’8 marzo. Quella notte ci fu la fuga dei meridionali dal nord. Lei era davvero provata perché aveva fatto un turno la notte prima. Ha lavorato con le lacrime agli occhi continuamente. Cercavamo di darci forza a vicenda. Ci sentivamo impotenti. Uno dei primi colleghi era stato intubato a inizio marzo. Ora è guarito. Elena crollò esausta sulla scrivania».

Come ha gestito i rapporti con la famiglia?

«Mio padre ha la demenza senile e mia madre si prende cura di lui. Stanno ad Altamura. Spero di riabbracciarli a fine mese. Li ho sempre rassicurati, cercando di non rivelare dettagli su quelle settimane “in trincea” perché non volevo che si preoccupassero»

«Sono un medico, un anestesista rianimatore. O almeno credevo di esserlo prima del virus». «Tutti questi sacrifici valgono la pena. Perché assistere alla prima estubazione, poi alla seconda e alla terza e così via mi dà speranza.  Mi riempie il cuore di gioia vedere i “sopravvissuti” uscire dalla terapia intensiva. Mi fa credere che non è tutto perduto»: medici, dottoresse e infermieri raccontano in prima persona le loro esperienze con i malati più gravi di Covid-19. Francesca Sironi il 07 maggio 2020 su L'Espresso. La voce senza filtri di medici, dottoresse e infermieri che affrontano Covid-19. Le loro paure, il dolore per i pazienti, la felicità per ogni guarigione. È “Scriviamo la storia”, uno spazio aperto dalla Società italiana di anestesia e rianimazione per dare agli operatori la possibilità di raccontare le proprie emozioni in forma anonima e protetta. Fa parte di un programma più ampio che mette a disposizione counseling gratuito e informazioni per far conoscere la realtà della terapia intensiva. Le testimonianze raccolte in questi mesi sono spesso difficili da leggere. Perché non approssimano, non sgrammano di nulla il peso della realtà pur di renderla accettabile. Una delle poesie più famose di Erich Fried iniziava così: «È assurdo / dice la ragione / È quel che è / dice l’amore». Anche se parlano di dolore e resilienza, più che d’amore, questi racconti nascono dalla stessa evidenza: la verità è quello che è. Per chi ha vissuto una sofferenza troppo grande lo stesso gesto di scrivere, e condividere, è un aiuto. Ma queste testimonianze servono molto anche a chi è “fuori” dagli ospedali: per non rimuovere, come ricorda il coordinatore Giovanni Mistraletti - «vogliamo creare un archivio di testimonianze dei fatti storici di cui siamo protagonisti», scrive: «perché in futuro nessuno possa negare l’accaduto o il nostro impegno, né il contesto lavorativo incredibile in cui ci troviamo ora». Anche per questo, il coraggio di queste parole va ringraziato. Ecco alcune delle testimonianze caricate ogni giorno su vissuto.intensiva.it.

Cos’è l’empatia - 13 Aprile 2020. Relativamente è da poco che svolgo questa professione, quasi due anni. [...] Ho cercato di aggiornarmi e perfezionarmi il più possibile. L’unica cosa in cui mi sono sempre sentito in difetto è stata quella dose di empatia necessaria, che so già da me che è molto importante in questo lavoro, ma che per storia affettiva personale o per doti caratteriali, ancora non so se riuscirò a sviluppare più o meno lentamente. [...] Alle 6 della mattina scorsa ero in procinto di smontare dalla notte. 

Sindrome di Burnout: 7 medici su 10 ne soffrono. Marco Alborghetti il 17 maggio 2020 su Notizie.it. L'emergenza coronavirus ha aumentato vertiginosamente i ritmi di lavoro dei medici che ora si ritrovano a dover fare i conti con crolli improvvisi. Uno studio condotto nelle prime 4 settimane dell’emergenza sanitaria in Italia ha rivelato che circa 7 operatori sanitari su 10 abbiamo mostrato sintomi evidenti di burnout, una sindrome che sta incidendo molto sulla salute psico-fisica di medici e operatori sanitari che nel breve potrebbero risentirne anche sul lato psicologico. Sindrome di Burnout: stress da lavoro dei medici. La salute psico-fisica dei medici e operatori sanitari è stata messa a dura prova in questi mesi di epidemia, e non di certo una novità che la maggior parte di essi abbia accusato dei crolli psicologici e un esaurimento da stress che adesso possiamo meglio descrivere con la sindrome di burnout. Uno studio elaborato dal Centro di Ricerca EngageMinds HUB che fa parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in collaborazione con la Società Italiana di Management e Leadership in Medicina (SIMM) e con il Segretariato Italiano Giovani Medici (S.I.G.M.), ha evidenziato infatti come nelle prime 4 settimane dell‘emergenza coronavirus 7 medici su 10, quindi il 70% abbia accusato un forte stress per la mole imponeete di lavoro a cui è stata sottoposta.

Cos’è il burnout. Il burnout è un problema che accomuna molti lavoratori indefessi. Alla sua origine troviamo ritmi di lavoro e carichi talmente frenetici da spingere l’individuo verso una forma di esaurimento lavorativo.

Da maggio 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne ha riconosciuto lo status di sindrome, con dei sintomi ben definiti quali la sensazione di esaurimento, sia mentale sia fisico, il distacco mentale dal proprio lavoro, spesso accompagnato da negatività e in alcuni casi, una conseguente riduzione della propria produttività. Completano il quadro una mancanza di stima o senso di inadempiezza dovuta a lavori non portati a termine nelle giuste consegne.

In prima linea. Serena Barello, ricercatrice di EngageMinds e responsabile dello studio, ha così commentato gli esiti delle rilevazioni effettuate. “Mentre la crisi Covid-19 ha messo sotto pressione i servizi sanitari in tutto il mondo e i governi si sono mossi per rallentare la diffusione del virus, gli operatori sanitari sono dall’inizio in prima linea nella gestione quotidiana della pandemia”. “Il personale sanitario si è trovato a dover fronteggiare una situazione estremamente stressante e complessa, dai tratti imprevedibili, mettendo a serio rischio la propria salute non solo fisica, ma anche emotiva e psicologica, salute già messa a dura prova in tempi ordinari e che ora potrebbe, inasprire aspetti di vulnerabilità la cui tenuta è già precaria” conclude la ricercatrice.

Riceviamo e pubblichiamo da una dottoressa il 9 marzo 2020. Caro Dago, ti scrivo dal fronte di questa guerra silenziosa ma estenuante che stiamo combattendo. Sono una dottoressa di un ospedale che non si trova nella zona rossa né in quella arancione, almeno per il momento. Anche il mio compagno è medico e per evitare di poterci contagiare l’uno con l’altro non viviamo più insieme. È una scelta di responsabilità, se fossimo contagiati non saremmo soltanto due numeri in più nelle tabelle che quotidianamente vengono aggiornate e pubblicate, ma due professionisti sanitari che vengono meno. Ci priviamo della nostra intimità, oltre che di tutto il resto. Lavoro 16 ore al giorno, non posso più leggere un libro, vedere un film, usare il mio cervello per pensare alle mie passioni, al mondo, alla bellezza. Alla mia vita, di cui mi sto privando in questi giorni con senso del dovere e passione per il mio lavoro.  In tutto questo, mentre noi siamo circondati dai malati e costretti a scegliere chi intubare e chi no, cioè chi può sopravvivere e chi no, con una pressione psicologica indicibile, l’altro giorno un pubblico ufficiale mi ha chiesto di fare un certificato per non andare nelle aree di Milano. E mi viene da pensare che non siamo cambiati più di tanto dall’8 settembre… 

Infermiera insultata: “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni”. Le Iene News il 29 aprile 2020. "Grazie per il Covid che ci porti ogni giorno. Ricordati che qui ci sono anziani e bambini”. Questo il biglietto che si è trovata Damiana, un infermiera che ogni giorno combatte in prima linea il coronavirus. Con Alice Martinelli siamo andati a conoscerla e a farle una piccola sorpresa. L’emergenza coronavirus ha portato al centro dell’attenzione mondiale la categoria degli operatori sanitari: dottori e infermieri che ogni giorno rischiano la loro vita per aiutare tutti noi. “Eroi in prima linea” così li chiama la rivista Time, che ha dedicato loro una copertina. Ma non tutti evidentemente la pensano così: c’è anche chi ha paura di loro e chi li tratta da untori. “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni. Ricordati che in questa casa ci sono anziani e bambini”: questo il messaggio che si è trovata a casa Damiana, un’infermiera dell’ospedale di Lucca. Ed è proprio lì che ci incontriamo con lei. “Siamo rimasti sconcertati, siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti bravi, siamo eroi… ma facciamo paura”, ci dicono subito i colleghi di Damiana. “Nessuno può pensare che sia così fortunato da non ammalarsi di Covid, invito tutti a riflettere su questo”, aggiunge Sauro Luchi, primario del reparto malattie infettive. Ma come è andata esattamente? “Ho trovato questo biglietto nella mia cassetta delle lettere ma, ferita e stanca, non ho neanche reagito”. E dopo questo biglietto è cambiato qualcosa? “No, nessuno è venuto da me, non ho visto più nessuno, come se non fosse successo nulla”. Così decidiamo di andare noi a capirci qualcosa in più. “Non c’è assolutamente odio, se non grandissimo rispetto”, ci dice la prima signora che incontriamo. E ci viene in mente un’idea: perché non fare una sorpresa a Damiana e raccogliere messaggi di solidarietà da lasciarle a casa? Detto fatto, passiamo di porta in porta e nessuno sembra essere l’autore del messaggio! Casa dopo casa, vicino dopo vicino, tutti contribuiscono a questa iniziativa: anche chi ha bisogno di un aiuto per scrivere. Passano poche ore e la nostra scatola è già piena: non ci resta che andare a prendere Damiana. “Un grosso ringraziamento per quello che fai”, “continua a fare il tuo lavoro con la tua grande passione”: biglietto dopo biglietto, lettera dopo lettera, finalmente Damiana si rende conto che è molto apprezzata dai vicini. Emozionata e finalmente di nuovo con il sorriso vuole lanciare un ultimo messaggio: “Non abbiate paura di noi, non ci scansate… né ora e neanche fra due mesi”. Grazie Damiana e grazie a tutti gli infermieri che ogni giorno combattono questa immensa battaglia.

Coronavirus, le mani arrossate dell’infermiera: «Si fa a pugni col Corona». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Barbara Visentin. La mano arrossata, con le nocche violacee come se avessero preso una botta, e la pelle che si rompe. Dopo una settimana a fare turni massacranti da 13 ore con i guanti sempre addosso un’infermiera mostra i segni che porta sulla pelle: «Non ho preso a pugni nessuno - scrive Silvia Cini, 29 anni, in forze al pronto soccorso di Careggi, a Firenze -. In ospedale porto sempre i guanti Med Vinyl free, non ho mai avuto dermatiti da contatto. Ultimamente tocca spesso lavorare 13 ore a fila. Tredici ore con i guanti, ogni cambio di guanti un lavaggio di mani, ogni lavaggio una disinfettata e di nuovo un altro paio di guanti. In una settimana mi sono spaccata le mani. Si fa a pugni col Corona, con la speranza che non sia lui a prenderci a pugni. Se vi e ci volete bene #stateacasa». Silvia ha postato il suo appello e la foto della sua mano su Facebook. Una conseguenza visibile delle giornate di lavoro lunghissime e dello sforzo costante a cui lei e tutto il personale sanitario sono costretti in queste settimane, mostrata per ricordare alle persone che, rimanendo a casa, possono contribuire a combattere quella guerra, non rendendola vana. La sua immagine si aggiunge alle foto dei volti arrossati da occhiali e mascherine, stravolti dalla stanchezza, che medici e infermieri stanno postando durante la loro lotta al Covid-19, per chiedere a tutti di essere altruisti e fare la propria parte, restando a casa. 

Coronavirus, il post dell’infermiera: «Ho paura di andare al lavoro, ma continuerò a farlo». Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Greta Sclaunich. «Sono un’infermiera e in questo momento mi trovo ad affrontare questa emergenza sanitaria». Comincia così il post di Alessia Bonari che in queste ore ha iniziato a circolare sui social. «Ho paura anche io, - scrive la giovane toscana - ma non di andare a fare la spesa, ho paura di andare a lavoro». «Ho paura perché la mascherina potrebbe non aderire bene al viso, o potrei essermi toccata accidentalmente con i guanti sporchi, o magari le lenti non mi coprono nel tutto gli occhi e qualcosa potrebbe essere passato», spiega la giovane. E ritorna sul tema dei turni massacranti che già nei giorni scorsi sono stati evidenziati, sempre sui social, da altri colleghi (come nella foto dell’infermiera distrutta dal lavoro, postata sui social da una dottoressa che voleva così sensibilizzare gli utenti): «Sono stanca fisicamente perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto. Continuerò a curare e prendermi cura dei miei pazienti, perché sono fiera e innamorata del mio lavoro». «Quello che chiedo a chiunque stia leggendo questo post - conclude - è di non vanificare lo sforzo che stiamo facendo, di essere altruisti, di stare in casa e così proteggere chi è più fragile. Noi giovani non siamo immuni al coronavirus, anche noi ci possiamo ammalare, o peggio ancora possiamo far ammalare. Non mi posso permettere il lusso di tornarmene a casa mia in quarantena, devo andare a lavoro e fare la mia parte. Voi fate la vostra, ve lo chiedo per favore».

Caldo, afa .... sensazione di respiro corto, goccioline di sudore che cadono dal viso, un viso che senti sciogliere...Pubblicato da Martina Benedetti Martedì 10 marzo 2020.

Dagospia il 14 marzo 2020. Da I Lunatici Radio2. Martina Benedetti, infermiera che opera nel reparto di terapia intensiva e rianimazione del Noa a Massa, ha commosso l'Italia con una foto pubblicata sul proprio profilo Facebook che in poche ore ha raccolto più di 80.000 like e 30mila condivisioni. Nella notte ha raccontato la sua storia ai Lunatici di Rai Radio2, programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dalla mezzanotte e mezza. Martina ha parlato di come è nato il post che ha commosso l'Italia: "Sono uscita alle 22 dal turno di pomeriggio e mi sto un attimino rilassando dopo questi giorni di fuoco. Non è facile, non è per niente facile timbrare ogni mattina il cartellino e trovarsi nella situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un grande sforzo fisico, uno sforzo che non fa che aumentare il disagio a livello emotivo. Il mio post nasce da uno smonto notte. Avevo tutti questi segni sul viso di questa mascherina, dei dispositivi di protezione che usiamo per proteggerci dal contagio, mi sentivo attonita, atterrita, mi sono fatta questa foto, non avrei mai pensato di pubblicarla. Poi mi sono venute delle sensazioni, delle parole, le ho condivise. Non pensavo di ricevere così tanti messaggi". Martina lavora presso la rianimazione e terapia intensiva del Noa, a Massa: "Molte persone mi hanno scritto cose bellissime. Tanto affetto. Tanti mi hanno scritto che dai dati e dalle statistiche non capivano. Con una testimonianza più umana, invece, si sono resi conto. Quando abbiamo preso il primo paziente positivo per il Covid 19 ci ha spiazzato. Ora la nostra rianimazione è praticamente satura. E siamo diventati un set Covid. E rispetto alla Lombardia, ad esempio, da noi la situazione pare ancora sotto controllo. L'attrezzatura che indossiamo è indispensabile per proteggerci, ma rende il lavoro molto più pesante. Speriamo di riuscire a risolvere il problema dei dispositivi di protezione individuale che scarseggiano. I camici impermeabili e le tute fino a poco tempo fa erano contate, ora stanno arrivando. E poi le mascherine al momento sono carenti. Speriamo arrivino presto e per tutti. Ci sentiamo un po' insicuri nel fare il nostro lavoro senza i dispositivi giusti e nelle quantità sufficienti". Martina ha raccontato: "Da quando abbiamo il primo paziente Covid 19 non ho più contatti sociali. Evito le mie nonne, anziane. Non vedo la mia bisnonna di 102 anni. Evito i contatti con i bambini, le mie amiche, le persone più fragili della mia famiglia. Vivo in casa segregata e mi sposto solo per andare a lavorare. Molte persone sottovalutano il nostro sacrificio. Spero che quando tutto questo sarà finito ci si ricordi di noi. Non solo da un punto di vista del riconoscimento sociale, ma anche contrattuale e remunerativo. La maggior parte di noi infermieri si sente abbandonata". Ecco come Martina ha deciso di diventare infermiera: "Volevo fare giurisprudenza alle superiori. Volevo anche scrivere libri per bambini. L'idea di diventare infermiera è nata con l'associazionismo. Quando ero alle superiori ho avuto la fortuna e l'onore di far parte dell'associazione "Un cuore un mondo" che opera presso un ospedale pediatrico di Massa. Tramite questa associazione andavo ad assistere i bambini cardiopatici negli ospedali. Da lì mi è nata la passione per questo lavoro. E' stata la svolta che mi ha fatto cambiare strada".

Da repubblica.it il 3 aprile 2020. Quella fotografia era diventata un'immagine simbolo nelle prime settimane dell'emergenza. Elena Pagliarini, infermiera del Pronto soccorso dell'ospedale di Cremona, era stata fotografata da un collega medico quando a fine turno, sfinita, si era addormentata con la testa sulla tastiera del computer, con la mascherina e il camice ancora indosso. Dopo quella fotografia l'infermiera ha scoperto di essere positiva ed è stata posta in isolamento, in attesa di guarire. Oggi - come racconta il sito Cremonasipuò, laboratorio politico del sindaco di Cremona Gianluca Galimberti - dopo un primo tampone con esito negativo aspetta il responso del secondo. Se anche questo dovesse essere negativo potrà rientrare al suo lavoro, con i colleghi che da settimane sono in emergenza coronaviurs. "Era l'8 marzo, le 6 di mattina, la Festa della donna - ricorda Elena, 43 anni, dal 2005 in ospedale -. Durante la notte era successo di tutto, una notte fatta di corsa tra i letti dei pazienti gravi che con i loro sguardi angosciati chiedevano aiuto e non capivano cosa stesse succedendo. Avevo anche pianto". La foto è stata scattata, un'ora prima della fine del turno cominciato alle 9 della sera precedente, da un medico, la dottoressa Francesca Mangiatorti. "Non me ne sono accorta - continua l'infermiera -. Poco dopo l'istantanea è stata pubblicata su Facebook e da quel momento è iniziato il tam-tam". Il 10 marzo ha fatto il tampone, dal 13 è partito l'isolamento. Racconta sempre al sito Cremonasipuò: "Tutti i giorni mi sento con le mie colleghe, la mia seconda famiglia. Siamo un bel gruppo. Non parliamo mai di lavoro perché loro non vogliono preoccupare me e io non voglio preoccupare loro". Elena vive da sola. "Sto benissimo, grazie al cielo non ho nessun tipo di disturbo, a parte la mancanza del gusto e dell'olfatto. La quarantena è pesante ma mi anche dato modo di fare lunghe riflessioni, un lavoro di introspezione. Ho riscoperto il piacere di stare a casa e ritrovato quello di leggere. Per ammazzare il tempo ho sistemato gli armadi". L'attesa del secondo tampone è carica di progetti: "Non vedo l'ora di tornare in mezzo ai miei colleghi e alla mia professione, una professione che adoro. Tutti i giorni si rischia, ma è il mestiere che ho scelto, una scelta di cui sono fermamente convinta. Mi spaventa, invece, psicologicamente l'idea di incontrare gli sguardi che ho visto quella volta. Non li dimenticherò mai, mai. Ho ancora tanta angoscia nel mio cuore. Ho perso degli amici e il papà di uno di loro. Quando tutto questo finirà, dovremo guardarci intorno e vedere chi è rimasto. Ho paura che mancherà qualcuno di cui non mi sono accorta". Nei giorni scorsi l'infermiera ha mandato un messaggio al sindaco Galimberti, anche lui in isolamento essendo risultato positivo: "Volevo augurargli, essendo in quarantena anche lui, buona guarigione e ringraziarlo per ciò che sta facendo per l'ospedale e la città. Lo sento molto vicino. Tutto qui".

Coronavirus, la foto dell’infermiera distrutta dal lavoro fa il giro del web. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. Sono le sei del mattino. Nelle corsie del pronto soccorso dell’ospedale di Cremona ci sono donne e uomini che hanno passato la notte al lavoro. E tra le tante c’è lei, un’infermiera che dopo il turno crolla. Ha ancora la mascherina sul volto, il camice, i guanti in lattice. Appoggia la testa sulla scrivania del reparto e chiude gli occhi per cinque minuti, dopo ore di ritmi serrati, di lavoro incessante. Dietro di lei c’è un medico del pronto soccorso che entra e vede la scena. Prende il cellulare e scatta una foto che nel giro di poco diventa virale: è il suo modo per dirle «grazie» e per incorniciare il suo lavoro. L’ospedale di Cremona, che contattato dal Corriere della Sera ha confermato la storia dell’infermiera, è uno di quelli in prima linea nell’emergenza Coronavirus. In quella provincia i contagi sono 665, sono aumentati di 103 persone nel giro di un giorno. La foto diventata virale è il simbolo del lavoro senza sosta di questi giorni dei sanitari. L’infermiera appoggia la testa sulla scrivania dopo un turno di lavoro. Non si sa nient’altro di lei, se non che l’indomani tornerà in trincea.

Coronavirus, la dottoressa che ha ritratto l’infermiera di Cremona: «Vorrei che questa foto fosse un invito ad aiutarci. Come? Restando a casa». Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. «È stato un momento di sconforto, il turno stava per finire e io mi sentivo impotente. Prima di addormentarmi avevo pianto a dirotto, poi sono crollata. Non pensavo che la fotografia suscitasse tanto interesse». Elena Pagliarini è l’infermiera protagonista della foto che ha fatto il giro del web. E’ stata scattata alle sei del mattino, dopo una notte di lavoro al pronto soccorso dell’Ospedale di Cremona, uno dei più colpiti dall’emergenza coronavirus: Pagliarini ha appoggiato la testa sulla scrivania e ha chiuso gli occhi, ancora con la mascherina sul volto, il camice, i guanti in lattice. «Da un lato mi ha molto imbarazzato trovarmi su tutti i giornali – racconta al Corriere della Sera –, ho provato vergogna nel mostrare il mio lato più fragile. Dall’altro sono contenta: ora sul cellulare arrivano messaggi bellissimi da parte di persone che si sono immedesimate nella mia storia». Un’infermiera che ci crede. «Ho molta passione per il mio lavoro – continua Elena La dottoressa Mangiatordi, autrice della foto–, lo faccio senza voler essere ringraziata. In realtà non mi sento stanca fisicamente, potrei lavorare anche ventiquattr’ore di fila se necessario. Non nascondo che in questo momento sono in ansia perché sto combattendo contro un nemico che non conosco. Non vedo l’ora che tutto finisca». A scattare la foto, alla fine di quel turno, è stata Francesca Mangiatordi, medico del pronto soccorso di Cremona. «Vedere Elena stremata dormire su un cuscino di fortuna e sulla tastiera del computer, dopo molte ore in turno, mi ha suscitato profonda tenerezza – ci racconta –. Con quella foto ho voluto raccontare la nostra umanità: siamo donne e uomini, e nonostante i ritmi serrati questi giorni, troviamo sempre il giusto spirito e l’energia per continuare». Poi l’appello: «Vorrei che questa foto diventasse un invito ad aiutarci: state a casa, rispettate le regole, perché questo è l’unico modo per starci vicino». Sono giorni difficili: «La stanchezza fisica passa – continua Mangiatordi –, è il lato emotivo che ci segna di più: le scene che vediamo sono quelle che ci portiamo a casa la sera». Poi il discorso si tronca, dottoressa e infermiera devono tornare in corsia. Mascherina, camice, un respiro profondo. La porta scorrevole del pronto soccorso si apre. È un nuovo giorno, si ricomincia.

Paolo Griseri per repubblica.it il 10 marzo 2020. Poi ha spinto la tastiera verso il computer e ha piegato un lenzuolo sulla scrivania, per appoggiarci la testa. "Non era ancora finito il turno ma ero stremata". Elena Pagliarini quasi si giustifica. A 40 anni, da 15 in ospedale, si stupisce ancora: "Dopo quella foto mi chiamano in tanti. Mi ringraziano. In un periodo normale mi avrebbero criticato".

Com'è andata quella notte?

"Qui al pronto soccorso dell'ospedale di Cremona avevo iniziato il turno alle nove della sera prima. Erano le sei del mattino. Ma quella notte era successo di tutto. La mia primaria, che è una mia amica, ha fatto la foto".

Che cosa ha visto quella notte?

"La sala piena di pazienti spaventati. Moltissime persone in insufficienza respiratoria molto grave. Gente di tutte le età. Persone che improvvisamente, di colpo, avevano difficoltà a respirare, la febbre saliva in modo repentino. Sa qual è la cosa che ci colpiva di più? Che non dicevano niente. Erano nel letto e tacevano. Però avevano gli occhi della paura e quelli parlavano per tutti loro".

Non le era mai capitato?

"Mai. Turni stancanti, situazioni difficili le ho vissute, come tutti coloro che fanno il mio mestiere. Ma così no. Perché qui noi non conosciamo a fondo la malattia. Non ci sono manovre, tecniche, farmaci sicuramente efficaci. E bisogna fare in fretta, intervenire all'improvviso per combattere quelle crisi respiratorie".

Non se l'aspettava? In fondo in Cina succede da qualche mese...

"Fino a pochi giorni fa la Cina era in televisione. Adesso Wuhan è arrivata da noi. Quando ti capita sulla tua pelle, quando coinvolge il tuo gruppo di lavoro, è tutta un'altra cosa".

Come ha raccontato tutto questo in casa, ai suoi amici?

"Io vivo sola e sto bene così. Ma da qualche ora, da quando quella fotografia ha fatto il giro del mondo, tutti mi chiamano, mi chiedono, vogliono sapere. E io provo a spiegare che non mi piace, non sono abituata a essere in prima linea. Io vivo nelle retrovie, fuori dai riflettori. Pensi che non mi piace neppure essere fotografata. E quando capita, nelle fotografie non sorrido mai. Non mi piace espormi".

Ma nella vita sorride?

"Nella vita sorrido, certo. Con gli amici e con i miei colleghi di lavoro. Oggi è quella fotografia che fa il giro della rete, ma in questo ospedale lavoriamo tutti insieme, se riusciamo a salvare delle persone è perché siamo un gruppo di colleghi e amici che collabora insieme. Anche per questo la mia dottoressa ha voluto immortalarmi in quello scatto. Per far capire quel che tutti noi stiamo facendo, quanto impegno stiamo dedicando per combattere questo virus sconosciuto. Siamo un grande gruppo, mi creda".

Perché dice che in un altro momento sarebbe stata criticata?

"Glielo confesso. Quella mattina il mio turno finiva alle sette. Io sono crollata alle sei, un'ora prima. In un momento normale avrebbero detto: "Ecco l'infermiera che si addormenta durante il turno di lavoro"".

Da liberoquotidiano.it il 10 marzo 2020. Il sistema sanitario è allo stremo, colpito pesantemente da un'epidemia che non accenna a rallentare. A raccontare la situazione disperata degli ospedali italiani è Orietta, la figlia di un infetto in una lunga intervista alla Stampa. "Ad oggi non so neppure se mio padre sia arrivato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Crema. So solo che, quando ho chiamato domenica, mi ha risposto un medico che era molto preso. Mi ha detto: 'Signora, deve capire, noi siamo nella m... Il papà è intubato e sedato in sala operatoria, in attesa che si liberi un posto in terapia intensiva'". Eppure da quel momento alla morte dell'uomo sono passate cinque ore. In queste cinque ore nessuno le ha detto nulla. A comunicare che era venuto a mancare ci hanno pensato le forze dell’ordine. "Il giorno dopo si è presentato a casa il maresciallo dei carabinieri. Non so dire che cosa ho provato quando l’ho visto: avevo già capito". Orietta ancora non sa cosa sia successo al padre. Sinonimo, questo, di un'Italia allo sbando.

Ida Di Grazia per "leggo.it" l'11 marzo 2020. Coronavirus, l'appello di Alessia l'infermiera con i segni della maschera: «Sono stanca ma faccio la mia parte, voi la vostra». Il viso stanco e segnato dalle ore e dalla fatica, un grande messaggio e un esempio di dedizione, lei è Alessia un'infermiera che con questa foto rappresenta i veri eroi dei nostri giorni. «Sono un'infermiera e in questo momento mi trovo ad affrontare questa emergenza sanitaria. Ho paura anche io, ma non di andare a fare la spesa, ho paura di andare a lavoro. Ho paura perché la mascherina potrebbe non aderire bene al viso, o potrei essermi toccata accidentalmente con i guanti sporchi, o magari le lenti non mi coprono nel tutto gli occhi e qualcosa potrebbe essere passato». Alessia Bonari è un'infermiera, non è famosa ma lo sta diventando con il suo esempio. Sul suo account Instagram ha postato una foto in camice, probabilmente scattata in quei rari momenti di pausa durante il suo turno di lavoro, mostrando tutta la fatica che il personale sanitario sta affrontando per combattere l'emergenza Coronavirus.  Il volto è segnato dalla stanchezza ma ha anche dei piccoli lividi a causa della maschera, il suo post sta facendo il giro del web ed è un esempio per tutti noi : «Sono stanca fisicamente perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto. Continuerò a curare e prendermi cura dei miei pazienti, perché sono fiera e innamorata del mio lavoro». Il suo post ha superano i 100 mila like, lei ke non è un'inflencer di professione ma che ha un messaggio importante da dare : «Quello che chiedo a chiunque stia leggendo questo post è di non vanificare lo sforzo che stiamo facendo, di essere altruisti, di stare in casa e così proteggere chi è più fragile. Noi giovani non siamo immuni al coronavirus, anche noi ci possiamo ammalare, o peggio ancora possiamo far ammalare. Non mi posso permettere il lusso di tornarmene a casa mia in quarantena, devo andare a lavoro e fare la mia parte. Voi fate la vostra, ve lo chiedo per favore».

(ANSA il 9 marzo 2020) - Sessanta medici di famiglia a Cosenza sono stati posti in quarantena dopo aver avuto contatti, negli ultimi giorni, con un informatore farmaceutico risultato positivo al nuovo coronavirus. Lo afferma all'ANSA Silvestro Scotti, segretario della Federazione dei Medici di Medicina Generale (Fimmg). La situazione, rileva, "è preoccupante. A seguito della quarantena per questi 60 colleghi, infatti, circa 70mila cittadini calabresi da oggi si ritroveranno sprovvisti del medico di base cui fare riferimento".

 (ANSA il 12 marzo 2020) - Nella sola provincia di Bergamo "sono ad oggi cinquanta i medici infettati", uno di questi è morto nei giorni scorsi, che con gli altri due decessi di camici bianchi in Lombardia e Veneto portano a tre le vittime fra i medici. Lo rende noto il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, nella lettera inviata al premier Conte per chiedere la sospensione dell'accesso libero dei pazienti agli ambulatori per contenere i contagi. E' "a rischio l'efficacia dell'assistenza".

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 24 marzo 2020. Non siamo riusciti a difendere chi ci doveva difendere. Sono oltre 5.000 gli operatori sanitari contagiati, il 9 per cento dei totali dei positivi. Ci sono medici, infermieri, ma anche il resto del personale degli ospedali, dai tecnici delle radiologie a chi fa le pulizie. Il bilancio si aggrava giorno dopo giorno, ci sono già 24 medici morti come racconta il sito della Federazione nazionale degli Ordini, che pubblica una sorta di antologia di Spoon River dei camici bianchi uccisi dal coronavirus. «Elenco dei Medici caduti nel corso dell'epidemia di Covid-19» è il nome che è stato dato alla pagina del sito. Cosa è stato sbagliato? «C'è il termoscanner nelle stazioni e negli aeroporti e non c'è negli ospedali» ha osservato il presidente dell'Ordine dei medici di Forlì, Michele Gaudio. «Fanno i tamponi ai calciatori ma non ai medici e infermieri» è una delle frasi più ricorrenti tra i camici bianchi. Bisognerà riflettere a lungo sulla scelta iniziale di non sottoporre tempestivamente ai test i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che nelle corsie, ma anche negli studi, sono entrati in contatto con pazienti positivi. I tamponi si facevano solo, nella maggior parte dei casi, ai sintomatici. Per non sguarnire i reparti, chi stava bene continuava a lavorare, ma poiché gli asintomatici trasmettono il virus, negli ospedali della Lombardia prima, poi in quelli di altre regioni, si sono prodotti drammatici effetti moltiplicatori del contagio. Sullo sfondo, certo, c'è stato anche qualche comportamento imprudente, qualche viaggio o qualche brindisi di troppo anche tra la classe medica, ma la maggioranza è rimasta contagiata mentre era in prima linea. Disarmata. Uno degli altri gravi problemi è stata la carenza di dispositivi, dalle mascherine alle tute di protezione. Ora si sta correndo ai ripari: quasi tutte le regioni hanno annunciato che si faranno molti più tamponi a medici, infermieri e operatori sanitari; si stanno rifornendo ospedali e studi con mascherine e dispositivi di protezione, ma rischia di essere tardi. Racconta Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei medici di Roma, che parla del Lazio, ma fa un ragionamento che vale per tutto il Paese: «Solo nella Capitale abbiamo 84 medici positivi. Due sono ricoverati in osservazione, gli altri sono in isolamento domiciliare. Per fortuna non sono gravi, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato. C'erano poche mascherine, non sono stati eseguiti sufficienti tamponi. Se non si proteggono gli operatori, non si proteggono neppure i cittadini». L'assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D'Amato, ha confermato: «Stiamo facendo più tamponi a medici, infermieri e operatori. Quando saranno pronti i test rapidi che si stanno sperimentando al Gemelli, sarà ancora più semplice controllare tutti coloro che si trovano nei posti più a rischio». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto «un immediato cambio di strategia nel Lazio per tutelare chi lavora negli ospedali», ma in realtà la situazione è critica in tutte le regioni. Dei 24 medici deceduti e positivi al coronavirus, venti erano della Lombardia, la regione che ha visto un'avanzata incontrollata del contagio anche e soprattutto negli ospedali. A Napoli quattro specializzandi hanno rifiutato l'assunzione, secondo Silvestro Scotti, presidente dell'Ordine dei Medici locale, anche perché i camici bianchi devono operare «a mani nude o con strumenti inadeguati». Osserva Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, la fondazione che in questi giorni sta raccogliendo i dati sul personale medico e infermieristico contagiato: «A giudicare dalle innumerevoli narrative e dalla mancata esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e gli operatori sanitari, il numero ufficiale fornito dall'Istituto superiore di Sanità è ampiamente sottostimato. Un mese dopo il caso 1 di Codogno, i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell'impreparazione organizzativa e gestionale all'emergenza. Sollecitiamo l'esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e operatori sanitari, nonché l'integrazione delle linee guida Iss per garantire la massima protezione a chi è impegnato in prima linea contro l'emergenza coronavirus». In Lombardia quindici lavoratori positivi hanno denunciato l'Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano per avere tenuto «nascosti casi di lavoratori contagiati e impedito l'uso delle mascherine per non spaventare l'utenza». Replica della direzione: «Notizie false e calunniose, fin dal 24 febbraio abbiamo seguito i protocolli dell'Istituto superiore della Sanità, non c'è stata alcuna inadempienza».

Picco di contagi tra medici  e infermieri: «Ci mancano anche le mascherine». Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Domenico Crisarà, vicesegretario della federazione dei medici di famiglia Fimmg, si stava preparando per andare a sostituire la prossima settimana da Padova un collega con studio a Vo’ ricoverato con polmonite da Sars-CoV 2 e ancora in convalescenza. «Il problema stavolta è stato risolto, ma noi siamo in grande sofferenza. Sarà sempre più difficile non lasciare i pazienti da soli», profetizza citando i dati del segretario Fimmg, Silvestro Scotti: i medici di famiglia mancanti perché in quarantena, isolamento o ricovero sono circa 150. «E abbiamo un gran bisogno di mascherine, molti di noi lavorano non protetti», aggiunge Claudio Cricelli, presidente della società Simg. C’è un’emergenza nell’emergenza ed è quella del personale sanitario che «cade sul campo» ed esce dal servizio per la positività al coronavirus o per aver avuto contatti con pazienti infetti. Rimandati a casa in isolamento fiduciario? Non tutti. Andrea Bottega, segretario dell’associazione Nursind (professione infermieristica, 41mila iscritti) riporta storie raccolte nelle Regioni più colpite dove diversi suoi colleghi, malgrado abbiamo trattato malati di Covid, restano in ospedale se non hanno sintomi di infezione. Altrimenti interi reparti dovrebbero chiudere e la situazione diventerebbe ingestibile. «Non riesco ad aggiornare i numeri delle assenza per quarantena — riferisce Bottega da Vicenza — So di colleghi intubati e di altri che vengono richiamati dal domiciliare in quanto non trovano i rincalzi. Oltretutto in reparti come la terapia intensiva bisogna avere gente specializzata». C’è molta preoccupazione soprattutto per la tenuta mentale della categoria intera. «Avverto molto stress e temo un crollo emotivo. Parlo anche a nome degli operatori socio sanitari, figure esposte come noi. Svolgono ruoli di assistenza di base ai singoli pazienti, distribuiscono i pasti, si occupano della loro pulizia». Per Anaao-Assomed, principale sindacato degli ospedalieri, i medici contagiati sono almeno duecento, impegnati in pronto soccorso, rianimazione e reparti di medicina interna. Chiara Rivetti, coordinatrice del Piemonte, ha notizia certa di almeno 50 colleghi in quarantena nella Regione, con un aumento esponenziale rispetto al giorno precedente, mentre gli infermieri sarebbero 200: «Bisognerà ragionare sui criteri per prescrivere l’isolamento domiciliare altrimenti rischiamo di lasciare sguarniti gli organici di servizi essenziali.

A Tortona, dove è stato creato un Covid Hospital cinque medici venuti a contatto con malati positivi al virus hanno continuato a lavorare». Antonio Magi denuncia le difficoltà degli specialisti ambulatoriali del Sumai che lavorano nei poliambulatori pubblici dove c’è un viavai di persone, spesso in prossimità degli sportelli dove in questi giorni si stanno creando file. Il 31 marzo scade il termine entro il quale richiedere l’esenzione dal ticket, non ancora prorogato. Ansia, stress, fatica si accumulano col passare dei giorni e pesa l’incognita di quello che potrà ancora succedere. Racconta Augusto Zaninelli, medico di famiglia a Romano in Lombardia, paese di 20mila abitanti nel bergamasco. Il 13 marzo termina la quarantena che sta trascorrendo a casa dopo aver visitato il fratello, ora ricoverato con polmonite da Sars CoV 2, e un altro paziente poi deceduto: «Come fai a tirarti indietro, come fai a mantenere le distanze quando visiti? Il fonendo lo devi comunque avvicinare ed è lungo appena 50 centimetri, la metà della distanza raccomandata».

Sabina, il turno infinito in ospedale e la commozione per le pizze in regalo. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Barbara Gerosa. «Sono passati dieci giorni o due anni, non capisco, non ricordo. Mi guardo allo specchio e mi vedo stanca ed invecchiata. Ognuno di noi lavora per due o per tre. Giochiamo fuori casa, posti nuovi o quasi, colleghi nuovi o quasi. Pochi riposi, non ci sono ferie o permessi, non ci sono figli o compagni». Inizia così il post pubblicato su Facebook da Sabina Baggioli, infermiera dell’ospedale di Lecco, passata dal reparto di Neurorianimazione a quello «Corona-Ria» dedicato alla rianimazione dei pazienti affetti da coronavirus, al terzo piano del Manzoni. I numeri dei ricoveri si moltiplicano di ora in ora, i turni non hanno mai fine. Un racconto che in poche righe racchiude la stanchezza, la fatica, la solidarietà. Eppure basta una pizza donata da un'ignota benefattrice per regalare forza e speranza. Lo racconta Sabina: «Dall’inizio settimana è la prima volta che riusciamo a buttar giù qualcosa nello stomaco per cena. Ci facciamo portare le pizze, arriva il ragazzo ed esco a prenderle. Ho tolto la cuffia e la mascherina, ho i capelli in aria e puzzo di disinfettante. Il ragazzo dalle pizze mi dice: i soldi non servono, mettili pure via, una signora che aspettava la sua ordinazione ha sentito che dovevamo consegnare alla Rianimazione e ha voluto pagare lei. Ha detto di ringraziarvi tanto e vi augura buon lavoro». L'onda della commozione supera la stanchezza. Sabina si scatta un selfie, fotografa la pizza e commenta: «Ecco un'infermiera spettinata, e che puzza di disinfettante, che si commuove con sette pizze in mano davanti a un ragazzo della pizzeria Rida. Buonanotte combattenti». Conclude Sabrina. In poche ore la sua storia ha raccolta centinaia di commenti, condivisioni e like. «Ci stiamo davvero facendo in quattro e non è un modo di dire - confida Sabina contattata telefonicamente -. Siamo a totale disposizione. La situazione, anche organizzativa, si evolve di ora in ora. La solidarietà è la ricetta migliore in questo momento. Le chiedo di cuore di ricordare la piaga che ci affligge da anni, la carenza di anestesisti e infermieri. Chieda alla gente e a chi ci governa di non dimenticarci quando, spero prima possibile, sarà tornato tutto alla normalità», il suo appello.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 6 marzo 2020. In Lombardia il 12 per cento dei contagiati sono infermieri e medici. Mancano 250 unità, gli ospedali rischiano di fermarsi proprio mentre devono rispondere a una richiesta di assistenza dei pazienti senza precedenti. A Roma e nel Lazio, dopo i 14 nuovi positivi di ieri che sono passati dal pronto soccorso, ospedali come San Giovanni, Policlinico Casilino, Sant'Andrea, San Filippo Neri, Velletri e Latina rischiano di doversi fermare per ragioni prudenziali, circa cento unità del personale medico, anche se secondo la Regione Lazio, alla luce degli ultimi controlli incrociati, quella cifra dovrebbe essere attorno a 40-50. Ma la sintesi è che l'avanzata del coronavirus sta non solo riempiendo i reparti di terapia intensiva, ma svuotando le corsie di personale che, per ragioni di cautela, deve andare in quarantena. Sempre a Roma all'ospedale Bambino Gesù ci sono due medici in isolamento perché hanno avuto contatti con pazienti positivi (dalla struttura precisano che comunque si attende l'esito dei test e i due professionisti non stanno lavorando); all'ospedale San Camillo un medico è positivo, quindi a casa in isolamento, perché è rimasto contagiato mentre era in settimana bianca in Veneto. Altri esempi: dodici tra infermieri e operatori dell'ospedale Molinette, a Torino, sono stati messi in quarantena precauzionale dopo il caso di un paziente risultato positivo al coronavirus. Di questo passo, tra medici infettati (attorno alla zona rossa di Codogno la situazione è drammatica) e quelli in quarantena, gli ospedali si fermano. Per questo Luca Zaia, il presidente del Veneto, regione a cui mancano 400 tra medici e infermieri a causa del coronavirus, ieri ha attaccato: «Voglio chiedere che si metta mano alla norma e si dia modo ai medici di poter operare anche se presentano dei contatti con persone positive. Non possiamo mettere in isolamento fiduciario i medici per 14 giorni». La proposta: effettuare il test ogni giorno, ma se il medico o l'infermiere risulta asintomatico e negativo consentirgli di continuare a lavorare, sia pure con la mascherina. Giulio Gallera, assessore alla Sanità della Lombardia, spiega: «Noi già lo facciamo, altrimenti tutto si ferma. E poi abbiamo ridotto del 70 per cento gli interventi di elezione, lunedì blocchiamo l'attività ambulatoriale differibile. Abbiamo anticipato le lauree del corso infermieristico previste ad aprile e partiamo con le assunzioni di 315 operatori. Infine, richiamiamo medici e infermieri in pensione. Voglio rassicurare i lombardi sul fatto che tutte le attività urgenti e non differibili, sia per i pazienti cronici che per il resto dei lombardi, verranno assicurate». Si tratta di una corsa contro il tempo perché mentre aumenta il numero dei contagiati e diminuisce quello del personale sanitario disponibile, anche nelle regioni senza zona rossa, si stanno esaurendo i posti di terapia intensiva. A Roma ieri solo per il coronavirus sono diventati sette i pazienti in rianimazione. Per ora è un numero sostenibile, ma cosa succederà se il ritmo di crescita dei positivi e della parte che necessita di respirazione assistita dovesse essere in linea con quello di questi giorni o con quello del resto d'Italia? Nel Lazio ci sono 540 posti di terapia intensiva, ma sono già occupati all'80 per cento, visto che comunque vi sono anche altre patologie che normalmente richiedono questo tipo di assistenza. Per questo si sta correndo ai ripari. «In questo momento - spiega l'assessore alla Salute del Lazio, Alessio D'Amato - la priorità è garantire tutte le procedure di sicurezza, evitare nuove quarantene al personale sanitario e attuare la prima fase del potenziamento delle terapie intensive con 77 nuovi posti». In totale, i letti aggiuntivi per questo tipo di emergenza dovranno essere almeno 153, anche se in caso di necessità questo numero può essere aumentato. Altro nodo è quello dei test: nel Lazio fino ad oggi 1.175 («molto più della Francia» sottolineano in Regione), ma dopo l'incremento di ieri di nuovi casi si è compreso che centralizzare tutto nel laboratorio dello Spallanzani alla lunga potrebbe diventare insostenibile. Per questo sono stati attivati anche altri quattro laboratori, in modo da velocizzare le verifiche, anche se l'hub di riferimento resterà quello dello Spallanzani. 

Contagiato nell’ospedale focolaio, uomo muore a Napoli: “Intollerabile”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Era ricoverato nel reparto di Medicina dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli (Napoli) quando è stato contagiato dal coronavirus a causa della presenza, nei primi giorni di aprile, di una paziente asintomatica, risultata dopo il trasferimento all’Ospedale del Mare positiva al covid-19. L’uomo, 60enne residente nel comune di Bacoli, è morto la notte scorsa al Cotugno. “Ha avuto un aggravamento delle condizioni di salute. Non ce l’ha fatta. È la seconda vittima, in città, causata dal Covid-19. Bacoli si stringe alla famiglia per il grave lutto che colpisce l’intera comunità” fa sapere il sindaco Josi Della Ragione che poi chiarisce: “Era uno dei pazienti contagiatosi nel reparto di Medicina dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli. Inaccettabile. Intollerabile. Nulla potrà più riconsegnare ai suoi cari il nostro concittadino. Nulla. Ma l’amarezza è davvero tanta. E si dovrà fare giustizia: individuando responsabili e responsabilità”.

L’OSPEDALE FOCOLAIO – Nell’ospedale puteolano, diventato focolaio in alcuni reparti (Medicina e Pronto Soccorso su tutti), ad oggi sono oltre 40 le persone, tra sanitari e pazienti, contagiati dopo il ricovero della donna, che ha portato l’Asl Napoli 2 nord ad chiudere alcuni reparti dell’ospedale per qualche giorno e ad effettuare oltre 700 tamponi collegati all’episodio in questione. Sul caso Santa Maria delle Grazie è intervenuto anche il sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia: “Ci sarà sicuramente un momento in cui chi ha sbagliato pagherà: a fine marzo avevo chiesto alla direzione generale di verificare le preoccupazioni mosse dai sindacati sulla sicurezza degli ambienti e del personale. Ed abbiamo tutti il diritto di conoscere gli errori della catena ospedaliera, accertando le responsabilità. Ma ci sarà un secondo tempo per poterlo fare”. !Ora, anche se gli esami dei tamponi sono ancora in corso, mi sento di dire che il possibile focolaio è sotto controllo. I positivi sono tutti in isolamento e i link di contagi sono ormai circoscritti” ha poi aggiunto Figliolia che ha anche giustificato i tempi tecnici per l’analisi degli oltre 700 tamponi: “Non sono ritardi, ma sono tempi dovuti. E vi posso assicurare che stanno lavorando incessantemente.

Coronavirus, 14 dipendenti Policlinico Foggia positivi, tra medici, infermieri e Oss. Sono due medici, 9 infermieri e 3 Oss di Medicina interna. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2020. Sono risultati positivi al virus Covid 19 due dirigenti medici, nove infermieri professionali e tre operatori sanitari del reparto di Medicina interna universitaria del Policlinico Riuniti di Foggia. Lo comunica in una nota lo stesso ospedale. I 14 dipendenti contagiati si aggiungono ai 6 pazienti già risultati positivi nei giorni scorsi e ricoverati nell’unità operativa di Malattie Infettive, mentre tutti i dipendenti risultano, al momento, asintomatici e stanno trascorrendo l’isolamento a casa. L’intero reparto è stato sanificato. La direzione generale del Policlinico ha ricostruito la catena dei contagi, avvenuta tramite un paziente, risultato negativo a due tamponi e passato prima al pronto soccorso e poi nella cosidetta “zona grigia”. Si tratta di un degente “over 80” che sulle prime era stato trasferito nel reparto di medicina interna per la stabilizzazione del suo quadro clinico. Qualche giorno più tardi è stato dimesso, ma dopo meno di una settimana si è ripresentato in ospedale con sintomatologia tipica da Coronavirus. A quel punto, sottoposto a un terzo tampone, è risultato positivo.

Covid, 7 sanitari dell'ospedale di Castellaneta positivi al test, ma potrebbero essere di più. Ne dà notizia il sindaco di Castellaneta, nonché presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Gugliotti. La Voce di Manduria venerdì 20 marzo 2020. Come si temeva, dopo la positività al Covid del direttore sanitario Stefano Montemurro, all’ospedale San Pio di Castellaneta cova un focolaio di coronavirus. Sono sette sinora i sanitari che hanno contratto il coronavirus, sospetti su altri tre. Tra i primi sette ci sono tre dirigenti medici e quattro infermieri in servizio nei reparti e uffici del presidio ospedaliero. Ne dà notizia il sindaco di Castellaneta, nonché presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Gugliotti, che in mattinata incontrerà il direttore generale della Asl, Stefano Rossi e il medico competente, Salvatore Piccini per stabilire le misure da adottare alla luce dei risultati dei test. I tamponi eseguiti sinora sono 54 ma lo screening continuerà oggi e domani su altro personale che ha avuto contatti con i sanitari contagiati. Il primo ad essere positivo è stato il direttore sanitario dell’ospedale San Pio, Stefano Montemurro tuttora ricoverato nel reparto infettivi dell’ospedale Moscati di Taranto.

Castellaneta, 8 positivi in ospedale. Emiliano:«Ho chiesto il licenziamento del responsabile». Il sindaco Giovanni Gugliotti ipotizza che questa emergenza possa essere stata causata da qualche medico che avrebbe violato norme sicurezza. È stata informata la Procura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Marzo 2020. Passa da uno a otto il numero degli operatori sanitari positivi al Coronavirus nell’ospedale San Pio di Castellaneta. Il primo positivo al tampone è stato un dirigente medico (che sarebbe andato al lavoro con la febbre), mentre ora ci sono anche tre medici primari di reparti, e quattro infermieri. Per altri tre operatori che presentano sintomi sarà ripetuto il test mentre si attende il risultato del tampone per un’altra cinquantina di operatori sanitari dello stesso ospedale. Il sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti, che è anche presidente della Provincia di Taranto, con un video-messaggio su Facebook ipotizza che «questa situazione di emergenza» nell’ospeale possa essere stata causata «da una violazione dei protocolli previsti per combattere l’epidemia del Covid-19». «Basta una piccola violazione - ipotizza il primo cittadino - basta discostarsi poco dalle indicazioni che vengono date dall’Autorità per perdere il controllo della situazione».

LA REPLICA DI EMILIANO - «Ho appreso della vicenda riguardante l’ospedale “San Pio” di Castellaneta dal direttore generale della Asl Taranto Stefano Rossi, dal direttore del Dipartimento di prevenzione di Taranto dott. Michele Conversano, dal Direttore Sanitario dell’ospedale San Pio di Castellaneta dott. Emanuele Tatò. Ho anche avuto un’importante relazione telefonica sui fatti da parte del Sindaco di Castellaneta, avv. Giovanni Gugliotti, lui stesso esposto a rischi della condotta del soggetto che, dipendente dell’Ospedale San Pio, aveva proprio il compito di vigilare il rispetto da parte di tutti delle regole di igiene atte a prevenire l’estendersi del contagio. A causa di quanto accaduto saranno probabilmente chiusi molti reparti dell’Ospedale e posti in quarantena moltissimi sanitari. Il danno provocato alla comunità è enorme. Si aggiunga che molto probabilmente queste condotte violano diverse norme penali che prevedono gravi conseguenze sull’autore dell’eventuale reato. Per questa ragione ho telefonato subito al Procuratore della Repubblica di Taranto dott. Carlo Capristo, per consentirgli di iniziare tempestivamente la sua doverosa indagine. E ho dato indirizzo al dg Rossi di avviare un procedimento disciplinare finalizzato all’eventuale sospensione e successivo licenziamento, ove i fatti ipotizzati venissero oggettivamente accertati. I medici, infermieri e operatori sanitari sono i nostri eroi, in prima linea in questa emergenza. Ma se qualcuno tra loro, anche uno solo, non rispetta le regole e le leggi, e si comporta in modo irresponsabile nell’esercizio delle sue funzioni o nella vita privata, mette a repentaglio tutto il sistema sanitario, la vita e la salute dei suoi colleghi e dei pazienti. Non abbiamo fatto altro in queste drammatiche settimane che richiamare l’attenzione sulle basilari forme di prevenzione per i cittadini comuni e tale appello vale a maggior ragione per il personale sanitario. Abbiamo detto in tutte le maniere che bisogna proteggere gli ospedali e chi ci lavora. Rispettare le regole non è una libera scelta in questo momento, ma un dovere categorico. Dal nostro rigore dipenderà il successo o l’insuccesso della battaglia contro il coronavirus».

Allarme in ospedale, il sindaco: «Medico ha contagiato 10 colleghi e infermieri». Tamponi a familiari e pazienti di tutti i reparti. Emiliano: «Sia licenziato». Il Quotidiano di Puglia Venerdì 20 Marzo 2020. Un medico della direzione sanitaria dell'ospedale di Castellaneta, il San Pio, era risultato positivo al Covid-19. I successivi 50 tamponi effettuati sul personale sanitario del nosocomio hanno evidenziato circa dieci casi positivi fra medici e infermieri. Per sette di essi - tre dei quali sono primari di reparto - l'esito del tampone è già certo, per altri tre dubbio e si sta ripetendo l'esame in queste ore. Fra i contagiati anche quattro infermieri e due caposala. Si allarga quindi il fronte del personale sanitario colpito dal coronavirus, mentre Ordini professionali e sindacati insistono nel chiedere maggiori protezioni per chi, ogni giorno, deve misurarsi in corsia con nuovi casi di contagio. A Castellaneta, intanto, si stanno eseguendo tamponi sui familiari degli operatori sanitari contagiati e sui pazienti di tutti i reparti coinvolti. Il medico contagiato - secondo quanto riporta l'agenzia Agi - lavora al San Pio e si sarebbe recato in ospedale per sottoporsi ad un intervento, entrando nella struttura avendo già la febbre. «Quello che è accaduto è gravissimo, inaudito, inconcepibile. Un medico, che lavora in ospedale, è andato lì, in nosocomio, e invece di passare dal pre triage come prevedono la procedura e i protocolli, è andato regolarmente al pronto soccorso, come se nulla fosse, e da lì è andato poi nei reparti» ha dichiarato all'Agi il sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti, che è anche presidente della Provincia di Taranto. Per questo motivo, il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha denunciato l'accaduto alla Procura, sollecitando il licenziamento dell'eventuale responsabile. «A causa di quanto accaduto- scrive Emiliano - saranno probabilmente chiusi molti reparti dell’Ospedale e posti in quarantena moltissimi sanitari. Il danno provocato alla comunità è enorme». «È accaduto uno sfacelo - aggiunge Gugliotti - nel senso che diversi medici,di vari reparti, sono risultati contagiati. Ma era ovvio che potesse accadere. Hanno fatto all’ospedale di Castellaneta una cinquantina di tamponi e diversi sono risultati positivi. Ma non abbiamo finito con i tamponi perché se ne faranno altri. Stamattina - sostiene Gugliotti - stiamo cercando di capirne di più e di valutare come Comune, insieme al direttore sanitario dell’ospedale San Pio, cosa fare e quali provvedimenti intraprendere. Assurdo quanto è successo - prosegue il sindaco di Castellaneta -. Anche se tu sei medico dell’ospedale di Castellaneta, non puoi, ribadisco non puoi, sottrarti ai protocolli. È invece questo è accaduto».  Nei giorni scorsi, la notizia di un altro medico contagiato all'ospedale Giovanni XXII di Bari: il medico colpito dal Covid-19, un endoscopista, lavora nel reparto oncologico, che è stato prontamento sanificato. A Bari e provincia sono stati contagiati un anestesista della Mater Dei (oltre a cinque infermieri e un Oss), un medico del Pronto soccorso del Miulli di Acquaviva delle Fonti e uno del Pronto soccorso del Giovanni XXIII. A Taranto, due medici di famiglia di Manduria, il primario otorino del Moscati e - appunto - un medico tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. A Lecce il primo medico contagiato è stato un anestesista di Copertino, al quale si sono poi aggiunti due medici delle Malattie infettive dell'ospedale leccese Vito Fazzi e il direttore della Radiologia della Cittadella della Salute, ex Fazzi. A Brindisi e provincia si contano uno pneumologo di Ostuni e due medici del Perrino. A Foggia - provincia molto colpita dal coronavirus - il contagio ha riguardato finora due medici di base. Nella Bat ci sono stati i casi dei due direttori di reparto contagiati: il primario di Medicina ad Andria, un medico di Pediatria nello stesso ospedale e poi il primario Radiologia di Barletta.

Coronavirus, medico contagia 10 colleghi dell'ospedale di Castellaneta. Ed Emiliano e Rossi dg dell' ASL Taranto tacciono...Il Corriere del Giorno il 20 Marzo 2020. Adesso tutti i medici ed il personale sanitario, che dovessero risultare positivi al tampone, rischiano di finire in quarantena e lasciare abbandonata a se stesso la struttura ospedaliera di Castellaneta. Il silenzio imbarazzante dell’ Ordine dei Medici e dell’ ASL Taranto. Emiliano sembra essersi eclissato ! Nell’ Ospedale San Pio di Castellaneta in provincia di Taranto è scoppiato un focolaio Covid-19 cioè “Corona Virus“. Il fatto di una gravità inaudita è che anche in questo caso (come nella vicenda di Torricella) a causarlo è stato un medico dello stesso ospedale pubblico. Il medico incosciente, tale Mario Montemurro,  originario di Mottola, ha avvertito i sintomi nella prima settimana di marzo, ma non ha rispettato i protocolli dettati dalle Autorità Sanitarie nazionali per l’emergenza CoronaVirus, ma ha anche infettato altre tre medici e quattro infermieri, risultati tutti positivi, per fortuna tutti con sintomi lievi. Ci sono al momento altre tre casi in corso di valutazione e  54 tamponi sono stati effettuati dai dottori Cetera e Tarasco al personale della struttura sanitaria, ed agli operatori della “Sanità Service” e dei reparti di Endoscopia, Oncologia, Pronto Soccorso e Radiologia . Al momento ci sono ben 4 caposala dell’ ospedale San Pio in malattia nelle rispettive abitazioni.I controlli con il tampone  proseguiranno oggi e domani anche su tutto il personale che ha avuto contatti con i sanitari contagiati. Sulla base di  una prima ricostruzione il dr. Montemurro dopo aver accusato sintomi avrebbe continuato a svolgere la propria attività per due settimane, lavorando a stretto contatto con il personale medico, amministrativo e parasanitario in servizio presso la struttura sanitaria, ma anche con i pazienti stessi. Il medico di Mottola nonostante avesse avvertito sintomi  si sarebbe auto-sottoposto a degli esami clinici autonomi, senza passare dal pre-triage allestito con una tenda dell’ Esercito all’esterno della struttura,  e quindi in tal caso violando la Legge . Adesso tutti i medici ed il personale sanitario, che dovessero risultare positivi al tampone, rischiano di finire in quarantena e lasciare abbandonata a se stesso la struttura ospedaliera di Castellaneta. Tutto questo per colpa di un medico, che peraltro ci risulta essere laureato in igiene e medicina preventiva, circostanza che spiega molto bene in che mani viene affidata la salute dei cittadini pugliesi. A lanciare l’allarme è stato Giovanni Gugliotti, sindaco della cittadina, nonché presidente della Provincia di Taranto,  “Quello che è accaduto è gravissimo, inaudito, inconcepibile. Un medico, che lavora in ospedale, è andato lì, in nosocomio, e invece di passare dal pre-triage come prevedono la procedura e i protocolli, è andato regolarmente al pronto soccorso, come se nulla fosse, e da lì è andato poi nei reparti. Si è permesso il lusso di girare vari reparti e ora abbiamo medici, caposala e impiegati della direzione sanitaria positivi“. “A Castellaneta fino a qualche giorno fa non avevamo nessun caso . Invitiamo  tutti i cittadini di rispettare le regole , restando a casa.  – ricorda Gugliotti –  E’ semplicemente  assurdo che a causare tutto ciò sia stata la leggerezza di un medico“. Ed ora sta per partire l’inchiesta della Procura di Taranto per gli aspetti penali. Abbiamo provato a contattare il presidente della Regione Puglia, Emiliano, che è anche assessore della salute, ma sia il suo telefono che quello della sua portavoce, Elena Laterza squillano a vuoto…ci ha risposto invece il direttore generale dell’ ASL Taranto, Rossi per il quale sembrerebbe essere tutto sotto controllo…. Di cosa meravigliarsi quindi se poi accadono questi casi ? I soliti ciarlatani della politica e dilettanti allo sbaraglio !

Coronavirus, aumento costante dei casi in Puglia: mancata prevenzione? Il Corriere del Giorno il 21 Marzo 2020. Non una sola parola viene detta sulla mancanza di mascherine, guanti, di tamponi non effettuati, che trovano purtroppo conferme in diverse strutture ospedaliere pugliesi. Ormai siamo alla follia da delirio pre-elettorale regionale. “In Puglia il numero di nuovi casi è da qualche giorno costante”: scrive su Twitter l’epidemiologo Pierluigi Lopalo, consulente della task force della Regione Puglia, rilanciando il tweet con cui ieri sera il governatore Emiliano: “Per tre giorni di seguito i casi positivi di Covid sono aumentati sempre intorno alla stessa cifra. La maggioranza dei pugliesi che si è chiusa in casa sta dando una risposta all’incremento del virus. Dobbiamo continuare così". L’ invito rilanciato da Lopalco: “Sono giorni preziosi che ci permettono di preparare al meglio la risposta. Vi prego restate chiusi in casa!“ Non una sola parola viene detta sulla mancanza di mascherine, guanti, di tamponi non effettuati, che trovano purtroppo conferme in diverse strutture ospedaliere pugliesi, circostanze queste convalidate dai vari comunicati stampa di protesta di associazioni e sindacati dei medici e del personale sanitario. A seguito dei casi di CoronaVirus all’ospedale di Castellaneta, Il presidente della Regione Puglia, Emiliano non ha perso squallidamente occasione per strumentalizzare la vicenda per motivi politici-elettorali affermando: “ho telefonato subito al procuratore della Repubblica di Taranto Carlo Capristo, per consentirgli di iniziare tempestivamente la sua doverosa indagine”. Come se un procuratore capo avesse bisogno della sua telefonata per avviare un’indagine…ormai siamo alla follia da delirio elettorale! Sarebbe interessante sapere quanto costerà ai cittadini pugliesi la consulenza dell’epidemiologo Lopalo. In Lombardia, il governatore Fontana ha ingaggiato Guido Bertolaso, medico anche lui, che costerà soltanto 1 euro a titolo simbolico alla regione lombarda. Chissà se Emiliano ha chiamato anche il procuratore capo di Bari, di Foggia, Trani, Brindisi e Lecce  invitandoli a procedere nei confronti dell’ assessore regionale alla salute (cioè di se stesso) e di tutti i direttori delle ASL pugliesi che non hanno fornito mascherine e guanti necessari a tutto il personale. Se queste procure indagassero anche sulle modalità delle decisioni adottate da alcuni medici con cui vengono effettuati i tamponi, allora si che si aprirebbero non pochi procedimenti penali. Ma non è ancora detta l’ultima parola….

Castellaneta: moglie del medico ospedaliero, accuse ingiuste. La famiglia vive “un doppio incubo”, malattia e gogna. Intervista Rilasciata al Quotidiano di Puglia il 21 Marzo 2020. Così come ieri è stato dato spazio a chi lo ritiene gravemente responsabile, oggi va dato spazio a chi dà una versione completamente diversa. In un’intervista al Quotidiano, la moglie del medico di Castellaneta additato come una specie di untore per avere trasmesso il corona virus nell’ospedale in cui lavora, dice che il marito ha seguito tutt’altro comportamento da quello addebitatogli e che la famiglia sta vivendo un doppio incubo: quello della malattia e quello della gogna. Le responsabilità eventuali andranno accertate. Il che, lo ribadiamo una volta ancora, deve fare astenere dal formulare giudizi a priori. Abbiamo tratto spunto da Quotidiano, che invitiamo a consultare per la lettura integrale dell’intervista.

“Falso che il medico abbia saltato il protocollo previsto per l’accesso al pronto soccorso non passando attraverso il ptr triage.

Falso che si andato a Milano, né in alcuna zona rossa e non ha alcuna figlia che studi in quei luoghi. Il medico è stato in servizio, in normali condizioni di salute, sino al giorno 2 marzo 2020. Domenica 8 marzo ha iniziato a presentare al proprio domicilio febbre e da quel momento non si recava al posto di lavoro. nei giorni 11 e 12 marzo la febbre regrediva e lui rimaneva comunque al proprio domicilio. la notte del 13 marzo, per il sopraggiungere di intenso dolore toracico, ha telefonato in PS chiedendo se poteva accedere, si è quindi presentato alla tenda del triage dove è stato sottoposto ai controlli preliminari e quindi è stato dato il permesso di accedere in PS. Qui, protetto da mascherina e guanti, è stato sottoposto a prelievo ed esame del torace. Nei giorni successivi, il medico ha più volte richiesto l’esecuzione del tampone, ma gli stessi sanitari interpellati hanno affermato che non erano presenti criteri per sospettare infezione da Covid-19. La colonscopia eseguita in data 3 marzo è antecedente agli eventi ed eseguita per controllo in completa assenza di sintomi. Insomma, per la famiglia, l’infezione sarebbe stata al contrario contratta dal medico in ospedale dove verosimilmente, conclude la lettera - non senza anticipare azioni legali a propria tutela – c’è un ulteriore fonte di contagio.

Il caso dei contagio al San Pio di Castellaneta, la verità della famiglia del presunto "untore". L'intervista del collega Mario Diliberto è stata pubblicata oggi sul Quotidiano di Puglia. La Voce di Manduria sabato 21 marzo 2020. Pubblichiamo l'intervista alla moglie del vicedirettore sanitario dell'ospedale di Castellaneta, Mario Montemurro, accusato di aver diffuso il coronavirus all'interno dell'ospedale. L'intervista del collega Mario Diliberto è stata pubblicata oggi sul Quotidiano di Puglia.

«Mio marito da tempo non si sposta dalla Puglia. Questa storia è surreale. Ha seguito le regole e quando aveva la febbre ha mendicato un tampone che gli è stato negato.

Viviamo un doppio incubo. Mario rischia la vita e gli hanno scaraventato addosso responsabilità che non ha.

Proprio mentre sta combattendo il Covid-19 nel letto di un ospedale.

Mirella Gatto trattiene a stento le lacrime al telefono. E un fiume in piena, però, nel difendere suo marito Mario Montemurro, il 60enne vicedirettore sanitario dell'ospedale San Pio di Castellaneta, in provincia di Taranto, bollato come l'untore del Covid-19 nel presidio sanitario.

Da giorni Mirella, che di professione fa l'avvocato, e le figlie convivono con la malattia di Mario. E contemporaneamente schivano cattiverie e accuse piovute da tutte le parti e con tutti i mezzi. Un delirio a colpi di post e a chat unificate. Con il picco raggiunto ieri quando sono arrivati gli esiti dei tamponi eseguiti al San Pio, con sette operatori risultati positivi. Quel verdetto e le parole del Governatore Emiliano e del sindaco Gugliotti hanno alimentato una campagna di odio contro il vicedirettore sanitario, dipinto come un irresponsabile.

Capace di entrare in ospedale tacendo i sintomi del Covid-19.

Mirellla, però, racconta una storia molto diversa, puntellata da dati oggettivi. A cominciare dal fantomatico viaggio a Milano imputato a Montemurro. La vox populi sostiene che lui sia andato in Lombardia in piena emergenza "coronavirus" a prendere la figlia universitaria. Una balla facilmente verificabile. Il medico effettivamente ha due figlie. Entrambe studiano medicina. La più grande a L'Aquila, la più piccola in un paese straniero. La prima è rientrata a casa dall'Abruzzo molti giorni prima della malattia del papà. L'altra quando il medico aveva già la febbre «Questa è solo una delle tante bugie che abbiamo sentito' - sentenzia Mirella. «Mario - spiega - ha avuto la febbre l'8 marzo. E da quel momento non è più andato in ospedale. Ha informato i colleghi e il medico curante. Ha anche chiesto di essere sottoposto al tampone. Per lavoro ha contatti con tanta gente e voleva escludere ogni ipotesi. Non hanno voluto farglielo. Lo hanno preso persino in giro. Ho ancora nelle orecchie le parole di chi lo sbeffeggiava. Lui, comunque, è rimasto sempre in casa.

Da quell'8 marzo, quindi, Montemurro si è curato nella sua abitazione, senza accantonare quel dubbio Covid che accompagna un po' tutti in questo tremendo periodo. «Si è isolato in casa. Abbiamo confinato una delle nostre figlie nella tavernetta - continua la moglie - per evitare ogni tipo di rischio. Uno così accorto può mai essere superficiale in un ospedale?». Assolutamente no a seguire il lucido racconto di quei giorni. Perché quella febbricola alla fine è andata via. «Si è ripreso e sembrava stare meglio.

Il 13 marzo - dice Mirella Gatto - ha avvertito un senso di oppressione al petto. Ha contattato l'ospedale e gli hanno detto di andare. L'ho accompagnato io e abbiamo seguito la procedura. Siamo usciti di casa indossando guanti e mascherina. Così bardati siamo passati dalla tenda del pretriage dove hanno misurato la temperatura ad entrambi. Sono stata registrata anche io. Ho ancora il foglietto che mi hanno dato. Non ha nascosto alcuna informazione e lo hanno sottoposto ai raggi. Per loro era tutto ok e lo hanno rispedito a casa. Qualcosa che non andava, però, c'era. Perché due giorni dopo la situazione è precipitata. Montemurro ha accusato problemi respiratori e la famiglia ha contattato uno dei numeri per l'emergenza Covid. «E' arrivata prima l'automedica e poi l'ambulanza. Lo hanno portato al Moscati dove è stato sottoposto al tampone che ha invocato inutilmente per giorni. Ed è risultato positivo. Non abbiamo idea di come possa averlo contratto. Di certo anche lui è stato contagiato. Immagino in ospedale. Da qualcuno che non è stato individuato. Forse è un paziente asintomatico. Questa è la pura verità. Dove ha sbagliato mio marito? E quanto è ingiusto tutto quello che stiamo subendo? Noi e soprattutto lui. Accusato delle peggiori cose in un momento in cui non si può nemmeno difendere.

Coronavirus, allarme per i medici: più di 30 quelli malati. I casi ufficiali censiti dall’Iss sono 22 ma in due giorni sono ulteriormente cresciuti. Tra gli ultimi anche un camice bianco tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. Massimiliano Scagliarini il 19 Marzo 2020 su la Gazzetta del Mezzogiorno. C’è una emergenza nell’emergenza che rischia di mettere in crisi il sistema sanitario. La diffusione dell’epidemia di covid19 tra il personale medico sta assumendo proporzioni preoccupanti anche in Puglia. Il dato ufficiale dell’Istituto superiore di sanità aggiornato a lunnedì sera parla di 22 operatori sanitari contagiati, ma nel frattempo il totale dovrebbe aver ampiamente superato le 30 unità. Più o meno in linea con la media nazionale (calcolata dall’istituto Gimbe), che è pari all’8% del totale dei contagi ma che risente del caso Lombardia. Ma non c’è da esserne soddisfatti, anche perché in Puglia si registra la positività al virus di numerosi primari e in alcuni casi si potrebbe essere di fronte a episodi di malpractice. Nessun dubbio naturalmente sul grande impegno del personale medico, impegno che ieri su queste colonne il direttore dell’unità di Igiene del Policlinico di Bari, Michele Quarto, ha definito «eroico» pur lanciando l’allarme: «Attenti alla troppa generosità, anche noi medici dobbiamo stare molto attenti. Rischiamo di avere focolai ospedalieri». La mappa del contagio medico, in Puglia, è molto lunga. A Bari finora hanno contratto covid19 un anestesista della Mater Dei (oltre a cinque infermieri e un Oss), un medico del Pronto soccorso del Miulli e uno del Pronto soccorso del «Giovanni XXIII». A Taranto due medici di famiglia di Manduria, il primario Otorino del «Moscati» e un medico tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. A Lecce uno dei primi casi in assoluto ha riguardato un anestesista di Copertino, ma ci sono anche due medici delle Malattie infettive del «Fazzi» e un il direttore della radiologia di un poliambulatorio privato. A Brindisi si contano uno pneumologo di Ostuni e due medici del «Perrino». A Foggia il contagio ha riguardato finora due medici di base (uno è il sindaco di San Nicandro Garganico) e sono a rischio alcuni medici di «Casa Sollievo» (dove 16 dipendenti sono malati). Situazione particolarmente complicata nella Bat con due direttori di reparto contagiati: il primario della Medicina di Andria, e quello di Radiologia di Barletta, oltre che un medico della Pediatria di Andria e almeno altri due medici del primo reparto. Per quanto riguarda il primario di Radiologia di Barletta, il tampone è risultato negativo. Il caso della Medicina di Andria è piuttosto delicato. Il primario era infatti stato sottoposto a tampone in quanto sintomatico, e in attesa dell’esito per quasi due giorni ha continuato la propria attività in ospedale pur febbricitante, facendosi fare anche una radiografia senza passare dal triage. Martedì il medico è poi risultato positivo, costringendo la Asl a chiudere il reparto e a mettere in quarantena oltre 40 persone: due suoi colleghi ieri sono risultati positivi, un terzo è a rischio. «I test effettuati sui pazienti - dice il direttore generale della Asl Bat, Alessandro Delle Donne -, escludono che possa essersi trattato di una infezione nosocomiale. Questo ci ricorda la necessità di protezione, in particolare per tutti gli addetti sanitari, anche al di fuori dell’ospedale». Sempre nella Bat è in quarantena precauzionale il direttore della Radiologia di Barletta, che ha sottoposto a radiografia un sacerdote poi risultato contagiato. Il quadro dunque è particolarmente complesso, soprattutto perché la maggioranza dei contagi di medici - a quanto risulta dalle inchieste epidemiologiche finora effettuate - non sono legati a esposizione diretta a pazienti covid19 in ambito ospedaliero. Vuol dire che il medico ha contratto l’infezione altrove e l’ha «importata» in ospedale. In questo senso va letto l’allarme lanciato dal professor Quarto sul rischio che il personale medico in generale - se le cautele non sono rispettate in maniera molto stringente - possa diventare esso stesso focolaio di contagio: alcuni dei medici che hanno contratto covid19 in Puglia risultano aver svolto attività assistenziale e ambulatoriale nei giorni precedenti, senz’altro con il lodevole obiettivo di non far mancare l’assistenza ai cittadini. Tuttavia in alcuni dei casi finora esaminati c’è il sospetto che le regole di cautela, che impongono la quarantena in caso di sospetto anche ai medici, possano essere state disattese. - Precisiamo che il dottor Emanuele Tatò, direttore sanitario dell’ospedale di Castellaneta, non è stato colpito da covid19 e che il contagio riguarda un altro medico della direzione sanitaria dell’ospedale. Ci scusiamo per l’errore con il dottor Tatò. [m.s.]

In prima linea senza difese. La protesta dei medici di base. Grido d'allarme in Lombardia: "Il rischio è di essere superdiffusori. Vogliamo fare i tamponi". Francesca Angeli, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Camici bianchi in prima linea senza difese. Questa volta i medici di famiglia dell'area di Milano e hinterland, quella più sotto pressione, sono allo stremo e hanno deciso di mettere nero su bianco la denuncia del mancato rispetto delle regole di sicurezza previste dal decreto del governo. E non è il solo motivo di protesta da parte dei medici che chiedono di essere testati rispetto alla possibile positività da coronavirus. In sostanza si monitorano soltanto quelli con sintomi già manifesti. Un errore clamoroso perchè i primi ad essere in contatto con i pazienti fragili sono proprio i camici bianchi che da settimane denunciano il rischio che ciascun medico sia un «superdiffusore». Per questo tutti i sindacati medici insistono sulla necessità di estendere «i tamponi a chi, in ragione della sua professione, rischia di più di essere contagiato dal Covid-19: medici, infermieri, tecnici, operatori socio sanitari, inclusi i dipendenti delle cooperative sociali». I tamponi vanno estesi in primis a loro, «per isolare anche i positivi asintomatici, per proteggere le persone». Nell'esposto dello Snami che è indirizzato anche al Presidente della Regione, Attilio Fontana, e a tutte le autorità competenti il presidente provinciale, Roberto Carlo Rossi scrive: «I medici di famiglia sono stati lasciati ancora allo sbaraglio, senza adeguati dispositivi di protezione individuale, mascherine omologate, camici monouso, occhiali, guanti» strumenti indispensabili ad un esercizio della professione in sicurezza e che nell'emergenza risultano prescritti per legge. Il malessere dei medici di base in Lombardia cresce giorno dopo giorno. Da quando è esplosa l'emergenza coronavirus le chiamate sono aumentate in modo esponenziale. Agli anziani poi è stato chiesto di non uscire quindi i medici di base dovrebbero recarsi in casa ma se poi si espongono al rischio di un contagio, come è accaduto ad un medico di base di Lodi, in condizioni gravissime. Rossi denuncia al prefetto i «gravi accadimenti in netto contrasto con il Dpcm dell'8 marzo scorso» chiedendo di mettere in atto ciò tutto ciò che serve a consentirne il rispetto: in pratica di requisire tutto quello che serve e metterlo a disposizione dei medici.Ad oggi, denuncia Rossi, sono state consegnati dalle Asl «poche mascherine chirurgiche, mediamente 5 a medico; camici monouso non idrorepellenti, mediamente 2 a medico; mediamente una confezione di 100 guanti; nessun tipo di occhiali o visiera». Ma «le idonee mascherine che questo sindacato aveva reperito sul mercato e ordinate per fornirle, in sostituzione del mancato adempimento di parte pubblica, ai tanti medici che ne hanno fatto richiesta non sono consegnabili per intervento del Governo che risulta aver bloccato tutte le importazioni. Quindi noi medici in prima linea sul territorio ci troviamo non solo senza i dispositivi di protezione individuale prescritti da Governo e Regione che non li distribuisce, ma anche nell'impossibilità di acquistarli a nostre spese anche dopo averli reperiti autonomamente». Dunque mascherine e tamponi che invece stentano a decollare in molte regioni nonostante l'appello dell'Organizzazione mondiale della Sanità rilanciato dal rappresentante del board italiano, Walter Ricciardi. «Un semplice messaggio per tutti i Paesi: test, test, test. Fate il test a ogni caso sospetto di Covid-1», scrive in un tweet Ricciardi. Se questi pazienti risultano positivi, ammonisce l'agenzia Onu per la Sanità, bisogna isolarli e scoprire con chi hanno avuto contatti stretti fino a 2 giorni prima che sviluppassero i sintomi in modo da testare anche queste persone.

COME FANNO A ESSERCI 700 OPERATORI SANITARI POSITIVI AL CORONAVIRUS IN LOMBARDIA? Dagospia il 15 marzo 2020. Approfondire se gli operatori sanitari si sono infettati al lavoro? In risposta al Dr. D’Ancona, Istituto Superiore di Sanità. Caro Dr. D’Ancona, ascoltare questa frase “Operatori contagiati? Dobbiamo approfondire se l’esposizione (al covid NDR) è avvenuta professionalmente o al di fuori dell’ambiente di lavoro....” qualunque sia stato il suo scopo, credo abbia fatto male a tutti gli operatori sanitari in servizio in questi giorni in ospedale. 

Approfondiamo: mentre tutti sono a casa per mantenere la “distanza di sicurezza” e ridurre i rischi di contagio, un esercito di operatori  fa girare gli ospedali. La “distanza di sicurezza” in Ospedale non esiste. Ci sono precauzioni e procedure, è vero, ma ogni paziente che arriva va aiutato a spogliarsi, visitato, gli va fatta una radiografia, se va ricoverato va messo a letto. Se ha una frattura non è autonomo ha bisogno di assistenza, anche per bere un bicchiere d’acqua o fare la pipì: se è COVID negativo, a rischio COVID o positivo, non importa, troverà  la stessa mano, che lo aiuterà. La mano di un operatore che agisce secondo procedure che riducono, non annullano il rischio.

Approfondiamo: le procedure sono efficaci? I dispositivi sufficienti? Non abbiamo dati a riguardo. Da uomo di scienza dico gli epidemiologi a emergenza finita diranno se i dispositivi indossati dal personale sono stati efficaci sul rischio di contagio. Per ora vale il buon senso, correndo il  rischio. Ciascun operatore agisce con competenza,  nessuno si sente al sicuro:  “auto-isolati”, tornando a casa non abbracciamo i figli per non propagare il rischio, mangiamo un boccone in solitudine, dormiamo sul divano, una doccia, e si torna in servizio. È domenica, sono fuori turno in ospedale: do una mano e non espongo la famiglia. All’operatore che affronta i suoi rischi professionali con serenità perché fa parte del suo lavoro, si deve riconoscere l’importanza di quello che fa: dalle Sue parole non traspare.

Approfondiamo anche il patto sociale tra la comunità e chi corre rischi: vale per le forze dell’ordine, vale per i magistrati, ma questa emergenza deve insegnare che anche gli operatori della sanità sono esposti in prima linea (e non solo da  oggi...).

Approfondiamo che gli  operatori sanitari peggio pagati d’Europa (controllare gli stipendi di ausiliari, infermieri fisioterapisti e medici) oggi sono  un modello di azione per i nostri vicini di casa Francesi e Tedeschi, riconosciamogli anche solo per questo la gratitudine che meritano: costa meno di un adeguamento di stipendio, ma è ugualmente efficace a tener su il morale.

Approfondiamo infine come stanno i nostri colleghi a casa infettati da COVID, non sono pochi...  a noi interessa che la tosse passi, che la febbre vada via, e che tornino presto al lavoro perché abbiamo bisogno di loro; a voi il compito di approfondire come se la sono presa, noi lo sappiamo già.

Cesare Faldini Direttore Clinica Ortopedica Universita di Bologna Istituto Ortopedico Rizzoli

Niente più quarantena per i sanitari esposti al coronavirus, la denuncia del sindacato medici. Attualmente in Italia i sanitari contagiati sono più di duemila. La Voce di Manduria martedì 17 marzo 2020. Per effetto di un recente decreto legge, tutti i dipendenti degli ospedali o del servizio 118, medici, infermieri, tecnici, ausiliari, addetti alle pulizie, esposti a pazienti positivi al coronavirus, non devono andare in quarantena. La sospensione dal lavoro è prevista solo se si presentano i sintomi o in caso di accertata positività al Covid-19. Secco il rifiuto dell’Anaao Assomed che definisce la situazione paradossale: «il territorio è stato messo al riparo con chiare istruzioni con istruzioni chiare di distanziamento sociale, gli ospedali no e rischiano di diventare sedi di contagio». A tal proposito il sindacato dei medici sta presentando opportuni emendamenti in sede parlamentare. Il dissenso è legato al notevole aumento del rischio clinico, per il lavoratore e per i pazienti, data la grave e persistente carenza di dispositivi personali di protezione (maschere, occhiali, tute di bio contenimento), di tamponi e il colpevole ritardo nell’eseguire e processare gli stessi. Da qualche giorno i tamponi eseguiti in provincia di Taranto vengono processati a Foggia e non più a Bari. Per l’Anaoo Assomed , le Asl devono mettere in sicurezza tutti gli operatori impegnati in prima linea (Emergenza/Urgenza, Terapie intensive, Malattie infettive, Pneumologia, etc) ed adottino le seguenti misure. Per questo è necessario:

- fornire adeguati DPI (in particolare maschere FFP2, guanti, visiere e sovracamici), in quanto all’interno delle Strutture Sanitarie oramai non è più possibile discernere chi è stato esposto da chi no. I medici e gli infermieri potrebbero diventare fonte loro stessi di infezione, per cui negli altri setting deve essere obbligatorio indossare mascherine chirurgiche, guanti e visiere.

- Che il medico preposto a procedure di generazione di aerosol sia tutelato con maschere FFP3, come da linee guida scientifiche internazionali.

- Che venga abolito immediatamente il divieto, che alcune Asl hanno imposto, di indossare le mascherine negli spazi comuni e venga altresì imposto perlomeno negli spazi comuni dei reparti.

- Che il personale esposto si sottoponga obbligatoriamente a tampone, eventualmente dopo 72 ore di isolamento fiduciario, e che il risultato sia prontamente disponibile (5-7 ore). Il ritardo sia nell’esecuzione che nella processazione del tampone ha risvolti colposi, poiché favorisce il contagio.

In caso contrario, alla luce delle ulteriori misure restrittive decise dal Governo, sottolinea il sindacato, i Presidi Ospedalieri diventeranno l’unica area di contagio del paese, anziché di cura. Attualmente in Italia i sanitari contagiati sono più di duemila. 

(ANSA il 24 marzo 2020) Sono 84 a Roma, 6 a Latina, 2 a Viterbo e 2 a Frosinone, per un totale di 94, i medici contagiati dal nuovo coronavirus nel Lazio. A comunicarlo è Antonio Magi, presidente dell'Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e odontoiatri. I dati però, afferma, sono "sottostimati e per questo è necessario fare i tamponi a tutti gli operatori sanitari. Non c'è più tempo". Istituire presso ogni Asl un registro di tutti i sanitari a rischio per sottoporli a tampone. E' quanto prevede un documento della Regione Lazio varato ieri con raccomandazioni e direttive alle Asl circa la sorveglianza degli operatori sanitari alla luce "della crescente richiesta di bisogno assistenziale legata all'epidemia di COVID-19 con l'esigenza di proteggere il personale sanitario che si espone a casi confermati di infezione all'interno delle strutture sanitarie". Per contatti a rischio, si legge nel documento, si intendono "operatori delle Strutture del Servizio sanitario regionale od altra persona che ha fornito assistenza diretta ad un caso di COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso di COVID-19 senza l'impiego dei Dispositivi di Protezione Individuale (Dpi) raccomandati o mediante l'utilizzo di DPI non idonei". E' precisato inoltre che "al fine di garantire la continuità dell'assistenza sanitaria il personale non risultante ad alto rischio, venuto a contatto con paziente affetto da COVID 19 prosegue la propria attività professionale, previa osservanza delle norme di prevenzione e protezione per l'esposizione a rischio, di adeguate misure di contenimento del contagio ed è sottoposto a sorveglianza sanitaria attiva". Sono 51 nel Lazio i medici contagiati dal Covid-19, tra ospedalieri, medici di famiglia e del 118. Il dato viene fornito dal sindacato Anaao Assomed Lazio. Alcuni, spiegano, sono ricoverati all'Ospedale Spallanzani, altri sono in isolamento a casa. All'Ospedale Sant'Eugenio di Roma è stato chiuso il reparto di oculistica dopo che 7-8 medici e una decina di infermieri sono risultati positivi. 

Medici contagiati, l'attesa e le paure dei loro assistiti. A tutti in ogni caso viene consigliato di non avere contatti stretti con i parenti e di misurarsi la temperatura almeno due volte al giorno. La Voce di Manduria mercoledì 18 marzo 2020. Sono stazionarie le condizioni di salute dei due medici di famiglia manduriani risultati positivi al coronavirus. Entrambi dall’altro ieri si trovane in una stanza d’isolamento del reparto malattie infettive dell’ospedale Moscati di Taranto. Sono invece molto preoccupati i loro rispettivi assistiti che nelle ultime settimane (per almeno due c’è maggior rischio di contagio), hanno avuto bisogno dei propri curanti. La notizia girata in pochi minuti già da domenica sera, ha creato panico soprattutto tra le persone anziane ma in generale tra i circa tremila mutuati dei due professionisti. Molto impegnativo è il lavoro dei responsabili del Dipartimento di salute pubblica della Asl di Taranto che sta contattando una ad una le persone che sono state visitate dai due medici nelle ultime due settimane. Un lavoro impegnativo a lento che sinora, almeno da un piccolo sondaggio lanciato sulla pagina Facebook del nostro giornale, ha raggiunto appena il 12% dei mutuati potenzialmente a rischio. A loro stanno risalendo sulla base delle ricette emesse e registrate nel sistema di immagazzinamento dati della Asl. Gli assistiti vengono così chiamati telefonicamente e in caso di mancanza di numeri direttamente a casa dai tecnici Asl e vengono interrogati per stabilire il grado di rischio di un possibile contagio. A tutti comunque viene consigliato un periodo di isolamento per un periodo di quattordici giorni successivi alla data di emissione della ricerca. A tutti in ogni caso viene consigliato di non avere contatti stretti con i parenti e di misurarsi la temperatura almeno due volte al giorno. Ogni mattina, invece, gli addetti dell’ufficio di prevenzione Asl li contatta telefonicamente per rilevare eventuali sintomi, disturbi di ogni genere e la temperatura corporea. Naturalmente sfuggono ai controlli coloro i quali si sono recati dai medici senza prescrizione ma solo per un consulto qualsiasi di cui non è rimasta traccia. Di rassicurante c’è il fatto che, a quanto pare, negli ultimi giorni i due medici abbiamo visitato indossando i dispositivi di protezione individuale, come maschera e guanti, proprio per evitare rischi di contagio.

L’anomalia di Teramo: 40 sanitari positivi in ospedale, «Il nostro focolaio è lì». Simona Musco il 28 marzo 2020 su Il Dubbio. L’appello del sindaco: «La struttura va commissariata, sanificata e blindata. Sono necessari tamponi a tappeto ma è stato perso molto tempo». La guerra che si combatte in corsia è doppia. Si combatte per i pazienti, sostenendo turni di lavoro massacranti, con presidi di protezione individuale insufficienti. E si combatte anche la propria battaglia personale contro il virus. Dalle strutture ospedaliere del fronte il bollettino di guerra è impietoso: al 26 marzo sono 6.414 gli operatori sanitari contagiati, 200 in più in un solo giorno, medici e infermieri che hanno un’età media di 49 anni, nel 65% dei casi donne. E sono state 46, a ieri, le vittime in camice del coronavirus. Una lista nera che viene aggiornata quotidianamente dalla Federazione nazionale dell’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che continua ad allungarsi. «È lecito supporre questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa», afferma il presidente nazionale della Fnomceo, Filippo Anelli. Anelli critica l’inadeguatezza «del modello ospedalo- centrico per far fronte ad epidemie di questa portata». Servono, dunque, «percorsi dedicati esclusivamente al Coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari». Il caso Teramo. In questo quadro a tinte fosche spicca il caso dell’ospedale Mazzini di Teramo, dove giovedì sono risultati positivi 40 sanitari a lavoro in reparti non Covid. Si tratta di 14 infermieri e due medici di oncologia, 14 tra infermieri e oss e due medici di medicina; tre tra infermieri e OSS più un medico di chirurgia toracica, un medico di diabetologia, uno di anatomia patologica, un infermiere e un medico di cardiologia. Un dato che potrebbe crescere, in quanto l’Asl è in attesa di nuovi referti. «Abbiamo avuto diversi giorni di vantaggio rispetto al nord prima del diffondersi del virus – spiega al Dubbio Gianguido D’Alberto, sindaco di Teramo -, giorni che dovevano servire per preservare gli ospedali e il personale sanitario, baluardo della lotta contro il virus, dal contagio. È vero che anche negli altri territori gli ospedali sono stati attaccati, ma in contesti in cui al di fuori dell’ospedale il virus si era già diffuso. Il paradosso, a Teramo, è che mentre la situazione, fuori, è tutto sommato sotto controllo, il focolaio, nell’area della provincia, sta dentro l’ospedale». E ciò, secondo il sindaco, a causa della mancata adozione delle misure necessarie, «che chiedevamo tutti da settimane, in primis i medici». Ovvero la dotazione di dispositivi di protezione personale, l’adozione di protocolli sanitari e un’azione di monitoraggio, effettuando tamponi al personale sanitario. «È mancata una guida – ha aggiunto -. Bisogna ricordare che il Mazzini non segue solo pazienti Covid, ma è un ospedale multispecialistico punto di riferimento per l’intera provincia. E va preservato in modo assoluto o rischia di saltare l’intero sistema sanitario della zona». Per D’Alberto il problema è l’aver voluto gestire in maniera ordinaria un’emergenza. «È necessaria una figura commissariale, un esperto che affianchi il direttore generale per aggredire questa emergenza e salvare gli ospedali». L’obiettivo è sanificare l’ospedale – che conta 24 posti Covid, terapia intensiva compresa – blindarlo e ripartire, partendo da tamponi a tappeto tra tutti coloro che vi lavorano, dal personale sanitario agli impiegati. «Oggi questo meccanismo si è messo lentamente in moto ma già i primi pesantissimi riscontri impongono una immediata accelerazione e, soprattutto, una programmazione sanitaria emergenziale immediata conclude D’Alberto -. Non è ammissibile tergiversare. Nessuna polemica ma un intento costruttivo, nessuna ricerca di responsabilità per eventuali ritardi od omissioni, ma la chiamata ad una maggiore responsabilità da parte di tutti, perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno. A nessuno può sfuggire come, al di là dell’emergenza dettata dalla pandemia, vi sia una normalità sanitaria, una serie di malattie e di urgenze che continuano a verificarsi» .

Lorenzo Nicolini per romatoday.it l'8 giugno 2020. Inizieranno oggi, presso i drive-in della Asl Roma 3, i test a tutti i contatti stretti ed ai pazienti già dimessi dall'Irccs San Raffaele Pisana di Roma, identificato come nuovo cluster della Regione Lazio. Qui, secondo i dati forniti dall'assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D'Amato nel tardo pomeriggio del 7 giugno sono risultati ulteriori due positivi e si tratta di parenti di pazienti della struttura: il totale complessivo dei casi positivi al coronavirus sale così a 37. "Il focolaio è stato contenuto grazie alla tempestività dell'intervento da parte della sanità pubblica. - ha commentato D'Amato  - Questo focolaio dimostra che non bisogna abbassare la guardia e vanno rispettate tutte le indicazioni. Rimangono solo una decina di tamponi su circa settecento che vanno riprocessati per indeterminatezza". Sull'origine del focolaio, invece, non sono mancate le polemiche. Sull'origine del focolaio il Commissario straordinario della Asl Roma 3, Giuseppe Quintavalle ha dichiarato che "è probabile che il caso indice del focolaio sia riferibile ad alcuni operatori della struttura". Una frase che ha innescato subito un botta e risposta con i gestori della clinica intervenuti con una nota ufficiale. "Contrariamente a quanto riportato nelle comunicazioni regionali, dai dati in possesso della struttura e messi a disposizione della Asl sembra emergere una origine derivata dall'invio di pazienti già positivi da parte di alcuni presidi ospedalieri" ha scritto il San Raffaele. "Quanto infine alla citazione nei comunicati e dichiarazioni regionali in merito a presunte "negligenze" della struttura - sottolinea la nota - si precisa nuovamente che al contrario sono state scrupolosamente rispettate ed applicate tutte le disposizioni nazionali e regionali emanate al fine della protezione dei pazienti ed operatori dal rischio contagio da Covid 19. Di tali misure rigorosamente rispettate e' già stata fornita piena evidenza fattuale e documentale alla asl RM 3". L'irccs San Raffaele di Roma confida, pertanto, "che l'indagine epidemiologica in atto ed alla quale pienamente collabora potrà dimostrare la correttezza dell'operato dell'istituto, smentendo così tali generiche e non dimostrate affermazioni regionali ampiamente riportate da tutti i media con piena riserva della tutela in ogni sede dell'immagine e dell'onore dell'Istituto e dei suoi operatori ai quali va il ringraziamento più sentito per l'abnegazione e lo spirito di servizio e sacrificio sin qui dimostrato". In serata l'ulteriore precisazione con una nota dalla Asl Roma 3: "Al momento è probabile che il caso indice del focolaio sia riferibile ad alcuni operatori della struttura anche perché, secondo l'ordinanza regionale del 18 aprile 2020, i pazienti ammessi nella struttura, oltre ad essere sottoposti ad un adeguato distanziamento e l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, debbono per 14 giorni essere posti in isolamento precauzionale". La gestione della clinica della Pisana è la stessa della struttura di Rocca di Papa. Qui scoppiò un cluster che contò 159 casi positivi e 17 morti. In quel caso lo scontro tra Regione Lazio e San Raffaele si incentrò allora sulla corretta somministrazione dei tamponi e l'assistenza ai pazienti. La Pisana arrivò ad avviare una procedura di revoca dell'accreditamento.

San Raffaele, salgono a 93 gli operatori e i pazienti positivi al Covid. "E il numero salirà". Morta paziente di 89 anni. Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da La Repubblica.it. San Raffaele, ormai i casi positivi sono 93, con decine e decine di persone ora in quarantena perchè venute in qualche modo a contatto con i pazienti o con gli operatori della struttura di riabilitazione alla Pisana. E sempre oggi è deceduta al Covid Hospital Columbus una donna di 89 anni probabilmente infettata nell'ospedale-focolaio. "Apprendiamo ora dalla Asl Roma 3 che dai tamponi di controllo eseguiti ieri, a distanza di 5 giorni dalla prima tornata, sono emersi altri 16 casi positivi presso l'Irccs San Raffaele Pisana di cui 14 pazienti, tutti collegabili con i primi pazienti positivi nella struttura, e due operatori. I pazienti sono tutti in trasferimento verso l'istituto Spallanzani ed è stato dato mandato alla struttura San Raffaele di comunicare tempestivamente le informazioni ai famigliari. I due dipendenti positivi sono un operatore sanitario e un fisioterapista in sorveglianza a domicilio. E' stato possibile individuare questi nuovi positivi grazie ai tamponi di controllo, eseguiti dopo 5 giorni dai primi tamponi, a tutti i pazienti e gli operatori rimasti nella struttura". E ancora: "Questo focolaio si dimostra impegnativo, ma il sistema dei doppi controlli sta funzionando, grazie alla tempestività degli interventi messi in atto sono stati individuati questi nuovi casi che erano negativi ai tamponi precedenti. Il focolaio raggiunge così al momento un totale di 93 casi positivi, destinati ad aumentare".

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. Da uno a centonove casi. Cinque morti. Sempre che la conta degli infetti si fermi qui. L'epicentro, il San Raffaele Pisana, istituto noto nel panorama della riabilitazione neuromotoria privata, periferia Ovest di Roma, ora semi-deserto, coi reparti evacuati per le sanificazioni e la sorveglianza strettissima della Asl. Mentre la Regione coi tamponi a tappeto insegue lo spettro del contagio che si allarga ogni giorno che passa, raggiungendo le altre province del Lazio, da Rieti a Latina, agli studi della Rai a Saxa Rubra, a Guidonia, i carabinieri del Nas scandagliano nella direzione opposta, restringendo a ritroso il cerchio degli ammalati, spulciando le cartelle cliniche, gli accessi, i certificati di dimissione, le visite dei parenti. Dopo un'ispezione nella sede della Asl Roma 3 la settimana scorsa, il Nucleo Antisofisticazione e Sanità dell'Arma, guidato da Maurizio Santori, ha spedito una prima informativa al pm Nunzia D'Elia. Una relazione preliminare che ricostruisce l'attività d'indagine sin qui svolta e che formula le prime ipotesi. La prima domanda, quella che interroga anche gli esperti del Seresmi, il Sistema d'indagine epidemiologica regionale, è quasi scontata: da dove è partito tutto? Qual è l'origine del focolaio che da giorni gonfia i numeri dei positivi al Covid nel Lazio e che agita in qualche modo la Capitale, abituata a una curva dei contagi ormai sotto ai livelli di guardia da settimane? Insomma, chi è il paziente uno? Gli accertamenti sono ancora in corso, ma il campo d'indagine nelle ultime ore sembra essersi ristretto sostanzialmente a tre piste. Tre nomi. Due sono dipendenti dell'Irccs San Raffaele, l'altro è un paziente che dopo avere avuto un tampone negativo, è risultato positivo al Sars-CoV-2. Una circostanza, quest'ultima, che spinge gli investigatori ad approfondire le procedure dei tamponi ai degenti, sia in arrivo che in uscita dalla clinica. Sotto la lente anche la sperimentazione dei test sierologici avviata dall'istituto privato e che ha coinvolto 250 sanitari e 200 pazienti. Un progetto che, hanno spiegato dal San Raffaele, «è stato eseguito sotto la supervisione del Ministero della Salute e che rappresenta una verifica in più interna». La Regione però nega un'autorizzazione ufficiale. L'origine del contagio viene ormai fatta risalire almeno ad un mese fa, tanto che la stessa Asl sta richiamando per i tamponi di controllo tutti i pazienti dimessi dal 1 maggio in poi. Dei tre positivi che potrebbero essere considerati il caso uno, due sono dipendenti della struttura. Uno è un fisioterapista risultato positivo al Covid il 3 maggio. Secondo l'istituto privato, però, sarebbe rientrato al lavoro dopo due tamponi negativi, come vuole la procedura. L'altra è un'impiegata amministrativa. La terza pista porta invece a un paziente ormai dimesso da tempo dalla struttura. Sottoposto a un tampone, era risultato negativo. Poco dopo è stato trovato positivo. Un paziente che si è positivizzato, come a volte capita, o un errore durante l'analisi? Dubbi che solo le successive indagini potranno chiarire. Ma la sensazione è che ormai il cerchio si stringa. La catena del contagio che ha portato alla moltiplicazione dei casi prende forma. I Nas hanno chiesto all'azienda sanitaria locale gli elenchi dei pazienti dimessi, i pazienti dei day hospital, la lista delle visite ambulatoriali, del ricevimento di famigliari e altri ospiti ammessi all'interno della struttura alla Pisana. Il San Raffaele ieri ha fatto sapere che «dal 9 marzo nessun familiare ha avuto accesso alla struttura se non in pochissimi casi debitamente autorizzati e strettamente controllati e con l'applicazione di tutte le relative cautele». L'istituto si è detto certo di avere «sempre posto in essere le cautele e le precauzioni previste dalle norme nazionali e regionali in materia di Covid-19 e del suo contrasto, ivi compresa la messa a disposizione del personale di tutti i presidi previsti». Nella clinica della Pisana, pensata per 298 posti letto, ormai restano 79 pazienti; 13 sono in uscita. Nel frattempo i casi collegati al cluster aumentano. Ieri, altri 5 positivi. Due sono operatori sanitari dell'istituto, un altro è il famigliare di un paziente dimesso. «Ad oggi sono stati effettuati oltre 4 mila test per circoscrivere questo focolaio, si tratta di uno sforzo senza precedenti su un'unica struttura», rimarca l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. L'onda del contagio è arrivata fino al quartier generale della Rai, dove si è arrivati a 110 test: 60 esami sabato, altri 50 ieri. Cinque tecnici della tv positivi, in attesa dell'ultima carrellata di risultati. E le analisi andranno avanti.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 16 giugno 2020. Una crepa nelle diagnosi. Un paziente positivo al Covid a cui non sarebbero stati effettuati tutti gli esami necessari. E il contagio che si propaga fino a raggiungere quota 111 infetti e cinque morti. La Procura di Roma indaga sul cluster del San Raffaele Pisana, il focolaio che gonfia da giorni le statistiche sul coronavirus nella Capitale. Ieri i carabinieri del Nas hanno ispezionato per oltre quattro ore la clinica da 298 posti letto alla periferia Ovest dell'Urbe, nome noto nel panorama della riabilitazione neuromotoria privata. Su mandato del pm Nunzia D'Elia, i militari del Nucleo Antisofisticazione e Sanità, guidati dal Maurizio Santori, hanno perlustrato tutti e quattro i piani dell'istituto, chiedendo conto delle procedure interne legate all'emergenza Covid e scandagliando cartelle, rapporti, elenchi su pazienti, medici, infermieri e altri dipendenti della struttura. Anche se l'indagine è alle prime battute, le tessere del mosaico iniziano a comporsi. Alcune piste perdono quota. Altre invece sembrano avvicinare gli inquirenti al caso uno, l'origine del focolaio. Gli investigatori sembrano ormai convinti che a portare il bacillo del Sars-CoV-2 all'interno dell'istituto sia stato un paziente. In un primo momento, gli accertamenti si erano concentrati anche su due dipendenti della clinica - un fisioterapista positivo al virus il 3 maggio e un'impiegata amministrativa - ma le ultime verifiche hanno cambiato lo scenario. Nell'ultima informativa dei carabinieri sono annotati i nomi di 3 pazienti assistiti nei reparti di riabilitazione cardiologica e riabilitazione respiratoria. La scoperta della positività al Covid-19 risale al 2 giugno, a quel punto l'istituto si è immediatamente attivato, contattando la Asl. Ma il sospetto di chi indaga è che il contagio possa risalire a diverse settimane prima e che sia rimasto sottotraccia. Anche il Servizio sanitario regionale, difatti, sta richiamando tutti i degenti dimessi dal 1 maggio in poi. L'inchiesta punta alle possibili falle nelle diagnosi dei ricoverati, prima o dopo l'accettazione al San Raffaele. L'obiettivo è capire se gli ospedali da cui i pazienti provenivano abbiano realizzato tutti gli esami necessari e se lo stesso abbia fatto la clinica privata di via della Pisana. Secondo fonti investigative, alcuni ricoverati avrebbero presentato patologie compatibili con una sindrome respiratoria fin dall'inizio. Il quadro clinico quindi, prima o dopo l'approdo all'istituto di riabilitazione, avrebbe potuto essere considerato diversamente. Aspetti a cui solo gli accertamenti dei prossimi giorni potranno dare risposta. Dal San Raffaele assicurano di avere rispettato tutte le procedure. Il fascicolo appena aperto in Procura è senza ipotesi di reato e indagati, al momento. La Regione intanto prova a mettere argine al focolaio, che dalla clinica ha raggiunto le altre province del Lazio, da Rieti a Latina (ieri altri due casi a Guidonia), al quartier generale della Rai a Saxa Rubra, dove però il contagio sembra essersi arrestato: dopo i 5 operatori tv infettati, gli ultimi 50 test negli studi tv hanno dato esito negativo. In totale, per provare a rintracciare i casi riconducibili al cluster sono stati eseguiti quasi 5 mila esami in pochi giorni. «Il doppio di Vo' Euganeo», ha sottolineato ieri l'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato. «Nel caso del San Raffaele - ha aggiunto - ci sono state delle lacune che adesso stiamo ricostruendo. C'è un problema di percorsi, di direzione sanitaria e di controlli». Ma il sistema delle verifiche incrociate, è convinto l'assessore, «ha funzionato, si è risposto con grande tempestività, ma non dobbiamo mai abbassare la guardia perché sono situazioni che possono ripresentarsi». All'interno dell'istituto restano sessanta pazienti. Insieme al personale sanitario, saranno sottoposti a un nuovo ciclo di esami nei prossimi giorni. Sperando che stavolta, a differenza di quanto accaduto la settimana passata, i tamponi negativi, ripetuti, non diventino positivi.

Il grido d'allarme dei medici: "Per noi pochi tamponi e risultati in ritardo". Continua ad aumentare il numero degli operatori sanitari infettati. La denuncia dei camici bianchi: "Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio". Luca Sablone, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. La circolare del Ministero della Salute del 20 marzo impone che la comunicazione del risultato deve avvenire entro 36 ore per il personale sanitario, ma ci sono casi in cui si aspetta anche 6 giorni il referto del tampone. Questa la surreale situazione che vivono i medici, impegnati in prima linea contro il Coronavirus ma che non ricevono un trattamento da eroi. Nel frattempo continua ad aumentare il numero dei camici bianchi infettati dal Coronavirus: sono saliti a 10.007, mentre il giorno precedente erano 9.512. Le Regioni più colpite sono Lombardia (oltre 6mila contagiati tra medici, infermieri, Oss e tecnici di laboratorio) ed Emilia-Romagna (944). Mirko Schipilliti a Il Fatto Quotidiano ha raccontato la sua esperienza: "Fortunatamente in quei giorni ero a riposo: una pura casualità. Ma a tanti miei colleghi è andata molto peggio, hanno atteso giorni il referto pur dovendo rimanere in corsia, senza sapere se erano positivi, mettendo a repentaglio, oltre ai pazienti, le loro famiglie".

Il medico del pronto soccorso dell'azienda ospedaliera dell'ospedale Sant'Antonio di Padova sostiene che le aziende sanitarie dovrebbero allinearsi e cercare di ottenere i massimi risultati "dando la priorità al personale sanitario e al paziente con la febbre che deve essere ricoverato". Le mascherine non risolvono il problema dei ritardi: "Siamo a poco meno di 2mila tamponi. Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio, né giocare con procedure così delicate come la sorveglianza". Anche perché ogni giorno in più rappresenta "un pericolo per il sanitario, i suoi famigliari, i pazienti".

La denuncia. È stata fatta una protesta contro la direzione generale e il direttore sanitario, senza però ottenere alcun risultato: "Ci è stato solo detto che c’è un problema tecnico legato alla tipologia delle macchine che processano i tamponi e nulla di più". Schipilliti si è dovuto recare in ospedale per fare il terzo test senza nemmeno sapere se il secondo era positivo: "Tutto questo spalanca lo scenario di denunce alla magistratura". Sulla questione è intervenuto anche Adriano Benazzato, segretario regionale del sindacato Anaao, che ha messo in risalto le critiche condizioni in cui i medici sono costretti a lavorare: "Oltre alla carenza di personale, o mancano le mascherine protettive o mancano i reagenti per i tamponi". Intanto il governatore Luca Zaia ha annunciato l'indagine sierologica che dovrebbe coinvolgere inizialmente i 54mila dipendenti della sanità e delle case di riposo della Regione. Il governatore ha anche parlato di una speciale "patente" a chi ha sconfitto il virus e sviluppato gli anticorpi.

Il giallo dei tamponi ai medici: "Quei risultati attesi da un mese". Il giallo dei tamponi: "L'ultimo test è stato fatto più di un mese fa". I medici avvertono: "Basta un contagiato e si torna a tutto ciò che stiamo vivendo". Luca Sablone, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Circa 180 camici bianchi, tra medici di base e pediatri del Lodigiano, stanno continuando a lavorare per garantire supporto a coloro che sono a casa in convalescenza o presentano sintomi sospetti da Coronavirus. A preoccupare però è un fatto agghiacciante: il primo (e unico) tampone risale al 25 febbraio. Una situazione aberrante che è stata denunciata da Massimo Vajani in prima persona: "La mia è una battaglia che continua da settimane. Serve assolutamente effettuare i tamponi a tappeto per tutti i medici e i pediatri del territorio". L'ultimo controllo è stato effettuato più di un mese fa, a pochi giorni dal primo caso del paziente 1 a Codogno che risale al 21: "È troppo poco perché solo nell'ultimo mese abbiamo continuato a lavorare senza sapere se eravamo contagiosi o meno in un territorio, come quello Lodigiano, dove potenzialmente tutti possono aver contratto il virus". Il presidente dell'Ordine dei medici di Lodi ha espresso dubbi sui medici di base nella provincia epicentro del contagio da Covid-19 in Italia: addirittura in molti non avrebbero ricevuto neanche l'esito del primo test "per la grande confusione che nei primi giorni dell'emergenza ha colpito i laboratori di analisi".

"Preoccupati per la riapertura". Come riportato da Il Giorno, i medici sono piuttosto allarmati in vista di una possibile imminente ripresa delle attività, ovvero quando il governo stabilità l'entrata nella fase 2: bisognerà convivere con il virus e far ripartire gradualmente il Paese. Inevitabilmente diverse persone dovranno rivolgersi ai medici di base per chiedere i certificati per poter tornare a lavoro dopo il periodo di malattia: "Solo chi è negativo a due tamponi consecutivi può ritenersi guarito dal Coronavirus. Se questi test però non vengono fatti come facciamo?". I rischi sono ovviamente seri e concreti: "Anche un solo caso positivo può far ripartire tutto quello che abbiamo vissuto nell'ultimo mese. A rischio ovviamente c'è la salute di tutti". Intanto continua ad aumentare il numero degli operatori sanitari infettati: ieri vi abbiamo parlato del grido d'allarme dei camici bianchi, che lamentano pochi tamponi e risultati in ritardo. La situazione surreale è stata sollevata da un medico del pronto soccorso dell'azienda ospedaliera dell'ospedale Sant'Antonio di Padova: "Siamo a poco meno di 2mila tamponi. Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio, né giocare con procedure così delicate come la sorveglianza". Anche perché ogni giorno in più rappresenta "un pericolo per il sanitario, i suoi famigliari, i pazienti".

Alessandra Corica per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. «Ma quali eroi. Servono le mascherine, i guanti, le visiere. Quello che ancora non si è capito è che se non si proteggono i medici, non si proteggono i cittadini: i protocolli vanno rivisti». Filippo Anelli è il presidente della Federazione degli ordini dei medici: ogni giorno l' ente aggiorna la conta dei morti tra i camici bianchi, ieri è arrivata a 80, altre 25 le vittime tra gli infermieri. «Occorrono i dispositivi di protezione individuale, i tamponi da fare ogni cinque giorni a chi lavora in ospedale, dei nuovi modelli di protezione che tengano conto non solo degli ospedali ma anche degli ambulatori sul territorio. Ieri sera sembra siano arrivate a Malpensa delle nuove forniture per i medici di famiglia, tra oggi e domani dovrebbero iniziare a distribuirle, vedremo come andrà», dice Anelli. Ancora scottato dall' ultima volta: le forniture consegnate dalla Protezione civile nei giorni scorsi le hanno dovute ritirare, erano «inutilizzabili » dal punto di vista sanitario, tanto che la Federazione ha deciso di girarle ad associazioni ed enti benefici. «Siamo stanchi di promesse, non ci bastano le parole: non abbiamo più lacrime per piangere i nostri morti». Sono 11.252 gli operatori sanitari finora contagiati, oltre 4 mila in Lombardia nella quale il fabbisogno di sole mascherine chirurgiche supera il milione di pezzi al giorno. In tutta Italia trovarle resta problematico, negli ospedali si fa fatica e ancora peggio negli studi dei medici di base. Che se non le hanno acquistate in autonomia ne sono sprovvisti, e ora minacciano la serrata. «Continuano tutti a dire grazie a noi medici. Ma finora per proteggerci è stato fatto poco», riflette Carlo Palermo, numero uno dell' Anaao, il sindacato dei medici ospedalieri. «L' Italia si è basata su una comunicazione dell' Oms del 27 febbraio che diceva che le mascherine chirurgiche le devono portare solo i malati e chi se ne occupa. Ma quella nota è stata scritta pensando al contesto mondiale, all' Italia così come al Corno d' Africa. Non porsi il problema che qui si potesse fare di più è assurdo». E adesso? «Se testassimo tutti i medici, almeno il 10 per cento risulterebbe positivo». Con buona pace dell' assistenza ai pazienti, che in questo modo rimarrebbero scoperti visto che una parte dei sanitari sarebbe costretta a rimanere a casa in quarantena per curarsi. Carlo Montaperto, presidente lombardo dell' Anpo, l' associazione dei primari, scuote la testa: «Non si può dire che le mascherine in ospedale non servono nei reparti senza pazienti con Covid-19, solo perché non si è in grado di acquistarle. Come si fa a essere certi che quel paziente che visitiamo per altre ragioni non sia asintomatico?». Il 28 marzo l' Istituto superiore di sanità ha diramato delle linea guida sull' utilizzo dei dispositivi di protezione negli ospedali: prevedono le mascherine chirurgiche in alcuni contesti, quelle Ffp2 e Ffp3 in altri. E poi i camici, le visiere, gli occhiali, tutto da modulare a seconda della vicinanza al paziente infetto, non da indossare in tutti i luoghi dell' ospedale, insomma. Le direttive sono "in itinere", potrebbero cambiare, «visto che di questa patologia spiega Angelo Pan, primario di Malattie infettive a Cremona, membro del pool che ha steso il documento ancora si conosce poco, quel che rimane fondamentale è fare attenzione, non confondere le zone contaminate con quelle pulite, lavarsi benissimo e spesso le mani». Nel suo ospedale ci sono circa 500 malati con Covid-19, in 200 tra medici e infermieri finora sono stati contagiati: «Fino al 20 febbraio ci eravamo preparati, ma pensando che avremmo dovuto accogliere qualche paziente con Covid-19, non certo l' inferno che si è scatenato».

Da tgcom24.mediaset.it il 2 maggio 2020. Gli specializzandi "escono di casa e hanno una vita sociale molto attiva. Sono questi i soggetti che nel momento in cui si inseriscono nell'ospedale creano maggior pericolo". Lo ha detto Daniele Donato, direttore sanitario dell'Azienda ospedaliera di Padova, in una video conferenza. Un'"accusa" che non è affatto piaciuta ai rappresentanti degli specializzandi che replicano: "Vogliamo scuse pubbliche". Nel video, Donato afferma che la diffusione del contagio nel personale sanitario sarebbe avvenuta soprattutto "nei momenti di socializzazione al di fuori dell'area assistenziale" tra gli specializzandi: "Nel momento in cui erano in ospedale e dovevano seguire tutte le misure di barriera erano estremamente precisi e monitorati, ma nel momento in cui si trovavano nella loro sala per mangiare un panino assieme o per usare il computer, questi comunque hanno trovato dei momenti di contatto e di comunione che hanno favorito la trasmissione del virus". "Scuse pubbliche e immediate", replicano gli specializzandi. "Il Direttore Sanitario dovrebbe vergognarsi e scusarsi pubblicamente con tutti gli specializzandi che ogni giorno permettono il funzionamento dell'Azienda", afferma Andrea Frascati, presidente di Mespad Specializzandi Padova. Medici, sottolinea, che hanno lavorato in prima linea in tutti i reparti dell'Azienda, "inizialmente senza idonei dpi e in assenza di adeguate disposizioni dalla direzione medica". Ora Mespad, spiega Frascati, sta valutando se adire le vie legali per contestare l'accusa di procurata epidemia e il danno d'immagine.

L'Asl apre un'inchiesta dopo la denuncia in diretta tv di Burioni: "Costretta a lavorare con il Covid". Il caso di una dottoressa cuneese in servizio nonostante la positività. Sara Strippoli su La Repubblica il 28 aprile 2020. La Regione aspetta di saperne di più prima di pronunciarsi e, eventualmente, intervenire. L'Asl Cuneo 1 ha annunciato un'indagine. Il direttore generale Salvatore Brugaletta dice di non aver nulla da dire e rimanda ogni dichiarazione all'Unità di crisi. Ma quello di Renata Gili, dottoressa di guardia medica dell'Asl Cuneo 1 è un racconto dettagliato e preciso. E il suo non sarà certo l'unico caso. Per mettere a fuoco le falle di una gestione che si può soltanto sperare sia adesso superata, la dottoressa Gili ha scelto di inviare una lettera a Roberto Burioni con cui collabora alla rivista Medical Facts. L'infettivologo l'ha letta in diretta domenica a " Che Tempo che fa " , la trasmissione di Fabio Fazio. Renata Gili ci ha messo la faccia: collegata da casa ha raccontato, dati e fatti precisi. Dopo un mese è ancora positiva al Covi- 19. Il 9 marzo, nei giorni del caos della prima fase dell'emergenza in Piemonte, lei ha la febbre. Immagina che potrebbe essere coronavirus, ha mal di gola, perdita del gusto e dell'olfatto. Lo comunica. Nessun tampone, all'epoca le regole erano chiare: autorizzazione soltanto nel caso di contatti con una persona positiva. Il 12 la febbre passa. Per l'azienda dovrebbe tornare a lavorare. Lei, convinta di essere contagiata, organizza cambi di turno con i colleghi e decide di autoisolarsi. Sa bene qual è il rischio per gli altri. Riesce a evitare il lavoro fino al 20 marzo, giorno in cui riesce a fare il test. Il risultato arriva il 24 marzo ed è positivo. Peccato che il 23 marzo le dicano di tornare al lavoro. Ci va: " Per dodici ore racconta - ho lavorato in una stanza chiusa a contatto con i colleghi". Cosa sarebbe successo se invece di un giorno quel contatto ci fosse stato per due settimane consecutive? Burioni dice di essere stupefatto: " Il 9 marzo potevano mancare i tamponi, ma questo non è accettabile ". L'indagine promessa non dovrebbe richiedere tempi lunghi. Renata Gili non ha intenzione di parlare della sua Asl, citare nomi, ma è convinta che il suo non sia un caso isolato: "Non voglio parlare di una realtà specifica, il mio è un esempio che si ripete in molte realtà. Spero di aver parlato in modo costruttivo per evidenziare un problema che si è verificato e sul quale sarebbe importante correggere il tiro".

''EROI UNA MINCHIA''. Dal sito dell'USB Lombardia, Unione Sindacale di Base il 16 marzo 2020. Oggi in Lombardia e in tutto il Paese si svolgerà un flash mob per ringraziare del lavoro incessante tutti gli operatori sanitari. Un applauso unanime  sottolineerà lo sforzo enorme a cui tutti sono sottoposti. In un momento in cui l'attenzione generale è rivolta all'emergenza del coronavirus, e che tutti si stanno rendendo conto di cosa possa significare avere un sistema sanitario all'altezza, chiediamo che insieme all'applauso si levi un grido di rabbia per chi ha, negli anni, distrutto il SSN e realizzato questo sistema sanitario criminale, in modo che, finita l’emergenza, si possa discutere su come cambiarlo radicalmente. Tra gli operatori sanitari della Lombardia - e temiamo presto in altre parti del paese - in queste ore, insieme al doveroso senso di responsabilità, all'impegno strenuo,  alla stanchezza e alla paura, si sta facendo spazio anche la rabbia. In molti si sentono abbandonati da un sistema che fino ad oggi li ha sfruttati oltre i limiti, facendoli lavorare costantemente in carenza di organico e al momento con dispositivi di protezione spesso inadeguati, per qualità e quantità, mettendone a rischio la salute. Un sistema che sta negando persino la possibilità di un tampone di controllo a chi lavora in corsia, a stretto contatto con pazienti e colleghi infetti; una circostanza che ha aumentato la rabbia nel leggere che, ad esempio in serie A, ad ogni caso di positività, viene effettuato il tampone a tutta la squadra e all’intero staff. Da questa contraddizione l'idea di lanciare l'hashtag #EroiUnaMinchia, a sottolineare come ad un'idea, comunque esagerata, di eroismo (è il nostro lavoro) che si sta diffondendo tra la gente, si contrapponga un non adeguato livello di attenzione per i lavoratori da parte di chi amministra la sanità. Un sistema sordo alle richieste che abbiamo costantemente rivolto alle aziende e alle istituzioni. Le compatibilità economiche - dettate spesso dall’UE - hanno impedito per anni di investire sulla sanità pubblica ma non certo di privatizzare, esternalizzare, tagliare posti letto, chiudere reparti  e Pronto Soccorso “improduttivi”. E nemmeno quando si poteva assumere e stabilizzare (dal 1 gennaio scorso) gli amministratori regionali e aziendali hanno ritenuto di doverlo fare con la velocità necessaria, malgrado i nostri solleciti. Corrono adesso che il danno è fatto. Tra l’altro con assunzioni temporanee, con l’evidente intenzione di far tornare tutto alla situazione precedente, finita l’emergenza. Noi, operatori della sanità lombarda, presenteremo il conto quanto questa emergenza sarà finita. A chi ha gestito la sanità diciamo: Vi costringeremo a ripensare questo sistema sanitario che avete precarizzato, appaltato, privatizzato, regionalizzato, insomma distrutto! Vi costringeremo a discutere sui veri numeri del contagio, sulla reale situazione degli ospedali lombardi in questa fase, sulla gestione del tutto.  Intanto, in attesa di arrivare alla resa dei conti, vi chiediamo DI METTERE IN SICUREZZA I LAVORATORI DELLA SANITÀ. Questo al momento non sta avvenendo in modo efficace. Mancano DPI, non si capisce la logica dei controlli sui tantissimi contagiati tra i lavoratori, non vi sono controlli efficaci sulle strutture private, da dove ci arrivano segnalazioni di aziende che non forniscono nemmeno le mascherine a chi lavora in corsia. La Sanità non è una missione che ha bisogno di martiri. La sanità è uno strumento che deve garantire la salute. Chi vi lavora non è un eroe, un martire o un missionario: è un lavoratore che ha competenze in quel settore e ha diritto ad ogni tutela perché non deve morire di lavoro. Deve poter ritornare in famiglia senza paura di portare un'ecatombe virale in casa. Chiediamo:

LA COSTITUZIONE DI UN FONDO STRAORDINARIO CON FONDI EUROPEI – la stessa Europa che con le sue politiche ha creato questo disastro - che serva a finanziare l’intervento di emergenza e  la ricostruzione del sistema sanitario su altre basi e su differenti presupposti:

BASTA PRIVATIZZAZIONI ED ESTERNALIZZAZIONI. ASSUNZIONE E STABILIZZAZIONE DI PERSONALE. RITORNO AL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE CON L’ANNULLAMENTO DEI LIVELLI DI AUTONOMIA REGIONALE ED AZIENDALE che, come dimostrano questi giorni di emergenza, impedisce un controllo generalizzato e univoco  per gestire l’emergenza.

Una emergenza che, proprio per queste ragioni, speriamo non si allarghi a regioni dove il sistema sanitario è ancora più debole perché, il timore è forte, le conseguenze potrebbero essere inimmaginabili.

Luca Fraioli per “la Repubblica” il 25 marzo 2020. Se è vero che in Lombardia gli ospedali sono stati tra i focolai dell' epidemia, è proprio sulle strutture sanitarie che si deve intervenire per evitare che l' incendio divampi nel resto del Paese. Che qualcosa non abbia funzionato lo ha ammesso Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive dell' ospedale Sacco di Milano, uno degli esperti più ascoltati in questi giorni di crisi. Lo hanno scritto nero su bianco, in una lettera al New England Journal of Medicine , i medici del Giovanni XXIII di Bergamo. Lo dimostrano i numeri dei contagiati tra il personale sanitario: più di 5000, quasi il 10 per cento di coloro risultati positivi al tampone, percentuale che in Lombardia sale al 12. Lo confermano le elaborazioni di Enrico Bucci, professore di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia: «In condizioni normali, all' inizio dell' epidemia da coronavirus, ogni contagiato ne infetta in media altri 2,5. In alcuni ospedali lombardi questa capacità di contagio è stata compresa tra 6 e 7», spiega Bucci. Dunque, un malato di Covid-19 arriva al Pronto soccorso e infetta altre sette persone, tra pazienti, medici e infermieri. Ciascuna di queste ne infetta altre sette e così via: in poche ore quel caso iniziale ne innesca centinaia. «Purtroppo la normale organizzazione di un ospedale non è adatta a fronteggiare un virus che si trasmette per via aerea e con un alto tasso di contagiosità, anzi spesso fa da centro di diffusione», ammette Pierluigi Lopalco, professore di Igiene all' Università di Pisa e ora consulente della Regione Puglia per l' emergenza coronavirus. «Paradossalmente, in questo momento in cui tutta Italia è chiusa in casa, gli ospedali sono gli unici luoghi dove migliaia di persone si ritrovano a stretto contatto. Anche lì andrebbero prima di tutto ridotte le relazioni interpersonali, per esempio rendendo impossibili i passaggi da un reparto all' altro». Negli ospedali lombardi, travolti dall' onda di piena dell' epidemia, non è stato possibile. Così come sono saltate le precauzioni che si mettono in atto per arginare la diffusione di un virus nelle corsie. «Nelle strutture specializzate in malattie infettive è la prassi, ma in un ospedale generale non sempre si fa attenzione a certe procedure», ammette Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma. «Dovremo fare una riflessione approfondita su quanto è successo». «Temo che in Italia manchi la cultura per affrontare le epidemie», sostiene Andrea Crisanti, microbiologo dell' Università di Padova e consulente della Regione Veneto per l' emergenza Covid-19. «Le persone che ci hanno consentito di uscire dalla malaria, dal tifo e dal colera purtroppo non sono più tra noi, altrimenti questa epidemia avrebbe avuto un' altra storia». Anche il professor Lopalco sottolinea la scarsa attenzione che finora si prestava a certe procedure negli ospedali italiani. «Fui criticato quando, mentre l' epidemia esplodeva in Cina, dissi: chissà cosa succederà in Italia con la cultura del controllo delle infezioni e dell' igiene che c' è nei nostri ospedali ». Intende dire che sono sporchi?  «No, mi riferisco per esempio alla scarsa abitudine del personale a lavarsi le mani. Se si vanno a guardare le statistiche dell' Oms, si scopre che il consumo di gel disinfettante negli ospedali italiani è abbastanza basso rispetto agli standard. Le norme prevedono che un medico si lavi le mani dopo aver visitato ogni singolo paziente ». Anche per il professor Bucci «i medici non sono preparati, perché da generazioni non hanno visto un' epidemia come questa. C' è urgente bisogno di un cambio di mentalità, che coinvolga e tuteli principalmente il personale sanitario e le strutture ospedaliere». Anche perché con 400 operatori sanitari che si ammalano ogni giorno si rischia di non avere abbastanza truppe per combattere il virus. Ed ecco allora la ricetta di Bucci: test continui a tutto il personale sanitario, identificazione dei medici immuni da utilizzare nelle zone a rischio, utilizzo di personale ausiliario meno esperto per il controllo degli accessi, delle procedure di sicurezza e per la vestizione dei medici, preparazione di strutture residenziali dedicate per il personale medico. «Noi in Puglia ci stiamo provando », dice Lopalco. «Con percorsi differenziarti per i malati di coronavirus. Nei nostri ospedali ormai si accettano solo le urgenze, ma ogni malato va trattato come se fosse positivo. Anche chi arriva per una frattura deve indossare la mascherina».

Coronavirus, tornano ad aumentare i nuovi positivi. Morti altri tre medici. Ancora casi a Codogno. Ieri registrati 4492 nuovi positivi al Covid-19 in Italia. Stop al calo dopo quattro giorni. Sequestrati in Calabria 900 falsi kit per la diagnosi. La ministra Azzolina: esami di maturità con membri interni e presidente esterno. Il Papa dona 30 respiratori agli ospedali. La Repubblica il 27 Marzo 2020. Giorno dopo giorno si allunga la lista dei medici deceduti sul campo per Covid-19. All'alba è morta Anna Maria Focarete consigliere provinciale della Fimmg di Lecco. A Bergamo sono morti Benedetto Comotti e Giulio Calvi. Lutti che portano il numero dei camici bianchi deceduti ad un totale di 44. A raccogliere questo drammatico elenco è la Fnomceo su una pagina del sito listata a lutto che sarà presto aggiornata tre volte al giorno.

La guerra di medici e infermieri, oltre 6mila contagiati e 41 morti. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. I segni delle mascherine lasciati sui volti dei sanitari dopo ore e ore di lavoro. Le loro foto, i loro selfie, le loro immagini hanno fatto il giro del mondo prima che tutto il mondo scoprisse la pandemia. Li hanno – editorialisti e politici – chiamati “angeli”, li hanno chiamati “eroi” di una “guerra” contro un “nemico invisibile”. Di retorica insomma se n’è sprecata ma ci sono i dati a fotografare ancora meglio e senza alcun bisogno di enfasi aggiuntiva: sono 6.205 i medici e gli operatori sanitari  contagiati, oltre il 9% degli infetti totali da coronavirus nel Paese. E le vittime sono state 41 in tutto. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), proprio sulle condizioni di lavoro del personale sanitario, ha scritto alla prestigiosa rivista settoriale, il British Medical Journal. Ai medici italiani – come scrive il presidente Filippo Anelli – vanno innanzitutto garantite misure di protezione e di sicurezza. “È lecito supporre – dichiara Anelli – che questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa”. È quindi fondamentale, continua il presidente Fnomceo, sottolineare l’inadeguatezza del “modello ospedalo-centrico per far fronte ad epidemie di questa portata, com’è diventato evidente dopo la chiusura di interi ospedali in Italia per la diffusione dell’infezione tra medici, infermieri e pazienti. Errore fatale è stato e in taluni casi rischia di continuare ad essere l’assenza di percorsi dedicati esclusivamente al coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari”. Poiché le epidemie, conclude Anelli, si controllano sui territori, non negli ospedali. E lo si fa attraverso l’identificazione, il doppio screening, il monitoraggio, la sorveglianza.

PROTEZIONI TARDIVE – L’appello sulla pagine del British Medical Journal reclama dunque dispositivi di protezione e tamponi da eseguire in maniera sistematica agli operatori del pubblico e del privato. Dello stesso avviso il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta: “Un mese dopo il caso 1 di Codogno i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza. Inoltre la mancanza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari, conseguente anche al timore di indebolire gli organici – continua Cartabellotta – si è trasformata in un boomerang letale. Infatti, gli operatori sanitari infetti sono stati purtroppo i grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali, residenze assistenziali e domicilio di pazienti”. Dispositivi di protezione individuale – quali mascherine, guanti, visiere – sono stati annunciati ma in molte strutture continuano a scarseggiare. La procura di Torino ha aperto un’inchiesta su tale penuria. E Raniero Guerra, direttore vicario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha ribadito come queste forniture debbano essere completate e come i tamponi vadano effettuati “su categorie mirate, oltre che, ovviamente sugli operatori della sanità”.

IL RITORNO DEI PENSIONATI – In Emilia Romagna una direttiva regionale ha permesso ai medici asintomatici (e volontari) di tornare al lavoro. E sono stati numerosi i medici in pensione tornati a indossare il camice per dare il proprio contributo contro il Covid-19. E ancora più numerosi sono stati gli aspiranti, gli specializzandi convocati in corsia spesso prima del tempo. Al bando, lanciato dal ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, per la task force di 300 volontari di supporto alle strutture sanitarie regionali hanno proposto circa 7.900 medici. E molti altri sono in dirittura d’arrivo presso alcune delle aree – Brescia, Bergamo, Piacenza – più colpite nel Nord Italia. Nel frattempo continuano a fare il giro dei social le foto come quella dell’infermiera Alessia, come quella dell’infermiera Elena Pagliarini , come quella del medico specializzando Nicola Sgarbi.

“VITTIME DEL DOVERE” – Sulle pagine del Corriere della Sera Paolo Di Stefano si chiedeva se non fosse il caso che  le vittime avessero il “diritto, in memoria, ai benefici che spettano a quelle figure, appartenenti alle forze di polizia e alle forze armate, che la legge definisce Vittime del dovere: non solo i caduti sui fronti della guerra, della criminalità, dell’ordine pubblico, ma anche quelli che hanno prestato servizio ‘in operazioni di soccorso e di tutela della pubblica incolumità’”. È un’idea. Bisognerebbe pensarci, mentre continuiamo a chiamarli “angeli”, mentre continuiamo a chiamarli “eroi”.

Infermieri,  monta la protesta: «Non siamo carne da macello». La tensione è altissima perché mancano mascherine, tamponi e camici. L'associazione di categoria di Lombardia e Piemonte ha scritto al governo lasciando aperta l'ipotesi di uno sciopero. «I mille euro in più grazie al decreto? Un'elemosina vergognosa». Gloria Riva il 14 marzo 2020 su L'Espresso. Monta la protesta degli infermieri di Lombardia e Piemonte: «Mancano mascherine, tamponi e dispositivi di sicurezza. Siamo allo sbando», dicono i segretari regionali del sindacato degli infermieri Nursing Up, Claudio Delli Carri e Angelo Macchia. Che continuano: «Vogliamo dispositivi di protezione individuale e tamponi subito, non siamo carne da macello. Veicoliamo il contagio e abbiamo paura per le nostre famiglie. Pare, inoltre che nel decreto in approvazione dal governo ci sia un'indennità di mille euro per gli operatori sociali, per quello che stiamo facendo. Mille euro è un'elemosina vergognosa». La tensione è altissima e l'associazione degli infermieri di Lombardia e Piemonte ha scritto al governo lasciando aperta l'ipotesi di uno sciopero della categoria, che è il più esposto al contagio in queste ore. Da giorni lamentano l'assenza di approvvigionamenti, di camici adeguati, di calzari, ma anche delle mascherine che impediscano il contagio e di tamponi per verificare la positività al contagio: «L’esecutivo conta sull’alto senso del dovere dei suoi soldati, mentre sono impegnati in trincea. Noi infermieri non siamo bassa manovalanza e chiediamo di essere trattati da professionisti: a partire dagli approvvigionamenti, che scarseggiano ancora oggi a scapito della nostra incolumità. Ma ricordiamo che la garanzia della nostra incolumità è anche la vostra. Andate a vedere cosa succede laddove ci stiamo ammalando: un dato assente dalle tabelle della Protezione civile e da quelle delle Regioni. Quanti sono gli infermieri contagiati? Domandiamoci perché non viene reso pubblico. Dov’è la sicurezza sul lavoro per gli operatori sanitari?». Così i segretari Claudio Delli Carri del Piemonte e Angelo Macchia della Lombardia commentano il protocollo di sicurezza varato ieri e le anticipazioni sul decreto del Governo oggi in approvazione. «Mentre stiamo combattendo una guerra – sottolineano - ci tocca registrare in alcune realtà l’attesa anche di una settimana della somministrazione dei tamponi ai nostri infermieri che sono venuti a contatto con gli infettati. Si tratta forse di una strategia dolosa da parte delle aziende sanitarie per ovviare alla tragica carenza di organico? Cioè lasciarli comunque in trincea nonostante siano positivi? I professionisti avvertono in questo atteggiamento l’abbandono da parte delle istituzioni costrette in queste ore a scelte drammatiche quanto dissennate. Non vorremmo parimenti che si stiano effettuando valutazioni pericolose sulle nostre teste: anche noi torniamo a casa dalle nostre famiglie alla fine dei lunghi turni massacranti. Anche gli infermieri hanno paura e sono stanchi». E ancora: «Adesso è arrivata l’ora di dimostrare riconoscenza verso il nostro valore non solo a parole. Il Governo si muova tempestivamente per fornire tutele e diritto alla salute agli infermieri e alle loro famiglie senza perdere altro tempo in chiacchiere. Non vogliamo e non possiamo credere che una mancia di mille euro sia la risposta a tutti i disagi che stiamo sostenendo sulle nostre spalle. Se è così che il Governo ringrazia gli infermieri, ci vergogniamo per loro. È così che vengono indennizzati per l’immane sacrificio personale che stanno vivendo? E se la loro indignazione li facesse incrociare le braccia, cosa accadrebbe?».

Alberto Commisso per "ilmessaggero.it" il 23 aprile 2020. Appartamento gratuito da destinare a medici ed infermieri impegnati nella lotta al Covid-19? No, grazie. È diventata un caso la lettera inviata dall’amministratore di un condominio del centro città al vicesindaco Eligio Grizzo e alla direzione dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale. Una lettera nella quale si evince la perplessità di alcuni condomini nell’appoggiare la scelta di marito e moglie nel voler mettere a disposizione il loro appartamento, attualmente sfitto, a due operatori della sanità che arriveranno nei prossimi giorni a Pordenone. Il loro impiego? Il reparto Covid dell’ospedale civile di Pordenone. Il motivo è presto chiarito: c’è il timore, specie dei residenti più anziani di quella palazzina, che, lavorando a stretto contatto con le persone ricoverate perché contagiate dal nuovo coronavirus, i due professionisti possano, in quale modo, portare il Covid-19 all’interno della palazzina. Da qui la richiesta all’amministratore di inviare una lettera al vicesindaco Grizzo e alla direzione dell’Asfo. Quando ha letto la missiva, Grizzo ha avuto un attacco di rabbia. Di petto ha inviato una risposta pungente, minacciano pure azioni legali qualora qualcuno avesse reso pubblico lo stato di salute di chi, tra qualche giorno, potrebbe andare a vivere momentaneamente in quell’appartamento. «A parte il fatto che il proprietario può decidere di affittare il suo immobile a chi vuole – attacca il vicesindaco, che ha la delega alle Politiche sociali – nel caso specifico credo che quella lettera, che l’amministratore si è visto costretto ad inviare, sia un affronto nei riguardi di chi in questo momento è chiamato a salvare delle vite umane. Sono arrabbiato e, anzi, mi auspico quanto prima che quell’appartamento venga assegnato, sino a giugno, a personale che lavora in ospedale nel reparto Covid o in Terapia intensiva». Un caso singolare, che stride con la disponibilità dimostrata da molti cittadini nel mettere a disposizione gratuitamente, per un periodo massimo di tre mesi (da aprile a giugno), immobili sfitti a favore di medici ed infermieri, vincitori di concorso, che stanno arrivando a Pordenone per dare manforte ai colleghi in trincea. Sono ventiquattro, per l’esattezza, quelli che hanno aperto le loro porte. Una decina gli operatori già sistemati dei sessanta che giungeranno in città a scaglioni. «Le uniche spese a carico degli utenti – ricorda il vicesindaco – sono quelle delle bollette di luce, acqua e gas. Ho visitato personalmente gli appartamenti messi a disposizione e tutti, lo devo dire, sono tenuti molto bene. Anche quello finito nel mirino di alcuni condomini che, concluse alcune piccolissime operazioni di manutenzione già avviate, risulterà essere probabilmente il migliore. Lo so, nella riposta data all’amministratore sono stato duro ma di fronte a certe preteste e richieste non ci ho più visto». Dello stesso avviso Luciano Clarizia, presidente dell’Ordine delle professionisti infermieristiche di Pordenone: «Siamo di fronte a considerazioni gravi – si dispiace – che dimostrano l’ignoranza sanitaria di certe persone che, per fortuna, costituiscono una netta minoranza. Chi lavora nei reparti Covid è più controllato di qualsiasi altra persona, quindi mi viene difficile comprendere tutti questi timori. Di quella lettera, lo devo dire, sono rimasto male anche io, in particolare quando si chiede all’Azienda sanitaria di sapere le condizioni di salute di potrebbe andare ad abitare in quell’appartamento. E se chi l’ha fatta scrivere, un domani, risultasse positivo al coronavirus? E’ questo il ringraziamento a sacrifica la propria vita per salvare quella di altri? Fortunatamente la maggior parte dei pordenonesi, anche in questo frangente, ha dimostrato di avere un cuore enorme».

Mascherine usate e quel treno deragliato a Lodi: così nell’Arma si è diffuso il virus. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. Gli agenti sono stati lasciati senza tutele e nel giorno dell’incidente ferroviario si è creato un cortocircuito “pandemico”. Toglieteci tutto ma non la bandoliera. In piena emergenza Covid-19, i carabinieri continuano a svolgere servizio con la tradizionale uniforme con la banda rossa sui pantaloni. E’ al momento caduta nel vuoto, infatti, la richiesta dei sindacati dell’Arma al comandante generale Giovanni Nistri di autorizzare l’uso della tuta normalmente impiegata per le attività di ordine pubblico. “La tuta – scrive questa settimana il Cocer in una nota – garantisce una maggiore sicurezza sanitaria poiché lavabile in lavatrice con qualsiasi disinfettante, al contrario dell’uniforme che deve essere portata in tintoria, dove molte sono chiuse o non garantiscono la pronta consegna”. Richiesta irrealizzabile per i vertici di viale Romania in quanto non ci sarebbero adesso tute sufficienti. Affermazione subito smentita dal Cocer secondo cui “in molte zone sono in dotazione e addirittura nelle aree terremotate ce ne sono in abbondanza”. Ma oltre alle tute mancherebbero i dispositivi di protezione individuale, ad iniziare dalle mascherine il cui utilizzo sarebbe stato limitato da Roma ai soli “casi eccezionali”. “La tutela del lavoro e della sicurezza non può permettersi in questo momento, la cura del tratto e della forma e questo il ministro della Difesa lo deve chiarire e ribadire con fermezza”, replica il Cocer. A dare manforte ai sindacalisti con le stellette, i parlamentati di Fratelli d’Italia. “Ho ritenuto opportuno sollecitare, insieme ai colleghi della Commissione Difesa Wanda Ferro e Davide Galantino, i ministri dell’Interno, della Difesa e della Salute, affinché siano presi immediatamente provvedimenti e vengano fornite tutte le dotazioni necessarie in modo da salvaguardare la tutela della salute del personale”, ha dichiarato ieri il capogruppo di Fd’I in Commissione Difesa alla Camera, Salvatore Deidda. Fra i motivi del dilagare del virus in Lombardia, da alcuni giorni si sta facendo strada l’ipotesi che siano state proprio le forze dell’ordine uno degli acceleratori del contagio. L’episodio scatenante verrebbe fatto risalire al deragliamento del Frecciarossa avvenuto lo scorso 6 febbraio ad Ospedaletto Lodigiano (LO) quando, come ormai da più parti accertato, il virus pare fosse già in circolo. Nei giorni seguenti al deragliamento, fra le centinaia di carabinieri e poliziotti intervenuti sul posto, molti iniziarono ad accusare gli stessi sintomi: febbre, tosse secca, dispenea. Si pensò ad una normale influenza di stagione e nessuno fece il tampone per il Covid-19. I militari, oltre che da Lodi, venivano dalle caserme delle province confinati: Milano, Bergamo, Brescia. Chi si era ammalato, passata la febbre, riprese subito servizio per essere impiegato, dal 23 febbraio e sempre nel lodigiano, ai controlli della prima zona rossa. Inizialmente, poi, l’uso mascherine era raccomandato soltanto a chi avesse contratto il Covid-19 in quanto ai “sani” veniva detto che era inutile. Le disposizioni da Roma in tal senso erano rassicuranti. In un tutorial della fine di febbraio del Comando generale dell’Arma si prevedeva l’uso delle mascherine da parte dei militari solo in presenza di “casi sospetti”. Nei giorni successivi, agli inizi di marzo, accadde l’irreparabile. Tutti iniziarono ad utilizzare le mascherine che, non essendo tante, venivano però indossate per più giorni e scambiate fra i militari in servizio. Quando ci si accorse dell’errore era ormai troppo tardi ed il virus stava dilagando nelle tre province, costringendo l’Arma a mettere in quarantena interi reparti, ad iniziare dal comando provinciale di Bergamo, e a chiudere molte caserme.

Coronavirus, più di 100 i contagiati tra agenti e operatori penitenziari. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. A “La Dozza” di Bologna sono iniziati i tamponi ma la tensione è ancora alta. Qualcosa non sta andando nel verso giusto nella gestione dell’emergenza pandemia per quanto riguarda il mondo penitenziario. La questione riguarda da vicino proprio il personale: agenti e operatori sanitari. In alcuni istituti – denuncia il sindacato della Uil polizia penitenziaria – diversi agenti sono risultati positivi al coronavirus, mentre i loro colleghi – con i quali sono venuti in contatto – sono costretti a ritornare in servizio. L’emergenza, potenzialmente, potrebbe quindi sfuggire di mano. Secondo quanto Il Dubbio ha potuto apprendere, da alcune fonti sindacali, risulta che in tutta Italia sono circa 100 le persone contagiate: ci riferiamo esclusivamente al personale delle carceri, in maggioranza appartenente alla polizia penitenziaria. «Appare paradossale quanto sta avvenendo in alcuni istituti penitenziari – spiega a Il Dubbio Gennarino De Fazio, il leader della UilPa PolPen -, laddove appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che hanno avuto contatti ravvicinati con altri colleghi, di cui è stata accertata la positività al Covid- 19, sono stati dapprima messi in isolamento e sottoposti a tampone, ma successivamente, dopo svariati giorni, e in attesa di conoscere l’esito dell’esame molecolare, vengono fatti rientrare in servizio». Il rappresentante del sindacato penitenziario si riferisce soprattutto a un carcere specifico che per giuste ragioni di privacy preferisce non riferire. «Ci si chiede, allora, – prosegue il capo della UilPa – se le direttive del Capo del Dap servano solo come orpelli, magari per qualche comunicato stampa o per il sito web istituzionale, o se le articolazioni territoriali debbano attenervisi». E conclude: «In quest’ultimo caso, ci si chiede allora perché non avvenga e se nell’Amministrazione Penitenziaria esista ancora, sempre che ci sia mai stata, una linea di comando». Nel frattempo, come già riportato da Il Dubbio, monta l’insofferenza degli agenti penitenziari che operano al carcere “La Dozza” di Bologna. Anche lì parliamo di personale contagiato e, dopo un lungo e inspiegabile ritardo, finalmente gli agenti penitenziari cominciano ad essere sottoposti ai tamponi. Cominciano anche ad arrivare il materiale di protezione. Il Sinappe ha diramato un duro comunicato dal titolo “Le omissioni del Dap”. «È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi», è l’incpit parafrasando Paulo Coelho per provare a capire cosa stia realmente accadendo nelle carceri italiane. «Abbiamo chiesto più attenzione per il personale in prima linea – prosegue il comunicato – perché temiamo l’imminente onda di piena del virus. E quando noi chiediamo più attenzione sul materiale di protezione non stiamo facendo polemica, stiamo solo pensando ai nostri poliziotti penitenziari che contrastano il contagio all’interno delle prigioni italiane. Ed i tamponi? La sanificazione degli ambienti e la disinfezione generale dei reparti detentivi e delle caserme agenti? Noi vorremmo, semplicemente, che si superasse la retorica dell’eroismo per garantire alle donne ed agli uomini del Corpo ( a delle mamme ed a dei papà) in prima linea in questa complessa fase d’emergenza la salute e la cura». C’ è ancora ansia tra gli operatori in diversi Istituti. Garantire sicurezza e dignità nelle carceri, è oggi più che mai necessario. L’auspicio arriva anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio». Così ha scritto Mattarella, in una lettera su Il Gazzettin’, rispondendo ad un appello rivolto a lui, al presidente del Consiglio e al Papa da parte delle detenute del carcere di Venezia e dei detenuti degli istituti di Padova e Vicenza.

«Siamo senza tutele e protezioni individuali». Il Dubbio il 24 marzo 2020. Le lettere preoccupate degli agenti penitenziari che arrivano al nostro giornale si moltiplicano. Mentre è giunta la buona notizia della guarigione del primo agente penitenziario colpito dal coronavirus e che prestava servizio presso il carcere di Vicenza, continuano ad arrivare notizie – trapelate da fonti sindacali – di alcuni contagi nei confronti del personale penitenziario. Non solo agenti, ma anche medici e infermieri. Nel momento in cui c’è il responso positivo del tampone, subito si attivano i regolamenti sanitari predisposti dal decreto emergenziale. Ad esempio – come ha appurato Il Dubbio – qualche giorno fa è risultato positivo un medico che operava nel carcere di Favignana. Subito la direzione haeffettuato il tampone a tutti i detenuti e agenti che hanno avuto contatti con lui: il responso è atteso tra qualche giorno. Qualche giorno fa è risultato positivo il dirigente sanitario del carcere di Santa Maria Capua Vetere, il quale fortunatamente non avrebbe avuto contatti con nessun detenuto. Come accade in questi casi i familiari dei detenuti vengono raggiunto da voci su eventuali contagi. Ma la cosa non risulta. Purtroppo l’angoscia sale quando non ricevono risposte. La direzione, anche per riassicurare gli animi, dovrebbe rispondere alle richieste comprensibili di chi è preoccupato. Su Il Dubbio, nei giorni scorsi, abbiamo invitato all’indomani del caso di contagio di un detenuto – la direzione del carcere di Voghera a rispondere alle richieste degli avvocati sullo stato di salute dei loro assistiti. Finalmente ad alcuni hanno risposto, riassicurando i famigliari in comprensibile agitazione. Da precisare, però, che Il Dubbio riceve tuttora diverse lettere nelle quali i cari esprimono ancora forte preoccupazione. La magistratura di sorveglianza ha respinto l’istanza dei domiciliari ad alcuni detenuti che soffrono di talune patologie. Gli avvocati hanno fatto tale richiesta in ragione del pericolo di contagio. La preoccupazione però serpeggia anche tra gli agenti penitenziari. Ad esempio, da oggi, il sindacato Osapp ha indetto lo stato di agitazione con astensione dalla mensa obbligatoria di servizio da parte del personale di Polizia Penitenziaria in tutta la provincia di Avellino ( carceri di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Bellizzi Irpino e Lauro). Il motivo? «Ad oggi non sono stati dotati i poliziotti penitenziari di idonei strumenti di protezione dal rischio contagio in particolar modo presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, che si trova ad operare in un contesto difficile e in piena zona rossa e ad alto rischio contagio così come decretato dal presidente della regione Campania e di tutti gli strumenti Dpi e inoltre chiediamo il tampone a tutti gli operatori penitenziari per tutelare e ridurre il rischio contagio da Covid- 19», dichiara sempre l’Osapp. Nel frattempo, però, al carcere La Dozza di Bologna si stanno verificando dei problemi. C’è molta preoccupazione da parte del personale penitenziario. A Il Dubbio risultano tre contagi, mentre in realtà – secondo La Repubblica, – sarebbero addirittura 17, tra medici e infermieri. Da tempo i sindacati hanno chiesto la possibilità di sottoporre tutti gli agenti penitenziari al tampone e la possibilità di avere i dispositivi per la protezione. Ma tuttora, secondo il Sinappe, la loro richiesta è rimasta lettera morta. Hanno paura, per loro e per tutta la popolazione carceraria. Ora sembra che i vertici della Ausl e la direzione carceraria stiano correndo ai ripari, sia a tutela del personale che dei detenuti. Si spera al più presto, anche per evitare possibili ulteriori contagi e tensioni interne. D’altronde l’aria è ancora irrespirabile nella sezione devastata dalla scorsa rivolta.

Morto ispettore di polizia. Forze dell'ordine in allarme. La denuncia del Sap: "Poche protezioni". Almeno 20 gli agenti positivi, più di 30 finanzieri contagiati. Chiara Giannini, Lunedì 16/03/2020 su Il Giornale. Il Coronavirus non sta risparmiando neanche gli uomini e le donne di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, molti dei quali sono contagiati. Tanto che ieri si è registrato il primo morto, un ispettore capo proprio della Polizia di Brescia. Aveva 59 anni e ha contratto la malattia mentre era ricoverato per un'operazione al cuore. Dati ufficiali non ce ne sono, ma da un calcolo preciso si rileva che gli agenti attualmente positivi sono una ventina, tra Roma, Milano, dove un poliziotto è in terapia intensiva, Piacenza, Parma, Padova, ma in molte altre città italiane si registrano casi. Almeno un centinaio, invece, quelli in isolamento. A tal proposito sono state individuate, su indicazione del Capo della Polizia Franco Gabrielli, alcune strutture dove i presunti contagiati possono stare sotto vigilanza: tra tutte quelle di Tor Carbone, nella Capitale. Quatto i positivi a Cremona, altri quattro a Piacenza, dove alla scuola di Polizia è stato creato un centro di emergenza con 13 persone in isolamento oltre ai sintomatici gravi. Ma anche a Napoli c'è un funzionario malato. L'agente della scorta di Matteo Salvini risultato positivo al Covid-19, invece, all'ultimo tampone era negativo. I servizi vengono organizzati in modo che il personale sia diviso in due gruppi: se un'unità è contaminata entra l'altra. Inoltre, alcuni turni sono stati estesi con orari continuati 8-20 e riposo il giorno successivo. «Ma i disagi ci sono e ci sono stati - spiega il segretario del Sindacato autonomo di Polizia (Sap), Stefano Paoloni - con sistemi di protezione distribuiti col contagocce. Non è oltretutto semplice distinguere chi è sintomatico o meno. Abbiamo chiesto a Gabrielli che mascherine, guanti e altro vengano utilizzati ogni volta che l'agente viene a contatto con i cittadini. Ma anche che si pensi a chi è in isolamento e magari lontano dalle famiglie e ha difficoltà». E prosegue: «È importante che gli operatori di polizia siamo messi nella condizione di poter prestare servizio alla collettività nel modo più tutelato possibile». Sicuramente più di 30, quindi, i contagiati della Guardia di Finanza, con decine di uomini in isolamento, soprattutto coloro che hanno operato nelle aree a maggior rischio della Lombardia. A Bergamo il comando provinciale ha chiuso perché su 28 militari 21 sono positivi. Il primo a restare contagiato è stato il comandante. Decine di uomini sono in quarantena. Ma anche tra i carabinieri ci sono problemi seri. A Palermo nove rappresentanti dell'Arma del comando provinciale sono malati di Coronavirus, ma ce ne sarebbero almeno altri 10 nelle varie province d'Italia, con circa 80 in isolamento. Ci sono poi tre vigili del fuoco dell'Accademia di Roma risultati positivi. Intanto, a Roma il sindaco Virginia Raggi ha nominato uno dei suoi generali in ausiliaria a capo della Protezione civile. Si tratta del generale Giuseppe Morabito, che ha preso il posto del generale Giovanni Savarese, attualmente in quarantena volontaria. Qualche protesta, quindi, proprio nella Capitale, perché in una circolare del Viminale si invitano i vigili urbani, vista la carenza di mascherine, a indossarle solo in particolari occasioni. Malcontento anche tra la polizia penitenziaria. Domenico Capece (Sappe) fa presente che non ci sono abbastanza dispositivi di protezione individuale a fronte di un avvicendamento continuo del personale richiesto dal capo del Dipartimento Francesco Besentini.

Coronavirus, comando Alpini in quarantena. Contagiato alto generale. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. In quarantena anche lo Stato Maggiore degli alpini. Ad essere risultato positivo al coronavirus è un alto ufficiale delle penne nere, un generale di stanza a Bolzano. E con lui sono finiti in isolamento anche i più stretti collaboratori che rappresentano il vertice della forza armata. «Il generale sta comunque bene e il comando delle truppe è assicurato», fanno sapere da Bolzano, sede della forza armata. L’ufficiale lavorerà da casa, come gli altri ufficiali entrati in contatto con lui e ora costretti all’isolamento. La notizia giunge a dieci giorni di distanza dell’altro contagio eccellente nelle forze armate, quello del generale Salvatore Farina, capo di Stato maggiore dell’Esercito, che ha comportato l’immediata mobilitazione delle autorità sanitarie ai vertici delle Stellette. L’esito dei primi tamponi sui collaboratori dello staff del generale è stato negativo. L’11 marzo è invece deceduto un ufficiale superiore dell’Esercito che lavorava al Segretariato Generale della Difesa, nell’area di Centocelle, a Roma. 59 anni, il tenente colonnello M. M. era a casa dalla settimana precedente per problemi di salute. Le sue condizioni sono peggiorate improvvisamente. Chiamata d’urgenza un’ambulanza, l’ufficiale è deceduto durante il trasporto in ospedale. Il tampone fatto post-mortem ha dato esito positivo al coronavirus. Diversi ufficiali del Segretariato, braccio tecnico della Difesa, sono così finiti in quarantena.

Matteo e gli altri, la trincea invisibile degli addetti alle pulizie. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Ci sono storie che meritano di essere raccontate, anche attraverso giornali e televisioni. Storie di persone che, pur non indossando un camice bianco, lavorano in prima linea per il bene della collettività: assicurano ogni giorno negli ospedali le condizioni affinché medici e infermieri possano prendersi cura dei pazienti in ambienti salubri e sanificati. Sono gli addetti alla pulizia che, impiegati nei reparti dove si combatte costantemente l’avanzata del coronavirus, antepongono la salute degli altri alla propria. Ma non chiamateli eroi perché sono mossi da un senso di grande responsabilità: sanno perfettamente che dentro gli ospedali c’è chi salva vite e il loro impegno è profuso affinché sia possibile farlo nelle migliori condizioni.Al pari di medici e infermieri rispettano turni massacranti, senza sosta o riposo. Come Matteo, 26 anni, che da oltre dodici giorni pulisce, disinfetta e sanifica gli ambienti ospedalieri fornendo un servizio efficientissimo in assoluta sicurezza. Da due settimane è in trincea assieme ad altri quindici colleghi con cui lavora gomito a gomito: tutti insieme formano le squadre speciali per la sanificazione delle tecnostrutture dove sono accolti in prima battuta casi di Covid-19. Sono altamente specializzati, operano 7 giorni su 7 per 24 ore e sono al servizio degli ospedali di Roma San Camillo, Santo Spirito, CTO, nuovo Regina Margherita e nel nosocomio di Frosinone. Ma non sono gli unici nel Lazio perché prestano servizio insieme ad altri 500 lavoratori coordinati da capisquadra: a loro il compito di interfacciarsi con i fornitori per il reperimento di mascherine, guanti e dispositivi di protezione individuale. In tutta Italia, da Nord a Sud passando per le isole, tutti i lavoratori si impegnano con la stessa determinazione e senso del dovere che anima le squadre nel Lazio. Anche a loro dovrebbero andare i ringraziamenti.

Coronavirus, le cassiere in trincea: "Turni troppo lunghi, ora abbiamo paura". La protesta di chi lavora nei supermercati a stretto contatto con i clienti. "Ogni sera tolgo le scarpe e i vestiti  e mi faccio la doccia prima di baciare mio figlio". "La maggior parte di noi ha usato le stesse mascherine per quattro giorni perché non ce n'erano". Caterina Pasolini e Fabio Tonacci il 16 marzo 2020 su La Repubblica. E poi ci sono gli altri eroi. Quelli che non stanno dentro a un ospedale a salvar vite umane, ma non stanno nemmeno a casa. Non possono. Fanno qualcosa di cui l'Italia in quarantena ha bisogno, per mantenere almeno uno dei riti della normalità e non cadere nel timore isterico di rimanere senza il pane, la pasta, il latte, le uova. Gli altri eroi siedono dietro una cassa di supermercato che il Coronavirus ha trasformato in trincea urbana, hanno paura e dicono "così non ci sentiamo tutelati, dobbiamo ridurre l'orario di apertura" . Se facciamo ancora la spesa è grazie a loro, che non intubano persone ma battono scontrini e danno resti. Tutto come prima, o quasi. "Prego signora, digiti il pin", "prego signore, rimanga a un metro di distanza". Immobili sul posto di lavoro mentre centinaia di sconosciuti sfilano loro vicini, troppo vicini, e non gli è concessa neanche l'illusione di poter schivare le malefiche goccioline del respiro infetto. È un fronte anche questo, più scoperto e meno tutelato. Quindi, potenzialmente, esplosivo. Barbara Suriano ha 40 anni e ogni sera, dopo il turno all'Ipercoop Casilino a Roma, torna a casa coi macigni sul cuore. "Mi assale il dubbio: l'avrò preso? Domani mi sveglierò con la febbre?". Barbara lavora in quel supermercato da 17 anni, è la rappresentante sindacale aziendale iscritta alla Filcams-Cgil e negli ultimi giorni ha visto cose che non le sono piaciute. "I primi tre giorni dopo il decreto del premier (quello che ha allargato la zona arancione all'intera Italia, ndr) siamo stati senza mascherine perché l'azienda non le forniva. Ci siamo arrangiati con quelle che usano gli addetti al forno e ai laboratori. Poi mercoledì sono arrivate, ma le hanno centellinate e infatti la maggior parte di noi è stata costretta ad usare la stessa per 4-5 giorni, di fatto rendendola inefficace. Poi la sanificazione dei locali mica l'hanno fatta: gli addetti alle pulizie, poveracci, fanno quello che possono, ma il team non è stato rafforzato". Barbara, che ha un contratto part-time e oltre alla cassa si occupa anche dell'accoglienza dei cliente, raggiunge la sua trincea quotidiana per 830 euro al mese, che è la paga base escluse le domeniche. Per i full time sale a 1.100 euro. "Ma perché non riducono l'orario di apertura?", si chiede. "Abbiamo proposto di aprire dalle 10 alle 18, per ridurre il tempo di esposizione al rischio contagio, e di fare due turni di rifornimento a ipermercato chiuso. Non abbiamo avuto risposta. E perché dobbiamo rimanere aperti anche la domenica?". È un grido d'allarme che la Filcams-Cgil, insieme agli altri sindacati di categoria, ha fatto proprio, e risuona per tutti quei lavoratori che devono per forza stare a contatto con la clientela: farmacisti, dipendenti delle pulizie, personale degli autogrill. I sindacati hanno scritto una lettera al premier, sollecitando maggiori tutele e più chiarezza nelle misure di protezione da adottare. Perché sono eroi di servizio, non kamikaze. "Io ho paura, lo ammetto, come tutte le colleghe", è la premessa di Federica Scanu, che ha trent'anni ed è incinta del secondo figlio. Fa la cassiera da dieci anni al supermercato Ma, nel quartiere popolare di Garbatella a Roma, e si capisce che a lei la riduzione d'orario appare insufficiente. "Forse dovrei rimanere a casa, oggi vedo il medico. Speriamo...Batto 150 scontrini al giorno per otto ore di fila, ho una mascherina di stoffa che ci ha fatto un'amica, perché quelle professionali con la valvola non si trovavano più. Centinaia di persone passano a pochi centimetri di distanza perché da quando c'è l'epidemia vendiamo il triplo, comprano come se ci fosse la guerra. Chi lo sa chi è malato e chi no? E il pensiero di portare a casa il virus, mi fa stare male". Ogni sera Federica prima di abbracciare il suo bambino che ha solo tre anni è costretta alla "procedura". "Appena entro in casa mi tolgo le scarpe, poi mi spoglio nel corridoio, metto i vestiti a lavare e mi butto sotto la doccia, mi lavo le mani anche con l'igienizzante. Solo allora abbraccio il mio piccolo Gabriele. Ma non sono più gli abbracci prima, perché continuo a pensare: e se la mascherina che uso non ha funzionato? E se sono infetta? È una malattia che non si vede, è un incubo". Noi li chiamiamo eroi, queste cassiere e questi cassieri e tutti gli altri dipendenti che, nonostante tutto, continuano ad aprire ogni mattina i negozi. Li vediamo così, ma loro eroi non si sentono. "Sono solo una persona responsabile", dice Barbara, la cassiera dell'Ipercoop Casilino. "So di fornire un servizio essenziale per tutti i cittadini, quindi lo faccio. Però ci sentiamo esposti al contagio. E anche se siamo con gli altri colleghi, in realtà siamo soli: non parliamo più tra di noi, non scherziamo, non ci sono più i clienti affezionati che ti portano una caramella o ti accarezzano con una parola gentile. Ora, al supermercato, c'è solo silenzio. E paura".

Da "liberoquotidiano.it" il 17 marzo 2020. Morti due dipendenti di Poste Italiane in provincia di Bergamo, in questo momento insieme a Brescia la più colpita dal coronavirus. La notizia è stata resa pubblica da Marisa Adobati, della Slc-Cgil di Bergamo: la sindacalista ha ricordato come entrambi avevano "lavorato fino a pochi giorni fa, uno in un centro di recapito e l'altro in un ufficio postale di due comuni della provincia di Bergamo. Per questo la Cgil chiede: Ora basta, è ora di chiudere gli uffici postali". Scontata, ovvia, comprensibile la rivolta: le poste, infatti, sono tra i pochissimi uffici pubblici rimasti aperti.

Nicola Pinna per lastampa.it il 17 marzo 2020. Tra gli italiani che continuano a operare in questi giorni di emergenza nazionale ci sono anche i dipendenti di Alitalia: piloti, assistenti di volo e anche personale di terra. Centinaia di persone che assicurano gli spostamenti inderogabili tra i pochi aeroporti nazionali rimasti aperti e che stanno anche facendo arrivare gli aerei verso l’estero, dove si trovano gli italiani che attendono di essere di rimpatriati. In questi giorni, i velivoli di Alitalia sono stati impegnati anche per il trasporto di organi e nelle ultime ore sono diventate virali sui social le foto di un rene custodito all’interno di una scatola, scattate dal comandante dell’aereo che è stato impiegato per quel trasporto salvavita. Tutte le altre compagnie internazionali, da quelle più gradi alle low cost, hanno lasciato l’Italia e in queste immagini si vedono i piazzali vuoti e l’assenza di altri aerei ai finger dell’aeroporto di a Fiumicino, il principale scalo aereo italiano.

Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 17 marzo 2020. L'autista Atac risultato positivo al Covid-19 ha lavorato fino alla settimana che va dal 2 all'8 marzo, prima cioè che la Capitale, come il resto del Paese, diventasse una grande zona protetta, con restrizioni e spostamenti limitati. Da una parte questo rassicura la municipalizzata dei trasporti di Roma, perché si spera che il contagio sia avvenuto a ridosso della pausa dal lavoro. Negli ultimi giorni, l'addetto Atac non ha frequentato colleghi, in sostanza. Dall'altro, significa che il conducente è montato sui mezzi pubblici quando ancora erano abbondantemente affollati di passeggeri, perché l'allerta Coronavirus, ai primi del mese, formalmente interessava principalmente il Nord Italia. La partecipata del Campidoglio, in ogni caso, ha attivato tutti i protocolli sanitari, contattando la Asl e avviando una verifica interna. L'obiettivo è riuscire a ricostruire gli spostamenti dell'autista durante il servizio. Capire quindi su quali linee ha viaggiato prima di essere sottoposto all'isolamento e con quali colleghi sarebbe venuto in contatto negli ultimi giorni di lavoro. Il dipendente contagiato lavora al deposito di Grottarossa, Roma Nord, la più grande rimessa Atac di superficie, con bus a gasolio e filobus. «Qui ha sede anche il magazzino centrale», si legge in un report interno dell'azienda sulla ripartizione della flotta. In questo deposito, ad agosto, è stata anche spedita la prima parte della fornitura dei nuovi mezzi, i Citymood prodotti in Turchia. L'autista, secondo il racconto di altri addetti della municipalizzata, è stato in servizio su 3 linee: il 280, che da piazza Mancini arriva alla stazione Ostiense, passando per il quartiere Mazzini, piazza della Rovere e Testaccio; poi il 23, che dal capolinea di piazzale Clodio viaggia fino a San Paolo; e ancora il 980, che da via Roddino a Montespaccato arriva nei paraggi dell'ospedale San Filippo Neri. In Atac si augurano che il contagio sia maturato in ambienti diversi da quelli di lavoro. E che non abbia avuto conseguenze sul resto del deposito, che difatti resta aperto, nonostante le proteste di alcuni sindacalisti, come Claudio De Francesco, segretario regionale della Faisa Sicel. I superiori dell'autista hanno riferito che anche la moglie del conducente è positiva al Coronavirus, da prima del marito. Anzi, proprio la malattia della moglie avrebbe spinto il dipendente dell'Atac a chiedere il tampone, dal quale è risultata l'infezione. Per fortuna, senza sintomi. Resta da capire se, prima di iniziare la quarantena, abbia avuto contatti ravvicinati con passeggeri o colleghi. L'Atac ieri ha ribadito di avere messo a punto tutte le misure possibili per rafforzare la sicurezza dei propri dipendenti. È anche stato firmato un accordo con i sindacati: chi sarà ricoverato per il Coronavirus, riceverà 3mila euro più 100 euro per ogni giorno in ospedale, dopo l'ottavo giorno. Ad alcune categorie di dipendenti sono anche state fornite mascherine. Che però scarseggiano. Non solo per gli autisti, anche per vigili e netturbini. La sindaca Raggi, come raccontato ieri dal Messaggero, ha chiesto aiuto alla Protezione civile e a Palazzo Chigi. «Il governo - ha detto Raggi - sta dando la precedenza agli operatori sanitari, poi tutto il resto sarà distribuito agli altri operatori che sono in strada».

«Io, autista dei bambini con tumore che vanno curati ogni giorno». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Fausta Chiesa. «Mascherina, guanti, non si gioca più assieme, ma in ospedale bisogna andare tutti i giorni: io e gli altri volontari non molliamo». Chi parla è Claudia Raina, volontario di Agal (Associazione Genitori e amici del bambino leucemico) , che si definisce un «ragazzo di 62 anni». In pensione da due anni e mezzo, dopo cinque mesi si era stancato di riposare. «Abito a Cava Manara, in provincia di Pavia. Ho conosciuto Agal tramite amici che erano già volontari. Mi sono iscritto come socio volontario. E sono due anni che trasporto le mamme e i bambini dalle strutture di Agal in cui sono accolti gratuitamente al day hospital del San Matteo di Pavia». L’associazione ha sede presso la Clinica di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico San Matteo. Avanti e indietro la mattina e il pomeriggio tutti i giorni, perché le terapie per chi ha un tumore al sangue non si possono interrompere. «Da quando c’è l’emergenza coronavirus - spiega Claudio - abbiamo ricevuto indicazioni da ospedale di avere il minor contatto possibile con i bambini, che sono immunodepressi per via delle terapie. Oltre a indossare sempre mascherine e guanti, non possiamo più avere il rapporto di prima: siamo come una famiglia allargata, giochiamo coi bambini, prendiamo il caffè con le loro mamme nella cucina comune... adesso la casa è tutta sigillata per la loro incolumità. Le mamme hanno spiegato che non possono avere contatto fisico con noi». Claudio più che per sé ha a cuore la salute dei bambini e infatti ha deciso di continuare il servizio, mentre altri suoi colleghi, vuoi perché più anziani o perché più timorosi, hanno temporaneamente sospeso la loro attività: da 25 autisti che erano, sono rimasti in meno di una decina. «Le cure - spiega Claudio - non soltanto sono quotidiane, ma possono durare mesi o anche anni e noi dobbiamo essere a disposizione». L’Ospedale è uno dei centri italiani più all’avanguardia per questo tipo di patologie: qui, infatti, vengono effettuate sofisticate e complesse terapie sui piccoli pazienti provenienti da tutta l’Italia e da diverse parti del mondo. Agal, nata a Pavia nel 1982 dal desiderio di un gruppo di genitori di bambini malati di offrire ad altre famiglie un aiuto concreto per affrontare meglio la dura esperienza della malattia, opera su diversi fronti per cercare di «alleggerire» il più possibile il dramma della malattia. L’associazione è presente fin dall’ingresso in ospedale con un punto di accoglienza dove offre orientamento e servizi di mediazione linguistica e patronato. In reparto cerca di regalare un po’ di serenità ai bambini ricoverati attraverso laboratori di gioco e musicoterapia. Durante il lungo e difficile periodo delle cure in day hospital, Agal offre ospitalità totalmente gratuita alle famiglie che non possono permettersi un alloggio temporaneo. Nel 2018 Agal ha accolto nelle sue case a Pavia, a poca distanza dall’ospedale, 161 persone. I luoghi dell’ospitalità sono Casa Mirabello, grande edificio di 500 mq composto da 10 camere con bagno (23 posti letto), cucina e sala da pranzo comuni, ludoteca, lavanderia e spazio verde esterno attrezzato con giochi, e 3 appartamenti indipendenti completamente attrezzati (12 posti letto). Nel maggio 2019 è stata inoltre inaugurata Casa dei Melograni, nuova struttura di accoglienza a Pietra de’ Giorgi, nell’Oltrepo Pavese. Divisa in sei mini alloggi autonomi per 24 posti letto, è dotata di aree comuni come il locale lavanderia e stireria e un’area giochi, ed è circondata da un’ampia area verde con un campo sportivo e un parco giochi inclusivo per persone con ridotta mobilità. La struttura è ospitata negli spazi dell’ex asilo parrocchiale di Castagnara riqualificato dal Comune di Pietra de’ Giorgi nell’ambito del Progetto Oltrepò (bio)diverso, con il fondamentale contributo del Programma Intersettoriale AttivAree di Fondazione Cariplo.

Vittorio Feltri: "Mia figlia è farmacista, loro sono l'ultima ruota del carro. Cosa subisce ogni giorno". Vittorio Feltri per liberoquotidiano.it il 19 marzo 2020. Mia figlia Adele Fiorenza dirige una grande farmacia a Milano ("Foglia") e mi ha raccontato cosa è successo e succede dietro e davanti al bancone. Mi sembra opportuno pubblicare il suo articolo anche se lei non è giornalista (ovviamente) perché dimostra che tra i vari professionisti impegnati a combattere il virus ci sono anche i camici bianchi che vendono medicinali a tutto spiano, rischiando il contagio e senza avere un minimo di considerazione per i loro sacrifici, non molto diversi da quelli sopportati da medici e infermieri. I farmacisti insomma sono le ultime ruote del carro nonostante lavorino a contatto di una moltitudine di gente, non tutta sana. Il pericolo si annida tra la folla, e in farmacia, il primo presidio sanitario, bisogna entrare come al supermercato, un paio di persone per volta non di più. Si tratta di una misura di sicurezza blanda, ma di più non si può. Auguro a mia figlia e ai suoi valenti colleghi di farla franca. E mi complimento con loro per la missione che svolgono senza ottenere riconoscimento alcuno. "In questi giorni di follia i messaggi che ricevo su whatsapp si sono moltiplicati. Molti fanno dell'ironia, altri girano video di Conte, del Papa, e di necrologi. Poi c'è chi è solidale e ringrazia medici e infermieri. Quando torno a casa e li scorro velocemente non posso non notare che la mia categoria, quella dei farmacisti, non è mai ricordata. Non voglio enfatizzare l'importanza del mio mestiere. Ma da quando il casino è esploso, io e i miei colleghi l'abbiamo vissuto, in tutte le sue fasi. Da inizio gennaio, le mascherine, che avevano un mercato ridottissimo, hanno cominciato a essere sempre più richieste, prima solo dai cinesi, che facevano scorte da inviare ai familiari, e poi rapidamente da tutti gli altri. Ho visto clienti battibeccare sulla utilità di fare rifornimento di mascherine e gel mani. Una grande confusione. I miei clienti mi chiedono rassicurazioni e spiegazioni, «Se metto la mascherina non mi ammalo? Mio marito è cardiopatico». «Ho mal di gola però per ora niente febbre. È il caso che prenda l'antibiotico? Il mio medico è introvabile». Sono in cerca di rassicurazioni, anzi certezze, che io non so dare. A metà febbraio abbiamo avuto giornate faticose, le persone cominciavano ad avere paura e hanno fatto incetta di ciò che avevamo, inclusi disinfettanti e integratori per le difese immunitarie. Pian piano l'affluenza in farmacia è calata e con la rapidità con cui sono diminuiti gli ingressi, così sono aumentate le telefonate. «Sono arrivate le mascherine?». «Signora dovrebbero arrivare la settimana prossima». «Bravi, guardate a cosa ci avete portato, con i vostri dovrebbe». La signora Vanda, 81 anni, una mattina si presenta in farmacia, allunga un blocco di ricette, per lei e il marito, che ha problemi respiratori, e che quindi quel giorno non la accompagna. Poi mi fa cenno e tira fuori dalla sua borsa di tela un termos di caffè. «Vedo che tutti i bar sono chiusi, e so che dovete rimanere svegli». Anche un signore, che non avevamo mai visto prima, ci porta dei grissini e una crostata all'albicocca confezionata, e quasi si scusa, perché non può garantire sulla qualità della torta. Pero ci può far comodo ora che tutti i negozi sono chiusi. E non mi scorderò mai di quel giorno che ci è stata recapitata una scatola di cartone. Quando la apro, trovo 50 mascherine e un biglietto: «Queste sono per voi, che ne avete bisogno». Un signore, dalla finestra del mio ufficio, bussa sul vetro: non voglio entrare in farmacia, ma ce l'avrebbe per me una mascherina? Frugo nel cartone e gliene do una. «Grazie, poi vengo a regolare il conto». Gli sorrido e lo saluto con la mano. Ogni giorno sentiamo i nostri fornitori, alla ricerca di gel, mascherine, magari qualche scatola di Cebion. Oggi è stato un giorno fortunato. Domani mi consegnano termometri e mascherine. Lo annuncio ai colleghi che mi guardano e applaudono.

Da Repubblica Tv il 20 marzo 2020. "Oltre quattro farmacie sono state devastate con vetrine rotte e casse svuotate. Alcuni di noi hanno subito rapine a mano armata". È un messaggio accorato e carico di tensione quello che la titolare di una farmacia in zona Prenestina a Roma ha diffuso per far conoscere la difficile situazione in cui lei e i suoi colleghi vivono da quando è esplosa l'emergenza coronavirus. "Dopo le 18 in giro non c'è più nessuno. Abbiamo paura anche di uscire dalla farmacia in orario serale". Poi parla della difficoltà di fare fronte alle richieste dei clienti: "Serviamo con queste mascherine che sono le uniche che abbiamo trovato a prezzi altissimi. La gente deve capire che non è che non vogliamo darle le mascherine, non le abbiamo". Poi chiede l'aiuto dei cittadini: "Qui viene gente che ha tosse, raffreddore e febbre. Rischiamo la vita. Guardateci dalla finestra noi siamo qui per darvi un servizio. Abbiamo bisogno della vostra comprensione. Stateci vicino".

La solidarietà dei farmacisti: “Così aiutiamo le persone ma ne vediamo di tutti i colori”. Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Aprile 2020. “Questi mesi di quarantena sono davvero difficili, soprattutto per le persone più deboli. Per questo motivo abbiamo sentito ancora più forte il bisogno di stare vicino alle persone, umanamente e fisicamente. E per questo sono in tanti a ringraziarci”. Così Fabrizio Schirru racconta con emozione questo periodo duro ma che sta portando tanto calore umano che travalica ogni distanza. È socio della Farmacia Morrica di Marano di Napoli, una delle più frequentate della zona e che copre un vastissimo territorio. “Da quando è partita la quarantena in meno di 24 ore abbiamo subito attivato una serie di servizi per essere praticamente utili alle persone, soprattutto a chi ha patologie pregresse, anziani e a chi ha difficoltà a muoversi, come le consegne a domicilio gratuite. Le persone ci ringraziano e sono felici per il nostro lavoro”. “In questo momento è importante il ruolo delle farmacie in una situazione così complicata e straordinaria – continua Fabrizio – Ci siamo caricati completamente il costo del servizio delle consegne a domicilio. Nell’ultimo mese abbiamo percorso centinaia di chilometri e superato le 500 consegne. Non è una cosa dettata da spirito imprenditoriale ma legata a un’idea di farmacia di comunità e legata alle necessità del territorio”. Fabrizio racconta di persone anziane o in grande difficoltà da cui sono andati non meno di 10 o 12 volte in un mese. “Non abbiamo portato solo i prodotti di cui avevano bisogno in quel momento, ma anche una parola di conforto o un ragguaglio diretto. Le persone in questo momento hanno tanto bisogno del contatto, a volte anche semplicemente visivo e di essere tranquillizzate in maniera più diretta che dai media”. Anche in tempi in cui trovare mascherine e disinfettante era impossibile, o adesso che trovare mascherine certificate è un’impresa, la farmacia di Fabrizio si è impegnata a trovare sempre materiale di buona qualità e che rispettasse gli standard sanitari. Una volta riusciti ad ottenere a fatica il desiderato carico di mascherine le hanno donate a Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia perché “sono in prima linea, e non avevano gli opportuni dispositivi di sicurezza – spiega Fabrizio – toccava a noi dargli una mano”. Oltre a storie di solidarietà Fabrizio racconta anche vicende poco piacevoli che si sono svolte nella sua farmacia, come se si vivesse in un vero e proprio tempo di guerra. “Abbiamo vissuto quei fenomeni che ormai conosciamo bene – racconta il farmacista – come una sorta di mercato nero di quei prodotti come alcol e mascherine da fornitori certificati, affidabili e a prezzi ragionevoli è stato davvero difficile. Un fenomeno davvero incredibile è quello per cui singoli cittadini ci hanno avvicinato per venderci merce di dubbia provenienza, magari non fatturata. Anche noi ci siamo trovati in una situazione poco gestibile”. Poi la corsa agli accaparramenti di farmaci. Appena stampa e Tv lanciavano il nome del nuovo farmaco “miracoloso” del momento scattava la corsa a procurarselo, sia per qualcuno che si era ammalato sia semplicemente da tenere a portata di mano in caso di necessità. Una corsa folle che ha fatto scomparire dagli scaffali delle farmacie prodotti come il Plaquenil. “Ne abbiamo venduto in un mese più di quanto normalmente ne vendiamo in un anno – racconta Fabrizio – Stando sempre molto attenti a dispensare il farmaco solo ed esclusivamente a chi possiede la ricetta del medico. Nonostante tutto abbiamo ricevuto telefonate e prenotazioni da Sorrento o dal basso Lazio per venire a prendersi i farmaci. Evidentemente non più reperibili nelle loro farmacie di riferimento. Questo significa una corsa all’accaparramento di un farmaco senza ragione”.

Medici del 118 in prima linea: “Pagati 16 euro l’ora, senza indennità e senza protezioni”. Rossella Grasso de Il Riformista il 19 Marzo 2020. I medici del 118 sono i primi che incontrano gli ammalati. Sono quelli che corrono in soccorso a bordo delle ambulanze, girano in strada senza sosta e intervengono anche in situazioni drammatiche per salvare la vita dei pazienti. A Napoli spesso sono vittime di aggressioni o costretti a lavorare in situazioni molto complicate. Eppure sono la categoria sanitaria più bistrattata insieme a infermieri e autisti in convenzione. In questo momento di grande emergenza per il Coronavirus subiscono turni di lavoro molto più stressanti del solito. Eppure da gennaio 2020 i medici del 118 dell’AslNa2Nord, AslNa3 Sud e Asl Caserta si sono visti decurtare dallo stipendio l’indennità di rischio. A questo si aggiunge un’altra criticità: quella della carenza di Dispositivi di Protezione individuale (DPI). “Dobbiamo centellinarli – racconta Luigi Esposito, medico del 118 e segretario provinciale Fimmg Emergenza Sanitaria– in un sistema come il nostro che è particolarmente esposto, sempre in prima linea. Che è anche molto debole per come è strutturato: è un sistema misto che vede pubblico e privato insieme, mondo dell’associazionismo e sanità pubblica che lavorano di pari passo in nome della spending review. In questo momento di crisi sono emerse tutte le difficoltà: per esempio non si capisce bene se le associazioni che forniscono autisti e infermieri, nei loro contratti con le Asl debbano fornire dispositivi di sicurezza. E comunque garantire i Dispositivi di Protezione, secondo la legge sulla Sicurezza sul Lavoro diventa complicato. Nelle convenzioni, ad esempio  non è facile capire chi è il datore di lavoro e dunque chi deve garantire sicurezza”. Il medico spiega che “centellinare i DPI” corrisponde a violare le procedure codificate a livello internazionale. Queste prevedono che nel momento in cui il 118 risponde alla chiamata per un soggetto anche solo ipoteticamente affetto da Coronavirus, bisogna indossare tutti i dispositivi. “Il paradosso è che seguendo i dettami governativi noi dobbiamo continuare a lavorare anche se positivi, se siamo in assenza di sintomi, ma questo vuol dire che  se inconsapevolmente abbiamo contratto il virus diventiamo dei veri e propri untori. Rischiamo di essere noi la fonte del contagio”. Ad aggravare maggiormente la situazione di circa 400 medici che lavorano sul territorio è la sottrazione dell’indennità di rischio. Una decisione presa nel 1999 quando nacque il servizio del 118. Fu allora che si previde di dare ai medici in convenzione un’indennità di rischio per favorire il passaggio del personale dalle guardie mediche al 118. “Questa indennità fu stabilita perché quello del 118 è un lavoro usurante, soggetto a rischi biologici, e lo stiamo vedendo in questi giorni, a turnazione maggiore e su festivi, perché comprende anche i sabati e le domeniche quando i medici di famiglia, per esempio, non lavorano affatto. Eppure il nostro è un lavoro assimilabile a quello ospedaliero ma con una competenza territoriale”. La delibera di giunta regionale campana fu recepita e fu stabilito che questa indennità doveva essere estrinsecata nell’accordo nazionale di lavoro successivo. Ma nel 2005 non avvenne nessuna modifica. “In nessuna altra delibera c’è menzione di questa indennità extra contrattuale – continua Esposito – Ma non significa che questa sia stata abolita”. L’accordo finisce nel Sistema Integrato dei Convenzionati Nazionali. Qui viene recepito l’accordo e sottoposto alla Corte dei Conti per la verifica delle coperture finanziarie. “Dal 2005 a oggi non esiste alcuna nota della Corte dei Conti che verifica un’ illegittimità dell’indennità. Nella nota che le ASL hanno mandato nel gennaio 2020, L’asl Na2Nord sosteneva che in seguito all’attività investigativa della Guardia di Finanza, i zelanti dirigenti si sono accorti che veniva erogata indebitamente questa indennità. Dunque invocando l’autotutela hanno deciso di sospendere l’indennità. Ma la Corte dei Conti ha mandato la finanza per fare verifiche su altre cose, non certamente sui compensi dei medici”. Luigi Esposito sottolinea che ultimamente è scattata anche la caccia al “furbetto”, per cui spesso ai medici del 118 viene additata anche la colpa di sottrarsi al loro dovere. “Hanno messo in dubbio la veridicità dei certificati di malattia dei nostri colleghi. Ci hanno anche ricordato con lettera ufficiale che se i medici si sottraggono all’intervento adducendo come motivazione la mancanza dei DPI sono perseguibili penalmente. In un momento storico come questo è veramente singolare che venga decurtata l’indennità, dove il rischio oggi è così alto. L’indennità dovrebbe invece essere consolidata. Il rischio serio è che quei pochi che hanno deciso di fare questo lavoro, lo lascino e ci troveremo nel giro di pochissimo tempo davvero impallati. Circa 400 medici del 118 in Campania non credo incidano così tanto sul bilancio regionale”. Ma sarebbe un rischio grandissimo per la collettività. Dalla loro parte si è schierata Michela Rostan, vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera. “Il tributo che i professionisti sanitari stanno pagando con 2.300 casi positivi dei quali 1.900 sono medici e infermieri – ha detto la deputata di Italia Viva – è assolutamente eccessivo e deve essere a tutti i costi ridimensionato. La distribuzione dei kit di protezione è in questo momento la vera emergenza nazionale. L’appello della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche e della Federazione nazionale dei medici di medicina generale non deve cadere inascoltato. La previsione nel decreto ‘Cura Italia’ di 3,5 miliardi di euro per il comparto della sanità pubblica e della Protezione civile – ha concluso Rostan – è una prima risposta importante del governo alle migliaia di operatori sanitari che stanno combattendo senza sosta in prima linea il coronavirus. Occorre però accelerare al massimo tutte le procedure previste nel decreto per dare attuazione all’implementazione del personale che consentirebbe di colmare nel più breve tempo possibile le carenze degli organici dei servizi di emergenza e di quelli ospedalieri messi a dura prova dalla diffusione del contagio”.

Coronavirus: “Noi dei servizi funebri a cercare cadaveri tra i sacchi neri, rischiando la vita”. Le Iene News il 7 aprile 2020. Riccardo, che ha un’agenzia di servizi funebri a Brescia, ci racconta il dramma coronavirus dal punto di vista di un altro settore, che conta vittime e contagi, sconvolto dall’emergenza. E dai suoi numeri: “I morti sono decuplicati al culmine dell’epidemia”. “Ci siamo trovati all’improvviso a cercare in mezzo a decine di cadaveri in ospedale i nomi sui foglietti dei sacchi neri: tutto il nostro lavoro e la vita sono stati sconvolti”. Riccardo C., che ha un’agenzia di servizi funebri, ci ha contattato per darci la sua versione della Lombardia nell’emergenza coronavirus dal punto di vista degli operatori del suo settore. “Anche noi siamo a rischio e contiamo molti contagiati e vittime”, ci racconta. “Entriamo e usciamo continuamente dagli ospedali e siamo sempre in contatto con i poveri parenti, spesso positivi, dei morti per Covid-19”. Sono soprattutto i numeri dell’emergenza a impressionare, con vittime anche decuplicate: “Tutto è cambiato a inizio marzo, le settimane centrali poi sono state tremende: c'è chi faceva di solito 3 o 4 servizi al mese e si è trovato di fronte in pochissimo tempo a 20/30 richieste mensili. E la situazione purtroppo non è ancora cambiata di molto. Eppure facciamo sempre tutto, con la grande umanità che contraddistingue questo lavoro, anche se magari è pure difficile trovare qualche lavoratore in più per aiutarci, tutti hanno paura dei contagi”. “Anch’io, pur non avendo sintomi, per cautela vivo con la mascherina e da separato in casa in famiglia”, conclude Riccardo C. “Ma il pensiero va soprattutto ai parenti dei defunti: non solo non si possono più fare funerali ma è permesso solo a uno, massimo due familiari di assistere perfino, da distanza, alla breve benedizione del feretro da parte del sacerdote del cimitero. Così è ancora più straziante”.

·        Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Isidoro Trovato per "corriere.it" il 25 ottobre 2020.

I primi conteggi. Stando all’ultimo report Inail, a fine settembre le denunce di contagio sul lavoro da Covid-19 hanno superato le 54.000 unità (54.128) con un aumento di 1.919 denunce rispetto a fine agosto di cui 1.127 relative a infezioni avvenute in settembre e le altre 792 nei mesi precedenti, per effetto del consolidamento dei dati. Questi dati riaprono il dibattito sulla necessità di uno scudo penale per i datori di lavoro adempienti, rispetto al tema delle misure di prevenzione. «Le norme vigenti, anche quelle ultimamente introdotte, non escludono la responsabilità penale del datore di lavoro, che vedrà riconosciuto il proprio comportamento lecito solo alla fine del relativo procedimento», commenta Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. «Le incertezze esistenti, su dove come e da chi avvenga il contagio, creano una situazione di grande disagio tra gli imprenditori. Ed è un problema non da poco. Per questo è urgente, considerando l’impennata dei contagi a cui stiamo assistendo, avviare una riflessione con le parti sociali per arrivare a una norma».

Rischi e interpretazioni dubbie della normativa. L’equiparazione fatta dall’articolo 42 del D.L. n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe portare al coinvolgimento dell’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso. E questo anche nel caso che la responsabilità del datore di lavoro non sia oggettiva, ma abbia adempiuto a tutto quanto previsto da norme e regolamenti. Infatti, restano ancora molti i punti critici; tra questi, ad esempio, la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa del contagio. Così come di escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio. Senza poi contare i casi dei soggetti asintomatici. Il tutto al netto di cause civili per risarcimento danni. Forse andrebbe studiata una soluzione per mettere al riparo dai rischi gli imprenditori che sono stati ligi al protocollo.

Soprattutto gli uomini e si abbassa l’età. I casi mortali per contagio da Covid-19 sono pari a circa 1/3 del totale dei decessi denunciati all’Inail dall’inizio dell’anno. Ad essere colpiti sono soprattutto gli uomini (84,0%) e nelle fasce 50-64 anni (69,9%) e over 64 anni (19,4%), con un’età media dei deceduti di 59 anni. In quasi nove casi su 10 (89,3%) si tratta di lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri le comunità più colpite sono quelle peruviana (17,6&), rumena (14,7%) e albanese (11,8%). Prendendo in considerazione il totale delle infezioni di origine professionale denunciate, il rapporto tra i generi si inverte – circa sette contagiati su 10 (70,7%) sono donne – e l’età media scende a 47 anni.

Nord sotto tiro. Dall’analisi territoriale il Nord resta sotto tiro. Entrando nello specifico emerge che più della metà delle denunce presentate all’Istituto (55,1%) ricade nel Nord-Ovest, seguito da Nord-Est (24,4%), Centro (11,9%), Sud (6,2%) e Isole (2,4%). Concentrando l’analisi esclusivamente sui casi mortali, la percentuale del Nord-Ovest sale al 56,7%, mentre il Sud, con il 16,0% dei decessi, precede il Nord-Est (13,8%), il Centro (11,6%) e le Isole (1,9%). La Lombardia si conferma la regione più colpita, con il 35,2% dei contagi denunciati e il 41,7% dei casi mortali. Tra le province, invece, il primato negativo spetta a quella di Milano, con il 10.8% del totale delle infezioni sul lavoro denunciate, seguita da Torino (7,8%), Brescia (5,4%) e Bergamo (4,6%).

Si riducono i contagi delle professioni sanitarie. Se la categoria dei tecnici della salute – con il 39,2% delle infezioni denunciate, oltre l’83% delle quali relative a infermieri, e il 9,5% dei casi mortali – si conferma la più colpita, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,6%), dai medici (10,1%), dagli operatori socio-assistenziali (8,9%) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari, dopo il lockdown l’incidenza delle professioni sanitarie sul totale dei contagi da Covid-19 si è progressivamente ridotta. Guardando invece le attività produttive coinvolte dalla pandemia, il settore della sanità e assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, cliniche, residenze per anziani e disabili) con il 70,3% delle denunce e il 21,3% dei decessi codificati precede l’amministrazione pubblica (Asl e amministratori regionali, provinciali e comunali), in cui ricadono l’8,9% delle infezioni denunciate e il 10,7% dei casi mortali. Gli altri settori più colpiti sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il manifatturiero e le attività dei servizi di alloggio e ristorazione.

(ANSA il 11 ottobre 2020) - In caso di nuovi lockdown per emergenza epidemiologica da Covid 19, che di fatto impediscano alle persone di svolgere la propria attività lavorativa, l'isolamento domiciliare non sarà equiparato alla malattia. L'Inps precisa quali sono le condizioni per essere considerato in malattia con un messaggio nel quale ricorda che il riconoscimento della malattia si ha solo quando la quarantena è decisa da un operatore di sanità pubblica, (come ad esempio nel caso di contatto stretto con soggetti positivi). "In tutti i casi di ordinanze o provvedimenti di autorità amministrative che di fatto impediscano ai soggetti di svolgere la propria attività lavorativa - sottolinea l'Inps - non è possibile procedere con il riconoscimento della tutela della quarantena ai sensi del comma 1 dell'articolo 26 del decreto Cura Italia (quello che prevede l'equiparazione della quarantena con sorveglianza attiva alla malattia,ndr ), in quanto la stessa prevede un provvedimento dell'operatore di sanità pubblica". L'Inps spiega anche che la malattia non viene riconosciuta ai lavoratori fragili in smart working a meno di malattia conclamata. "Per quanto riguarda i lavoratori fragili la quarantena e la sorveglianza precauzionale - si legge nel messaggio - "non configurano un'incapacità temporanea al lavoro per una patologia in fase acuta tale da impedire in assoluto lo svolgimento dell'attività lavorativa, ma situazioni di rischio per il lavoratore e per la collettività che il legislatore ha inteso tutelare equiparando, ai fini del trattamento economico, tali fattispecie alla malattia. Non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della malattia nei casi in cui il lavoratore in quarantena o in sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile continui a svolgere, sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro, l'attività lavorativa presso il proprio domicilio". Nessun riconoscimento della malattia è dovuto per le persone che dovessero fare la quarantena all'estero perché richiesta dal paese di destinazione: "l'accesso alla tutela per malattia - si legge - non può che" provenire sempre da un procedimento eseguito dalle preposte autorità sanitarie italiane". Infine la malattia non viene riconosciuta se il lavoratore malato è in cassa integrazione o ha l'assegno dei fondi di solidarietà. Si tratta infatti - scrive l'Inps "del principio della prevalenza del trattamento di integrazione salariale sull'indennità di malattia. L'Inps ha dato anche istruzioni per il rinnovo del reddito di cittadinanza per quelle famiglie che l'anno avuto in maniera continuativa dal momento della sua istituzione (ad aprile 2019 la prima erogazione) ricordando che si ha l'interruzione di un mese del beneficio e che le domande possono essere ripresentate da ottobre 2020. Nel mese di settembre - chiarisce l'Istituto - " i nuclei familiari che hanno beneficiato della prestazione senza soluzione di continuità fin dalla prima erogazione (aprile 2019) hanno ricevuto la diciottesima mensilità e pertanto la domanda è stata posta in stato "Terminata". Tali nuclei potranno quindi (a partire dal mese di ottobre 2020) presentare la domanda di rinnovo di Rdc. In caso di rinnovo del beneficio - precisa - "deve essere accettata, a pena di decadenza, la prima offerta utile di lavoro congrua".

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. L'epidemia globale ha provocato anche riflessi culturali globali: tra i film, rinnovato successo di Contagion di Steven Soderbergh; tra i romanzi, molti hanno riletto o scoperto per la prima volta La peste di Albert Camus. La voglia di trovare conforto nel paragone con una tragedia ancora più spaventosa, o il bisogno di esorcizzare la paura, hanno fatto tornare di attualità in Francia, Italia e anche in Cina il libro che il premio Nobel francese scrisse nel 1947. Per festeggiare la riapertura delle librerie, Bompiani pubblica adesso Esortazione ai medici della peste, un testo inedito in Italia che Camus scrisse probabilmente nel 1941 come uno dei lavori preparatori al romanzo (a partire dal 13 maggio, l' inedito sarà scaricabile gratuitamente su bompiani.it o regalato ai lettori delle librerie Giunti al Punto). Sono 24 pagine di grande interesse, tradotte da Yasmina Melaouah e pubblicate in Francia oltre 70 anni fa nella rivista di Gallimard «Cahiers de la Pléiade», aprile 1947, assieme al più breve Discorso della peste ai suoi amministrati, pochi mesi prima dell' uscita del romanzo. La peste si può leggere come un libro allegorico: Camus inventa un' epidemia di peste negli anni Quaranta a Orano, in Algeria, per raccontare le reazioni dei suoi cittadini e quindi degli uomini di fronte al Male. Come pochi anni prima i francesi sotto l'occupazione nazista, gli abitanti di Orano di fronte alla peste mostrano le tante possibilità della natura umana: ci sono il medico instancabile (oggi diremmo eroe) Bernard Rieux, generoso, pronto al sacrificio e alla fine convinto che gli uomini abbiano più qualità che difetti; il suo vicino Jean Tarrou, che organizza la rete di Resistenza contro il bubbone; ma c' è anche il profittatore di guerra Joseph Cottard, che fa affari grazie al contrabbando e che rappresenta la perfetta figura del collaboratore amico dei nazisti. Se quella lettura allegorica della Peste era evidente e predominante quando il romanzo uscì nel 1947, a soli due anni dalla sconfitta di Hitler e di Pétain, il romanzo di Camus ha un valore universale che prescinde dalla lotta al nazismo. La stessa natura umana messa alla prova dalla Seconda guerra mondiale è chiamata oggi a mostrare di che pasta è fatta di fronte al Covid-19. La peste ora si può leggere in modo più diretto, osservando come gli uomini - di Orano, Parigi o Milano - reagiscono di fronte a un' epidemia, di peste o di coronavirus. I primi segnali sono spesso trascurati, perché gli uomini tendono a pensare che le catastrofi non accadano, o capitino agli altri: in apertura del romanzo Camus descrive l' ecatombe dei topi, e i cadaveri dei roditori che infestano le strade di Orano. Eppure la maggior parte della popolazione preferisce voltarsi dall' altra parte e continuare la propria vita come se il problema non esistesse e riguardasse solo gli altri, i topi. Impossibile non notare che questa fatica a riconoscere la minaccia si è vista all' opera anche nelle prime settimane dell' epidemia di Covid-19, quando si pensava che l' unico luogo colpito fosse Wuhan. Gli occidentali hanno perso tempo prezioso prima di capire il pericolo del «virus cinese», come lo chiamava il presidente americano Trump, e molti europei si sono a lungo rifiutati di sentirsi coinvolti anche se i loro vicini erano già toccati dal dramma: in Francia, per esempio, il presidente Macron è andato a teatro con la moglie mandando ai francesi il messaggio che «la vita continua», mentre l' Italia già dichiarava quasi 200 morti. Ma la stessa iniziale negazione del pericolo si è avuta in Gran Bretagna, o in Svezia. La somiglianza tra la vicenda immaginaria ambientata da Camus a Orano e la realtà dell' epidemia nel mondo si ritrova anche nel testo preparatorio, in cui l' autore si rivolge ai medici ricordando l' importanza di essere «saldi di fronte a questa strana tirannia». Nelle prime pagine si parla subito delle mascherine, l' oggetto prezioso e colpevolmente raro che ossessiona Francia e Italia in questi giorni. Ma al di là di questo consiglio pratico, Camus affronta la questione di come i medici, ma anche tutti gli altri uomini, possano affrontare un evento così spossante per il corpo e per l' anima come l' epidemia. «La prima cosa è che non abbiate mai paura», scrive Camus. «Dovete fortificarvi contro l' idea della morte e conciliarvi con essa, prima di entrare nel regno preparatole dalla peste. Se trionferete qui, trionferete ovunque e vi vedranno tutti sorridere in mezzo al terrore». Camus sembra evocare qui un tema di cui si è molto parlato nelle ultime settimane, ovvero la rimozione contemporanea della morte dall' orizzonte delle nostre vite. La sua esortazione ai medici, e a tutti, è di non avere paura di niente, neanche della morte. La risposta all' epidemia non può essere fare finta di nulla, o rifugiarsi nella superstizione, o nel fatalismo. Ma prendere tutte le precauzioni possibili e poi combattere, senza paura.

Dal “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. Pubblichiamo un breve estratto dell'«Esortazione ai medici della peste», in uscita da Bompiani mercoledì nella traduzione di Yasmina Melaouah. Infine dovete diventare padroni di voi stessi. E, per esempio, saper fare rispettare la legge che avrete scelto, come quella del blocco e della quarantena. Uno storiografo provenzale narra che un tempo, quando uno di coloro che erano sottoposti alla quarantena scappava, gli veniva fracassata la testa. Non è questo che auspicate. Ma non dimenticate con ciò l' interesse generale. Non venite meno a tali regole per tutto il tempo in cui saranno utili, quand' anche il cuore vi inducesse a ciò. Vi è chiesto di dimenticare un poco quel che siete senza tuttavia dimenticare mai quel che dovete a voi stessi. È questa la regola di una serena dignità.

Gli errori di governo e regioni hanno causato la morte di 200 medici. Bruno Buonanno su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Combattevano contro un nemico sconosciuto o i governanti nazionali e regionali si sono “distratti” quando si dovevano riempire i magazzini di mascherine, visiere, tute e di tutto quello che poteva servire per affrontare il Coronavirus? Capiamoli. Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli e segretario nazionale del sindacato dei medici di famiglia Fimmg, non fa sconti a nessuno: “Purtroppo la storia dei presidi che mancano non è finita. Continua con guanti in lattice che non si trovano da nessuna parte e chi è in grado di procurarli chiede prezzi impossibili. Un argomento così importante dovrebbe essere gestito dalla Scienza, invece riceviamo indicazioni che cambiano in continuazione e creano problemi. Prima si dovevano indossare i guanti, oggi non servono più perché basta lavarsi spesso le mani e usare gel disinfettanti. I costi sono alle stelle, si parla anche di 12-16 euro per una scatola di guanti e in questo filone dei presìdi si sono inseriti personaggi politici come la Pivetti”. È sempre in prima linea Scotti, pronto a far sentire il suo vocione in difesa di medici e infermieri mandati allo sbaraglio durante la pandemia: “Siamo a oltre duecento morti tra il personale sanitario e gli errori fatti sulla carenza di dispositivi di sicurezza sono senza giustificazione”. A fine gennaio governo e regioni avevano tempo e possibilità di organizzare le scorte perché l’emergenza Coronavirus era ancora lontana dall’Italia. “Chi ci governa – continua Scotti – sapeva che non avevamo una produzione propria di quei dispositivi e, se uno Stato dichiara l’emergenza sanitaria, deve organizzare un’emergenza strategica. Altrimenti è follia. Se sai da dicembre che un nuovo virus può arrivare in Italia, prima di chiudere i voli dalla Cina organizzati per far arrivare dall’Oriente tutti i prodotti di cui puoi avere bisogno”. Siamo partiti a livello nazionale con un budget di cinque milioni di euro decidendo di affidare la gestione dell’emergenza sanitaria alla Protezione Civile. Scelta che Silvestro Scotti critica: “L’articolo 81 della Costituzione prevede che per disastri idrogeologici ed emergenze sanitarie si programmi un finanziamento. Noi abbiamo avuto disastri idrogeologici: la Protezione Civile ha autocarri, tende, ospedali da campo e mascherine e ne ha fornite 70mila alle forze dell’ordine ma non ai medici. Governo e Regioni se ne sono infischiati del personale sanitario. Quando eravamo in piena emergenza sono arrivati a dire: vi servono le mascherine? Compratevele. Procuratevi sul mercato i mezzi di protezione individuale. E partendo da questo presupposto è partita un’operazione sbagliata perché ospedalicentrica e strutturicentrica che ha completamente ignorato il Territorio”. Avvocati, docenti universitari, ingegneri sono oggi nelle sale comando della sanità e nelle task force. Silvestro Scotti è rimasto fuori, come tanti protagonisti della nostra sanità: “Poi ci si chiede com’è possibile che per avere un tampone si debba attendere fino a 15 giorni e altri ancora per sapere se si è positivi o negativi. Hanno inserito nelle task force i manager degli ospedali, il personale della Protezione Civile mentre sarebbe stata più efficace un’alleanza tra medici e farmacisti e il coinvolgimento, in prima battuta, anche della sanità convenzionata”. Un virus nuovo, la gestione della pandemia affidata a chi cura disastri idrogeologici, hanno fatto dimenticare che la prevenzione prevede per milioni di cittadini presìdi di protezione personale. “Ci sono colpe di alcuni specialisti che hanno dato indicazioni sbagliate – ammette Scotti – ma le linee di comportamento in una pandemia sanitaria così grave e importante devono essere dettate dalla scienza e non dalla politica. Calano i contagi e i decessi, ma si teme un ritorno del Coronavirus. Sul futuro non vedo luce, dobbiamo augurarci che l’aggressività del virus si riduca col caldo e sperare di essere fortunati. Intanto sento parlare di app, della tecnologia al posto del medico in prima linea. No, per carità di Dio, adesso non esageriamo”.

Medici di famiglia e farmacisti morti. «Nessun risarcimento per il Covid» Giuseppe Guastella il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Le assicurazioni: l’infezione non è infortunio sul lavoro. Ma chi lavora negli ospedali invece riceve l’indennizzo. I parenti di alcune delle vittime sono pronti a rivolgersi alla magistratura. Ci sono eroi ed eroi. A differenza dei colleghi assunti nella sanità pubblica o privata, i medici di famiglia e gli infermieri che si sono ammalati di coronavirus assistendo i pazienti non saranno indennizzati per i danni subiti, così come non avranno nulla le loro famiglie se sono morti, nonostante per anni abbiano pagato un’assicurazione. Per una questione interpretativa giuridica, infatti, le compagnie non riconoscono l’infezione da Covid-19 come infortunio sul lavoro. C’è già chi è pronto a rivolgersi alla magistratura.

Le categorie. Un medico, un dentista, un farmacista o un tecnico sanitario (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata e che si sono ammalati o si ammalano, speriamo non più, dopo essere stati contagiati da un paziente, possono contare sulla copertura assicurativa dell’Inail che considera ciò che è accaduto loro un infortunio sul lavoro. Di conseguenza, hanno diritto a un indennizzo se riportano un’invalidità permanente che, in caso di morte, viene versato ai familiari. I medici di medicina generale svolgono un servizio — è bene ricordarlo — pubblico in convenzione con il Servizio sanitario che li paga, ad esempio, per visitare i pazienti. Non possono rifiutarsi e se vengono contagiati è obiettivamente difficile non pensare a un infortunio, ovviamente sul lavoro. Lo stesso vale per i farmacisti, per i dentisti e per tutti gli altri operatori sanitari che hanno un’attività libero-professionale che li pone a contatto con il pubblico. Questi professionisti di solito pagano volontariamente una polizza assicurativa che copre i danni da infortuni, versando in media tra i mille e i duemila euro l’anno. Nel loro caso, a differenza dell’Inail, però, le compagnie assicurative private escludono che il contagio possa essere considerato un infortunio e non coprono i danni. Lo fanno se l’assicurato ha stipulato una polizza anche contro le malattie, ma è una cosa molto rara perché in Italia, per fortuna, c’è il Servizio sanitario nazionale che cura gratuitamente.

Le cifre Inail. Dall’inizio della pandemia l’Inail, spiega Patrizio Rossi, sovrintendente sanitario nazionale dell’Istituto, dati al 15 giugno, «ha ricevuto 49.021 denunce di infortuni sul lavoro da parte degli operatori del settore della sanità e dell’assistenza sociale, tra tutte la categoria più colpita con 236 decessi». Secondo i dati Inail, il maggiore numero di contagiati si è verificato tra i tecnici della salute (40,9%), seguiti dagli operatori socio-sanitari (21,3%), dai medici (10,7%) e dagli operatori socio-assistenziali (8,5%). Anche il maggiore numero dei morti è stato registrato tra i tecnici della salute (12%, di cui il 60% infermieri) seguiti dai medici (9,9%) e dagli operatori socio-sanitari (7,8%). «Solo gli operatori infettati sul lavoro che sono assicurati dall’Inail sono tutelati da questi rischi» precisa Rossi. Gli esclusi sono migliaia come, appunto, i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, i farmacisti e i dentisti, professionalità tra le quali ci sono stati tanti contagiati e morti, tra cui 171 medici e 14 farmacisti. Per loro, quindi, le regole dell’Inail non valgono.

L’interpretazione. «Sulla qualificazione dell’infezione come infortunio c’erano orientamenti opposti tra mondo assicurativo pubblico e mondo assicurativo privato già prima della pandemia», spiega Rossi, secondo il quale, «dal punto di vista tecnico-giuridico non c’è alcuna differenza tra il sistema assicurativo pubblico e quello privato sull’interpretazione dell’infezione come infortunio». Invece, «le assicurazioni private hanno sempre escluso tutte le malattie infettive dall’indennizzo, a meno che non siano collegate direttamente a una lesione subita in precedenza. Questo — prosegue Rossi — è un concetto ormai superato di fronte a una malattia che di per sé costituisce a tutti gli effetti un evento lesivo conseguente a una causa violenta-rapida-esterna. Quello che tecnicamente è considerato un infortunio dalla medicina-legale». Per trovare una soluzione, Inail ha promosso un gruppo di lavoro per studiare l’estensione della propria tutela ai medici e odontoiatri liberi professionisti. Su come affrontare le conseguenze della pandemia in generale si interrogano le assicurazioni che, come ha detto il presidente Ania Maria Bianca Farina, stanno cercando «una soluzione assicurativa che consenta una gestione ex ante della pandemia».

Coronavirus: risarcimento per i medici contagiati in ospedale e non per quelli di base. Le Iene News il 02 luglio 2020. Medici, dentisti, farmacisti e tecnici sanitari (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata, se hanno preso il Covid dai pazienti, hanno diritto a un indennizzo dall’Inail che in caso di morte viene pagato ai familiari. I medici di famiglia e gli operatori che lavorano fuori da un ospedale, no. Ecco perché si fa questa incredibile differenza tra gli eroi che ci hanno salvato dalla pandemia. Esistono medici e operatori sanitari eroi di serie A e di serie B, almeno in Italia, davanti ai risarcimenti. Quelli che si sono ammalati o sono purtroppo morti di Covid in ospedale avranno diritto all'indennizzo, i dottori di famiglia no. Il Corriere della Sera racconta lo scandalo ricostruendo un’incredibile babele legislativa e assicurativa. Nella foto qui sopra vedete uno dei simboli di tutti questi veri eroi, ospedalieri o di base: è Elena Pagliarini, infermiera del Pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, premiata dal Capo dello Stato Sergio Mattarella come Cavaliere al merito della Repubblica. Lo scatto di un collega che la ritrae addormentata a fine turno ancora al suo posto, davanti al computer e con camice e mascherina, riassume l’impegno straordinario di tutto il personale sanitario che ha fatto uscire il nostro Paese per ora dall’emergenza più grave dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. In tantissimi sono stati inevitabilmente contagiati dal Covid, in tanti sono morti: questi veri eroi non sono però tutti uguali almeno davanti ai risarcimenti. Medici, dentisti, farmacisti e tecnici sanitari (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata e che si sono ammalati dopo essere stati contagiati da un paziente, possono contare sulla copertura assicurativa dell’Inail che lo considera un infortunio sul lavoro. Hanno diritto a un indennizzo in caso di un’invalidità permanente. In caso di morte, il risarcimento viene versato ai familiari. Il lavoro dei medici di medicina generale, quelli di base, quelli di famiglia per intenderci, è un servizio pubblico in convenzione con il Servizio sanitario. Non possono rifiutarsi di visitare i pazienti e se si ammalano di Covid anche per loro si dovrebbe pensare a un infortunio sul lavoro. Stessa cosa per farmacisti, per dentisti e per tutti gli altri operatori sanitari che svolgono un’attività libero-professionale a contatto con il pubblico. Tutti questi di solito pagano volontariamente una polizza assicurativa che copre i danni da infortuni, con contributi tra i mille e i duemila euro l’anno. A differenza dell’Inail, però, le compagnie assicurative private escludono che il contagio possa essere considerato un infortunio e non coprono i danni. Lo fanno solo se l’assicurato ha stipulato una polizza specifica anche contro le malattie: una cosa molto rara perché in Italia c’è il Servizio sanitario nazionale già gratuito. Sul Corriere della Sera troviamo anche i numeri dall’inizio della pandemia dell’Inail, l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, spiegati da Patrizio Rossi, sovrintendente sanitario nazionale dell’Istituto, aggiornati al 15 giugno: “L’Inail ha ricevuto 49.021 denunce di infortuni sul lavoro da parte degli operatori del settore della sanità e dell’assistenza sociale, tra tutte la categoria più colpita con 236 decessi”. La percentuale più alta di contagiati si è verificata tra i tecnici della salute (40,9%), seguiti dagli operatori socio-sanitari (21,3%), dai medici (10,7%) e dagli operatori socio-assistenziali (8,5%). Anche i morti si sono concentrati di più tra i tecnici della salute (12%, di questi il 60% sono infermieri), seguiti dai medici (9,9%) e dagli operatori socio-sanitari (7,8%): “Questi sono solo gli operatori infettati sul lavoro che sono assicurati dall’Inail e sono tutelati da questi rischi”. Gli esclusi? Migliaia di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, farmacisti, dentisti, tecnici sanitari. In 171 sono morti. Sono morti e contagiati di serie B che non hanno diritto al risarcimento? Dov’è finito il grazie agli eroi della pandemia? “Sulla qualificazione dell’infezione come infortunio c’erano orientamenti opposti tra mondo assicurativo pubblico e mondo assicurativo privato già prima della pandemia”, spiega Rossi al Corriere della Sera. “Dal punto di vista tecnico-giuridico non c’è alcuna differenza tra il sistema assicurativo pubblico e quello privato sull’interpretazione dell’infezione come infortunio. Le assicurazioni private hanno sempre escluso tutte le malattie infettive dall’indennizzo, a meno che non siano collegate direttamente a una lesione subita in precedenza”. In molti sono già pronti a rivolgersi alla magistratura. Noi speriamo che la politica possa intervenire, perché non possono esserci eroi di serie A e di serie B: dobbiamo a tutti loro tantissimo.

Coronavirus e la beffa dei medici di base non risarciti: “Mio padre è morto, anche il suo sacrificio deve essere riconosciuto”. Le Iene News il 07 luglio 2020. Ilenia, figlia di Giovanni Tommasino, ci racconta gli ultimi giorni di suo padre, medico di base a Castellammare di Stabia morto per il coronavirus. Oltre al dolore, la beffa dell’ingiusta “classificazione tra medici”, di cui noi di Iene.it vi abbiamo parlato. “Non posso pensare che ci siano eroi di serie A e eroi di serie B. Mio padre ha fatto il suo dovere fino alla fine”. Il papà di Ilenia, Giovanni Tommasino, che vedete nella foto qui sopra assieme alle due figlie, è uno dei 171 operatori sanitari che hanno perso la vita a causa del coronavirus. “Mio papà aveva 61 anni ed era un medico di base”, racconta Ilenia a Iene.it. La ragazza ci ha contattato dopo aver appreso che i medici ammalati o morti per il coronavirus in ospedale avranno diritto a un indennizzo, mentre i dottori di famiglia no: una notizia che noi di Iene.it vi abbiamo raccontato. Giovanni lavorava a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli: “Agli inizi di marzo ha cominciato ad avere i primi sintomi”, racconta Ilenia. “Abbiamo subito chiesto il tampone ma nel frattempo la situazione è peggiorata. Mio padre è stato ricoverato in vari ospedali, fino a che il 4 aprile, mentre era in terapia intensiva, non ce l’ha fatta”. Un dolore enorme, a cui si aggiunge la beffa del caso dei risarcimenti: “Io e la mia famiglia siamo consapevoli che nessuno potrà ridarcelo, ma a tre mesi dalla sua morte sentire che ci sono diverse classificazioni tra medici di base e medici ospedalieri fa davvero male. Li chiamano eroi e poi li classificano? Mio padre ha sacrificato se stesso, per lui il lavoro era un imperativo morale: ha combattuto in prima linea finché ha potuto, senza abbandonare i suoi pazienti. Per questo ha lasciato un vuoto non solo nella nostra famiglia, ma tra i suoi pazienti, in tutto Castellammare”. “Noi non vogliamo nulla”, continua Ilenia. “Non è per il risarcimento che ho deciso di parlare di lui, è perché mio padre e tutti i medici di base devono essere messi sullo stesso piano di quelli che lavorano in ospedale. La medicina di base è il primo contatto con il paziente e mio padre per lavorare si è anche dovuto arrangiare quando è scoppiato tutto questo: solo dopo qualche giorno è riuscito a procurarsi una mascherina chirurgica. Chi è medico è medico sempre, perché fare distinzioni? Noi vogliamo che nostro padre, come tutti i medici di base, ricevano il giusto riconoscimento”. Per questo, racconta Ilenia, un collega di Giovanni poco dopo la sua morte ha deciso di lanciare una petizione affinché sia riconosciuta una medaglia al merito a Giovanni Tommasino e a tutti gli operatori sanitari vittime del Covid19, senza distinzione. “Sono già state raccolte 30mila firme”, dice Ilenia. “Io ho deciso di parlare di mio padre perché il sacrificio che lui ha fatto non può restare senza un riconoscimento, per lui come per tutti gli altri medici”. Se volete contribuire anche voi a rendere omaggio a chi ha lottato e dato la propria vita per proteggere tutti noi, cliccate qui per firmare la petizione. 

Coronavirus, i contagi di medici, infermieri e operatori delle strutture sanitarie tutelati come infortuni sul lavoro. Inail il 17/03/2020. Come chiarito in una nota, la tutela Inail copre l’intero periodo di isolamento domiciliare o quarantena e quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta. I contagi da nuovo Coronavirus di medici, infermieri e altri operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale e di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Inail, avvenuti nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, sono tutelati a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. Si presume il nesso causale con le mansioni svolte. A chiarirlo è una nota della Direzione centrale rapporto assicurativo e della Sovrintendenza sanitaria centrale dell’Istituto, nella quale è precisato che la tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l’identificazione delle specifiche cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Si presume, infatti, che il contagio sia una conseguenza delle mansioni svolte. Sono tutelati, inoltre, anche i casi di contagio da Covid-19 avvenuti nel percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, che si configurano quindi come infortuni in itinere. Copertura Inail anche per quarantena e isolamento domiciliare. Gli operatori che risultino positivi al test di conferma del contagio sono ammessi alla tutela dell’Istituto, che si estende a tutte le conseguenze dell’infortunio. Nei casi di infezione da nuovo Coronavirus, in particolare, copre l’astensione dal lavoro dovuta a quarantena o isolamento domiciliare per l’intero periodo e quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta. Per il datore di lavoro resta l’obbligo di denuncia/comunicazione all’Istituto. L’Azienda sanitaria locale o la struttura ospedaliera/sanitaria privata di appartenenza del personale infortunato, in qualità di datori di lavoro pubblico o privato, come per gli altri casi di infortunio sono tenute a effettuare la denuncia/comunicazione di infortunio all’Inail. È confermato, inoltre, l’obbligo da parte del medico certificatore di trasmettere all’Istituto il certificato medico di infortunio.

Coronavirus, il sindacato dei medici: “Duemila positivi tra i sanitari: senza mascherine e tamponi gli ospedali diventano un pericolo”. In una petizione su Change.org, Anaao Assomed chiede più sicurezza per chi è in prima linea: altrimenti le strutture destinate alla cura rischiano di diventare focolai a loro volta. Beatrice Manca il 16 marzo 2020 su Il Fatto Quotidiano. L’allarme era stato dato da giorni, ma ora parlano i numeri: duemila operatori sanitari – tra medici, infermieri – sono già stati contagiati dal coronavirus sul luogo di lavoro. “Sono circa il 10-12% del totale dei positivi – spiega Carlo Palermo, segretario del sindacato medico Anaao Assomed – Ma quello che ci preoccupa soprattutto è che non vengono effettuati i tamponi agli operatori che siano stati a contatto con i soggetti Covid-19 finché non mostrano i sintomi”. Per questo è stata lanciata una petizione su Change.org, indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza, che in un paio di giorni ha superato le 37mila firme. “Siamo in una situazione paradossale: il territorio è stato messo al riparo con chiare istruzioni con istruzioni chiare di distanziamento sociale, gli ospedali no e rischiano di diventare sedi di contagio“. La politica in questi giorni ha ricordato spesso le condizioni durissime in cui lavora il personale ospedaliero: ieri il premier Giuseppe Conte ha sottolineato che la “priorità è la sicurezza di medici e infermieri”, e che il governo è impegnato a “a procurare in tempi brevissimi i dispositivi di protezione che consentano loro di lavorare in massima sicurezza”. Eppure per chi lavora in corsia spesso è difficile ottenere perfino un tampone, nonostante il contatto continuo con pazienti potenzialmente infetti. L’articolo 7 del decreto legge entrato in vigore il 9 marzo prevede che i sanitari entrati in contatto senza protezioni con pazienti di Covid-19 – che magari hanno scoperto dopo di essere contagiati – non siano più posti obbligatoriamente in quarantena. Se il tampone è negativo e non mostrano sintomi, possono tornare a lavorare: “Per essere sottoposti al test devono sorgere sintomi respiratori importanti, o la febbre. Ma passa troppo tempo da un contatto a rischio alla risposta: nel frattempo vivono nell’angoscia di essere un rischio per i colleghi, per i familiari, per i genitori”. Una possibile soluzione, suggerisce Palermo, è in campo una procedura condivisa: “Chiediamo almeno 72 ore in isolamento e poi il tampone, magari con un ulteriore tampone di controllo a distanza di giorno, in questo modo mettiamo in sicurezza medici e infermieri, e soprattutto i pazienti: in ospedale ci sono immunodepressi, trapiantati, oncologici. Bisogna pensare a loro, che rischiano moltissimo”. Un altro problema è la cronica mancanza di dispositivi di protezione individuale, continuamente segnata in diverse Regioni. Servono soprattutto le mascherine FFp2 FFp3, perché, a differenza delle chirurgiche, filtrano l’aria che si respira. “Sono indispensabili per manovre come le intubazioni e le gastroscopie, che generano un aerosol, e sono queste goccioline, il famoso droplet, a diffondere il virus”, spiega ancora Palermo. Il sindacato chiede anche che venga abolito immediatamente il divieto, che alcune aziende ospedaliere hanno imposto, di indossare le mascherine negli spazi comuni. Ormai, sottolinea, i contagiati non sono confinati nei reparti di pneumologia e malattie infettive, ed è impossibile riconoscere un asintomatico. “I medici e gli infermieri – scrivono – potrebbero diventare fonte loro stessi di infezione, per cui deve essere obbligatorio indossare mascherine chirurgiche, guanti e visiere”. Altrimenti quelle strutture che dovrebbero assistere i malati, rischiano al contrario di diventare dei focolai. Prima di assumere nuovi medici, prosegue, bisogna proteggere al meglio il personale esistente: “Adesso tutti parlano della mancanza di medici, che noi denunciamo da dieci anni – conclude Carlo Palermo – Ora pagano il prezzo più elevato, perché non possono mettersi in isolamento né essere sostituiti”. Da un lato c’è ovviamente bisogno di medici – mai come in questo momento – ma dall’altro lato c’è il diritto alla salute, che va garantito sempre e comunque. “In caso contrario – scrive il sindacato dei medici – gli ospedali diventeranno l’unica area di contagio del paese, anziché di cura”.

Coronavirus, boom di contagi tra i sanitari: colpa dei pochi tamponi e delle mascherine inadatte. Redazione Nurse Times. Fonte: Il Sole 24 Ore il 25/03/20200. Lo sostiene la fondazione Gimbe. Un contagio su dieci riguarda medici, infermieri e altri operatori. Il dato è eclatante e non ha eguali all’estero. Nel nostro Paese ormai quasi un contagiato su dieci indossa il camice bianco: è un medico, un infermiere o un altro dei tanti operatori sanitari impegnati nella battaglia contro il Covid-19. Secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità, in Italia dall’inizio dell’epidemia sono 5.211 i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus, pari al 9% del totale delle persone contagiate, una percentuale più che doppia rispetto a quella cinese del 3,8%. Senza parlare delle vittime, salite ora a 20. Alla base di questo boom di contagiati, secondo la fondazione Gimbe, che ha appena realizzato un’analisi è sottostimato, c’è molto probabilmente la mancata esecuzione dei tamponi a tutti gli operatori sanitari. Ma Gimbe nella sua analisi sottolinea anche l’utilizzo non adeguato delle mascherine, in particolare il ricorso a quelle chirurgiche, che non proteggerebbero a sufficienza gli operatori a contatto con i pazienti Covid-19. La denuncia del presidente Gimbe, Nino Cartabellotta (foto) è molto netta: «Un mese dopo il caso 1 di Codogno i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti sanitari all’informazione alla popolazione». Tutte queste attività, inclusa la predisposizione dei piani regionali, erano previste dal “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”, predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006. «È inspiegabile – continua il presidente – che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio». Ma l’altro nodo è quello dei tamponi. In un primo momento le regole decise dall’Iss prevedevano il tampone solo agli operatori sanitari con sintomi. Da qualche giorno il cambio di rotta: i tamponi vanno estesi – secondo il Comitato tecnico-scientifico – anche agli operatori sanitari asintomatici che sono venuti a contatto con pazienti Covid-19. Ma questo potrebbe non bastare e infatti diverse Regioni (dal Veneto alla Toscana) hanno deciso di estendere i tamponi a tutto il personale sanitario senza distinzioni. Intanto il contagio nelle corsie si è diffuso: «La mancanza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari – spiega Cartabellotta –, conseguente anche al timore di indebolire gli organici, si è trasformata in un boomerang letale. Infatti, gli operatori sanitari infetti sono stati purtroppo i grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali, residenze assistenziali e domicilio di pazienti». C’è poi un problema mascherine, dovuto al fatto oggettivo che c’è una carenza sopratutto di quelle che proteggono di più (Ffp2 e Ffp3). Le linee guida Iss per gli operatori sanitari del 14 marzo, che riprendono quasi interamente le raccomandazioni pubblicate dall’Oms il 27 febbraio 2020, suggeriscono anche il ricorso alle mascherine chirurgiche per quei medici che assistono e accedono alle stanze con pazienti Covid (quelle Ffp2 e Ffp3, invece, sono indicate per chi compie operazioni direttamente sui pazienti). Un’impostazione, questa, che secondo Gimbe ha una distorsione di fondo: le raccomandazioni si basano sul presupposto che le scorte mondiali sono insufficienti, ma tarando al ribasso le protezioni si mettono a rischio contagio gli operatori. «Le evidenze scientifiche – sottolinea Claudio Beltramello, medico igienista e membro Gimbe ed ex collaboratorte Oms – dimostrano che in setting assistenziali le mascherine chirurgiche non proteggono adeguatamente professionisti e operatori sanitari. Infatti, sin dall’inizio dell’epidemia Istituzioni ed esperti indipendenti ribadiscono che la mascherina chirurgica non conferisce sufficiente protezione ai soggetti sani che vengono a contatto con un soggetto infetto».

Coronavirus. Stabile (FI): “Iss renda noto numero sanitari infettati”. Quotidianosanita.it il 20 aprile 2020. "Sembra manchi la volontà di rendere noti i dati completi sugli operatori sanitari contagiati, o meglio che vi sia la volontà di non renderli pubblici. Ora l'Istituto ha pubblicato un 'focus' sugli operatori sanitari, non dettagliato a livello regionale, ma solo con le percentuali per quanto riguarda ruolo e qualifica. È inaccettabile negare un'informazione fondamentale". Così la senatrice di Forza Italia. "L’Istituto superiore di Sanità renda noto il numero esatto dei sanitari contagiati nelle varie regioni". Lo chiede in una nota la senatrice di Forza Italia, Laura Stabile. "Sembra manchi la volontà di rendere noti i dati completi sugli operatori sanitari contagiati, o meglio che vi sia la volontà di non renderli pubblici- prosegue la parlamentare azzurra - visto che fino al 3 aprile l'Iss ha pubblicato, nei suoi report bisettimanali, il numero degli operatori sanitari contagiati regione per regione salvo poi smettere. Ora l'Istituto ha pubblicato un 'focus' sugli operatori sanitari, non dettagliato a livello regionale, ma solo con le percentuali per quanto riguarda ruolo e qualifica (medici, infermieri, Oss) e contesto assistenziale (assistenza ospedaliera, territoriale, 118). A titolo di esempio, ora sappiamo che i medici ospedalieri infettati in Friuli Venezia Giulia sono meno del 10%, infermieri e ostetrici circa il 20% e gli Oss il 40%. Ma se le persone positive siano 10, 100 o 10mila non è dato di sapere". "È inaccettabile negare un'informazione fondamentale come questa tanto da far sorgere il sospetto che si voglia nascondere una realtà che non si è in grado di gestire", conclude Stabile.

Il 68% degli operatori sanitari infettati in corsia sono donne, i dati choc del Ministro della Salute. Franca Giansoldati su ilmessaggero.it Giovedì 23 Aprile 2020. Senza contare i danni collaterali, come ansia, stress, insonnia, le donne che lavorano negli ospedali e sono a stretto contatto con la malattia sono anche quelle più contagiate. «Il 10,7% del totale dei casi di Covid-19 sono stati diagnosticati tra gli operatori sanitari. Il 68% degli operatori colpiti sono donne. Le categorie più colpite: ostetrici e infermieri (43,2%); medici ospedalieri (19%) e operatori socio sanitari (9,9%)». A dare queste cifre è il ministero della Salute su Twitter, fotografando impietosamente un quadro pesantissimo sotto il profilo professionale che medico. Le donne in corsia – infermiere o medico – sono quelle che finiscono per essere attaccate maggiormente dal micidiale virus, nonostante che il covid-19 - è stato accertato - colpisca più soggetti di sesso maschile. Un indicatore che ora dovrà essere ulteriormente analizzato ma che offre già la cifra dell'impegno che grava sulle donne in prima linea negli ospedali, spesso costrette a dovere anche gestire a distanza una famiglia, i figli con l'ansia di rientrare a casa e contagiare i famigliari. All'inizio della pandemia una fotografia che ha subito fatto il giro del mondo ha mostrato l'attaccamento al lavoro, il senso del dovere, l'amore per il prossimo delle infermiere. Mostra una infermiera con ancora addosso la mascherina crollata sulla tastiera di un computer. Elena, la protagonista di questa foto, è stata successivamente trovata positiva al tampone ed è dovuta andare in quarantena e sottoporsi alla terapia. A guarigione fortunatamente avvenuta, la prima cosa che ha detto Elena era di voler tornare a lavorare in corsia.  In queste settimane drammatiche Elena ha raccontato di aver «perso degli amici e il papà di uno di loro. Quando tutto questo finirà, dovremo guardarci intorno e vedere chi è rimasto. Ho paura - ha aggiunto - che mancherà qualcuno di cui non mi sono accorta».

Simona Ravizza per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. Alle 8 di sera del 6 marzo Miriam Villani, 53 anni, caposala di Pronto soccorso e rianimazione, 30 anni di carriera sulle spalle, smonta da 12 ore di turno dopo l’ennesima giornata in cui vede ammalarsi i colleghi uno dopo l’altro: «Solo nel mio ospedale siamo a quota 110 operatori sanitari con il Covid-19 — si sfoga con il Corriere della Sera —. Per aiutarci adesso sono dovute arrivare le forze dell’esercito: medici e infermieri dei carabinieri e dell’aeronautica militare». L’ospedale di Lodi, di cui fa parte anche il presidio di Codogno — dove la sera del 20 febbraio viene trovato positivo al tampone il 38 enne Mattia Maestri, il «Paziente Uno», e che poi viene praticamente chiuso — rappresenta la prima trincea in Europa nella lotta al coronavirus. A due mesi di distanza da quei giorni drammatici i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. È il dato aggiornato all’8 maggio contenuto nei report riservati di Regione Lombardia. Ma per capire quanti operatori sanitari si sono davvero ammalati, bisogna incrociare un altro numero, ossia quanti sono gli operatori sanitari che sono venuti a contatto con il maledetto virus indipendentemente dalla diagnosi. Un ruolo importante a tal proposito lo gioca il test sierologico che, cercando gli anticorpi IgM e IgG, può rivelare chi si è contagiato anche senza saperlo. Ebbene, risultati alla mano, i positivi salgono da 296 a 373. Vuol dire che 77 operatori sanitari finora sono sfuggiti alle rilevazioni. Sommersi. In sintesi: il 20% dei medici e degli infermieri ha avuto il coronavirus senza saperlo prima d’ora. Uno su cinque. È il dato che, più d’ogni altro fino ad adesso, può essere anche la spia della percentuale di operatori sanitari asintomatici che hanno continuato a lavorare in corsia anche se con il Covid-19. E una stima sull’intera Regione porta a una cifra ancora più alta: uno su tre. Un po’ di pazienza e capiremo il perché.

I numeri (riservati) sui casi sommersi. L’ospedale di Lodi è il primo in Lombardia ad avere completato l’effettuazione del test sierologico su tutti i dipendenti, 2.243. Uno sforzo dettato anche dalla volontà di andare a caccia proprio degli asintomatici. È un’informazione fondamentale per ragionare su come comportarsi nella Fase 2 e, soprattutto, in vista di una possibile ondata di ritorno del virus. La lezione imparata è che gli ospedali, che scontano l’accusa di essere stati diffusori del contagio, almeno d’ora in avanti non possono più esserlo. Così a Lodi vengono contati per la prima volta, lì nell’ospedale di trincea della Regione più colpita, i medici e gli infermieri sfuggiti al tampone. Uno dei motivi dei malati sommersi è sicuramente legato all’impossibilità (o incapacità) durante l’apice dell’epidemia di fare a tutti la diagnosi: a quell’epoca è probabile che chi si è ammalato a casa — senza ricovero in ospedale — sia rimasto senza tampone. Tra i 77 operatori sanitari contagiati scoperti con il test sierologico, dunque, sicuramente ci sono coloro che sono rimasti a domicilio perché con la febbre o altri sintomi senza mai avere avuto la prova di essersi contagiati. Ma non può non essere preso in considerazione il fatto che, per altri, si tratta di asintomatici. Chi rientra nella prima categoria, chi nella seconda al momento è impossibile da sapere. Negli scorsi giorni, ancora una volta in vista della Fase 2, e sempre all’ospedale di Lodi, che oltre a Codogno conta altri due presidi (Casale e Sant’Angelo), sono eseguiti a tappeto anche i tamponi. I 2.243 lavoratori tutti testati. Caso unico per la Regione. Così sono scovati altri 38 contagiati. Al lavoro. Si tratta di 22 infermieri, 3 operatori socio-sanitari, 2 ausiliari, 2 medici, 2 amministrativi, gli altri tecnici. È un’altra informazione preziosa e che non può essere ignorata per decidere il da farsi nel futuro. In modo da riuscire a tutelare al meglio chi è in corsia e chi è ricoverato.

Cosa dicono le stime per tutta la Lombardia. Dal 23 aprile il governatore Attilio Fontana e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera decidono di utilizzare il test sierologico per screening di massa sugli operatori sanitari. Finora i medici e gli infermieri testati sono 25.331: quelli che risultano essere venuti in contatto con il virus sono 3.506 (il 14% del totale). Oltre a Lodi, i positivi agli anticorpi IgM e IgG sono 1.110 a Bergamo (24,1%), 903 a Brescia (11,2%), 656 a Mantova e Cremona (15,5%), 337 a Pavia (8,4%), 110 a Monza (6,2%), 27 positivi a Sondrio (9,5%). Il dato a prima vista fornisce semplicemente l’indicazione che la percentuale di sanitari contagiati è in linea con la diffusione del virus nelle varie province. Ma è possibile andare oltre la lettura superficiale. Per addentrarci nelle stime. La proiezione di questi numeri sull’intera Lombardia, tenendo conto anche degli ospedali di Como, Varese e Milano che al momento non hanno fornito dati, ci dice che verosimilmente i medici e gli infermieri che sono venuti a contatto con il virus sono almeno 11 mila, ossia il 10% dei 110 mila operatori sanitari pubblici della Lombardia. I casi Covid-19 accertati tra gli operatori sanitari all’8 maggio sono 6.664. All’appello ne mancano oltre 4.300. Ecco, allora, l’indicatore a livello lombardo: oltre il 35% dei sanitari che si è ammalato di coronavirus non risulta tamponato. Una percentuale che, come per Lodi, può essere una spia importante per quantificare i potenziali asintomatici. Del resto, i conti tornano con quanto rilevato nell’azienda ospedaliera di Padova dal virologo Andrea Crisanti, il teorico dei tamponi a tappeto e della sorveglianza attiva, che hanno fatto del Veneto un modello internazionale: «Fin dall’inizio in ospedale abbiamo testato tutti: ben ottomila tra medici e infermieri. Li abbiamo sottoposti al tampone a cadenza fissa: addirittura ogni sette giorni per chi lavorava nei reparti Covid-19 — ricorda Crisanti —. Il risultato è che il 35% dei sanitari con il Covid-19 è risultato asintomatico».

Le decisioni (obbligate) delle autorità sanitarie. In un momento in cui gli ospedali stanno riaprendo anche agli altri malati, i no Covid-19, la consapevolezza è che medici e infermieri non possono tramutarsi in bombe di virus che rischiano di contagiare colleghi e pazienti ricoverati. In una circolare del 10 marzo Regione Lombardia stabilisce: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19 senza che siano stati usati gli adeguati dispositivi di protezione individuali (Dpi) per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, non è indicata l’effettuazione del tampone, ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Queste linee guida sono dettate dalla difficoltà, davanti all’elevato numero di sanitari, di fare tamponi di massa. Da non dimenticare neppure l’esigenza di non sguarnire le corsie di personale davanti alle migliaia di pazienti. Ma i risultati di Lodi e dei test sierologici in corso devono far riflettere su come proseguire. La Lombardia riuscirà a potenziare le diagnosi? Quel che è certo è che in assenza di screening a tappeto, nessuno potrà più farsi trovare impreparato nell’uso delle protezioni individuali, a cominciare dalle mascherine. Stavolta non bisogna farsi cogliere di sorpresa.

Lodi, l’ospedale record per casi di coronavirus sommersi: 20% dei sanitari positivo senza sintomi. Un operatore sanitario su cinque all’ospedale di Lodi ha avuto il coronavirus senza rendersene conto. È il risultato delle analisi effettuate all’interno del presidio sanitario del territorio al centro dell’emergenza in Italia. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. Quelli che hanno gli anticorpi salgono a 373. Ne risulta che 77 lavoratori dell’ospedale sono stati infettati pur non avendo i sintomi. Redazione Milano milano.fanpage.it il 10 maggio 2020. Un operatore sanitario su cinque positivo al coronavirus senza aver mai avuto i sintomi. È l'indicazione arrivata dai test sierologici a tappeto eseguiti all'ospedale di Lodi, la provincia epicentro del primo focolaio italiano. Dopo due mesi in trincea con centinaia di malati in gravi condizioni, ora che la situazione è tornata sotto controllo, il presidio sanitario lodigiano è il primo in Lombardia ad avere completato le analisi su tutti i dipendenti, 2.243.

All'ospedale di Lodi un operatore sanitario su cinque positivo al virus senza sintomi. Come riportato dal Corriere della Sera, esiste una discrepanza tra i risultati dei tamponi eseguiti sui sanitari che avevano sintomi della malattia e i test a cui tutti sono stati sottoposti. I medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. Quelli che hanno gli anticorpi (che rivelano il contagio avvenuto o in corso) sono invece 373. Ne risulta che 77 lavoratori dell'ospedale sono stati infettati senza saperlo. Un risultato che fa sorgere dubbi sul numero di operatori malati che hanno continuato ad andare in corsia rischiando inconsapevolmente di diffondere il contagio.

I risultati dei primi 33mila test sierologici in Lombardia. Regione Lombardia ha diffuso qualche giorno fa i risultati dei primi 33mila test sierologici effettuati tra operatori sanitari e persone in quarantena. Il dato più significativo rispetto alle persone entrate in contatto con il virus arriva dalla provincia di Bergamo, dove 6 persone in quarantena su 10 sono positive. Tra medici e infermieri bergamaschi invece su 4.609 test i positivi sono 1.110 (24,1%), 3.391 i negativi (73,6%). Nel territorio dell'Ats di Milano tra gli operatori sanitari 2.343 sono stati sottoposti ai test, di cui 373 positivi (15.9%) e 1933 negativi (82,5%). Un tasso di pazienti con gli anticorpi prossimo al cinquanta per cento si rileva a Brescia, dove su 937 soggetti in quarantena i positivi sono 504 (53,8%) e i negativi 418 (44,6%). Tra gli operatori sanitari, su 8.093 sono positivi 903 (11,2%), negativi 7.102 (87,8%). Per quanto riguarda l‘Ats Valpadana (che copre le province di Cremona e Mantova) su 2.161 persone in quarantena i positivi sono 1.016 positivi (47%), 1.065 negativi (49,3%).

Inail. Piemonte seconda per “Infortuni sul lavoro”: 15mila contagiati e 14 morti per Covid. Mole24.it il 9 maggio 2020. Inail, Piemonte seconda per "infortuni sul lavoro": 15mila contagiati e 14 morti per Covid (fonte foto: ilfattoquotidiano.it). L’Inail equipara il contagio da Coronavirus agli infortuni subiti sul posto di lavoro. La panoramica è tragica: i più esposti sono i lavori con costante contatto con il pubblico e il settore socio-sanitario. L’Inail incorona il Piemonte come seconda regione d’Italia con più infortuni sul lavoro dovuti al Covid-19. Il triste primato lo detiene ancora una volta la Lombardia , ma la nostra regione non se la passa di certo meglio. Sono 15mila i contagiati e 14 i morti. A dirlo sono i dati raccolti dall’Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro, che equipara il contagio da Coronavirus a qualsiasi altro infortunio subito sul posto di lavoro. In totale in Italia le denunce arrivate all’Inail – tra fine febbraio e il 4 maggio – sono più di 37mila. Di questi, 129 sono deceduti. La maggior parte provengono dalla zona Nord Ovest (il 34,2% dalla Lombardia, il 14,9% dal Piemonte). Un quarto (25,2%) proviene dal Nord Est, via via a scalare per quanto riguarda Centro (12,5%), Sud (6%) e Isole (2,4%). Secondo il report, il 71,5% di casi positivi sono donne, mentre il 28,5% sono uomini. Dato che si ribalta se contiamo i decessi. Il Piemonte è seconda anche per numero di morti bianche. Mentre in Lombardia il 42,9% delle denunce totali si sono rivelate fatali, in Piemonte sono il 9,5%. Segue l’Emilia Romagna con il 8,7% e il Veneto con il 5,6%. Quattordici le vittime in Piemonte, di cui solo quattro protocolli sono stati chiusi con il risarcimento alle famiglie. Gli altri dovranno ancora seguire ulteriori procedure, vista l’eccezionalità del contesto mai vissuto prima. L’età media delle vittime è di 59 anni, in linea con la media nazionale. Quali sono le categorie più a rischio? Senza dubbio medici, infermieri, operatori socio-sanitari e tutti coloro che lavorano nel comparto medico o nel settore sociale e stanno a stretto contatto con i pazienti infetti. Il 73% delle denunce arriva proprio da questo ambito. Di queste, il 40% dei casi sono poi deceduti. In secondo luogo, ci sono tutti i lavoratori che hanno contatti con il pubblico: gli addetti al front-office, i cassieri, gli addetti alle vendite, il personale addetto alle pulizie e i soccorritori delle ambulanze. Il report, tuttavia, non tiene conto di tutte quelle categorie non assicurate, ma ugualmente esposte ad alto rischio. Sono i medici di famiglia, i medici liberi professionisti e i farmacisti.

Coronavirus in Puglia, sono almeno 121 i sanitari contagiati dall'inizio dell'emergenza. Medici: per fase 2 bisogna garantire sicurezza. È il dato parziale raccolto dagli Ordini dei medici. Richiesto incontro urgente con Emiliano. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Maggio 2020. Sono almeno 121, ma il dato è per difetto, gli operatori sanitari pugliesi che sono stati contagiati dal Covid-19 durante l’emergenza. Lo sostengono i sei ordini dei Medici pugliesi che hanno inviato una lettera al presidente della Regione, Michele Emiliano, per chiedere un incontro urgente per la «Fase 2». Alla lettera è allegata una scheda riepilogativa dei casi di contagio tra il personale sanitario, ma si tratta di episodi «noti oggi agli Ordini», quindi l’elenco è parziale. In provincia di Brindisi sono almeno 70 i dipendenti che si sono ammalati: da fine aprile, «ovvero dall’attivazione dello screening all’ospedale Perrino, su 1.100 tamponi effettuati agli operatori sanitari sono 70 quelli risultati positivi», riferiscono i sei ordini professionali. In provincia di Foggia, i casi tra gli operatori sanitari sono almeno 25, tra cui 20 medici ospedalieri e 5 di medicina generale e continuità assistenziale. A Lecce si contano almeno 11 contagiati; in provincia di Bari non ci sono dati sugli ospedali ma solamente sul 118 e risultano sette gli operatori che si sono ammalati, 2 medici, di cui uno ancora ricoverato, e 5 infermieri. Infine vengono segnalati anche 6 casi a Taranto e provincia e due nella Bat. 

L'APPELLO DEI MEDICI - In Puglia continuano a ripetersi «condizioni di lavoro che non garantiscono la sicurezza degli operatori sanitari». Lo evidenziano gli ordini dei medici provinciali della Puglia che, attraverso una lettera, oggi hanno chiesto «un incontro urgente» al presidente della Regione Michele Emiliano. I sei presidenti degli ordini provinciali fanno notare alla Regione Puglia di aver avviato la «fase 2" senza aver prima «affrontato in maniera esaustiva il tema della sicurezza, soprattutto per l’avvio delle attività ambulatoriali e l’assistenza dei malati». Altra questione che viene posta è quella dell’attivazione delle Usca, le Unità di assistenza domiciliare ai pazienti Covid: «Un elemento preoccupante - sostengono i medici - sono le difficoltà di avvio delle Usca, che dovrebbero assistere a domicilio i pazienti Covid-19 e che rappresentano un tassello importante per il contenimento dell’epidemia sul territorio. Benché la Regione abbia pubblicato i bandi per l’assunzione del personale, manca ancora un preciso quadro logistico e organizzativo, e mancano quindi le garanzie sul piano della sicurezza per gli operatori». «Inoltre - proseguono - molti medici pugliesi di continuità assistenziale sono al momento impiegati in altre regioni, dove le Usca sono già operative da tempo». Infine, i medici segnalano il mancato «utilizzo sistematico dei tamponi e dei test sierologici, che sono invece fondamentali per garantire la sicurezza e salvaguardare la salute dei medici e degli altri operatori sanitari».

Puglia, oltre 120 medici e infermieri contagiati. Appello a Emiliano: “Più sicurezza per evitare nuovi focolai”. Redazione borderline24.com il 9 Maggio 2020. “Preoccupano, in questa fase di allentamento delle misure di lockdown, i possibili nuovi focolai che potrebbero favorire la ripresa dell’epidemia, nonché la situazione in cui continuano a lavorare gli operatori sanitari, sia sul territorio sia all’interno delle strutture ospedaliere. L’avvio della Fase 2 da parte della Regione, a parere degli Ordini, non ha affrontato in maniera esaustiva il tema della sicurezza, soprattutto per l’avvio delle attività ambulatoriali e l’assistenza dei malati”. Lo scrivono in una lettera al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, gli Ordini dei medici di Puglia. Secondo i dati noti agli Ordini provinciali , a oggi risultano contagiati numerosi medici ed altri operatori sanitari che svolgono la loro attività nei vari settori dell’assistenza, come i reparti ospedalieri, gli ambulatori, l’emergenza territoriale e la Medicina Generale. Un ultimo elemento preoccupante sono le difficoltà di avvio delle USCA  – Unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero assistere a domicilio i pazienti COVID-19 e che rappresentano un tassello importante per il contenimento dell’epidemia sul territorio. “Benché la Regione abbia pubblicato i bandi per l’assunzione del personale destinato alle USCA – si legge nella lettera –  manca ancora un preciso quadro logistico e organizzativo, e mancano quindi le garanzie sul piano della sicurezza per gli operatori. Inoltre, molti medici pugliesi di continuità assistenziale sono al momento impiegati in altre regioni, dove le USCA sono già operative da tempo. Benché disponibili al rientro sul nostro territorio, non hanno ricevuto alcuna garanzia circa le modalità contrattuali e operative, nonché sulla presenza di idonei dispositivi di protezione individuale e di adeguate condizioni di sicurezza”. “Infine, la Cabina di Regia regionale sembra sottovalutare l’utilizzo sistematico dei tamponi e dei test sierologici, che sono invece fondamentali per garantire la sicurezza e salvaguardare la salute dei medici e degli altri operatori sanitari, come più volte ribadito dagli Ordini e confermato della Scuola di Medicina dell’Università di Bari”.

DATI MEDICI CONTAGIATI PER PROVINCIA. Di seguito si riportano i dati dei casi noti a oggi agli Ordini, relativi a medici e altri operatori sanitari contagiati.

Dati Provincia di Bari. Nel servizio 118 dell’ASL Bari dall’inizio dell’epidemia tra gli operatori sanitari (medici, infermieri,  e autisti di auto medica, esclusi quindi gli autisti soccorritori) sono risultati positivi 2 medici, di cui 1 ancora ricoverato, e 5 infermieri, di cui 3 ancora in quarantena domiciliare. Su 470 operatori del 118 della ASL Bari, dall’inizio dell’epidemia sono stati effettuati circa 300 tamponi (un numero che include anche il secondo tampone di controllo). Benché il 118, nell’attesa di attivazione delle USCA, sia l’unico che interviene a domicilio sui casi di sospetto Covid-19, non vengono infatti effettuati tamponi di routine a tutti gli operatori, ma solo a chi è entrato in contatto negli ultimi due turni con un collega risultato positivo.

Dati Provincia di Brindisi. Dalla fine di Aprile, ovvero dall’attivazione dello screening ospedaliero all’Ospedale Perrino, su 1100 tamponi effettuati agli operatori sanitari sono 70 quelli risultati positivi.

Dati Provincia di BT. 1 medico di medicina generale e 1 medico dell’Ospedale di Bisceglie attualmente positivi.

Dati Provincia di Foggia. 10 medici positivi, di cui 3 ricoverati, nella Azienda ospedaliera universitaria. 5 medici di medicina generale e continuità assistenziale nella Asl. Circa una decina di medici risultati positivi di Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo.

Dati Provincia di Lecce. 11 contagiati, tra medici ospedalieri e medici del territorio. Il cluster più importante tra i sanitari è risultato in chirurgia toracica al Vito Fazzi (con un titolo anticorpale altissimo).

Dati Provincia di Taranto. Contagiati dall’inizio epidemia: 2 medici di medicina generale di Manduria; 1 ORL Osp. Moscati (Hub Covid); 3 Osp. San Pio di Castellaneta (1 Direzione Sanitaria, 1 PS, 1 Oncologia)

Tutti al momento guariti.

·        Onore ai caduti in battaglia.

Covid, il tributo di sangue dell'Arma: 8 militari morti e 605 infetti. Claudio, Fabio, Massimiliano e gli altri carabinieri uccisi dal Covid-19. I volti e le storie dei militari contagiati dal virus. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Claudio Polzoni, appuntato scelto di stanza a Bergamo. Fabio Cucinelli, appuntato scelto addetto allo stabilimento militare Ripristini e recuperi del munizionamento di Noceto (Parma). Fabrizio Gelmini, 58 anni, maresciallo maggiore della stazione di Pisogne (Brescia). Mario D'Orfeo, luogotenente carica speciale di 55 anni, comandante della Stazione di Villanova d'Asti. Mario Soru, appuntato scelto impegnato al reparto Servizi Magistratura di Milano. Raffaele Palestra, carabiniere in servizio presso il Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Salerno. Massimiliano Maggi, 53 anni, maresciallo maggiore della caserma provinciale de La Spezia. Sono nomi, gradi, età. Sono le storie degli otto militari dell'Arma uccisi in due mesi di coronavirus. Il loro decesso è il prezzo di sangue versato della Benemerita alla pandemia, il più alto tra le forze dell'ordine. Forse nel fiume in piena di notizie non se ne è parlato abbastanza, dunque vale la pena almeno ricordare i loro nomi. Oltre agli otto morti, l'Arma conta anche 605 contagi dall'inizio dell'emergenza, di cui 481 ancora positivi, 47 ricoverati in ospedale e 434 in isolamento domiciliare. Come riporta l'Adnkronos, il trend nelle varie Regioni segue quello del totale dei contagi in tutta Italia. La Lombardia è al primo posto, con 119 militari positivi, poi a seguire ci sono Piemonte e Valle d'Aosta con 50 casi, Emilia Romagna con 46, Veneto con 43 e il Lazio con 37 carabinieri contagiati. Come ovvio che fosse, anche nell'Arma non sono mancate le polemiche per i pochi tamponi, per le mascherine contate, per i Dpi scaduti arrivati alle volanti schierate per strada. Alla fine era scontato (o forse no?) che anche gli uomini in divisa si contagiassero. Tra loro c'è anche Marco Billeci, maresciallo capo operativo nel Battaglione di Firenze. Quando tutto esplode, il 22 febbraio, viene spedito a Lodi per chiudere le strade delle cittadine trasformate in zona rossa. Poi il 10 marzo si sposta a Bergamo, uno dei focolai più drammatici di questa emergenza. Ed è lì che, mentre i camion dell'Esercito portano via le bare dalla Val Seriana per alleggerire i forni crematori ormai saturi, Marco inizia il suo "calvario" con "una fortissima crisi respiratoria". Il film della sua malattia lo ha affidato ai social, poi condiviso da alcuni colleghi, e al quotidiano online Notizie di Prato. "Stavo ridendo con un mio collega – racconta – uno di quei momenti che aiutano a stemperare la tensione. Improvvisamente mi è mancato il respiro, il fiato non bastava più". Inizia così la degenza e l'isolamento. Il polmone del marescialo viene "danneggiato e funziona solo al 50%". I medici provano una terapia sperimentale. Poi il 25 marzo la crisi respiratoria: quella tremenda fame d'aria, la sensazione di morire. "In piena notte sono stato assalito da altre quattro crisi respiratorie", spiega. Il saturimetro scende fino ad 88, un inferno lungo 40 minuti. Poi "dopo le cure mi sono ripreso". La stranezza è che perché per quattro volte il tampone di Billeci risulterà negativo al Sars-Cov-2. Il maresciallo sta male, i polmoni non funzionano, eppure il test dice che lui non è da annoverare tra i contagiati. Solo una volta tornato a Firenze la ricerca degli anticorpi indicherà che quel virus, il carabiniere, l'ha avuto e sconfitto. Aveva fatto una promessa ai suoi figli: sarebbe tornato. E così è andata. Ha avuto paura di morire, certo. Quando ti manca l'aria, il terrore di non riuscire a riabbracciare la moglie e i bambini è tremendo. Lui ce l'ha fatta, i suoi otto colleghi meno fortunati no. Altri ancora oggi continuano a combattere. È il tributo dell'Arma.

Flavia Amabile per "lastampa.it" il 15 aprile 2020. Tra frasi impietose, condoglianze istituzionali solo via Facebook (ma tanto calore da parte dei colleghi medici), ecco che cosa può voler dire essere la figlia di un medico di famiglia caduto sul campo nella battaglia contro il coronavirus.

Da Antonio a Reanna  Il sacrificio dei farmacisti sempre in prima linea. Sempre al lavoro, anche loro in prima linea. In tutta Italia i contagiati sono più di quattrocento. Ecco le storie degli otto che non ce l’hanno fatta. Giusi Fasano il 16 aprile 2020 su Il Corriere della Sera.

Francesco De Donno, 76 anni, il galantuomo generoso con tutti. Fancesco De Donno aveva 76 anni ed era iscritto all’albo dei farmacisti dal 1967. La sua farmacia, a Maglie (Lecce), è sempre stata una specie di luogo di ritrovo. Non c’è nessuno in paese che non si sia fermato almeno una volta a fare due chiacchiere con lui, «galantuomo d’altri tempi», come lo definiscono in tantissimi nelle centinaia di messaggi d’addio affidati alla pagina Facebook della stessa farmacia. Anche se in questi ultimi anni sono stati i figli Donatella e Antonio a gestirla, lui non aveva mai smesso di essere presente, un punto di riferimento per tutti. Paziente, affabile, uno che aveva sempre una parola gentile o un sorriso da spendere e che aveva il dono del saper aiutare gli altri, anche se sconosciuti. Sua moglie è stata la prima contagiata di Maglie, con lei il virus non ha vinto la partita della vita. Lui è morto il 2 aprile.

Patrizio Forti Paolini, dietro al bancone per 40 anni. Patrizio Forti Paolini, classe 1941, aveva vita e farmacia a Santa Vittoria in Matenano (Fermo). Conosciuto anche come figlio di uno storico medico di base della zona, Patrizio ha messo assieme più di 40 anni di lavoro. Sua figlia Francesca racconta che «è stato curato a casa nonostante richiedesse il tampone e un eventuale ricovero dopo giorni di malattia». Alla fine, ricoverato, è morto in pochi giorni. «Qualcuno dovrà renderne conto... se non alla società umana, sicuramente a Dio» dice Francesca. Che lo ricorda con un lungo messaggio su Facebook: «Ciao papà, questo è un saluto non un addio, padre ammirevole, uomo d’onore, amico e missionario di pace e di speranza, sia nella vita che nel tuo lavoro. (...) Voglio ricordarti felice, voglio che tu sorrida di lassù, sapendoti in buone mani. Mi mancherai tantissimo».

Antonio Perani, 84 anni: «papà, hai lottato». Antonio Perani aveva 84 anni e la sua farmacia, a Paratico (Brescia), era aperta dal lontano 1962. Da qualche anno era in pensione ma i suoi pensieri erano sempre lì, nel posto che porta il suo nome da 58 anni e che adesso gestisce suo figlio Alberto. «Fino all’ultimo ha avuto la forza di lottare, di sperare con grande serenità» ha scritto proprio Alberto su Facebook annunciando la morte del padre, il 5 aprile, all’ospedale di Brescia. La farmacia è rimasta aperta malgrado il lutto «perché in quest’emergenza lui c’è stato fino all’ultimo e anche noi ci siamo», ha fatto sapere Alberto alla piccola comunità di Paratico. Suo fratello Marco ha postato dal suo profilo social una fotografia in cui è abbracciato al padre. Il messaggio è accanto a un cuore rosso e dice: «Ciao papà!... da quello che non ha voluto fare il farmacista ma il tecnico del suono».

Antonio Tilli, 58 anni, Pontassieve: «Era in via di guarigione». Antonio Tilli aveva 58 anni e da quattro era il direttore della farmacia comunale di Pontassieve (città metropolitana di Firenze). Il virus lo ha sorpreso a metà marzo e dopo i primi sintomi era stato ricoverato al Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri (sempre in provincia di Firenze). Le sue condizioni erano gravi, certo, ma c’è stato una parentesi di grande speranza. «Antonio è in via di guarigione, presto potrà lasciare l’ospedale» ha postato a un certo punto sua moglie Claudia su Facebook. Il destino aveva invece scritto una pagina diversa, drammatica. Dopo aver lasciato la terapia intensiva e aver respirato da solo per pochi giorni, Antonio si è improvvisamente aggravato, un crollo verticale e irreversibile. Non è bastato a salvarlo il fatto che non fumasse e avesse uno stile di vita sano. Il virus è stato più forte.

Reanna Casalini, 63 anni: «Fino all’ultimo ha fatto il suo dovere». Reanna Casalini è la vittima più recente fra i farmacisti. È morta l’11 di aprile e aveva 63 anni. La sua vita era a Romano di Lombardia (Bergamo), accanto al marito Augusto Zaninelli, professore specializzato in cardiologia ma anche medico condotto del paese. Madre di due figli ormai grandi, Reanna era originaria di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Aveva lavorato a lungo in farmacia a Fontanella, un comune non lontano da Romano, ma da anni aveva lasciato il lavoro dietro il bancone per diventare responsabile della distribuzione di farmaci veterinari per una società che serve allevatori e aziende agricole. Gran lavoratrice, «ha operato fino all’ultimo ed è da lodare per la sua abnegazione come gli altri colleghi che ci hanno lasciati» ha detto il presidente della federazione degli Ordini dei Farmacisti, Andrea Mandelli.

Una città in lutto saluta Raffaele Corbellini, 68 anni. Raffaele Corbellini avrebbe compiuto 69 anni pochi giorni dopo la sua morte. Se n’è andato il 21 di marzo e il presidente di Federfarma, Marco Cossolo, ha commentato quella notizia drammatica dicendo che « è un grande dolore per tutti noi». Raffaele era la seconda vittima di coronavirus della sua categoria e Cossolo ha parlato della «perdita di un farmacista come perdita per l’intera comunità». Professionista stimato e affidabile, è ricordato come «un uomo benvoluto da tutti», persona perbene e sempre attento ai bisogni della gente, per dirla con i suoi colleghi di Lodi, dove si trova la Farmacia Perbellini. È morto nel Reparto rianimazione del San Matteo di Pavia, anche lui come migliaia di altri senza il conforto di una parola d’addio, né il calore di una carezza o di una stretta di mano.

Lorenzo Ilario Repetto, 63 anni, metteva in guardia chi sminuiva i rischi. Lorenzo Ilario Repetto ha lasciato questo mondo che aveva quasi 64 anni, primo fra i farmacisti. È morto nella Rianimazione dell’ospedale Parini di Aosta, solo e senza un saluto, come tutti. Aveva famiglia e farmacia a Saint Vincent, sposato con l’architetto Maria Grazia Rosa e padre di tre figli, tutti decisi a seguire le sue orme. Due, Nicola e Matteo, sono già farmacisti e Francesco, il più giovane, lo sarà a breve (è laureando). Lorenzo era originario di Castelletto d’Orba, in provincia di Alessandria, città nella quale i suoi genitori, Bruno e Maria, avevano una panetteria. Nel 1982 il trasferimento a Saint Vincent e il lavoro nell’unica farmacia del paese. Cesare Quey, il presidente dei farmacisti valdostani, ricorda la sua irritazione nei primi giorni della pandemia: lo infastidiva soprattutto il fatto che si stesse sottovalutando il rischio.

Paolo D’Ambrogi, 74 anni, insegnava alle nuove leve. Paolo D’Ambrogi era nato nel 1946 ed era iscritto all’albo dei farmacisti dal 1978. È morto il 24 marzo dopo aver vissuto una vita a occuparsi degli altri e dopo aver gestito con orgoglio la sua parafarmacia sanitaria a Nettuno (Roma). Da più di vent’anni era collaboratore della Croce Rossa e il Comitato di Anzio e Nettuno ha scritto per lui un commovente messaggio d’addio sulla sua pagina Facebook: «Paolo era un uomo buono, onesto, amato e stimato da tutti. Collaborava nell’insegnamento alle nostre allieve Infermiere con pazienza e dedizione. Lascia tracce luminose del suo ricordo. Mancherà alla nostra comunità la sua straordinaria umanità, la sua profonda sensibilità, il suo affetto generoso. Tutti noi gli volevamo davvero bene, chi gli era amico, chi lo conosceva appena perché era nobile d’animo, sensibile, gentile».

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2020. Il centesimo medico morto di coronavirus in Italia (mentre scrivo sono già saliti a 105) era una signora di sessantadue anni e si chiamava Samar. Samar Sinjab. Era arrivata dalla Siria una vita fa, inseguendo l’amore per un pediatra di nome Omar. Nella provincia veneta in cui abitavano, erano un’istituzione. Samar aveva aperto un ambulatorio, che risultava sempre il più affollato della zona, perché tutti, potendo scegliere il medico di base a cui rivolgersi, sceglievano lei. Con il contributo di Omar aveva messo al mondo altri due dottori, un medico legale e una pediatra così tosta da darsi alla carriera accademica e così dolce da rinunciarvi, per andare a occuparsi dei piccoli pazienti di suo padre, quando lui li aveva lasciati all’improvviso a causa di un infarto. Privata del grande amore della sua vita, Samar si era dedicata ancora di più ai figli e ai malati. Fino alla mattina del 6 marzo 2020, quando aveva intuito di essersi presa «quella» polmonite e si era ricoverata nel reparto di terapia intensiva di Treviso, dove ogni giorno chiedeva ai colleghi notizie dei suoi pazienti. Era convinta di tornare in prima linea, invece è caduta sopra una collina di altri camici bianchi. Medici e infermieri mandati allo sbaraglio con armature sforacchiate, dentro ospedali che si sono trasformati nelle loro tombe, talvolta per decisioni improvvide prese da altri. Quando tutto sarà finito, non basterà una medaglia alla memoria per farcelo dimenticare.

Lucia Scopelliti e Margherita Lopes per adnkronos.com il 10 aprile 2020. Sembra non finire mai l'aggiornamento della lista dei medici italiani uccisi dal coronavirus. A segnalare altri due decessi è la Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri), che porta a 105 il totale dei camici bianchi che hanno perso la vita. Gli ultimi nel triste elenco sono l'odontoiatra Giunio Matarazzo e il chirurgo ospedaliero Emilio Brignole. C'è chi ha perso la sua personale battaglia contro Covid-19 dopo giorni e giorni spesi in prima linea contro il virus, a curare i pazienti. Chi è stato colpito a tradimento, vittima 'collaterale' di un'emergenza, e chi aveva indossato di nuovo il camice bianco per tornare in corsia a dare una mano. Medici nel pieno della carriera, a un passo dalla pensione o già in pensione da tempo. Tra i 105 dottori portati via da Covid-19 spicca Adelina Alvino De Martino, classe 1926, cardiologa in pensione ed ex primario a Torino, morta a 94 anni di coronavirus in una casa di riposo di Milano. Ma anche Ivano Garzena, odontoiatra torinese di soli 49 anni che è anche il primo dentista morto per coronavirus in Italia. Finora la più anziana e il più giovane fra i dottori vittime di Sars-CoV-2. Scorrendo i nomi vengono a galla le storie nella 'Spoon River' dei camici bianchi. A inaugurarla Roberto Stella, presidente dell'Ordine dei medici di Varese. La sua morte, l'11 marzo, suona come un campanello d'allarme nel mondo della sanità. I caduti inizialmente si concentrano sul fronte più ampio: la Lombardia. Giuseppe Lanati, pneumologo di Como e il suo collega Raffaele Giura; Giuseppe Borghi, medico di famiglia di Casalpusterlengo; Carlo Zavaritt che aveva 80 anni e a Bergamo nella sua carriera di pediatra e neuropsichiatra aveva curato tanti bimbi. Luigi Frusciante, medico di famiglia in zona Como, in pensione ma ancora operativo. E guardando all'elenco globale, fa riflettere che in oltre il 50% dei casi i caduti siano proprio i camici bianchi di fiducia dei cittadini, i medici di famiglia. Nella prima metà di marzo i numeri cominciano a crescere. Bergamo, fra le città più colpite, dice addio anche al medico di base Mario Giovita. Alla sua scomparsa segue quella dell'epidemiologo Luigi Ablondi, storico manager della sanità lombarda, ex direttore generale dell'ospedale di Crema. Poi, ancora due medici di medicina generale, Franco Galli (Mantova) e Ivano Vezzulli nel Lodigiano. Non è passata neanche una settimana dalla morte del primo camice bianco e la lista ha già più di 10 voci. Napoli spezza l'elenco lombardo delle vittime, con la perdita di Massimo Borghese, specialista in Otorinolaringoiatria e Foniatria. Ma si torna subito in quello che è stato il primo epicentro dei contagi da nuovo coronavirus in Italia, con Marcello Natali, medico di famiglia dell'area di Codogno nel Lodigiano, morto a 56 anni dopo giorni in prima linea, in cui si è speso anche per sostituire colleghi malati. "Io purtroppo non vado bene, desaturo parecchio, in mascherina con 12 litri di ossigeno arrivo a 85. Prevedo un tubo nel breve/medio termine", aveva scritto con lucidità Natali in un sms all'amico e collega Irven Mussi. Il suo è un ricordo commosso ma anche pieno di rabbia. "Siamo stati mandati in guerra senza nessuna protezione; almeno i fanti portavano l'elmo", scrive Mussi nella sua lettera di addio al camice bianco, "una quercia". E in un'intervista all'AdnKronos Salute Natali aveva raccontato proprio delle difficoltà che fronteggiavano i medici di famiglia nella prima zona rossa, fra i quali figuravano già da subito contagiati, ricoverati e colleghi in quarantena. Era dirigente medico in un'Agenzia di tutela della salute, invece, Vincenza Amato. Lavorava all'Ats di Bergamo, in una delle province più martoriate. Lei è uno dei camici rosa stroncati dal virus. Le voci al femminile nell'elenco dei caduti, fra cui c'è per esempio anche Bruna Galavotti, psichiatra e decana dell'Associazione Donne Medico di Bergamo, sono meno numerose rispetto a quelle maschili ma anche le donne pagano il loro tributo a Covid-19. La malattia non fa distinzioni geografiche né di discipline. Colpisce specialisti di ogni settore. Nel Lazio la prima vittima del virus è stato un ginecologo, Roberto Mileti, 60 anni. Romano, si era trasferito da più di 20 anni nel capoluogo pontino. Lì lavorava alla clinica San Marco. A essere colpito è anche un medico termale, Ghvont Mrad. C'è poi il caso di Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, che non rientra nel conteggio. E' infatti morta - spiega la Fnomceo - a causa di una malattia allo stadio terminale, pur essendo risultata positiva al coronavirus. Il primo decesso in Campania tra i medici di famiglia si è registrato a Napoli: Gaetano Autore, 69 anni, operava al quartiere Vomero ed era a un passo dalla pensione. Pensione che non ha fermato Gino Fasoli, 73 anni, abruzzese d'origine e operativo a lungo nel Bresciano, che a 4 anni dal suo 'ritiro' non ha esitato a tornare in ambulatorio per evitare che restassero buchi nella presa in carico dei malati, con tutti i camici bianchi impegnati sul fronte dell'emergenza. Anche Anna Maria Focarete, 70 anni, tecnicamente sarebbe dovuta essere in pensione. Medico di famiglia nel Lecchese, aveva deciso di restare ancora qualche mese per affiancare la tirocinante. Aveva invece appeso il camice bianco al chiodo da un mese Andrea Carli. Iscritto a Imperia, lavorava come medico di medicina generale nel Lodigiano. Non è riuscito a godersi la pensione. Era partito per un viaggio in India, dove è morto (l'infezione verosimilmente sarebbe avvenuta prima della partenza). Per Ivan Mauri, 69 anni, l'addio alle attività sarebbe arrivato a settembre. "Era in studio fino a qualche giorno prima" della sua morte, ha raccontato l'amico e collega Roberto Mantica. Un altro camice bianco della medicina di gruppo di cui faceva parte "ha visto che aveva cominciato a non sentirsi bene, gli ha misurato la saturazione e gli ha consigliato di andare in ospedale". Nel giro di poco "Ivan non c'era più". Si piangono camici bianchi da Nord a Sud. Era siciliana la prima dottoressa morta in Trentino: Gaetana Trimarchi, 57 anni di S. Teresa di Riva in provincia di Messina, era medico di medicina generale in servizio all’Azienda provinciale per i servizi sanitari e operativa a Pozza di Fassa. Si era trasferita in Trentino una ventina di anni fa. Il primo morto per Covid-19 tra i medici di famiglia in Sardegna è Nabeel Khair, 62 anni, in servizio da pochi mesi a Tonara ma anche storica Guardia medica di Aritzo, entrambi nel Nuorese. Kahir, palestinese, viveva da molti anni in Sardegna ed è stato uno dei primi medici di famiglia contagiati da Covid-19 nell'isola. A Firenze il primo medico morto è stato Giandomenico Iannucci, che operava a Scarperia e San Piero (Firenze). Il dottore di famiglia era risultato positivo al Covid-19 a metà marzo scorso. Antonio Maghernino, guardia medica di 59 anni di San Severo (Fg), è invece il primo dottore ucciso in Puglia dal virus. In servizio a Torremaggiore, è morto nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. L'ultimo medico morto in Campania, regione in cui il virus è emerso in piccoli ma allarmanti focolai che hanno portato a blindare alcuni paesi, e in cui si piangono 7 camici vittime del nuovo coronavirus, è Antonio De Pisapia, medico di famiglia molto conosciuto a Cava de' Tirreni, in provincia di Salerno. Aveva scoperto di essere positivo dopo aver visitato un suo paziente a Cava, morto poi per il virus. Aveva 69 anni il siciliano Calogero Giabbarrasi, medico di medicina generale di Riesi (Caltanissetta), ucciso dal virus dopo un ricovero al Sant'Elia. Molto noto per il suo impegno politico Pippo Vasta, medico di famiglia di Belpasso (Catania), pianto da pazienti e concittadini. Un'altra segnalazione arriva ancora una volta da Bergamo: si tratta del medico di medicina generale Mario Rossi, classe 1944, il 99mo camice bianco ucciso da Sars-Cov-2. E poi la notizia della morte di Samar Sinjab, medico di medicina generale di Mira (Ve), 62 anni e mamma di un medico. E, ancora, Antonio De Pisapia, medico di medicina generale e odontoiatra di Salerno; Massimo Bosio, medico di medicina generale di Brescia, e Francesco Cortesi, specialista in chirurgia generale e oncologia di Roma. "Una tragedia", ha commentato all'Adnkronos Salute Walter Ricciardi, membro del Comitato esecutivo dell'Organizzazione italiana della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, per l'emergenza Covid-19.

ANELLI (FNOMCEO): "ORA RIFLETTA CHI DOVEVA TUTELARLI" - "E' una ferita sulla pelle di tutti i medici. Mai avremmo pensato di arrivare a tanto. Questi numeri devono far riflettere chi doveva tutelarci". Non nasconde la sua amarezza all'Adnkronos Salute il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli. "La sicurezza sul lavoro è un diritto dei cittadini, ma anche dei medici. E' opportuno riflettere su quanto questo virus ci abbia colti impreparati e sul fatto che garantire la sicurezza sul lavoro è un dovere dello Stato", aggiunge Anelli, sottolineando "che i medici di famiglia hanno pagato il tributo più pesante". "Sono stati lasciati soli a combattere a mani nude contro il virus - denuncia il presidente della Fnomceo - Se i medici si sono ammalati, questo è accaduto perché sono stati contagiati visitando i loro pazienti". In Italia "c'è una paura diffusa, ma non posso tacere l'esigenza di tutelare un diritto, quello alla sicurezza sul lavoro. I medici garantiscono la salute e le cure agli italiani, ma hanno a loro volta il diritto di agire in sicurezza. Chi non li ha messi in condizione di farlo deve riflettere - sottolinea Anelli - e riflettere molto. Perché quello che abbiamo sotto gli occhi non si ripeta mai più".

PALERMO (ANAAO ASSOMED): "RABBIA E DOLORE PER I TANTI COLLEGHI MORTI" - "Numeri terribili e angoscianti, che salgono continuamente in una scala del dolore che sembra non finire. Ma anche tanta rabbia: perché molte di queste morti potevano essere evitate, come pure molti degli oltre 13mila contagi fra gli operatori sanitari". Così Carlo Palermo, segretario nazionale del sindacato di medici e dirigenti sanitari Anaao Assomed, analizza con l'Adnkronos Salute il bilancio dei camici bianchi uccisi dal virus. Oltre cento colleghi, "molti in prima fila contro il virus, altri pensionati che però continuavano ad essere un riferimento per amici e familiari, perché non smetti mai di essere un medico, anche dopo la pensione". E il tragico bilancio è in continuo aggiornamento. "Fa male - confida Palermo - vedere una percentuale di contagiati così alta fra gli operatori sanitari: operatori che in alcuni casi hanno perso la vita, in altri porteranno il segno di questa esperienza. E che comunque non potranno più darci una mano nella battaglia contro questo virus. E' stato dimenticato l'insegnamento di Carlo Urbani - evidenzia Palermo - il medico italiano che aveva combattuto la Sars in Vietnam e poi è morto a causa dell'infezione il 26 marzo 2003 raccomandandoci due cose: di isolare strettamente i pazienti contagiati e di proteggere con ogni mezzo gli operatori sanitari. Ebbene, abbiamo segnalato la carenza di dispositivi di protezione individuale il 24 febbraio scorso, e ancora oggi le mascherine Ffp2 non sono disponibili in tutta Italia. I piani pandemici non sono stati aggiornati per tempo, e lo stoccaggio dei dispositivi sconta colpevoli ritardi. Spero - conclude Palermo - che resti memoria degli errori fatti e di quello che invece occorre fare per combattere una pandemia".

SCOTTI (FIMMG): "MEDICI DI FAMIGLIA I PIÙ COLPITI, SOLI E SENZA DIFESE" - "Solo adesso sta arrivando la fornitura di mascherine dalla Protezione civile agli Ordini dei medici. Ma dovevamo essere protetti fin dall'inizio". A dirlo all'Adnkronos Salute è il segretario generale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), Silvestro Scotti, nel giorno in cui i medici morti a causa del virus sono ormai più di 100. "Fra loro c'erano tanti amici e colleghi: penso a Marcello Natali di Lodi, un amico vero, oltretutto mio coetaneo. La sua scomparsa è stata un grandissimo dolore, e mi ha portato a riflettere sulla fortuna di essere nato e di vivere a Napoli. Lui era a Lodi, e ha pagato con la vita l'aver fatto il suo dovere in una delle zone più colpite d'Italia". "Dovevamo essere protetti - insiste Scotti - come i colleghi che lavorano nelle strutture Covid. Invece i medici di famiglia faticano anche a trovare i detergenti per sanificare gli studi", aggiunge il segretario Fimmg. Una categoria, quella dei medici di medicina generale, "che è stata la più duramente colpita, anche perché siamo avanti negli anni: molti colleghi sono vicini alla pensione, come abbiamo detto più volte paventando nei prossimi anni una carenza di 15mila operatori". Le tante morti fra i dottori di famiglia italiani sono dunque il frutto di un tragico mix: "Siamo stati lasciati in prima linea senza dispositivi, con un'età spesso avanzata e dunque più vulnerabile e nel disinteresse anche organizzativo. Il triage telefonico - aggiunge - lo abbiamo inventato noi, quando ci siamo resi conto che tanti, troppi colleghi si infettavano". "Bisogna dire che una grossa mano - rileva Scotti - ce l'hanno data i nostri pazienti, che di buon grado hanno accettato le misure adottate e, dove possibile, ci hanno persino aiutato con le mascherine. Ora siamo in attesa di quelle inviate agli Ordini dalla Protezione civile, ma mi chiedo: se con il terremoto sono state realizzate tende di emergenza attrezzate per assicurare le visite dei medici, come mai in questa emergenza è mancata ogni assistenza ai medici di famiglia?". Scotti già in passato si è detto pronto a chiudere gli studi. "Assicureremo i livelli che il Garante dei servizi essenziali conosce benissimo e che non riguardano l'apertura degli ambulatori medici, ma solo disponibilità telefonica e visite urgenti", conclude.

Coronavirus, muore medico delle carceri di Brescia: “Ha lottato come un guerriero”. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Ancora una vittima tra i medici italiani colpiti dal coronavirus.  È morto nel primo pomeriggio Salvatore Ingiulla, medico sessantenne di origini siciliane in servizio due carceri bresciane, quelle di Verziano e di Canton Mombello. Il medico era risultato positivo nelle scorse settimane. “È stato ricoverato, per alcune settimane, presso gli Spedali Civili di Brescia – ha detto il coordinatore regionale del sindacato Fp CGIL Polizia Penitenziaria Calogero Lo Presti -. Ha lottato come un guerriero contro un nemico invisibile e nonostante tutti gli sforzi dei sanitari per strapparlo alla morte, nelle ultime ore, la situazione clinica si era aggravata fino all’epilogo finale”. “Il dottor Salvatore Ingiulla, medico stimato per le sue capacità umane e professionali, persona di grande animo, sempre disponibile e sensibile, viene ricordato con commosso cordoglio dal personale di Polizia Penitenziaria, dei due Istituti bresciani, che si stringe al dolore che ha colpito la famiglia”, conclude Lo Presti.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 4 aprile 2020. È salito a 77 il numero dei medici deceduti, ad oltre 10mila quello degli operatori sanitari contagiati ed ammalati a causa del Coronavirus, e la cifra è destinata ad aumentare, sommandosi all' elenco di una strage nazionale che sembra non avere fine. I medici ancora esenti dall' infezione virale sono disorientati ed hanno paura, paura di sbagliare, paura di essere infettati e di non farcela ad andare avanti nelle condizioni in cui si trovano, con ritmi impossibili da reggere, dettati da un' emergenza inaspettata e ingannevole, di cui nessuno conosce la durata e al cui cospetto non ci sono strumenti considerati sicuri per proteggersi e difendersi. Lavorano da settimane senza sosta, tra i letti di rianimazione di ammalati che arrivano con gli occhi fuori dalle orbite, sbarrati per la fame d' aria, che chiedono aiuto perché non riescono a respirare, che vengono da loro sedati, tracheotomizzati, intubati e attaccati al respiratore, mentre gli infermieri posizionano i cateteri arteriosi, venosi, naso-gastrici, vescicali e rettali, in un fermento e una frenetica corsa contro il tempo, con i minuti contati, tutti attorno a persone moribonde che invece di migliorare peggiorano, che muoiono a grappoli, una dopo l'altra, si spengono a centinaia tra lo sconforto generale dei sanitari consapevoli di prestare soccorso operando senza armi efficaci, senza farmaci mirati, impotenti contro una malattia aggressiva e devastante, che non lascia scampo ai più fragili e li uccide uno ad uno. Tutti i medici e i loro assistenti sono da settimane costretti a modificare i propri schemi cognitivi e di ragionamento, oltre alle personali difese psicologiche, sopraffatti da tensioni emotive ingravescenti che non danno tregua, che li obbligano ad assumere responsabilità senza precedenti, con picchi emotivi destabilizzanti che invadono l'anima e la riempiono di angoscia, inquietudine e sofferenza, la stessa che provano ogniqualvolta sono costretti ad arrendersi, coprendo con il lenzuolo il volto del loro ennesimo paziente appena deceduto, fino a pochi minuti prima tenuto forzatamente e inutilmente in vita, ventilato da tre settimane, in una lotta impari contro un killer invisibile che porta a morte quando decide lui, che spegne le vite beffardo, insensibile ad ogni farmaco provato contro, e dotato di una intelligenza molto superiore a quella dell' uomo. La paura più ricorrente tra medici e infermieri, nonostante tutte le precauzioni assunte, è quella di essere infettati e quella, ancora più grande, di essere portatori sani del virus, e quindi di poter contagiare inconsapevolmente i propri familiari, per cui molti di loro vivono da settimane lontano da coniugi e figli, in intima solitudine nel caotico mormorio dei reparti di degenza, dormono su improvvisati giacigli in ospedale, con tutto quello che questa scelta comporta a livello emotivo e personale, gravati come sono da una responsabilità tripla, verso loro stessi, verso le loro famiglie e verso i malati che hanno in cura, dei quali ascoltano tutta la notte il respiro rantolante che proviene dalla stanza accanto, il soffio costante e martellante dei ventilatori, mentre leggono, prima di addormentarsi, il bilancio dei colleghi deceduti in giornata, una lista che gli arriva quotidianamente, nella cui intestazione i morti sul campo vengono definiti "vittime professionali" del Covid19, tra le cui righe cercano con gli occhi stanchi e lucidi i nomi di amici e conoscenti con i quali hanno condiviso anni di professione e di vita. Sul portale della Fnomceo, la federazione nazionale dell' Ordine dei medici, da settimane listata a lutto, si aggiorna quotidianamente l' elenco dei colleghi che hanno pagato con la vita il loro impegno, specificando la loro specializzazione, tra pneumologi, anestesisti, otorinolaringoiatri, cardiologi, anatomopatologi , microbiologi, medici di base e infermieri, un triste e lungo epitaffio con tanto di foto sorridenti di quando erano in vita ignari del loro destino, un bollettino di morte destinato a crescere in linea con l' andamento dell' epidemia. E mentre nei palazzi della politica si discute sulla carenza dei dispositivi di protezione individuale, sulle scorte annunciate e in arrivo, dalle ormai famose mascherine ai caschi, alle tute protettive, ai guanti e alle loro forniture, e si litiga sui test tampone e sugli altri esami da validare, sui protocolli indicati dall'Organizzazione mondiale della Sanità e dai numerosi comitati scientifici, in maniera sistematica negli ospedali pubblici e privati gli operatori sanitari continuano ad essere infettati in modo inaccettabile, e ad ammalarsi e morire mentre lavorano nell' epicentro dei focolai, respirando aria infetta mentre infondono farmaci "ad uso compassionevole", molecole sperimentali antivirali, anti artrite, anti malaria, anti infiammatorie, antibiotiche e anti-tutto, che fanno presagire pesanti effetti collaterali, dalla diarrea profusa alla cardio ed epato tossicità, dalla dialisi all' indebolimento del sistema immunitario, e tutto questo avviene a stretto contatto con il sangue e le secrezioni infette di soggetti positivi al virus, che lo disperdono nell' aria ad ogni respiro in un malefico aerosol, continuando a diffonderlo anche da morti. Sottoposti a una prova durissima, senza una sola ora di decongestione emotiva, infilati in tute da palombaro che mozzano il respiro, che fanno sudare e impediscono anche di andare in bagno, precipitati in un' emergenza epocale che li sfida personalmente e professionalmente, i medici si trovano in balia di sentimenti alternanti di impotenza ed onnipotenza, un mix micidiale di sconforto e di coraggio, un' altalena che scuote le coscienze, un impegno dal quale nessuno si sottrae nonostante il pericolo evidente, per dedizione e deontologia, pur con la consapevolezza di mettere a rischio la propria vita ogni giorno e ogni minuto, perché qualunque attimo di distrazione o di stanchezza può essere loro fatale e segnare la propria fine. Ma se continuano ancora a soccombere, ad essere schiacciati come mosche dal virus, a perire allo stesso modo dei pazienti che assistono, a vedere i loro colleghi scomparire ogni giorno nella agghiacciante solitudine e disperazione di questa malattia, se vedranno vanificati i loro sforzi mentre fuori la popolazione ancora fortunatamente sana si lamenta e frigna per non poter andare a fare jogging, ci sarà qualcuno che si tirerà indietro, che si sfilerà maschere e guanti, butterà nel cesto il camice e i dettati deontologici, per salvarsi, per sfuggire alla morte, spinti dall' istinto alla vita, dall' esaurimento delle forze morali, e dal richiamo irresistibile degli affetti rimasti a casa in fiduciosa attesa di un bacio e un abbraccio in cui rifugiarsi. Tutti gli operatori sanitari impegnati in questa epidemica tragedia avrebbero fatto volentieri a meno di essere definiti "eroi", di essere applauditi dai balconi di ogni città, o di essere incoraggiati con l' hashtag virale #andrátuttobene, perché quello che sta andando male ce l' hanno sotto gli occhi ogni minuto che passa, negli ospedali dove non ci sono più posti letto disponibili, negli obitori che non riescono più a contenere le migliaia di salme che arrivano puntuali ogni giorno e nei forni crematori che bruciano cadaveri e vite perdute dall' alba a notte fonda senza interruzioni. Il numero dei medici e degli infermieri è da anni inferiore alle necessità sanitarie del Paese, quelli in ruolo lavorano il doppio del normale, ed attualmente il triplo, per cui lo Stato deve dare un segnale forte e chiaro per intervenire immediatamente a garantire tutti gli strumenti di protezione individuale e di screening per questa valorosa categoria, e soprattutto, nel decreto "Cura Italia", deve essere introdotta la norma che assicuri loro la protezione legale, per difenderli dal rischio cause, poiché il 30% di quelli che non muoiono vengono perseguiti nelle aule di tribunale per i decessi inevitabili che avvengono sotto la loro diretta responsabilità. Ed anche perché, se dovesse diminuire ancora il numero dei professionisti della salute, a rischio ci sarebbe la vita di tutti noi, anche quella degli avvocati e dei magistrati, dei sani e dei negativi, e pure di quelli che si lamentano di restare chiusi in casa al sicuro dal Corona, mentre fuori il virus continua a fare strage di infettati. Medici inclusi.

Coronavirus, muore il primo medico "eroe" italiano. Le Iene News l'11 marzo 2020. Roberto Stella, medico 67enne varesino, si è spento nell'ospedale di Como per complicazioni respiratorie dopo aver contratto il virus. Continuiamo a sostenere la battaglia di questi eroi, donando il nostro contributo all'ospedale Papa Giovanni XXIII, in primissima linea contro il coronavirus. Il primo dei medici eroi, che in questi giorni bui stanno combattendo una lotta disperata contro il coronavirus, è caduto "in battaglia". È appena arrivata la notizia drammatica della morte, per complicazioni legate al contagio del virus, di Roberto Stella, 67enne presidente dell’ordine dei medici della provincia di Varese e medico di base a Busto Arisizio. Stella, ricoverato da qualche giorno per insufficienza respiratoria, è morto all’ospedale di Como. "Il servizio sanitario nazionale e lombardo – spiegano i suoi colleghi più stretti in un comunicato - ha perso una guida attenta, un amico sicuro, un lavoratore appassionato, acuto, instancabile. I suoi pazienti hanno perso un amico e un uomo capace di curare e prendersi cura senza limiti”. Suo figlio Massimo, 24 anni, quest'anno si laureerà in Medicina. Di suo papà ha detto: "Ho sempre avuto il sogno di renderlo fiero di me al momento della laurea, sognavamo insieme il momento in cui lui stesso mi avrebbe proclamato. Per me e mio fratello è sempre stato il nostro punto di riferimento. Siamo orgogliosissimi di avere un papà così, speriamo di poter essere grandi almeno una briciola di quanto è stato grande lui". E per un eroe che se ne va, altri stanno ancora lottando contro il coronavirus nei reparti ospedalieri e nelle strutture dedicate di tutta Italia. Come i medici dell’ospedale di Bergamo, che ci hanno raccontato la situazione drammatica in cui continuano a salvare vite.

Morto Marcello Natali, medico di base di Codogno che ha lavorato fino all’ultimo. Aveva 57 anni. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Francesco Gastaldi. È stato nel suo ambulatorio a Codogno fino all’ultimo momento, quando mercoledì 11 marzo lo hanno ricoverato in terapia intensiva a Cremona, trasferendolo poi al Città di Milano con un quadro clinico compromesso. Marcello Natali, 57 anni, e segretario per la provincia di Lodi della Federazione dei Medici di medicina generale (Fimmg) è il quarto medico di famiglia del territorio stroncato dal coronavirus. Già martedì era circolata la notizia della sua morte, poi smentita, a testimonianza comunque di una situazione clinica molto grave. La notizia della morte è stata ufficializzata mercoledì mattina, a Milano. Natali, originario di Bologna dove si era laureato in medicina, viveva nel Lodigiano da tanti anni a Caselle Landi con la moglie, anche lei operatrice sanitaria, e i due figli. Era medico di famiglia di Codogno, dove aveva un ambulatorio, Caselle Landi, Corno Giovine, Cornovecchio e Castelnuovo Bocca d’Adda. Soltanto pochi giorni prima del ricovero aveva rilasciato un’intervista radiofonica in cui sosteneva come fossero ancora «troppo lunghi» i tempi per i tamponi e come ci fossero tanti casi che i medici di famiglia gestivano a domicilio. Un problema, quello della tutela dei medici di base, che il presidente dell’ordine della provincia di Lodi Massimo Vajani ha sollevato in più di un’occasione. Non è da escludere che il segretario provinciale dei medici di base abbia contratto il virus da un suo paziente. Non risulta che il dottor Natali avesse patologie pregresse. Il suo ambulatorio di Codogno ha lavorato senza sosta fino al martedì prima del ricovero d’urgenza a Cremona. «Queste persone sono davvero i nostri eroi – lo ricorda il sindaco di Caselle Landi Piero Luigi Bianchi -, lui e la moglie hanno continuato a visitare e ricevere pazienti fino all’ultimo». «Oggi dobbiamo dire addio a un altro collega, punto di riferimento non solo per i suoi pazienti ma per tutta la provincia – scrive Paola Pedrini, segretaria della Fimmg della Lombardia -: questa notizia arriva nel silenzio assordante di regione Lombardia, mentre altre regioni rispondono come possono alle nostre richieste. Ora permetteteci di tutelare chi è ancora in prima linea sul fronte di questa battaglia».

Coronavirus, morto il segretario dei medici di famiglia di Lodi. Marcello Natali aveva 57 anni, era ricoverato a Milano in terapia intensiva per una grave polmonite bilaterale. La Repubblica il 18 marzo 2020. Sale il numero dei medici deceduti per il coronavirus. E' morto oggi il segretario della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg) di Lodi, Marcello Natali. La notizia è stata confermata dalla stessa Fimmg. Natali aveva 57 anni e non aveva particolari gravi patologie pregresse. Dopo il ricovero a Cremona, era stato trasferito a Milano e ricoverato intubato in terapia intensiva per una grave polmonite bilaterale. Natali esercitava la sua attività di medico di famiglia nell'area di Codogno nel Lodigiano. L'epidemia in Italia e nel resto del mondo di Covid-19, la malattia causata dal coronavirus Sars-Cov-2, prosegue. In Italia i contagiati sono oltre 20mila e stanno mettendo in ginocchio le zone più colpite. L'Italia è il paese più colpito dopo la Cina e anche quello che per primo in Occidente ha messo in campo misure straordinarie, decidendo la chiusura di tutti gli esercizio commerciali non essenziali e chiedendo alla popolazione di limitare gli spostamenti. Un modello che, a partire dalla Spagna, stanno pensando di imitare in tutto il mondo.

Coronavirus, muore il medico Gino Fasoli: era rientrato dalla pensione per aiutare i colleghi. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «Gino, puoi darci una mano? Gli ambulatori sono sguarniti perché tanti di noi sono andati in ospedale a dare un mano ai colleghi in prima linea o perché si sono ammalati. Ma i pazienti hanno bisogno di qualcuno che li ascolti. Puoi farlo tu?...». Quando gli hanno chiesto di rimettere il camice bianco non ha esitato un istante. Rispondendo sì alla chiamata alle armi. Del resto non avrebbe mai potuto rifiutarsi uno come Gino Fasoli, 73 anni, abruzzese, mai sposato, una gioventù trascorsa indossando la tonaca francescana lasciata per laurearsi in medicina. E diventando così un dottore dal curriculum sconfinato, arricchito da esperienze di volontario in Africa. Gino è rimasto contagiato dal Covid-19. Ed è morto alle 5.45 del 14 marzo all’Istituto clinico San Rocco a Ome, l’ospedale più vicino a Passirano, nel Bresciano, dove abitava. «Il 6 mi aveva detto di non stare troppo bene, ma niente di grave, solo un mal di testa e una febbricciola» racconta da Sulmona (nell’Aquilano) il fratello Giuseppe, 70 anni, ex sottufficiale dell’Esercito e poi bancario adesso in pensione. Ma le condizioni di Gino sono rapidamente peggiorate. «Gli ho telefonato il 10 per chiedergli come stesse e lui, con un filo di voce, mi ha risposto così: “Non riesco a parlare”. E ha riappeso. Da allora non sono più riuscito a sentirlo. All’indomani degli amici lo hanno fatto trasferire in ospedale. Dopo che è risultato positivo al tampone lo hanno intubato. E alle 8 in punto del 14 mi hanno chiamato dall’ospedale per dirmi che era morto». L’ex francescano è un altro medico che va ad aggiungersi all’elenco dei colleghi caduti, già 20. Camici bianchi che davanti al coronavirus non sono indietreggiati, restando tra malati e pazienti che hanno continuato ad assistere, visitare, operare. «Una lotta impari a mani nude» è stato il grido accorato di Filippo Anelli, presidente della «Federazione nazionale dell’ordine dei medici chirurgi e degli odontoiatri». E ora Giuseppe Fasoli piange nel raccontare che «a fine febbraio mio fratello mi disse che gli avevano dato finalmente una mascherina. “Una al giorno?”, gli chiesi. “No, una e basta”». L’ex frate per molti anni è stato medico di famiglia a Cazzago San Martino. Aveva ricoperto anche l’incarico di direttore sanitario del pronto soccorso di Bornato, sempre nel Bresciano. Attivo sostenitore di Emergency e di «Msf», aveva avuto esperienze all’estero e in Somalia era stato addirittura rapito. «Accadde anni fa — ricorda Giuseppe —, lui era il medico di una ditta italiana che aveva un cantiere al confine con l’Eritrea. Fu prelevato per fargli curare dei malati in un villaggio, poi lo rilasciarono». Una volta in pensione «voleva tornare in Africa ma io obiettai: “non ti è bastato quello che è successo?” Gino però era così, un generoso. Per questo è tornato in ambulatorio, entusiasta di dare una mano ai colleghi in un momento terribile». Sui social, i suoi pazienti lo ricordano dicendo che «quando c’era da aiutare gli altri, era sempre in prima fila». «Sì, era proprio così — mormora il fratello corso a prelevare la salma per i funerali a Sulmona —, ma io so solo che ora Gino non c’è più».

Coronavirus, fratello medico morto per Covid:"Aveva solo una mascherina". Gino Fasoli, medico in pensione, è morto in trincea contro il coronavirus. Il fratello Giuseppe racconta i suoi ultimi giorni: "Aveva solo una mascherina". Rosa Scognamiglio, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. "Gino puoi darci una mano? Gli ambulatori sono sguarniti perché tanti di noi sono andati in ospedale a dare una mano ai colleghi in prima linea o perché si sono ammalati. Ma i pazienti hanno bisogno di qualcuno che li ascolti. Puoi farlo tu?". E il dottor Fasoli, 73 anni, ex direttore sanitario del pronto soccorso di Bontornato e medico condotto a Cazzago San Martino (Brescia), non si è fatto attendere: ha subito rimesso il camice bianco ed è tornato in trincea. Dopo una vita spesa tra i malati di Ebola, in Africa, il medico originario di Sulmona aveva deciso di dare il suo contributo alla task force bresciana contro il coronavirus. L'ho ha fatto per due lunghe settimane, fino a quando il Covid-19 non gli ha strappato l'ultimo respiro. È morto alle 5.45 del 14 marzo all'Istituto clinico San Rocco Ome di Passirano, dove abitava. "Il 6 marzo ha detto di non stare troppo bene, ma niente di grave, solo un mal di testa e una febbricciola", racconta il fratello Giuseppe, 70 anni, ex sottoufficiale dell'Esercito e poi bancario adesso in pensione. "Gli ho telefonato il 10 per chiedergli come stesse - spiega Giuseppe al Corriere della Sera -e lui, con un filo di voce, mi ha risposto così: 'Non riesco a parlare'. E ha riagganciato. Da allora non sono più riuscito a sentirlo. All'indomani, degli amici lo hanno fatto trasferire in ospedale. Dopo che è risultato positivo al tampone, lo hanno intubato. E alle 8 in punto del 14 marzo mi hanno chiamato dall'ospedale per dirmi che era morto". Gino Fasoli, in men che non si dica, si è aggiunto all'elenco dei 20 medici morti per aver contratto il virus in corsia. "Angeli in camice bianco", come qualcuno li ha definiti, che hanno sfidato il nemico a mani nude arrischiando la loro stessa vita, ogni dannato giorno. Una guerra disarmata quella di rianimatori, infermieri e operatori del 118, talvolta sprovvisti di protezioni sanitarie individuali. "A fine febbraio, mio fratello mi disse che gli avevano dato una mascherina. - continua tra le lacrime il racconto di Giuseppe Fasoli - 'Una al giorno?', gli chiesi. 'No, una e basta'". Attivo sostenitore di Emergency e di Msf, il medico missionario il Eritrea, fu rapito da alcuni dissidenti somali per curare i malati di un villaggio. Un'esperienza che lo aveva segnato nel profondo ma non al punto di abbandonare la sua professione: si era ripromesso di tornare in Africa una volta in pensione. Ma quel sogno si è infranto al cospetto di un nemico subdolo e invisibile, fagocitato in un secondo che non lascia scampo. "Era un generoso. - ricorda Giuseppe - Per questo era tornato in ambulatorio, entusiasta di dare una mano ai colleghi in un momento terribile. I pazienti dicono di lui che era sempre in prima lina per gli altri quando c'era da aiutare. Ed è proprio così. Ma io solo che mio fratello Gino non c'è più".

Morto un operatore del 118  di Bergamo: aveva 46 anni. Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Fabio Paravisi e Gianni Santucci. Era molto malato e lo aveva capito: «Mi sento come se mi avesse tirato sotto un camion», aveva detto a un collega. Ma era ottimista: «Ce la faremo», ripeteva. Diego Bianco, 46 anni, morto ieri mattina nella casa di Montello dove viveva con la moglie e il figlio di 8 anni, aveva trascorso le ultime settimane nei lunghi snervanti turni al telefono nella centrale del 118 per cercare di affrontare l’ondata della malattia. La stessa che ha colpito una dozzina di suoi colleghi e ha infine stroncato anche lui. La volontà di prestare soccorso a chi stava male lo aveva accompagnato per tutta la vita. Aveva iniziato a lavorare come conducente di ambulanze alla Casa di riposo di via Gleno a Bergamo dove aveva prestato servizio anche il padre, poi aveva svolto il compito di soccorritore a bordo delle automediche prima per l’Azienda ospedaliera di Seriate e poi per quella di Treviglio. Quando il 118 si era organizzato in Servizio regionale di emergenza urgenza, Bianco aveva vinto il concorso diventando uno dei primi operatori tecnici ad essere assunti intorno al 2011, quando il servizio si trovava ancora all’interno degli Ospedali Riuniti di Bergamo. «Era sempre molto tranquillo anche nelle emergenze — lo ricorda Oliviero Valoti, all’epoca a capo del 118 bergamasco —. La sua esperienza sul campo lo aiutava meglio a capire come muoversi. E ogni tanto tornava a fare il soccorritore». A Montello era anche a capo del nucleo comunale di Protezione civile. Diego Bianco era uno dei tecnici che rispondono al telefono al Soreu delle Alpi, che ha sede al Papa Giovanni e riceve chiamate anche da Brescia e Sondrio: si ascoltano le voci concitate di chi segnala l’emergenza e poi le si smista a chi deve intervenire. Sabato 7 marzo ha avuto all’improvviso febbre a 39 e negli stessi giorni altri otto operatori, sei infermieri e quattro medici, che sono stati mandati a casa. Il tampone è stato effettuato giovedì. Intanto nella notte tra martedì e mercoledì gli operatori attivi sono stati trasferiti a Milano mentre la centrale di Bergamo veniva sottoposta a sanificazione. Con i colleghi che lo chiamavano, Bianco alternava momenti di ottimismo in cui raccontava di tosse e febbre alta ma si diceva sicuro di guarire, ad attimi di disperazione in cui temeva di lasciare soli moglie e figlio. La morte è avvenuta ancora prima che arrivasse l’esito del tampone. «Era una persona molto preparata, che sapeva sempre come muoversi», lo ricorda il responsabile del 118 di Bergamo Raniero Frizzini. Il dirigente cerca di prendere una pausa dal lavoro di ogni giorno ma è difficile togliersi di dosso la cappa di fatica e disperazione. Ogni giorno si tratta di smistare fino a 1.3o0 richieste di aiuto. Per tenere dietro alle chiamate parte delle telefonate vengono smistate ad altre province, collegate a Bergamo da remoto. Le settanta ambulanze non bastano più, ne sono state fatte arrivare altre quaranta dal resto della Lombardia. Nella centrale del 118 all’interno del Papa Giovanni ci sono ottanta operatori che si alternano su tre turni. «Ma c’è gente che i turni li fa doppi, che resta al suo posto alla fine del lavoro, che salta giorni di riposo, e sempre senza che ci sia bisogno di chiederlo — mormora il dirigente facendo lunghe pause fra una frase e l’altra e lottando per non farsi sopraffare dall’emozione —. Non ho più parole per ringraziare tutti gli operatori per il lavoro straordinario che stanno facendo». Ognuno di loro riceve fra 70 e 80 chiamate a turno, ed è un lavoro che lascia pesanti conseguenze. «Per tutti noi si tratta di una fatica più psicologica che fisica — spiega Frizzini —. Siamo abituati a lottare contro la malattia e l’emergenza, ma una cosa del genere non l’aveva vissuta nessuno, sembra di non riuscire mai a starle dietro. Sembra che a una certa ora le telefonate si calmino ma poi tutto ricomincia. È ancora peggio quando al telefono ti rendi conto che, come diciamo noi, il paziente ti sta scappando di mano». Fa una pausa. Deglutisce, cerca le parole: «E alla fine della giornata l’angoscia è davvero tanta per tutti».

Paolo Berizzi per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020. «Vai a dormire, tanto non muoio. Devo solo trovare la posizione ». Diego era uno di quelli che chiamiamo "eroi". O angeli. Quelli delle foto che sui social ci fanno piangere a vederli così, che arrivano a sera distrutti: il volto segnato dalla mascherina, gli occhi gonfi di strazio. A maggio Diego Bianco avrebbe compiuto 47 anni. Chi lo conosce è sicuro che, dopo aver portato la famiglia a mangiare una pizza, sarebbe tornato al suo posto. Che per gli operatori del 118 è un fronte sempre incandescente. Ma la guerra del coronavirus l' ha strappato via dalla trincea. In quattro giorni. Mercoledì il tampone. Venerdì l' esito. Ieri all' alba una crisi respiratoria improvvisa. «Vai a dormire, devo solo trovare la posizione», dice alla moglie alle 3,30. Alle 5,30, lei - volontaria della Croce Rossa di Seriate - torna in camera, e lo trova in fin di vita (inutile il massaggio cardiaco). Diego abitava a Montello. Robusto, sano, i capelli rossi pettinati col gel, le cuffie del 118 calcate sulla nuca perché l' ultima immagine di lui al lavoro è questa. Autista e operatore tecnico. C' erano turni in cui guidava l' ambulanza, e altri nei quali stava al desk della centrale operativa dell' ospedale Giovanni XXIII. Ultimo turno in strada il 23 febbraio. Da venti giorni Diego era fisso lì, ai telefoni dell' emergenza Covid-19 che nel presidio ospedaliero cittadino ha fatto finire oltre 400 ricoverati. Prendeva le telefonate e "formava" l' equipaggio dell' uscita. «Era un lavoratore preparato, che ha sempre utilizzato i dispositivi di protezione - raccontano i colleghi in lacrime - . Non era anziano e non aveva altre malattie». Nei giorni scorsi gli era salita qualche linea di febbre. Lo stesso era successo ad altri operatori. Qualcuno era stato a casa. Motivo per cui la sala della centrale era stata chiusa e sanificata, e le chiamate dirottate ad altre centrali lombarde. Mercoledì gli hanno fatto il test: positivo. Ma non stava male. Anche dopo l' esito, era tranquillo. La calma fatalista di chi ha a che fare ogni giorno coi malati. Venerdì sera Diego scherzava col fratello. Diceva che, rispetto a questa battaglia atroce contro il nemico invisibile, le notti sulle strade a soccorrere i feriti degli incidenti erano acqua fresca. «Prima di smontare all' alba ci fermavamo a mangiare le brioche da Joseph Mary, un forno aperto tutta la notte in via Grumellina - ricorda un collega barelliere - . È tutto assurdo, incredibile». Quasi certo che l' operatore abbia contratto il coronavirus sul posto di lavoro: chi sta in centrale operativa entra in contatto continuamente con infermieri e medici. Perché prima di uscire per il soccorso il personale sanitario si interfaccia con i colleghi che organizzano l' intervento. «Era uno dei 700 operatori sanitari, medici, infermieri, soccorritori, già contagiati - dice Riccardo Germani, Adl Cobas Lombardia - . Per gli operatori della sanità misure straordinarie di protezione». A Bergamo gli ospedali sono allo stremo. I 2.864 contagi concentrati nella provincia stanno mettendo a dura prova il sistema. È vero che proprio il Giovanni XXIII ha una delle terapie intensive più avanzate d' Europa. Ma degli 88 posti letto a disposizione, «60 sono tutti per i malati Covid, e sono pieni», dice Luca Lorini, direttore del dipartimento di emergenza. Un altro problema è la consegna del materiale sanitario. La scorsa notte il comandante provinciale dell' Arma, Paolo Storoni, ha messo in campo una decina di pattuglie dei carabinieri per 90 consegne urgenti agli ospedali della provincia.

Coronavirus, morto un altro medico: è il neurologo Riccardo Zucco. Riccardo Castrichini il 04/04/2020 su Notizie.it. Per il coronavirus è morto un altro medico, si tratta del famoso neurologo Riccardo Zucco di 66 anni. Alla lunga lista di medici morti a causa del coronavirus si è purtroppo aggiunto anche Riccardo Zucco, famoso neurologo di Reggio Emilia. Era ricoverato da oltre due settimane nella Terapia intensiva del Santa Maria Nuova ed è mancato per insufficienza multiorgano da ipossia grave. Aveva 66 anni ed era responsabile di Alta Specialità “Cefalee e patologia neurologica complessa” al Dipartimento di Neurologia dell’Ausl Irccs di Reggio Emilia e responsabile del Settore Degenza Uomini nello stesso reparto. Era molto conosciuto nel comune emiliano sia per la sua attività di neurologo, sia per essere stato socio attivo del Rotary Club Reggio Emilia dal 2004 e per esserne stato il presidente. I suoi colleghi ed amici lo ricordano come una persone molto affabile, sempre gentile ed estremamente competente nel suo campo, tanto da essere considerato un punto di riferimento del settore e aver scritto una cinquantina di articoli scientifici su temi neurologici. Il ricovero per coronavirus non è stato l’unico episodio di questo tipo nella vita del Dottor Zucco che già nel 2015 era riuscito a superare una polmonite bilaterale massiva con grave insufficienza respiratoria da virus H1N1. Era stato intubato e sottoposto a tracheotomia, rimase ricoverato quasi 80 giorni ed uscì molto provato dalla malattia e dimagrito di una quindicina di chili. Già allora rischiò la vita, tuttavia riuscì a superare la malattia. Non così questa volta.

Elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri) il 03/04/2020. Roberto Stella, responsabile dell’Area Formazione della FNOMCeO, e presidente dell’OMCeO di Varese. E poi, oggi, Marcello Natali, Segretario Fimmg di Lodi. Ieri, Ivano Vezzulli, Medico di Medicina Generale nel lodigiano. Lunedì 16, Mario Giovita, medico di Medicina Generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di Medicina Generale a Casalpusterlengo.

Il 7 marzo, Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, deceduta però a causa di una malattia allo stadio terminale. Si allunga purtroppo il triste elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. E mentre aumenta il dato ufficiale degli operatori sanitari contagiati, diffuso ogni sera dall’Istituto Superiore di Sanità (ieri ammontava a 2629), molti sono i medici che muoiono improvvisamente, anche se la causa della morte non è direttamente riconducibile al virus, perché il tampone non viene effettuato. Da oggi, riporteremo i loro nomi qui, sul Portale FNOMCeO, che resterà listato a lutto in loro memoria, in un triste elenco che verrà via via aggiornato. In allegato, i dati sui contagi. Un monito, una lezione per tutti.

1.       Roberto Stella † 11 03 2020 Presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, Responsabile Area Strategica Formazione FNOMCeO, Presidente nazionale della SNAMID

2.       Giuseppe Lanati † 12 03 2020 Pneumologo

3.       Giuseppe Borghi † 11 03 2020 Medico di Medicina Generale

4.       Raffaele Giura † 13 03 2020 Ex primario del reparto di Pneumologia

5.       Carlo Zavaritt † 13 03 2020 Pediatra e neuropsichiatra infantile

6.       Gino Fasoli † 14 03 2020 Medico di medicina generale già in pensione richiamato per l’emergenza Covid-19

7.       Luigi Frusciante † 15 03 2020 Medico di Medicina Generale

8.       Mario Giovita † 16 03 2020 Medico di Medicina Generale

9.       Luigi Ablondi † 16 03 2020 Epidemiologo, ex direttore generale dell’Ospedale di Crema

10.   Franco Galli † 17 03 2020 Medico di Medicina Generale

11.   Ivano Vezzulli † 17 03 2020 Medico di Medicina Generale e medico dello sport

12.   Massimo Borghese † 18 03 2020 Specialista in Otorinolaringoiatria e Foniatria

13.   Marcello Natali † 18 03 2020 Medico di Medicina Generale, segretario della Federazione dei medici di Medicina generale di Lodi

14.   Antonino Buttafuoco † 18 03 2020 Medico di Medicina Generale

15.   Giuseppe Finzi † 19 03 2020 Ematologo e docente a contratto di Malattie vascolari all’Università di Parma

16.   Francesco Foltrani † 19 03 2020 Medico di Medicina Generale

17.   Andrea Carli † 19 03 2020 Medico di Medicina Generale

18.   Bruna Galavotti † 19 03 2020 (data segnalazione) Psichiatra, Decana dell’Associazione Donne Medico di Bergamo

19.   Piero Lucarelli † 19 03 2020 (data segnalazione) Anestesista

20.   Vincenzo Leone †  21 03 2020 Medico di medicina generale, vicepresidente SNAMI

21.   Antonio Buonomo †  21 03 2020 Medico legale

22.   Leonardo Marchi †  21 03 2020 Medico infettivologo, direttore sanitario Casa di Cura San Camillo

23.   Manfredo Squeri †  23 03 2020 Già medico ospedaliero, attualmente responsabile del reparto di Medicina nella Casa di Cura Piccole Figlie di Parma convenzionata con SSN

24.   Rosario Lupo †  23 03 2020 Medico legale, dirigente del Centro Medico Legale INPS di Bergamo

25.   Domenico De Gilio † 19 03 2020 Medico di medicina generale

26.   Calogero Giabbarrasi † 24 03 2020 Medico di medicina generale

27.   Renzo Granata † 23 03 2020 Medico di medicina generale

28.   Ivano Garzena † 23 03 2020 Odontoiatra

29.   Ivan Mauri † 24 03 2020 Medico di medicina generale

30.   Gaetano Autore † 25 03 2020 Medico di medicina generale

31.   Vincenza Amato † 24 03 2020 Dirigente Medico Responsabile U.O.S. Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Igiene e Prevenzione Sanitaria

32.   Gabriele Lombardi † 18 03 2020 Odontoiatra

33.   Mario Calonghi † 22 03 2020 Odontoiatra

34.   Marino Chiodi † 22 03 2020 Oculista

35.   Carlo Alberto Passera † 25 03 2020 Medico di medicina generale

36.   Francesco De Francesco † 23 03 2020 Pensionato, già medico ospedaliero, scultore e pittore

37.   Antonio Maghernino † 25 03 2020 Medico di continuità assistenziale

38.   Flavio Roncoli † 03 2020 Pensionato

39.   Marco Lera † 20 03 2020 Odontoiatra

40.   Giulio Titta † 26 03 2020 Medico di medicina generale, ex-segretario FIMMG

41.   Benedetto Comotti † 26 03 2020 Ematologo

42.   Anna Maria Focarete † 27 03 2020 Consigliere Provinciale FIMMG, Presidente SIMG e già consigliere dell’Ordine Prov. dei Medici di Lecco

43.   Dino Pesce † 26 03 2020 Medico internista, per vent’anni primario del reperto di medicina generale dell’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena

44.   Giulio Calvi † 26 03 2020 Medico di medicina generale

45.   Marcello Ugolini † 27 03 2020 Pneumologo, consigliere dell’Ordine dei Medici

46.   Abdel Sattar Airoud † 16 03 2020 Medico di medicina generale

47.   Giuseppe Maini † 12 03 2020 Medico di medicina generale

48.   Luigi Rocca † 26 03 2020 Pediatra

49.   Maurizio Galderisi † 27 03 2020 Cardiologo e professore di Medicina Interna all’Università Federico II di Napoli

50.   Leone Marco Wischkin † 27 03 2020 (data segnalazione) Medico internista

51.   Rosario Vittorio Gentile † 22 03 2020 Medico di medicina generale, specialista in allergologia ed ematologia

52.   Francesco Dall’Antonia † 24 03 2020 Ex-primario della Chirurgia I di Vicenza

53.   Abdulghani Taki Makki † 24 03 2020 Odontoiatra

54.   Aurelio Maria Comelli † 28 03 2020 (data segnalazione) Cardiologo

55.   Michele Lauriola † 28 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

56.   Francesco De Alberti † 28 03 2020 Ex presidente OMCeO Lecco

57.   Mario Luigi Salerno † 28 03 2020 Fisiatra

58.   Roberto Mario Lovotti † 28 03 2020 Medico di medicina generale

59.   Domenico Bardelli † 20 03 2020 Odontoiatra

60.   Giovanni Francesconi † 30 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

61.   Valter Tarantini † 19 03 2020 Ginecologo

62.   Guido Riva † 30 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

63.   Gaetana Trimarchi † 30 03 2020 Medico di medicina generale

64.   Norman Jones † 27 03 2020 Cardiologo, ex primario della cardiologia del centro di riabilitazione “Trabattoni-Ronzoni” di Seregno

65.   Roberto Mileti † 30 03 2020 Ginecologo

66.   Marino Signori † 01 04 2020 (data segnalazione) Medico del lavoro

67.   Gianpaolo Sbardolini † 26 03 2020 Medico di medicina generale

68.   Marcello Cifola † 01 04 2020 (data segnalazione) Otorinolaringoiatra

69.   Gennaro Annarumma † 03 04 2020 (data segnalazione)

70.   Francesco Consigliere † 03 04 2020 (data segnalazione) Medico legale e docente universitario

71.   Alberto Paolini † 03 04 2020 (data segnalazione)

72.   Riccardo Paris † 03 04 2020 (data segnalazione) Cardiologo

73.   Dominique Musafiri † 03 04 2020 Medico di medicina generale 

74.  Italo Nosari † 03 04 2020 (data segnalazione) Diabetologo

75.  Gianroberto Monti † 21 03 2020 Odontoiatra

76.  Luciano Riva † 28 03 2020 Pediatra, ex primario all’Ospedale di Desio

77.  Federico Vertemati † 31 03 2020 Medico di medicina generale

78.  Giovanni Battista Tommasino 04 04 2020 medico di famiglia

79.   Giandomenico Iannucci 02 04 2020 medico di famiglia

80.  Paolo Peroni 30 03 2020 oftalmologo.

81.  Riccardo Zucco † 03 04 2020 (data segnalazione) Neurologo

82.  Ghvont Mrad † 29 03 2020 Medico termale

83.  Gianbattista Bertolasi † 02 04 2020 Medico di medicina generale

84.  Silvio Lussana † 13 03 2020 Medico internista, ex primario medicina

85.  Giuseppe Aldo Spinazzola † 31 03 2020 Cardiologo

86.  Vincenzo Emmi † 04 04 2020 Rianimatore

87.  Carlo Amodio † 05 04 2020 Radiologo, ex primario di radiologia

88.  Adelina Alvino De Martino † 30 03 2020 Cardiologa in pensione, ex primario

89.  Giancarlo Orlandini  † 06 04 2020 (data segnalazione)

90.  Luigi Ravasio † 06 04 2020 (data segnalazione)

91.  Antonio Pouchè † 31 03 2020 Ex professore

92.  Lorenzo Vella † 29 03 2020 Medico del Lavoro

93.  Salvatore Ingiulla Medico penitenziario † 06 04 2020 (data segnalazione)

94.  Mario Ronchi † 20 03 2020 Odontoiatra

95.  Giuseppe Vasta † 06 04 2020 Medico di medicina generale

96.  Nabeel Khair † 08 04 2020 Medico di medicina generale

97.  Marzio Carlo Zennaro † 08 04 2020 Medico di medicina generale

98.  Tahsin Khrisat † 19 03 2020 Medico di medicina generale

99.  Mario Rossi † 09 04 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

100.                        Samar Sinjab † 09 04 2020 Medico di medicina generale

101.                        Antonio De Pisapia † 06 04 2020 Medico di medicina generale e odontoiatra

102.                        Massimo Bosio † 01 04 2020 Medico di medicina generale

103.                        Francesco Cortesi † 09 04 2020 (data segnalazione) Specialista in Chirurgia generale e Oncologia

104.                        Giunio Matarazzo † 07 04 2020 Odontoiatra

105.                        Emilio Brignole † 09 04 2020 Medico ospedaliero

106.                        Edoardo Valli † 09 04 2020 Ginecologo

107.                        Nabil Chrabie † 09 04 2020 Medico di medicina generale

108.                        Gianfranco D’Ambrosio † 30 03 2020 Ginecologo e medico di medicina generale

109.                        Gaetano Portale † 08/04/2020 Specialista in Chirurgia Generale, in Chirurgia Vascolare e in Chirurgia Toracica, ex Primario di Chirurgia Generale

110.                        Fabio Rubino † 13 04 2020 Terapista del dolore e palliativista

111.                        Giovanni Stagnati † 22 03 2020 Odontoiatra

112.                        Giovanni Delnevo † 02 04 2020 Cardiologo

113.                        Luigi Ciriotti † 26 03 2020 Medico di medicina generale in pensione, non in servizio

114.                        Sebastiano Carbè † 06 04 2020 Medico pensionato non in servizio, ex dirigente medico pronto soccorso

115.                        Maurizio Bertaccini † 14 04 2020 Medico di medicina generale

116.                        Domenico Fatica † 13 04 2020 Odontoiatria

117.                        Patrizia Longo † 13 04 2020 Medico di medicina generale

118.                        Enrico Boggio † 07 04 2020 Odontoiatra

119.                        Eugenio Malachia Brianza † 08 04 2020 Medico del Serd

120.                        Elisabetta Mangiarini † 15 04 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

121.                        Marco Spissu † 15 04 2020 Chirurgo

122.                        Arrigo Moglia † 15 04 2020 Neurologo

123.                        Alberto Guidetti † 15 04 2020 Ginecologo, ex primario

124.                        Alberto Omo † 04 04 2020 Direttore sanitario casa di riposo

125.                        Giancarlo Buccheri † 07 aprile 2020 Medico antroposofo

126.                        Pietro Bellini † 21 03 2020 Medico di medicina generale

127.                        Renzo Mattei † 16 04 2020 (data segnalazione) Medico in pensione

128.                        Eugenio Inglese † 21 03 2020 Ex primario di Medicina nucleare

129.                        Vincenzo Frontera † 17 04 2020 Medico di medicina generale

130.                        Elfidio Ennio Calchi † 09 04 2020 Medico chirurgo

131.                        Carmine Sommese † 17 04 2020 Medico ospedaliero

132.                        Carmela Laino † 25 03 2020 Medico specialista in pediatria e stomatologia

133.                        Nicola Cocucci † 08 04 2020 Medico specialista in odontoiatria e medicina legale

134.                        Alessandro Preda † 22 03 2020 Medico di medicina generale

135.                        Italo D’Avossa † 18 03 2020 Virologo e immunologo

136.                        Renato Pavero † 19 04 2020 Medico del 118

137.                        Antonio Lerose † 20 04 2020 (data segnalazione) Otorinolaringoiatra

138.                        Andrea Farioli † 16 04 2020 Medico epidemiologo impegnato nella ricerca su Covid-19 (ancora da accertare se le cause del decesso siano da ricondursi a Covid-19)

139.                        Luciano Abruzzi † 20 04 2020 Neurologo

140.                        Silvio Marsili † 21 04 2020 (data segnalazione) Pediatra, in pensione

141.                        Oscar Ros † 20 04 2020 Specialista in igiene e medicina preventiva

142.                        Manuel Efrain Perez † 20 04 2020 Medico di medicina generale e medico della continuità assistenziale

143.                        Alberto Santoro † 19 04 2020 Medico di medicina generale

144.                        Pasqualino Gerardo Andreacchio † 20 04 2020 Chirurgo specializzato in urologia, in pensione

145.                        Maddalena Passera † 22 04 2020 (data segnalazione) Anestesista

146.                        Carlo Vergani † 23 04 1938 Geriatra in pensione iscritto all’OMCeO

147.                        Tommaso Di Loreto † 13 04 2020 Odontoiatra

148.                        S. F. † 22 04 2020 Geriatra

149.                        Guido Retta † 14 04 2020 Primario emerito, ortopedico, consulente tribunale, in pensione

150.                        Gianbattista Perego † 23 04 2020 Medico di medicina generale

151.                        Maura Romani † 26 04 2020 Medico ospedaliero

152.                        Luigi Macori † 27 04 2020 Ematologo

153.                        Ermenegildo Santangelo † 12 04 2020 Ex Professore Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione, in pensione

154.                        Raffaele Pempinello † 29 04 2020 Infettivologo, epatologo, internista ed igienista, componente del Consiglio direttivo della Società scientifica italiana di malattie infettive, primario emerito. In pensione, ma tornato a esercitare per l’emergenza Covid-19

155.                        Oscar Giudice † 07 05 2020 Medico in pensione ma tornato in attività per l’emergenza Covid-19

156.                        Alberto Pollini † 08 05 2020 Anestesista e pneumologo

157.                        Guglielmo Colabattista † 25 03 2020 Medico ospedaliero, in pensione

158.                        Alfredo Franco † 09 05 2020 Medico legale

159.                        Angelo Gnudi † 17 04 2020 Ex ordinario di endocrinologia, in pensione

160.                        Marta Ferrari † 05 05 2020 Medico del lavoro

161.                        Antonio Costantini † 08 05 2020 Neurologo

162.                        Davide Cordero † 12 05 2020 Anestesista

163.                        Luigi Paleari † 23 03 2020 Ex primario di Anestesia e Rianimazione ed ex coordinatore sanitario dell’allora USSL, in pensione

164.                        Leonardo Panini † 21 05 2020 Medico di medicina generale

165.                        Cesare Landucci † 26 05 2020 Medico internista in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero-professionista

166.                        Ugo Milanese † 02 05 2020 Cardiologo in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

167.                        Roberto Zama † 12 04 2020 Urologo in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

168.                        Vincenzo Saponaro † 10 04 2020 Medico di medicina generale

169.                        Jesus Gregorio Ponce † 29 05 2020 Medico di medicina generale in pensione, ma continuava a esercitare la professione medica come libero professionista

170.                        Paolo Paoluzi † 26 04 2020 Gastroenterologo ed endoscopista, in pensione

171.                        Fiorlorenzo Azzola † 27 06 2020 Medico e direttore sanitario RSA

172.                        Josef Leitner † 12 04 2020 Medico di medicina generale, in pensione

173.                        Gianfranco Conti † 15 05 2020 Medico di medicina generale

174.                        Pierluigi Cecchi † 16 07 2020 Medico pediatra

175.                        Davoud Ahangari † 25 07 2020 Medico di medicina generale

176.                        Nello Di Spigno † 23 07 2020 Medico anestesista rianimatore

177.                        Paolo Marandola † 01.08.2020 Urologo, lavorava in Zambia per studiare Covid-19

178.                        Luigi Erli † 08 05 2020 Neurologo, in pensione

179.                        Giuseppe Ascione † 01 10 2020 Anestesista

180.                        Ernesto Celentano † 18 10 2020 Medico di medicina generale

181.                        Giovanni Briglia † 14 10 2020 Otorino

182.                        Salvatore Arena † 20 07 2020 Endocrinologo

183.                        Mirko Ragazzon † 24 10 2020 Medico di medicina generale

184.                        Paolo Melenchi † 01 11 2020 Oculista

185.                        Vittorio Collesano † 31 10 2020 Odontoiatra e professore universitario

186.                        Alberto Gazzera † 30 10 2020 medico di medicina generale in pensione

187.                        Domenico Pacilio † 10 11 2020 Medico di medicina generale

188.                        Giorgio Drago † 10 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione ma ancora attivo come libero professionista

189.                        Luigi Picardi † 13 11 2020 Pediatra

190.                        Annibale Battaglia † 13 11 2020 Medico di medicina generale

191.                        Giuseppe Sessa † 14 11 2020 Anestesista

192.                        Massimo Ugolini † 16 11 2020 Fisiatra

193.                        Marco Pugliese † 16 11 2020 Pediatra

194.                        Antonio Casillo † 15 11 2020 Chirurgo e medico di pneumatologia

195.                        Augusto Vincelli † 16 11 2020 Medico di medicina generale

196.                        Maria Addolorata Mangione † 11 11 2020 Geriatra e bioeticista

197.                        Pierantonio Meroni † 17 11 2020 Ginecologo, in pensione ma attivo come volontario

198.                        Luciano Bellan † 18 11 2020 Medico di medicina generale

199.                        Mauro Cotillo † 19 11 2020 (data segnalazione) Odontoiatra

200.                        Giovanni Bissanti † 19 11 2020 (data segnalazione) Medico di continuità assistenziale

201.                        Antonio Antonelli † 19 11 2020 Diabetologo, in pensione

202.                        Alessandro Fiori † 19 11 2020 Medico di medicina generale

203.                        Edgardo Milano † 19 11 2020 Medico di medicina generale

204.                        Stefano Brando † 20 11 2020 Medico di medicina generale

205.                        Antonio Contini † 16 11 2020 Medico di medicina generale e pneumologo, in pensione ma ancora in attività come volontario

206.                        Giovanni Annaratone † 15 11 2020 Ortopedico

207.                        Luigi Pappalardo † 21 11 2020 Diabetologo

208.                        Raffaele De Iasio † 21 11 2020 Medico legale

209.                        Luigi Cova † 21 11 2020 Dermatologo, in pensione

210.                        Gian Franco Forzani † 20 11 2020 Cardiologo

211.                        Carmelo Piscitello † 23 11 2020 Ortopedico

212.                        Piero Parietti † 22 11 2020 Medico di medicina generale, esercitava come libero professionista di psichiatria

213.                        Cosimo Russo † 23 11 2020 Ortopedico

214.                        Roberto Ciafrone † 23 11 2020 Medico di medicina generale

215.                        Antonio Amente † 23 11 2020 Medico di medicina generale

216.                        Daniele Cagnacci † 23 11 2020 Medico di medicina generale

217.                        Luciano Giorgi † 26 11 2020 Psichiatra

218.                        Michele Urbano † 27 11 2020 Direttore sanitario

219.                        Nazzareno Catalano † 27 11 2020 Medico di medicina generale

220.                        Bartolomeo Borgialli † 29 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione

221.                        Vito Roberto De Giorgi † 27 11 2020 Anestesista, in pensione

222.                        Lucia Prezioso † 23 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione

223.                        Paola De Masi † 30 11 2020 Anestesista, in pensione

224.                        Carla Verri Girardi † 24 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione da tempo

225.                        Modesto Iannattone † 02 12 2020 Dirigente Medico ASL

226.                        Gianluigi Rocco † 03 12 2020 Psichiatra

227.                        Luciano Paolucci † 02 12 2020 Otorinolaringoiatra

228.                        Natale Mariani † 03 12 2020 Medico di medicina generale

229.                        Stefano Gandini † 04 12 2020 Medico di medicina generale, in pensione ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

230.                        Mario Claudio Magliocca † 03 12 2020 Specialista in Malattie infettive

231.                        Giuseppe Grosso † 06 12 2020 Medico ASL responsabile medicina specialistica e protesica

232.                        Michele Cicchelli † 06 12 2020 Pediatra

233.                        Kassem El Malak † 23 11 2020 Odontoiatra

234.                        Giuseppe Miceli † 08 12 2020 Medico di medicina generale

235.                        Sergio Pascale † 07 12 2020 Primario di rianimazione

236.                        Giuseppe Minchiotti † 07 12 2020 Medico di medicina generale

237.                        Francesco Antonio Barillà † 08 12 2020 Medico di medicina generale

238.                        Antonio Pugliese † 08 12 2020 Medico dell’ufficio vaccinazioni

239.                        Pier Luigi Crivelli † 19 11 2020 Anestesista

240.                        Roberto Governi † 11 10 2020 Odontoiatra

241.                        Roberto Di Fortunato † 25 11 2020 Oculista

242.                        Claudio Noacco † 08 12 2020 Diabetologo, in pensione

243.                        Pier Luigi Bettinelli 05 12 2020 Già medico ospedaliero, in pensione ma attivo come libero professionista

244.                        Francesco Vista † 04 12 2020 Medico di medicina generale

245.                        Matteo Rinaldi † 15 11 2020 Medico di medicina generale e geriatra, in pensione ma tornato esercitare per l’emergenza Covid

246.                        Roberto Zambonin † 10 12 2020 Odontoiatra

247.                        Mohammad Alì Zaraket  † 02 12 2020 Medico di medicina generale e odontoiatra

248.                        Roberto Ronci † 09 12 2020 Medico di medicina generale

249.                        Domenico Mele † 10 12 2020 (data segnalazione) Anestesista, ex primario di anestesia e rianimazione

250.                        Francesco Gasparini † 11 12 2020 Anestesista, in pensione ma rientrato in servizio per l’emergenza Covid-19

251.                        Flavio Bison † 10 12 2020 Medico di medicina generale

252.                        Gianpaolo Pellicciari  † 04 12 2020 Medico di medicina generale

253.                        Paolo Duso † 09 12 2020 Odontoiatra

254.                        Valter Adamo † 10 12 2020 Ex primario di ginecologia e ostetricia, in pensione

255.                        Daniele Rizzi † 06 12 2020 Medico di medicina generale

256.                        Giovanni Alberto Piscitelli † 11 12 2020 Medico di medicina generale

257.                        Antonino Cataldo † 11 12 2020 Medico di medicina generale

258.                        Giovanni Ferraro † 12 12 2020 Medico di medicina generale

259.                        Wilmer Boscolo † 15 12 2020 Medico di medicina generale

260.                        Armando Cesari † 05 12 2020 Pediatra

261.                        Sergio Saccà † 15 12 2020 Oculista

262.                        Giovanni Battista Meloni † 16 12 2020 Radiologo

 

Non gridate più – Giuseppe Ungaretti

Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.

Ecco la verità sul numero dei medici deceduti per Covid. Nell'elenco dei medici morti per Coronavirus anche uno di 104 anni. Il presidente dell'ordine degli infermieri di Bari: "Molti dei deceduti non erano in servizio". Il presidente della Fnomceo: "Sono nostri morti". Emanuela Carucci, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. È un tema molto dibattuto quello del numero reale dei decessi per Covid. E lo è ancora di più quello dei medici deceduti per Coronavirus perché contagiati, durante l'attività lavorativa, da pazienti positivi all'infezione polmonare. Stando ai dati pubblicati dagli organi di stampa al momento sono 150 i medici deceduti per Coronavirus (dato aggiornato al 24 aprile). Il numero è reso pubblico dal sito della FNOMCeO, la federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. Il presidente commenta il lungo elenco con un verso del poeta Giuseppe Ungaretti: "I morti non fanno rumore, non fanno più rumore del crescere dell’erba". Gli ultimi medici a perdere la vita sono Roberto Stella, responsabile dell’area formazione della Fnomceo, e presidente dell’ordine dei medici di Varese. E poi, Marcello Natali, segretario Fimmg di Lodi. Ivano Vezzulli, medico di medicina generale nel Lodigiano. Mario Giovita, medico di medicina generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di Medicina Generale a Casalpusterlengo. I loro nomi sono in cima ad una tragica lista. "Questo dato che assomiglia a un bollettino di guerra, mi ha incuriosito" ha commentato Saverio Andreula, presidente dell'ordine degli infermieri di Bari che, con un gruppo di lavoro, ha analizzato l'elenco dei medici deceduti apparsi sul sito della Fnomceo. "C'è l'elenco dei medici deceduti per Covid, ma non ci sono solo quelli che sono stati contagiati perché svolgevano l'attività professionale nei Covid Hospital o comunque nelle aree di cura Covid. Tra i deceduti ci sono anche i pensionati non tornati al lavoro durante l'emergenza in corso o medici che sono deceduti a causa del Coronavirus, ma non perchè assistevano pazienti positivi". Tra i nomi dei deceduti, infatti, c'è anche quello di un medico di 104 anni. Sul sito in questione accanto al nome del deceduto c'è solo la data di morte, ma non di nascita. "Noi siamo andati sull'anagrafica dei medici e abbiamo scoperto che nell'elenco c'erano anche persone non più iscritte all'albo perché in pensione da tempo" ha specificato Andreula. "Nell’elenco – spiega in una nota il presidente della Fnomceo – si è deciso di includere tutti i medici, pensionati o ancora in attività, perché per noi tutti i medici sono uguali e uguale è il cordoglio per la loro perdita". Questo dettaglio, però, ha creato un po' di confusione. I medici deceduti a causa del Coronavirus contratto durante l'attività lavorativa sembrerebbe non essere, quindi, 150 "ma intorno ai sessanta" specifica Andreula. "Il dato specifico non ce l'abbiamo, lo dovrebbe fornire l'istituto superiore di sanità" dice, dal canto suo a ilGiornale.it, Filippo Anelli, presidente della Fnomceo. Andreula, insieme ai coordinatori del gruppo di ricerca dell’Opi Giovani di Bari (Opi sta per ordini professioni infermieristiche), Francesco Molinari e Cinzia Papappicco, sono andati a fondo sulla vicenda. Nella nota inviata agli organi di stampa sono riportati i dati esatti sui deceduti. "Risultano 60 medici nella fascia di età 32-69 anni, 24 medici deceduti nella fascia di età 70-79 anni, 16 medici deceduti che supera gli 80 anni, infine, 42 nominativi di medici deceduti non ricompresi dell’anagrafica della Fnomceo, probabilmente per errori o refusi dei compilatori dell’elenco, senza ulteriori controlli prima della pubblicazione, o si tratta (ma la cosa è tutta da verificare), di professionisti che hanno esercitato l’arte medica, ma da tempo pensionati e non più iscritti all’ordine " scrivono gli infermieri nella nota. "Siamo andati a fondo a questa cosa, ma per un semplice spirito di verità" ha dichiarato a ilGiornale.it, Saverio Andreula. "Io non ho volutamente risposto alla nota degli infermieri e non vorrei rispondere perché non c'è nessuna ragione al mondo che la giustifichi" ha risposto Filippo Anelli, continuando "Noi pubblichiamo l'elenco dei medici deceduti, punto. Sono tutti nostri iscritti o sono stati nostri iscritti. Abbiamo il diritto di piangere i nostri morti, noi tutti i medici li consideriamo 'nostri' morti, non vedo cosa ci sia da dire in merito a questo". Insomma, il numero dei medici deceduti non fa riferimento solo ai medici "caduti in prima linea", ma anche a medici in pensione e non tornati a lavorare durante questa pandemia. D'altronde sullo stesso sito della Fnomceo c'è scritto semplicemente "Elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19". Il discorso, alla fine, finisce sulla piaga più grande: la sicurezza. I medici in servizio contagiati avevano i dispositivi individuali adeguati? Quei contagi e, quindi quei decessi, si potevano evitare? "Bella domanda - risponde Anelli - I medici di famiglia non avevano assolutamente i dispositivi di sicurezza individuale. Questa è una polemica che abbiamo fatto dal primo giorno. Il tema della sicurezza oggi è un tema che viene percepito con fastidio, soprattutto dalle Regioni. Il diritto all'integrità psicofisica di ogni lavoratore è sancito dalle norme costituzionali e non rispettarlo significa violare la Costituzione e non è possibile oggi che la pretesa dei medici di lavorare in sicurezza sia considerata un fastidio e non come una legittima pretesa, da chi gestisce oggi la Sanità. Tutti gli organi della Repubblica devono garantire il diritto alla sicurezza. Quei decessi (dei medici che hanno contratto il virus sul posto di lavoro, ndr), se ci fossero stati i dispositivi adatti, non si sarebbero verificati. Il tema della sicurezza è stato sottovalutato e ha determinato l'esplosione dell'epidemia, soprattutto in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Ancora oggi si discute se i medici devono usare le FFP2 (che sono le più adeguate) o le FFP3 o le chirurgiche, per esempio. O ancora si discute se è opportuno o no fare i tamponi negli ospedali. Ma di che parliamo?" conclude amareggiato Anelli.

Coronavirus. Ecco tutti gli Infermieri morti per Covid-19. Redazione AssoCareNews.it il 29 Ottobre 2020. Emergenza Coronavirus. Ecco tutti gli Infermieri e le Infermiere morti per Covid-19. Il 30% di loro lavorava in strutture per anziani, il resto nell’Emergenza o in Area Critica, molti erano liberi professionisti. Un elenco in continuo aggiornamento. Volevamo non scrivere mai questo servizio, ma oggi siamo costretti a farlo anche per omaggiare i tanti colleghi Infermieri e Infermiere morti a causa del virus e mostrare tutta la nostra vicinanza alle loro famiglie. Alcuni di loro erano in servizio presso strutture per anziani, altri nell’ambito dell’Emergenza-Urgenza, altri ancora in Area Critica. Alcuni erano in pensione, due di loro si sono suicidate. 

L’elenco sarà in continuo aggiornamento (speriamo non ci siano più vittime di questo bastardo virus).

Sulla carta ci sarebbero ben 43 casi, tra cui 1 Infermiere Generico (che comunque consideriamo un collega alla stregua degli altri) e 2 suicidi, così come condiviso anche dalla FNOPI. Al momento sarebbero oltre 8.800 i colleghi infetti da Covid-19.

I numeri degli Infermieri in Italia. Nel nostro Paese ci sono circa 445.000 colleghi iscritti agli Ordini provinciali delle Professioni Infermieristiche e all’Albo nazionale detenuto dalla Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Sanitarie. Ecco i numeri:

12.000 sono Pediatrici, circa 4000 lavorano in Polizia o nelle Forze Militari;

64.000 sono i Liberi Professionisti in attività;

270.000 quelli che lavorano nel Servizio Sanitario Nazionale pubblico;

130.000 quelli che lavorano in ambito privato (molti di loro sono Liberi Professionisti).

Purtroppo la privacy ci costringe a non fare tutti i nomi dei morti. Non possiamo farvi tutti i nomi, soprattutto perché ci è stata chiesta estrema riservatezza, ma noi li vogliamo ricordare ugualmente abbracciando forte i loro figli, i loro mariti, le loro mogli, i loro padre e le loro madri, i loro fratelli e le loro sorelle. Qui di seguito elencheremo alcuni dei loro nominativi (o la loro storia) man mano che realizzeremo servizi sulle loro vicende professionali e umane.

Addio ad Annamaria Corapi, infermiera della brest unit dell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. Il fratello: Ha dovuto attendere 9 giorni il primo tampone! Addio ad Annamaria, 43° infermiera italiana deceduta per Covid. La collega, apprezzata da tutti, lavorava presso la Brest Unit del Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. La tragedia porta la denuncia del fratello, che ha rilasciato pesanti dichiarazioni alla testata Calabrianews.it: “Fino a venerdì 2 ottobre mia sorella è stata al lavoro. Domenica 4, nella sua abitazione di Girifalco, Annamaria ha cominciato ad avvertire i primi sintomi di malessere: febbre alta e tosse. Lunedì 5, secondo protocollo, ha contattato il suo medico curante per segnalare questi sintomi”.  In quel momento la donna ha comunicato lo stato di malattia all’Azienda. Sempre lunedì 5 ottobre il medico curante ha spedito una PEC al servizio di prevenzione dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, richiedendo “un tampone Sars Covid per Corapi Annamaria, soggetto immunodepresso con virosi respiratoria e febbricitante, infermiera presso l’Ospedale di Catanzaro”. “9 giorni di attesa in cui il virus – aggiunge addolorato il fratello – si è mangiato i polmoni di mia sorella. Lei mi ha scritto  sul telefono alle 17 di giorno 15 ottobre e dopo due ore ho perso i contatti con lei. Alle 21 il medico, dopo tanta insistenza, mi ha riferito che il quadro clinico era gravissimo. Dopo poco tempo è arrivato il decesso”. La redazione tutta si stringe attorno al dolore della famiglia.

Addio a Francesco, ennesimo infermiere morto di Covid. E’ il 42° dall’inizio della Pandemia. Addio a Francesco, infermiere del 118 romano, spentosi alcuni giorni fa in una terapia intensiva di Roma. Si era contagiato da Coronavirus durante il servizio. La notizia è dolorosa: il collega Francesco, professionista 60enne del Pronto Soccorso romano si è spento i giorni scorsi. A darne notizia attraverso un post social, la collega e amica Rosanna Balzerani. “Lui era Francesco ed era un un’infermiere del 118…Un uomo sano…Ho lavorato con lui in UTIC all’ospedale San Giovanni di Roma, anni fa… eravamo in turno assieme… era un’esplosione di energia e di simpatia…Un romano verace, soprannominato “er Catena”…Francesco non c’è più!!! È morto ieri mattina, in una terapia intensiva Covid…È morto perché è stato contagiato mentre svolgeva il suo lavoro sull’ambulanza del 118…Ricordatevelo, voi negazionisti del cavolo… Francesco era li a soccorrere anche merdosi come voi!!! Da domani state tutti a tre metri da me… e se non indossate la mascherina anche a otto…Il primo che mi dice che il virus ha ridotto la sua aggressività, giuro “lo sputo in faccia“. La collega conferma poi il contagio durante il servizio. Si tratta del 42° infermiere morto da contagio Covid. Addio a Javier, Infermiere morto di Coronavirus. Lavorava a Como. Ammalatosi in reparto.

Addio a Javier Chunga, infermiere comense che da diversi mesi lottava intubato contro il Coronavirus. Il suo cuore ha cessato di battere qualche ora fa. A darne l’annuncio della morte sono stati i colleghi sui social e la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi). Javier Chunga, iscritto all’Opi di Como, non ce l’ha fatta ed è spirato qualche ora fa. Si era ammalato di Covid-19 mesi addietro ed era finito in rianimazione. E’ il 41° Infermiere deceduto in Italia di Coronavirus dall’inizio della Pandemia fino ad oggi. Javier non ce l’ha fatta. È stato un infermiere che sino all’ultimo ha assistito con passione, gentilezza e professionalità i tanti malati di Covid dell’ospedale Valduce di Como. In prima linea, sempre. Il maledetto virus non lo ha risparmiato e dopo 3 mesi in terapia intensiva il suo cuore si è fermato. Quel cuore che i colleghi e i pazienti hanno avuto il privilegio di conoscere e ascoltare. Javier, 59 anni, di origini peruviane, è il primo infermiere caduto in battaglia a Como. I suoi colleghi hanno scritto: “Le persone che lasciano il segno non conoscono l’oblio, tu Javier sei una di queste”. Due pensieri più di tutti ci hanno colpito scorrendo i commenti del post che i colleghi hanno scritto su Facebook per ricordarlo. Il primo di una paziente guarita: “Ciao R. I. P. La sera prima che uscissi dalla stanza “pre morte” io la chiamo così, mi hai tenuto la mano sinistra nelle tue mani. Hai fatto un discorso di incoraggiamento, per questa seconda vita e che i miei mi aspettavano. Grazie per avermi accudita in quella stanza, eri sempre presente. Ho appreso il tuo percorso con grande tristezza”. E poi questo ultimo saluto: “Un piccolo grande uomo, un italiano di cui andare fieri. Grazie Javier” Un piccolo grande uomo, un italiano, peruviano di origini, di cui andare fieri. Buon viaggio Javier!

Addio ad Enrica Favali, Infermiera di 51 anni. Non avrà un funerale per le norme attuali anti-Covid. Addio ad Enrica Favali, Infermiera di 51 anni deceduta l’altro giorno. Non avrà un funerale, perché lo impongono le norme anti-Coronavirus. Era per molti una persona molto generosa ed appassionata al suo lavoro. Ora non c’è più, strappata alla vita da una morte improvvisa. Si tratta della collega Infermiera Enrica Favali, 51 anni, originaria di Campolungo di Castelnovo Monti, ma domiciliata ad Albinea (Reggio Emilia). Si occupava di assistenza domiciliare. La compiangono i suoi cari, tra cui l marito, la mamma e la sorella, oltre ai numerosi colleghi che hanno avuto modo di conoscerla e apprezzarla dal punto di vista professionale e umano. Era di stanza presso il Servizio Infermieristico Domiciliare (SID) dell’AUSL reggiana. Sarà seppellita a Campolungo, ma non avrà un funerale, così come prevedono le norme anti-Covid.

Muore Infermiera di 49 anni. Addio a Giuseppina, non avrà un funerale per le disposizione anti-Coronavirus. E’ morta improvvisamente Giuseppina Villano, 49 anni, Infermiera iscritta all’OPI di Caserta. All’addio seguirà un funerale solatio, per le disposizione anti-Coronavirus. La comunità dell’agro aversano è sgomenta per la morta di Giuseppina Villano, 49 anni, mamma, moglie e Infermiera iscritta all’OPI di Caserta. Una terribile tragedia che diventa più grave se si pensa che la collega non potrà avere un funerale, ma dovrà essere seppellita dopo la benedizione per i dispositivi di legge legati al Coronavirus. La collega era residente a Cesa (nei pressi di Aversa). Si è spenta prematuramente gettando nello sconforto familiari, colleghi ed amici. La salma arriverà al Cimitero di Cesa proveniente dall’ospedale di Aversa domani mattina alle ore 11.00. La sua morte ha lasciato sgomenti tutti, tanti i messaggi postati su Facebook, tra cui quello del figlio Andrea: “Mamma sarai sempre nel mio cuore. Ti ricorderò per sempre come la persona speciale che eri. Insieme per sempre”. Buon viaggio Giuseppina!

Coronavirus. Si uccide Infermiera a Milano. Mary Monteleone non ce l’ha fatta a resistere allo stress. La terza collega in due mesi. Emergenza Coronavirus. Si è suicidata in casa una Infermiera a Milano. Mary Monteleone non ce l’ha fatta a resistere allo stress. La terza collega in due mesi. Prestava la sua opera di Infermiera presso un reparto Covid-19. Mary Monteleone, di Milano, non ce l’ha fatta a resistere allo stress e si è tolta la vita. Di recente era stata assegnata ad un reparto dedicato ai positivi, presso la pneumologia dell’Ospedale San Carlo. Nella notte tra martedì 28 e mercoledì 29 aprile 2020 ha compiuto l’estremo gesto, impiccandosi. Lo comunica Notizie.it. Mary è stata ritrovata morta dai due figli adolescenti, in casa. Nelle ultime settimane si occupava principalmente dei pazienti affetti da Coronavirus, in base ad una riorganizzazione del personale operata dalla direzione. Spostata in pneumologia, è rimasta in servizio sino all’ultimo giorno che ha vissuto “in un reparto di quelli brutti, dove molti vanno a morire”, ha riferito un collega. Non si conosce però la motivazione che ha spinto l’infermiera a compiere un tale tragico gesto, tutti la definiscono come una persona molto riservata ma sempre gentile e sorridente, una grande lavoratrice. “Sono vent’anni che mi occupo di Pronto Soccorso, ma una cosa così non l’avevo mai vista”, ha confessato un collega alla testata Tpi. Nessuno insomma si sarebbe mai aspettato che Mary Monteleone avrebbe posto fine alla sua vita, soprattutto i suoi familiari. All’Ospedale San Carlo gira voce che ci sia grande preoccupazione circa la riapertura delle attività in Lombardia, come avverrà gradualmente dal 4 maggio 2020. L’ASST Santi Paolo e Carlo, però, non lascia da soli i suoi dipendenti e già dall’inizio della pandemia ha attivato un servizio a loro dedicato: presso una stanza ci si può rilassare, con musica soft di sottofondo e luci soffuse, per staccare dal caos del lavoro in emergenza. Inoltre il gruppo offre consulto psicologico dedicato a chiunque ne faccia richiesta, sempre riservato allo staff impegnato nel lavoro quotidiano in ospedale.

Coronavirus. Polemiche a Genova, l’Infermiera Anna Poggi morì di Covid-19, ma nessuno le fece un tampone. Emergenza Coronavirus. L’esame autoptico ha stabilito che l’Infermiera Anna Poggi di Genova è deceduto per Covid-19, ma l’azienda sanitaria non aveva eseguito il tampone in vita. Grave negligenza? Scatta indagine Procura. E’ polemica a Genova per la morte dell’infermiera Anna Poggi l’Infermiera dell’ASL 3 morta da sola in casa in circostanze sospette. Ora il tampone ha dato esito positivo: era affetta da Coronavirus. Lavorava a Villa Scassi, dove è deceduto anche un noto Medico. Avevamo dato la notizia della sua morte qualche giorno fa. Lei era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Genova ed aveva 63 anni. Le mancavano 2 anni per la pensione, ma non ce l’ha fatta a chiudere la sua carriera infermieristica come voleva.

L’ha trovata morta in casa il figlio, da giorni stava male, ma non si pensava ad una morte così atroce e in solitudine. Nessuno le aveva fatto un tampone, eppure era in malattia per segni e sintomi proprio di Coronavirus.

Ora sul caso indaga la Procura della Repubblica genovese. Sul caso si sta muovendo il Pubblico Ministero Valentina Grosso, ne sapremo di più nelle prossime ore. Coronavirus. E’ morta Anna Poggi, Infermiera affetta da Covid-19. L’Azienda frena sulla sua positività, i colleghi no. Emergenza Coronavirus. Addio ad Anna Poggi, 64 anni, deceduta da sola in casa. L’Azienda per cui lavorava, l’ASL3 di Genova, riferisce che l’esame sierologico era risultato negativo. A trovarla agonizzante il figlio, che ha lanciato l’allarme poi risultato vano.

Sarà l’autopsia a stabilire se la collega Anna Poggi, 64 anni, è deceduta per Coronavirus o meno. Lei era una Infermiera iscritta da anni all’Opi di Genova ed era prossima alla pensione. Per i colleghi, visti anche i segni e sintomi che mostrava, la donna era affetta da Covid-19. Tant’è che risulta inspiegabile la sua morte. L’Azienda Villa Scassi (Asl 3) conferma che l’esame sierologico aveva dato esito negativo. E’ stato il figlio, preoccupato per il suo silenzio prolungato, a trovarla agonizzante in casa e a dare l’allarme. Il suo corpo è stato trasportato all’Istituto di Medicina legale dell’Università di Genova per l’eventuale esame autoptico. E’ deceduta alla vigilia di Pasqua nella sua abitazione. La sua attività lavorativa la portava a continui contatti con Pazienti affetti da Coronavirus. Dal 10 aprile era in malattia; tre giorni prima l’esito del test sierologico aveva negato la positività al Covid-19. Forse, però, la sua infezione era nella fase iniziale ed è noto che a volte questo tipo di test può dare esito negativo pur in presenza della malattia. Il 9 aprile era deceduto, sempre a Genova, il direttore dei servizi di chirurgia dello stesso ospedale. Si chiamava Emilio Brignole e aveva 68 anni. Inoltre ci sono altri Infermieri e OSS positivi al Coronavirus nella medesima struttura. “L’AZIENDA DESIDERA ESPRIMERE LE PIÙ SENTITE CONDOGLIANZE ALLA FAMIGLIA PER IL GRAVE LUTTO. CONTESTUALMENTE SI SOTTOLINEA CHE AL MOMENTO NON È CERTA LA CAUSA DEL DECESSO – SI LEGGE IN UNA NOTA DI VILLA SCASSI – LA PERSONA SI ERA FERMATA IN MALATTIA VENERDÌ 10 APRILE ED ERA RISULTATA NEGATIVA AL COVID TEST SIEROLOGICO IL GIORNO 7 APRILE”. Eppure ci sono molti infetti anche tra i pazienti e diversi operatori della Chirurgia sono a casa o hanno segni e sintomi che fanno pensare al Covid-19. Anna era prossima al pensionamento, ma non riceverà mai quei soldi perché deceduta prima.

Coronavirus. Muore Francesco, Infermiere di 60 anni. Lo ha strappato alla vita il Covid-19. Emergenza Coronavirus. Muore Francesco De Berardino, Infermiere di 60 anni, iscritto all’OPI di Pescara. Non ce l’ha fatta a superare l’infezione da Covid-19. Era sindacalista di Nursing Up. Prima vittima del coronavirus all’ospedale di Popoli in provincia di Pescara. Addio a Francesco Di Berardino, Infermiere sessantenne iscritto all’OPI pescarese. L’uomo che già era in condizioni gravi non è riuscito purtroppo a superare la crisi. Lo riferiscono i colleghi di ReteAbruzzo.com. Era nato in Venezuela e lavorava come professionista sanitario in Abruzzo.

L’infermiere era risultato positivo insieme ad altri colleghi, in tutto sei, tra i quali un’infermiera di Pratola Peligna, dopo aver contratto il virus da una paziente che era stata trasferita a Popoli, proveniente dall’ospedale di Pescara, per essere operata ad un piede. La donna al suo arrivo all’ospedale popolese era risultata negativa al virus, ad un primo test. Nel corso degli esami clinici ed ematologici ai quali è stata sottoposta per essere operata è venuto fuori la positività al virus. Contemporaneamente sono rimasti contagiati altri sei operatori sanitari, tra infermieri e medici del reparto di Chirurgia, dove la donna era ricoverata. Nonostante le richieste pressanti da più parti per una chiusura del reparto e successiva sanificazione la divisione ha continuato ad accogliere pazienti e a proseguire nella normale attività come se nulla fosse successo. Ora anche alla luce del decesso dell’infermiere sarebbe opportuno andare fino in fondo ad una storia che ha dell’incredibile e che ha acceso uno dei focolai più pericolosi sul territorio. Il dolore dei colleghi fin dalle prime ore di questa mattina è stato espresso anche in alcuni post sui social. Francesco è compianto dalla famiglia, dai colleghi e dagli amici: “ci mancherà il suo sorriso e la sua professionalità, da sempre al servizio di chi soffriva”. Il cordoglio di Nursing Up.

Il coronavirus ha mietuto un’altra vittima tra gli operatori sanitari: è morto Francesco Di Berardino, infermiere di 60 anni che prestava servizio presso l’ospedale di Popoli (Pe). L’uomo, residente a Scafa e iscritto al Nursing Up, è deceduto la notte scorsa nell’ospedale di Pescara, dove era ricoverato in condizioni gravi in seguito al contagio. L’infermiere era risultato positivo insieme ad altri sei colleghi, dopo essere stato infettato da una paziente trasferita dall’ospedale di Pescara a quello di Popoli per un’operazione di routine. Alla donna, sottoposta ad un test in entrata, non era stato riscontrato il virus, ma in seguito a ulteriori esami prima di essere operata è emersa la positività. A quel punto ad aver contratto la malattia era già una mezza dozzina di infermieri e medici del reparto di Chirurgia, dove la donna era ricoverata. Inascoltate sono rimaste le ripetute richieste di chiusura del reparto per effettuarne la sanificazione, all’unità di Chirurgia sono continuati ad arrivare pazienti per le nomali attività elettive. Di Berardino, 35esimo infermiere a morire per coronavirus, è anche la prima vittima del Sars-Cov-2 nello staff dell’ospedale di Popoli. In seguito al contagio, le sue condizioni erano peggiorate fin quando non si è reso necessario il trasferimento nella Rianimazione di Pescara. Tra le ultime battaglie del Nursing Up Abruzzo, di cui faceva parte, quella per ottenere i dispositivi di protezione individuale per garantire la sicurezza agli operatori sanitari in prima linea. Proprio la scarsità di mascherine e altri dpi costituisce un serio rischio per gli infermieri impegnati in reparti cosiddetti Covid free, con gravi ricadute su tutta la popolazione, come in questo ultimo tragico caso. Un’evenienza che in epoca di pandemia andrebbe largamente prevista ed evitata. Molti i messaggi di cordoglio che in queste ore si stanno diffondendo sui social, soprattutto dopo il post di Patrizia Bianchi, segretaria regionale del sindacato infermieristico abruzzese, anche lei infermiera, che ha pubblicato la notizia con l’ultimo saluto: “Questa notte è deceduto in seguito a Covid-19 un nostro collega nostro iscritto, il professionista Francesco Di Berardino. Esercitava a Popoli ed era un grande infermiere. Nursing Up regione Abruzzo è in lutto perché ha perso un valido elemento. RIP”. Al post hanno risposto molti dei colleghi e di quelli che conoscevano l’infermiere deceduto, ognuno per lasciare il proprio ricordo e parole di vicinanza e di sostegno per la famiglia. A loro si unisce la sede nazionale Nursing Up. Ciao, Francesco. Che la terra ti sia lieve. Addio collega!

Coronavirus. Morto Roberto Maraniello, Infermiere e sindacalistsa. Il Covid-19 lo ha ucciso. Emergenza Coronavirus. Muore Roberto Mariniello, Infermiere e segretario provinciale della FIALS di Napoli. Il Covid-19 non lo ha risparmiato. Non ce l’ha fatta Roberto Maraniello, Infermiere e sindacalista della FIALS, di cui era anche segretario provinciale. I colleghi lo definisco un “leone” della professione infermieristica e della lotta sindacale. Aveva 62 anni. Lavorava da una vita all’ospedale “Cardarelli” di Napoli. E’ il terzo infermiere napoletano a morire per Coronavirus nell’ultimo mese. Maraniello era ricoverato nel Reparto di Terapia Intensiva e Rianimazione del Cotugno dopo essere stato colpito dal Covid-19. Tanti gli amici, i colleghi, i familiari e gli oppositori sindacali che oggi piangono la sua morte. Si trattava di un sindacalista sempre trasparente e convinto delle sue idee. Era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Napoli. Addio Roberto.

Coronavirus. Morta Annamaria, Infermiera a Napoli, uccisa dal Covid-19. Il cordoglio dell’OPI. Emergenza Coronavirus. E’ morta un’altra Infermiera a Napoli, uccisa dal Covid-19. Addio ad Annamaria Di Giacomo. Il cordoglio dell’OPI e del presidente Ciro Carbone. Si registra una seconda Infermiera deceduta a Napoli per Coronavirus. Lo annuncia sul proprio portale l’Ordine delle Professioni Infermieristiche, che esprime tutto il suo cordoglio per quanto accaduto e per la morte di una collega molto preparata e sempre disponibile. Si chiamava Annamaria Di Giacomo. Aveva 56 anni. Poco fa, sentito il presidente dell’OPI di Napoli, Ciro Carbone, ci ha confermato l’accaduto ed ha voluto esprimere tutta la sua vicinanza alla famiglia della collega defunta. Era iscritta all’Ordine infermieristico napoletano dal 1985. Si tratta, come dicevamo, della seconda collega morta per Covid-19 nella città partenopea. Lavorava in Neuropsichiatria Infantile presso l’ospedale Vanvitelli. Prima ancora aveva operato presso il CTO. Era ricoverata in Rianimazione all’ospedale Monaldi, dove è deceduta la prima Infermiera. Buon viaggio Annamaria.

Coronavirus. Muore Angela, Infermiera. Il Covid-19 l’ha stroncata in Piemonte. Emergenza Coronavirus. Muore Angela Vinci, 68 anni. Infermiera in pensione. Il Covid-19 l’ha stroncata in Piemonte. Non è riuscita a godersi la pensione Angela Vinci, Infermiera di 68 anni, molto conosciuta in Piemonte e in special modo nelle realtà di Troina e Tortona (in provincia di Alessandria), presso il cui ospedale lavorava. La piangono i colleghi, i parenti e tutti gli amici che l’hanno potuta apprezzare sul lavoro e nella vita quotidiana. Se n’è andata dopo una esistenza intera passata ad aiutare chi stava male. Dapprima in Medicina, poi al Pronto Soccorso. E’ morta lo scorso 16 aprile. Lei si voleva ancora mettere in gioco e tornare in reparto per aiutare gli ex-colleghi nella guerra al Covid-19. Il sindaco di Tortona, Federico Chiodi, ha voluto ricordarla su Facebook nel corso di un apposito video messaggio ai cittadini: “oggi vorrei ricordare in particolar modo una persona deceduta a causa del Coronavirus. Lo faccio anche per venire incontro a una richiesta fatta espressamente dagli infermieri che stanno lottando nei nostri ospedali. Purtroppo si è ammalata di Covid-19 ed è deceduta Sicuramente è una situazione difficile quella che stanno affrontando i nostri medici, i nostri infermieri e anche i pazienti”. Sulla stessa scia si è espresso il primo cittadino di Troina, Fabio Venezia: “un’altra tragica notizia per la nostra comunità. La nostra concittadina Angela Vinci, da molti anni residente a Tortona (Piemonte), nonostante fosse andata in pensione da qualche anno, per dare una mano ai colleghi in questo momento di grave emergenza ha deciso di rientrare a lavoro in ospedale ed è morta eroicamente dopo aver contratto i/ Covid-19 nel tentativo di curare gli altri malati. La comunità di Troina si stringe al dolore dei familiari e non dimenticherà il grande gesto di abnegazione e altruismo della cara Angela”. Addio Angela, che la terra ti sia lieve.

Coronavirus. Morta Infermiera di 55 anni. Addio a Lidia Liotta, lavorava in RSA dove si è infettata. Il Covid-19 l’ha uccisa. Emergenza Coronavirus. Morta Infermiera di 55 anni. Addio a Lidia Liotta, lavorava in RSA dove si è infettata. Il Covid-19 l’ha uccisa. Si chiamava Lidia Liotta, e aveva 55 anni. Saccense, ma residente in provincia di Bergamo, faceva l’Infermiera una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). È deceduta oggi dopo essere stata contagiata da Covid-19. Lascia il marito, dipendente del comune di Villongo, e una figlia di 20 anni. Lo ha annunciato con cordoglio il portale corrieredisciacca.it. Lei era originaria dell’Agrigentino, ma aveva lasciato la Sicilia per lavoro. Lidia lavorava in una RSA di Predore. La donna si è contagiata o è stata contagiata, si è poi ammalata ed è stata ricoverata d’urgenza nel nosocomio di Ome in provincia di Brescia: «La sua situazione è di ora in ora peggiorata, con gravi conseguenze polmonari ma anche ad altri organi, che hanno costretto i medici a sottoporla anche a dialisi». La donna è morta nella giornata di giovedì 16 aprile. «Stava lottando con tutte le sue forze» hanno raccontato i familiari. Purtroppo la collega lascia una figlia di 20 anni e il marito, anche lui di origini siciliane. Lidia era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Agrigento.

Coronavirus. Muore Edi Maiavacchi, Infermiera a Parma. Era affetta da Covid-19. Emergenza Coronavirus. Muore prima Infermiera all’Ospedale “Maggiore” di Parma, era affetta da Covid-19. Deceduta prima Infermiera a Parma, lavorava presso l’Ospedale “Maggiore”. Si era infettata di Covid-19 probabilmente sul lavoro. La compiangono i colleghi della neurologia. Edi Maiavacchi aveva 62 anni ed era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Parma. Purtroppo per lei non c’è stato nulla da fare. Era nata nel 1958 a Montecchio Emilia ed era diventata infermiera generica, poi infermeria professionale e infine aveva beneficiato dell’equipollenza. Era una persona squisita, una collega che tutti amavano e che tutti stimavano. La sua morte ha lasciato sgomenti un po’ tutti coloro che la conoscevano sul campo, ma anche di nome. E’ la prima Infermiera deceduta a Parma per Coronavirus. Addio Edi, che tu possa riposare in pace ovunque ti trovi in questo momento.

Coronavirus. Morto di Covid-19 Infermiere di 58 anni. Era risultato negativo al primo tampone, ma poi successivamente positivo. Emergenza Coronavirus. Morto di Covid-19 in Sicilia un Infermiere di 58 anni. Era risultato negativo al primo tampone, ma dai segni e sintomi non ci sarebbero dubbi relativamente al motivo del decesso. Il 9 aprile risultò positivo. Deceduto Infermiere in Sicilia per probabile infezione da Coronavirus. I suoi colleghi parlano di presenza di segni e sintomi evidenti, ma il tampone aveva dato esito negativo. I dubbi restano. A quanto pare il collega, nei giorni scorsi, si era recato in ospedale ad Acireale accusando dei forti dolori addebitabili ad una presunta lombosciatalgia, ma poi avrebbe avuto dei disturbi respiratori. Usare il condizionale in questi casi è d’obbligo. Il medico di turno, avendo riscontrato nell’uomo un certo affanno, lo ha sottoposto ad un esame radiografico ai polmoni poiché in passato lo stesso era stato ricoverato per patologie riguardanti l’apparato respiratorio. Il medico che ha stilato il referto – confermano dall’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) – avrebbe, per scrupolo, effettuato anche un test rapido al Coronavirus, la cui attendibilità – precisano dall’azienda sanitaria – è inferiore a quella del tampone tradizionale e, il 9 aprile scorso, sarebbe risultato positivo. Il paziente sarebbe stato dimesso su sua pressante richiesta. L’Infermiere era originario di Giarre, aveva 58 anni, lavorava in una nota azienda sanitaria messinese e viveva con l’anziana madre ultra novantenne e una badante di nazionalità romena. Ambedue saranno sottoposte a tampone in caso di segni e sintomi, al momento sono in isolamento coatto domiciliare. Il sindaco di Giarre Angelo D’Anna è intervenuto in video parlando di “perplessità”, ma ha aggiunto di aver saputo di nuovi casi in città. La certezza si avrà solo con l’autopsia del cinquantottente. In fibrillazione tutti i colelghi Medici, Infermieri e OSS che lavoravano con lui.

A quanto si è capito dovrebbe essere iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Messina.

Coronavirus. Morta Nicoletta, Infermiera di 41 anni. Aveva scelto di rimanere con i suoi pazienti in Casa di Riposo. Emergenza Coronavirus. Addio a Nicoletta Corina Berinda (41 anni). Era una delle Infermiere della Casa di Riposo di Beinasco che aveva deciso di rimanere al fianco dei suoi pazienti ammalati forse di Covid-19. Scatta la denuncia contro il datore di lavoro. Si chiamava Nicoletta Corina Berinde, aveva 41 anni ed era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Torino. Lavorava come Infermiera presso la Casa di Riposo “Consolata” di Beinasco, nell’hinterland metropolitano di Torino. È stata ritrovata defunta dal fratello George che aveva allertato le autorità competenti. I vigili del fuoco hanno dovuto sfondare la sua porta di casa per entrare nel suo appartamento di Via Brindisi nel capoluogo torinese. Era di origini rumene, ma viveva in Italia da oltre 4 lustri. Da sei anni lavorava nella Casa di Riposo, una RSA ubicata nella cittadina di Beinasco. Da alcuni giorni era in malattia a casa, come altre sue colleghe, con chiari segni e sintomi di Covid-19, ma saranno il tampone e l’autopsia a stabilire la causa della morte. A nulla sono servite le insistenze del suo medico di famiglia, la dottoressa Nadia Leanza, l’azienda sanitaria non le ha mai eseguito un test di controllo. La tosse era fortissima, non riusciva a respirava e desaturava. Quando il fratello ha dato l’allarme era ormai troppo tardi. I vigili del fuoco e il personale sanitario non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. E’ l’ennesima vittima di Stato, uno Stato che l’ha ospitata e poi lasciata sola di fronte alla malattia. La sua famiglia ha provveduto a denunciare la struttura dove lavorava. Il loro legale ora vuole capire se ci siano state negligenze da parte del datore di lavoro. Seguiremo gli sviluppi del caso.

Infermiera si uccide a Monza. Daniela Trezzi non ha retto alla guerra contro il Coronavirus. Daniela Trezzi, Infermiera di 34 anni, si è uccisa a Monza. La Federazione degli infermieri piange la scomparsa di una giovane collega. Al fronte di COVID-19 non si muore purtroppo solo per il virus. La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche esprime tutto il dolore e la costernazione degli infermieri alla notizia di una giovane collega che non ce l’ha fatta più e tutti i 450mila professionisti presenti in Italia si stringono uniti e con forza attorno alla famiglia, agli amici e ai colleghi. Si chiamava Daniela Trezzi e aveva solo 34 anni. Assegnata alla terapia intensiva del San Gerardo di Monza, uno dei maggiori fronti italiani della pandemia, ha deciso di togliersi la vita. Ciò che Daniela ha vissuto nell’ultimo periodo, anche se non sono ancora note tutte le cause del gesto, ha pesantemente contribuito come la goccia che fa traboccare il vaso. Lo affermano anche i colleghi che le sono stati vicini nei momenti in cui, trovata positiva e messa in quarantena con sintomi, viveva un pesante stress per la paura di aver contagiato altri. L’episodio terribile, purtroppo, non è il primo dall’inizio dell’emergenza COVID-19 (analogo episodio era accaduto una settimana fa a Venezia, con le stesse motivazioni di fondo) e anche se ci auguriamo il contrario, rischia in queste condizioni di stress e carenza di organici di non essere l’ultimo. Ma non può certo nemmeno essere commentato ora. È sotto gli occhi di tutti la condizione e lo stress a cui i nostri professionisti sono sottoposti e di questo e di quanto sarebbe stato possibile fare in tempi non sospetti e che ora riteniamo sia non solo logico e doveroso, ma indispensabile fare, riparleremo quando l’emergenza sarà passata. Ora non è il momento, ora è il momento solo di piangere chi non ce l’ha fatta più. Non facciamo la conta dei positivi e dei decessi per COVID-19, che non sono davvero pochi. Ognuno di noi ha scelto questa professione nel bene e, purtroppo, anche nel male: siamo infermieri. E gli infermieri, tutti gli infermieri, non lasciano mai solo nessuno, anche a rischio – ed è evidente – della propria vita. Ora però basta: non si devono, non si possono, lasciare soli gli infermieri.

Coronavirus. Il ricordo di Marco, 61 anni, Infermiere: “era un angelo straordinario, ucciso dal COVID-19”. Emergenza Coronavirus. Il ricordo di Marco Offredi, 51 anni, Infermiere. I colleghi: “era un angelo straordinario, ucciso dal COVID-19”. “Era uno degli Infermieri più buoni che abbiamo mai conosciuto”. Così i colleghi hanno descirtto Marco Offredi, Infermiere di 61 anni, deceduto nella sua Genova qualche giorno fa per COVID-19. Era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) del capoluogo ligure. Lo piangono anche i colleghi dell’OPI di Genova. Dal suo profilo Facebook aveva avvisato moglie e figlia che stava bene, ma non era così. Lui stava male, se n’è andato sapendo che non avrebbe più rivisto la sua famiglia, anche se ci sperava. Era un collega di gran cuore, professionista esperto. Probabilmente si è infettato nel Centro anziani dove lavorava nel quartiere di Ponedecimo (Genova Ponente). In passato aveva prestato la sua opera anche nell’Azienda sanitaria di Chiavari. Lascia un vuoto attorno a se e soprattutto lascia la giovane moglie Veronica Rodriguez (Ecuador) e la figlia Aurora, di soli 8 anni. Era patito della Sampdoria, che seguiva da anni. Ora la seguirà da lassù. Buon viaggio eroe!

Coronavirus. Morto altro Infermiere, addio a Oualid: “morto per Covid-19, lascia moglie e 4 figli”. Emergenza Coronavirus. Morto altro Infermiere, addio a Oualid Mohamed Ayachi: “morto per Covid-19, lascia moglie e 4 figli”. In Italia da 3 lustri, era di origini tunisine. Addio all’infermiere Oualid Mohamed Ayachi. Lavorava alla RSA Sant’Erasmo di Legnano da anni ed era uno dei professionisti più amati ed apprezzati. Parlava un italiano perfetto, ma era di origini tunisine. Era un marito modello. Lascia la moglie e 4 figli, strappato alla vita dal COVID-19. La Fondazione Sant’Erasmo di Legnano, che gestisce la struttura dove lavorava Oualid, ha fatto sapere qualche giorno fa che: “dalle informazioni in nostro possesso, risulta che Oualid è l’unico dei lavoratori in malattia che è stato ricoverato in terapia intensiva. Altri sono stati ricoverati a seguito del tampone effettuato in ospedale e poi dimessi. Alla data odierna (2 aprile 2020) la metà dei 31 assenti per malattia (16 per la precisione) non ha effettuato il tampone. Dei 15 che invece sono stati sottoposti al test: 8 hanno avuto esito positivo (fra cui Oualid Mohamed Ayachi) e 7 hanno avuto esito negativo. Nei prossimi giorni l’ATS ha garantito che sottoporrà a tampone anche il restante personale”. Oulalid era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Novara, che si unisce al lutto e che si stringe attorno alla sua famiglia.

La moglie, ex-Infermiera pediatrica in Tunisia e oggi casalinga: “è un lutto inaspettato, un dolore atroce, non so come riuscirò a portare avanti la famiglia e non so come dovrò dirlo ai nostri figli, che al papà erano tremendamente legati. Addio Oualid, sei venuto in Italia per trovare lavoro ed hai trovato la morte a soli 50 anni per un Coronavirus che ha messo in ginocchio il nostro Paese e il mondo intero.

Coronavirus. Morto Salvatore, Infermiere e Coordinatore del 118. Stroncato dal Covid. Emergenza Coronavirus. Il Coordinatore Infermieristico della Centrale Operativa 118 di Benevento, Salvatore Calabrese, è deceduto nei giorni scorsi per COVID-19. Continuano i decessi tra gli Infermieri in prima linea. Gli Infermieri in prima linea nella lotta al COVID-19 sono quelli che rischiano di ammalarsi prima. E’ accaduto anche a Salvatore Calabrese, Coordinatore Infermieristico della Centrale Operativa 118 di Benevento, infettatosi nei giorni scorsi e poi deceduto per complicanze respiratore irreversibili. Ecco qui come lo ricorda Ivan Pastore, collega e amico del professionista defunto. Grazie di cuore per l’insegnamento che mi hai dato, perfetto in ogni piccolo gesto.

Addio Salvatore, Infermiere sacrificato al COVID-19. Grazie di cuore – scrive Pastore – per l’insegnamento che mi hai dato, un insegnamento sempre discreto e delicato che trovava riscontro in ogni tua azione, in ogni tuo piccolo gesto. Sei stato non solo il coordinatore della Centrale Operativa 118, per me sei stato un vero amico.

Con te potevo parlare liberamente di ogni cosa perché sapevo che non avresti mai giudicato. Avevi sempre pronta una risposta positiva per tutti, anche quando la situazione sembrava veramente difficile. Quante volte discutevamo e mi accusavi amichevolmente di essere razzista. Ti piaceva provocarmi per innescare una discussione che poi sfociava sempre con delle risate iper-galattiche. Ancora sento riecheggiare la tua frase “sei un razzistone”. Non tocchiamo il tasto della tua fede calcistica. Era il motivo del nostro perenne scontro. Per non parlare della bottiglia d’acqua che portavi sempre dietro (da noi chiamato biberon). Vogliamo parlare di quando ti abbottonavi la camicia col bottone sbagliato, o di quando eravamo sempre pronti ad aggiustarti la camicia fuori dai pantaloni? Eravamo noi a dirti “Salvatore devi andare alla casa del cane (barbiere) perché hai i capelli troppo lunghi, eravamo noi a ricordarti mille e mille altre cose. Il tuo modo di ricambiare era unico, perché unico e speciale sei tu. Bastava farti una telefonata per dirti che avevo problemi a lavoro e tu rispondevi immediatamente, tranquillo, ti sostituisco io. Per te non esistevano domeniche, non esistevano festività perché eri con noi a lavoro anche a Natale e Pasqua. E’ proprio vero le persone semplici e buone, anche inconsapevolmente, diventano un pilastro sul quale grava il peso di un intero sistema. Purtroppo quel pilastro è venuto meno ed io rivedo in ogni cosa la tua presenza. Ti vedo nei fogli che hai lasciato in giro, ti vedo in quel piccolo ufficio del lavoro che non hai avuto nemmeno il tempo di sistemare. Ti vedo sbarazzino che entri in centrale col tuo “sorrisino” pronto ad offrire il caffè per meglio cominciare la giornata. Ti vedo ancora con i tuoi mille fogli tra le mani, le tue mille ricette mediche pronte per essere consegnate al Centro Unico Prenotazione (Cup) del Rummo allo scopo di aiutare sempre i più deboli ed indigenti. Non puoi immaginare il vuoto che lasci. Ognuno di noi sente nel suo animo un magone, un’assenza incolmabile e solo il citare il tuo nome scatena una fuoriuscita di lacrime dai nostri occhi. Ricordo quel giorno che son venuto in ospedale (senza la possibilità di vederti)  a lasciarti dei generi di conforto (dolciumi e schifezze in particolare) e dal telefono mi dicesti che avevi lasciato una cosa per me. Mi hai lasciato la tua delega e la tua pen drive (con i file del lavoro) e ti sei raccomandato di fare tutto il lavoro al tuo posto. Mi hai incoraggiato chiedendomi di stare vicino ai nostri colleghi e al nostro dirigente in questo momento di grosse difficoltà. Come potrò mai essere all’altezza della fiducia che hai riposto in me? Come potrò mai affrontare le piccole e grandi sfide che quotidianamente mi si pongono davanti? Non illuderti perché lo sai molto bene che ogni qualvolta mi sentirò solo e non saprò che strada prendere, chiederò e pretenderò da te un aiuto. Sì proprio così, ti romperò le scatole anche adesso, sarò il tuo persecutore. Ho chiesto al nostro dirigente di intitolare la nuova centrale operativa col tuo nome. Credo sia solo un piccolo gesto di gratitudine per te che sei stato colui che ha istituito il 118 nel Sannio. Avrei ancora tante cose da dirti. Preferisco dirtele alzando gli occhi al cielo per vederti e parlarti nell’infinito cielo azzurro. Ti voglio un mondo di bene. Invan Pastore, Infermiere

Addio a Manuela, Infermiera di 43 anni deceduta per un male incurabile ai tempi del Covid-19. La sua vicenda probabilmente non è legata strettamente al Coronavirus, ma in passato aveva lavorato nel 118 e in Terapia Intensiva. Addio a Manuela Sacchini. Non sappiamo se sia morta anche per il Covid-19, ma è deceduta sicuramente ai tempi del Coronavirus. Manuela Sacchini non ce l’ha fatta a battere la malattia che la stava flagellando da tempo. A renderle omaggio l’altra mattina, presso l’Ospedale di Pescara, una intera flotta di amici, di colleghi del Servizio 118 e di volontari della Croce rossa, della Misericordia, della Life e dell’Asso Onlus. A salutarla anche tanti agenti di Polizia. L’estremo saluto a Manuela Sacchini, infermiera deceduta a Pescara. Aveva 43 anni Manuela ed era molto conosciuta per i suoi impegni sociali e istituzionali. Al passaggio dell’auto funebre i colleghi l’hanno salutata per l’estremo viatico con uno scrosciante applauso. Lavorava dalla fine del 2017 nel Servizio 118, dopo essere stata impiegata nel pronto soccorso e nel reparto di Terapia Intensiva del “Santo Spirito”. Viveva a Montesilvano (PE). Non era sposata, ma ha lasciato un grande vuoto nella sua famiglia e tra i professionisti e pazienti che la conoscevano. Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Pescara dal 2001.

Coronavirus. Lucetta, l’Infermiera deceduta di Covid-19 assieme al marito. Una delle storie più tristi di questa emergenza. Emergenza Coronavirus. Ecco la storia di Lucetta Amelotti, l’Infermiera deceduta di Covid-19 assieme al marito. Una delle vicende più tristi di questa battaglia impari contro il virus cinese. Lucetta Amelotti aveva 64 anni ed era di Garlasco (PV), città nota per il delitto di Chiara Poggi. Lavorava in un centro analisi e in case di riposo. Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Pavia, che ne ha dato notizia dicendosi vicino alla famiglia e a quanti l’hanno conosciuta. E’ deceduta assieme al marito di 66 anni, Carlo Morandotti. Entrambi erano affetti dal Covid-19. Sono morti assieme, lo stesso giorno (19 marzo 2020) al Policlinico San Matteo di Pavia. E’ deceduto prima lui, poi lei a distanza di qualche ora. La loro è una storia di strazio, legati nella vita dal matrimonio e separati solo per un breve periodo dal Coronavirus, per poi riabbracciarsi post-mortem durante il loro ultimo viatico terreno. “Chissà se ora le loro anime stanno ancora assieme” – si è chiesto una collega di Lucetta che lavorava da tempo come Libera Professionista in un centro prelievi e in una casa di riposo, l’Istituto “Sassi” di Gropello Cairoli (PV). Probabilmente si è infettata stando a perenne contatto con gli Assistiti. Con loro si sono infettati anche la filia Clelia (28 anni), ricoverata al San Matteo, e il figlio. Quasi sicuramente è stato il suo lavoro a portare il contagio a casa sua dove si sono ammalati non soltanto lei e suo marito ma anche la figlia (28 anni), ricoverata, mentre il figlio 38enne, attualmente in Toscana. “Non posso che parlare bene di lei – ha riferito una sua ex-collega in pensione, Luisa Santafede – era una lavoratrice infaticabile, non si risparmiava mai per nessuno, era sempre pronta a cambiare i turni, a lavorare il fine settimana, a dare le sue disponibilità. Aveva degli stupendi occhi azzurri, che mi rimarranno per sempre un mente. Il suo sorriso e la sua grinta riuscivano a trasmettere gioia e tranquillità agli Assistiti”. Addio Lucetta, che tu possa ora riposare finalmente in pace dopo una vita di lavoro.

Coronavirus. Muore Infermiera di 61 anni a Napoli per Covid-19. Il cordoglio dell’OPI. Emergenza Coronavirus. Muore Infermiera di 61 anni a Napoli per Covid-19. Il cordoglio dell’Ordine e del presidente Ciro Carbone: “siamo in guerra, ma non doveva accadere”. Muore Infermiera a Napoli per Covid-19. Aveva 61 anni, lascia un grande vuoto attorno a sé. Non diremo il suo nome, ma ricorderemo il suo sorriso. Anche per questo la chiameremo Serena, nome fittizio creato da noi per proteggere la privacy della collega e sei suoi affetto. Attorno alla sua famiglia si stringe tutta la famiglia professionale partenopea, campana e italiana. Era una persona fantastica, un vero leone, ma non è riuscita a sconfiggere il Coronavirus. Cordoglio in segno di lutto e di vicinanza alla famiglia è stato espresso dal presidente dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Napoli, Ciro Carbone. “Siamo in guerra, lo sappiamo, ma non doveva accadere, siamo affranti, tutti quanti gli Infermieri lo sono a Napoli come nel resto della nazione” – ha spiegato. In questi giorni sono morti tanti Infermieri e professionisti sanitari e socio-sanitari, a Napoli però siamo al primo decesso che riguarda la famiglia Infermieristica. Da giorni di ripetono le proteste sia dell’Opi, sia dei sindacati, sia degli stessi Infermieri: tutti all’unisono chiedono Dispositivi di Protezione Individuale idonei a proteggersi e a proteggere da questo virus bastardo, che sta mietendo vittime in Italia e nel resto del mondo. Addio Serena!

Coronavirus. Deceduta l’Infermiera Daniela Bergamaschi, esperta in lesioni cutanee. Emergenza coronavirus. Addio alla collega Infermiera Daniela Bergamaschi, una delle guerriere dell’ospedale Oglio Po. “Mi sembrava quasi impossibile che con tutti i tuoi “acciacchi” riuscissi a reggere certi ritmi, eppure ce la facevi; da qualche mese ormai stavi combattendo e tanti di noi chiedevano tue notizie nella speranza di poterti rivedere al solito posto; purtroppo rimarrà solo il ricordo di una guerriera che mancherà tanto a tutti noi” la ricorda il collega Superchi. Lo riferiscono i colleghi di Oglioponews.it. Si è arreso il sorriso di Daniela Bergamaschi, infermiera presso l’ospedale Oglio Po e residente a San Martino dall’Argine. Classe 1972, era infermiera ai Poliambulatori, specializzata nella cura delle lesioni cutanee. L’ha voluta ricordare con un bel post su Facebook il collega Stefano Superchi: “Cara Daniela, ci hai lasciato in questo giorno di primavera quando il cielo così azzurro sembra una contraddizione con un dolore così grande; ricorderò per sempre il tuo sorriso e le nostre chiacchierate in pausa sigaretta sulla comune malattia, la complicità quando mi dicevi “noi lo sappiamo”, gli studi per arrivare ai livelli altissimi di professionalità e l’impegno caparbio nel “tuo” ambulatorio di vulnologia, dove centinaia di pazienti entravano un po’ malconci ed uscivano rigenerati. Mi sembrava quasi impossibile che con tutti i tuoi “acciacchi” riuscissi a reggere certi ritmi, eppure ce la facevi; da qualche mese ormai stavi combattendo e tanti di noi chiedevano tue notizie nella speranza di poterti rivedere al solito posto; purtroppo rimarrà solo il ricordo di una guerriera che mancherà tanto a tutti noi, e del tuo sorriso perduto per sempre”.

Coronavirus. Deceduta Infermiera di 41 anni. Addio a Elena, uccisa dal Covid-19. Emergenza Coronavirus. E’ deceduta a Milano una collega Infermiera di 41 anni. Addio a Elena Nitu Rodica. Non è riuscita a sconfiggere il Covid-19. Morta in solitudine. Elena Nitu Rodica è una delle Infermiere più giovani decedute per Coronavirus. Si è spenta da sola a Milano. Tutti muoiono un po’ soli, in questo periodo, è vero, perché a chi se ne va non viene concessa la possibilità di un funerale cristiano. La storia di Elena Nitu Rodica è però ancora più drammatica, perché lei è una di quelle che ha combattuto in prima linea il Coronavirus prima di arrendersi. Lo comunica il collega Giovanni Gardani di Cremona Oggi. Elena, nata nel 1979, era iscritta dal 2014 all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Asti. Quarant’anni appena, originaria della Romania, da 15 anni era in Italia e lavorava come infermiera: all’Oglio Po era arrivata molto presto, nel reparto di Dialisi dell’ospedale, dove si curano situazioni spesso molto delicate e occorre come sempre la massima professionalità, ed è qui che quasi certamente ha contratto il virus. E’ accaduto un mese fa, dopo di che le condizioni di Elena si sono presto aggravate e la donna è stata trasferita a Milano, continuando a lottare per riuscire a guarire o quantomeno a migliorare. Questo non è accaduto: se n’è andata martedì e lo ha fatto purtroppo senza un famigliare vicino, perché Elena in Italia viveva da sola, da quando si era trasferita dalla sua Romania. I genitori e il fratello sono infatti rimasti in patria e hanno preso contatti con l’Ambasciata rumena in Italia per poter riavere la salma. E’ un’amica di Elena a tenere i rapporti, per così dire, diplomatici, sperando di fare in modo che il blocco delle frontiere di queste settimane possa essere superato, quantomeno per poter fare tornare il corpo della 40enne a casa. “Era una ragazza simpatica e allegra, sempre ligia al lavoro, che amava davvero: si dedicava infatti anima e corpo ai suoi pazienti, non si fermava mai” la ricordano i suoi colleghi e le sue colleghe infermiere dell’Oglio Po, che hanno rappresentato, di fatto, la sua famiglia in Italia. Si tratta dell’ennesima vittima tra il personale medico o infermieristico, quello che sta pagando – a livello di categoria professionale – il dazio più alto, essendo sovraesposto al rischio: un particolare che nessuno dovrebbe mai scordare. Buon viaggio Elena!

Coronavirus. Concetta, Infermiera, deceduta per Covid-19. L’ASST le fece il tampone solo post-mortem. Emergenza Coronavirus. Oggi vogliamo ricordare Concetta Lotti, Infermiera alla soglia della pensione, deceduta per Covid-19. L’Azienda sanitaria non valutò di farle il tampone, poi eseguito post-mortem. Lei era a casa in auto-quarantena. E’ deceduta mentre era casa in auto-quarantena per febbre alta, tosse e dolori diffusi. Lavorava all’Ospedale “Asilo Vittoria” di Mortara (Pavia) ed era alla soglia della tanta agognata pensione. Concetta Lotti, 62 anni, non percepirà mai quei soldi perché se n’è andata senza nemmeno poter capire se si era infettata o meno di Covid-19. E’ deceduta qualche giorno fa, l’Asl ha scoperto la sua infezione da Coronavirus solo post-mortem.

Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Brindisi ed era Infermiera dal lontano 1983. L’OPI oggi esprime il suo pieno cordoglio nei confronti della famiglia della scomparsa. Perde una delle professioniste più anziane, la cui morte crea sgomento per come è avvenuta. Lei lavorava presso la Riabilitazione specialistica dell’Ospedale “Asilo Vittoria”. E’ deceduta da sola in casa, senza un aiuto, senza il conforto di nessuno in un momento assai difficile per tutta la nazione. Aveva un sorriso sempre per tutti, sapeva come trasmettere serenità. Era una Infermiera che partita dal Sud era riuscita ad affermarsi al Nord, in quel nord pavese che l’ha accolta come una figlia e che non l’ha saputa proteggere dal virus che uccide e che non guarda in faccia a nessuno. Lei era sempre disponibile con tutti, ecco perché vederla morire da sola ha riempito di tristezza i cuori di chi l’ha conosciuta come persona e come professionista. “Ci lascia un grande vuoto come persona e come collega – spiega Patrizia Capra, coordinatrice infermieristica del suo Reparto – ci rattrista ancora di più sapere che la sua morte è avvenuta in solitudine e così improvvisamente; siamo veramente affranti, non riusciamo ad accettarlo, era così buone e sempre disponibile con tutti”. Come dicevamo Concetta era di origini pugliesi. Approdò a Mortara nel 2000, anche se era cittadina di Parona Lomellina (PV). Il 18 marzo si era messa in malattia, stava male, aveva la febbre. Sette giorni dopo il decesso. A trovarla i vigili del fuoco che erano stati avvisati da familiari e colleghi: era morta, riversa nel suo giaciglio, l’ultimo prima dell’estremo viatico ultra-terreno. Buon viaggio Concetta!

Coronavirus. Infermiera si uccide gettandosi nel Piave. Lavorava in una Rianimazione con Pazienti COVID-19. Emergenza Coronavirus. Una Infermiera di 49 anni si è suicidata gettandosi del fiume Piave. Lavorava in una Terapia Intensiva con Pazienti affetti da COVID-19. Il suicidio è sempre una cosa di inatteso, di inspiegabile, di innaturale. E lo è quando a compiere il gesto è una Infermiera che in questi giorni si stava battendo contro il Coronavirus. Lavorava in Rianimazione, era in malattia a casa ed era in attesa dell’esito del tampone. Forse lo stress e la disperazione l’hanno spinta verso il folle gesto. Sul caso è stata aperta una inchiesta e indaga la Procura veneziana. Un evento che mette i brividi e che aggiunge morte a morte. Una infermiera di 49 anni, che lavorava da poco in un reparto con pazienti da Covid-19, si è suicidato gettandosi nel Piave, a Cortellazzo (Venezia). La donna lavorava all’ospedale di Jesolo divenuto da alcuni giorni una delle strutture in campo per la lotta al coronavirus. L’infermiera, che viveva sola, era a casa da due giorni, perché febbricitante. Era stata anche sottoposta a tampone, ma non le era stato ancora comunicato l’esito. E’ quanto riferiscono i colleghi di La Repubblica nelle edizioni di Jesolo. Ha creato sconcerto e dolore in tutta l’Azienda sanitaria l’improvvisa scomparsa dell’infermiera di 49 anni che prestava servizio all’ospedale di Jesolo. “Era una persona dedita al lavoro, una risorsa insostituibile per i colleghi e per questa Azienda sanitaria – ricorda il direttore generale dell’Ulss 4, Carlo Bramezza – non a caso, non appena appreso la notizia della sua scomparsa, i colleghi dell’ospedale di Jesolo che in questi giorni sono impegnati sul fronte coronavirus sono rimasti profondamente colpiti e scossi dall’accaduto. A nome dell’Azienda sanitaria che rappresento esprimo il più profondo cordoglio e vicinanza alla famiglia della “nostra” infermiera” S.L., queste le sue iniziali, era stata assunta nel 1991 all’Ulss4. Sino al 2012 aveva lavorato nel reparto di Chirurgia all’ospedale di Jesolo poi, alla luce della riorganizzazione dell’ospedale, era stata trasferita nella chirurgia di San Donà di Piave. Dal 2016 era ritornata a prestare servizio all’ospedale del litorale, nella Medicina Fisica e Riabilitativa, e pochi giorni fa si era offerta di lavorare nel nuovo reparto malattie infettive dove aveva collaborato all’allestimento e all’avvio delle attività.

Nell’unità operativa in cui attualmente sono ricoverati 25 pazienti coronavirus positivi S.L. aveva partecipato con i colleghi alla formazione per la gestione in sicurezza dei pazienti e aveva già svolto tre turni lavorativi.

Coronavirus. Nel Bergamasco si piange per la morte di Luciano Mazza, infermiere generico. Lo ha ucciso il Covid-19. Emergenza Coronavirus. Nel Bergamasco si piange per la morte di Luciano Mazza, 65 anni, infermiere generico. Lo ha ucciso il Covid-19, di cui si era ammalato probabilmente in corsia. Aveva 65 anni e un gran sorriso. Era un Infermiere Generico, di quelli che hanno preferito il lavoro all’impegno formativo, ma non per questo non era considerato un professionista della salute. E’ deceduto per Coronavirus. Si chiamava Luciano Mazza. Essendo un Infermiere Generico non era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Bergamo, come noto presieduto da Gianluca Solitro, che ribadisce tuttavia tutta la sua vicinanza e il suo cordoglio alla famiglia del Mazza. La figlia si era appena laureata, ma non ha potuto festeggiare con l’amato papà. Lavorava al Policlinico San Marco di Zingonia (BG). E’ deceduto di Coronavirus proprio ed era vicino alla pensione. Buon viaggio Luciano.

·        Gli Eroi ed il Caporalato.

Coronavirus, la verità sulla missione dei medici cubani in Italia. Glauco Maggi, Giornalista a NYC per Libero Quotidiano, il 26 marzo 2020. Che vergogna vedere che grandi giornali e giornalisti in Italia hanno esaltato la missione dei medici cubani, presentati come “volontari” spinti solo dalla solidarietà umana, e senza alcun ricavo se non il vitto e l’alloggio. Non ci voleva molto a googulare e scoprire la verità, ma perchè smontare il mito caro a Bernie Sanders?  “L’ “esercito di solidarietà dei camici" che Cuba vende, maschera una moderna forma di sfruttamento del lavoro. Le testimonianze e le lamentele al riguardo ci consentono di stimare che il regime trattenga tra il 70 e il 90% dello stipendio pagato ai medici dai paesi di accoglienza”, si legge nell’articolo pubblicato il 21 novembre 2019 da ADNCuba, un sito di stampa libera in spagnolo curato da esuli cubani. “Anche sotto queste condizioni, i cubani rispondono all'appello del governo perché il loro reddito sull'isola è di soli 60 dollari al mese e qualsiasi importo superiore può sembrare un sogno. "Andare all’estero", nell'immaginario sociale cubano, implica sempre la possibilità di prosperare economicamente”.  Chi non ci crede può andare a leggere la lunga inchiesta di denuncia della BBC, il 14 maggio 2019, sullo stesso argomento. Trovate il link alla fine della traduzione completa dell’articolo di ADN Cuba, il cui titolo è: "Lo sfruttamento dei medici cubani: un business che si sta sgretolando”. “L'esportazione di servizi professionali”, scrive ADNCuba, “ha contribuito a Cuba oltre 10 miliardi di dollari nel 2018, secondo un rapporto dell'Organizzazione mondiale del commercio. Dal canto suo, l'Annuario statistico di Cuba, relativo al 2018, riporta circa 6 milioni e 400 mila di "pesos" entrati nel bilancio sotto la voce "Servizi di salute umana e servizi di assistenza sociale". La cifra indicava più della metà delle esportazioni totali di servizi di quell’anno. In aprile, i medici cubani hanno lasciato El Salvador, dopo che il sindacato locale ha presentato una denuncia alla Procura, sostenendo che i cubani esercitavano lì senza le necessarie autorizzazioni. A novembre il governo ecuadoriano ha annullato l'accordo sanitario con Cuba e ha rimandato sull'isola i 400 cubani che facevano parte della brigata medica. La Bolivia, dopo le dimissioni di Evo Morales, ha chiesto alle autorità cubane di ritirare gli oltre 700 professionisti dal settore. L'espansione dell'accesso a Internet a Cuba ha portato sempre più cittadini cubani a prendere coscienza di questi fatti e cresce l'impatto sociale delle notizie sui "disertori medici" che non possono rientrare nel paese per 8 anni come punizione; sui medici rapiti dai terroristi in aree pericolose e sulla morte di medici lontani dalla loro terra. Juan Manuel Obana, ad esempio, è morto l'11 settembre in un bagno dell'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, dopo essere stato espulso dalla Brigata medica cubana in Mauritania. Il 29 ottobre, 200 giorni dopo il completamento del rapimento di Landy Rodríguez e Assel Herrera in Kenya, i due dottori sono stati trasferiti in Somalia dai terroristi jihadisti di Al Shabbab. Da allora, la loro condizione fisica è sconosciuta e il governo cubano ha emesso solo un paio di timide dichiarazioni. Molti medici sono sfuggiti alle missioni e denunciano un tipico schema di “tratta di esseri umani”: minacce, mancato pagamento, conservazione dei passaporti e restrizioni ai movimenti. La tratta di esseri umani è spesso più associata alla prostituzione coatta, ma la categoria copre tutte le imprese basate sul furto della libertà altrui a scopo di lucro. In effetti, gli esperti ritengono che il traffico di lavoro sia molto più frequente nel mondo rispetto al traffico di sesso. Solo nel Brasile, Cuba ha guadagnato oltre 330 milioni di dollari all'anno tra il 2013 e il 2018, a spese dei professionisti della salute. Mentre ciò avviene, il sistema sanitario a cui i comuni cubani hanno accesso all'interno dell'isola si sta progressivamente deteriorando. Persistono reclami per le cattive condizioni dei centri ospedalieri. Fotografie di servizi igienici sporchi, lenzuola strappate e folle di pazienti circolano sempre più sui social network accompagnati da messaggi di indignazione. La mancanza di medicine e forniture colpisce le persone, che perdono la paura di rivelare pubblicamente il loro dolore e le loro necessità di base. Cuba è una “potenza medica" in grado di offrire assistenza di prim'ordine a personalità come Hugo Chávez, Diego Armando Maradona, Florencia Kirchner o David Granger; ma incapace di parlare onestamente delle epidemie di Dengue (virus portato dalle zanzare) che colpiscono i cubani. Una gestione trasparente delle informazioni contribuirebbe a percepire il rischio, il che equivale a salvare vite umane. Oltre al vantaggio economico, la tratta di medici travestiti da lavoro umanitario ottiene simpatia e sostegno internazionali per il governo cubano. È il volto seducente di un regime totalitario che reprime pacifici avversari, limita le libertà individuali dei cittadini e mantiene una stretta vigilanza sulla società civile”.  Il COVID 19 è venuto a fagiolo. Non ci voleva molto, comunque, prima di pubblicare foto e interviste a medici sfruttati da un regime comunista e, va da sè, politicamente imbavagliati, descrivere la verità, il contesto del fenomeno. Ma il pubblico italiano ama ancora Che Guevara e Fidel, perchè svegliarlo dal sogno?   E questo è il link all’articolo della BBC. Così anche i reporter fluenti in inglese che amano la BBC, e che snobbano gli esuli cubani di Miami filo Trump, si possono dare una mossa e ristabilire un minimo di decenza informativa.

"Siamo incazzati", l'urlo dei medici sfruttati. Da adnkronos.com il 22/11/2017. Qualche spicciolo, pochi euro, o un pasto veloce e magari freddo. E' quello che si ritrovano in mano i giovani medici italiani "ridotti a paghe da fame". Una situazione allarmante denunciata sui social network, con molta rabbia, nei gruppi che danno voce alla frustrazione di una generazione di laureati e specializzati 'under 30' che non riesce a mettere insieme uno stipendio decente. Avevano sognato il camice bianco e si ritrovano ad elemosinare la paga dopo una giornata passata in ambulanza a salvare vite. Precari di lusso potrebbe dire qualcuno, ma questi ragazzi non hanno molta voglia di scherzare. Si parla della loro professione, che amano, e della loro vita che sfugge via. Su Facebook il gruppo "Giovani medici anti sfruttamento", 2.800 utenti iscritti, raccoglie le storie e gli sfoghi dei dottori e delle dottoresse, spesso under 35. Di chi ancora non è strutturato in ospedali o Asl, oppure sta aspettando per il posto nella scuola di specializzazione e cerca di lavorare e studiare. Sono tante le prime esperienze negative con il mondo del lavoro e le difficoltà nel sopravvivere tra offerte assurde e evidenti sfruttamenti spacciati come impieghi. "I social - spiega all'AdnKronos il presidente del Segretariato italiano giovani medici Andrea Silenzi - raccontano tante realtà c'è un limbo nel passaggio dalla laurea al primo impiego. Nelle grandi città per i giovani medici alla ricerca di un lavoro ci sono molte trappole e situazioni poco chiare nelle cooperative che gestiscono alcuni servizi di emergenza urgenza. In molti ospedali -aggiunge - lavorano fianco a fianco camici bianchi strutturati e altri a contratto pagati per le ore di prestazioni. Fanno le notti e le guardie entrambi, ma sono pagati in modo diverso". "Il becchino e il medico - aggiunge Silenzi - non sono più lavori sicuri come una volta. C'è una grave crisi anche nel nostro settore. Colpa della mancata programmazioni a livello nazionale. Si straparla di mancanza di medici e poi ci sono tanti disoccupati o sfruttati. Le storie di colleghi pagati con pizza, birra o qualche altra cosa le conosciamo e capiamo la rabbia che sta montando sui social". Nel mondo dello sport, ad esempio, è diffusa l'abitudine di pagare pochi euro l'ora, quando la presenza di un medico in una struttura o sul campo di gara può essere determinante in caso di arresto cardiaco. La generazione degli 'sfiorati' non ci sta ad essere messa nell'angolo. Lotta, denuncia e cerca una visibilità che può smuovere l'apatia della politica verso i giovani. Qualcosa sembra muoversi. La Commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento alla legge di conversione del decreto fiscale che stabilisce il diritto a un compenso minimo al di sotto del quale non si potrà scendere che deve essere "proporzionato alla qualità e quantità del lavoro". I giovani medici hanno aderito e "il 30 novembre saremo a Roma alla manifestazione per l'equo compenso - afferma Silenzi - si deve fermare lo sfruttamento delle partite Iva anche nel settore sanitario. Poi stiamo lavorando ad un Codice di comportamento per il giovane medico che potrò essere d'aiuto per muoversi nelle tante realtà locali e potrà dare dei punti di riferimento per evitare di cadere in situazioni anomale o al limite della legalità". Perché dopo una giornata in ambulanza non arrivi la proposta di una pizza e di una birra ma un assegno.

Torino, la protesta degli infermieri vestiti con i sacchi dell'immondizia: "Altro che eroi, siamo sottopagati". Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Mariachiara Giacosa su La Repubblica.it I sanitari si incatenano sotto la sede della Regione: "Abbiamo lavorato in condizioni pessime, 40 di noi sono morti: pretendiamo rispetto". I camici a terra, i corpi protetti con i sacchi dell'immondizia, le mani incatenate. Gli infermieri in prima linea nell'emergenza covid protestano sotto la Regione per chiedere il giusto riconoscimento dopo mesi di lavoro nei reparti degli ospedali. "Avevamo mascherine contate, pochi dispositivi di sicurezza, abbiamo avuto paura" raccontano gli operatori sanitari che denunciano le condizioni di lavoro in questi mesi e la mancanza ora di un giusto riconoscimento economico, che era stato promesso dalla Regione e che finora non è arrivato. In mattinata saranno ricevuti dal presidente Alberto Cirio che ha previsto 37 milioni di euro, da aggiungere ai 18 del governo, per finanziare il bonus in busta paga per gli operatori sanitari impegnati nell'emergenza coronavirus. A Torino gli infermieri si incatenano: "Siamo eroi dimenticati" "Ci hanno anche escluso dal tavolo che dovrebbe organizzare il bonus in busta paga per i sanitari perché non abbiamo firmato il contratto nazionale" attacca Francesco Coppolella segretario piemontese del Nursind che rappresenta 4mila infermieri. "Oggi siamo qui per chiedere conto delle vostre promesse - si legge nella lettera letta in piazza mentre i partecipanti al sit in erano sdraiati a terra - questi che vedete alle mie spalle e rappresentano i 40 infermieri morti: hanno perso la loro vita per salvarne altre. I nostri sono stipendi inadeguati, nessun bonus e nessun premio sanerà le nostre perdite ma un segnale di rispetto lo pretendiamo".

Lodovico Poletto per “la Stampa” il 21 maggio 2020. Le questioni sono due, e coincidono: la prima è legata al portafoglio, che è mezzo vuoto. La seconda l'hanno battezzata la «memoria corta». «E da eroi, quando la gente moriva in corsia siamo diventati dei rompiscatole cosmici. Vi ricordate le foto dei colleghi con i sacchi della spazzatura addosso al posti dei camici? Ecco: quello dice esattamente come è ridotta la nostra sanità». Nella città che ha ritrovato il traffico, i mercati pieni, i bar mezzi aperti e la gente che prende il sole sul lungo Po, la rivolta degli infermieri che si sentono spremuti e abbandonati stride con le lenzuola ancora appese ai balconi: «Grazie ai medici e agli infermieri». E sembra di avere a che fare con due città diverse, che fanno a botte tra loro. Da una parte ci sono le vagonate di cibo portate in ospedale per rinfrancare lo spirito e il corpo di chi lavorava nei reparti Covid e non Covid, le montagne di uova di Pasqua regalate ai lavoratori della sanità nei giorni della festa e della grande paura, e dall' altra i ricordi: «Ci dicevano di non usare le mascherine. Perché non ce n' erano. E le Ffp2 dovevamo lasciarle ai malati gravi» ricorda Daniele, fratello di un' altra infermiera che ha fatto la sua guerra. E adesso si sente abbandonata. E delusa. Anzi, più ancora tradita dopo aver dato tutto nei momenti dell' emergenza. «Eh sì, la gente ci applaudiva. Poi chi aveva promesso prebende e compensi, ci ha fatto l' elemosina. Un aumento nello stipendio di marzo e di un euro per ogni turno fatto. Le sembra normale? Prima ti dicono bravo, eroe, fantastico. Poi ti umiliano con un' elemosina» dice Claudio Delli Carri, sindacalista ed infermiere. Già questa storia dell' euro in più a turno è uno scandalo che rimbalza in ogni chat, in ogni discussione, in ogni pausa caffè dove c' è un infermiere presente. Tradotto in soldoni quell' euro in più vuol dire una pizza al mese extra: 20 euro su per giù. Anche se poi alla fine qualche soldo in più arriverà. Perché alcune Asl del Piemonte hanno capito che non era così giusto. E hanno fatto scelte diverse. Ora, è vero che nessuno si aspettava una pioggia d' oro. Che tutti avevano ben chiaro che la Sanità regionale ha il fiato corto dopo tutti soldi spesi in questo periodo. E che a fine anno sarà anche peggio. Perché quando saranno presentati i bilanci al Ministero - con gli obiettivi non raggiunti - i trasferimenti diminuiranno. Ma un aumento così piccolo è davvero un' offesa. E Claudio Delli Carri, infermiere alle Molinette, ma anche segretario regionale di un sindacato che si chiama Nursing Up chiede giustizia. Perché, alla fine, su 24 mila e rotti infermieri ed Oss del Piemonte, il 14 per cento è rimasto contagiato dal Coronavirus. E sono 3 mila e 300 cristiani. Un esercito. Che guadagna - quando va bene, ha 30 anni di anzianità e lavora in terapia intensiva - 1800 euro al mese. Ecco la rabbia nasce da lì. E investe tutti. La Regione in primis. Poi lo Stato. Il ministero. Il premier Conte e tutti quanti. E non solo da ieri che sono scesi in piazza i lavoratori della sanità del sindacato Nursind per denunciare altre carenze, ma da più lontano. Da quel silenzio terribile con gli infermieri e i medici muti nel cortile del più grande, il più organizzato ospedale del Piemonte: le Molinette di Torino. Era il 30 di aprile. «Il nostro silenzio è per sottolineare come dalla Regione, in questi mesi di emergenza, abbiamo avuto soltanto silenzi» dicevano. Puntando il dito sulle stesse cose di ieri in piazza Castello: la mancanza di Dpi, le mascherine che non c' erano, i turni massacranti, la paura di infettarsi, i colleghi malati, e via elencando. L' euro in più - da incassare come extra nei mesi di marzo e aprile (ma poi anche maggio e fino a fine emergenza) è soltanto un' ennesima beffa. Che non riguarda direttamente la Regione, la sfiora «e arriva giù giù, fino a Roma», come dice il signor Delli Carri. Le catene ai polsi degli infermieri, i corpi riversi sull' asfalto sono invece la rappresentazione del disagio, che ha a che vedere con tutte le carenze riscontrate in questo periodo. I soldi, per quelli del Nursind sono solo un dettaglio. E il signor Francesco Coppolella, che è il segretario di questo sindacato, non ha dubbi: «Ci hanno trasformati negli untori degli ospedali. Hanno abolito la quarantena preventiva e ci hanno rispediti in corsia». Gli eroi sono stati accusati di essere la causa di molti mali. Ora che l' emergenza è finta arriva l' aumento. Se va bene con quei soldi si può comprare una pizza e una birra.

Inchiesta di Marilena Vinci, giornalista di ''Stasera Italia'' l'11 aprile 2020. L’infermiera Patricia, esausta dopo un lungo turno, come le accade frequentemente di fare, è amareggiata e non trattiene le lacrime: “abbiamo lavorato in condizioni difficili, anche senza dpi (dispositivi di protezione individuale), con mascherine chirurgiche e protocolli confusionari. Alla paura e all'ansia del contagio si aggiungono l'insonnia e lo stress psicoemotivo”. Igor Vannoli ha 42 anni e fa l’infermiere da dieci. Anche lui è un precario amareggiato: “ho fatto il primo ricovero per covid-19 nel turno di notte. – ci racconta - Ho una moglie e un figlio di 3 anni che non vedo da un mese perché mi sono auto isolato visti i rischi. Ora vivo da solo e li vedo soltanto sullo schermo del telefonino”. Anche Silvia Fiorito ha famiglia e due figli piccoli. Lavora con tutti casi Covid-19 positivi e si sente carne da macello. “Il nostro coraggio tra un mese varrà zero. Ci hanno comunicato che purtroppo non è possibile rinnovare i nostri contratti. – dice - Prima facevo dei ricoveri ordinari, ma per un ordine di servizio sono stata messa nelle camere di contumacia ad alto rischio infettivo. Non so con quale criterio abbiano scelto di assegnare me e i colleghi precari tralasciando i colleghi di ruolo che fino ad un mese fa chiedevano di fare gli straordinari e ora sono quelli che sono stati quasi tutti esonerati dall’area ad altro rischio”. Al loro posto arriveranno colleghi entrati in graduatoria ma moltissimi di loro sono giovani e senza la necessaria esperienza. Quello che chiedono è almeno la proroga di un anno del loro contratto per fare affiancamento a chi si troverà nel bel mezzo dell’emergenza coronavirus perché, spiega Igor, “già lavorare in terapia intensiva richiede un'alta specializzazione, figuriamoci in questo momento che il pericolo di infettarsi è cento volte maggiore. E' un paradosso all'italiana: si cerca personale e quando si ha quello formato si manda a casa”. Silvia Fiorito, e come lei i suoi colleghi, non si fa una ragione di questa illogicità e chiede “perché nel bel mezzo di una pandemia l’ASL che ha già personale sanitario competente e formato con contratti in scadenza ci manda a casa nonostante in Italia si stia reclutando personale sanitario? Noi infermieri precari non abbiamo potuto partecipare a queste procedure di arruolamento straordinario perché avevamo un contratto in corso”.

Vi sentite un po' degli eroi a scadenza?

IGOR: “il senso di frustrazione e paura è tanto perché la prospettiva di arrivare a fine turno senza infettarsi è una cosa che prima non esisteva. Quindi a livello emotivo è cambiato il modo di fare il nostro lavoro, ma non ci sentiamo degli eroi”.

SILVIA: “Nonostante tutte le belle parole nei confronti del personale sanitario lasceranno a casa gli eroi. Eppure Conte ha detto non ci dimenticheremo di voi... Ho scritto una lunga email al Ministro della Salute Speranza, non so se l'abbia letta...".

Intanto, dopo la messa in onda del servizio a Stasera Italia, Matteo Salvini ha scritto una lettera aperta al presidente della Regione Nicola Zingaretti invitandolo a stabilizzare chi “ha lottato in prima linea con spirito di sacrificio e abnegazione mettendo a rischio anche la propria vita”. 

"Noi, infermieri sfruttati a danno dei pazienti". Sono professionisti indispensabili e svolgono compiti delicati. Ma in molte strutture sono costretti a turni massacranti e rischiano il posto di lavoro se denunciano condizioni sanitarie inadeguate. Maurizio De Fazio il 5 giugno 2017 su L'Espresso. Infermieri sviliti, ricattati, ridotti a compiti da factotum. Sottopagati e alle prese con contratti 'creativi' e senza tutele. Spostati da un reparto all’altro, di giorno e di notte, e costretti a fronteggiare da soli corsie affollate da decine di pazienti. Maria (il nome è di fantasia) di origine senegalese, vive in Italia da 34 anni ed è infermiera professionista da un quarto di secolo. Laureata in Infermieristica, per sei anni ha lavorato, di notte, in una casa di riposo del Piemonte. Faceva di tutto: il giro letti, le pulizie, le medicazioni, i prelievi; somministrava le terapie, imboccava gli ospiti, apparecchiava e sparecchiava. Poi qualche settimana fa è stata licenziata. Indirettamente, da uno studio di infermieri associati a cui era iscritta. Così è cominciata la sua battaglia: ha deciso di depositare una denuncia penale per razzismo nei suoi confronti e per le violenze contro gli anziani residenti nel suo ex luogo di lavoro. Ci sono persino delle morti nella storia che ci rivela e che sta riferendo in questi giorni ai magistrati; il suo racconto è suffragato dalle parole di Massimo, anche lui infermiere professionista, un suo collega in organico da dieci anni in quella casa di riposo che sembra uscita da un racconto dell'orrore. “Ho chiesto agli inquirenti di muoversi in tempi stretti, prima che la situazione degeneri completamente. Perché gli episodi che denuncio sono poca cosa rispetto all’assurdità del quadro generale” sostiene Maria. “Ci vorrebbe una legge nazionale che istituisca l’obbligatorietà delle telecamere in tutti gli ospedali e case di riposo. Faccio un appello alla ministra Lorenzin e al Parlamento. Quello che noi segnaliamo è solo una punta dell’iceberg. Se piazzassimo le telecamere in tutti i reparti verrebbero a galla fatti ancora più drammatici” aggiunge Massimo. Nella struttura dove lavora lui e lavorava lei, non c’è nemmeno una telecamera interna.

Contratti fittizi e straordinari non pagati. Maria: “In questo studio di infermieri associati siamo in 170, assunti a tempo indeterminato, in modo fittizio. La paga è di poco più di 10 euro l’ora: con questi soldi dobbiamo pagarci l’Empapi, l’Ente nazionale di previdenza e assistenza della professione infermieristica. Io sono una mamma, ho due figli a carico e le assicuro che, versate le quote Empapi, non mi rimane granché. Per ogni nostra prestazione lo Studio incassa il doppio. Ci tiene sotto scacco”. E Massimo aggiunge: “Non abbiamo nessun tipo di garanzia né per le malattie, né per le ferie: ci vengono concesse, ma a spese nostre. E non percepiamo mai straordinari”.

Licenziata per aver rotto l'omertà. Maria: “Sono stata cacciata non per miei errori o negligenze ma perché ero diventata scomoda. Nella nostra casa di riposo gli Oss (operatori socio-sanitari) insultavano, picchiavano e maltrattavano gli ospiti. Io ho denunciato questi fatti e il risultato è che mi hanno dato il benservito. Senza nessuna lettera di licenziamento. Se parli, se rompi il patto d’omertà, sei fuori. Anni fa una mia collega, allontanata come me da un giorno all’altro dallo studio, si è suicidata”. “Davo fastidio perché controllavo tutto, come m’hanno insegnato alla scuola di Infermiera. E poi il colore della mia pelle non piaceva. Il direttore generale me lo aveva promesso: prima o poi ti faccio licenziare, non voglio neri nella mia clinica”.

Turno di notte: un'infermiera per 70 pazienti. “In tutto siamo sei infermieri, e altrettanti Oss. Di notte sono sempre stata l’unica infermiera di turno per settanta ospiti. Sono una professionista, laureata, ma ho dovuto a lungo supplire alle inefficienze degli operatori socio-sanitari che sonnecchiano e fanno squadra tra di loro” racconta Maria rievocando i turni nella casa di riposo. E aggiunge Massimo, il suo collega: “Dobbiamo idratare gli anziani, altrimenti lasciati a liquefarsi; mobilizzarli; medicarli a causa delle lesioni provocate dalla disattenzione delle operatrici. E anche il personale medico non brilla certo per l’impegno profuso. Asserire che se ne fregano è un generoso eufemismo. Occorre stimolarli a fare le cose, ricordargliele sul quaderno”. Ma non basta: “dobbiamo accendere e spegnere le luci, aprire e chiudere i cancelli, sbloccare gli ascensori quando si bloccano…”.

Anziani maltrattati nella struttura "a 4 stelle". Spiega ancora Maria: “Nella mia denuncia alle autorità giudiziarie ho vuotato il sacco sugli schiaffi, le offese, le urla disumane lanciate dagli Oss agli ospiti col silenzio-assenso del direttore. Due di loro sono deceduti: non stavano bene in salute, ma sono stati lo stesso presi a ceffoni. E pensare che dovrebbe essere una struttura a 4 stelle”. Le fa eco Massimo: “Altri hanno perso la vita perché trascurati dal punto di vista dell’assistenza: soffrivano già di patologie come il diabete o l’ipertensione ma ci si è dimenticati di loro, e quando li si è mandati al pronto soccorso non c’era più nulla da fare. Inoltre sono all’ordine del giorno le cadute rovinose e le fratture del femore”.

Manca l'igiene. “Vengono disattesi anche i precetti elementari. Gli Oss sono capaci di usare lo stesso guanto monouso per quattro o cinque pazienti alla volta, scatenando infezioni serie. Ma se provi a rimproverarli, loro sibilano stizziti che il direttore della casa di riposo è d’accordo. Il nostro Studio, dal canto suo, minaccia rappresaglie ogni volta che facciamo notare questi comportamenti. E in sindacati sono totalmente assenti.

"Si perde il legame tra paziente e infermiere". Per gli anziani il personale paramedico costituisce un po’ una seconda famiglia. Vorrebbero socializzare, condividere l’album dei ricordi, farsi confortare. In questi casi il rapporto psicologico è fondamentale. Ma gli infermieri in servizio sono sempre pochi. E non c’è tempo da perdere. “Per il troppo lavoro da svolgere, a volte non riesco neanche a guardarli in faccia. Figurarsi se riusciamo a instaurare un qualche rapporto empatico” conclude Massimo: “Siamo delle macchinette che rimbalzano da un piano all’altro, da una stanza alla successiva per fare quello che c’è da fare subito e che gli altri non fanno o fanno male”. L'autore ringrazia per la collaborazione fornita il portale nurse24.it.

Il “caporalato” infermieristico: la regione paga 25€/h, il lavoratore ne percepisce 13,50. Redazione nursetimes.org il 06/08/20160.  Gent.le Direttore, recentemente leggevo, con infinito piacere, di un piano per abolire il “caporalato nelle campagne Pugliesi e della Basilicata” (Azienda di pomodori che dice no al caporalato e assume i migranti).  Leggiamo anche e da sempre che i produttori, come nel caso delle coltivazioni di pomodori o grano percepiscono poco nonostante il fatto che il prodotto che arriva sulla nostra tavola costi molto di più.  Dalla produzione alla tavola dei consumatori ci sono degli aumenti inspiegabili. Spesso c’è stupore nel sapere che un chilo di grano viene pagato pochi centesimi al produttore, mentre il pane derivante da “quel grano”, anche lavorato in modo molto semplice, arriva alla tavola del consumatore a costi decisamente molto elevati.

Nulla da dire per la retribuzione di chi lavora il pane, ma, chi lo distribuisce probabilmente dovrebbe essere un pochino morigerato? Caporalato secondo l’enciclopedia Treccani, è una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali. La politica, almeno a parole, si sta spendendo in favore dei principi di cui sopra, ma per i contadini. Perché non spendere due parole per gli Infermieri? Nel caso del caporalato, tra i contadini, sono morti alcuni lavoratori sfruttati, mal pagati e non segnati.

Qual è la differenza per le assunzioni degli Infermieri in società esternalizzate? Tra gli infermieri il gioco è molto più sottile, anche se non meno pericoloso?  Sono anni che frequento il mondo degli Infermieri. Sono anni che hanno introdotto le esternalizzazioni dei servizi. Le ragioni per giustificare tale scelta sono state diverse, tipo:

lo stato d’emergenza, negli ospedali c’era il blocco del turnover, ma gli infermieri servivano.

Lo sblocco del turnover è stato annunciato, di gran cassa, quindi gli infermieri verranno assunti? No! La regione Lazio è tra quelle che hanno numerosi debiti quindi non possono assumere, però possono spendere di più con le società esternalizzate! Ora dicono che hanno fatto un buon lavoro, sarebbero quasi rientrati dei debiti e approfittando del Giubileo, iniziato da un bel po’ si potrà assumere ma “tempo determinato” e/o stabilizzare i precari. Risultato: “nella ASL che comprende l’Ospedale Grassi di Ostia sono stati assunti 8/9 infermieri a tempo determinato e molti di più in service con società esternalizzate”. 

Aimè, sfugge a molti, il principio di risparmio utilizzato? I politici coinvolti e chiamati in causa, più e più volte non rispondono, o comunque autorizzano l’uso degli infermieri in service.

Perché essere contrari all’assunzione d’infermieri in Service? Per cominciare l’assunzione d’infermieri in service vuol dire che una società che può essere una cooperativa, società interinale o qualcosa di simile assume gli infermieri, il cui stipendio  può variare dagli euro 13.50 l’ora (per i più fortunati), fino a pseudo generose offerte di tirocinio gratuito. I contribuenti, ignari, per il lavoro degli esternalizzati, pagano per loro, gli Infermieri in Service molto, molto di più! Alcuni colleghi, che non biasimo anche se li vorrei più coraggiosi, hanno accettato di lavorare gratuitamente, nella “speranzosa” ipotesi che prima o poi, qualcuno si accorga di loro e li assuma. Nell’attesa talune ditte, è successo con le ditte figlie del sub appalto ARES, falliscono miseramente, benché non abbiano speso un euro per i lavoratori. Certi fallimenti dovrebbero essere meritevoli di accertamenti approfonditi da parte della Guardia di Finanza. I soldi erano, soldi pubblici. I lavoratori infermieri che lavorano in service, nonostante lo sfruttamento, debbono rispondere penalmente e civilmente della loro attività, quindi debbono “autofinanziarsi” un assicurazione e i corsi di aggiornamento.

In molti hanno chiesto come mai una differenza di retribuzione così alta tra lo stipendio che percepisce l’infermiere e quello che paga la Regione? Anche in questo caso le risposte sono state diverse. La Regione pagherebbe di più perché corrisponderebbe alla ditta il “rischio imprenditoriale”. Succede però, che se per deifallace varie la Regione non paghi, la ditta esternalizzante, nonostante il riconoscimento del rischio imprenditoriale, non retribuisca gli infermieri! Quindi le differenze retributive? Gli infermieri in attesa di trasferimento, che vorrebbero poter lavorare con profitto vicino ai propri affetti, non lo possono fare.    I posti sono occupati dal personale assunto in service, che costa di più, molto di più, quindi non mi spiego come mai si debbano prediligere le assunzioni in service rispetto alle assunzioni in ruolo. Gli infermieri a tempo determinato, paradossalmente, sono più fortunati perché un domani, nel caso un concorso pubblico, possono documentare un anzianità maggiore. Ciò nonostante di concorsi si parla poco o nulla! Il lavoro degli infermieri in service non sembra essere distante, come caratteristiche, al lavoro sotto caporalato, ma reso legale. La politica dovrebbe impegnarsi per una risoluzione. Le  chiavi possibili esistono ma, le debbono volere!  Non è più possibile derogare oltre. Ci sono colleghi che lavorano nelle condizioni sopra citate da oltre 10 anni. Bandiere al vento senza diritti, senza possibilità di parola! Questi i giorni in cui due colleghe, rispettivamente, assunte presso una struttura esternalizzata e un’altra a tempo determinato, mi hanno comunicato che si sarebbero licenziate. Rinunciavano al lavoro. La stanchezza le ha rese esanimi. Loro mi hanno raccontato la stessa cosa, vale a dire che sono stufe di cambiare reparti, su reparti, ogni volta che cominciano ad inserirsi in un equipe e/o struttura debbono cambiare.

Le strutture ospedaliere, di uno stesso ospedale, non sono organizzate con criteri simili. Vale a dire che i materiali, i presidi non sono disposti nelle stesse modalità. Poca cosa? Immaginate a dover lavorare nell’assistenza, anche la semplice ricerca di un lenzuolo diventerebbe un problema. Se la necessità si creasse durante un urgenza? Una collega delle colleghe citate mi raccontava, che da quando ha iniziato l’attività nel nosocomio, dove ha deciso di licenziarsi, la prendono “bonariamente” in giro, chiedendo dove ti hanno messa oggi? Lei mi raccontava, che facendo eccezione della camera mortuaria, i reparti li aveva girati tutti. Tutto ciò le aveva generato demotivazione, sconforto e notevoli disagi. Normalmente, in passato, s’iniziava a tempo determinato, ma le prospettive erano migliori. La Politica dovrebbe riconoscere un reddito minimo di legge, oltre il quale un infermiere non può essere retribuito.  Ogni imprenditore dovrebbe attenersi. Succede per le donne delle pulizie! Le gare al ribasso hanno penalizzato i lavoratori, piuttosto che il costo del lavoro. Perché il gioco al ribasso è stato pagato, esclusivamente, dai lavoratori. Gli Infermieri dovrebbero poter lavorare senza gestori. Se si necessità di lavoratori in service e provvisori, dovrebbero essere assunti direttamente dalle strutture, ed il rischio del lavoro free dovrebbe essere corrisposto direttamente al lavoratore anziché all’intermediario di turno. Comunque il Governo dovrebbe essere genitore e non matrigna cattiva, dovrebbe preoccuparsi dei propri cittadini, anche infermieri. Il Governo dovrebbe preoccuparsi che vi sia un equiparazione, di base, tra personale sanitario pubblico e personale sanitario in service. Uno Stato di Diritto non dovrebbero consentire sperequazioni tra lavoratori. La risposta del Governo, allo stato attuale, è levare diritti a chi li ha, piuttosto che migliorare i diritti a chi ne avrebbe diritto.

Le azioni poste in essere, a tutt’oggi, nell’ipotesi di risolvere i problemi economici della Regione, hanno portato svantaggi ai lavoratori, null’altro! Alcuni esternalizzati, fino ad ora, sono costati 25 Euro l’ora, ma il lavoratore percepisce euro 13.50. Quindi con le esternalizzate dov’è il risparmio per la Regione? Gli infermieri hanno diritto a soluzioni di lavoro dignitose come nel caso dei contadini oggetto di attenzione dei “caporali”! L’infermiera indignata. #NurseTimes - Giornale di informazione Sanitaria

Quanto guadagnano medici e infermieri italiani? Secondo gli ultimi dati Ocse, gli stipendi di medici ospedalieri e infermieri di casa nostra sono tra i più bassi d'Europa. Le cifre. Redazione quifinanza.it il 14 giugno 2018. Quanto guadagnano medici ospedalieri e infermieri in Italia e in Europa? I dati Ocse mostrano una situazione disomogenea tra i vari Stati. Quelle del medico e dell’infermiere sono professioni estremamente delicate, hanno a che fare con la salute e il benessere delle persone. Orari spesso impossibili, reperibilità, sfide continue. Il percorso di studi per accedere alla professione è tra i più lunghi e difficili: senza contare i corsi di aggiornamento professionale per rimanere al passo con i progressi della medicina. Un lavoro appagante, certo, ma che comporta oneri e responsabilità elevati, non sempre sostenibili. Viene da porsi allora una domanda: quanto guadagnano? Gli stipendi di medici e infermieri che lavorano in Italia sono tra i più bassi d’Europa. Lo dicono i dati Ocse.

Partiamo dai medici: in Italia percepiscono un salario medio pari a 71.715 euro lordi annui. In Francia, lo stipendio si aggira intorno agli 80mila. Ancora meglio in Germania (133mila euro l’anno) e in Irlanda (quasi 160mila euro). Cifre da capogiro in Lussemburgo dove la media è quasi 259mila euro. Più o meno in linea con noi c’è la Spagna, dove i medici ospedalieri guadagnano 64.890 euro lordi l’anno.

Stessa cosa vale per gli infermieri: i dati Ocse, rilevano come, anche in questo caso, gli stipendi italiani siano tra i più bassi d’Europa. In Italia un infermiere guadagna mediamente 30.631 euro lordi annui. Seguono Francia (34.204 euro) e Spagna (35.489 euro). Al quarto posto c’è la Germania, dove lo stipendio annuo è di poco superiore ai 41mila euro, al quinto l’Irlanda con poco più di 50mila euro. La palma va agli infermieri dei Paesi Bassi (53.297 euro) e del Lussemburgo (83.274 euro).

Ecco qual è lo stipendio medio di un infermiere in Italia. Ecco quanto guadagna un infermiere al mese, a seconda della categoria d’appartenenza. Redazione quifinanza.it l'11 maggio 2018. Lavorare in ospedale è bello e appagante, ma com’è lo stipendio? Ecco quanto guadagna un infermiere nel settore pubblico e privato. Gli infermieri possono lavorare sia nel settore pubblico sia in quello privato. E, anche negli ospedali, non è raro trovare personale assunto tramite cooperativa. La stessa professione ha inquadramenti contrattuali diversi ai quali – a volte – non corrisponde lo stesso salario. Ma quanto guadagna in genere un infermiere? A febbraio è stato rinnovato il contratto collettivo nazionale della sanità, che ha stabilito delle nuove linee guida per la professione e un consistente aumento in busta paga. Per quanto riguarda gli infermieri inquadrati nel pubblico, lo stipendio dipende dalla categoria di appartenenza. Chi appartiene alla fascia D1 guadagna 23.919,59 euro l’anno. La D2 24.689,32 euro, la D3 25.454,35 euro, la D4 26.225,40 euro, la D5 26.225,40 euro e la D6 arriva fino a 27.990,10 euro annui. La retribuzione mensile lorda media è di circa 1.900 euro al mese. L’orario settimanale di lavoro degli infermieri è di 36 ore a settimana – obbligatorie per loro le undici ore di riposo continuato – e hanno quindici minuti a turno per la vestizione e la svestizione. Queste sono le cifre che riguardano il settore pubblico. Non troppo diverso è il privato, dove gli infermieri guadagnano circa 1500 euro netti al mese. Gli stipendi sono pressoché simili, anche se differenze considerevoli possono essere trovate da un’azienda all’altra. Ad esempio, chi lavora nelle Onlus e nelle cooperative può prendere anche solo mille euro al mese, mentre gli infermieri in pronto soccorso e in sala operatoria possono arrivare a 2mila netti. Chi occupa posizioni dirigenziali viene pagato circa 3mila euro al mese. Anche il lavoro sanitario può essere svolto come libero professionista. Iscrivendosi a Enpapi e aprendo la partita Iva, è possibile mettersi in proprio e creare da soli il tariffario (attenendosi ovviamente alle linee generali). Sono sempre di più le persone che scelgono questa soluzione, anche a fronte della difficoltà di lavorare per cooperative. Nel 2018 è stato decretato l’aumento salariale per gli infermieri dopo le numerose proteste che li hanno visti protagonisti negli scorsi mesi. Il CCNL Sanità è stato così modificato introducendo delle nuove direttive, incrementando gli stipendi e mantenendo invariato l’orario di lavoro.

Santi che pagano il pranzo non ce n’è. Infermieri. oltraggiati, sfruttati e malpagati. Anche ora. Di Andrea Bottega su infermieristicamente.it il 04/03/2020. Mi sarebbe piaciuto portare la voce degli infermieri in una trasmissione di un canale mediaset per cui ero stato contattato in qualità di segretario del maggior sindacato infermieristico italiano. Essendo saltato il collegamento (direttive aziendali hanno impedito la presenza in trasmissione in quanto provengo da una regione dove è presente un cluster infettivo) non ho potuto dire il disagio che la categoria sta vivendo. In generale nelle trasmissioni televisive degli infermieri, di quello che stanno vivendo e di quello che stanno facendo, non si parla. Autorevoli professori e medici esprimono pareri, danno consigli e previsioni ma nessuno parla dei disagi di chi sta lottando per difendere la salute dei cittadini mettendo a rischio la propria salute.

Ecco quindi cosa avrei voluto dire:

Gli infermieri italiani, stimati in tutta Europa per la loro formazione, sono abituati e pronti a gestire le emergenze sanitarie ma necessitano di direttive chiare, tempestive e coerenti. Ciò non è avvenuto soprattutto nella fase iniziale di gestione dei contagi ma ancora oggi viviamo nelle incongruenze delel direttive che cambiano di ora in ora. Ancora oggi ci sono aziende che derogano alle direttive regionali o nazionali. Infermieri in isolamento fiduciario che sono richiamati in servizio (Lodi), infermieri avvisati dopo 5-6 giorni del contagio (Savona), infermieri contagiati a cui non si è potuto fare il tampone perché esaurite le scorte (Bergamo), infermieri mandati a casa perché provenienti dal Singapore (Ravenna) pur non manifestando alcun sintomo. Nessuna informazione su come comportarsi a casa con i familiari.

Il numero di telefono messo a disposizione, irraggiungibile. Alcuni ospedali sono stati chiusi (Codogno e Schiavonia) altri no. Non tutte le aziende sanitarie hanno allestito i pre-triage che servono ad evitare che i sintomatici o i casi sospetti entrino a contatto con i sanitari e gli altri pazienti oppure come nel caso di Catania, viene bypassato non si sa come. Nel caos è difficile garantire sicurezza per sé e per gli altri.

Ancora oggi scarseggiano mascherine, tamponi e altri mezzi di protezione individuale. Per razionarli con il passare dei giorni si sono emanate norme restrittive sul corretto uso dei DPI e dei tamponi. I contagi stanno continuamente aumentando e molti sono infermieri perché vengono a contatto anche con sintomatici non diagnosticati in un primo momento. Le mascherine FFp3 non ci sono e non sono a disposizione di tutti. La difesa di sé e degli altri a questo punto è impossibile. Qualche infermiere se l’è acquistata per conto suo. Ad Alzano (Bergamo, la prossima zona rossa) le mascherine sono arrivate dopo 5 giorni.

Non si è quindi messo il personale infermieristico nelle condizioni di gestire l’emergenza. Alla cronica carenza di personale, più volte denunciata dal sindacato, già in difficoltà a dare risposta all’ordinario si è aggiunto un carico di lavoro straordinario. Alle dichiarazioni di “ammutinamento” da parte di alcuni colleghi non credo. Dalle informazioni raccolte attraverso i rappresentanti aziendali c’è stata la scelta di non tornare a casa per non infettare anche il nucleo familiare per cui si è continuato a lavorare, perché il lavoro è aumentato. Chi è a casa e non può dare il cambio ai colleghi è in isolamento fiduciario o malato. Anzi, anche chi è in isolamento fiduciario è spesso richiamato in servizio (Lodi, Padova) perché non ci sono infermieri e si dovrebbero chiudere gli ospedali proprio quando c’è il massimo bisogno per curare le persone.

La carenza di personale, Nursind la denuncia da tempo. Ironia della sorte, qualche giorno prima che scoppiasse l’epidemia, a Monza – ma prima ancora a Torino -, il sindacato infermieristico aveva acquistato degli spazi pubblicitari lungo le strade ed erano apparsi dei cartelli enormi che riportavano la seguente scritta: “L’assistenza non erogata aumenta il rischio per la salute dei pazienti. Le cure risultano incompiute se un infermiere assiste più di 6 pazienti”. In alcune regioni le dotazioni di infermieri sono fatte in base a dei minuti standard che dovremmo dedicare ai pazienti. Ora, forse, qualcuno, qualche cittadino, capirà cosa significa avere pochi infermieri nel sistema.

Quindi si cercano soluzioni urgenti, come richiamare i pensionati. Ma chi volete che risponda all’invito! Chi se n’è andato non vedeva l’ora di andarsene. Turni massacranti ed elevata responsabilità, stipendi da fame. Gli infermieri non hanno avuto riconoscimenti economici negli ultimi contratti, anzi si continuano a tagliare i fondi per il loro salario accessorio. Indennità ferme alla lira, moneta che molti giovani non l’hanno nemmeno conosciuta. Professione laureata pagata da diplomata, quella dell’infermiere. Nursind si è rifiutato di firmare il CCNL comparto sanità 2018 proprio perché non c’era nulla per la categoria e meno che meno per il personale turnista a cui sono state tagliate le indennità turno, il diritto alla mensa e il riposo tra un turno e l’altro. Se i pensionati non vengono che si fa? Allora si usano i tirocinanti che, a differenza dei medici specializzandi, non prendono un euro anzi pagano per fare il tirocinio. La nuova forza lavoro, i nuovi da sfruttare. Si anticipano le lauree degli infermieri per immetterli velocemente nel sistema, come dire “dilettanti allo sbaraglio”, mandiamo i neolaureati senza esperienza in trincea a gestire le massime urgenze e le nuove tecnologie senza un minimo inserimento. Si assumano gli infermieri in graduatoria, quelli che sono a casa che aspettano di essere chiamati. I nostri colleghi sono costretti ad andare a lavorare all’estero perché in Italia non trovano lavoro e sono malpagati. Si sta raschiando il barile. Mi chiedo: ma perché non c’è mai chi si prende la responsabilità di non averci dato ascolto quando denunciavamo la carenza di infermieri?

Anche gli infermieri hanno famiglia. Molti colleghi, soprattutto quelli che lavorano negli ospedali del nord non possono godere dell’aiuto di parenti e non sanno a chi affidare i figli quando gli asili e scuole sono chiuse. A disagio si somma disagio. Ferie e permessi non ne possiamo prendere e nemmeno possiamo chiedere di fare lo smart working.

La situazione al sud non fa ben sperare sul contenimento dei contagi. In alcune realtà non si sono ancora installate le tende pre triage, non ci sono i dispositivi di protezione o sono finiti. Si iniziano a vedere i primi contagi anche al sud e nelle isole. Il rischio è veramente di mettere in ginocchio i servizi sanitari di tutta Italia. Allora chi si prenderà cura di Voi? Senza infermieri non c’è futuro, l’abbiamo sempre detto a tutti i politici.

Che la sanità pubblica sia definanziata e prossima la collasso era così noto che nella passata legislatura anche il parlamento ha istituito una apposita commissione conoscitiva sulla sostenibilità del SSN. Dopo 37 miliardi di definanziamento in 10 anni (GIMBE da 10 anni predica ai quattro venti per salvare il SSN) si saranno accorti quanti buchi hanno creato nel sistema?

Tuttavia qualcosa di buono da questa esperienza negativa dovremo pur ricavarlo per evitare di ripetere gli stessi errori che causano danni enormi. Per non investire qualche miliardo in più nella sanità ora stiamo mandando in fallimento un intero paese. Ora si riscopre il valore del nostro SSN e agli operatori sanitari affidiamo il destino della nostra Nazione. Gli stessi operatori sanitari pubblici che sono stati tacciati per anni di essere dei fannulloni e dei furbetti da una politica che ha scatenato l’odio verso il sistema pubblico, tanto che anche i cittadini si sentono autorizzati di picchiare i sanitari e devastare i pronto soccorso.

Lo smart working funziona per molti ma non per tutti. Come può un infermiere assistere un paziente da casa? Certo anche la medicina cambierà dopo questa epidemia. Molto si farà per telefono o in video conferenza, diagnosi e terapia. Ma l’assistenza avrà sempre bisogno di un infermiere al letto del malato.

La sanità privata, dove lavorano gli infermieri che da 14 anni aspettano il rinnovo del contratto, è stata chiamata a supportare il servizio pubblico. Può sembrare marginale ma in questo momento tutto aiuta perché anche le loro strutture non sono immuni e non tutte sono preparate a rispondere come nel pubblico.

I ricchi, i privilegiati, i detentori di polizze assicurative per le cure sanitarie, le loro attività commerciali redditizie: che cosa possono fare ora per evitare il contagio? Ora sono rimasti gli infermieri a tenere aperte le rianimazioni per contagiati, ora non si può scappare perché l’epidemia prende tutti e tutto.

Fa specie leggere nel decreto delle misure urgenti per famiglie, imprese e lavoro che gli infermieri sono citati solo per prevedere delle assunzioni straordinarie. Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è, caro Governo. Oltraggiati, sfruttati e malpagati. Anche ora. Reietti anche mediaticamente dove si parla solo di carenza di medici e di iniziative per i medici. La sanità non è solo medicina, è anche e tanto assistenza infermieristica. Qualcuno lo deve dire e io voglio dirlo: volgiamo rispetto per il nostro lavoro e il giusto riconoscimento economico. Se non ora quando?

Operatori sanitari: “Ci chiamate eroi ma siamo senza contratti stabili da 17 anni”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 28 Aprile 2020. “Quando 17 anni fa un’agenzia del lavoro mi ha proposto una sostituzione da Operatrice Socio Sanitaria di due mesi al policlinico dell’Università Luigi Vanvitelli ho accettato con gioia. Non immaginavo che quella sostituzione sarebbe durata ancora oggi”. Quello di Mirjana Ugrenovic, infermiera, è un racconto di una professione fondamentale negli ospedali, sempre in prima linea accanto a medici e operatori sanitari ma spesso priva di tutele. Accade anche durante l’emergenza Coronavirus. La vicenda è stata raccontata da un gruppo di Oss del Policlinico Luigi Vanvitelli, che insieme a circa 180 altre figure tra cui infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e Oss vivono lo stesso disagio nei contratti. Ma la loro situazione è comune a centinaia di operatori, i cosidetti “somministrati”, che hanno iniziato decine di anni fa a lavorare come “sostituzioni” tramite agenzie per il lavoro, e si sono visti rinnovare il contratto per blocchi di pochi mesi o qualche anno, sempre tramite agenzia, senza mai riuscire ad ottenere un contratto stabile direttamente con l’Azienda per cui lavorano. “Per fortuna o purtroppo non lo so – spiega Antonio Viggiano – ci hanno sempre rinnovato il contratto no stop, tramite agenzia però, così facendo non abbiamo alcun tipo di diritto: nessuno scatto di anzianità, buoni pasto, buoni benzina, incentivi, lavoriamo a ore, non abbiamo ferie o malattia, non ci sono straordinari pagati anche se, quando serve, lavoriamo più ore perché c’è carenza del personale. Nonostante la delusione e il dispiacere che si rinnovano di anno in anno, di mese in mese, di non vedere mai stabilizzata la loro posizione, il gruppo di somministrati tiene molto al loro lavoro ed è riconoscente nei confronti di un’Azienda a chi hanno dato tanto ma dove hanno imparato ancora di più. “Abbiamo dato tanto e ci aspettiamo in cambio qualcosa in termini di sicurezza. Non ci siamo mai tirati indietro – dice Mirjana – io in 17 anni avrò fatto giusto 2 giorni di malattia perché stavo proprio male e mi sentivo anche in colpa perché venivo meno alla mia vocazione di risolvere i problemi”. “Ci chiamano eroi perché siamo in prima linea nell’emergenza Coronavirus – continua Antonio – Ma oggi siamo eroi e domani?”. Il Gruppo di Operatori Sanitari chiede a gran voce l’attenzione del Governatore della Campania affinchè stabilizzi i loro contratti al più presto. “Vogliamo che Vincenzo De Luca sappia che esistono anche i somministrati: sentiamo parlare solo di avvisisti, precari, vincitori di concorso, precari e a noi non pensa nessuno. Molti partecipano agli avvisi o ai concorsi, magari sono giovani e hanno la possibilità di studiare e vincere serenamente un concorso pubblico. Noi facciamo turni massacranti e tempo per studiare non ce n’è. Eppure abbiamo esperienze sul campo decennali e il nostro lavoro è apprezzato da tutti”.

Colloquio shock per Oss: Paghiamo tre euro l'ora. Redazione nurse24.it. Pubblicato il 10.04.17, Aggiornato il 27.04.18. Qui si fanno turni di 12 ore e poi 24 ore di riposo, Lo facciamo per voi, per farvi riposare, La paga è di 650 euro al mese, ma dipende tutto da te, dalla tua voglia di lavorare, dall’impegno che ci metterai. Questa è una struttura pubblica, ma non ci sono infermiere, solo operatrici. Dovete fare tutto voi, compresa la somministrazione dei medicinali. Fantascienza? No cronaca di un ordinario colloquio di lavoro, come operatore socio-sanitario, a Napoli.

Cercasi Oss, a 3 euro scarsi all’ora. Carmela, ovviamente il nome è di fantasia, ha registrato per Nurse24.it un colloquio di lavoro in una struttura pubblica. Una casa di riposo per anziani, dove cercavano un’operatrice socio-sanitaria. Il colloquio ha dell’inverosimile e lascia sbigottiti. Soprattutto la paga: 650 euro al mese per 54 ore di lavoro settimanali. Vale a dire meno di due euro all’ora. Ha già esperienze di lavoro in una casa di riposo? chiede la responsabile a Carmela. E lei: No, in realtà, come domiciliare tantissimi, ma in una casa di riposo mai. La responsabile spiega a Carmela i turni di lavoro. Tra un turno di 12 ore e l’altro ci sono sempre 24 ore di riposo – dice in tutta tranquillità, quasi fosse un favore alle dipendenti -. Ad esempio il lunedì si viene a lavorare alle 8 e si smonta 19, poi ci si riposa 24 ore e si torna alle 19 del giorno dopo per fare la notte. Si smonta alle 8 e si riposa 24 ore, poi si torna alle 8 del giorno dopo per rifare il giorno. Insomma, è un ciclo giorno-24 ore di riposo-notte-24 ore di riposo e così via. Lo facciamo – continua la responsabile della struttura – sia per avere una maggiore copertura noi, nel caso una di voi si ammalasse o non potesse venire al lavoro, sia per farvi riposare di più. Ma quante ore di lavoro sono a settimana? chiede la nostra Carmela. Ah non saprei, dipende dal turno – risponde la responsabile – è da provare. In realtà basta fare qualche conto, la matematica non è un’opinione. Dodici ore di lavoro, intervallate da 24 di riposo, significa che si va a lavorare praticamente tutti i giorni, che sia la notte o il giorno. E a conti fatti sono 54 ore settimanali. E la paga? Lo stipendio base è di 650 euro – dice la responsabile – a cui vanno aggiunte 50 euro ogni volta che si coprono turni in più, a meno che non ci si mette d’accordo con l’altra operatrice per recuperare il turno saltato. E per neanche due euro all’ora cosa dovrebbe fare l’Oss? Tutto! Qui non abbiamo infermiere – chiarisce subito la responsabile – infatti i nostri pazienti sono tutti autonomi o semi-autonomi. Nel momento in cui dovessero diventare allettati siamo costretti a chiedere il ricovero in altre strutture più idonee. Siete tre operatrici e dovete occuparvi degli ospiti, della loro igiene personale e dell’igiene delle stanze, della somministrazione delle medicine ecc…. Se sei interessata a provare ti metto in cima alla lista – dice tutta soddisfatta la responsabile, quasi come servisse una raccomandazione per andare a lavorare a due euro all’ora -. Magari, potresti iniziare dalla notte!.

L’INCHIESTA. Senza protezioni e pagati una miseria: l'esercito senza diritti dei precari della sanità. Medici, infermieri, operatori sanitari: assunti attraverso cooperative, sono essenziali per rsa e ospedali. Ma hanno paghe basse e poche tutele. «Se segnaliamo un'esposizione al Covid possiamo perdere il lavoro». Gloria Riva su L'Espresso il 08 dicembre 2020. È l’alba. Paolo indossa la mascherina chirurgica, esce di casa, raggiunge la stazione e sale sul treno che ogni giorno lo porta a Milano. Prende una metropolitana e svariati autobus fino a raggiungere le case dei suoi assistiti: una dozzina di anziani non autosufficienti dei quartieri Baggio e Quarto Oggiaro. «Spero di non aver contratto il virus su e giù dai mezzi. Spero anche che i miei vecchietti non mi contagino». Paolo è un nome di fantasia, indispensabile per permettergli di mantenere il suo contratto da 880 euro al mese, alle dipendenze di una cooperativa sociale, che ha in appalto dal comune di Milano l’assistenza domiciliare ad anziani e disabili. Ai tempi del Covid 19 ci si immagina che Paolo entri in queste case bardato di tuta, visiera, guanti, mascherina ffp2. Nella realtà la cooperativa gli fornisce una manciata di mascherine chirurgiche a settimana, e basta. Lo scorso marzo non c’erano neppure quelle: «Non ho mai smesso di lavorare, né durante il primo, né durante questo secondo lockdown. Alcuni colleghi hanno preso il Covid, qualche assistito si è ammalato. Per un po’ mi hanno messo in quarantena, ma non so se il virus l’ho preso anche io perché l’azienda non ci ha mai fatto fare alcun tampone». Eccola, la sanità di serie B: da oltre dieci anni prolifera in ospedali, rsa, servizi comunali, nidi, assistenza scolastica. Molti sono ausiliari socio-assistenziali (asa) o operatori socio-sanitari (oss), una qualifica che si ottiene con un anno di studio, guadagnano 800 euro per otto ore di lavoro, lavano schiene, assistono disabili, fanno muovere gli allettati, fanno i mestieri più faticosi, e sono alle dipendenze di cooperative. Sempre più spesso nelle coop ci lavorano anche medici gettonisti, infermieri e tecnici di laboratorio: il 118 dell’ospedale Niguarda di Milano è gestito da una cooperativa, così come i tecnici radiologi del Gruppo San Donato sono in appalto, idem per i medici del Pronto Soccorso dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: per 12 ore di lavoro guadagnano circa 600 euro lordi. Secondo i dati Istat lavora nelle coop un esercito di 400mila lavoratori della sanità e del socio assistenziale (molti, se si considera che il Ssn ha 600mila dipendenti), costano poco – meno 40 per cento rispetto ai colleghi del Ssn –, erano già privi di diritti prima della pandemia e oggi sono ancor più allo sbaraglio: hanno meno dispositivi di protezione e zero controlli di routine contro il Covid. «Il personale sanitario e amministrativo di Asl, ospedali pubblici e privati deve effettuare un tampone ogni 15 giorni. I colleghi delle cooperative, che lavorano al loro fianco e stanno a stretto contatto con i malati, non devono fare alcun controllo, lo stesso vale per lo staff delle residenze per anziani, tutte gestite da cooperative. Si tratta di un incontrollato veicolo di contagio», avverte Isa Guarnieri della Cgil di Milano. «La sanità italiana ha figli e figliastri. I primi sono i dipendenti diretti, gli altri sono in appalto, ma devono mettere in campo la stessa intensità di risposta all’emergenza pandemia», spiega Gianluigi Bettoli, responsabile di Legacoopsociali del Friuli Venezia Giulia, che aggiunge: «Sempre nelle coop, si assiste da un lato all’extra lavoro di operatori sanitari e infermieri, costretti a tripli turni, dall’altro ci sono educatori e operatori sanitari che lavorano nelle scuole e nei centri diurni per disabili in attesa di ricevere sussidi di cassa integrazione da 400 euro al mese, perché queste strutture hanno chiuso e i comuni hanno sospeso i contribuiti per il servizio». Non va meglio per chi lavora nelle residenze per anziani, come racconta Luca Spagnol, responsabile infermieristico della Coop Itaca, duemila dipendenti, impiegati in rsa e ospedali del Nord: «Già prima della pandemia, infermieri e operatori sanitari avevano un carico di lavoro che andava ben oltre le proprie possibilità. Adesso, per rispettare i protocolli Covid, l’intensità di lavoro è cresciuta del 40 per cento. Non solo. Il Ssn ha aperto una campagna di assunzione di personale per far fronte alla pandemia: a rispondere sono stati molti dipendenti delle coop, attratti da salari più alti e maggiori diritti. Questo ha ridotto la forza lavoro nelle rsa e nei servizi socio-sanitari, intere aree di cura stanno andando in tilt, alcune strutture hanno interrotto l’assistenza notturna. Agli infermieri rimasti vengono sospese le ferie e sono richiamati in servizio anche nei giorni di riposo. In più, spesso, succede che siano forniti di meno dispositivi di protezione: poche mascherine, camici, visiere. E quando i focolai si diffondono nelle rsa, subiscono una forte pressione psicologica, perché vedono le persone morire fra grandi sofferenze: nelle case per anziani non ci sono medici in grado di affrontare il Covid, non c’è ossigeno, la morfina è scarsa». Affermazioni confermate dal Rapporto Salute 2020 di Cittadinanza attiva che fa il punto sulle maggiori criticità del sistema di salute e assistenza segnalate dai cittadini: «Il 42,8 per cento delle segnalazioni riguarda proprio le Residenze per anziani. Di queste, il 32,5 per cento segnala carenza di dispositivi di protezione sia per gli ospiti, sia per il personale», dice il rapporto. A Napoli sono gli stessi dipendenti delle cooperative a non segnalare una eventuale esposizione al Covid: «Temono di perdere il lavoro, così sottovalutano il rischio di un’infezione, i sintomi e tutte le problematiche annesse. Ma queste sono persone che lavorano a contatto con malati e soggetti fragili», spiega Gianna Serena Franzé, segretario della Funzione Pubblica Cgil in Campania, che ha avvertito comune e Prefetto, senza ricevere risposta. «Il problema vero è che le cooperative non si vogliono far carico dei 60-100 euro del costo del tampone. Così si favorisce la diffusione del virus proprio fra le categorie più fragili. In altri casi, visto che le cooperative non forniscono neppure un adeguato numero di mascherine protettive, gli operatori hanno ridotto gli interventi domiciliari: si limitano a portare la spesa sulla soglia di casa, non entrano nelle abitazioni. A lungo termine dovremo fare i conti con gravi situazioni di degrado e disagio sociale». I costi extra per l’acquisto dei dispositivi e i mancati introiti per via della sospensione dei servizi comunali porteranno molte cooperative a chiudere i bilanci in rosso, o peggio. La Cooperativa Cooss Marche, la più grande della regione, con oltre tremila dipendenti, «dopo decenni di appalti al ribasso si è indebolita al punto che, per salvarsi, gli stessi soci lavoratori si sono tagliati lo stipendio e la tredicesima. Il covid ha dato un’ulteriore spallata: i dipendenti rischiano il posto e potrebbero saltare gli indispensabili servizi che fornivano, dagli asili nido alle rsa», commenta Michele Vannini della Cgil. C’è poi chi, per mantenere il posto, è costretto a firmare stringenti protocolli di scarico di responsabilità: «I dirigenti delle case di cura, per sgravarsi di ogni colpa, scrivono complessi protocolli operativi, facendo ricadere l’intera responsabilità di eventuali focolai sugli operatori. Noi firmiamo tutto: l’alternativa è perdere l’appalto», racconta Alberto, assistente socio-assistenziale in una residenza per anziani della Brianza. A Bergamo il lavoro delle cooperative negli ospedali, nelle rsa, nella cura domiciliare è stato fondamentale nella prima ondata del Covid: «Gli operatori “di serie B” hanno assistito pazienti a mani nude, senza protezione, perché tutti i dispositivi di protezione venivano requisiti e consegnati al personale del Servizio Sanitario Nazionale. A distanza di mesi, il loro sforzo non è stato in alcun modo considerato: i colleghi del Ssn hanno avuto un riconoscimento economico, per i sanitari delle cooperative non c’è stato alcun indennizzo», dice Roberto Rossi della Cgil di Bergamo. Per loro ci sono stati soltanto rischi in più, dal fardello della responsabilità al maggiore rischio contagio. Tutto questo per 800 euro al mese.

·        USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) svolgono attività domiciliari per i pazienti COVID-19. Le loro funzioni sono principalmente rivolte alle cure al domicilio per pazienti COVID-19 (dimessi dalle strutture ospedaliere o mai ricoverati) con bisogni di assistenza compatibili con la permanenza al domicilio e per la cura al domicilio di pazienti con sintomatologia clinica sospetta per coronavirus, di cui non è nota l’eventuale positività e che devono essere considerati come sospetti casi COVID-19.

La finalità delle Unità Speciali è di:

assicurare il regolare svolgimento dell’attività ordinaria dei Pediatri di Libera Scelta, dei Medici di Medicina Generale e dei Medici di Continuità Assistenziale;

garantire la diagnosi, presa in carico e monitoraggio delle infezioni da COVID19.

In particolare, le USCA provvedono:

alla gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID19 in isolamento domiciliare e che non necessitano di ricovero ospedaliero;

alla gestione domiciliare contatti di caso certo in isolamento fiduciario;

alla valutazione domiciliare dei casi sospetti e loro gestione;

alle attività burocratiche/amministrative (cartella clinica, compilazione flussi, ecc.).

L’intervento delle USCA, per consentire un razionale utilizzo di questa funzione, è, di norma, coordinato dall’Unità di crisi di ATS, previa richiesta da parte del Medico di Medicina Generale – Pediatra di Libera Scelta o del Medico di Continuità Assistenziale. Attraverso un triage telefonico viene valutato il bisogno dell’assistito positivo per COVID-19 in isolamento domiciliare, dei contatti in isolamento fiduciario o dei casi sospetti. Le USCA, dopo opportuna valutazione, possono organizzare ecografia polmonare, ECG, tamponi nasali a domicilio o attivare una consulenza infettivologica o pediatrica telefonica.

Ad esito del proprio intervento, le USCA possono richiedere al Medico di Medicina Generale di riferimento l’attivazione di altre offerte di cura.

Il referto viene condiviso anche col medico di medicina generale. Non rientrano tra le attività delle USCA quelle certificative (ad es. certificato di malattia).

Le USCA sono composte da personale medico, svolgono un servizio attivo 7 giorni su 7, dalle ore 8.00 alle ore 20.00 e dispongono di auto aziendali esclusivamente dedicate.

Al personale USCA viene assicurata formazione, in particolare sulle problematiche clinico-assistenziali in caso di COVID-19, modalità di esecuzione tamponi nasali, tecniche ecografiche di base per esecuzione ecografia polmonare, sull’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale e sulle modalità di smaltimento dei rifiuti potenzialmente infettivi. 

Assistenza domiciliare, in ritardo le unità speciali anti-Covid. Le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) istituite con il decreto sanità dello scorso marzo seguono i casi sospetti o conclamati di Covid-19 direttamente a casa. Ma sono state attivate a singhiozzo in 15 Regioni. Andrea Gagliardi il 7 maggio 2020 su "ilsole24ore.com".

Fase 2: le "Unità cure a casa" coprono solo un terzo degli italiani. L’assistenza domiciliare è considerata cruciale nella fase 2 di ripartenza, anche per prevenire nuove situazioni di intasamento di ospedali e Pronto soccorso nel caso in cui nuovi ed estesi focolai epidemici dovessero riaccendersi sul territorio. Ecco perché il governo ha puntato sulle cure a casa per i malati di Covid in isolamento domiciliare che non hanno bisogno di essere ricoverati. E nel nuovo decreto maggio atteso per il fine settimana è previsto, tra l’altro, un potenziamento delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale, create con il decreto sanità dello scorso 9 marzo), che assistono i malati porta a porta ma che sono state attivate a singhiozzo in 15 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d'Aosta, Sicilia, Toscana, Veneto, Lazio, Friuli Venezia Giulia e Calabria). Si tratta di piccoli team di camici bianchi, dotati di tutte le protezioni previste, seguono i casi sospetti o conclamati di Covid-19 direttamente a casa.

Circa 500 medici coinvolti. Le Unità speciali anticovid sono oltre 400 sul territorio nazionale, ma non bastano. Secondo i dati della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg), sono circa 500 i medici impegnati nelle Usca. Pochi per seguire gli oltre 70mila malati di Covid a casa e monitorare i possibili futuri casi. Le Usca, rileva la Fimmg, dovrebbero dunque essere 1200 su tutto il territorio italiano, con circa 2500 medici, ed il sistema avrebbe dovuto essere completato a livello nazionale entro aprile. Tuttavia, avvertono i medici di famiglia, «siamo ancora lontani».

Competenze non uniformi. Non si tratta solo di numeri. Un'interpretazione diversificata si ha anche rispetto al ruolo che le Usca devono avere: «In alcune Regioni vengono impiegate essenzialmente per l'esecuzione dei tamponi, in altre - afferma il segretario Fimmg Silvestro Scotti - svolgono invece una vera attività integrata di cure domiciliari insieme ai medici di famiglia».

Compiti ampliati in Lombardia. In Lombardia le Usca sono operative già da marzo ma adesso i loro compiti si apprestano ad essere ampliati: le squadre composte da medici e infermieri potranno infatti effettuare anche i tamponi a domicilio, possibilità fino ad oggi non prevista. Sono almeno 35 quelle attive in Piemonte (dato di aprile). Vi lavorano 376 medici e 21 infermieri. Sono 48 in Veneto, ed hanno attualmente in carico oltre 1.800 pazienti Covid, seguiti a domicilio anche per la somministrazione dei farmaci.

Emilia Romagna prima regione ad attivarsi. In Friuli Venezia Giulia tutte le aziende del sistema sanitario hanno messo in campo sia Covid team sia le Unità speciali di continuità assistenziale, delle quali fanno parte 72 medici. In Emilia Romagna, prima regione a dare la caccia al virus 'casa per casa', le Usca sono attive in tutte le province, con sei squadre solo a Bologna. In Valle d'Aosta sono tre, mentre nel territorio della Asl Toscana Centro, competente per Firenze, Prato e Pistoia, le Usca nel mese di aprile hanno eseguito oltre 1700 tamponi su sospetti casi Covid ed effettuato 4219 visite a domicilio. Nelle Marche sono operative 19 Usca che effettuano i controlli domiciliari dei malati o sospetti contagiati di Covid-19 e, ove necessario, i tamponi per la verifica della positività al virus.

Puglia in ritardo. Nel Lazio le Usca sono in funzione dal 20 aprile ed effettuano già circa mille tamponi al giorno con 800 professionisti, in modalità drive in anche sui camper, per 'stanare' eventuali nuovi casi. Sono invece 14, sulle 35 previste dalla Regione, le Usca in Calabria. In particolare sono già state attivate le 11 Usca previste nel territorio di competenza della Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, e le tre di Crotone. In Sardegna su 32 previste, hanno iniziato già a lavorare quelle di Alghero, Ozieri, Sassari e Barisardo. La prossima sarà la Usca di Cagliari. Gli operatori sanitari intervengono a domicilio subito dopo la segnalazione dei casi sospetti, da parte dei medici di base o dei pediatri . In Puglia le 80 Usca previste ancora non funzionano, per un problema di reclutamento di medici che in pochi hanno aderito al bando. Nonostante tutto, le prime Usca potrebbero, secondo le previsioni della Regione, entrare in attività entro la fine della settimana.

Coronavirus. Le Unità speciali di continuità assistenziale sono attive solo in 12 Regioni. A loro il compito di assistere i positivi a casa. Indagine Fimmg per Quotidiano Sanità, Luciano Fassari il 12 aprile 2020. Le Usca, istituite col Decreto legge 14 del 9 marzo, dovevano essere attivate entro il 20 marzo da tutte le Regioni e PA per gestire la sorveglianza dei malati di Covid in isolamento domiciliare (quasi 70mila in tutta Italia secondo i dati di ieri). Ma alla loro attivazione mancano ancora molte Regioni e tra quelle che le hanno già messe in campo (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana e Veneto) si registrano molte differenze su come gestirle e sulle loro funzioni. Sono state previste dal Decreto legge 14/20 del 9 marzo e dovevano essere attivate entro 10 giorni da quella data. Ma la realtà è che le Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) ad oggi sono state attivate da 12 Regioni su 21 e come consuetudine, ognuna ha scelto una strada diversa, come rileva il sindacato dei medici di famiglia Fimmg in una indagine sulla situazione nelle varie Regioni effettuata in collaborazione con Quotidiano Sanità. Ad oggi (dati aggiornati all'8 aprile) le Usca risultano attive in Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana e Veneto.

Ma facciamo prima un passo indietro e chiariamo cosa sono le Usca e cosa prevedeva il Decreto legge.

Le Usca vanno istituite presso una sede di continuità assistenziale già esistente e ne dev’essere costituita una ogni 50.000 abitanti (anche se le Regioni nelle loro linee guida lasciano margini di discrezionalità in considerazioni delle differenze territoriali).

Il loro compito è la gestione domiciliare (consulto telefonico, video consulto, visite domiciliari) dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero che stando agli ultimi dati sono quasi 70mila persone. Insomma, le Usca dovrebbero avere il compito di essere le sentinelle sul territorio per monitare i pazienti affetti da Covid.

L'unità speciale dev’essere costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell'unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all'ordine di competenza. In alcune regioni si è data possibilità di partecipazione anche ai Medici di Famiglia, Pediatri di Libera Scelta e medici dell’Emergenza territoriale 118.

L'unità speciale dev’essere attiva sette giorni su sette, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, e ai medici per le attività svolte nell'ambito della stessa è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro ad ora.

L’analisi Fimmg. “La situazione nazionale appare variegata” precisa la Fimmg evidenziando come “la partecipazione dei medici, su base volontaria, vede impegnati soprattutto medici di Continuità Assistenziale (MCA), medici in Formazione (MIF) o medici abilitati (MA), reclutatati con diverse modalità dalle Regioni”.

Bandi regionali e bandi aziendali.“In alcuni casi – dalla rilevazione - è stato previsto un bando Regionale, in altri si è optato per bandi aziendali, altri ancora hanno previsto forme di adesione interna, con interpello di medici già operanti nell’ASL o tramite autocandidature”.

Copertura assicurativa differente. La Fimmg rileva che “essendo l’attività delle USCA riconosciuta come attività “convenzionata”, la copertura assicurativa in molte Regioni è quella prevista dall’ art. 73 ACN vigente (Emilia Romagna, Piemonte, Valle D’Aosta, Sicilia, Veneto). Fanno eccezione l’Abruzzo, la Basilicata, la Lombardia e la Campania nelle quali la copertura assicurativa non viene espressamente citata negli accordi e sarà, probabilmente, demandata alla contrattazione delle singole ASL/ASP. In ultimo, la bozza proposta per le Marche inserirebbe l’INAIL per infortunio sul lavoro, mentre la Regione Toscana nel bando riporta la seguente dicitura: “copertura assicurativa per i rischi di salute per il medico e verso terzi” senza ulteriore specificazione”.

Trattenute pensionistiche e fiscali. Per quanto riguarda invece la previdenza e le trattenute fiscali il sindacato rimarca come “fatta eccezione per i documenti istitutivi di Campania, Lombardia, Umbria e Valle D’Aosta, per le quali nulla non è specificato nulla negli accordi (ipotizziamo vengano lasciate alla contrattazione aziendale), in tutte le altre Regioni, essendo riconosciuta come attività convenzionale, viene remunerata esattamente come per i MCA, con trattenuta IRPEF e relativo versamento Enpam”.

Tamponi non per tutti i medici.“Tutti i bandi/accordi Regionali  -specifica l’analisi - affrontano il tema della sicurezza sul lavoro e dettagliano l’uso dei Dispositivi di Protezione Individuale, elemento previsto per altro dal D.L. n. 14 del 9 marzo 2020. Solo in una azienda è invece prevista la sorveglianza sanitaria a favore dei medici: la AUSL della Romagna ha stabilito l’esecuzione di tamponi per i medici delle USCA. In Sicilia e Lombardia viene data la possibilità dell’esecuzione dei tamponi previa verifica di fattibilità”.

Sperimentazioni protocolli farmaceutici solo in alcune Regioni. Per i medici delle USCA di Lombardia e Toscana si è altresì previsto un programma clinico-operativo molto ben dettagliato, con anche la possibilità di sperimentare protocolli farmaceutici. Si rimarca comunque la centralità del Medico di Famiglia (e del Pediatra di libera scelta) nella gestione del paziente di cui di fatto è responsabile, soprattutto in alcune Regioni, su tutte Sicilia e Campania.

Il problema di come garantire la sicurezza degli operatori sanitari.“Una criticità che ci viene spesso segnalata- dichiara Tommasa Maio, Segretario Nazionale FIMMG CA- è la scelta di prevedere la condivisione di autovetture, strumenti e ambienti con i medici della Continuità Assistenziale senza alcuna garanzia di protocolli per la sanificazione degli stessi dopo ogni turno e senza garantire il distanziamento interpersonale tra i medici. Questa fatto appare ancora più grave se si considera che buona parte di questi medici sarà quotidianamente esposto al contatto con malati Covid positivi e quindi al rischio di contagio in assenza di qualsivoglia sorveglianza sanitaria che invece dovrebbe essere garantita a tutti. In Lombardia si è arrivati a lasciare in servizio personale sanitario positivo finché asintomatico. Il prezzo che ha pagato la medicina generale in termini di decessi è evidente. Nessuno però quantificherà mai quanti pazienti siano stati contagiati da operatori sanitari positivi.”

Covid. Quanto ci costi?

QUANTO CI COSTA IL COVID. PER OGNI PAZIENTE AMMALATO SI SPENDONO DAI 9MILA AI 22MILA EURO. I CALCOLI DELL’UNIVERSITÀ CARLO CATTANEO: UNA GIORNATA DI DEGENZA COSTA 427,77 EURO PER UN MALATO A BASSA INTENSITÀ DI CURA E 582,38 PER LA MEDIA. PER L’ALTA INTENSITÀ SI ARRIVA INVECE A…

FA per “il Giornale” il 2 luglio 2020. L'epidemia di Covid 19 ha messo sotto stress il nostro sistema sanitario. Nelle regioni più colpite dal coronavirus è stato necessario riorganizzare i reparti di terapia intensiva; creare percorsi dedicati nelle accettazioni e nei pronto soccorso; smantellare interi dipartimenti per riadattarli ad ospitare i pazienti Covid. Ma quanto è costato questo sforzo? Per ogni paziente a seconda della gravità delle sue condizioni e della complessità degli interventi si va dai 9mila ai 22mila euro. A fare i conti il laboratorio Healthcare Datascience della Università Carlo Cattaneo in collaborazione con l'Azienda Ospedaliera Nazionale SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria e In.Ge.San (Associazione Ingegneri Gestionali in Sanità). Insieme hanno condotto una valutazione sui costi del percorso ospedaliero del paziente Covid nel periodo che va dal 28 febbraio al 15 aprile. Lo studio ha preso in considerazione le ospedalizzazioni dividendole in tre macrogruppi a seconda del livello di assistenza e quindi di risorse richiesto: intensità di cure bassa, media ed alta. Oltre alle attrezzature di supporto necessarie per qualsiasi polmonite (ventilatori etc) sono state presi in considerazione anche le spese relative ai dispositivi di protezione individuale. Nel caso di questa struttura l'acquisto di mascherine, camici e grembiuli monouso, guanti e visiere la spesa è stata di 47.793 euro mentre per le apparecchiature tecniche per il supporto respiratorio sono stati spesi 454.375 euro. È stato poi fatto un calcolo sul costo della giornata di degenza con tre scalini: 427,77 euro per il paziente a bassa intensità di cura; 582,38 per la media intensità; 1.278,50 per l'alta intensità. In media i pazienti Covid hanno avuto in questa struttura una degenza di 19,41 giorni. Su questa base dunque è stato calcolato il costo per i pazienti con una degenza di 15,5 giorni caratterizzati da un passaggio da area a bassa intensità di cura/complessità assistenziale ad alta intensità di cura/complessità assistenziale. In questo quadro la spesa è stata di 14.873,48 euro. Per una degenza media di 17,45 giorni caratterizzata da un passaggio da un reparto a bassa intensità di cura/complessità assistenziale a un reparto a media intensità di cura/complessità assistenziale (terapia sub-intensiva), si riscontra un assorbimento medio di risorse economiche pari a 9.157 euro. Per le degenze in terapia sub- intensiva e intensiva con una media complessiva di 23,21 giorni la spesa è ovviamente molto più alta, pari a 22.210,47 euro in media. Nei periodi di picco dell'epidemia i posti di terapia intensiva occupati erano circa 4.000. Già alla fine di maggio quando negli ospedali si era abbassata la pressione causata dai ricoveri conseguenti al Covid l'Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell'Università Cattolica di Roma, aveva analizzato i dati sui costi dei ricoveri da coronavirus in Italia che in quel momento erano 144.658 stimando una spesa globale pari a 1.226.137.474 di euro. Il 33 per cento dei costi ricadeva sulla sola Lombardia la regione con il maggior numero di contagiati.  

·        La Sanità tagliata.

Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici, e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No!  No. Non perchè,  per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia,  ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

La Sanità che ci meritiamo. Né ospedali, né medici, né infermieri.

Barbara Palombelli su “Stasera Italia”, di Rete 4° del 6 novembre 2020: Si è tagliato la spesa sanitaria ed adottato il numero chiuso per l’accesso alle professioni sanitarie.

Alberto Magnani per 24plus.ilsole24ore.com l'8 dicembre 2020. Sempre più laureati e medici, sempre meno professionisti nella sanità pubblica. Il paradosso è diventato esplosivo con la pandemia di Covid-19, l’emergenza che ha messo in risalto una fragilità denunciata da anni: la carenza di risorse nel Servizio sanitario nazionale, l’insieme dei servizi e delle attività per la salute pubblica dei cittadini. Il sistema sembra già sull’orlo dell’implosione, con scenari anche più cupi sul breve termine. Secondo le stime di Anaao-Assomed, un’associazione che raccoglie i medici dirigenti, il sistema sanitario nazionale rischia di fare i conti con un deficit dai 10mila ai 24mila camici bianchi nell’arco di un quadriennio. Ma in Italia c’è davvero una «carenza di medici», o è un problema che si manifesta solo nelle strutture pubbliche? E come si è venuto a creare il gap?

Un confronto con la Ue:i medici ci sono. Iniziamo dalla prima domanda. Rispetto agli standard europei, l’Italia non è sprovvista di medici. Anzi. Una ricerca dell’agenzia Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che il nostro è il secondo paese con più medici in assoluto su scala Ue: circa 240mila sugli 1,7 milioni registrati nella Ue a 27, dietro solo alla Germania (357mila, il 21,1% del totale) e davanti a Francia (212mila) e Spagna (188mila). Il dato, a quanto rileva l’Istat, è andato in crescita negli anni, con un incremento di 5.370 unità rispetto ai 234.918 camici bianchi conteggiati nel 2013. Il bilancio si fa meno eclatante dando un occhio al rapporto con la popolazione: 397 medici ogni 100mila abitanti secondo Eurostat o 3,1 medici ogni 1000 abitanti secondo Istat. Una proporzione che colloca comunque l’Italia in una fascia intermedia fra i picchi raggiunti da paesi come la Grecia (610 medici ogni 100mila abitanti) e i minimi degli unici due stati Ue sotto la soglia dei 300: Lussemburgo e Polonia, rispettivamente fermi a 298 e 238 medici ogni 100mila abitanti.

La carenza di medici nella sanità pubblica. Il problema, semmai, è che la disponibilità complessiva di medici non si riflette negli organici della sanità pubblica. Nel 2017 il Ministero della Salute conteggiava 104.979 medici assunti a tempo indeterminato nel servizio sanitario nazionale fra Asl, aziende ospedaliere ed universitarie, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici, Ares (Agenzia regionale sanitaria) ed Estav. L’equivalente di 1,7 medici ogni 1000 abitanti, con un calo di 3.401 medici rispetto ai dati del 2012. Nel 2018 l’Anaao ha registrato una carenza di circa 6.200 medici e 2mila dirigenti sanitari rispetto al 2009, l’anno di maggiore dotazione del servizio sanitario nazionale. Lo scenario si è inasprito con l’arrivo del Covid, visto che la pandemia è esplosa in coincidenza «con il punto più alto della curva pensionistica dei medici dipendenti del SSN, oramai arrivato a circa 6mila-7mila quiescenze ogni anno» dice Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed. Non aiuta, in questo senso, che l’età media del personale sia fra le più elevate d’Europa. Sempre nel 2017, secondo le ultime statistiche del ministero della Salute, i medici fra i 30 e i 39 anni assunti a tempo indeterminato rappresentavano appena l’11,3% del totale, contro il 23,9% della fascia 40-49 anni, il 36,7% della fascia 50-.59 anni e il 23,6% nella fascia 60-64 anni. Un dato che assegna all’Italia il primato di medici più anziani su scala Ue, come ricorda Eurostat, evidenziando una quota di over 55 pari al 56% del totale. L’esito è che nel quadriennio 2019-2023 si potrebbe arrivare a un deficit di 10:173 medici, il frutto dello squilibrio fra 32.501 pensionamenti , scrive Anaao, e gli appena «22.328 nuovi specialisti che opteranno per il Ssn, il 66% del totale annuo». E la stima è prudenziale. Se si considerano la carenza pregressa di oltre 6.200 camici bianchi e la necessità di almeno 4mila specialisti per fronteggiare l’emergenza di Covid, l’ammanco può lievitare a 24mila medici entro il 2023.

Problema uno: l’imbuto formativo. Fin qui i numeri e l’intoppo, evidente, fra del ricambio generazionale. Ma da cosa nasce il dislivello? La prima tesi, quella di Anaao, è che il cortocircuito nasca da un «decennio fallimentare nella programmazione dei fabbisogni specialistici», con un rapporto sbilanciato fra i pensionamenti e il numero di contratti formativi finanziati (vale a dire i contratti per le specializzazioni e le borse per la Medicina generale, quelle per la formazione dei medici di famiglia). Insomma, le uscite non si sono accompagnate a un numero adeguato di contratti di formazione che tenesse conto sia del fabbisogno del sistema che del totale di neolaureati in arrivo dalle università. È quello che Anaao ha ribattezzato «imbuto formativo». «Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi circa 12mila neolaureati, rimasti imprigionati in un limbo fatto di precarietà e svilimento professionale - dice Palermo di Anaao - tanto che ogni anno circa 1.500 di loro preferisce emigrare». Il gap è destinato ad allargarsi, visto che negli anni gli accessi al numero chiuso per il corso di laurea in Medicina sono cresciuti a un ritmo decisamente superiore rispetto a quello dei contratti di specializzazione. I posti a numero programmato sono lievitati dai 7.547 del 2008 ai 13.072 del 2020-2021, mentre i contratti specialistici e le borse per la medicina generale sono cresciuti a un ritmo decisamente più blando: rispettivamente, da 5mila a 7.317 (con un incremento una tantum di 5.400 posizioni nel solo 2019-2020, portando il totale a 13.400) e da 851 a 1.500. Per il 2020-2021 si attendono almeno 22mila iscritti (12mila neolaureati e 10mila candidati che ripetono il concorso) a fronte di 10mila posti disponibili. Sempre che il «concorsone» vada in porto nei tempi stabiliti, a differenza di quanto si è verificato nell’anno in corso: gli oltre 20mila candidati per la selezione del 2019-2020 sono a tutt’ora in attesa delle proprie assegnazioni, dopo che la pubblicazione delle graduatorie è stata rinviata dal 30 novembre al 15 dicembre.

Problema due: il deflusso verso il privato. Una seconda angolatura del problema emerge già dalle stime di Anaao: “solo” il 66% degli specialisti opta per il servizio pubblico. E il resto? Una fra le destinazioni alternative è la sanità privata, industria cresciuta fino a diventare concorrenziale a quella pubblica. Secondo stime del Ministero della Salute si conteggiavano, sempre nel 2017, 12.255 medici nelle strutture «equiparate al pubblico», 24.213 medici nelle case di cura convenzionate e 3.326 medici nelle case di cura non convenzionate. In totale si parla di 39.794 professionisti operativi nel settore privato: una cifra pari a oltre un terzo di quelli assunti nel pubblico, anche se le due categorie non si escludono a vicenda. Ai medici assunti tout court in istituti privati si sommano, infatti, quelli che operano in un regime di libera professione: una condizione che permette di prestare servizio sia in strutture ospedaliere pubbliche che in realtà private, senza vincoli di esclusiva con il Ssn. Dati forniti da Anaao rivelano, ad esempio, che l’80% dei medici in servizio presso case di cura nel 2018 rientrava nelle categoria dei liberi professionisti. Raggiunta dal Sole 24 Ore, l’Associazione italiana ospitalità privata non ha potuto fornire dati aggregati sul totale di medici operativi nelle strutture equiparate al pubblico.

Problema tre: la carenza di alcune specializzazioni. Un terzo problema è che la carenza può essere, a volte, qualitativa. Nel senso che mancano all’appello alcune specializzazioni, ancora più preziose in un periodo di emergenza sanitaria come quella esplosa da quasi un anno. Il caso più evidente è quello degli anestesisti-rianimatori. L’Istat registrava nel 2018 un totale di 12.966 anestesisti, l’equivalente di 0,21 specialisti ogni 1000 abitanti. Prima della pandemia, il sindacato medico Aaroi-Emac stimava una carenza di almeno 4mila anestesisti-rianimatori negli ospedali italiani. Oggi il “buco” sembrerebbe essersi ridimensionato con le misure di emergenza, come il ricorso agli specializzandi degli ultimi due anni, ma la crisi sanitaria «rende inalterato il gap tra necessità e personale disponibile in questa specializzazione» spiega il presidente Aaroi-Emac Alessandro Vergallo. Le associazioni denunciano una carenza di posti per la specializzazione, marcata pure per un’altra categoria sensibile come quella della Medicina di urgenza. Ma anche in questo caso, l’insufficienza di borse di studio rivela solo parte di un problema più vasto: la disciplina è tutt’altro che in cima alle scelte dei neo-dottori, attratti - legittimamente - da branche più remunerativi e meno logoranti. In media, spiega Vergallo, una quota pari ad almeno il 10-15% degli specializzandi abbandona dopo il primo anno per ritentare il concorso verso altri ambiti. Lo scarso appeal della disciplina deriva da una lunga serie di fattori. «In primo luogo la tipologia di lavoro, particolarmente stressante, che richiede, oltre alle competenze professionali in senso stretto, una speciale attitudine ad affrontare quotidianamente emergenze tempo dipendenti in cui c'è di mezzo la vita dei pazienti - dice Vergallo - Ma un altro punto sono le condizioni lavorative. Lavorare per oltre dieci anni in carenza di organico ha determinato condizioni lavorative decisamente difficili, che si ripercuotono negativamente sulla vita privata e familiare più che in ogni altro ambito specialistico». Lo sforzo non è gratificato più del dovuto a livello economico, se è vero che gli anestesisti italiani sono pagati in media il 30% in meno dei colleghi europei. Per l’anno in corso, il ministero ha predisposto 1.600 borse per la specialità. Una buona notizia, se non fosse che Vergallo teme che «le implementazioni delle borse di studio vadano in gran parte deserte, così come per la specializzazione in Emergenza-Urgenza». La soluzione per attrarre nuovamente risorse è, anche, quella più pragmatica: «Operare una differenziazione contrattuale specifica anche sotto il profilo economico di professionisti che di fatto dedicano tutta la vita in ospedale al servizio dei cittadini».

DATAROOM. Covid, carenza di medici specialisti: un documento l’aveva previsto 10 anni fa. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2020. Il 30 novembre i 23.671 neolaureati in Medicina candidati per entrare in specialità sapranno chi è riuscito ad aggiudicarsi i 14.980 contratti di formazione finanziati dal Governo (e in parte minoritaria anche da Regioni ed enti privati). Il 30 dicembre i nuovi specializzandi inizieranno i corsi che dopo 4-5 anni li porteranno ad essere cardiologi, neurologi, ginecologi, virologi, ecc. Quest’anno il numero di contratti di formazione è decisamente più alto rispetto all’anno precedente: più +75%. In crescita soprattutto le specializzazioni di cui l’emergenza Covid ha mostrato la carenza. Medicina d’emergenza passa da 458 a 975 contratti di formazione (+113%), anestesisti da 929 a 1.697 (+83%), Malattie infettive da 104 a 344 (+231%), microbiologi da 25 a 122 (+ 388%), Patologia clinica, cioè medici di laboratorio, da 86 a 226 (+ 163%), e medici statistici da 3 a 29 (più 867%). Come abbiamo detto quest’esercito di medici sarà formato fra 4 0 5 anni, e quindi potrà fare ben poco in un momento così drammatico. Il dato di fatto è che i 115 mila medici al lavoro nelle corsie degli ospedali, che già erano già insufficienti negli anni scorsi, ora non riescono più a coprire i turni, perciò hanno dovuto richiamare in servizio i pensionati, ed è stata necessaria una definizione di nuove norme per l’emergenza Covid, che consenta già oggi di assumere gli specializzandi a cui mancano ancora due anni per terminare gli studi. Ma perché mancano specialisti?

L’allarme inascoltato. La pandemia ha travolto corsie d’ospedale già sguarnite. Per capirlo bisogna fare un passo indietro. È il 2011 quando l’Anaao, l’associazione di categoria che rappresenta i dirigenti medici e sanitari, lancia l’allarme rosso sulla mancanza di specialisti con un documento che purtroppo oggi si sta rivelando profetico: nel 2021 – è la previsione – mancheranno 30 mila medici ospedalieri. Il conto è presto fatto, anche se per forza di cose si tratta di stime: i medici in quel momento stanno scegliendo di andare in pensione a 62 anni di età e con 37 anni di anzianità. In base ai dati della Cassa pensioni sanitari Inpdap dal 2012 al 2021 avrebbero acquisito il titolo per andare in pensione 61.300 medici del sistema sanitario nazionale, cioè i nati tra il 1950 e il 1959. Facciamo due conti: con le borse di studio ferme a cinquemila l’anno, e considerando che poi solo il 75% dei neo-specialisti resta nel SSN (gli altri scelgono la strada della libera professione, del privato convenzionato, la carriera universitaria o quella di ricercatori), significa immettere una forza lavoro di 35 mila nuovi specialisti in 10 anni (3.500 l’anno), ossia poco più della metà dei possibili pensionandi.

L’andamento dei contratti di formazione. Una volta avvisati, coloro che negli anni si sono succeduti al governo, e soprattutto ai Ministeri della Salute e dell’Istruzione, hanno aumentato i contratti di formazione in modo da programmare gli ingressi in base alle possibili uscite? No. Fino al 2012 si rimane stabili sui cinquemila contratti di formazione. Nel 2013, con la Finanziaria del governo Monti del dicembre 2012 (anno della spending review), i posti addirittura scendono a 4.844 (- 3%). La diminuzione dei contratti di formazione va di pari passo con il taglio dei posti-letto: da 4,2 posti-letto ogni mille abitanti nel 2000 a 2,8 posti-letto nel 2013. Oggi nel nostro Paese sono 3,2 contro una media Ue di 4,7; il record è del Giappone che di posti letto per mille abitanti ne ha 13,1, seguito dalla Corea del Sud e dalla Germania con 8. Dal 2014 i contratti di formazione iniziano a salire: 5.748, che diventano 6.940 nel 2016, poi 7.078 nel 2018, e 8.583 lo scorso anno. Il loro finanziamento più che raddoppia, passando da poco più di 627 milioni di euro nel 2014 a oltre 1 miliardo nel 2019, per un incremento del totale di borse di studio del 59%. Ancora una volta gli ingressi non sono programmati in base alle possibili uscite. La domanda si ripropone: ma, allora, perché oggi gli specialisti non bastano? In quegli anni in contemporanea cambiano le regole pensionistiche. Con la riforma Fornero del 2012 si va in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi per i maschi, e 41 e 10 mesi per le donne. Tra pensione di anzianità (anticipata) e di «vecchiaia» escono mediamente dal sistema coloro che compiono i 65 anni. Vuol dire che nel 2015 escono i nati nel 1950, nel 2018 quelli del 1953, ecc. Ancora una volta gli ingressi non sono programmati in base alle possibili uscite.

Il saldo negativo tra pensionati e nuovi specialisti. Vediamo cosa è successo negli ultimi sei anni, ricordando sempre che un medico neolaureato che entra nella scuola di specialità sarà formato 4-5 anni dopo. Incrociando i dati dei prevedibili pensionati dal 2015 ad oggi, con il numero di specializzandi pronti nello stesso anno a prendere il loro posto, il risultato è questo: pensionabili 37.800, a fronte di 24.752 specializzati pronti per entrare nel SSN. La stima di quanti medici in meno sono stati formati rispetto a chi è andato in pensione è di 13.048. A questa cifra bisogna aggiungere il numero di contratti di formazione che vengono persi per abbandono: più o meno 500 ogni anno. Se oggi non si trovano i medici di cui ci sarebbe bisogno, altro non è che la conseguenza della programmazione sbagliata di quegli anni.

Il blocco del turnover. Possibile che in questi anni i tecnici dei Ministeri e dei governi non siano stati capaci di fare i conti e un minimo di previsione fra chi entra e chi esce? In realtà i conti li hanno fatti benissimo, e l’obiettivo è stato quello di mirare al risparmio nell’immediato. Infatti il costo per lo Stato nella formazione di ogni singolo specializzando è un investimento sul futuro, e va da 102 a 128 mila euro, ma pesa sui bilanci del momento. E allora si è scelto di scaricare su chi viene dopo la carenza di personale. Tutto questo va di pari passo con i tagli: il turnover in Sanità viene bloccato dal 2005 (art. 1 comma 198), con il governo Berlusconi 2, Prodi 2, Berlusconi 3, Monti, Letta, Renzi. Solo nel 2019, con il provvedimento voluto dal ministro Giulia Grillo, è stato possibile sbloccare il vincolo di spesa, ancora legato a un tetto fisso, pari al budget del 2004 meno l’1,4%.

Scelte controsenso. Il numero dei contratti di formazione finanziati dal Governo si è orientato al ribasso anche rispetto al numero di neolaureati in Medicina. È quello che in gergo tecnico viene definito «imbuto formativo», ovvero la differenza tra il totale dei laureati e i posti disponibili nei corsi di formazione post-laurea (specialità più corsi di formazione per medici di medicina generale). Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi 11.652 neolaureati, e la beffa è che oltre a mortificare la loro professionalità, rientrano comunque nei conteggi del numero di medici che portano l’Italia ad avere 4 medici ogni mille abitanti al di sopra della media dell’Unione che è di 3,5. La buona notizia è che oggi i contratti di formazione sono in aumento, ma paradossalmente i nuovi specialisti saranno pronti nel 2024-2025, quando il numero di pensionati in uscita è destinato a scendere. Intanto oggi, nel pieno della pandemia, siamo costretti a richiamare i «soggetti fragili», facendo appello alla loro compassione e buon cuore.

Ospedali: non solo soldi, l’emergenza attuale è la mancanza di personale. Francesco Caroli, Agitatore culturale, su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. “Soldi, soldi, soldi… sempre di più!” è questo il mood che da sempre va avanti in Italia ed in particolare sul tema sanità. Ma cosa succederebbe se scoprissimo che proprio in sanità in questo momento i soldi non sono tutto? Chi vive gli ospedali, infatti, sa bene che in queste settimane la difficoltà più grande riguarda la mancanza di professionisti, non di denaro: medici, infermieri, tecnici, Oss sono praticamente esauriti. Il collo formativo del numero chiuso delle Università e la carenza di borse di specializzazione hanno generato un deficit di disponibilità di forza lavoro qualificata (e autorizzata a compiere specifiche mansioni all’interno delle strutture sanitarie). In questo modo, i calcoli che per anni hanno determinato quanti professionisti immettere nel mercato sono andati all’aria in seguito allo shock Covid. Ma c’è di più: studiando i numeri, scopriamo che sono anni che i professionisti scarseggiano e che in tanti hanno fatto finta di non vedere un problema reale. A questo, si aggiunge una burocrazia vecchia, pesante e lenta nel percorso di reclutamento di unità lavorative oltre al mancato turnover dei pensionamenti. Così, oggi ci ritroviamo milioni di disoccupati chiusi in casa e carenza di professionisti sanitari disponibili a lavorare in ospedale da subito. Per anni ad un invecchiamento inesorabile della popolazione e quindi all’aumentare oggettivo della necessità di assistenza sono stati corrisposti tagli su tagli al personale e un’assenza totale di progettualità effettiva nel sistema formativo. E ciò è avvenuto con la scusa dell’elevato numero di dipendenti nel SSN, frutto del conteggio unitario tra personale sanitario e amministrativo (effettivamente più elevato delle medie dei grandi paesi occidentali). Ma non mancano solo medici, infermieri, tecnici e oss nei nostri ospedali, faticano a trovare spazio anche le nuove figure professionali necessarie ad un approccio medico moderno nella figura di informatici, chimici ed ingegneri biomedici. A questi deficit si aggiunge, poi, la carenza per limiti culturali delle figure organizzative sanitarie con l’illusione culturale, tutta italiana, che i gruppi di persone a lavoro si debbano autoregolamentare e autogestire. Il paradosso della carenza di professionisti sanitari “disponibili” e i tantissimi disoccupati in circolazione è frutto di un fenomeno chiamato mismatch delle competenze. Il fenomeno, che ora riguarda la sanità, nell’immediato futuro riguarderà tanti altri settori, poiché è la vera emergenza di questo secolo. A questo si aggiunge il fenomeno della mobilità dei sanitari. Spesso, infatti, per accedere alle facoltà sanitarie a numero chiuso molti si spostano per studiare e iniziano poi a lavorare lontano “da casa”. Così, la voglia di “tornare” ma, anche e soprattutto, la precarietà dei contratti portano a un walzer continuo nei gruppi di lavoro con un costo per formazione e inserimento, spesso ignorato, ma rilevante in termini economici e organizzativi. Per tutte queste ragioni, occorrere intervenire aumentando l’immissione di professionisti nel mercato attraverso l’apertura delle università, ma l’emergenza è oggi e non possiamo permetterci di aspettare. Per questo, occorrono soluzioni d’emergenza con evidenti forzature a tutto quello che è stato concepito fino ad ora. Ovvia e scontata appare la necessità di intervenire per l’estinzione del precariato in sanità e un adeguamento dei compensi dei sanitari che non possono ritrovarsi a dover affrontare moli di lavoro e rischi enormi (per sé e per i pazienti) guadagnando quanto chi si ritrova in CIG. In via eccezionale, si potrebbe proporre un “salto di mansioni al livello superiore” nelle varie professionalità con buona pace dei manuali e del perbenismo. In questa fase chi sa fare deve essere valorizzato a prescindere dal titolo di studio. Uno scorrimento di assegnazione delle mansioni libererebbe l’accesso agli incarichi di base, permettendo di avere maggiori braccia disponibili in corsia. Insomma, ad una sacrosanta richiesta di fondi, deve corrispondere una serie di interventi rivolti al tema della carenza di personale da parte delle istituzioni e dei governi regionali e nazionale. Potrebbe essere questo uno degli utilizzi più importanti dei fondi del Mes che, inspiegabilmente, non è ancora stato chiesto e ottenuto. Sono di queste ore i bandi eccezionali di protezione civile e regioni del nord per reclutare al volo personale e, francamente, non si capisce il perché ciò non sia avvenuto la scorsa estate, a dimostrazione che il tema dei fondi non è tutto. Occorre consapevolezza delle criticità, voglia di fornire soluzioni normative tempestive e progettualità delle situazioni. Sperando non sia troppo tardi.

Prima tagliano la sanità, poi piangono: tutta l’ipocrisia della sinistra. Lorenzo Zuppini su ilprimatonazionale.it il 4 Aprile 2020.  Fateci caso: adesso i liberal italiani sono tutti un fermento per la sanità pubblica che deve essere rinvigorita e foraggiata perché, nonostante lo sforzo sovrumano, il numero delle vittime del Covid-19 sta raggiungendo delle vette mostruose con un sistema sanitario sull’orlo del collasso. Non fosse stato anche per la generosità di molti privati che hanno scucito barcate di quattrini destinandoli direttamente ad opere come il nuovo ospedale all’ex Fiera di Milano, scavalcando così le montagne della burocrazia. I sacerdoti di sinistra e 5 stelle, i cui universi si stanno drammaticamente sovrapponendo, rimangono fissi sul punto come se fossero nati ieri e come se noi fossimo nati sotto un cavolo: più soldi alla sanità, ignorando appositamente che per quanti denari tu possa iniettarvi, se la classe dirigente rimane quella di Di Maio e Casalino, neanche tutto l’oro del mondo garantirebbe un buon servizio pubblico. Le risorse, soprattutto se pubbliche, vanno sapute amministrare, prima di richiederle, dopo oltretutto aver fatto carne da macello della sanità pubblica la quale ha subito dei tagli negli ultimi anni alquanto clamorosi. E il bello di questa giostra è che i sacerdoti dell’impegno civile hanno sempre sputato in faccia a chi da anni propone interventi utili ad aggredire sprechi che sottraggono soldi alla buona sanità.

37 miliardi in meno per la sanità…Nel decennio 2010-2019, il Servizio sanitario nazionale è stato disboscato per circa 37 miliardi di euro, e ci risulta che dal 2011, tranne la breve parentesi del governo gialloverde, la sinistra faccia parte delle maggioranze parlamentari che sostengono i governi nei quali essa ha espresso ministri di tutto riguardo, senza mai farsi mancar niente. È stata la famosa austerità europeista a richiederlo, sono stati poi loro ad attuarlo. Questo cascame di marxisti fucsia in fregola per Mamma Europa e tutto ciò che possa disarcionare l’Italia dalla sua sovranità, abbattendo la nazione che nella vecchia logica marxista dovrebbe esser sostituita da una grande Internazionale proletaria. E oggi, come se niente fosse, dobbiamo sorbirci i loro sermoni sulla sanità pubblica da rianimare.

…20 miliardi in più per l’accoglienza. Tanto per valutare correttamente la loro capacità di amministrare le risorse pubbliche, ossia le nostre, giova rammentare che, sempre sotto i loro coloratissimi e democraticissimi governi, l’Italia ha bruciato 20 miliardi di euro nell’accoglienza di immigrati clandestini, altrimenti detta autoinvasione afroislamica. Il 68% della spesa deriva dall’accoglienza vera e propria ossia gli euri spesi per ogni immigrato affidato alle cooperative che li gestivano, poi troviamo le spese mediche necessarie, il coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare e l’istruzione impartita ad ogni immigrato. Nel solo 2018, due anni fa dunque, lo Stato italiano ha speso circa 4,6 miliardi euro, di cui pochi spiccioli donatici dalla cara Unione Europea. Del 2019 non sappiamo ancora niente, ma le spese, seppur diminuite, continuano a sopravvivere egregiamente. Salvini aveva diminuito drasticamente la somma giornaliera per ogni immigrato accolto, portandola dai famosi 35 euro a un minimo di 19 e un massimo di 25, tentando in tal modo di attestarsi sulla media europea. La signora Lamorgese, illustre ministro dell’Interno del governo giallofucsia, ha pensato bene di aumentare la somma cadauno, poiché molti bandi lanciati dalle prefetture per l’accoglienza degli immigrati sarebbero andate deserte proprio per la riduzione dei margini di guadagno. Così, le prefetture hanno avvertito il Viminale e la Lamorgese ha risposto prontamente. Oggi, se per qualche scellerato motivo dovessero esser fatti sbarcare in Italia decine di migliaia di immigrati, lo Stato italiano che non ha posti di terapia intensiva sarebbe ben pronto a spendere per loro più di quanto necessario e più di quanto avrebbe fatto quando ministro dell’Interno era Salvini. Si tratta di un banale conto della serva col quale non intendiamo ovviamente asserire che i 20 miliardi spesi per gli immigrati sarebbe stati destinati alla sanità pubblica, piuttosto che, ancor peggio, i governi tinti di rosso-fucsia sono sempre stati solerti nel recepire le direttive dell’Ue a costo di impoverire la sanità nazionale e di finanziare l’invasionismo e la sostituzione di un popolo che non fa figli. Almeno oggi potrebbero risparmiarci le loro viscide promesse. I nostri morti meritano rispetto. Lorenzo Zuppini

Coronavirus, il record di vittime? Colpa dei tagli alla sanità. La Liuc di Castellanza: "Dove il tasso di saturazione dei reparti era più alto c’è stata una letalità maggiore, anche del 2.000%". Valentino Rigano su ilgiorno.it il 4 aprile 2020. Castellanza (Varese), 4 aprile 2020 - A uccidere chi ha contratto il coronavirus non è la sola malattia, ma la mancanza di posti letto per i tagli alla sanità. Ad affermarlo è una ricerca del Centro sull’economia e il management nella sanità e nel sociale della Liuc business school di Castellanza, in provincia di Varese. "Saturazione dei posti letto e mortalità da Covid-19, fatti e misfatti" si intitola il dossier. Secondo la ricerca, a firma di Lorenzo Schettini e Daniele Bellavia, l’Italia "a differenza di molti altri Paesi europei, è stata teatro, negli ultimi anni, di azioni di spending review, con particolare riguardo all’ambito sanitario", "per ottemperare alle richieste normative, dalla Legge Balduzzi del 2012, al Decreto 70 del 2015, sono stati tagliati complessivamente ben 7.389 posti letto". Il documento affronta poi la centralità della Lombardia nel contesto epidemiologico, definendola "regione focolaio d’origine", spiegando come l’oggetto della ricerca sia stato il "calcolo del tasso di saturazione dei posti letto di terapia intensiva nelle diverse Regioni". Basandosi sui dati relativi ai ricoveri per Covid-19 e quelli dei decessi, la ricerca spiega come "le regioni con il sistema sanitario più saturo, sono quelle che hanno un’incidenza di deceduti per Covid-19 maggiore rispetto alle più note infezioni respiratorie". Secondo il documento, "regioni come Lombardia o Val d’Aosta hanno avuto un incremento percentuale addirittura maggiore, rispettivamente, del 2.000% e del 1.000%, mentre Basilicata, Lazio e Sardegna, hanno registrato un numero di decessi per Covid-19 pressoché sovrapponibile alle morti per le più comuni infezioni respiratorie". La conclusione è che "dove il tasso di saturazione è più alto sono Lombardia, Marche, Liguria e Piemonte, che sono anche le Regioni con il più alto numero di decessi".

Storia minima di 40 anni di tagli alla sanità italiana. Simone Fontana su Wired il 12 marzo 2020. L'emergenza di queste ore non è solo frutto della contingenza, ma un problema strutturale vecchio di almeno quattro decenni. Tutti i numeri del sistema sanitario italiano, considerato ancora tra i migliori al mondo. Negli ultimi giorni il dibattito pubblico italiano ha imparato a fare i conti con la locuzione medicina delle catastrofi, l’ambito scientifico che si occupa di mettere a punto una risposta sanitaria adeguata di fronte a situazioni emergenziali e alla conseguente scarsità di risorse mediche. Diverse testimonianze giornalistiche raccontano di un sistema sanitario pesantemente sotto stress, con reparti di terapia intensiva sull’orlo del collasso e dolorose scelte sui pazienti da intubare. All’allarme lanciato dai media si è aggiunta in queste ore l’apprensione del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, che su Twitter ha parlato di “pazienti lasciati morire” perché non possono essere trattati. Al momento non esistono dati certi sulla saturazione delle strutture lombarde e numerose voci mediche escludono apertamente simili ricostruzioni, ma in nessun caso i pazienti sarebbero comunque “lasciati morire”, dal momento che anche in assenza di respiratori sono previste tutte le cure necessarie. Ciò che sappiamo con certezza, invece, è che lo stato in cui versa oggi la sanità italiana non è unicamente frutto della contingenza. È un problema strutturale, piuttosto, figlio di precise scelte di finanza pubblica, che nell’arco di 40 anni hanno contribuito a indebolire un servizio sanitario considerato, nonostante tutto, ancora tra i migliori al mondo.

I numeri della sanità italiana. Nel 2018 l’Italia ha speso per il sistema sanitario nazionale l’8,8% del Pil, una percentuale che scende al 6,5% considerando solo gli investimenti pubblici. Facciamo peggio di Stati Uniti (14,3%), Germania (9,5%), Francia (9,3%) e Regno Unito (7,5%), ma sostanzialmente in linea con la media Ocse, ferma al 6,6%. Sotto di noi solo i paesi dell’Europa orientale, Spagna, Portogallo e Grecia. In numeri assoluti ciò si traduce in un esborso per lo stato di 2.326 euro a persona (2mila meno della Germania), complessivamente 8,8 miliardi più rispetto al 2010. Un tasso di crescita dello 0,90%, dunque, che con l’inflazione media annua all’1,07% si traduce in un definanziamento di 37 miliardi. La Fondazione Gimbe calcola che il grosso dei tagli sia avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie del periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Come si legge nell’annuale relazione della Corte dei Conti, la frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si ripercuote sulla quantità e sull’ammodernamento delle apparecchiature, oltre che sulla disponibilità di personale dipendente, calato nel periodo preso in considerazione di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia, dove tutte le regioni (eccezion fatta per il Molise) spendono meno della media nazionale.

I numeri negli ospedali. I dati più affidabili per aiutarci a capire ciò che sta realmente accadendo negli ospedali italiani arrivano dall’annuario statistico del Servizio sanitario nazionale e sono aggiornati all’anno 2017. I posti letto complessivamente disponibili nelle strutture pubbliche sono 151.646 (2,5 ogni mille abitanti), che sommate alle oltre 40mila unità incluse in strutture private rappresentano un calo del 30% rispetto all’anno 2000. L’unica regione in linea con la media Ocse è il Friuli Venezia Giulia, che conta 5 posti ogni mille abitanti, quasi il doppio della media nazionale). Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Italia ha a disposizione 164mila posti letto per pazienti acuti (272 ogni centomila abitanti), dato calato di un terzo dal 1980 a oggi. I posti in terapia intensiva sono invece poco più di 3.700, che diventano 5.300 (8,4 ogni 100mila abitanti) se consideriamo anche le strutture private. Attualmente, sul territorio nazionale, i pazienti ricoverati in terapia intensiva a causa del Covid-19 sono 1.028, di cui 560 nella sola Lombardia.

 Coronavirus: il crollo della sanità pubblica. E le colpe della privatizzazione. Vittorio Agnoletto: «La sanità pubblica è stata tagliata, indebolita e smantellata. Deve essere rifinanziata e tornare a produrre salute. Non profitto per pochi». Come in Lombardia. Rosy Battaglia su Valori.it il 15.04.2020. «C’è stato un clamoroso fallimento, e di questo ne dovremo prendere atto per il futuro, della medicina territoriale. Ammettiamolo e riconosciamo questo aspetto», ha dichiarato Massimo Galli, direttore dell’Istituto di Scienze Biomediche all’ospedale Sacco di Milano, lo scorso 8 aprile ad Agorà Rai.

Più di 11 mila morti in Lombardia per coronavirus. L’intervento del primario di uno degli ospedali pubblici d’eccellenza, in prima linea dall’inizio dell’emergenza sanitaria da Covid-19, ratifica, a un mese dal lockdown istituito dal governo Conte, il crollo del sistema sanitario lombardo. Quello che, secondo la Corte dei Conti e l’Ocse, dovrebbe essere uno dei più efficienti in Italia e in Europa. E che invece oggi conta i morti: oltre 11mila persone. Compresi 100 tra medici e infermieri.

Le colpe della privatizzazione. La testimonianza del professor Galli, dall’interno del sistema ospedaliero pubblico, combacia con quanto denunciato da tempo da Vittorio Agnoletto, storico medico del lavoro, impegnato sul territorio, oggi docente di Globalizzazione e politiche della salute all’Università degli Studi di Milano. Nella sua analisi, si spinge oltre: «Le cause principali, che ci hanno impedito di reggere all’onda d’urto del coronavirus – spiega Vittorio Agnoletto – vanno ricercate proprio nell’abbandono dell’assistenza territoriale e nella privatizzazione della sanità lombarda». «Ci siamo ritrovati senza posti letto in terapia intensiva, ma anche senza dispositivi di protezione negli ambulatori. Con il 10% del personale sanitario infetto, un dato sconcertante per un paese occidentale. Senza alcun supporto ai medici di famiglia: proprio coloro che, invece, avrebbero potuto frenare la pressione su ospedali e pronto soccorso. E che ora stanno vivendo nel caos».

Il 40% della spesa sanitaria lombarda finisce a strutture private. Agnoletto ribadisce a Valori che «la sanità pubblica è stata tagliata, indebolita e smantellata. Ora deve essere rifinanziata e tornare a produrre salute. Non profitto per pochi, come è successo in Lombardia, dove il 40% della spesa sanitaria corrente è stato destinato a strutture private». A confermarlo, di fatto, è la delibera regionale XI/2906 dell’8 marzo scorso, che ha riorganizzato l’intera accoglienza sanitaria a fronte dell’emergenza coronavirus. Delibera che ha individuato come “Hub Ospedalieri”, per i pazienti Covid-19, quasi unicamente strutture pubbliche, anche per le terapie acute indifferibili. Sospendendo, invece, quasi tutte le cure ambulatoriali nel privato accreditato, chiamato anch’esso a contribuire all’emergenza. Tutto ciò è avvenuto, gradatamente, solo dal 12 marzo 2020. Lo ha reso noto la stessa Regione Lombardia. Come? Con un annuncio a pagamento, alla vigilia di Pasqua, sui quotidiani lombardi, insieme all’Associazione Italiana per l’Ospedalità Privata, all’Associazione Religiosa Istituti Socio Sanitari e a Confindustria.

Emergenza Covid-19: tutta sulle spalle degli ospedali pubblici. «Ricordiamo che, su 100 ospedali pubblici, il 60-70% ha un pronto soccorso e un reparto per emergenze. Nel privato non si arriva al 30% – ribadisce Agnoletto – In questi anni si è lasciato totalmente alla sanità pubblica l’onere dell’emergenza e al privato il profitto determinato dalla cura dei malati cronici». Percentuali che non corrispondono alla tanto decantata «partecipazione paritaria della sanità privata al servizio sanitario della Lombardia». Lo dimostrano le elaborazioni dei dati forniti dalla stessa amministrazione, effettuate dalla professoressa Maria Elisa Sartor del Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano, secondo cui «la supposta parità fra erogatore pubblico e privato», alla resa dei conti, non si è dimostrata tale. Proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno. «Al 29 febbraio 2020 in Lombardia le strutture di ricovero e cura in prima linea nell’emergenza coronavirus sono tutte pubbliche – scrive la professoressa Sartor – Ospedale di Codogno (LO), Ospedale di Casalpusterlengo (LO), Ospedale di Lodi (LO), Ospedale di Crema (CR), Ospedale di Cremona (CR), Ospedale Sacco (MI), Ospedale Niguarda (MI), Ospedale San Paolo (MI), IRCCS Policlinico Ca’ Granda (MI), IRCCS San Matteo (PV), Ospedale San Gerardo di Monza (MB), Spedali civili (BS), Ospedale S. Anna (CO), Ospedale Papa Giovanni XXIII (BG), Ospedale Carlo Poma (MN)». «L’informazione circa la “natura pubblica” delle strutture in prima linea nell’identificazione e nella cura dei contagiati dal coronavirus è, quindi, la prima notizia rilevante su cui soffermarsi – precisa la professoressa – La seconda notizia è l’assenza sostanziale nell’emergenza in Lombardia, e nel periodo considerato, di un ruolo rilevante della sanità privata».

Oneri al pubblico, guadagni al privato. La fotografia scattata dalla professoressa Sartor ci dice che, prima dello scoppio dell’emergenza coronavirus, in tutte le province, tra le strutture di ricovero ordinario, quelle private superavano il 50%, anche quelle maggiormente colpite dal Covid-19, come Milano, Bergamo e Brescia. Suddivisione tra sanità pubblica e privata delle strutture in Lombardia, anno 2017. Elaborazione su su flussi informativi Regione Lombardia a cura di Maria Elisa Sartor, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano. Pubblicato da Centro Sereno Regis, Torino. Nel 2017 solo il valore dei ricoveri nelle cliniche del privato accreditato era arrivato a quasi a un miliardo di euro, 974 milioni, ben il 45,5% a fronte di 1 miliardo e 169 milioni di euro del pubblico. I dati sono stati ricavati da un’accurata analisi dei flussi informativi pubblici – come ha confermato Maria Elisa Sartor a Valori – resasi necessaria, in quanto bilanci e informazioni sul sistema socio-sanitario della Lombardia non sono, a tutt’oggi, così facilmente accessibili e trasparenti. Suddivisione e valorizzazione tra sanità pubblica e privata dei soli ricoveri ordinari e Day Hospital in Lombardia, anno 2017. Elaborazione Maria Elisa Sartor, Dipartimento di Scienze Cliniche e di Comunità dell’Università degli Studi di Milano, pubblicato da Centro Sereno Regis, Torino.

L’efficienza economica non può misurare la qualità di un sistema sanitario. L’Italia, sia secondo i dati OCSE che Bloomberg, nonostante i tagli draconiani che l’hanno portata ad avere una delle spese sanitarie più basse d’Europa,  è rimasta in testa nelle classifiche internazionali, fino al 2019. Ma si allontana, sempre più, dal ricoscimento ottenuto nel 2000, da parte dell’OMS, come una delle nazioni con la sanità tra le migliori al mondo. «Riconoscimento ottenuto per qualità di cure, strutture e presenza di personale sanitario, ottenuti con la riforma del 1978», ricorda Agnoletto. «Mancano medici specializzati e di famiglia, infermieri. Manca il turnover generazionale», aveva già sottolineato a Valori Nerina Dirindin. La Fimmg (Federazione italiana medici di famiglia) ha calcolato, infatti, che nei prossimi 5 anni andranno in pensione più di 14mila medici di famiglia. Mancano, anche e soprattutto, medici specialisti, almeno 16.500, a causa dell’imbuto formativo, con insufficienti borse di studio, sia per per la medicina generale, che per le specialità. Tra quelle che che si troveranno maggiormente sguarnite, secondo lo studio di Anaoo-Assomed, oltre pediatria, anestesia e rianimazione, medicina d’urgenza. Scenario che spiega come in piena crisi, proprio in Lombardia siano dovuti arrivare medici specializzati da Cuba, per esempio.

La metà degli italiani over 65 anni soffre di patologie croniche. E i risultati dello smantellamento della sanità pubblica, intanto, cominciano a farsi vedere. «Proprio i dati OCSE ci mostrano come la qualità della salute tra la popolazione italiana stia crollando. Più della metà degli italiani, dopo i 65 anni, non ha più una vita sana, lamentando una o più patologie croniche». Quelle su cui si riversano le attenzioni della sanità privata in Lombardia. Conclude Agnoletto: «Oltre tre milioni di cittadini, secondo il disegno della giunta regionale, non dovrebbero più sottostare alle cure dei medici di base. ma ai cosiddetti “gestori” che, nella stragrande maggioranza, sono strutture private, sorrette da fondi finanziari internazionali».

Non solo in Italia: la sanità in Europa paga le politiche di austerità. Intanto, tutta l’Europa si ritrova a combattere la più grande pandemia del secolo e a non poter far altro, per ammissione di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che applicare le misure di distanziamento sociale, isolare gli anziani, mentre si lavora al vaccino. Una situazione che evidenzia, ancora una volta, come le politiche di rigore, applicate anche con i tagli alla spesa pubblica destinati alla sanità, si siano rivelati un tragico boomerang. A denunciarlo, in Francia, oltre al sindacato dei medici internisti, è stato anche il presidente della federazione sanità privata, Lamine Gharbi, che ha ammesso: «Oggi stiamo pagando le conseguenze della politica di austerità». Proprio per questo restano fondamentali le scelte operate all’interno di ogni Paese e, nel caso italiano, dalle singole regioni.

 (AGI il 6 luglio 2020) - Ben 400 ospedali in meno negli ultimi 20 anni, circa 200 solo dal 2007, con una media di 20 chiusure ogni 12 mesi. I nosocomi privati erano 4 su 10 nel 1998, sono 5 su 10 oggi. Crollati i posti letto: 120.000 in meno tra il 1998 e il 2017 (-39%). Giù anche il personale sanitario con una perdita di 45.783 posti di lavoro negli ultimi 10 anni: il totale di medici, infermieri, amministrativi e tecnici è passato dai 649.248 del 2007 ai 603.375 del 2017 con una riduzione del 7,1%. Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi di Unimpresa sulla “Sanità italiana negli ultimi 20 anni” secondo il quale i posti letto in terapia intensiva sono aumentati di 698 unità tra il 2007 e il 2017 (+16%). «I dati dimostrano il declino di uno dei capisaldi di protezione sociale del nostro Paese e sul quale è opportuno tornare a investire, sfruttando i 37 miliardi di euro messi a disposizione dall’Unione europea attraverso il Mes. La spesa sanitaria può rappresentare, tra l’altro, anche un importante volano per la ripresa economica. In ogni caso, serve una diversa attenzione alla materia, per corretta programmazione» commenta il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara. «Non si può prestare attenzione alla sanità pubblica solo di fronte a emergenze. Il denaro che possiamo prendere con tassi dello 0,08% va speso in quattro comparti: ospedali e personale sanitario, servizi medici e assistenza territoriale, digitalizzazione, ricerca perché in 10 anni ben 11.000 studiosi sono andati all’estero» aggiunge Ferrara. Secondo il rapporto del Centro studi di Unimpresa, che ha elaborato dati della Corte dei conti, dal 1998 al 2007 gli ospedali in meno sono 381 (197 dal 1998), con una riduzione di circa 20 nosocomi l’anno: erano 1.381 20 anni fa, 1.197 nel 1998 e 1.000 nel 2017. Tra il 1998 e il 2017 la contrazione è pari al 27,6%; tra il 2007 e il 2017 è pari al 16,5%. Nell’ambito del Sistema sanitario nazionale, si registra una variazione nella distribuzione tra ospedali pubblici e privati, con questi ultimi che sono progressivamente cresciuti anche se restano la quota minoritaria: gli ospedali pubblici erano il 61,3% nel 1998, il 55% nel 2007 e il 51,8% nel 2017; quelli privati erano il 38,7% nel 1998, il 45% nel 2007 e il 48,2% nel 2017. Le strutture private erano 4 su 10 nel 1998, oggi sono 5 su 10, di fatto la metà. In forte diminuzione anche i posti letto: erano complessivamente 311.000 nel 1998 (5,8 per abitante), sono calati a 225.000 nel 2007 (4,3 per abitante) e ancora a 191.000 nel 2017 (3,6 per abitante). La diminuzione è stata di 120.000 posti letto (-38,8%) dal 1998 al 2017 e di 34.000 posti letto (-15,1%) dal 2007 al 2017. Sono invece cresciute le terapie intensive: negli ultimi 10 anni sono passate da 4.392 a 5.090 in crescita di 698 unità (+15,9%). La riduzione dei posti letto non è stata accompagnata da un calo della spesa sanitaria che già tra il 2003 e il 2005 è salita da 82,3 miliardi a 96,5 miliardi. La contrazione ha riguardato anche il personale: i posti d lavoro in meno negli ultimi 10 anni sono pari a 45.873 (-7,1%), erano 649.248 nel 2007, sono scesi a 603.375 nel 2007. La distribuzione del personale è la seguente (71,5% medici e infermieri, 17,6% tecnici e 10,7% amministrativi). Nel dettaglio, tra il 2007 e il 2017 i medici sono passati da 264.177 a 253.430 (meno 5.700) gli infermieri da 264.177 a 253.430 (meno 10.737) , i medici famiglia da 46.961 a 43.731 (meno 3.230), le guardie mediche da 13.109 a 11.688 (meno 1.421) i pediatri da 7.657 a 7.590 (meno 67).

DAGONEWS il 6 luglio 2020. Ricordate il San Raffaele di Don Verzè, i legami strettissimi con la politica, le istituzioni e i servizi segreti del prete, che hanno portato grandi successi per il gruppo della sanità e parecchi guai a personaggi come Roberto Formigoni? Certi rapporti non finiscono: dopo la morte del prete, avvenuta mentre la sua fondazione Monte Tabor era a un passo dal crac, la famiglia Rotelli con il suo gruppo San Donato ha preso il controllo dei redditizi ospedali e università. Il patron Giuseppe è nel frattempo scomparso, lasciando gli affari in mano al figlio Paolo. Che ha imparato la lezione del vecchio don, grande amico di Berlusconi e Pio Pompa. Infatti il presidente della San Donato è Angelino Alfano, ex ministro di vari governi, ex delfino berlusconiano e attuale partner dello studio legale più grande d'Italia, Bonelli Erede. Roberto Maroni invece, dopo aver guidato per anni la sanità lombarda e dunque i rimborsi miliardari che arrivano al gruppo San Donato, è stato ingaggiato nel cda dei loro ospedali brianzoli, mentre l'ex consigliere regionale di Ncd Angelo Capelli in quelli della bergamasca. Non solo. Augusta Iannini, già magistrato e capo dell'Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente del garante Privacy. Moglie di Bruno Vespa, è nel cda sia della San Donato che in quello del S. Raffaele. E oggi, scrivono Barbacetto e Pacelli sul ''Fatto Quotidiano'', si aggiunge l'ultimo tassello: Giuseppe Caputo, generale della Guardia di finanza arrivato all'Aise molti anni fa e che ora ha presentato domanda di "collocamento a riposo", ossia pensione, con decorrenza da fine luglio. Caputo poi andrà al San Donato, il gruppo che conta 19 tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti e che nel 2018 ha fatturato di 1,65 miliardi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata. Caputo entrerà nell'"Ufficio compliance, protezione aziendale e relazioni con le istituzioni", che cura la security del gruppo e tiene i contatti politici e istituzionali. Affiancherà un vecchio collega, Claudio di Sabato, anch'egli ex generale della Gdf ed ex ufficiale dell'Aise, arrivato al San Donato nel 2019 e che resta il numero uno. Caputo dovrà occuparsi delle relazioni istituzionali e della sicurezza, in vista della programmata espansione del gruppo San Donato nei territori del Sud Italia. "Avevamo bisogno di una figura professionale come la sua per operare in un territorio complicato come il Meridione, a rischio di infiltrazioni criminali", spiegano fonti del gruppo. Insomma, porte girevoli molto discrete e molto milanesi, ma non di meno ''pesanti''… Non solo Maroni e Alfano: Sua Sanità ingaggia spioni.

San Donato – Il primo gruppo della sanità privata dopo aver arruolato ex ministri, assume anche agenti dell’Aise: in arrivo pure il vicedirettore di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli su il Fatto Quotidiano il 6 Luglio 2020. Non ci sono soltanto ex ministri (sempre di centrodestra). Il Gruppo San Donato di Paolo Rotelli, primo in Italia nella sanità privata e attivo in Lombardia, assolda non solo politici del calibro di Angelino Alfano e Roberto Maroni, ma anche agenti segreti. Nell’Aise (i servizi segreti per l’estero) in questi giorni si sta giocando la partita per decidere le nomine dei nuovi vertici. Come direttore è già arrivato Gianni Caravelli, al posto di Luciano Carta, diventato presidente di Leonardo. Mancano le nomine dei vice (che potrebbero arrivare a breve). Sono due le caselle da riempire: c’è quella lasciata libera da Caravelli e poi quella occupata da Giuseppe Caputo, generale della Guardia di finanza arrivato all’Aise molti anni fa e che ora ha presentato domanda di “collocamento a riposo”, ossia pensione, con decorrenza da fine luglio. Caputo poi andrà al San Donato, il gruppo che conta 19 tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti e che nel 2018 ha fatturato di 1,65 miliardi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata. Caputo entrerà nell’“Ufficio compliance, protezione aziendale e relazioni con le istituzioni”, che cura la security del gruppo e tiene i contatti politici e istituzionali. Affiancherà un vecchio collega, Claudio di Sabato, anch’egli ex generale della Gdf ed ex ufficiale dell’Aise, arrivato al San Donato nel 2019 e che resta il numero uno. Caputo dovrà occuparsi delle relazioni istituzionali e della sicurezza, in vista della programmata espansione del gruppo San Donato nei territori del Sud Italia. “Avevamo bisogno di una figura professionale come la sua per operare in un territorio complicato come il Meridione, a rischio di infiltrazioni criminali”, spiegano fonti del gruppo. Così si è pensato a un professionista che in Aise ha messo piede nel lontano 1998 e che è poi stato capo di gabinetto di Alberto Manenti, quando questi guidava i servizi segreti per l’estero, per poi diventarne vicedirettore. Con l’arrivo dello 007 si completa la squadra di vertice del San Donato. Nel luglio 2019 era stato scelto l’ex delfino di Silvio Berlusconi e poi fondatore del Nuovo Centro Destra, Angelino Alfano, chiamato con il ruolo di presidente del San Donato. Nel giugno 2020, invece, sono stati formati i nuovi consigli d’amministrazione delle società del gruppo. Tra i nuovi arrivi c’è stato anche Roberto Maroni, ex ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente della Regione Lombardia, entrato nel cda degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo. E poi c’è Augusta Iannini, ex magistrato di Roma, capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy. Iannini, moglie di Bruno Vespa, è entrata a far parte del consiglio d’amministrazione della holding e in quello dell’Ospedale San Raffaele, fiore all’occhiello del gruppo. E dunque: Alfano, Maroni, Iannini. Impossibile non notare come gli organigrammi del gruppo siano pieni di figure che vengono da partiti e da ministeri, personalità che di certo durante la loro carriera hanno tessuto non pochi rapporti. Inoltre, gran parte del fatturato del San Donato proviene dai soldi pubblici, tramite gli accreditamenti che i suoi ospedali hanno ottenuto, a partire dai bei tempi della riforma di Roberto Formigoni che ha aperto il sistema sanitario lombardo ai privati (un modello che durante la crisi Covid ha mostrato tutti i suoi limiti). Ma forse la politica non basta. Al gruppo evidentemente serve anche chi ha avuto esperienze di primo piano nelle strutture dell’intelligence.

Sorpresa: 6 italiani su 10 contenti del servizio sanitario. Il Dubbio il 16 giugno 2020. Il nostro Servizio Sanitario Nazionale si caratterizza, rispetto ai sistemi degli altri paesi industrializzati si basa su tre principi fondamentali: universalità, uguaglianza ed equità. In base ad un’indagine INAPP il Servizio Sanitario Nazionale è giudicato più che positivamente da 6 italiani su 10, ma per metterlo in sicurezza, dopo l’esplosione del Covid-19, bisogna rilanciare i servizi territoriali, vero anello debole di questi mesi e perno delle cure primarie. Per far questo sia con il Cura Italia che con il decreto Rilancio il governo ha messo in campo risorse che puntano anche al riequilibrio tra l’offerta ospedaliera (1.4 miliardi di euro) e i servizi territoriali (1.2 miliardi di euro) nei diversi sistemi locali della sanità italiana. È quanto emerge dallo studio “Il sistema sanitario di fronte all’emergenza: risorse, opinioni e livelli essenziali” dell’INAPP, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche. In particolare nello studio si mette in evidenza come il nostro Servizio Sanitario Nazionale si caratterizza, rispetto ai sistemi degli altri paesi industrializzati, per due aspetti: i tre principi fondamentali su cui si basa (universalità, uguaglianza ed equità); l’organizzazione (in particolare la governance multilivello e l’integrazione fra l’assistenza sanitaria e quella sociale). Dai dati INAPP-Plus emerge che 6 cittadini su 10 giudicano positivamente la sanità di base e quella di emergenza. Tuttavia questo è il valore medio; rimangono profonde le differenze tra i territori: in Trentino alto Adige e Emilia-Romagna la valutazione positiva è di oltre 8 persone su 10, mentre in Calabria e Molise si scende a 3 persone su 10. L’epidemia del virus Covid-19 ha fatto emergere le differenti capacità dei modelli regionali in termini d’infrastrutture territoriali e di personale qualificato disponibile. In ciò hanno giocato soprattutto il mancato inserimento negli anni del personale infermieristico e il sottodimensionamento nell’offerta di posti letto, drasticamente diminuita a partire dal 2004. Si arriva, nel complesso ad una riduzione netta del 20% di posti letto ordinari, con particolare concentrazione nel Centro Italia (-30%) e nel Meridione (-24%). Emerge inoltre come tra il 2011 e il 2017 la quota di lavoratori negli Enti Sanitari Locali con contratti di collaborazione o altre forme atipiche sia cresciuta del 78% e il lavoro temporaneo del 23,7%. Inoltre, in generale, la riduzione di risorse umane ha riportato il numero complessivo di dipendenti del SSN in servizio nel 2017 (658.700 unità) ad un livello inferiore a quello del 1997 (675.800 unità). Le riduzioni degli ultimi anni hanno riguardato, e questo è molto significativo, soprattutto i medici (-6% tra il 2010 e il 2017) e il personale infermieristico, che già risulta notevolmente inferiore alla media dell’UE (5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro gli 8,5 dell’UE) e che in media a livello italiano è diminuito del 4% nello stesso periodo. Tutto questo è accaduto mentre è aumentata la spesa diretta delle famiglie: nel 2017 le risorse pubbliche hanno coperto il 74% della spesa complessiva (152,8 miliardi), mentre la spesa diretta delle famiglie il restante 26% (circa 39 miliardi, di cui 35,9 direttamente pagati dalle famiglie e 3,7 attraverso assicurazioni private). Rapidamente e congiunturalmente il decreto Cura Italia e più compiutamente il decreto Rilancio hanno previsto misure specifiche dedicate al settore sanitario.

Salvatore Bragantini per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2020. Dobbiamo imparare la lezione della crisi. Se fossimo stati più saggi prima, avremmo evitato poi un lungo blocco. A un Paese non s' applicano le regole d'una famiglia, ma il tetto della casa va costruito finché splende il sole. Secca sentirsi ammonire di fare i compiti a casa, ma chi li rimanda quand'è bello, li farà, male, sotto l' acqua. Le «prediche inutili» che ci ammonivano contro la spesa eccessiva mostrano oggi tutta la loro utilità; basta confrontare i passi, rapidi e ampi, degli scialbi teutoni sulla china della crisi con quelli, incerti e piccoli, che facciamo noi sudando, brillanti, sotto lo zaino pieno di debiti. Questo peso ci impone di bloccare la vita sociale, strozzando l' economia, per salvare vite. Il Paese tutto, incluse vaste zone dove il virus non è apparso, s'è tappato in casa perché la struttura sanitaria, debilitata da troppi tagli, non crollasse sotto un numero di ricoveri ingestibile. Se non avessimo tagliato tanto la spesa sanitaria non saremmo stati costretti a misure che rischiano gravi effetti - economici, politici e sociali - che ancora ci sfuggono. Con dotazioni simili, ad esempio, alla Germania, non avremmo dovuto fermare tutto così a lungo, per non far morire la gente per mancanza di spazi, persone, attrezzature. Si può obiettare che quei tagli servivano proprio a ridurre i debiti, ed è arduo uscire dal circolo vizioso; governare è però scegliere, e scelte dalla vista corta hanno effetti di lunga lena. In sintesi, per non lasciar più scoperto il Paese su tale vitale fronte, dobbiamo investire in strutture sanitarie, in ricerca e giacché ci siamo, in istruzione; non sono spese, ma investimenti, necessari alla società tutta. Il debito va ridotto via via, seguendo con costanza politiche di sviluppo. Altrimenti l' economia è la prima a soffrire. Le risorse le abbiamo, ma solo una vera rivoluzione nella Pubblica amministrazione può liberarle, anche recuperando l' ingente evasione fiscale. Gli strumenti ci sono; bisogna solo capire che, se non li usiamo, non ci salviamo.

Tagli alla Sanità, scomparsi 339mila posti letto in 36 anni: ogni partito ha le sue colpe. Fabrizio Boschi l'8/04/2020 su Notizie.it. Dal 1981 a oggi i politici di qualsiasi schieramento hanno tagliato quasi 2/3 dei posti letto negli ospedali italiani. C’è un meme amaramente divertente che gira sui social in questi giorni: “Avete dato un milione al mese ai calciatori e 1300 a medici e ricercatori. Ora fatevi curare da Ronaldo”. L’ultima fake news che gira è che noi italiani siamo fortunati rispetto ad altri Paesi, tipo gli Usa, perché da noi “la sanità è gratis”. Gratis? Lo Stato inghiotte il 70% di tasse sul reddito, ma poi la Protezione civile la dobbiamo finanziare noi. Con quello che paghiamo per la sanità pubblica (sempre di più, ma sempre solo noi minoranza che lavora) dovremmo avere le ambulanze della Ferrari. Buttano al vento 531 miliardi di tasse (sempre in costante crescita rispetto all’anno precedente), regalano 10 miliardi per pagare chi non lavora e poi gli ospedali non hanno nemmeno le mascherine di carta. Ma scommetto che dopo questo disastro dello Stato italiano la ricetta condivisa da tutti sarà: bisogna dare più soldi allo Stato italiano. È intollerabile, stucchevole e irritante, ascoltare in questi lunghi giorni di quarantena, tanti sapientoni o politiconi che discettano ricette su come risolvere i problemi del nostro sistema sanitario, proprio loro che hanno contribuito a distruggerlo. Cioè tutte le forze politiche di ieri e di oggi che hanno governato questo Paese negli ultimi 40 anni. Sinistra, centro, destra: tutti. Il Centro Studi Nebo riporta dati incontrovertibili sulla situazione che stiamo vivendo oggi.

Nel 1981 i posti letto negli ospedali erano 530mila. Al governo c’è il pentapartito: Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli. Abbiamo presidenti del Consiglio cattolici e laici: da Goria a Craxi, da Andreotti a Spadolini. È il decennio che chiude la Prima Repubblica, il decennio della Grande Mangiatoia dello Stato.

E dal 1981 al 1992 i posti letto scendono, come per magia, a 365mila. Scattano le grandi riforme della sanità, datate ’92, ’93 e ’99, e si entra nella Seconda Repubblica. Ma anche qui governano tutti: da Amato a Ciampi, da Berlusconi a Prodi fino a D’Alema. Le aziende sanitarie diventano oltre 200 con quasi 1.500 strutture diverse, ognuna delle quali si muove su binari e clientele diverse. Un caos indicibile.

In vent’anni, dal 1992 al 2010, i posti letto calano ancora, fino a 245mila. Nel 2010 Berlusconi e Tremonti bloccano la spesa per il personale, ma da qui in poi non si può più dare la colpa al Cavaliere.

Dal 2012 iniziano i tagli di Monti: via il 5% della spesa sanitaria e di colpo spariscono oltre settemila posti letto.

Poi la palla passa a Letta e quindi a Renzi, che nel 2015 chiede 4 miliardi alle Regioni per lo Stato, soldi che le Regioni non hanno e trovano solo rinunciando a due miliardi di trasferimenti promessi da Renzi stesso. Per cosa? Per la sanità.

Così nel 2017, ultimo dato disponibile, i posti letto negli ospedali toccano i 191mila, quasi un terzo rispetto al numero del 1981 in un Paese che nel frattempo è diventato essenzialmente di vecchi perché la medicina ha fatto passi avanti e per cui si campa di più. Follia pura. Di più: letale, come stiamo vedendo in questo periodo. Tanto per fare un esempio, nel 1998 c’erano 5,8 posti letto ogni mille abitanti, nel 2017 sono 3,7.

Nel 2018, il governo Conte-Salvini vara la famigerata quota 100 per i pensionamenti.

Per la sanità è un’altra botta, che si aggiunge alla devastante legge Fornero: entro il 2023, fra medici e dirigenti, ne andranno via 70mila su 100mila.

L’esempio toscano. In Toscana negli ultimi 10 anni si sono chiusi 5 ospedali e ci viene detto che ne sono stati riaperti altrettanti. Peccato nessuno aggiunga che il saldo dei posti letto è negativo: sono 450 in meno. E meno male che il governatore Enrico Rossi, in carica esattamente da 10 anni, è stato prima di presidente per altri 10 anche assessore alla Salute. Sì, la sua. Una vita intera stipendiato dalla politica servita unicamente per frantumare il sistema sanitario regionale. Alla distruzione del nostro sistema sanitario nazionale, invece, ci hanno pensato tutti gli altri. E oggi ci lamentiamo se, a causa di una emergenza, per carità mai vissuta prima, mancano strutture, letti, materiali, attrezzature, nonché medici, infermieri, gli unici innocenti di questa strage provocata dai politici. Che oggi piangono lacrime di coccodrillo e fanno finta di niente, impastati nella loro stucchevole retorica buonista. Anche il professore di diritto civile, l’avvocato del popolo, Giuseppe Conte, mai eletto da alcuno, è diventato un professionista di questo. A tal proposito, mi viene in mente un caro amico, un decano del giornalismo, dal quale ho imparato molto di quello che so su questo assurdo mestiere e che è stato il mio capo quando ero a Firenze, Luciano Olivari, che sui social ama decantare il XX canto dell’Inferno. In tv siamo invasi da politici della prima ora esperti di tutto, da virologi sapientoni che poi puntualmente vengono smentiti dai fatti. Di gente che ci vuole raccontare un futuro che in verità oggi nessuno conosce. Il XX canto è quello dei fraudolenti, degli ingannatori. Qui Dante e Virgilio incontrano gli indovini, i maghi. La loro condanna è quella di camminare in un incedere lento ed eterno, con la testa rigirata all’indietro, piangendo lacrime incessanti, che scendono giù lungo le loro schiene. Camminano all’indietro come penitenza per il fatto che, al contrario, in vita hanno voluto guardare troppo avanti, tirando a indovinare. “La storia è con noi e vediamo alla fine che piega prenderà”, dice Conte che cita Churchill. Se questo girone dell’Inferno esiste davvero, solo con i nostri politici dovrà mettere un cartello fuori dalla porta con scritto: “Sold out”.

Ecco i Governi che hanno tagliato (e quanto) alla Sanità. Da Mario Monti a Giuseppe Conte ecco gli esecutivi (di tutti i partiti) che hanno tolto soldi al SSN. Barbara Massaro il 3 aprile 2020 su Panorama. Negli ultimi 10 anni i fondi alla Sanità pubblica sono stati tagliati per un totale di 37 miliardi di Euro. Denaro mai arrivato alle strutture sanitario ospedaliere per riduzione del budget o per mancata erogazione di fondi già stanziati.   A diffondere i numeri che meglio spiegano perché l'Italia è arrivata impreparata da un punto di vista ospedaliero e sanitario ad affrontare l'epidemia da Covid-19 è stata la Fondazione Gimbe che ha pubblicato un dettagliato rapporto sui tagli alla sanità nel decennio 2010-2019. Il primo dato generale che emerge è che a fronte di un crescente e costante incremento del fabbisogno sanitario nazionale i fondi sono stati sistematicamente tagliati. Nel 2017, ad esempio, alla sanità è stato destinato il 6,4% del Pil e la spesa è stata suddivisa per il 74% a carico dello Stato, per il 24% a carico delle famiglie e per il 2% a carico delle assicurazioni. I dati arrivano dalla Commissione europea che spiega che peggio di noi ci sono solo Spagna, Portogallo e Grecia. Per fare un confronto stando agli ultimi dati Istat disponibili, la Germania nello stesso periodo destinava alla Sanità il 165% di fondi pubblici in più di noi, la Francia il 90% in più e la Gran Bretagna il 66% in più. I responsabili di questo dissesto, quindi, hanno un nome e un cognome e sono coloro che hanno approvato, firmato e permesso un taglio complessivo di 0,4 punti percentuali del Pil nazionale in 10 anni alla sanità pubblica sia sotto forma di riduzione del budget sia per mancata erogazione di fondi promessi e mai stanziati. I numeri sono impressionanti. Sotto il governo guidato da Mario Monti tra il 2012 e il 2013 sono stati promessi alla sanità 8 miliardi di euro mai erogati. Con la finanziaria del 2014 - a Palazzo Chigi sedeva Enrico Letta - sono spariti 8,4 miliardi di euro.  Matteo Renzi nel triennio successivo (2015-2017) è riuscito a negare al Ssn 16,6 miliardi di euro, anche in questo caso i fondi erano previsti, ma non sono mai stati erogati. Con la finanziaria del 2018 Paolo Gentiloni ha seguito il copione dei suoi predecessori e a ospedali e strutture sanitarie nazionali non sono stati dati 3,3 miliardi di euro e solo pochi mesi fa – Finanziaria 2019 – Giuseppe Conte ha chiuso il cerchio con un taglio di 0,6 miliardi. Il male tutto italiano è che a fronte di un'ottima formazione del personale medico e infermieristico (e l'abnegazione e professionalità dei nostri dottori è sotto gli occhi di tutti) i posti letto negli ospedali non bastano, le spese di gestione e mantenimento delle strutture sono insufficienti, i macchinari sono contati e a fronte di un nemico tanto subdolo quanto potente come è il Coronavirus il sistema sanitario è collassato. Dietro al collasso c'è, pertanto, un programma politico finanziario volto a depotenziare il sistema ospedaliero italiano attraverso una costante riduzione dei numeri di posti letto che si protrae da un ventennio a questa parte. Secondo l'Annuario statistico nel 1998 in Italia c'erano 1381 istituti il 61,3% pubblici e 38,7% privati per un totale di 5,8 posti letto per 1.000 abitanti. Nel 2017 il sistema sanitario nazionale disponeva di 1.000 istituti di cura (51,80% pubblici e 48,20% privati) per un totale di 3,6 posti letto ogni 1.000 abitanti. Calcolatrice alla mano in 10 anni sono spariti 37 miliardi di euro, denaro che avrebbe reso il nostro sistema sanitario più solido ed efficace, in grado di assorbire e gestire meglio l'epidemia e non avrebbe costretto i medici a decidere chi intubare e chi no in scienza e coscienza a costo di centinaia di vite umane che forse avrebbero potuto essere salvate.

Quando i tagli presentano il conto: spesa italiana in Sanità al di sotto della media Ue. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 31 marzo 2020. Secondo Eurostat, la spesa pro capite italiana per la sanità è di 2.523 euro, quella tedesca di 4.459, quella francese di 3.883. Posti letto in corsia, terapie intensive allo stremo e dispositivi sanitari di protezione introvabili. Tra le fragilità del nostro Paese messe in evidenza dall’emergenza Covid-19, la sanità merita di certo un posto in prima fila. E non certo per la professionalità, la qualità e l’impegno al limite dell’eroico del personale sanitario mandato in trincea a combattere contro il virus. La vulnerabilità, semmai, è tutta da ricercare nei tagli, spesso imposti da politiche rigoriste, che negli anni hanno indebolito pesantemente il sistema sanitario italiano. Per rendersene conto basta dare un’occhiata allo studio pubblicato ieri da Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione) che ha analizzato i dati del 2017 di ogni singolo Paese: la spesa dell’Italia nel sistema sanitario pubblico e privato è infatti al di sotto della media dell’Ue, che si aggira attorno ai 2.887 euro per abitante. Il dato italiano si ferma a una spesa di 2.523 euro pro capite. Ma la differenza, apparentemente esigua, non inganni. La media europea, infatti, scende a causa soprattutto dei picchi negativi, come quello romeno, dove ogni singolo cittadino paga 494 euro per la sanità, o quello bulgaro, con 591 euro. Ci sono però dieci Paesi che prestano molta più attenzione dell’Italia al sistema sanitario. Tra questi, spiccano senz’altro la Svezia (con 5.206 euro a testa), la Danimarca (5.134), il Lussemburgo (5.083 euro) la Germania (con 4.459 euro pro capite) e la Francia (3.883). Senza contare olandesi, austriaci, irlandesi e finlandesi. Meno di noi, spende solo la Spagna tra i Paesi più grandi: 2.221 euro ad abitante. Se poi si guarda la spesa in relazione al Pil, Francia e Germania si piazzano, pari merito, al primo posto con 11,3 per cento, seconda la Svezia (con l’11 per cento). Anche in questa speciale classifica l’Italia, con l’8,8 per cento, si posiziona ben al di sotto della media Ue (fissata al 9,9 per cento), superata per un soffio anche dalla Spagna (8,9). Fanalino di coda: sempre la Romania con il 5,2 per cento del Pil. Perché la pandemia abbia trovato il nostro sistema così impreparato non è dunque più un mistero, dopo decenni di sforbiciate alla cieca. «I dati sulla spesa sanitaria in Europa dimostrano quello che Azione sta dicendo da novembre: il principale pilastro del nostro welfare e della nostra comunità è stato colpevolmente indebolito», commenta il solo Carlo Calenda. «Tra le tante spese stravaganti fatte i partiti si sono dimenticati di sanità, scuola e sicurezza. I tre compiti fondamentali dello Stato. Azione continuerà a battersi anche dopo l’emergenza perché questa lezione non sia dimenticata». Eppure in base ai dati Eurostat e Ocse, tra il 2000 e il 2017, compreso dunque il periodo in cui Calenda ha fatto il ministro dello Sviluppo economico per Renzi e Gentiloni, nel nostro Paese il numero dei posti letto pro capite negli ospedali è calato di circa il 30 per cento, arrivando a 3,2 ogni mille abitanti, mentre la media dell’Unione europea è vicina a 5 ogni mille abitanti. La lezione, se riusciremo a trarne una dopo questa tragedia, è bene che la imparino tutti.

Quando Tina Anselmi diede all’Italia il Servizio Sanitario Nazionale. Giulia Merlo su Il Dubbio il 12 marzo 2020. I democristiani la chiamavano la “Tina vagante”, perchè refrattaria a qualsiasi ordine di corrente. Fu la prima ministra donna e, in diciannove mesi tra il 1978 e il 1979, firmò la legge sull’aborto, la legge Basaglia e la riforma della Sanità. I colleghi di partito la chiamavano “Tina vagante” perchè sfuggiva a qualsiasi ordine di corrente. Imprevedibile, indipendente e poco incline ai compromessi, Tina Anselmi era abituata ad essere la prima e ad aprire la strada agli altri. Ma soprattutto, era abituata a correre. Lo aveva imparato appena sedicenne, nella sua Castelfranco veneto dove il padre socialista venne presto perseguitato dai fascisti. E aveva scelto la direzione in cui correre l’anno dopo, nel 1944, quando i nazifascisti costrinsero lei e altri studenti dell’istituto magistrale di Bassano del Grappa ad assistere all’impiccagione nel viale alberato della città di trentuno prigionieri. Da quel momento, prese parte attivamente alla resistenza nella brigata Cesare Battisti: nome di battaglia, Gabriella. Si era sempre occupata di lavoro, Tina Anselmi. Da quando si era iscritta alla Democrazia Cristiana e poi dopo, prima nella Cgil e poi nella Cisl, il suo mondo era stato quello delle battaglia per il lavoro e le pari opportunità. Eppure, dopo tre mandati da sottosegretario al ministero del Lavoro, il partito decise di spostarla: “Tina al ministero della Sanità” e prima donna ministro della Repubblica italiana. Lei però era perplessa. Visse lo spostamento dal Lavoro alla Sanità come un declassamento e confidò al suo assistente, Enzo Giaccotto: “Vuol dire che faremo una vacanza”. Invece, quei diciannove mesi dal 1978 al 1979 nei governi Andreotti IV e V furono tutti una corsa. Tre giorni dopo l’insediamento del quarto governo Andreotti – il secondo con l’appoggio esterno del Partito comunista – le Brigate Rosse rapirono il presidente Dc Aldo Moro. In questo clima di tensione nel Paese, Anselmi si trovò per le mani la peggiore grana per una ministra, donna e cattolica, nell’Italia post-sessantottina. Sulla sua scrivania al ministero dell’Eur, infatti, arrivò la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza. Approvata il 22 maggio 1978 dopo una lunga battaglia del Partito Radicale insieme ai partiti laici, ai socialisti e al Pci, ora aspettava solo la firma di una ministra che, da parlamentare democristiana, aveva votato contro. Subì fortissime pressioni del mondo cattolico e provenienti da Oltretevere, nella speranza di convincerla a tenere nel cassetto la legge. Invece, Anselmi confermò l’origine del suo soprannome: nemmeno il Papa poteva farle derogare dal suo preciso dovere di ministra e dunque firmare una legge regolarmente approvata dalle Camere. Intanto, sempre nel 1978, in commissione Sanità arrivò la legge Basaglia. Anselmi, che presiedeva i lavori, assistette alla discussione: i malati di mente sono o meno cittadini e, come tali, godono dei diritti costituzionali? La legge per la chiusura dei manicomi, infatti, avrebbe restituito i diritti anche agli affetti da malattie mentali. Anselmi prese la parola, affermando che “l’articolo 32 della Costituzione vale per tutti, anche per i matti”. Così, il 13 maggio 1978 venne approvata la legge in tema di accertamenti e trattamenti sanitari e obbligatori. Rimase in vigore pochi mesi, però, perché nello stesso anno Anselmi si era data un obiettivo ancora più ambizioso che inglobava anche la legge Basaglia. Languiva in Parlamento da ben 14 anni la riforma della Sanità, quella che avrebbe dovuto superare il sistema mutualistico e adeguare il sistema sanitario alla Costituzione e dunque al principio della salute come bene universale e gratuito, decentrando il potere per affidarlo alle Regioni ed erodendo così il potere e i margini di profitto delle strutture private. Per questo, la riforma venne molto osteggiata anche da una parte dei medici, oltre che dagli enti di cura privati. Eppure, Anselmi corse ancora e si giovò del particolarissimo quadro politico di quel governo, che si reggeva sull’appoggio esterno dei comunisti. Lei comunista non lo era mai stata, ma era amica stretta, noncurante delle ostilità di partito, della presidente della Camera Nilde Iotti. Per approvare la sua riforma trovò in Giovanni Berlinguer, allora ministro ombra della Sanità per il Pci, il suo interlocutore privilegiato e insieme costruirono l’accordo. Proprio questa iniziativa venne guardata con sospetto dalla Dc, sia nella corrente andreottiana di destra che tra i dorotei di Moro. La definirono un “salto nel buio” e in molti pregarono “Tina vagante” di annacquare la riforma. Non solo per ragioni di contenuto, ma anche perché sarebbe stata uno dei primi casi di esplicita condivisione legislativa tra democristiani e comunisti. Invece, la legge che istituiva il SSN, il Servizio Sanitario Nazionale, arrivò in Parlamento il 23 dicembre 1978, con la previsione dell’entrata in vigore del nuovo sistema il 1 luglio 1980. Nel suo discorso alla Camera, quel giorno, la ministra Anselmi fu chiara nel rendere esplicito il fatto che la riforma era frutto del sentire ampio del paese: “La riforma è frutto dell’iniziativa del movimento operaio, rappresentato sia dalle organizzazioni sindacali che dai partiti della sinistra, partito comunista e partito socialista” e istituisce quattro principi cardine: “Globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”. La lunga stagione politica di Tina Anselmi non finì con la caduta dell’Andreotti V, nel 1979. Fu eletta deputata, sempre nella sua circoscrizione Venezia-Treviso, fino al 1992. Dopo la parentesi al ministero, fu l’amica Nilde Iotti a consegnarle una delle pagine più buie della storia della Repubblica: nel 1981, venne nominata presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla Loggia P2. E, prima della morte nella sua Castelfranco Veneto nel 2016, venne più volte presa in considerazione per la carica di Presidente della Repubblica. Il suo nome, però, rimarrà sempre legato alla riforma che ha trasformato quello italiano in uno dei sistemi sanitari più all’avanguardia ed efficienti del mondo. Lei, in un’intervista del 2003, raccontò così quella corsa all’approvazione: «Devo dire che in quegli anni, segnati da posizioni molto diversificate, sicuramente c’era lo scontro. E tuttavia esisteva un’adesione di fondo a quel principio sul quale è stata costruita la riforma del Sistema sanitario italiano: l’adesione ai valori su cui costruire la tutela e il diritto del cittadino ad avere una garanzia da parte dello stato per quanto riguarda la sua integrità. Per costruire un sistema che assumesse, come suo valore fondante, la tutela della persona».

Coronavirus in Italia: i tagli al Servizio sanitario nazionale, chi li ha fatti e perché. Domenico Affinito e Milena Gabanelli il 31 marzo 2020 su DATAROOM de Il Corriere della Sera. All’appello mancano 37 miliardi di euro di mancati investimenti. Tagliati posti letto, terapie intensiva, medici e infermieri. La drammatica situazione sanitaria che l’Italia sta vivendo in questi giorni non è dovuta solo allo tsunami della pandemia Covid-19, ha anche ragioni che affondano le radici nel nostro recente passato. Il Servizio sanitario nazionale italiano è d’eccellenza, si è detto e scritto più volte, perché garantisce a tutti cura e assistenza, per la preparazione di medici e infermieri, ma lo è molto meno per la sua gestione.

Covid-19, un nemico eccezionale. Per prima cosa va detto che stiamo affrontando una pandemia e che il nostro Ssn sta conducendo una battaglia mai affrontata in precedenza. Secondo l’Istituto superiore di sanità, che monitora ogni anno i dati dell’influenza, l’epidemia del 2009-10, la cosiddetta febbre suina causata dal virus A/H1N1, in Italia colpì 4.408.000 persone, causando 443 gravi crisi respiratorie e 229 morti. Lo scorso inverno, caratterizzato da un’elevata circolazione virale, i due ceppi influenzali A/H1N1 e A/H3N2 hanno invece colpito 8.072.000 persone, mandandone 812 in terapia intensiva, con 205 deceduti. I numeri di oggi fanno paura.

Potevamo muoverci prima. I primi casi di polmonite anomala in Italia vengono segnalati già a fine dicembre, quando dalla Cina arriva la segnalazione all’Oms. Il 30 dicembre a Piacenza c’è un picco di 40 polmoniti in una settimana. Il 7 gennaio a Milano si segnalano più polmoniti della media: da 50 a 80 in più al giorno al San Paolo e 70 al giorno in più al Niguarda. Anche a Como l’11 gennaio gli ospedali cittadini segnalano il sovraffollamento per casi di polmonite. Settimane in cui il virus ha circolato liberamente, soprattutto negli ospedali. Non solo non è scattato il piano antipandemia governativo del 2016, ma addirittura il Ministero della Salute il 5 gennaio scriveva in una circolare che l’Oms «non raccomanda alcuna misura specifica per i viaggiatori» e «raccomanda di evitare qualsiasi restrizione ai viaggi e al commercio con la Cina in base alle informazioni attualmente disponibili». Un via libera alla Covid-19.

Il nodo dei posti di terapia intensiva. Prima dell’inizio della pandemia in Italia c’erano 5179 posti di terapia intensiva tra pubblico e privato. Occorre considerare che ogni anno il 48,4% dei posti sono occupati da pazienti affetti da altre patologie. Una circolare del ministero della Salute del 1 marzo stabiliva che aumentassero del 50%. Al 31 marzo in terapia intensiva ci sono 4023 pazienti e 9122 posti letto (guarda la tua regione). Non siamo ancora arrivati al picco e le unità in più sono diventate operative strada facendo. Durante il mese di marzo più di un medico degli ospedali di Cremona, Bergamo, Brescia ha drammaticamente ammesso di avere dovuto scegliere quali pazienti «intubare» e quali no. Scelta dolorosa, e decisa sulla base dell’età associata alla presenza di gravi patologie pregresse.

Italia – Europa a confronto. Fino a fine febbraio, quindi, l’Italia disponeva di 8,58 posti di terapia intensiva ogni 100 mila abitanti. Gli ultimi dati di confronto europei li ha pubblicati nel 2012 la prestigiosa rivista Intensive care medicine. Otto anni fa in Italia i posti di terapia intensiva erano 12,5 ogni 100 mila abitanti contro i 29,2 della Germania e i 21,8 dell’Austria. D’altronde nel 2016, stando agli ultimi dati Istat disponibili, la Germania destinava alla Sanità il 165% di fondi pubblici in più di noi (con il 35% in più di abitanti), la Francia il 90% in più (con il 9,8% in più di abitanti) e la Gran Bretagna il 66% in più (con l’8% in più di abitanti). In pratica mentre noi spendevamo 1.844 euro ad abitante, la Francia ne spendeva 3.201, la Germania 3.605 e la Gran Bretagna 2.857. «In Italia – diceva nel 2019 la Commissione europea – nel 2017 la spesa sanitaria era finanziata per il 74 % da fondi pubblici (ossia il 6,5 % del Pil)». Il 24% è a carico diretto delle famiglie e il 2% delle assicurazioni». Nel 2019, secondo l’Ocse, l’Italia si attesta sotto la media, sia per la spesa sanitaria totale sia per quella pubblica, precedendo solo i paesi dell’Europa orientale oltre a Spagna, Portogallo e Grecia. Tuttavia nel nostro Paese, nonostante una spesa sanitaria inferiore alla media, si riesce ad avere la quarta più alta aspettativa di vita di tutta l’Ocse. È anche vero che qui c’entra sia la prevenzione che gli stili di vita. Ci alimentiamo in modo un po’ più sano.

La spesa sanitaria negli ultimi anni. Quello della spesa sanitaria è uno dei nodi centrali di questa storia. Dal 2001 a oggi il fabbisogno sanitario statale in termini assoluti è quasi sempre aumentato, passando da 71,3 miliardi nel 2001 a 114,5 nel 2019. Se dieci anni fa i 105,6 miliardi di euro erano il 7% della ricchezza nazionale, nel 2019 i 114,5 miliardi erano il 6,6%: un taglio dello 0,4% del Pil in 10 anni che porta la firma dei governi Berlusconi IV, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte.

I tagli alla Sanità. Secondo il rapporto della Fondazione Gimbe «Il definanziamento 2010-2019 del Servizio Sanitario Nazionale» la situazione è ancora più complessa: «Nel decennio 2010-2019 – si legge nel rapporto – il finanziamento pubblico del Ssn è aumentato di 8,8 miliardi di euro, crescendo in media dell 0,9% all’anno, un tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07%». Quindi è cresciuto in termini assoluti, ma meno dell’inflazione. Non solo, in più ci sarebbero altri 37 miliardi di euro totali di finanziamenti promessi negli anni dai governi e non realizzati o ridotti: circa 25 miliardi nel 2010-2015 per tagli conseguenti a varie manovre finanziarie e oltre 12 miliardi nel 2015-2019 quando, per esigenze di finanza pubblica, alla Sanità sono state destinate meno risorse di quelle programmate e cioè calcolate sul fabbisogno. I fondi promessi rispetto al fabbisogno e non dati: 8 miliardi decisi dal governo Monti (Finanziarie 2012 e 2013); 8,4 decisi dal governo Letta (Finanziaria 2014); 16,6 decisi dal governo Renzi (Finanziarie 2015, 2016 e 2017); 3,1 decisi dal governo Gentiloni (Finanziaria 2018) e 0,6 decisi dal governo Conte (Finanziaria 2019).

Calano costantemente i posti letto. Nel 2017, secondo l’Annuario statistico, il Ssn in Italia disponeva di 1.000 istituti di cura, 51,80% pubblici e 48,20% privati accreditati, per un totale di 191 mila posti letto di degenza ordinaria. Il che voleva dire 3,6 posti letto ogni 1.000 abitanti. La media europea, secondo i dati Eurostat e Ocse, era invece di 5 ogni 1.000 abitanti. Ma cosa succedeva prima dei tagli? «Nel 2007 – si legge nell’annuario di quell’anno – l’assistenza ospedaliera si è avvalsa di 1.197 istituti di cura, 55% pubblici e 45% privati accreditati. A livello nazionale sono disponibili 4,3 posti letto ogni 1.000 abitanti». Nel 1998 c’erano 1381 istituti, 61,3% pubblici e 38,7% privati accreditati: 5,8 posti letto per 1.000 abitanti. Al di là dei tagli, quindi, negli ultimi 20 anni, avevamo già deciso di ridurre il numero di ospedali e posti letto, soprattutto nel pubblico, aumentando la quota del privato convenzionato che, però, non fornisce gli stessi servizi (come i posti di terapia intensiva).

Pochi posti per i malati acuti. Nel 1980 i posti per malati acuti erano 922 ogni 100.000 abitanti. Il 1998 è stato l’anno di svolta, l’ultimo in cui l’Italia si era sopra la media europea, poi il governo D’Alema da il via ad una discesa costante. Secondo dati dell’Oms in Italia, da allora al 2013 il numero di posti letto per malati acuti, si è quasi dimezzato, passando da 535 a 275 ogni 100.000 abitanti. Oggi siamo sotto Paesi come la Serbia, la Slovacchia, la Slovenia, la Bulgaria, la Grecia. Una scelta politica sancita anche dal piano Sanitario nazionale 2003/2005 che tra gli obiettivi metteva «la riduzione del numero dei ricoveri impropri negli Ospedali per acuti». Di fronte a una popolazione sempre più anziana e con patologie croniche, si è scelto di potenziare soprattutto l’assistenza territoriale e domiciliare, cercando di evitare il ricovero in ospedale.Contemporaneamente si è passati ad una razionalizzazione, che era necessaria: inutile e pericoloso tenere aperti piccoli ospedali non in grado di garantire gli interventi in sicurezza, meglio aumentare i posti negli ospedali più grandi e con migliori specializzazioni. Purtroppo non è sempre avvenuto.

Meno operatori sanitari della media europea. Il numero totale dei medici per abitante in Italia rimane superiore alla media dell’Ue (4,0 rispetto al 3,6 per 1.000 abitanti nel 2017), ma il numero dei medici che esercitano negli ospedali pubblici e in qualità di medici di famiglia è in calo. Non solo, l’Italia ha meno infermieri di quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale (ad eccezione della Spagna) e il loro numero è notevolmente inferiore alla media dell’Ue (5,8 infermieri per 1.000 abitanti contro gli 8,5 dell’Ue). In generale, quindi, i tagli alla Sanità hanno portato un calo del numero degli addetti sanitari, tra medici e infermieri, soprattutto nel pubblico. Secondo i calcoli della Ragioneria dello Stato, tra il 2009 e il 2017 la sanità pubblica nazionale ha perso oltre 8.000 medici e più di 13 mila infermieri.

Siamo arrivati impreparati al Covid-19. Una cura dimagrante che non aveva fatto i conti con «l’imprevisto». Se ne usciremo sarà solo grazie all’abnegazione di medici e infermieri, che hanno pagato e stanno pagando in prima persona. Volti anonimi, devastati dalla stanchezza e quotidianamente esposti al rischio di ammalarsi perché senza le dovute protezioni (vedi mascherine), mentre ancora la politica romana beveva aperitivi. Ebbene, è a quei volti anonimi che chiediamo venga assegnato il Nobel per la pace.

Ecco come 10 anni di tagli hanno ridotto la sanità italiana. Mentre medici e infermieri lottano per sconfiggere il coronavirus, la politica si interroga sui tagli che hanno colpito la sanità italiana negli ultimi 10 anni. Francesco Curridori, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Mentre migliaia di persone lottano in ospedale tra la vita e la morte, la politica si interroga sui tagli che hanno colpito la sanità italiana negli ultimi 10 anni. Da Mario Monti in poi la sanità ha subìto 37 miliardi di tagli. La drastica riduzione dei posti letto e del personale medico e infermieristico ha un responsabile ben preciso: le politiche di austerity degli ultimi dieci anni. A rivelarlo è uno studio della Fondazione Gimbe che ha calcolato in 37 miliardi di euro i tagli effettuati dal governo Monti in poi, anche se apparentemente sembrerebbe il contrario. Dal 2011 a oggi la spesa sanitaria, infatti, è passata da 105,6 miliardi a 114,4, con un aumento dello 0,8% annuo, ma, in questo stesso periodo, l’inflazione è aumentata dell’1,07% ogni anno. Di fatto, quindi, si è speso meno da quando l’economista Mario Monti, con il Salva Italia, ha portato avanti una spending review. La situazione peggiora nel 2015 quando il governo di Matteo Renzi impose alle Regioni 4 miliardi di contributi per le casse dello Stato. Soldi che arrivarono con la rinuncia dei due miliardi promessi da Roma per la sanità che, dopo la riforma del Titolo V della Costituzione voluta dal centrosinistra, è di competenza delle Regioni. Secondo un dossier pubblicato dagli uffici della Camera lo scorso 4 marzo, intitolato “La spending review sanitaria”, l’introduzione di Quota 100 da parte del governo Conte ha “acuito la grave carenza di personale, rischiando di compromettere l'erogazione dei livelli essenziali di assistenza”. A livello globale, secondo l’Ocse, questa percentuale è inferiore di circa 3 punti percentuali rispetto a quel che spendono Germania (9,6%) e Francia (9,5%) che, a differenza dell’Italia, dal 2000 a oggi, hanno investito circa il 2% in più. La spesa sanitaria italiana, in rapporto al Pil, è invece passata dal 5,5% al 6,6%, ma il Def varato nel 2019 dal governo Conte mira ad arrivare al 6,4% nel 2022.

In dieci anni, 70mila posti letto in meno. Tutti questi tagli hanno inciso significativamente sul numero dei posti letto disponibili. Stando a quanto riporta Quotidiano Sanità, il governo Monti impose uno standard massimo di 3,7 posti letto disponibili ogni mille abitanti, determinando un calo di 26.708 unità. Dall’annuario statistico del ministero della Salute del 2017 risulta che il Servizio Sanitario Nazionale ha a disposizione 191mila posti letto, mentre dal rapporto della Fondazione Gimbe si scopre che nel corso di un decennio, sono spariti 70mila posti letto. Secondo il centro studi dell’ufficio parlamentare l’Italia è di gran lunga inferiore rispetto agli altri Paesi del Vecchio Continente: 3,2 posti letto ogni 1000 abitanti contro i 5 ogni 1000 della media europea (dati del 2017). L’Oms, invece, ha calcolato che dal 1997 al 2015 è stato effettuato un taglio del 51% dei posti letto per casi gravi e per la terapia intensiva che, quindi, sono passati da 575 ogni 100 mila abitanti ai 275 attuali. Fino a qualche settimana fa, per la terapia intensiva ce n’erano soltanto 5.343 ma, dopo l’emergenza coronavirus, sono saliti a 8.370, come ha dichiarato Domenico Arcuri, commissario straordinario per il coordinamento delle misure di contrasto all’emergenza Covid-19.

Dal 2007 sono stati chiusi 200 ospedali. Una diminuzione così significativa di posti letto si è tradotta, inevitabilmente, anche in una riduzione di strutture ospedaliere. Se nel 2007 il Ssn poteva annoverare 1197 ospedali, dopo un decennio, stante quanto riferisce l’Annuario del 2017, può fare affidamento solo su 1000 ospedali. Molti governatori, infatti, hanno dovuto fare i conti con i piani di rientro per risanare i bilanci delle asl regionali. Nicola Zingaretti, nel Lazio, per esempio, ha deciso di chiudere persino il Forlanini, una struttura da 1400 posti letto che, nel corso degli anni 2000, sono scesi fino a 929. Un numero che, ad ogni modo, in una situazione d’emergenza come quella attuale sarebbe di grande sostegno per chi combatte contro il coronavirus. Ed è per questo motivo che sia il centrodestra sia il sindaco Virginia Raggi, ora, chiedono che il Forlanini venga riaperto.

Tagli al personale: 46mila dipendenti persi in 10 anni. Meno posti letto, meno ospedali e, dunque, inevitabilmente anche meno personale. La Ragioneria di Stato ha calcolato che, dal 2009 al 2017, il Servizio Sanitario nazionale ha perso 46mila dipendenti, scendendo da 649.248 a 603.375. Complessivamente, oggi, abbiamo 8mila medici e 13mila infermieri in meno. Nello specifico il personale medico è passato dai 106mila e 800 del 2007 ai 101mila e 100 attuali (-5,7 mila) mentre quello infermieristico è calato dalle 264.177 unità del 2007 ai 253.430. Il settore dei medici di famiglia, invece, in dieci anni, ha subìto una riduzione del 6,8% (-3.230 in termini assoluti). Peggio è andata ai medici che operano nella guardia medica che hanno perso per strada il 10% dei loro colleghi (-1.421). Secondo le associazioni di settore, Anaao e Assomed, nel 2025 avremmo almeno 52.500 medici che saranno in pensione e i 35.800 nuovi medici che arriveranno tra il 2018 e il 2025 non saranno in grado di coprire il fabbisogno della sanità pubblica. Ora, con l’emergenza coronavirus in atto, il governo si è trovato obbligato ad assumere d’urgenza 20.000 tra medici e infermieri che, però, non hanno ancora superato l’esame di Stato.

Gianfranco Viesti per “il Messaggero” il 30 marzo 2020. L'emergenza coronavirus sta mettendo in luce le conseguenze del grave sottofinanziamento del sistema sanitario nazionale (SSN), documentato da molte fonti; da ultime l'Ufficio Parlamentare di Bilancio, la Fondazione Gimbe, Reforming. Esse si concentrano sull'analisi della spesa corrente, che in sanità è della massima rilevanza: sia per il personale sia per gli acquisti di beni (farmaci) e servizi. Convergono nel sottolineare il progressivo definanziamento del SSN; ricordano i meccanismi di riparto territoriale delle risorse e i bilanci sanitari regionali, sottolineando la più difficile situazione delle regioni del Sud, in termini finanziari e di esiti delle cure. In molti casi comprendono anche analisi sulle dotazioni strutturali del SSN e delle sue articolazioni regionali, in particolare di posti-letto; anche da questo punto di vista vengono sottolineate crescenti differenze territoriali, soprattutto per gli effetti di riduzione della spesa indotti dai Piani di Rientro. Può essere utile una riflessione specifica sulla spesa per gli investimenti fissi nella sanità, nell'insieme del Paese e nelle Regioni, possibile grazie al sistema dei Conti Pubblici Territoriali (con dati di cassa sulla spesa per investimenti pubblici in sanità, dal 2000 in poi, in valori costanti e consolidati per livello di governo); una analisi in versione più estesa è disponibile su eticaeconomia.it. Di che parliamo? Si tratta per poco più di metà di spese per edilizia e arredamenti sanitari, e per il resto per attrezzature scientifiche e sanitarie e macchinari: proprio quelli che sembrano mancare. Il profilo della spesa in termini reali è costante fino al 2007 intorno a 2,8 miliardi; crescente per un breve periodo fino al 2010, anno in cui tocca i 3,4 miliardi. Poi fortemente decrescente, fino al valore minimo di 1,4 miliardi nel 2017, che è del 60% più basso rispetto al 2010. Dal 2012 la spesa è inferiore a quella dell'anno 2000. Un vero e proprio tracollo. Stando alla Corte dei Conti si tratta di un valore (rispetto al Pil) nettamente inferiore rispetto alla Germania (meno di un terzo) e a Francia, Spagna e Portogallo (circa la metà). La spesa per investimenti in sanità in questi 18 anni è stata poi molto squilibrata territorialmente. Dei 47 miliardi totali, oltre 27,4 sono stati spesi nelle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. In termini pro-capite, a fronte di una media nazionale annua di 44,4 euro, quella destinata al Nord-Est è pari a 76,7 (cioè di ben tre quarti più alta), mentre nelle Isole è pari a 36,3 euro e nel Sud Continentale a 24,7: poco più della metà. Al Centro e al Nord-Ovest si è stati molto vicini alla media. Ma vi sono differenze interne alla grandi circoscrizioni. I valori sono straordinariamente alti in Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta; molto superiori alla media in Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. Vi è invece un gruppo di regioni con livelli di investimento intorno alla metà della media nazionale: Puglia, Molise, Campania e Lazio. Straordinariamente basso il dato della Calabria. Può essere interessante comparare i flussi degli investimenti con il livello delle dotazioni e dei fabbisogni infrastrutturali delle diverse regioni. E' un terreno molto complesso, data la difficoltà di stabilire con precisione indici di dotazione infrastrutturale: essi dovrebbero tenere conto, ad esempio, tanto delle dotazioni di macchinari quanto del loro invecchiamento. Un confronto di massima può essere compiuto utilizzando l'indicatore sintetico di divario di fabbisogno infrastrutturale delle regioni italiane calcolato per il 2006 da Banca Intesa-Fondazione CERM elaborando 19 diverse variabili. Il quadro al 2006 mostrava una dotazione maggiore nelle regioni del Centro-Nord rispetto a quelle del Sud. Può essere confrontato con l'intensità degli investimenti pubblici (espressi in pro-capite) per il 2007-17. Si scopre così che l'intensità di investimento è stata maggiore nelle regioni che avevano già una maggiore dotazione, ampliando i divari. Vi è tuttavia l'eccezione rappresentata da Umbria e Lazio, con alte dotazioni e bassi investimenti, e quindi con un deterioramento della posizione relativa: una sorta di scivolamento verso Sud delle due regioni. Colpiscono i dati particolarmente negativi di Calabria e Campania. L'obsolescenza delle strutture, il sottodimensionamento e l'invecchiamento delle apparecchiature di diagnosi e trattamento ha ricadute sull'attività e sulla spesa corrente: erogare gli stessi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) con una minore dotazione strutturale costa di più a qualità inferiore. Ha quindi effetti sui cittadini. Non a caso nella legge 42/2009 sul federalismo fiscale, la perequazione infrastrutturale (poi non attuata, neanche nella misurazione delle dotazioni) era un prerequisito per la capacità di erogare servizi con fabbisogni standard. Appare verosimile poi che queste tendenze, avendo aggravato le disparità di dotazioni fra le regioni, abbiano concorso a ridurre l'efficacia dei sistemi sanitari di alcune grandi regioni del Sud, contribuendo alla mobilità in uscita dei pazienti; mobilità che, rappresentando un costo per le regioni di provenienza, può a sua volta renderne più stringenti i vincoli finanziari. Appare auspicabile, anche - ma non solo - alla luce della drammatica diffusione epidemica che stiamo vivendo in queste settimane, che nei prossimi anni vengano dedicate risorse molto maggiori non solo per il personale ma anche per investimenti e attrezzature nel SSN; e che essi mirino a potenziare le strutture in tutte le regioni ma con una attenzione particolare per quelle particolarmente penalizzate quantomeno nell'ultima decade.

Coronavirus, l'ex ministro Girolamo Sirchia: "Sanità italiana distrutta dagli economisti, colpa dell'Ue. Conte, quanti errori". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 10 marzo 2020. Professore, ma che ci fa qui? «Devo esserci, sennò si ferma tutto. Abbiamo seri problemi a trovare donatori di sangue, stiamo rimandando gli interventi chirurgici e abbiamo difficoltà ad assistere i malati cronici che hanno bisogno costante di trasfusioni. Donare sangue non è pericoloso ma il coronavirus spaventa, abbiamo registrato un calo del 70%, anche se ora fortunatamente la situazione sta migliorando». Dietro la scrivania, al secondo piano del padiglione Marangoni del Policlinico di Milano, alla distanza di sicurezza di oltre un metro, che non infrangerà mai nel corso di tutta la conversazione, siede un gigante, un esempio per la nazione. Girolamo Sirchia è l' uomo che, da ministro della Salute del secondo governo Berlusconi, ha dovuto affrontare l'epidemia di Sars nel 2003 e lo ha fatto così bene che la maggior parte degli italiani oggi neppure si ricorda che il virus sia passato da queste parti. Oggi ha 86 anni e presiede ancora l'Associazione di donatori Amici dell'Ospedale Policlinico che ha fondato 46 anni fa. Da due decadi è entrato nella fascia d'età dove il coronavirus ha le maggiori probabilità di essere letale, potrebbe starsene a casa a godersi i frutti del suo successo, invece è in prima linea. Uomo d'altri tempi, e non per l'anagrafe. «Ormai non vado in sala operatoria e in queste stanze non ci sono malati - spiega - se sono qui non è per coraggio ma perché la mia presenza serve, si metta nei panni di uno che ha bisogno, ad esempio, di un talassemico che senza trasfusione non vive».

Professore, l'emergenza coronavirus ha riaperto la polemica sui tagli alla sanità fatti da chi ha governato negli ultimi dieci anni: lei cosa ne pensa?

«Purtroppo abbiamo subito l'influenza negativa di alcuni economisti, che sono intelligenze importanti ma pericolose: vivono di slogan e formule ma sono lontani dalla realtà e dalla società».

Una critica ai tecnici da un ex ministro tecnico?

«Io arrivavo dagli ospedali, conoscevo la vita e la sofferenza. L'Italia invece, ma direi tutta l'Europa, negli ultimi anni si è messa in mano a dei guru, spesso al servizio della grande finanza internazionale e delle banche, che hanno imposto al Paese un Mes da 120 miliardi come contributo a un Fondo Salva-Stati, che è in realtà un fondo di salvataggio delle banche franco-tedesche».

"Avanti così e dovremo fare delle scelte". Il dottor Lorini, il bivio spaventoso: quali vite salvare?

Professore, fa il sovranista?

«Non è un discorso sovranista, ma di buon senso. Io non parteggio per un partito, faccio il cittadino. Credo che non possiamo e non dobbiamo uscire dall'Ue ma bisogna capire che essa, così com'è, ci porta a fondo. Quasi tutti i governi italiani degli ultimi anni hanno avallato le disastrose strategie economiche globaliste della Ue per incapacità e debolezza. Erano e sono esecutivi con scarso consenso popolare, minacciati da continui rating negativi e dallo spread. È ora di finirla, dobbiamo mandare al governo uomini capaci e non manichini disponibili a firmare ogni compromesso».

Sono venuto qui per parlare di sanità e lei mi parla di politica.

«Le due cose sono collegate. La cattiva politica ha ammazzato la sanità pubblica italiana e sta ammazzando tutta l'economia del Paese. I tagli sono figli della spending-review, che i nostri politici si sono bevuti per ottenere il plauso dei globalisti. Il risultato è che non abbiamo sostituito i medici che andavano in pensione e per anni non abbiamo rimpiazzato i primari perché costava troppo e trasformavamo i vice in facenti funzione. Ci ritroviamo con macchinari vetusti e non assumiamo più infermieri, noleggiamo quelli delle cooperative, che ti mandano gente volenterosa ma che non parla neppure l'italiano. E poi, la sciagura delle sciagure per la sanità: abbiamo iniziato a fare le gare d'appalto al massimo ribasso, che premiano solo i prodotti scadenti. La potenza cinese l'abbiamo costruita noi con la nostra imbecillità da spending-review».

Mi faccia un esempio...

«Le mascherine contro il coronavirus. Per tranquillizzare i donatori ho contattato un'azienda italiana che le produceva. Mi ha detto che ha chiuso il settore perché nessuno le comprava in quanto gli ospedali acquistavano quelle cinesi, che sono una porcheria ma costano poco. Ora noi tutti per le strade giriamo con mascherine poco utili a frenare la diffusione del virus. L'Italia è diventata povera e insicura grazie agli economisti che hanno imposto la globalizzazione cavalcata dagli speculatori e l'Europa si è accodata pur vedendo che i Paesi crollavano».

Non è troppo pessimista?

«Siamo in mano a pazzi o a gente prezzolata. Tutte le persone normali che conosco cercano di comprarsi una casa e mettere da parte quattro soldi. Bene, ora gli economisti dicono che la casa di proprietà è un male perché sottrae risorse al mercato e allo stesso tempo criminalizzano chi risparmia perché non fa girare l'economia. I media spacciano queste tesi deliranti come volere popolare, ma io non conosco nessuno che le condivida».

Parliamo un attimo di sanità.

«Quella pubblica sta andando a farsi benedire. Per l'emergenza coronavirus sta facendo l'impossibile ed è un bene che anche quella privata si sia disposizione».

C'è stata molta confusione intorno al coronavirus: il governo ha sbagliato qualcosa?

«La comunicazione è stata pessima. Quando arrivò la Sars, io ero il ministro e facevo una conferenza stampa al giorno. Come governo, abbiamo pagato la Rai per avere degli spazi informativi in cui io parlavo alla nazione. Certo, io ero un medico affermato e quindi trasmettevo autorevolezza. Oggi il ministero della Salute non si è fatto sentire. Andava in tv Conte con il maglioncino, ma lui è lo stesso che tre settimane fa aveva parlato di allarmismo bocciando la proposta dei governatori leghisti di mettere in quarantena chi arrivava dalla Cina e che ha accusato l'Ospedale di Codogno di non aver rispettato le direttive».

È stato un errore?

«Certo. Isolare i cinesi che tornavano dal loro Capodanno, dove si abboffano di ogni schifezza, avrebbe frenato il contagio. La quarantena non è un'offesa. Conte e Speranza hanno sdrammatizzato e accusato la Lega di razzismo; ora gridano al lupo, ma chi li ascolta? Se lo Stato non parla con una voce unica e coerente, il Paese va nel panico, ovvio. Gli italiani hanno capito che all'inizio la vicenda è stata affrontata dal punto di vista politico e non sanitario e molti hanno perso fiducia».

Pure i virologi hanno fatto confusione: ognuno diceva la sua.

«I medici hanno le loro responsabilità. Molti hanno avuto atteggiamenti narcisisti. Se lei mette un medico davanti a una telecamera, lui parla anche se è spenta. Detto questo, è naturale che se il governo non parla con voce autorevole, chiunque abbia libera tribuna. Le epidemie non sono argomenti da trattare nei talk-show, come la politica».

Sono stati molto criticati i governatori Fontana e Zaia, l'uno per essersi messo la mascherina, l'altro per aver detto che in Cina mangiano i topi

«Fontana è un amministratore straordinario. Anche io al suo posto mi sarei messo la mascherina. È una polemica stupida e faziosa. Quanto a Zaia, forse è stato un po' troppo ruvido, ma ha detto la verità. I cinesi, specie in campagna, convivono con animali selvatici e mancano di servizio sanitario. Non è politicamente corretto dirlo ma è ovvio che il virus si è diffuso a causa delle loro cattive abitudini alimentari e sanitarie, come è accaduto in passato con altre patologie».

Che sviluppi avrà il virus?

«Siamo in fase espansiva, mi attendo una crescita esponenziale. Con le quarantene stiamo cercando di rallentare il contagio per ridurlo numericamente e renderlo compatibile con il sistema sanitario nazionale. Non essendoci vaccino, il virus si sconfigge solo con il tempo, quando cambia il clima e ci saranno più guariti. Il caldo è nemico del corona e più immunizzati abbiamo, più difficile che esso circoli».

Che tempi prevede?

«Se la crescita, come è auspicabile, da geometrica si riduce ad aritmetica, la fase espansiva dovrebbe essere meno preoccupante fino a spegnersi entro circa 2-3 mesi».

Il coronavirus esploderà anche in Europa?

«Lo sta già facendo. Mi risulta che la Germania in realtà sia messa peggio di noi. E la Francia raggiungerà presto i nostri livelli».

È normale che il nostro servizio sanitario si sia fatto trovare impreparato all'emergenza?

«No, è accaduto perché l'Italia, a causa della spending review, ha smantellato i motori di sviluppo del Paese. Scuole e università sono state ridotte al livello di dover affittare le aule per racimolare soldi. Della sanità, si è detto. Quanto alla ricerca, pur avendo le intelligenze non produciamo più nulla e siamo costretti a comprare tutto dall'estero».

Lei come riuscì a sconfiggere la Sars?

«Era un virus più letale ma meno contagioso rispetto al corona. Un uomo da solo non inventa la ruota, io avevo una serie di conoscenze nazionali e internazionali che mi ha aiutato a gestire l'emergenza».

È quello che è mancato al nostro governo, isolato e con tutto il mondo che ha puntato il dito contro di noi e ci ha accusato di essere gli untori del male.

«È andata così, ma non voglio infierire. La verità è che gli eventi catastrofici non si possono fronteggiare solo in emergenza, vanno predisposte e mantenute delle strategie e delle azioni di contrasto. Io, da ministro, creai il Centro di Controllo malattie, che ha il compito di studiare l'evolversi delle patologie nel mondo e prepararsi ad affrontare ipotetiche epidemie. Il suo lavoro era predisporre piani di contrasto da attivare in caso d'emergenza e magari di fare contratti che, quando scatta l'allarme, permettano di acquistare quel che ci serve, come le mascherine, con un canale prioritario. Certo sono cose che costano, se tagli la sanità, non te le ritrovi e quando arriva l'emergenza piangi. Se avessimo utilizzato bene i due mesi intercorsi tra la comparsa dell'epidemia in Cina e i primi casi in Italia, forse si poteva ottenere di più in termini di contrasto al COVID-19». 

·        La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Maria Sorbi per “il Giornale” il 31 ottobre 2020. Come nel peggiore degli incubi, stiamo rivivendo il dramma della scorsa primavera. Tale e quale. All' inizio di marzo gli anestesisti si erano trovati costretti a scegliere chi rianimare e chi no. I posti non bastavano per tutti i malati e, come in guerra, i medici selezionavano le cartelle cliniche di chi aveva più chance di salvarsi e quindi aveva diritto a un letto in terapia intensiva e chi no. Ci risiamo. «Rischia di succedere di nuovo» sostengono gli anestesisti della Siaarti (società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva). Ma c' è una differenza: durante la prima ondata, nei reparti più intasati, le decisioni erano state prese in una manciata di minuti in mezzo ai corridoi stracolmi di malati e disperazione. Ora ci si organizza alla vigilia del tutto esaurito. Con un documento condiviso anche dalla Federazione nazionale degli Ordini dei medici. «Nelle situazioni emergenziali - si legge nel testo - il medico finalizza l' uso ottimale delle risorse alla salvaguardia della sicurezza, dell' efficacia e dell' umanizzazione delle cure evitando ogni discriminazione». Ma in caso si sia costretti, «è data precedenza per l' accesso ai trattamenti intensivi a chi potrà ottenere grazie ad essi un concreto, accettabile e duraturo beneficio». I criteri che verranno considerati in caso di «selezione» sono legati all' età del paziente, all' eventuale presenza di altre patologie, alla gravità del quadro clinico. Di caso in caso i medici valuteranno anche l' impatto sulla persona dei potenziali effetti collaterali delle cure intensive. Nel documento tuttavia viene specificato che l' età biologica «non può mai assumere carattere prevalente». Quindi è assolutamente sbagliato pensare che verranno salvati i più giovani e sacrificati gli anziani. L' obbiettivo del doloroso documento è non lasciare solo il medico nella decisione più delicata. Ecco perché «occorre stabilire dei criteri, coerenti con i principi etici e con quelli professionali, che possano supportare il medico, qualora si trovi di fronte a scelte tragiche, dovute allo squilibrio tra necessità e risorse disponibili. E che possano garantire comunque al paziente i suoi diritti: dargli la certezza che non sarà abbandonato, ma sarà preso in carico con gli strumenti possibili, appropriati e proporzionati». Il testo specifica anche che le persone che non potranno accedere alla terapia intensiva non verranno lasciate al loro destino e in nessun caso si potrà parlare di abbandono terapeutico. Si effettueranno tutte le cure possibili, anche se dovessero essere solo palliative, nel rispetto della dignità di ogni persona. La speranza è tenere l' odioso documento etico nel cassetto, senza doverlo mai consultare. Ma i dati cominciano a raccontare di una realtà in netto peggioramento, anche se una parte dell'Italia sembra non aver ancora capito in che situazione versano i nostri ospedali. La situazione delle terapie intensive non è uniforme in tutta Italia, ma le regioni in cui il sistema sanitario dà evidenti segnali di sofferenza sono 15. Questa settimana «per la prima volta è stato segnalato il superamento in alcuni territori della soglia critica di occupazione in aree mediche (40%) ed esiste un' alta probabilità che 15 regioni superino le soglie critiche di terapia intensiva e/o aree mediche nel prossimo mese» rileva il report settimanale di monitoraggio sull' andamento dell' epidemia di ministero della Salute e Iss. Complessivamente, il numero di persone ricoverate in terapia intensiva è salito da 750 il 18 ottobre a 1.208 il 25 ottobre.

Coronavirus, quanti posti in terapia intensiva ci sono in Italia? E quanti ne arriveranno? Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Fiorenza Sarzanini. È una corsa contro il tempo, uno sforzo che tutte le Regioni e soprattutto il ministero della Salute e la Protezione civile stanno facendo per aumentare i posti in terapia intensiva. Perché è così, in quei reparti che si combatte e si cerca di vincere la lotta contro il Coronavirus (qui quello che succede se ci si ammala di Covid-19). Prima dell’emergenza l’Italia poteva contare su 5.324 posti in terapia intensiva e 2.974 nei reparti di malattie infettive. Adesso ce ne sono 470 in più e si conta di arrivare a nel giro di pochi giorni a una disponibilità di almeno 1.850 posti — da confrontare con un fabbisogno in continua crescita (qui i dati del 15 marzo). Questo il quadro attuale:

Lombardia: 1067 posti attivi. In fase di allestimento circa 90 oltre alle valutazioni sull’ospedale Fiera. Ne aveva 861.

Campania: 320 attivati ad oggi, 590 in fase di allestimento. Ne aveva 499.

Friuli Venezia Giulia: 825 attivati di terapia intensiva. Ne aveva 494. In tutto ci sono 2985 posti divisi tra terapia intensiva, subintensiva e malattie infettive. Di questi, mentre 383 di subintensiva respiratoria, 298 in più rispetto alla normalità. Saranno inoltre 10 volte in più i posti nei reparti di malattie infettive: dai 165 iniziali passeranno a 1777, con un aumento di 1612 posti.

Toscana: 447 posti attivati, a questi si aggiungono altri 220 posti in attivazione. Ne aveva 374.

Sardegna: 244 posti attivati. Altri 240 posti letto possibili in attivazione. Ne aveva 128.

Piemonte: 320 posti in terapia intensiva attivati. Possibile attivare fino a 480 posti nelle prossime ore. Un terzo di questa disponibilità deve essere lasciato ai malati “ordinari”. Sono quindi 300-320 i posti per i positivi da coronavirus piu’ gravi. ne aveva 327.

Sicilia: 441, più 200 in fase di allestimento. Ne aveva 411.

Trentino Alto Adige: 75 posti di terapia intensiva attivati. Il piano prevede l’aumento da 33 a 75 posti per la terapia intensiva, da 71 a 123 posti per la pneumologia e l’alta intensità e da 22 a 66 per le malattie infettive. Ne aveva 69.

Emilia Romagna: circa 650 i posti letto di terapia intensiva attivati. Ne aveva 449.

Lazio: 540 posti attivati. A partire da oggi è entrato in servizio il “Columbus Covid 2 Hospital”, realizzato a tempo di record dovrà assistere i pazienti affetti o i casi sospetti. Ben 260 i posti messi a disposizione nella struttura: di questi 60 sono destinati alla terapia intensiva, il resto saranno utilizzati per l’isolamento protetto dei pazienti. Ne aveva 571.

Marche: 400 posti letto, tra già disponibili e nuovi dedicati, divisi tra terapie intensive, semi intensive, degenze specialistiche e “post critici” . Ne aveva 115.

Molise: 30 i posti disponibili (fra pubblico e privato) con la possibilità di arrivare a 45.

Umbria: 69 posti attivi, 35 in allestimento.

Calabria : 107 attivi.

Liguria: 75 terapia intensiva e 224 media intensità.

Puglia: 300 posti nelle rianimazioni e terapie intensive. 195 posti nei reparti di malattia infettive, 209 posti letto in terapia intensiva dedicati solo al Covid-19.

Quanti sono e come funzionano i reparti di terapia intensiva? Fabio Di Todaro su fondazioneveronesi.it l'11 marzo 2020. Ai tempi del Coronavirus, un dossier per conoscere i reparti di terapia intensiva in cui i pazienti più gravi con Covid-19 vengono supportati nel mantenimento delle funzioni vitali. Il 9 per cento dei pazienti colpiti dal Coronavirus richiede il ricovero in un'unità di terapia intensiva per gestire i casi più gravi di Covid-19. A Fiorentino Fragranza - direttore dell'unità operativa complessa di anestesia, rianimazione e terapia intensiva dell'Ospedale Cotugno di Napoli - abbiamo sottoposto 15 domande per spiegare il funzionamento di questi reparti, l'assistenza che viene garantita al loro interno e l'evoluzione a cui stanno andando incontro alla luce dell'epidemia in corso.

Cosa si intende per cure intensive?

«Sono quelle che prevedono il monitoraggio e l'assistenza in continuo, 24 ore su 24. A richiederli sono quei pazienti che non potrebbero sopravvivere altrove, poiché affetti da malattie acute che, compromettendo l'attività di una o più delle funzioni vitali, pongono a rischio la vita. In un reparto di terapia intensiva, i sanitari lavorano per ripristinare nel minore tempo possibile un equilibrio tra il sistema nervoso centrale, l'apparato cardiocircolatorio e quello respiratorio».

Quali sono i pazienti che necessitano di un ricovero in terapia intensiva?

«Sono diversi, tanto che oggi si parla di terapie intensive con diversa specialità. Di queste cure hanno bisogno i pazienti colpiti da un ictus, da un'emorragia cerebrale, da un infarto o da un arresto cardiaco. E poi: coloro che sono rimasti vittime di un trauma che pone a rischio la vita, i pazienti reduci da un trapianto d'organo o da un altro intervento chirurgico particolarmente impegnativo che non permette un immediato ritorno nel reparto di degenza».

Com'è strutturato un reparto di terapia intensiva?

«Le camere in cui avvengono i ricoveri non sono sempre singole, ma devono essere ampie. In questi spazi, oltre al personale sanitario, occorre accogliere le attrezzature necessarie a garantire l'assistenza continua dei pazienti. Al di là del letto, diverso da quelli che si vedono negli altri reparti (con sponde rimovibili, ruote e accesso sui quattro lati), nella stanza di un reparto di terapia intensiva non devono mai mancare il monitor per il controllo delle funzioni vitali, un ventilatore meccanico, le pompe per infondere i farmaci, le maschere per l'ossigeno, un sistema di aspirazione delle secrezioni bronchiali, un defibrillatore, il carrello per i farmaci, la macchina per la dialisi e i cestini per smaltire il materiale biologico. Oltre, naturalmente, a una barra di alimentazione per gestire tutti questi macchinari anche in caso di black-out»

Quanti posti del genere ci sono nel nostro Paese?

«In Italia, al momento, ci sono poco più di 5.300 posti di terapia intensiva e subintensiva, divisi tra gli ospedali pubblici (70 per cento) e quelli privati (30 per cento). Ciò vuol dire avere la disponibilità di 13.5 posti letto per 100mila abitanti, pari all'incirca il 3.3 per cento del totale dei posti letto utilizzati per i pazienti acuti. Sul totale dei posti di terapia intensiva, attualmente oltre 1.000 sono occupati da pazienti con Covid-19».

Quali sono i numeri degli altri Paesi europei?

«Ci sono Paesi che hanno molti più posti letto rispetto all'Italia, come la Germania e l'Austria: con 29.2 e 21.8 unità per 100mila abitanti. Ma, stando ai dati pubblicati sulla rivista Intensive Care Medicine nel 2012, ci sono anche nazioni meno dotate rispetto al nostro Paese. È il caso, per esempio, dei Paesi scandinavi, dell'Olanda, del Regno Unito e della Spagna».

Quali sono le cure garantite in un reparto di terapia intensiva?

«Le terapie dipendono dal deficit che fa registrare il paziente. Per sostenere la funzione respiratoria, si possono usare strumenti di ventilazione non invasiva, come le maschere facciali o i caschi. Nei casi di insufficienza più grave, occorre invece intubare il paziente. In ultima istanza si può infine ricorrere alla circolazione extracorporea (Ecmo). Non riuscendo a ossigenare il paziente in maniera adeguata, si preleva il sangue e lo si ossigena in una macchina esterna. Subito dopo, mantenendo il cuore e i polmoni a riposo, si procede con la reinfusione. Al di là del supporto respiratorio, in terapia intensiva si garantisce anche un'assistenza continua per alimentare i pazienti, somministrare dei farmaci e garantire, se necessario, il deflusso di liquidi dal cervello, dal torace e dall'addome».

Qual è la durata media di un ricovero in terapia intensiva? 

«Parliamo di 14-16 giorni, trascorsi i quali i pazienti possono avere ancora bisogno di un supporto: di tipo respiratorio e riabilitativo. È quello che si fa nei reparti di terapia subintensiva».

Quali sono le differenze tra un'unità di terapia intensiva e di terapia subintensiva?

«Superato il periodo di ricovero in terapia intensiva, un paziente potrebbe non essere ancora in grado di proseguire la degenza in un reparto ordinario. Da qui l'esigenza di avere delle strutture intermedie, dove i pazienti vengono monitorati 24 ore al giorno, ma con un supporto meno invasivo rispetto ai giorni precedenti. Ogni ospedale che ha una reparto di terapia intensiva dovrebbe avere dei posti letto dedicati all'assistenza con intensità intermedia».

Con l'aumentare dei casi di Covid-19, si stanno convertendo altri reparti in unità di terapia intensiva: cosa occorre per compiere questa transizione? 

«Gli spazi, innanzitutto. E tutti quei macchinari che possono non essere presenti nella struttura di partenza. Più semplice, invece, è allestire degli spazi intermedi. Una scelta che, in questo caso, può rivelarsi comunque utile a liberare posti per i pazienti più gravi»

Qualsiasi reparto di terapia intensiva è pronto ad accogliere un paziente affetto da Covid-19?

«No, perché servono stanze singole, a pressione negativa e con un flusso di lavaggio dell'aria unidirezionale. Si tratta di misure atte a evitare che l'aria interna possa contaminare quella esterna e favorire il passaggio ambientale di un patogeno contagioso, qual è il Coronavirus».

In emergenza, è pensabile ricoverare pazienti infetti in una terapia intensiva che ne ospita altri in condizioni precarie per cause diverse?

«No, perché si correrebbe il rischio di favorire i contagi all'interno dell'ambiente ospedaliero. Per questo si sta provvedendo a trasferire i pazienti con altre malattie che richiedono cure intensive in strutture diverse da quelli individuati per il trattamento di Covid-19. In questo modo si liberano posti che potranno tornare utili per fronte a un eventuale aumento dei pazienti alle prese con le forme di polmonite più severa».

È vero che, se una persona è molto anziana e ha diverse malattie, un ricovero in terapia intensiva può essere inefficace?

«Un quadro simile comporta una progressiva riduzione delle probabilità di guarire il paziente. Ma ciò non toglie che si debba ricorrere a tutte le opportunità disponibili per tenerlo in vita»

Quanti giorni di ricovero in terapia intensiva potrebbero essere necessari per un paziente con Covid-19?

«Non lo sappiamo con certezza, ma sicuramente di un periodo compreso tra 20 e 30 giorni. I tempi si allungano quando i pazienti sono molto anziani e presentano altre malattie»

Nel caso in cui crescesse il numero dei casi più gravi anche tra i pazienti pediatrici, dove andrebbero ricoverati?

«Negli ospedali specializzati per la cura delle malattie infettive ci sono gli strumenti per assistere i bambini. Negli altri, invece, è opportuno fare riferimento alle competenze dei pediatri e degli anestesisti pediatrici che lavorano nei reparti di terapia intensiva pediatrica. I bambini richiedono maggiore isolamento rispetto agli adulti. Motivo per cui, se si presentasse un simile scenario, occorrerebbe isolare i pazienti Covid-19 da tutti gli altri. Ripetendo, in pratica, quello che si sta facendo al Nord per gli adulti».

Le terapie intensive italiane quanto sono attrezzate per affrontare un'emergenza infettiva?

«Negli ultimi anni nelle terapie intensive ci si è concentrati sull'assistenza ai pazienti traumatizzati o colpiti da eventi cardio e cerebrovascolari. Quanto alle infezioni, oggi si pone molta più attenzione alle complicanze delle infezioni ospedaliere. Ma le malattie infettive contagiose esistono ancora, come ci sta dimostrando l'esperienza Coronavirus».

Coronavirus, la terapia intensiva e le difficoltà della sanità: “Soldi gestiti male”. Le Iene News l'11 marzo 2020. L’emergenza provocata dall’epidemia di coronavirus ha messo in luce le difficoltà del sistema sanitario: “I finanziamenti non mancano, e nemmeno le tecnologie. Servono però più infermieri e più programmazione: non serve buttare più miliardi nella sanità se non cambiano le regole”, dice Marco Cappato a Iene.it. “Non serve buttare nel sistema sanitario più soldi se non cambiano le regole”. L’emergenza per il coronavirus, che ha messo sotto fortissimo stress i nostri ospedali, accende la luce su quello che non funziona nel nostro sistema pubblico di sanità e nel suo finanziamento. Noi di Iene.it abbiamo parlato con Marco Cappato dell'Associazione Luca Coscioni per capire da dove derivino le difficoltà che stanno rendendo così difficile reggere all’epidemia. La Lombardia ha infatti lanciato oggi l’ennesimo allarme sulla tenuta del sistema sotto pressione per il coronavirus: “Siamo vicini all’esaurimento delle risorse, così non possiamo andare avanti”, ha detto il governatore Fontana. I posti in terapia intensiva sono quasi finiti e si stanno studiando soluzioni d’emergenza. Ma come siamo arrivati a questo punto? Per capirlo serve partire da alcuni dati che sicuramente non sono rincuoranti. Dal 2000 al 2017 sono andati persi il 30% dei posti letti dei nostri ospedali: l’Italia è sest’ultima in Europa, e ne ha meno della metà della Germania in rapporto alla popolazione. Eppure i finanziamenti pubblici al sistema sanitario non sono diminuiti, anzi: nel 2000 spendevamo 71 miliardi di euro, oggi ne spendiamo 114,5. “Per quanto riguarda i fondi alla sanità, i finanziamenti sono sempre aumentati (magari di poco) o rimasti stabili”, ci dice Marco Cappato. Il problema quindi non riguarda i fondi a disposizione, ma il modo in cui questi sono gestiti: “Le carenze del sistema derivano dalla gestione delle risorse”, ci spiega. Anche se purtroppo siamo indietro rispetto ad altri Paesi a noi vicini: l’Italia destina infatti il 6,5% del Pil alla spesa sanitaria. In Germania è il 9,5%, in Francia il 9,3, nel Regno Unito il 7,5%. E per quanto riguarda i posti letto? “I posti letto complessivi sono da tempo poco più di 3 per mille abitanti, come da indicazione del ministero”, continua Cappato. Secondi i dati del ministero della Salute, infatti, i posti letto disponibili in Italia sono 192mila, cioè 3,2 ogni mille abitanti. Questo però è il sesto dato più basso nell’Unione europea: la Germania, per intenderci, ne ha più del doppio. Non è però solo il numero totale che conta, ma anche (e soprattutto) come quei posti vengono distribuiti: “La suddivisione dei letti per reparti e tipologia è di competenza regionale. È probabile che ci sia qualche disomogeneità, con alcune specialità che ne hanno troppe poche e altre invece che ne hanno più del necessario”, ci spiega Cappato. E, vedendo quanto sta accadendo in questi giorni, sembra proprio che le terapie intensive non siano certo tra i reparti che ricevono troppo risorse…Sono proprio le terapie intensive infatti a essere sotto i riflettori in questi giorni, anche perché degli oltre 10mila malati di coronavirus in Italia circa il 10% ha avuto o ha ancora bisogno di quel tipo di assistenza. In Italia i posti disponibili sono complessivamente 5090, e solo in Lombardia sono attualmente 466 i ricoverati in terapia intensiva per il Covid-19 a fronte di una capacità normale di 900 posti. Attenzione però: non è solo il coronavirus a portare le persone in quei reparti, e il rischio concreto è che a un certo punto finiscano i posti disponibili e si debba scegliere chi ricoverare in base alle probabilità di sopravvivenza. Lo ha spiegato in modo crudo e diretto Christian Salaroli, anestesista rianimatore dell’ospedale di Bergamo: “Dobbiamo scegliere chi curare e chi no, come in guerra”. Una situazione disperata, a fronte della quale la regione ha annunciato di aver creato 223 nuovi posti di terapia intensiva d’emergenza e altri 150 verranno ricavati nei prossimi giorni. Addirittura si sta studiando la possibilità di trasformare alcuni padiglioni della Fiera di Milano in un ospedale ‘improvvisato’, un po’ come è accaduto a Wuhan nei giorni più difficili dell’epidemia. Per far fronte alle nuove necessità, la centrale unica degli acquisti della pubblica amministrazione ha indetto dei bandi d’urgenza per avere nuovo materiale da dedicare alla terapia intensiva: “Anche sulle tecnologie e strumentazioni, che dipendono dalle regioni e dalle aziende, complessivamente non siamo carenti in un contesto normale”, ci spiega ancora Cappato. “Altra cosa però è la loro distribuzione: c’è una assurda concentrazione di alcune costose strumentazioni e invece possibili carenze in settori specifici”. Insomma anche qui sembra esserci una mancanza di coordinamento dietro alle difficoltà del nostro sistema sanitario. Come a personale medico, invece, come siamo messi? Perché abbiamo visto tutti le immagini simbolo di medici e infermieri stremati dopo estenuanti turni di lavoro: “Il numero complessivo di medici in Italia, che è di circa 4 per mille abitanti, è ancora superiore a quello di moltissimi altri Paesi comparabili”, spiega Cappato. “Nel settore ospedaliero però sono mal distribuiti e non sono stati governati. Il loro dimensionamento è stato deciso più dall'Inps che dalle Regioni, tramite le regole di pensionamento come quota 100 e simili. Una carenza vera è da decenni il numero degli infermieri, che sono la metà o un terzo di altri paesi comparabili”. Insomma quegli eroi che lottano tutti i giorni per salvare quante più persone possibili sono troppo pochi anche in una situazione normale, figurarsi adesso in piena emergenza coronavirus. Come si può quindi risolvere queste mancanze e garantire ai cittadini un sistema sanitario più efficiente? “Complessivamente si può dire che le carenze in alcuni settori dipendono da scarsa programmazione, soprattutto regionale, e non dalla scarsità di finanziamento”, conclude Cappato. “Buttare nel sistema qualche miliardo in più non cambierà molto se non cambiano alcune regole o se i finanziamenti non sono utilizzati con efficacia”. Speriamo che, quando l’emergenza coronavirus sarà risolta, si possa davvero lavorare per rendere migliore quel sistema sanitario che è garantito a tutti dalla nostra Costituzione. Intanto quello che tutti noi possiamo fare è sostenere chi si trova in prima linea nella gestione dell’emergenza: noi de Le Iene ci uniamo alla raccolta fondi per sostenere l’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo che in questi giorni è tra i più colpiti dal coronavirus.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 22 aprile 2020. Il 13 marzo, quando l' epidemia del coronavirus ha cominciato a trasformarsi in tragedia, il 60 per cento dei pazienti infetti era ricoverato in ospedale. Oggi la situazione è mutata drasticamente: appena il 25 per cento è in ospedale, in pratica 3 pazienti su 4 sono in condizioni tali da potere essere curati a casa, in isolamento. Cosa è successo? Il virus si sta indebolendo? Abbiamo capito quali sono le terapie giuste? Il discorso è più complesso: prima di tutto, nel pieno dell' uragano si facevano i tamponi solo a coloro che avevano sintomi gravi; oggi si stanno raggiungendo anche i poco sintomatici; non a caso la percentuale dei tamponi positivi rispetto al 25 per cento di un mese fa oggi è scesa al 5. Però è anche vero che abbiamo capito che i pazienti vanno, per quanto possibile, tenuti lontano dagli ospedali, ma con terapie che devono cominciare subito se si vogliono evitare improvvisi peggioramenti. Spiega il professor Francesco Le Foche, responsabile del Day Hospital di immunoinfettivologia de Policlinico Umberto I di Roma: «La terapia deve essere iniziata a casa, questa è una malattia infiammatoria e come tale va trattata. All' inizio il numero enorme di persone che avevano bisogna di terapia intensiva, è stato frutto del fatto che tanti pazienti erano rimasti molti giorni sì a casa, ma senza terapia. Sono arrivati così contestualmente tutti in pronto soccorso, con patologie importanti, e questo ha stressato il servizio sanitario, anche dove ci sono eccellenze come in Lombardia. A pagare di più sono state le strutture monoblocco, in cui non si potevano dividere i pazienti; noi come Policlinico, con differenti padiglioni, abbiamo potuto con più facilità allestire percorsi separati». Oggi la forza dell' onda è diminuita, i medici possono curare e seguire più tempestivamente i pazienti a casa. «E sono state affinate le terapie, il trattamento domiciliare e l' attenzione al territorio. Poi, certo, è anche vero che facendo più tamponi, si individuano anche più pauci sintomatici o asintomatici». Ma ha anche funzionato il distanziamento sociale, perché ha favorito la decompressione negli ospedali. Quali terapie domiciliari stanno riducendo il numero di casi gravi? Il professor Le Foche spiega: «Sicuramente l' idrossiclorochina di fosfato associata all' azitromicina, una terapia corticosteirodea blanda ed eventuale terapia con eparine: bloccano la parte dell' infiammazione più importante». Dei casi attualmente positivi, solo il 2,3 per cento è in terapia intensiva; dunque, una percentuale molto bassa - almeno stando ai dati ufficiali - è in condizioni gravi. Ma si può ipotizzare che ci sia un indebolimento del virus? Serve molta prudenza, perché in questa fase è prioritario mantenere le misure di distanziamento sociale. «Io credo in realtà che proprio queste misure comportino una riduzione dell' entropia sociale: così il virus si indebolisce, perché non ha l' opportunità di passare da persona a persona. Se ci sarà una seconda ondata in autunno, sarà meno forte».

In terapia intensiva adesso entra la musica: "Aiuta medici e malati a uscire dall'inferno". Il dottor Sartori lancia appello sui social. E nelle corsie si suona dal vivo. Gian Micalessin, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Guarire ascoltando musica. Era il sogno di suo papà e il dottor Nicola Sartori l'ha esaudito. Da qualche settimana il Policlinico San Marco di Zingonia è il primo ospedale dove il Coronavirus si combatte a suon di musica. «Era uno dei primi giorni in cui mio padre era ricoverato e all'improvviso mi chiese di fargli ascoltare una delle sue canzoni preferite. Allora tirai fuori il telefonino e gliela feci sentire. Era un brano blues, uno dei suoi preferiti. In quei pochi minuti vidi la gioia nei suoi occhi. Ma allora - mi dissi - potrei rendere felici anche gli altri pazienti e distrarre medici e infermieri. Così è incominciata l'avventura». Quel giorno se lo ricorda bene anche Francesco Galli, amministratore delegato degli Istituti Ospedalieri Bergamaschi. «Nicola alla fine della riunione di crisi che teniamo ogni giorno da quando è iniziata l'emergenza Covid mi raccontò che voleva mettere della musica per far rilassare e pazienti e malati. Era un'idea fantastica che però non sapevo come realizzare in pratica. Così ho incominciato chiedendo informazioni con un post su Facebook. In 48 ore attraverso condivisioni, mi piace e tantissime risposte ho capito quale era l'impianto più idoneo. Poi grazie a dei funzionari di Ikea che si sono dati da fare abbiamo trovato anche le casse wi-fi più adatte a farlo funzionare. Da allora la musica non si è più spenta». Per fartela ascoltare dal vivo Nicola si barda, come ogni giorno, con tuta, doppi guanti, mascherina e visiera e ci accompagna nel cuore del reparto. Le note dei «Cinque segreti» di Beethoven si mescolano ai beep degli elettrocardiogrammi, allo scampanellare degli allarmi, allo stridio metallico dei carrelli e al soffio continuo dell'ossigeno miscelando il tutto in una commistione sonora soffusa e indistinguibile. «É proprio questo l'effetto che sognavo quando quel giorno cercai quella canzone nel telefonino e vidi gli occhi di papà accendersi di gioia. Volevo racconta Sartori che nel frattempo ha dovuto purtroppo trasferire papà in terapia intensiva aiutare i pazienti come lui a distrarsi un attimo, dimenticare l'ansia di respirare, estraniarsi da quella litania di rumori di fondo che ti ricordano ad ogni istante dove sei finito. Volevo regalar loro almeno un minuto di spensieratezza e tranquillità». Patrizio, il paziente ricoverato nella stanza in cui è entrato Nicola ha smesso da pochi giorni la terapia con il casco che per due settimane l'ha inchiodato a questo letto del reparto sub intensivi. E ora sottolinea con ampi cenni del capo il racconto del suo medico. «Questa musica per noi pazienti è una vera liberazione. La chiamo la musica del paradiso. Ci aiuta a uscire da questo inferno, ci fa scordare la paura. Perché qui non è sempre facile».

Non è facile neppure per Fabio. Di suo papà ricoverato in terapia intensiva non vuole parlare, ma si capisce che il suo pensiero è lì. «Ogni giorno che entro qui dentro confesso ho paura. Tanta paura. Ho paura che vada male. Ho paura che le cose non funzionino. La musica mi aiuta a distrarmi e penso che aiuti anche i miei colleghi e gli infermieri. Ma non è facile».

Coronavirus, la lettera dell’infermiere: “Odori, luci, suoni: vi racconto l’altro mondo della terapia intensiva”. Redazione de Il Riformista il 14 Aprile 2020. “La cosa che più mi sta devastando è non poter abbracciare le persone alle quali voglio bene. Sento che ne ho bisogno … Ne ho bisogno perché la stanchezza è tanta, e un abbraccio in questo momento sarebbe pura energia”. Comincia così la lettera di Nicola De Giosa. Comincia dalla nostalgia per la famiglia, per la moglie e per i figli Marco e Alessandro la riflessione che l’infermiere, in prima linea contro il coronavirus, ha affidato al portale online Nursetimes.org. E continua con le le emozioni che lasciano addosso ore e ore in corsia. Dove la mascherina permette a malapena di respirare, la “tuta-corazza” di muoversi e il lavoro travolge come un uragano. E quindi, a fine giornata, va a consolarsi nei ricordi, nella mente che è come “una scogliera”, “un’ancora di salvezza”. A ripescare i dettagli della vita, per dare loro valore e per lanciare un altro, ennesimo appello: “Noi siamo stanchi e a casa vorremmo tornare”, e ci potranno tornare se anche chi è fuori collaborerà. Nicola ricorda di quando a 17 anni indossò per la prima volta il camice. Di come si sentisse inadeguato. E di come capì che infermiere vuol dire guardare il mondo da un’altra angolazione. “Da più di 21 anni vivo continuamente in due mondi diversi – scrive De Giosa – quello degli altri, fatto di cose comuni, normali, scontate, programmate, e quello della terapia intensiva, fatto di luci, suoni assordanti, odori forti, cose strane, persone strane, fatti e cose per niente scontate”. È un mondo scollegato, strano, diverso, quello della terapia intensiva, continua Nicola. “Quando passo nell’altro mondo, tutto è meravigliosamente unico, reale, carnale … Un soffio di vento sulla faccia, un raggio di sole, la pioggia sul viso, l’odore della natura, gli abbracci, le parole, gli sguardi … Tutto è così prezioso … La vita è preziosa. Noi lo sappiamo, e ora anche voi lo sapete”. Questo nemico invisibile, scrive Nicola, ci ha fatto scoprire quanto il mondo ha ancora da insegnarci. E chiude la sua lettera con un appello: “Un mondo, la rianimazione e il mio lavoro, che ora più che mai vi guarda. E che spera che almeno voi, quelli dell’altro mondo, ci rispettiate. Perché noi siamo stanchi, e a casa vorremmo tornare. E questa tragedia, poi, raccontare. Perché di racconti è fatta la vita. E i due mondi insieme ce la possono fare, se a casa decidete di stare”. Dall’inizio dell’emergenza coronavirus in Italia sono morti 116 medici e 8 farmacisti. Le vittime totali in Italia sono state 21.067, i contagi 104.291.

Dal profilo Facebook di Virginia Raggi il 2 aprile 2020. Voglio farvi leggere una mail che mi ha inviato una dottoressa impegnata in prima linea in un ospedale per combattere questo maledetto coronavirus. Voglio condividerla con tutti perché non è il momento di abbassare la guardia. Finora siamo stati capaci di osservare i divieti ma, anche se arrivano le prime notizie incoraggianti, abbiamo ancora molto da fare per fermare il contagio e la diffusione del coronavirus. I sacrifici che tutti noi stiamo facendo non possono essere vanificati. Leggete queste parole: sono un crudo racconto di cosa c’è fuori le nostre case. Di ciò che sta avvenendo nei nostri ospedali. Di ciò che stanno vivendo tantissime persone. Riflettiamo allora, leggiamo bene queste parole. Prendiamo ancora una volta la decisione giusta: restiamo a casa.

"Cara Virginia, ti scrivo per raccontarti cosa vedo ogni giorno e per raccontarlo a tutte le persone alle quali vorrai farlo sapere. E’ un racconto duro ma è la verità. Ascoltatelo tutti.

Se vi andrà bene sarete ricoverati in pronto soccorso. Avete presente i pronto soccorso italiani? Perfetto, verrete accolti lì e da persone vestite da palombari di cui forse vedrete solo gli occhi. Vi spoglieranno di ogni avere, forse un’ultima chiamata ai familiari già impauriti, in attesa dell’esito del tampone che mediamente arriverà in 6-8h.

A seconda della gravità della sintomatologia spero verrete ricoverati nei reparti più adatti a voi: subintensiva o terapia intensiva.

Io, arrivati a questo punto, se fossi in voi, spererei in una terapia intensiva, così vi intubano subito e vi risparmiate quelle strazianti telefonate ai familiari famose ormai alle cronache di ogni giorno.

Tubo e via. Tanto, tempo tre giorni, vi fanno la tracheotomia: cioè bucano la trachea, la gola, per farvi respirare, mettono un tubo idoneo e vi collegano al ventilatore. Non vi preoccupate se ne uscirete vivi avrete altre 3-4 settimane di riabilitazione ventilatoria e fonatoria da eseguire…ma ci si penserà, via.

Quindi si va in Terapia Intensiva, dove il pacchetto base all’ingresso consiste in:

Intubazione orotrachaele

ventilazione artificiale

Sedazione con farmaci sicuri, ma pur sempre farmaci…a quantità tale da perdere coscienza e respiro.

Posizionamento di cateteri di varia natura: venoso, arterioso, vescicale, naso digiunale e, perché no, rettale.

E poi finalmente inizia la terapia…se c’è…cioè non tutti gli ospedali ce l’hanno prontamente disponibile perché funziona così, quindi si inizia in un modo e si aspetta il farmaco ad “uso compassionevole”.

Ma come lo dicono in tv: antivirale, antiartrite, antibiotico. Una serie di anti-tutto che fanno presagire, come è noto per qualsiasi farmaco, gli effetti collaterali: diarrea profusa, sovrainfezioni per indebolimento del sistema immunitario, fino ad arrivare in casi gravi, ma non rari, alla dialisi, perché il rene non ce la fa ad eliminare tutte le tossine, soprattutto quando il fegato è in difficoltà…e purtroppo in questa brutta malattia il fegato È SUBITO in serie difficoltà.

…e passano i giorni… 1,2,3 settimane col tubo in trachea, machissenefrega tanto fuori è tutto chiuso, non posso uscire a fare jogging, non posso uscire con il cane… vorrà dire che quando mi risveglierò sarà tutto finito.

Ma sappi che se #Andràtuttobene, se anche la tua famiglia starà bene, se quando ti risveglierai potrai vedere e CONTARE tutti i tuoi cari senza averne perso neanche uno, quando comincerai a ringraziare i medici e gli infermieri che ti hanno aiutato chiamandoli eroi, quando ne avrebbero fatto volentieri a meno….avrai ancora mesi in ospedale, avrai ancora le ferite di questa lotta a volte irreversibili, perché si fa di tutto per tenere “in vita una vita” ,ma questo spesso richiede un costo al risveglio.

Quando uscirai davvero però, lo so…. rispetterai tutte le regole.

Alessandro Mondo per “la Stampa” il 5 aprile 2020. Nei tempi del Covid-19 capita che ci si congedi dalla vita, e dagli affetti più cari, con una telefonata. Anzi: con una videochiamata. Magari dopo essersi fatti prestare lo smartphone da un medico o da un infermiere, bardati come astronauti. I pazienti, quelli che stanno precipitando, intravvedono gli occhi e intuiscono l' uomo, o la donna. A loro chiedono l'estremo aiuto. I familiari sono confinati in uno schermo, presenze care e loro malgrado lontane. Spaventoso, ma è così. «I malati sono sempre soli: dal ricovero fino alla fine», spiega l' infermiera di un grande ospedale torinese con voce spenta. La fine che può essere fausta, cioè culminare con la guarigione, o infausta: l' ultima tappa del deterioramento del quadro clinico. Per questo il telefono diventa essenziale. Non un telefono qualsiasi - di quelli con i tasti, prerogativa degli anziani - ma lo smartphone: per comunicare e per vedere ancora una volta il volto dei figli, delle nuore e dei generi, dei nipoti. Sovente l' ultima. «Alcuni ce lo chiedono perché l' insufficienza respiratoria peggiora e capiscono che sta arrivando la fine - racconta l' infermiera -. Cerchiamo di assecondarli quando non hanno ancora indossato il casco per la ventilazione: con quello non possono parlare, soltanto bere tramite una cannuccia. Oppure lo sfiliamo un attimo, il tempo della telefonata. Per loro è un conforto enorme». Conforto anche per i loro cari, nonostante lo strazio. Il coronavirus uccide: nelle terapie intensive e sub-intensive, nei pronto soccorso, nei reparti. «I pazienti sono distribuiti sulla base di una valutazione quotidiana delle condizioni cliniche che considera la possibilità di ripristinare un equilibrio - spiega il professor Luca Brazzi, direttore della rianimazione universitaria di Torino -. La terapia intensiva non è sempre indicata per tutti, l' età non è un discrimine: le condizioni possono suggerire il ricovero in rianimazione di un anziano e consentire il ricovero di un soggetto più giovane in un reparto a minore invasività di trattamento». Il distacco Ma prima di morire per il virus si rischia di morire di solitudine: l' altro avversario da affrontare quando si arriva all' ultimo miglio, così come durante le cure. È questo a consacrare l' importanza del telefono, anche per i più giovani. Loro lo smartphone ce l' hanno, ma nella fase precipitosa del ricovero lo lasciano a casa. O lasciano a casa il caricabatterie. Allora succede che i famigliari spediscano l' uno e l' altro, pregando gli operatori di recapitarli. Perché dal momento in cui entrano in ospedale, nessuno se non il personale può avvicinarli: solo rapporti mediati. Quando finisce male, i famigliari non vedono più nemmeno la salma. E se capita che sono in quarantena, la solitudine del defunto si estende alla cerimonia funebre. Non a caso, la comunicazione e l' informazione sono parte integrante del percorso di cura: anche quando si risolve felicemente. «Per noi è una grande angoscia, come essere in guerra - spiega il dottor Umberto Fiandra, dirigente medico della Città della Salute di Torino -. Ogni giorno un' équipe di medici e psicologi chiama i parenti per aggiornarli sulle condizioni dei pazienti». Per informarli, e talora per prepararli. Per questo, aggiunge Brazzi, «ci attrezziamo per avere smartphone e tablet da tenere in reparto». «Immagini un paziente critico: privato degli affetti e circondato da persone di cui vede solo gli occhi - spiega un altro infermiere -. Immagini anche come noi viviamo certe situazioni. Magari qualche giorno dopo avere prestato il nostro telefono ad un malato scopriamo che non ce l' hanno fatta. È un carico emotivo davvero insostenibile. Come lo affrontiamo? Piangendo: tra di noi o a casa, quando siamo soli».

Racconti dal fronte: Giuseppe Nardi, anestesista in Trincea. Giovanna Corsetti de Il Riformista il 5 Aprile 2020.

Giuseppe Nardi, lei dirige l’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale Infermi, di Rimini, oggi qual è la situazione nel suo reparto?

“Grazie alle misure di contenimento il contagio si è molto ridotto. E’ calato il numero dei pazienti ricoverati in ospedale e anche in Pronto Soccorso diminuiscono i nuovi casi. In Rianimazione ci sono ancora tanti ricoverati, perchè mediamente i pazienti rimangono da 2 a 3 settimane, qualcuno però è già stato estubato e a breve lo saranno altri pazienti. Le prime 2 settimane sono state terribili, eravamo disperati, vedevamo arrivare uno tsunami e non sapevamo come arrestarlo».

Come vi siete attrezzati per resistere alla prima onda d’urto?

“In 12 ore abbiamo completamente trasformato la nostra rianimazione, diviso tutti i posti letto e creato un’area di contenimento con dei teli di nylon, teloni isolanti che si possono disinfettare. Dall’area dove ci veste e sveste, attraverso un altro locale sterile, si accede alla rianimazione dove sono i pazienti. Naturalmente dopo aver indossato tutte le protezioni. Abbiamo fatto corsi ed esercitazioni per imparare a vestirci in modo corretto, ci siamo esercitati per 10 giorni, per evitare errori che avrebbero messo a rischio la sicurezza nostra e dei malati”.

Nel filmato che ci ha inviato si vede chiaramente quanto sia complessa la “vestizione” necessaria per poter avvicinarsi ai pazienti in sicurezza, come si lavora così bardati?

“Non è facile, le tute sono impermeabili, non traspiranti per ragioni di sicurezza e quindi  dentro si muore di caldo e si resta così vestiti per ore, per tutto il tempo che occorre ai pazienti e anche di più. Quando si esce bisogna svestirsi e buttare via tutto, quindi ciascuno di noi cerca di resistere dentro il più a lungo possibile, senza poter bere un sorso d’acqua, bagnati di sudore, resistendo al caldo, respirando male, senza poter andare in bagno per ore ed ore. Tutto pur di usare il più a lungo possibile l’attrezzatura di protezione. E anche quando si esce dalla rianimazione, si resta fuori 15-20 minuti al massimo e poi ci si riveste e si ricomincia da capo e così tutto il giorno e la notte. Io oggi, tra medici e infermieri dirigo 200 persone e in questa gigantesca rianimazione, c’è chi dal 1° marzo non ha fatto un giorno di riposo e nessuno si lamenta”.

Questo perché non avete sufficienti mezzi, tute, mascherine, guanti?

“I dispositivi sanitari noi li abbiamo, ma li abbiamo in numero ridotto e ognuno di noi sa che deve utilizzarli in modo ragionevole! Per esempio, ci portiamo un certo tipo di mascherina in tasca, prima guardiamo il paziente, se ci accorgiamo che ha bisogno di manovre particolari solo allora tiriamo fuori la mascherina di livello superiore. Perché se le usiamo liberamente finisce tutto e dobbiamo fare lo stesso lavoro senza protezione. Conosciamo tutti il numero dei medici che ha perso la vita per continuare a lavorare ad ogni costo”.

Di posti letto, ne avete a sufficienza?

“Siamo partiti da 15 posti in rianimazione, adesso ne abbiamo 50, ma i primi giorni sono stati drammatici, abbiamo passato notti intere a “inventare” altri posti letto, ma era difficile recuperare qualunque materiale o dispositivo, perché si producevano in pochissimi luoghi, la gran parte delle ditte era all’estero, una grossissima quota in Cina e più il problema diventava mondiale, più tutto il mondo cercava di procurarsene. Il prezzo dei dispositivi è aumentato enormemente anche per le realtà pubbliche, un dispositivo che prima dell’epidemia costava 1 euro lo si è pagato anche 10 e non sto parlando di Amazon, ma degli ordini fatti dalle direzioni sanitarie”.

E come ce l’avete fatta, dottor Nardi?

“Soprattutto con le donazioni, grazie alla generosità incredibile di tanti tantissimi abbiamo ricevuto tutto quello che ci mancava. E poi abbiamo recuperato molto materiale da altri ospedali della provincia, ospedali più piccoli che ce li hanno inviati, non essendo in grado di gestire la prima linea”.

Quanti contagi avete avuto tra medici, infermieri e sanitari?

Nessuno si è infettato o ammalato in ospedale.

Un miracolo Direttore!

“All’inizio siamo stati fortunati, qualche errore lo abbiamo commesso, ma ora facciamo controlli continui e ci proteggiamo reciprocamente”.

Come?

“Ognuno di noi guarda l’altro per verificare che vengano attuati tutti i protocolli per evitare il contagio e per questo voglio davvero ringraziare tutto il mio reparto, senza questo lavoro di squadra non saremmo arrivati fin qui. Ora la curva scende quotidianamente, ma proprio per questo bisogna continuare a tenere alta la guardia e rispettare le restrizioni, non sarebbe facile resistere ad una seconda ondata provocata da condotte poco responsabili di chiunque”.

Salvati senza limite di età. Mentre in Gran Bretagna si suggerisce di non curare chi è molto avanti con gli anni, lasciando spazio a chi ha più speranze di vita, nei nostri reparti di terapia intensiva non si fanno distinzioni. I criteri per intubare o meno sono altri, come spiega un medico dell'ospedale Sacco. Luca Sciortino l'8 aprile 2020 su Panorama. Ogni idraulico inglese pronuncia il verbo «clog up» innumerevoli volte nella sua vita. Significa «intasare»: perfettamente appropriato per descrivere i problemi delle tubature, si addice molto meno alle questioni di vita o di morte. Sir David King, professore emerito all'Università di Cambridge e per anni consigliere del governo inglese, lo ha usato per suggerire che gli anziani di età superiore ai 90 anni non dovrebbero «ingombrare» i posti di terapia intensiva per i malati da Covid-19. Dato che le probabilità di sopravvivenza dei molto anziani sono scarse, ha sostenuto King, e vi è la necessità di razionare i ventilatori, meglio lasciare il posto a chi è più giovane. Gli hanno fatto eco sui quotidiani inglesi esperti come il consulente del sistema sanitario nazionale del Regno Unito David Oliver e ufficiali dello stesso ente di assistenza a Londra. Sebbene le organizzazioni di beneficienza abbiano stigmatizzato come immorale l'idea, i suoi sostenitori l'hanno difesa chiamando in causa lo stress delle terapia intensive e suggerendo di curare questi anziani nelle loro abitazioni. Quale sia stato il criterio effettivamente seguito sul campo non è dato saperlo dai diretti interessati dal momento che, sollecitati sulla questione, alcuni medici inglesi hanno risposto: «NDA signed, not able to answer» («Abbiamo firmato un accordo di riservatezza con il nostro ospedale e non possiamo rispondere»). Si possono però ricavare importanti indizi da uno studio statistico del 27 marzo condotto su 775 ammissioni alle terapie intensive dall'organizzazione indipendente inglese Icnarc: l'età media dei pazienti era 60,2 anni, 634 vivevano senza alcuna assistenza, 65 con assistenza limitata e solo un paziente non era autonomo. Conviene mettere questa situazione a confronto con quella nel nostro Paese. Il 6 marzo la Società di terapia intensiva (Siiarti) ha raccomandato di non seguire, in presenza di scarse risorse, un criterio di accesso sulla base dell'ordine di arrivo, ma di considerare «chi ha in primis più probabilità di sopravvivenza e, secondariamente, chi può avere più anni di vita salvata». Di fatto, sui media italiani si è cercato di esorcizzare il timore di dover scegliere. Valga su tutti la dichiarazione dell'assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, il quale qualche giorno dopo ha dichiarato: «Non c'è una selezione su chi debba essere salvato e chi no su parametri anagrafici: molti ospedali sono sotto pressione, ma il sistema sta reggendo e li sta aiutando. E se non ci saranno posti a disposizione, lì interverrà il sistema regionale». Cosa poi sia accaduto sul campo i medici italiani accettano di spiegarlo. Chiara Cogliati, direttore di Medicina generale a indirizzo fisiopatologico del Sacco (dove si sta costruendo un nuovo reparto di terapia intensiva grazie a Ceetrus Italy, ImmobiliarEuropea e SalService) dice che: «Chiunque, indipendentemente dall'età, in caso di dispnea accede a un pronto soccorso dove saranno gli esami a dare indicazione di ricovero o di cura domiciliari. Fa parte del nostro sforzo curare i molto anziani, ma è importante dire che l'intubazione è un approccio invasivo e di lunga durata nei pazienti con insufficienza respiratoria da Covid-19. Pertanto, caso per caso valutiamo il rischio/beneficio di tale procedura, come sempre». La presenza di co-patologie, come la cardiopatia ischemica o le malattie croniche polmonari, è per esempio un fattore importante per l'indicazione all'intubazione dati i rischi in questi casi. «Dall'inizio di questa epidemia sono stati posti in terapia intensiva molti anziani; purtroppo vediamo che questi pazienti una volta intubati hanno un'altissima mortalità» precisa Cogliati. «Una valutazione deve essere fatta, ma l'età viene considerata solo come uno dei fattori che condizionano la prognosi». Veniamo ora ai dati numerici. Secondo quelli forniti dalla Regione Lombardia, l'età media in terapia intensiva è 70 anni, circa dieci più di quelli oltre Manica; il 22 per cento ha oltre 75 anni e il 37 per cento tra 65 e 75 anni. Questa differenza non può essere spiegata con il solo fatto che il Regno Unito ha una popolazione più giovane: mentre in Italia il 22,6 per cento della popolazione è sopra i 64 anni, in Inghilterra la percentuale è del 18,2 per cento. È probabile che in quel Paese vi sia stata una propensione a curare i molto anziani in casa piuttosto che in ospedale, come mostra il recente fiorire in Gran Bretagna di compagnie di cura dei malati anziani di Covid-19 a domicilio. Che poi il Regno Unito sia partito con un numero di posti letto in terapia intensiva di 6,6 su 100 mila abitanti, molto inferiore ai 12,5 italiani, può essere stato un problema aggiuntivo a sfavore di chi è molto avanti negli anni. Mentre in Italia ce l'hanno fatta, contrariamente a tutte le aspettive, anche persone che avevano superato non solo i 90 anni ma, com'è successo in un ospedale di Genova, persino una donna di 102 anni.

Eutanasia. Gianfrancesco Turano il 2 aprile 2020 su L'Espresso. Oggi una storia. Un figlio di amici si è trasferito in Spagna. Vive nella cintura suburbana di Madrid. Una volta erano quaranta minuti di macchina fino in centro. Ora, con le strade deserte, sono venti. Lui sta in casa con i figli che la compagna spagnola ha avuto da un matrimonio precedente. La compagna infermiera va ogni giorno al lavoro nel suo ospedale in città. L'uomo chiama i genitori in Italia e racconta delle condizioni strazianti della compagna a fine turno. Da qualche tempo lei ha iniziato a dirgli chiaramente che, ogni giorno, aiuta qualche malato terminale ad andarsene: prima uno, poi due, poi ha smesso di contare. Un po' più di morfina ed è finita. La cosa che più la spezza è non potere tenere la mano del moribondo perché bisogna correre da un altro paziente che forse potrà salvarsi. Ogni morto le pesa addosso e crea le condizioni di stress traumatico, che moltissimi stanno vivendo e che sarà un problema generale a fine epidemia. La Spagna è in testa nella classifica della mortalità mondiale per Covid-19. In altre parole, se si escludono paesi molto piccoli e poco popolati, ha il più alto numero di morti rispetto ai suoi 48 milioni di abitanti (2227 per ogni milione) contro i 2053 della Svizzera e i 1829 dell'Italia. Oltre 12 mila operatori sanitari spagnoli sono positivi (14% del totale) con enormi lacune nei dispositivi di sicurezza. Una misura comparativa di quanto è accaduto in Spagna l'hanno fornita i dati esposti sul tg di Sky. I contagi italiani dopo i primi 28 giorni di epidemia erano 53578 con 4825 morti. In Spagna, in un periodo analogo, c'erano 80110 positivi e 6803 morti. Oggi sembra vicino il sorpasso sull'Italia per numero complessivo di contagiati. È la conferma che l'onda del Corona virus ha prodotto in Spagna danni maggiori in un intervallo di tempo molto minore di quello, già breve, dell'Italia. Il sistema statale spagnolo è fondato sulle comunità autonomiche che agiscono con competenze molto ampie rispetto al governo centrale e molto superiori al federalismo all'italiana. Anche se non è questa la sede per rievocare le lotte feroci tra alcune comunità e il governo della capitale, si può dire che lo Stato di re Felipe VI ha fatto molte concessioni pur di mantenere l'unità. Il decentramento, sanità in testa, potrebbe essere uno dei fattori favorevoli alla diffusione del virus ma resta il fatto che lo tsunami ha investito i reparti ospedalieri spagnoli con rapidità e violenza che, a oggi, non hanno uguali. Quello che è successo nei presidi più critici in Italia, dal Sacco di Milano al Giovanni XXIII di Bergamo agli Spedali civili di Brescia, ha subito in Spagna un effetto moltiplicatore. L'infermiera di Madrid – questo va sottolineato – non agisce in modo autonomo. I suoi interventi su persone che stanno morendo di una pessima morte sono determinati da disposizioni superiori. Si accelera un'agonia con il doppio obiettivo umanitario e utilitario. Di fatto, è un triage di guerra. Chi non ha esperienza di battaglia lo ha visto in tanti film: un ospedale da campo strapieno di feriti in combattimento e il personale sanitario insufficiente che deve decidere di assistere chi ha speranza. I casi più gravi sono lasciati al loro destino, e a una fiala in più di morfina. È pensabile che in Italia sia successo qualcosa di simile? La consultazione di RdC con alcuni medici offre una risposta negativa. Le linee guida indicano che il malato irrecuperabile deve continuare a essere sedato con dosi terapeutiche e non letali. Diversamente, è omicidio. La prassi consente solo di sospendere le cure che, nella circostanza, sono ormai inutili. Dalla teoria alla pratica c'è uno spazio-tempo dove possono accadere mille cose, come all'infermiera spagnola. Nel delirio dell'emergenza ci sono comportamenti che è impossibile vagliare caso per caso. Ci sono gesti e decisioni istantanee che, nella stessa persona – medico, infermiere, operatore sanitario -, possono essere al di qua o al di là della linea per una frazione di millimetro. Giuridicamente la situazione è chiara, e identica in Italia come in Spagna. Trasportata in un eventuale processo, lo è molto meno o per nulla. E quale processo poi? Un'eventuale dose non terapeutica di antidolorifici va dimostrata con un'autopsia. Con oltre diecimila morti in pochissimi giorni, con le file di camion dell'esercito carichi di bare da portare all'incinerazione, l'ipotesi è così poco realistica che il procuratore capo di Milano, Francesco Greco, il 30 marzo ha annunciato di avere sospeso le autopsie a eccezione dei “casi indispensabili”, per non creare situazioni di rischio al personale sanitario. Per completare questo post del 2 aprile allegro come un 2 novembre, manca solo la periodica botta di sdegno per il modo di trattare il dato quotidiano sui decessi. Da quando si è deciso di usare termini da guida alpina per annunciare che siamo oltre il picco e sul plateau, c'è un trattamento ancora più abbreviato per coloro che ogni giorno finiscono in fondo al crepaccio. Sì, ci dispiace e lo diciamo. Ma in non più di tre secondi. Il resto è tutto un trionfo di nuovi ospedali aperti in una settimana, di miliardi di mascherine consegnate, di ventilatori come se piovesse.

La lotteria del respiratore. Negli ospedali americani si usa anche la monetina per scegliere chi intubare. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Elena Dusi su La Repubblica.it Il Covid-19 mette i medici nella condizione di dover decidere a chi assegnare i ventilatori polmonari che non bastano per tutti. La valutazione tiene conto dell'età e dello stato di salute. Ma a parità di punteggio a decidere è la sorte. Un'inchiesta della rivista Annals of Internal Medicine rivela quali sono i criteri di fronte allo scenario più nero. Testa o croce. In alcuni ospedali americani un sorteggio ha deciso chi poteva essere intubato e chi – per mancanza di risorse – andava invece lasciato morire di coronavirus. La rivista Annals of Internal Medicine racconta, tramite un questionario inviato a un campione di ospedali americani, la drammatica scelta cui i medici si sono trovati di fronte nella fase peggiore dell’epidemia. Mentre in Italia l’unico criterio applicato è stata l’aspettativa di vita, gli Usa hanno fatto anche ricorso alla lotteria. Da noi sono stati i medici del Giovanni XXIII di Bergamo ad affidare il loro sfogo al New England Journal of Medicine, il 21 marzo: “I letti di terapia intensiva vengono riservati ai malati che hanno chance di sopravvivere. I pazienti più anziani non vengono rianimati”. Mario Riccio, primario di Casalmaggiore (Cremona), aveva raccontato a Repubblica che nella fase peggiore, a marzo, un paziente su tre non era stato intubato per mancanza di ventilatori polmonari. Ma di fronte alla scelta, i medici avevano almeno un documento su cui basarsi: le linee guida della Società di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva. Che prevedono: “L’allocazione in un contesto di grave carenza delle risorse sanitarie deve puntare a garantire i trattamenti di carattere intensivo ai pazienti con maggiori possibilità di successo terapeutico: si tratta dunque di privilegiare la maggior speranza di vita”. Non sempre è così negli Stati Uniti. Per la loro inchiesta, gli Annals of Internal Medicine hanno contattato 67 ospedali in tutto il paese. Fra loro, 37 non hanno delle linee guida che prevedano l’eventualità di avere più pazienti che posti letto. Non sappiamo nulla su come effettuino le loro scelte. Altri 7 hanno delle linee guida ma non vogliono rendere pubbliche. Fra le 26 strutture sanitarie che accettano di discutere dei loro criteri, 25 misurano il beneficio che può trarre il paziente dalla ventilazione assistita. Scelgono cioè di intubare chi ha maggiori chance di sopravvivenza. Due semplicemente tagliano fuori chi supera una certa soglia di età. Dieci ospedali, messi di fronte alla scelta fra due pazienti in condizioni di salute simili, dichiarano di scegliere di intubare un operatore sanitario, o chi svolge un lavoro essenziale agli altri. Alcuni ospedali però si sono trovati lo stesso nell’incapacità di scegliere, di fronte a due malati che avevano lo stesso punteggio in termini di età, condizione dei vari organi e probabilità di sopravvivenza. In questa situazione, 6 ospedali (il 23%) hanno intubato chi si era presentato prima al pronto soccorso e 9 (il 36%) hanno fatto ricorso al sorteggio. “Quando i pazienti non possono essere chiaramente classificati – si legge nelle raccomandazioni, sintetizzate dagli Annals of Internal Medicine – in base alla loro possibilità di sopravvivenza, raccomandiamo che le risorse scarse siano assegnate in base al caso”. Meglio la lotteria, è la riflessione fatta dai comitati etici, rispetto a criteri che potrebbero ricadere nelle accuse di razzismo. Anche di fronte a un giudice. Per questo 17 ospedali escludono espressamente che nella scelta debbano rientrare caratteristiche come le risorse economiche di un individuo, la presenza di un’assicurazione, l’etnia, il ceto sociale, la cittadinanza o l’orientamento sessuale. A compiere la scelta è raramente un’unica persona. Più spesso la valutazione è affidata a un comitato che comprende fino a 8 figure professionali diverse. Sempre vi è presente un medico. Spesso viene chiesto il parere di infermieri o membri del comitato etico. In 8 casi del comitato fa parte anche il cappellano dell’ospedale, in 2 un membro della comunità locale. Tredici strutture sanitarie prevedono che alla scelta non partecipino i medici che hanno direttamente in cura il paziente.  

Pietro Gorlani per il “Corriere della Sera” il 4 giugno 2020. «Sono ancora vivo grazie alla bombola d'ossigeno che un' infermiera ha tolto al mio vicino di letto 80enne per darla a me. Ricordo quell' anziano ogni giorno nelle mie preghiere». Mario Sberna, ex deputato eletto nel 2013 con Scelta Civica, famoso perché andava in Parlamento in sandali - simbolo del suo francescanesimo - piange parlando della notte del 16 marzo nella lavanderia dell' ospedale Civile di Brescia, adibita a reparto Covid. Ha vissuto sulla sua pelle la drammatica scelta che sono stati costretti a fare infermieri e medici: togliere l' ossigeno ai pazienti più anziani e con scarse possibilità di sopravvivenza per salvare i malati più giovani. «Erano le quattro del mattino - racconta Sberna, padre di cinque figlie e presidente dell' associazione nazionale famiglie numerose - non dormivo perché avevo freddo, mi sentivo i polmoni bruciare e avevo una fame d' aria che non le dico. Davanti a me c' era un anziano rannicchiato su un fianco, in silenzio da ore. Quando mi hanno dato il suo ossigeno mi sono sentito rinascere. Ma non riuscivo a distogliere gli occhi da lui. Respirava ancora. Poi l' hanno portato via in ambulanza». Mario vorrebbe sapere come si chiamava, contattare i famigliari. E per questo lancia un appello. Quasi certamente l' uomo che indirettamente gli ha salvato la vita non c' è più. E un pensiero perturbante tarla i sonni di Sberna: «Non avrei nemmeno la possibilità di dimostrargli la mia gratitudine perché la sua non è stata una scelta volontaria. Non gli hanno chiesto se voleva morire. Gli hanno tolto la maschera e basta». Dopo aver deglutito la sua commozione, papà Mario rimette i panni del «francescano» che ha sempre lottato contro le ingiustizie, negli ospedali delle diocesi nel Sud del mondo e a Montecitorio: «Mi resta una gran rabbia perché in una regione che si fregia d'avere un sistema sanitario d' eccellenza non c' erano bombole d' ossigeno a sufficienza per salvare vite umane. In quello scantinato adibito a reparto eravamo in trenta, tutti con una fame incredibile d' ossigeno. Ma c' erano solo tre bombole. Non c' erano coperte, né cibo: gli infermieri ci davano un pacchetto di crackers e uno yogurt. E c' era un solo wc per tutti quei malati, tanti dei quali, come me, con vomito e dissenteria. Non hanno aggiunto nemmeno un bagno chimico». Il 20 marzo, dopo due giorni in reparto Sberna è stato dimesso con una ricetta per una bombola d' ossigeno da ritirare in farmacia «impossibile da trovare». Ad oggi i suoi famigliari non sono ancora stati sottoposti ad alcun test per testare la positività al virus: «Quando in tv ho visto l' assessore Gallera leggere il numero di contagiati e deceduti come fosse la cifra degli ingressi a Gardaland mi sono chiesto chi pagherà l' incapacità a gestire questa emergenza».

Coronavirus, parlamentare portoghese: “In Italia decidono chi vive e chi muore”. Le Iene News il 20 marzo 2020. Ricardo Baptista Leite, deputato portoghese, dice in Parlamento che i medici italiani hanno un protocollo per scegliere chi deve vivere e chi morire. Falso: si tratta invece del triage. “In Italia una donna diabetica con tre figli deve essere lasciata morire per permettere a un uomo di 50 anni con due figli di vivere. Il Portogallo non deve diventare un’altra Italia”. Sono le parole pronunciate in Parlamento da Ricardo Baptista Leite, deputato portoghese del partito Psd, che riferiva in aula sull’evolversi dell’emergenza coronavirus nel Paese, che ha dichiarato lo stato d’emergenza e dove al momento si registrano 642 contagiati e due morti. Il deputato, un medico, parlando della situazione italiana ha affermato: “Arrivano tutti i giorni report drammatici dai miei colleghi medici italiani: sono arrivati al punto di pubblicare linee guide per decidere come fare per scegliere chi vive e chi muore, perché l’accesso alla terapia intensiva non basta”. E cita due passaggi di un presunto protocollo tutto italiano: "Diventerà necessario fissare un limite di età per l’accesso alla terapia intensiva. Oltre l’età, la presenza di altre malattie deve essere accertata. Un trattamento relativamente breve in persone più sane, può durare molto di più e consumare più risorse nei malati più vecchi e più fragili”. Dichiarazioni scioccanti, ma fuorvianti. Era stato lo stesso Giulio Gallera, assessore alla Salute in Lombardia, regione che in questo momento è quella più colpita dal coronavirus, a negare queste voci: "Smentisco che venga fatto triage su chi curare e chi no. Può accadere che in alcuni ospedali non ci siano posti, ma lì interviene il sistema regionale, che ancora regge, ma sempre con maggior fatica". Lo aveva ribadito, a Iene.it, anche Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che da settimane cura decine di pazienti affetti dal virus: “Stiamo curando tutti, senza distinzione, in terapia intensiva abbiamo una donna di 90anni... Se ho posto libero, chi è critico si cura comunque”. Si applica semplicemente il cosiddetto “triage”, di cui l'American College of Surgeons dà una definizione: “attribuire un ordine di trattamento dei pazienti sulla base delle loro necessità di cura e delle risorse disponibili”. Sul dibattito è intervenuto anche il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, Filippo Anelli: “Il codice di deontologia medica parla chiaro: per noi tutti i pazienti sono uguali e vanno curati senza discriminazioni”. Un allarme era stato sicuramente lanciato da alcuni degli ospedali più in difficoltà, a Bergamo e a Cremona, anche considerando i numeri: in questo momento l’Italia può contare su circa 5000 posti in terapia intensiva, il 90% dei quali però, come ha spiegato il vice ministro della salute Pierpaolo Sileri, “già occupati”. Ma che di semplice triage si parli e non di un nuovo drammatico protocollo ideato dai nostri medici, lo conferma anche l’Accademia svizzera delle scienze mediche, in un suo documento: “In tempi di coronavirus hanno priorità assoluta i pazienti la cui prognosi è buona con trattamento intensivo, ma sfavorevole senza di esso". Gli altri pazienti, precisa ancora il documento dei medici svizzeri, cioè quelli con prognosi sfavorevole che in circostanze normali sarebbero trattati in terapia intensiva, vengono trattati al di fuori del reparto.  Sul fronte della lotta al coronavirus, gli ultimi numeri italiani sono questi: i positivi sono 28.710, 2978 i morti e 4025 i pazienti guariti. La Lombardia è sicuramente la regione più colpita, con 12.200 contagiati e 1959 morti. E proprio per la Lombardia e in particolare per l’Ospedale di Bergamo, Le Iene si sono mosse unendosi alla raccolta fondi di Cesvi per sostenere l’ospedale Papa Giovanni XXIII e tutti quelli che combattono contro il virus

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 20 marzo 2020. Oggi si svolge la cerimonia del taglio del nastro, con le autorità della regione Lombardia, ma non c'è proprio niente da festeggiare. La provincia di Cremona è falcidiata dal Covid-19, dall'inizio dell'epidemia le vittime sono 199, e senza l'ospedale da campo realizzato nel parcheggio della struttura principale qui non saprebbero più dove mettere i pazienti. In una settimana i medici hanno trasformato un ospedale generalista in un nosocomio specializzato in coronavirus, i turni di lavoro sono saltati e si vive in corsia. Un grande aiuto è arrivato dalla comunità evangelica americana Samaritan's Purse, che il 17 marzo ha spedito con un volo speciale il materiale per costruire quindici tende con sessanta posti letto, di cui otto in terapia intensiva, dove lavoreranno sessanta tra medici e operatori sanitari. «Questo ospedale da campo ci darà sollievo per qualche tempo», si augura Angelo Pan, direttore dell'unità Malattie infettive.

Dottore, voi siete un epicentro del contagio. Tra martedì e mercoledì sono morte ventotto persone.

«Lo scenario è drammatico, lavoriamo così tanto che non riusciamo nemmeno a tenerci aggiornati sui numeri. Ma la misura della gravità me la dà il via vai di ambulanze, il suono delle sirene è incessante. Abbiamo tra i cinquanta e i sessanta accessi al giorno, l'ospedale è quasi saturo. Abbiamo riconvertito tutto per combattere il coronavirus. È rimasto solo il reparto di oncologia e qualche letto in cardiologia, i pazienti ricoverati con patologie diverse dal Covid-19 sono solo una sessantina».

Una rivoluzione anche per voi.

«Per i medici ci sono guardie aggiuntive, ma l'aspetto di maggiore tensione non è quello dei pesanti carichi di lavoro. Dobbiamo assistere pazienti complicati, con insufficienza respiratoria e nemmeno noi siamo abituati a gestirli. Stiamo imparando per forza, abbiamo dovuto farlo. Lavoriamo in collaborazione con gli pneumologi e i colleghi della terapia intensiva. Nella nostra unità si trovano sette persone in ventilazione non invasiva e otto, dieci malati intubati. In tutto l'ospedale gli intubati sono trentasette e settantacinque i pazienti sottoposti a ventilazione. Abbiamo dovuto reperire i macchinari, non ne avevamo così tanti. Adesso disponiamo di materiale a sufficienza, però la situazione è difficile. Molto difficile».

Cosa la preoccupa di più, dottore?

«Il problema è che non so se siamo arrivati all'apice del contagio nella provincia. Anzi, dai dati che ho visto non credo proprio lo si sia raggiunto. E la questione critica è che, se anche fossimo al punto massimo della diffusione dell'infezione o in discesa, con sessanta accessi al giorno dobbiamo trovare i letti. Che anche con l'ospedale da campo non bastano. Così ci stiamo organizzando per trasferire pazienti in varie strutture private della città, mentre altri andranno in ospedali fuori Cremona. La rete del sistema regionale funzione, i malati però sono tantissimi».

Un suo collega rianimatore di Bergamo ha raccontato che in queste condizioni siete obbligati anche a scelte dolorose su chi intubare e chi no.

«Le scelte ahimè si fanno sempre nella vita e questo è un problema che si affronta anche nella fase non Convid. Se arriva una persona di novant'anni con una grave insufficienza respiratoria non è detto che intubarla sia la soluzione più adatta, potrei anzi farle del male. Nel momento che stiamo vivendo, purtroppo, la scelta è obbligata da una situazione molto complessa. Siamo alla saturazione».

Quanti anni hanno i malati che arrivano da voi?

«Soprattutto pazienti dai 45 anni in su, i giovani sono una piccola parte e per giovani intendo persone attorno ai cinquant'anni. È capitato qualche ragazzo, sono casi molto rari ma ci sono anche quelli, non è escluso nessuno. Ieri è stato pubblicato lo studio di un gruppo cinese in cui si registra il decesso di un neonato di dieci mesi. Fino a trent'anni di età rischi sono marginali, sotto venti prossimi allo zero, sopra cinquanta invece aumentano progressivamente e oltre gli ottanta molto elevati.

Per questo i nonni in particolare devono restare a casa e non andare a fare la spesa. Tutti dobbiamo cancellare temporaneamente la nostra vita sociale: ho un collega di Brescia intubato e altri due in terapia intensiva, tutti tra i 60 e i 65 anni. Non è un'infezione che riguarda solo gli anziani, è che loro hanno una prognosi sfavorevole. La gente deve capire che questo è un evento mai visto precedenza da chi vive oggi, varrebbe la pena rispolverare i ricordi dell'influenza Spagnola dei nonni».

Le persone in terapia intensiva sono sole, e questo è un altro dramma.

«Cerchiamo di telefonare a casa per spiegare la situazione e ciò rende tutto più difficile, la solitudine di questa persone è una profonda angoscia. Il personale si sta spendendo in maniera fantastica, si cerca di sopperire al calore della famiglia. Con tutto quello che abbiamo fa fare è poco, ma è meglio di niente». 

 «Salvare le persone che hanno più speranza di vita è la regola». Valentina Stella su Il Dubbio il 21 marzo 2020. Gilberto Corbellini, ordinario di storia della medicina e docente di bioetica alla Sapienza: «Scelte del genere vengono fatte ogni giorno in modo implicito». Il covid- 19 sta mettendo a dura prova non solo il nostro sistema sanitario ma anche le nostre libertà. Ne parliamo con Gilberto Corbellini, ordinario di Storia della Medicina e docente di Bioetica alla Sapienza di Roma e dirigente del Cnr, ora in libreria con “Nel paese della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà”, edito da Feltrinelli.

Se non ci fossero posti in terapia intensiva per tutti, quale criterio si dovrebbe adottare?

«La Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti) ha pubblicato qualche settimana fa una guida rivolta ai primari che gestiscono l’emergenza e che si possono trovare a dover fare scelte che limitano ai pazienti l’accesso al trattamento intensivo in condizioni di scarsità di risorse. Il documento tiene abbastanza conto del dibattito bioetico internazionale, ma ancora una volta declinato in un’ottica paternalistica e medico- centrica. Tipica di questo Paese. Non si accenna da nessuna parte all’autonomia decisionale del paziente o al consenso informato, che sono i pilastri etici e legali delle decisioni mediche quando la persona interessata è cosciente. La questione più dibattuta è stata che il criterio eticamente migliore da preferire non sarebbe più quello che chi arriva primo all’unità di terapia intensiva viene trattato per primo, sarebbe la “maggior speranza di vita”, in base ad età e all’eventuale presenza di altre patologie».

Una discriminazione?

«Tale criterio, percepito come se gli anziani e i più malati perdessero diritti di fronte a persone più giovani e sane, suscita reazioni emotive e in parte etiche, per cui è necessario che le procedure decisionali siano fondate sull’appropriatezza degli interventi in funzione del singolo caso clinico, e siano attentamente monitorate e registrate. Inoltre, vi deve essere massima trasparenza e coinvolgimento del contesto sociale: le decisioni di razionare i trattamenti scarsi disponibili sono la regola in medicina e sono presi ogni giorno in modi impliciti nei reparti di terapia intensiva dai medici. Ebbene, i criteri vanno resi espliciti. Perché non si tratta di compiere scelte sulla base di un valore assegnato alla vita di diverse persone, ma di riservare risorse, che potrebbero essere scarsissime, a chi ha più probabilità di sopravvivenza. Solo in questo modo gli investimenti sociali nella realizzazione di una prestazione sanitaria producono il massimo di benefici per il maggior numero di persone».

La pandemia è usata per introdurre leggi più restrittive.

«È sempre stato così. Si può persino dire che la moderna burocrazia nasceva nei secoli dopo la Grande Peste del Quattrocento per esigenza di raccogliere ed elaborare dati utili allo scopo di evitare qualcuna delle continue ondate di pestilenze. Tra fine ’ 700 e seconda metà ’ 800 in Europa gli Stati prendevano forma in senso liberale o conservatore anche sulla base del rischio di contagio o delle credenze mediche relative alla natura del contagio. La psicologa sociale Michele Gelfand ha pubblicato degli studi dove spiega che le società di fronte a minacce esterne tendono a evolvere verso la rigidità, nel senso che producono più leggi che interferiscono o limitano le scelte delle persone, generando un ordine sovrimposto. Allo stesso tempo queste società sono meno tolleranti. Obiettivamente, come dimostrano i casi di Cina, Singapore, rispetto all’emergenza attuale sono più efficaci delle società aperte o “liberal”; le quali però inseguono in questi frangenti le società rigide e rischiano di perdere di vista i valori fondamentali del mondo liberale, da cui è scaturito quello che abbiamo apprezzato fino a tre mesi fa».

Ravvede panico nell’approcciare all’emergenza sanitaria e nella caccia all’untore?

«L’isterismo o la paranoia generale non mi stupiscono. Tutti abbiamo paura di morire, temiamo per i nostri cari, e quindi vogliamo che si metta in atto qualunque genere di misura per eliminare la minaccia. Abbiamo paura delle epidemie perché sono molto recenti rispetto al nostro orizzonte cognitivo plasmato dall’evoluzione biologica. Nel cervello funziona un’euristica del contagio che serviva ai nostri antenati cacciatori- raccoglitori per evitare contatti con oggetti contaminati, pur non sapendo nulla della natura della contaminazione. Quando siamo transitati verso società molto numerose, sono entrate in gioco le epidemie e quell’euristica è diventata un rilevatore di allarme costantemente stimolato e che scatena paura e ricerca di potenziali untori. I capri espiatori rientrano nelle dinamiche di ricerca di qualche colpevole/ causa quando la situazione minacciosa appare senza controllo. Paradossalmente in passato, quando esistevano pochi dati e spiegazioni, le risposte erano più standardizzate».

Oggi invece?

«Viviamo in società che premiano atteggiamenti di scetticismo o di sottovalutazione del rischio: per cui le persone possono trasgredire le raccomandazioni sanitarie. Qualcosa di simile si può dire sui decisori politici e i loro consulenti tecnici, che in passato cercavano comunque di salvaguardare le conquiste economiche o civili di una società. Nel caso della pandemia in corso, curiosamente no. Ogni intervento si è concentrato sul virus e sull’aspetto sanitario e, pur in assenza di tanti dati affidabili, si prendono decisioni che possono avere ricadute che andranno gravemente al di là di una pandemia, che non si sa quando finirà».

Anche in questa occasione, sono nate teorie del complotto rispetto alla nascita e diffusione del virus.

«Apparentemente ne sono circolate meno di quelle che mi aspettavo. Cento o duecento anni fa saremmo stati inondati. È vero che io non uso i social, ma navigo molto nell’universo di google. Forse certe discussioni segregano nelle echo chambers, cioè i complottisti si chiudono all’interno di riserve dove si parlano tra loro e le ipotesi farneticanti circolano ma si vedono di meno fuori dai social»

L’anestesista: «Pazienti stabili in mezz’ora andranno in insufficienza respiratoria». Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Massimiliano Nerozzi. È un diario dal fronte (del coronavirus), non solo una lettera con consigli ai colleghi, torinesi e di tutta Italia: «Se nei vostri ospedali succederà quello che sta capitando qui, gli accessi in pronto soccorso saranno continui. Avrete pazienti stabili che nel giro di mezz’ora andranno in insufficienza respiratoria e avranno necessità di essere intubati. Tutto si muoverà alla velocità della luce, e voi dovrete essere lucidi e previdenti».

Per lui, funziona così da tempo: «Sono un medico anestesista-rianimatore che lavora in un ospedale lombardo, non molto distante dall’epicentro del focolaio epidemico — scrive in una community di medici — e da settimane lavoro ininterrottamente, senza il tempo di capire cosa stia succedendo. Ho perso il conto dei pazienti visitati, delle intubazioni eseguite, delle chiamate alle quali ho risposto. Nel frattempo, l’ospedale si è trasformato, sono state create pareti, organizzati reparti in una notte. Tutto si è trasformato, in modo quasi surreale». Un racconto con la passione per il mestiere e l’affetto per gli altri: «In questa maxi-emergenza ci sono dentro fino al collo, insieme ai miei colleghi, agli instancabili infermieri, a tutto il personale dell’ospedale che sta facendo il possibile per affrontare questa epidemia. Siamo importanti tutti, anche chi sta in cucina e ci regala un sorriso mettendoci nel vassoio un pezzetto di torta». Non è un trattato scientifico, «nulla di particolarmente raffinato, ma sono considerazioni di uno che sta toccando con mano questa emergenza. Spero possano tornare utili a chi dovesse trovarsi nella situazione che sto vivendo». C’è anche quello che ripetono tv e giornali: «Si parla di risolvere l’emergenza aumentando i posti in terapia intensiva. Come se fosse facile, come se si trattasse, semplicemente, di aggiungere letti». Non è così: «Ogni paziente necessita di risorse difficili non solo da reperire, ma anche da organizzare e da coordinare». Il guaio resta un altro: «Nonostante la possibilità di usare le macchine per anestesia delle sale operatorie, avrete comunque pochi posti. Conservateli per chi potrebbe avere maggiori possibilità di farcela. Arriveranno alla porta della terapia intensiva novantenni e quarantenni, pazienti oncologici e senza comorbilità. Non potrete assistere tutti, dovrete scegliere». E qui, la pratica è diversa dalla teoria: «Tutti i diagrammi decisionali, su carta, non danno idea di quello che significa scegliere tra chi soccorrere e chi no». Decisioni che andranno comunicate: «In una situazione di maxi-emergenza, non è facile immaginare di trovare il modo di spiegare alla famiglia che il caro nonno non è stato ricoverato in terapia intensiva per far posto a un paziente più giovane che ha più possibilità di cavarsela e di farlo occupando il letto per minor tempo». Pausa: «Non è facile immaginare di trovare il tempo di farlo, con quel maledetto telefono che squilla in continuazione e gli allarmi dei pazienti che non smettono mai di suonare». È più di un’emergenza: «Mi sembra molto simile a quello che si vive in guerra. L’obiettivo è quello di aumentare il numero dei sopravvissuti, perché salvarli tutti non si può». Le decisioni andranno anticipate: «Se avete un trentenne in pronto soccorso con sospetta covid-19, immaginatelo subito come potenziale candidato alla terapia intensiva. Potrebbe tornare a casa in isolamento o aver bisogno di ventilazione meccanica, voi questo non lo sapete, ma potete immaginare diversi scenari. E, se siete rianimatori come me, lo scenario che immaginerete sarà sempre quello peggiore. Quindi, attivatevi». Bisognerà fare scelte: «Non esiste ci sia chi passa per il cattivo, che limita gli accessi in terapia intensiva, e chi fa il buono e intuba chi ne ha bisogno, senza considerare il contesto. A me è successo di passare per carogna. Ho preso decisioni difficili, molto, ma in scienza e coscienza. E mi tremano le mani al solo pensarci».

Filippo Facci: come si crepa con il coronavirus addosso. Filippo Facci 21 marzo 2020 su Libero Quotidiano.  L'altro ieri mattina è morto un paziente aero-trasportato: questo per confermare che gli infetti di Coronavirus (con Coronavirus) è opportuno non trasportarli se non per tratti relativamente brevi, meglio se in ambulanza, magari tra regioni confinanti. E questo per confermare che il miracolo a Milano ossia il capiente ospedale in Fiera - si farà magari con tempi cinesi, sì, ma l' errore sarebbe credere che possa derivarne lo stesso pendolarismo sanitario di cui la sanità lombarda è già epicentro da anni: non sarà possibile, ed è la ragione per cui l' esperienza meneghina dovrebbe essere imitata creando altri grandi centri nella Capitale e in una città del Sud, per esempio Bari. Dicono che ci stanno lavorando. Per ora, oltretutto, va al contrario: i pochi trasporti aerei sono stati da Nord a Sud, perché è il Nord a scoppiare; l' altro ieri, un paziente è stato portato da Bergamo a Bari ma è morto durante il tragitto; era un caso grave e in quel momento a Bergamo non c' era più posto, quindi, spacciato per spacciato, hanno provato un complicato e speranzoso trasporto. Non è andata male specificamente per via del trasporto: ma il trasporto certo non aiuta. Organizzare lo spostamento di un infettivo non è cosa semplice, sottrae personale, serve ampia autonomia di ossigeno e va comunque ricordato che la terapia intensiva non è una terapia: nessuno guarisce grazie a essa, ma permette di guadagnare tempo quando c' è da organizzare altri generi di difese. La terapia intensiva mantiene semplicemente vivi ma non è una condizione ideale, posto che la ventilazione meccanica qualche danno lo comporta sempre. Non c' è trasferimento, insomma, che non rappresenti uno stress complessivo, in elicottero o anche in ambulanza, dove anche solo una frenata o una buca possono far danni. Ambulanza, aereo, o elicottero che sia, il Coronavirus in ogni caso richiede una completa disinfezione del mezzo e limita quindi il numero dei mezzi disponibili, e fa perdere più tempo. Una persona che vive grazie a un respiratore è come un subacqueo che faccia altrettanto in profondità, con la differenza che un subacqueo in genere è in forma, e, in ogni caso, se le cose dovessero compromettersi, il risalire troppo in fretta gli sarà fatale.

Protocolli rigidi - Comunque esistono delle regole, dei protocolli che cambiano poco uno con l' altro. Le ragioni per cui si può decidere di trasportare altrove un paziente alla fine sono tre: perché un ospedale non ha il settore di competenza, perché servono esami non eseguibili nell' ospedale di ricovero o, appunto, per mancanza di posti letto in Terapia intensiva. In quest' ultimo caso l' assistenza che il paziente deve ricevere durante il trasporto deve essere uguale o superiore a quella che riceveva o avrebbe ricevuto in reparto. Il trasporto di una persona con Coronavirus deve essere fatto in modo da non contaminare i medici, e questo impone misure che rendono ancora più difficile la gestione del paziente: è la parte peggiore, la più difficile. Se il trasporto parte dal Pronto Soccorso, è già un casino, perché il paziente è praticamente uno sconosciuto. In linea di massima durante il trasferimento dev' esserci sempre un anestesista-rianimatore e un infermiere di cosiddetta area critica. L' anestesista, però, tende ad accompagnare solo i pazienti che ha in cura in Terapia intensiva, o altri di cui ritenga di doversi occupare: non è un trasportatore dei pazienti che devono essere trasferiti, ha altro da fare, soprattutto in questi giorni.

Ma vediamo quanto è complicato. Cominciamo dall' ambulanza, che non è una semplice ambulanza ma un Centro mobile di rianimazione configurato praticamente come il reparto da cui il paziente proviene, sempre che provenga da un reparto, e non sia cioè un poveretto per il quale non c' è stato un letto disponibile. E comunque c' è da attrezzare un sacco di cose. C' è da intubare preventivamente, mettere una sonda naso-gastrica, due aghi venosi di calibro adeguato con relativo rubinetto a tre vie e prolunga, c' è da fissare drenaggi, immobilizzare eventuali punti di frattura, spesso mettere un catetere vescicale, se necessario somministrare un antidolorifico o sedare il paziente, mettere un saturimetro, spesso un collare cervicale, e fosse tutto qui. Bisogna verificare che funzionino i monitor, ovviamente la ventilazione, le pompe di infusione: e tutti gli strumenti vanno verificati prima di connetterli. C' è un sacco di altra roba che bisogna assolutamente portarsi dietro: un aspiratore a batteria per secrezioni faringo-bronchiali, una borsa con materiali vari da intubazione (laringoscopio, set di lame, tubi) più un pallone autoespandibile (se si rompesse il ventilatore polmonare) più ancora un set di mascherine, infusioni, farmaci di emergenza.

Ossigeno prezioso - Poi un dettaglio non da poco: l' ossigeno. Occorre calcolare quanto ne serve e poi, almeno secondo i protocolli, moltiplicare per due. E le bombole pesano, sono ingombranti. Tutti i tubi e tubetti e sonde e sondini e cannule vanno separati per prevenire pericolosi aggrovigliamenti. Tutto questo in ambulanza, immaginate in elicottero.

Il quale elicottero è un mezzo più veloce e in teoria meno traumatico: naturalmente servono anche qui l' anestesista-rianimatore e l' infermiere dedicato, ma anche qui i rapporti costi/benefici e rischi/benefici vanno calcolati con oculatezza. È un mezzo più veloce, ma la «eliambulanza», come la chiamano, va presa in considerazione tenendo conto del tempo per ottenerla (telefonate, fattibilità, volo, trasferimento dell' equipe, barellamento, ri-trasferimento alla piazzola, rimessa in moto, volo sanitario, trasferimento dalla piazzola all' ospedale di destinazione) e questo infine con un' ambulanza, subito disponibile per prendere il paziente. Il quale, in elicottero, dev' essere ben immobilizzato, tenuto in temperatura (c' è l' eventuale termoculla). Soprattutto, organizzare tutto questo, e in fretta, non è semplice. Anche in campo ospedaliero e militare esiste una burocrazia, anzi, è spesso imprescindibile. Immaginate di dover compilare tutti i documenti, compreso quello sul fabbisogno complessivo di ossigeno. Immaginate di essere umani, e di poter sbagliare in situazioni in cui la velocità è tutto. Sul tema del trasporto dei pazienti critici naturalmente troverete un sacco di studi che comprovano qualsiasi cosa: sia che in media si alza il tasso di mortalità dei pazienti sia il contrario. Ma in genere si trasferisce in elicottero un caso disperato o senza possibilità di ricovero, non un cretino che nei giorni del contagio ha preso il treno per tornare dalla mamma. Ecco perché i trasporti cosiddetti inter-ospedalieri sono eccezione e non regola, e tantopiù con pazienti altamente infettivi. Senza contare che usare un elicottero, o anche solo un' ambulanza attrezzata, potrebbe significare toglierla a qualcun altro.

La virologa Gismondo: "Ecco cosa accade in rianimazione". La responsabile del laboratorio del Sacco: "Questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati". Ma precisa: "Non voglio sminuirne la gravità". Francesca Bernasconi, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. "Non c'è solo il Covid-19". È questo il titolo che introduce i pensieri della virologa, responsabile del laboratorio dell'ospedale Sacco di Milano, Maria Rita Gismondo, che riflette sulla pandemia da coronavirus, con un articolo apparso sulle colonne del Fatto Quotidiano. Lo scorso 20 febbraio, l'Italia è piombata nell'incubo coronavirus: quella sera, il pazente 1, è risultato positivo al Covid-19. E, da quel momento, scrive Gismondo "è come se, approfittando del sonno di Ulisse, avessimo aperto l' otre regalatagli da Eolo. Giorno dopo giorno è scomparso tutto: la fame nel mondo, i bambini siriani, attentati, infarti, ictus, femminicidi". Tutto, secondo la virologa sarebbe stato trasformato nella malattia causata dal Covd-19. "Se hai il mal di testa, pensi al tampone. Se incontri qualcuno, pensi che ti stia contagiando", scrive. Poi, la Gismondo riferisce di un incontro con un rianimatore, "di quelli che si sporcano le mani giorno e notte infilando tubi in pazienti rantolanti", che le avrebbe confermato la numerosa presenza di pazienti in arrivo nelle sale di rianimazione: "E ne muoiono", ha detto alla virologa, specificando che si tratta soprattutto di persone anziane, con altre patologie più gravi. Gli altri, invece, solitamente guariscono. "Il vero problema di queste polmoniti rispetto a quelle causate da altre complicanze- avrebbe sottolineato il rianimatore- è che i pazienti restano in rianimazione per settimane". Ma allora, riflette la virologa del Sacco, "la vera crisi è quella del sistema sanitario". E riferisce: "Prese le dovute cautele per contenere il contagio, questa è un'infezione che fa ammalare il 10% degli infettati e provoca la morte soprattutto come fattore “opportunista”, non come causa primaria". Una conclusione cui l'esperta è arrivata tramite l'osservazione di numeri e condizioni: "Nessun tentativo di sminuirne la gravità", quindi.

Mancano i farmaci in corsia: caccia a sedativi e antivirali. L'Aifa denuncia la carenza di medicinali anche nelle terapie intensive. Pronte "soluzioni emergenziali". Tiziana Paolocci, Venerdì 20/03/2020 su Il Giornale. È una corsa contro il tempo. Trovare i posti nelle terapie intensive, dirottare i pazienti affetti da coronavirus da un ospedale all'altro anche con l'ausilio dei velivoli dell'esercito e ora anche reperire i farmaci. Il grido d'allarme arriva dall'Aifa, l'Agenzia Italiana del Farmaco, che rilancia l'sos lanciato dalle strutture sanitarie e per risolvere il problema ha già avviato un'unità di crisi. «L'improvviso incremento della domanda per i farmaci utilizzati nelle terapie ospedaliere per le persone ricoverate a causa dell'epidemia ha generato delle carenze», scrive in una nota l'Agenzia che, oltre a rilasciare le usuali autorizzazioni all'importazione, sta definendo in collaborazione con le aziende, mediante il supporto costante di Assogenerici e Farmindustria, soluzioni eccezionali ed emergenziali. La carenza riguarda in primo luogo di miorilassanti, anestetici, oppioidi, sedativi e antiretrovirali, verso i quali si è registrato un aumento della domanda. «L'Agenzia - prosegue la nota - segue il problema raccordandosi costantemente con le Regioni e le Province autonome cui tutte le strutture territoriali sono invitate a rapportarsi per la valutazione e l'inoltro ad Aifa di segnali, dando priorità ai casi urgenti di irreperibilità per i quali siano già stati espletati tutti i passaggi previsti con gli aggiudicatari delle gare regionali. Anche Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, rilancia il problema. «La situazione è abbastanza sotto controllo perché abbiamo fatto sì che la nostra farmacia fosse in collegamento con la rete regionale e altre farmacie, ma il problema c'è, è corretto dire che c'è - spiega -. Abbiamo fatto un appello e parlato con le aziende farmaceutiche per chiedergli di venire incontro alle esigenze dei pazienti, perché abbiamo bisogno soprattutto che i farmaci sperimentali vengano approvvigionati». «Per quanto riguarda la sperimentazione dell'anti-artrite - aggIunge Vaia - abbiamo arruolato una decina di pazienti, ma per i primi risultati dobbiamo attendere ancora qualche altro giorno, speriamo tutti siano positivi». Ieri è partita anche nell'Istituto nazionale tumori Pascale di Napoli. Il Tocilizumab sembrerebbe essere un faro nel buio, perché avrebbe dato miglioramenti nel trattamento della polmonite che complica l'infezione da Covid 19. Una complicanza temuta che si spera possa essere resa meno grave grazie al farmaco, riducendo la letalità della malattia. Si lavorerà secondo il protocollo approvato in tempi record da Aifa e dal Comitato etico in sinergia tra ricercatori e istituzioni di tutta Italia. Il gruppo, coordinato dall'equipe di Franco Perrone, oncologo del Pascale come l'altro oncologo, Paolo Ascierto, si muoverà su una piattaforma informatica dove verranno raccolti i dati di tutti i pazienti degli ospedali italiani trattati con il farmaco. Sempre tramite la piattaforma partiranno due volte al giorno gli ordini per il farmaco, che la casa farmaceutica Roche, che lo produce, spedirà direttamente alle farmacie dei centri. Ci vorranno mediamente 24 ore per il trasporto. L'Aifa invece per ora è scettica sull'efficacia di Umifenovir, l'antivirale commercializzato in Russia (ma non autorizzato né in Europa né negli Stati Uniti) per la prevenzione e il trattamento delle infezioni da virus dell'Influenza A e B e sul suo utilizzo in sostituzione di altri trattamenti che in Italia sono stati messi a disposizione per i pazienti. «In relazione alla presenza di offerte web per farmaci non autorizzati o falsificati - ricorda ancora l'Aifa - si segnala che l'acquisto di medicinali con prescrizione attraverso internet non è consentito dalla normativa italiana, ma è soprattutto estremamente pericoloso per la salute».

Paolo Russo per “la Stampa” il 12 marzo 2020. «Fate presto». L' appello dei medici delle terapie intensive del sud Italia suona disperato. In questo momento il 95% dei già scarsi posti letto nei loro reparti sono occupati da altri pazienti e se la bomba biologica lanciata dai tanti sfuggiti dal nord nei giorni scorsi dovesse esplodere ogni regione meridionale non potrebbe gestire che poche decine di casi. Alcune come la Calabria, l' Abruzzo, la Basilicata e la Sardegna anche meno. I dati del Ministero della salute, divisi per singolo ospedale, li ha aggregati per noi a livello regionale il sindacato dei medici ospedalieri Anaao. Ebbene ad oggi in Italia abbiano 5.285 posti di terapia intensiva, dei quali in media il 60% già occupato da pazienti gravi. Quindi a disposizione per il Covid-19 ne restano 2.114. Se a questi si aggiungono i 2.642 che dovranno essere attivati per via del decreto che aumenta del 50% la dotazione nazionale si arriva a un totale di circa 4.700 posti di terapia intensiva riservati al virus. Mantenendo lo stesso rapporto attuale di un caso grave ogni dieci infetti vuol dire che il sistema nazionale sarà in grado di reggere fino a 45mila casi di coronavirus. Ma non al Sud. Dove a fronte di una dotazione nazionale di 8,72 letti ogni 100mila abitanti si è poco al di sopra del 7,5. «Ma molti di questi, circa un 40%, sono solo virtuali perché mancano personale e tecnologie per farli poi funzionare», denuncia Alessandro Vergallo, presidente dell' Aaroi, l' associazione degli anestesisti rianimatori che lavorano nelle trincee delle terapie intensive. «Qui in Calabria -gli fa eco il responsabile locale dell' associazione, Domenico Minniti- ci attribuiscono 7,79 letti per 100mila abitanti ma quelli reali sono appena 5, se è andata in default la Lombardia figuriamoci noi in caso esplodessero qui dei focolai. Abbiamo già individuato gli spazi dove collocare i nuovi letti, ma mancano monitor e ventilatori». In realtà la grande corsa all' acquisto da parte della Protezione civile è già iniziata. In Lombardia sono arrivati già 320 ventilatori, ma adesso la palla passa alla Consip, che per tutta Italia dovrà acquistare 5000 monitor, 1.800 ventilatori polmonari ad alta intensità e 3.200 per la terapia sub intensiva. «Per quanto si vada veloce non potremmo però averli prima di un mese», informano dalla Protezione Civile. Dove hanno già attivato il Cross, la Centrale remota per il soccorso sanitario, che quando un ospedale non ha più posti individua quello meno distante dove trasferite il paziente. Così dalla prima linea degli ospedali lombardi sono già stati trasferiti verso le regioni limitrofe 27 pazienti non Covid, che si preferisce spostare rispetto a quelli colpiti da coronavirus, che richiedono procedure più complesse. Ma se al sud i contagi dovessero moltiplicarsi gli spazi di manovra rimarrebbero scarsi, visto che il nord già annaspa.Certo, c' è il piano di potenziamento avviato da Speranza, «però non basta il letto per fare la terapia intensiva, servono anche locali adatti e personale qualificato», spiega Vergallo. «Stanze a pressione negativa che garantiscano il non inquinamento dell' aria all' esterno ne abbiamo poche e ci stiamo arrangiando recuperando letti che erano destinati ai ricoveri programmati meno urgenti. Ma dopo anni di tagli abbiamo poco personale e a spasso di anestesisti rianimatori non ce ne sono». Da qui l' appello al Ministro Speranza: «non assumete medici specialisti di altre specialità che faremmo fatica a formare in poco tempo. Meglio appoggiarsi agli specializzandi degli ultimi due anni, che già ne sanno di più». Concorda anche Carlo Palermo, segretario nazionale dell' Anaao. «Assumiamo i giovani, con bandi limitati a 10 giorni e selezioni rapide basate su colloqui con i Primari». Il sindacato boccia invece l' idea di richiamare in servizio i pensionati. «In quanto anziani sarebbero più esposti alla minaccia di contagio, con il rischio di diventare a loro volta volano dell' infezione». 5285 Sono i posti di terapia intensiva attualmente negli ospedali italiani. Molti, già occupati 2114 Per il Covid-19 restano 2114 posti. Ne verranno attivati altri 2.642: un totale di circa 4700 60% In media il 60% dei posti di terapia intensiva è già occupato da pazienti gravi Piazza Municipio vuota in pieno giorno a Napoli, con sullo sfondo uno dei monumenti simbolo della città, il Maschio Angioino. 

Liberoquotidiano.it l'8 marzo 2020. Uno scenario da "guerra batteriologica". Così fonti anonime degli ospedali lombardi, tra Bergamo e Cremona, si sfogano con il Fatto quotidiano, descrivendo la situazione nelle corsie della nuova "zona 1" lombarda, l'area a maggior rischio contagio da coronavirus. I posti letto in terapia intensiva e rianimazione scarseggiano, l'infezione cresce in maniera esponenziale. Il clima è quello "da collasso", e il timore è di essere obbligati tra qualche giorno a scegliere "chi intubare tra un 60enne e un 40enne che stanno morendo entrambi". La denuncia è chiara: "È una follia che accada perché non si ha l' attrezzatura per salvare la vita ai pazienti. Gli apparecchi per la ventilazione artificiale non sono sufficienti - racconta un operatore al Fatto -, se in reparto arrivano tre casi difficili e c'è un solo ventilatore si deve decidere chi salvare e in genere si sceglie il più giovane o quello che ha le maggiori possibilità di sopravvivere". A 18 giorni dalla scoperta del "paziente 1" a Codogno, denunciano, mancano ancora 400 tra anestesisti e rianimatori. Le parole chiave che girano al di fuori dei circuiti ufficiali sono "disastrosa calamità sanitaria" e "catastrofe" oltre "qualsiasi previsione e immaginazione". 

Francesca Bussi per “Libero quotidiano” il 19 marzo 2020. Comunque va sempre tutto bene. L' importante è nascondere il vero. Soprattutto sui social. Come ad esempio le mascherine FFP2 che non ci sono, i tamponi negati ai dipendenti o i turni di servizio massacranti. Così la pensa il direttore generale dell' Ausl Romagna, Marcello Tonini. Il dirigente dell' Azienda sanitaria romagnola, infatti, l' altro ieri ha inviato una lettera a tutto il personale dipendente, circa quindicimila tra medici, infermieri e amministrativi, distribuiti tra le province di Forlì-Cesena, Ravenna e Rimini, per esortarli a non scrivere alcun commento su Facebook relativo alle problematiche vissute in questo difficile momento di coronavirus, minacciando velatamente di ricorrere a sanzioni. In sostanza, qualsiasi criticità che il personale sanitario sta vivendo questi giorni, non può essere manifestata, tantomeno pubblicata. Evidentemente, a parole i medici e gli infermieri sono eroi, ma di fatto devono tenere la testa bassa e mantenere la consegna del silenzio. «Dobbiamo essere molto prudenti, evitare esternazioni troppo dettagliate o tecniche, e nell' incertezza limitarci comunque nella diffusione di notizie legate al nostro lavoro». Così il direttore generale scrive nella sua missiva, cercando di "indorare la pillola" a chi sta vivendo momenti di ansia e paura. «Tutti siamo impegnati a far fronte a una situazione nuova, mai vista, difficile. Ad ognuno viene chiesto qualcosa in più rispetto al proprio "dovere contrattuale" e pressoché tutti stiamo rispondendo "presente". È assolutamente comprensibile - prosegue -, che in questi momenti ci sia la voglia di urlare forte, a tutto il mondo, quello che stiamo facendo. Quello che stiamo provando... le tante ore passate dentro gli ospedali o sul territorio. La sofferenza per noi stessi e per coloro che curiamo. Il deserto che c' è là fuori e che rischia di invaderci dentro». Poi entra nel dettaglio e aggiunge: «O anche di raccontare quella decisione del nostro superiore o della nostra azienda che non condividiamo, perché la pensiamo diversamente o perché ci crea ansia. È comprensibile ma adesso dobbiamo stare attenti pure a questo». Non bastava forse il caos creato dal virus, con reparti chiusi e ospedali come quello di Rimini in piena emergenza, con 37 ricoverati e 578 casi di positività (seconda solo alla provincia di Parma) e dove sempre ieri gli amministratori hanno chiesto di chiudere i confini con Pesaro-Urbino. Non bastava. Evidentemente c' è necessità impellente di occuparsi anche dei post dei dipendenti della sanità sui social network. «Raccontare, anche solo sui nostri profili Facebook personali», sottolinea Tonini, «o attraverso gli altri social, rischia di non essere sempre compreso nella maniera giusta. Di essere purtroppo strumentalizzato da persone senza scrupoli che popolano quel mondo virtuale e che non si fanno alcun problema a stravolgere ciò che diciamo anche creando allarme sociale. Dobbiamo dunque essere molto prudenti, evitare esternazioni troppo dettagliate o tecniche e, nell' incertezza, limitarci comunque nella diffusione di notizie legate al nostro lavoro». E la minaccia: «D' altra parte le nuove normative sulla privacy ed il Contratto di lavoro sono, su questi aspetti, piuttosto chiari». «Verrà il tempo in cui raccontare», chiosa il direttore generale dell' Asl Romagna, «in modo limpido e che tutti possano sentire. Sui mass media e in tutte le forme possibili. E lo faremo insieme. Senza dimenticare nessuno. Ma ora siamo prudenti».

Coronavirus, la testimonianza del dottore: "In guerra dall'alba a tarda notte, vi racconto la mia giornata". Paola Natali su Libero Quotidiano il 18 marzo 2020. I medici in prima linea non si fermano e, insieme agli infermieri ed al personale sanitario, continuano la loro battaglia per sconfiggere il coronavirus. Devono affrontare turni ed orari massacranti con un unico, grande obiettivo: salvare sempre più pazienti possibile. E noi, per aiutarli, dobbiamo fare una cosa sola: stare a casa. L’orologio non si guarda più, si sa quando si inizia un turno ma non si sa quando si finirà. Poi la vita cambia completamente non appena si chiudono le porte dell’ospedale e si ritorna a casa. Questo sacrificio ha un grande ed unico obiettivo: fare scendere la curva di contagio e diminuire il numero dei decessi. Storie di uomini e donne che, ogni giorno, affrontano una vera e propria missione. Purtroppo molti cittadini non hanno ancora capito, ancora troppa gente pensa di essere in vacanza ed ogni scusa è buona per uscire. Invece stare a casa non è un consiglio bensì la sola cosa utile che oggi si può fare in questa epocale battaglia contro il codiv19. Le storie di medici si intrecciano con quelle di tante persone che cercano di aiutare con piccoli grandi gesti per andare avanti e non fermarsi. Chiamo il Dottor Francesco Gentile, direttore dell’unità operativa complessa di cardiologia ed unità coronarica dell’ospedale Bassini e dell’ospedale di Sesto San Giovanni. 

Dott Gentile, come è la situazione da voi all’Ospedale Bassini? 

“La maggior parte dei reparti all’ospedale Bassini sono stati trasformati in covid: anche il mio, ovvero l’unità operativa complessa di cardiologia ed unità coronarica è stato adibito a seguire i pazienti positivi al virus. In tutta la struttura ospedaliera abbiamo un totale di 15 posti letto in terapia intensiva, arrivano pazienti anche da Bergamo, Brescia e da altri ospedali. Attualmente ci sono circa 130 persone affette da codiv e intubate, 14 in terapia intensiva. Resta solo un posto letto libero in terapia intensiva (martedì 17 marzo alle 18.41)”. 

Come è la sua giornata? 

“Mi alzo ogni mattina ed il mio primo pensiero va a tutti i pazienti che sono attualmente ricoverati nella mia unità coronarica e non, sperando che possano essere stati bene durante la notte. Arrivo in ospedale alle 7,30 e finisco quando la situazione si è, per così dire, tranquillizzata, potrebbero essere le 20 o le 22 ma capita anche di rientrare di notte se ci sono criticità”. 

Quanto è cambiato il vostro lavoro? 

“Ci siamo trovati tutti noi medici infermieri e personale dell’ospedale a svolgere un’attività per la quale non eravamo pronti. Abbiamo cambiato completamente le nostre attività, cercando di curare al meglio pazienti con grave emergenza respiratoria e proteggere  tutti gli operatori che lavorano nell’unita coronarica e cardiologia”. 

E la sua vita? 

“Ho compiuto 64 anni a dicembre, potevo andare in pensione ma avevo già deciso di rimanere ancora per sistemare alcune cose in reparto. Mai avrei immaginato di dover affrontare una simile emergenza. Sono sposato, quindi può immaginare anche a livello famigliare ho cercato di applicare  tutte le norme consigliate dall’OMS per fare il modo di non contrarre il virus e non trasmetterlo a casa o al personale sanitario. Tra le mura domestiche la vita è cambiata, tengo distanze di sicurezza con i miei famigliari indossando la mascherina, lavo sempre le mani per essere sicuro di non trasmettere il virus nemmeno toccando oggetti durante la giornata. Non avrei mai immaginato nella mia vita da cardiologo di dover affrontare questo cataclisma. Devo dire che in reparto ho trovato una grandissima collaborazione, una disponibilità a tutti i livelli che mi ha fatto scoprire un sistema dove tutti si stanno prodigando al massimo per il bene del paziente. Sono cambiati i rapporti con la direzione, con tutto il personale che gestiste ciò che gravita intorno all’ospedale e la rapidità nel reperire personale di supporto”. 

“Tutti noi in ospedale amiamo il nostro lavoro ma questo momento è particolarmente complesso anche livello anche personale. I pazienti covid sono soli, non hanno parenti vicini quindi ogni sera, alla fine del giro visita, chiamiamo al telefono tutti i famigliari per spiegare le condizioni del paziente ricoverato. Lei può ben immaginare cosa vuol dire comunicare per telefono e non vedere la persona: il rapporto medico paziente è fondamentale ed ancora di più quando devi parlare con i famigliari di pazienti condizioni critiche. Guardare negli occhi le persone è ben diverso che fare una telefonata”. 

Di cosa avete più bisogno in questo momento? 

“Purtroppo mancano tutti i presidi. Nonostante gli sforzi messi in atto, esiste ancora una scarsità di dispositivi di protezione per i sanitari e di farmici da somministrare ai pazienti codiv-19. Ieri, ad esempio, eravamo in carenza di mascherine e può ben immaginare cosa voglia dire: significa limitare al massimo l’approccio al paziente covid, i nostri pazienti sono in CPAP con casco quindi nebulizzano e se noi medici ci avviciniamo senza mascherine possiamo contrarre il virus. Con la nebulizzazione si formano gocce che arrivano dalla respirazione del paziente. In questa condizione drammatica, però, arrivano dei piccoli gesti da parte di privati come ad esempio il Dott Sergio Wu e suo figlio Alessandro ed associazioni. Piccoli ma grandi gesti fatti da cittadini che cercano di attivarsi per permettere  ai nostri medici di continuare a lavorare. Ho vissuto personalmente questa esperienza, visto la carenza di mascherine mi sono attivata e grazie ad Agnese Frigerio di Passione eventi, abbiamo contatto  Franco Morganti  e Alberto Morganti della Kapriol, azienda che produce prodotti per la sicurezza del lavoro ed utensileria di lecco, che ha donato le ultime mascherine rimaste in magazzino cioè  1500  da suddividere tra l’ospedale Bassini, San Carlo , ospedale di Zingonia ed al Policlinico. Da quando è iniziata l’emergenza covid la Kapriol si è subito attivata donando piu di 100 mila mascherine da destinare ad  ospedali, protezioni civili , croce rosse e volonatari.  L’Azienda ha  chiuso da una settimana per proteggere i dipendenti.  Franco Morganti mi racconta che loro non  producono mascherine ma le importano  e che la problematica  è avere gli aerei per il trasporto ,non si capacita del motivo per il quale lo stato non organizza voli speciali per andarle a prenderle". 

Da leggo.it il 16 marzo 2020. «Di solito si arriva in ospedale quando si fa fatica a respirare, si fanno gli esami, c'è un primo supporto di ossigeno, quando non è più sufficiente si uso il casco e si va avanti il più possibile finché si arriva all'intubazione. Oppure non ci si arriva proprio, perché il paziente peggiora. Se non c'è più nulla da fare si procede con la sedazione palliativa». A raccontare della difficile situazione nella gestione dell'emergenza Coronavirus è Massimo Borelli, direttore Rianimazione Bergamo ovest (Treviglio) ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3. Non a caso, oltre a un appello alla cittadinanza a ridurre i contatti «per non far arrivare le persone in ospedale», Borelli ha detto: «Sogno che si possano ampliare più possibile i posti in rianimazione». «Abbiamo intubato un ragazzo del 1977 che aveva i soliti sintomi che ormai conosciamo», continua Borelli. «Noi abbiamo 6 posti letto normalmente in Rianimazione - ha proseguito - ci siamo trovati improvvisamente ad avere quadri gravissimi sia in termini di malattia che di quantità. Le insufficienze respiratorie che vediamo in un anno sono 20-25, nell'ultima settimana abbiamo avuto 30 pazienti: 50 volte quello che accade normalmente». Una «ondata di casi di insufficienza respiratoria grave» che ha travolto la struttura.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 17 marzo 2020. Al Policlinico San Marco di Zingonia, vicino Bergamo, i medici e gli infermieri lavorano giorno e notte con turni massacranti per riuscire a curare i tantissimi pazienti che arrivano a tutte le ore dalla zona focolaio della bergamasca. Nell’impressionante video girato da un’infermiera all’interno di quella che a un primo sguardo potrebbe sembrare una terapia intensiva e invece è l’area osservazione del pronto soccorso, si può vedere come in ogni piccolo spazio si trovi il modo di sistemare i pazienti e non lasciarli senza cure. Il policlinico, come documentato dal video, sta curando molti pazienti Covid-19 anche con problemi respiratori gravi. Solo pochi giorni fa a medici e infermieri del Policlinico San Marco di Zingonia era arrivato l’affetto dei cittadini grati per il loro lavoro con uno striscione affisso davanti all’entrata dell’ospedale: “Siete i nostri eroi”.

   Niccolò Zancan per “la Stampa” il 17 marzo 2020.

Dottor Grazioli, oggi ha visto qualche segno che faccia sperare?

«Mah Non lo so. Veramente. Non saprei cosa dire. Il problema è che sto sull' ultima linea. Abbiamo accumulato così tanti pazienti che se ci dovesse essere un calo da qui non lo vedo ancora. È un' onda lunga».

Qual è stato il momento più difficile della sua giornata?

«Uno solo? Sono tutti malati molto complessi da trattare. Il nostro problema è dove metterli. Siamo al limite delle risorse. La rete è satura. La media dei nostri pazienti adesso è cinquant' anni. Hanno bisogno di ventilazione meccanica. Cerchiamo di fare il meglio qui, altrimenti ci affidiamo alla rete sanitaria della regione Lombardia».

Riesce a mangiare alla sera?

«Se non mangio a mezzogiorno, almeno a cena devo farlo».

Alle 20.45 il dottor Lorenzo Grazioli toglie lo scafandro che lo isola dai suoi pazienti, sfila i guanti e la maschera, si disinfetta per l' ennesima volta. Torna nel mondo di fuori. Ma solo per il tempo necessario a un viaggio in auto, che dura 15 minuti: dal reparto di rianimazione dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo a casa sua. Domenica ha compiuto 41 anni. È medico anestesista e rianimatore. Sta dove le persone perdono l' aria soffocate dalla polmonite, sulla trincea più difficile della guerra al Covid19. Nel suo ospedale: 400 ricoverati, 80 in rianimazione.

Come si spiega il caso Lombardia? Perché tutti questi morti proprio nella vostra regione?

«L' epicentro, come quello del terremoto, non si sa mai dove sarà. Qui ci sono tante persone che vanno e vengono per ragioni di lavoro, tanti aeroporti e tanti contatti. Questa è una malattia estremamente virulenta, contagiarsi è facile».

Quante ore sta lavorando al giorno?

«Non meno di 12».

Ha incontrato i medici mandati dall' esercito nel suo ospedale?

«Non ancora. E non ho idea di che specialità abbiano».

Cosa vi dite fra colleghi?

«Cerchiamo di fare il meglio per proteggerci. Abbiamo la convinzione che le misure che mettiamo in atto siano efficaci. Ma mantenere il morale alto non è facile».

Qual è il suo paziente tipo?

«I primi erano grandi anziani, piano piano sta diminuendo l' età. Vedo tanti uomini anche di quarant' anni».

Perché?

«Provate a far correre un uomo di 30, uno di 40 e uno di 50 anni insieme. Chi arriverà primo? Quello di 30. All' ospedale invece l' arrivo è inverso. I giovani hanno più risorse».

Davvero vi trovate nella situazione di dover scegliere fra chi intubare e chi no?

«Seguiamo le regole. Ci sono dei criteri tracciati. Il fatto di avere delle scale di valutazioni ci fa capire il beneficio che una terapia intensiva può dare. Tutti i giorni, valutiamo. Facciamo i clinici. Quindi, decidiamo. Ma non significa trascurare i pazienti. Ci sono malati che per la loro età anche con 100 posti liberi non andrebbero in terapia intensiva perché non ne beneficerebbero. Tutti coloro che hanno bisogno di intubazione vengono intubati».

In quale istante ha capito che il coronavirus avrebbe cambiato l' Italia e il mondo?

«Subito. Dalla prima settimana. Abbiamo avuto un incremento esponenziale di pazienti. Da allora non è mai finita. Mi sembra un unico giorno molto lungo».

Se potesse chiedere qualcosa di utile e molto terreno cosa chiederebbe?

«Attrezzature e personale. Ma non è facile trovare medici che facciano questo lavoro serenamente. L' esperienza è impagabile in questi casi. L' emotività va lasciata da parte sempre». 

Come va la sua vita?

«Io non ho una vita. In questo momento. Torno a casa. Mangio. Vado a letto. Torno in ospedale. La mia compagna fa l' infermeria in terapia intensiva. Ha gli stessi ritmi».

Come giudica la comunicazione al tempo del Covid19?

«Tutti parlano senza avere contezza della situazione. Probabilmente questa storia ci insegnerà che dobbiamo affidarci a chi sa fare le cose. Riscopriremo le competenze».

C' è stato troppo allarmismo?

«No. Se voi vedeste quanta gente arriva ogni giorno vi togliereste il dubbio. Non siamo bambini. Bisogna essere seri e crudi nelle comunicazioni».

Si è dato un orizzonte temporale?

«Dipende da noi. Da tutti noi. Se ci convinciamo che possiamo fermare il virus stando a casa, si smorzerà per forza. Altrimenti, no: continuerà e ne pagheremo le conseguenze».

Coronavirus, le foto dalla terapia intensiva: «Noi al lavoro senza sosta». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. «Sono le sette, il turno è finito: dodici ore in corsia». A guardarlo da fuori, l’ospedale di Cremona invoca un senso di ordine, con le sue finestrelle simmetriche con la tapparella alzata che alle sette di sera diventano punti di luce. C’è buio, quando finisce il turno. Non ci si può sbagliare: sette del mattino, sette di sera. Entri che c’è luce, esci che è quasi ora di andare a dormire. «Prima di andartene via, ancora in reparto, ti butti sotto l’acqua e ti lavi dalla testa ai piedi: hai la sensazione di toglierti di dosso il virus, di uscire pulito». Poi ti metti in macchina e la giornata ti passa davanti, le immagini si accavallano. Vuoi solo tacere, non accendi nemmeno la radio. Paolo Miranda fa l’infermiere da nove anni. Rianimazione, terapia intensiva. «Temporeggiare, monitorare, cercare posti, trasferire». Il telefono in reparto squilla in continuazione. «Siamo l’ultima spiaggia – racconta –. I ricoverati per coronavirus sono smistati nei vari reparti, quando peggiorano arrivano da noi. Se si libera un posto, perché qualche paziente viene trasferito in altri ospedali, subito viene occupato. Il problema è che qui i letti scarseggiano. Ed è una follia dire ai giovani che sono esclusi da questa emergenza: ci sono anche loro, qui arriva gente di ogni età». Paolo è appassionato di fotografia, ma per gli hobby ora non c’è tempo. Allora ha preso la sua macchina fotografica e l’ha portata con sé in reparto per documentare il lavoro in trincea di questi giorni. Cronache dalla terapia intensiva. In uno scatto una sua collega è per terra, stremata. Piange. «Un momento di sconforto e la caposala che le va incontro, si piega, le dice che andrà tutto bene. Siamo persone, non eroi». I letti della rianimazione sono pieni. Ci sono pazienti intubati da prendere e mettere a pancia in giù. «La terapia intensiva ti spezza. Mi distrugge una cosa: dall’inizio dell’emergenza non ho ancora visto una persona sveglia, qui sono tutti attaccati alle macchine». E soli. «Niente parenti che vanno e vengono con borse di roba, regali, vestiti puliti. Il reparto è chiuso: tutti fuori. Uno di noi a fine giornata si fa carico delle telefonate: ci sono genitori e figli che stanno appesi al filo ad attendere una nostra chiamata. Non sono tutte belle. C’è chi muore lì, con i vestiti di quando è entrato. La nostra caposala chiama e dà la notizia. Lo fa lei, non ne avrei la forza». Non va sempre così. «Ogni giorno è come stare sull’altalena. Prendi due giorni fa. Una mia collega ha avuto contatti stretti con una persona positiva, ha fatto il tampone. Eravamo in corsia, le hanno detto che era negativa. È sempre composta, ma lì ha avuto un attimo di euforia: si è messa a saltare in reparto dalla gioia. Non siamo così di solito, è che questa situazione ora pesa, e c’è sempre il rammarico di non riuscire a fare di più». La cena è in piedi, quando capita. In una piccola sala dell’ospedale arrivano pizze, dolci, regali dall’esterno. Dopo dodici ore il turno finisce, si va a casa. «Vivo con mia moglie Corinne, è un’infermiera anche lei. Indovina di cosa si parla a cena... Lei lavora in cardiologia, all’inizio di questa emergenza l’hanno spedita in pronto soccorso. Non si stacca mai, nemmeno a casa: pensi e ripensi a quello che hai fatto, al giorno dopo, a quando tutto finirà». Finché è notte. «Mi sveglio di colpo, si dorme poco. A volte mi giro nel letto e trovo mia moglie con gli occhi aperti, anche lei insonne». Finché suona la sveglia. Cinque e mezzo. Che sia un buongiorno.

L'appello dei medici in prima linea: «Convertire le industrie alla produzione di mascherine». Il primario di Medicina generale dell'ospedale San Raffaele di Milano: si faccia dove è possibile, con il sostegno di Stato e Regioni. Occorrono subito posti letto di rianimazione e degenza semi-intensiva. Fabrizio Gatti il 16 marzo 2020 su L'espresso. Contro la diffusione dei contagi da coronavirus e per salvare Milano e la Lombardia, i medici lanciano un appello affinché le industrie con produzioni prossime possano essere convertite urgentemente alla fabbricazione di protezioni individuali, come mascherine e tute, e di apparati per l'ausilio alla respirazione. «Certamente, laddove fosse possibile», dice Moreno Tresoldi, primario di Medicina generale e delle Terapie avanzate all’ospedale San Raffaele di Milano, «questo tipo di conversione, eventualmente attraverso un sostegno tangibile delle istituzioni, sarebbe di grande aiuto. Anche per le apparecchiature di ausilio alla respirazione che possono consentire, se impiegate nella fase precoce del danno polmonare, di ridurre la necessità della ventilazione meccanica».

Cosa vi serve e cosa dobbiamo fare noi "fuori"?

«La risposta più immediata è il sostegno economico per realizzare le strutture necessarie a far fronte all’emergenza. Occorrono posti letto di rianimazione e di degenza semi-intensiva, come il reparto che dirigo, ma occorrono anche strutture dove accogliere i pazienti che superano la fase acuta e critica della malattia, che non possono ancora rientrare a domicilio, ma non necessitano di cure intensive. L’obiettivo attuale è di individuare una cura efficace che riduca la percentuale di pazienti che necessitino di essere trattati in rianimazione e verosimilmente che aumenti la percentuale di pazienti che, per gravità clinica, richiedano ospedalizzazioni più prolungate. Abbiamo bisogno di strutture idonee dove indirizzarli. L’auspicata fase di “attenuazione della malattia” con tempi di guarigione potrebbe richiedere uno sforzo organizzativo e strutturale più consistente di quello che stiamo affrontando in questa fase dell’acuzie della malattia».

Che parole ha usato con il personale per spiegare la situazione?

«Ho il privilegio di avere al mio fianco collaboratori, medici, infermieri professionali e operatori sanitari straordinari. Non c’è stato bisogno di spiegazioni ma semplicemente è bastato comunicare che eravamo chiamati a gestire l’emergenza. Nel lasso di tempo di un turno di lavoro abbiamo trasferito in altri reparti o dimesso cinquantatré pazienti ed eravamo pronti ad accogliere i primi pazienti Covid-19. Il reparto si è riempito in poche ore».

Cosa dite ai malati?

«Sono tutti spaventati e l’isolamento non li aiuta. Non incontrano più uno sguardo familiare e visitarli indossando i dispositivi di protezione individuale non facilita a stabilire un rapporto. Tuttavia il prendersi cura di loro con grande attenzione li rassicura e riduce le distanze e in queste circostanze è questo il messaggio più importante, piuttosto che la comunicazione verbale».

Cosa ha provato quando, mentre voi di giorno in giorno stavate riorganizzando l'attività ospedaliera per far fronte all'epidemia, migliaia di cittadini continuavano ad affollare locali, Navigli, parchi?

«Si può interpretare questo atteggiamento in due modi e nessuno dei due ha aspetti positivi. Il primo è che le persone hanno dato scarsa considerazione ad un evento che non li aveva ancora colpiti e mi fa pensare ad una certa dose di egoismo. Il secondo che una parte non irrilevante delle persone non è in grado di distinguere, nei fatti che accadono, ciò che è veramente importante da ciò che è finto o senza alcun peso. Ecco che allora per due fatti, di cui uno estremamente importante, si adotta lo stesso metro e i messaggi vengono rapidamente metabolizzati e messi da parte».

Quando si è reso conto che la Lombardia era al centro dell'emergenza?

«La rapida escalation di casi nell’originaria area rossa, nonostante le misure per circoscrivere la diffusione del contagio, e le prime segnalazioni nell’area milanese sono state sufficienti per rendersi conto che la regione avrebbe subito un pesante coinvolgimento. Il 22 febbraio eravamo già al tavolo di crisi istituita dalla direzione sanitaria per discutere delle misure da prendere».

Momenti di soddisfazione in questi giorni? E di sconforto?

«Certamente il primo paziente dimesso che ci ha chiesto di fissare il momento con una foto collettiva insieme con tutto lo staff. Più che di sconforto parlerei di impotenza: a fine turno, quando percepisco negli sguardi stremati dei miei collaboratori tutta la tristezza per i loro pazienti che non ce l’hanno fatta e per le scelte dolorose che abbiamo dovuto prendere».

Ha paura per sé e per i suoi cari?

«La risposta alla prima parte della domanda è la più difficile, per il semplice fatto che non ho proprio pensato alla eventualità. Se accadrà, mi comporterò come consiglio di fare ai miei pazienti che mi contattano in queste ore perché accusano sintomi simil influenzali. Se sono lievi, febbre e tosse, consiglio di restare a casa assumendo antipiretici e qualche precauzione in più rispetto ai familiari: mascherina, distanza sociale, lavarsi più spesso le mani. In caso di peggioramento dei sintomi o di difficoltà respiratorie consultarsi con il medico di base sull’opportunità di recarsi in pronto soccorso. Per i propri cari il discorso è diverso. Non si è mai lucidi e quando prevale il legame affettivo, le indicazioni sono le stesse ma l’ansia e la preoccupazione aumentano»

Dagospia il 9 marzo 2020. L’AUDIO CHOC DI UNA CARDIOLOGA DI MILANO: “ABBIAMO 3 MILA VENTILATORI POLMONARI IN ITALIA. SE 10MILA AVESSERO BISOGNO DI ESSERE INTUBATI E VENTILATI, 7 MILA MUOIONO”.   Trascrizione dell’audio di una dottoressa di Milano: Faccio il cardiologo in terapia intensiva a Milano. Allora la situazione è molto seria, nel senso che fondamentalmente questo virus che sta girando è estremamente contagioso. È vero che in tanti non causa sintomi, è vero che tanti se la cavano senza troppi problemi, ma è anche vero che tante persone sviluppano quella che si chiama una polmonite interstiziale bilaterale che fondamentalmente ha bisogno di un supporto ventilatorio. Non abbiamo farmaci, perché è un virus quindi gli antibiotici non funzionano. Stiamo dando dei cocktail di farmaci che si usano in virus tipo l’aids, ma in via del tutto sperimentale non sappiamo se funzioneranno o no. L’unica cosa che si può fare in questi casi è intubare il paziente e quindi far respirare la macchina mettendo a riposo i polmoni aspettando che il sistema immunitario lo sconfigga. È vero che quelli che muoiono sono spesso anziani e con co-patologie, ma ci sono anche tanti giovani in terapia intensiva. Il nostro più giovane ha 38 anni e non aveva altri problemi. Il problema vero è che tanta gente ha bisogno dell’assistenza ventilatoria e non ci sono ventilatori per tutti. Già ieri nel mio ospedale mi hanno chiamato - io sto nella terapia intensiva cardiologica - chiedendomi di dargli uno dei nostri ventilatori, ne abbiamo solo due rimasti e io gliel’ho dato e una paziente che era stata estubata il giorno prima, e quindi in questi casi normalmente si tiene il ventilatore lì vicino perché a volte vanno in crisi e devono essere rintubati, se questa va in crisi il ventilatore non c’è. Fondamentalmente ci hanno detto che da questi giorni dovremo cominciare a scegliere chi intubare, quindi privilegiamo i giovani e quelli senza altre patologie. Al Niguarda, che  l’altro ospedale grande, non intubano più oltre i 60 anni, che è veramente giovane come età, per cui la situazione è molto seria, è molto contagioso, 14 giorni di incubazione quindi se anche una persona se l’è preso sta 14 giorni completamente asintomatico e può infettare un numero incredibile di persone. Per cui il concetto è che l’unico modo per non avere un’ecatombe è far sì che ci siano meno contagi possibile e che, qualora ci dovessero essere fossero il più possibile dilazionati nel tempo, perché se io ho 10mila persone infette tutte allo stesso momento noi abbiamo 3mila ventilatori in Italia. Se 10mila avessero bisogno di essere intubati e ventilati, 7mila muoiono. Se invece riesco a spostare più in là il contagio e a ridurre la velocità di contagio, quando si ammalano i nuovi i vecchi che ho intubati verosimilmente saranno guariti e avranno liberato il ventilatore. L’unica cosa che si può fare sono le cose che già stanno dicendo in giro, quindi stare a casa - è vero - niente cinema, niente mostre, niente passeggiate in giro, negozi il meno possibile, scuole chiuse, calcio il pomeriggio chiuso, niente cene fuori, evitare il più possibile di stare a contatto con altre persone e lavarsi le mani, funziona bene il sapone, e le soluzioni alcoliche tipo l’amuchina. Il virus un po’ sulle superfici rimane, ma resiste 30-40 minuti. L’unico modo per essere sicuri di bonificare è lavare con la candeggina e lasciare a contatto la candeggina per 30 minuti. Fondamentalmente voi a Roma state come stavamo noi a Milano 10 giorni fa e in dieci giorni c’è stata un’escalation incredibile della cosa. La Lombardia è al collasso ed è la Regione che a livello sanitario sta messa meglio, per cui non oso pensare cosa potrebbe succedere se la cosa si estende alle regioni meno efficienti. Per i bambini, non ci sono casi gravi, alcuni sono positivi ma tendenzialmente come con tutte le virosi anche se se le prendono sviluppano una forma meno aggressiva dell’adulto. Però sono degli untori pazzeschi, perché magari il bambino se lo prende, non sviluppa sintomi, va dai nonni e uccide i nonni fondamentalmente, quindi anche lì cercare di evitare il contatto bambini-nonni. Senza farsi prendere dal panico, però non è una cosa che va sottovalutata. Quindi chi può rimanga in casa il più possibile senza vedere nessuno. 

Dagospia il 9 marzo 2020. “LA SITUAZIONE È DRAMMATICA, BISOGNA ASSOLUTAMENTE CHE LA GENTE LO CAPISCA” L'AGGHIACCIANTE AUDIO DI UN MEDICO DELL'OSPEDALE NIGUARDA DI MILANO: “NON AVETE IDEA QUANTI GIOVANI CI SONO, ANCHE VENTENNI, CON DELLE POLMONITI ORRIBILI” – “I MEDICI NON VENGONO NEANCHE PIÙ MESSI IN QUARANTENA O SCREENATI COL TAMPONE” – “NIGUARDA STA SCOPPIANDO, HA 30 INTUBATI COVID. SI ASPETTANO 50 POLMONITI AL GIORNO. LE RIANIMAZIONI SONO QUASI PIENE, SI PENSA A UN NUMERO DI TRIAGE: DECIDERE CHI INTUBARE E CHI LASCIAR MORIRE...” Ragazzi la situazione è questa. Hanno chiuso interi reparti, hanno ridotto i posti letto dei reparti tradizionali, hanno bloccato gli ambulatori per far venire i medici ambulatoriali a fare i medici per i reparti Covid. Arrivano ogni giorno in maniera esponenziale, hanno triplicato praticamente i posti di rianimazione, volevano chiuderci l’Utic (Unità di Terapia Intensiva Coronarica). Non so quante Utic sono state chiuse per cui anche la rete Stemia è stata chiusa e stanno decentrando tutto. Niguarda sta scoppiando, ha 30 intubati Covid. Tutte le rianimazioni sono quasi piene, si sta pensando a un numero di triage (In un ospedale, la scelta, tra più pazienti, di quelli maggiormente bisognosi di cure) dei rianimatori per distribuire i pazienti nei letti di rianimazione e decidere chi intubare e chi lasciar morire. Non te ne accorgi, non li becchi. In Utic abbiamo avuto uno choc cardiogeno per 5 giorni lastra da Epa e l’infettivologo non aveva detto un cazzo. Il radiologo è congestionato dal piccolo circolo. Ieri ho telefonato al radiologo e gli ho detto senti questa qua secondo me è una polmonite e c’aveva la polmonite. Ora gli hanno fatto il tampone ma sicuramente è un paziente Covid, ci metto la mano sul fuoco. Non si riconosce, ma soprattutto voi non avete idea quanti giovani, anche ventenni, richiedono la C-pap e hanno delle polmoniti orribili e non hanno comorbidità (La presenza o l'insorgenza di un'entità patologica accessoria durante il decorso clinico di una patologia oggetto di studio.). Quanti nati negli anni ’70 hanno polmoniti. Una marea. È inimmaginabile. I medici ormai non vengono neanche più messi in quarantena o screenati con il tampone. Ti dicono: se tu hai avuto un contatto e non hai sintomi vieni a lavorare. Se hai dei sintomi decidi tu se venire a lavorare o rimanere a casa. È tragico. Adesso stanno assumendo tutti gli specializzandi del Policlinico e al Policlinico c’è un solo padiglione su tre o quattro che non è destinato ai Covid. Si aspettano 50 polmoniti al giorno. È drammatica la cosa e non la si dice in giro, bisogna assolutamente che la gente lo capisca.

DAGOREPLICA il 12 marzo 2020. Oh no, siamo stati debunkati! ''Open'', il sito fondato da Enrico Mentana, da una parte martella sul virus ogni minuto e da settimane, con notevole allarmismo, dall'altra ci dà dei ''procuratori di allarme'' perché abbiamo pubblicato l'audio di una (sedicente) cardiologa di un ospedale milanese che parla di una situazione gravissima in Lombardia, di pazienti over-60 che a breve non saranno più messi in terapia intensiva perché mancano i posti. Al grido di ''Falso! Denunciata!, False notizie!'' (i punti esclamativi sono tutti suoi), siamo stati bastonati dal cacciatore di bufale David Puente. Qual è il nodo del problema? Che la donna parla anche dell'ospedale Niguarda (pur non lavorandoci) e oggi il Direttore Generale dell'istituto ha denunciato alla polizia postale sia lei che l'autore di un altro messaggio audio (che invece sostiene di lavorare lì): ''Le voci narranti rappresentano una situazione sanitaria non supportata da alcun dato reale e oggetto di una libera interpretazione personale che configura ipotesi di procurato allarme''. Non supportata da alcun dato reale? La triste morale dei due audio pubblicati da questo sito è che i dati reali non li ha nessuno, visto che il governo è piuttosto avido di dettagli sui pazienti, a parte il quotidiano bollettino snocciolato dal capo della Protezione Civile Borrelli. Sono le persone sul campo, medici, infermieri, parenti di malati, a parlare con i giornali e a scongiurare le autorità di adottare misure ancora più serie per quanto grave è la situazione. Nessun ospedale ammetterà mai in via ufficiale (né metterà per iscritto) di compiere questo triage terribile, in cui i medici decidono chi salvare e chi no in base ai posti liberi in terapia intensiva e all'età o alle condizioni di salute, ma è quello che è già accaduto in alcuni casi, e soprattutto è esattamente quello che accadrà se non si riuscisse a contenere la diffusione del coronavirus. Purtroppo siamo ben oltre il procurato allarme: l'allarme è reale e lo hanno suonato dal presidente del Consiglio Conte al ministro della Salute Speranza, passando per virologi (Burioni, Ricciardi), presidenti di regione, assessori alla sanità, giù fino al barelliere che fatica a trovare una mascherina. Come si fa a procurare un allarme (''se l'epidemia non rallenta non potremo ricoverare tutti'') che è alla base di tutte le dichiarazioni ufficiali di pubblici ufficiali e della comunità scientifica? Alla base del più pesante provvedimento mai preso dal governo italiano dai tempi della Seconda Guerra Mondiale, quello di chiudere l'intera nazione dentro casa? Christian Salaroli, anestesista rianimatore dell'ospedale di Bergamo ha detto al Corriere della Sera: «Si decide per età, e per condizioni di salute. Come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato (…) Se una persona tra gli 80 e i 95 anni ha una grave insufficienza respiratoria, verosimilmente non procedi. Se ha una insufficienza multi organica di più di tre organi vitali, significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento. Ormai è andato». Non è un audio anonimo, c'è nome, cognome e pure ospedale, eppure dice le stesse cose di ''Martina'', la cardiologa che probabilmente esiste e che sicuramente non era autorizzata a dire quello che ha detto, in un messaggio privato per la sorella che poi ha girato per tutta Italia. Ma la ciccia non cambia. Quell'intervista è stata citata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, al centro del focolaio che cresce di più in questi giorni (pure lui un bufalaro) per dire su Twitter che la gente sta morendo perché non trova posto in terapia intensiva. Poi si è scusato per i toni ma, di nuovo la sostanza non cambia. La regione Lombardia vuole costruire un ospedale di fortuna in un ex spazio fieristico per creare dal nulla 600 nuovi posti di terapia intensiva, in stile Wuhan. Ieri Orietta ha raccontato alla Stampa, non su Whatsapp, di come il padre non abbia trovato posto nella terapia intensiva di Crema, e per questo sia morto in poche ore. ''Mi hanno detto "Siamo nella merda, suo papà è intubato e sedato in sala operatoria, in attesa che si liberi un posto in terapia intensiva". L’ho pregato di darmi qualche notizia. Erano le 3 del pomeriggio e il papà è morto alle 8 e mezzo di sera''. Prima di arrivare a Crema avevano chiamato cinque ospedali, tutti al collasso. Non si trattava di un paziente moribondo, ''aveva 80 anni, ma sembrava uno di 60. Era il classico uomo col cappello in testa, che quando te lo trovi davanti in macchina ti arrabbi un po’ perché va a 30 all’ora, ma era lucidissimo. Prendeva le pastiglie per la pressione e niente più (…). Provo molta rabbia: mio papà se n’è andato e non gli ho potuto dire “ti voglio bene”. L’ho visto uscire su una barella e poi in una cassa chiusa al cimitero. Non gli è stato concesso un funerale. Due parole rapide del parroco e via, tumulato sotto quattro pietre''. Caro Puente, se bisogna denunciare ''Martina'' per procurato allarme, vanno denunciati pure Conte, l'OMS che ha appena dichiarato la pandemia, virologi, scienziati e mezza sanità lombarda che grida aiuto e le famiglie dei pazienti che in questi giorni muoiono senza tanti complimenti.

Gori: "Pazienti lasciati morire? Accade". Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, conferma ciò che aveva detto ieri in un tweet: "I medici devono decidere chi intubare e chi no. Me l'hanno detto alcuni parenti dei malati". Raffaello Binelli, Giovedì 12/03/2020 su Il Giornale. Il sasso lanciato nello stagno ha destato molto clamore. Oggi il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, torna sull'argomento e conferma tutto: "Sono sicuro di quello che ho detto, accade - spiega ai microfoni di Circo Massimo su Radio Capital -. Ho cognizione di casi precisi di persone che mi hanno detto quanto successo ai loro parenti. Forse ho sbagliato nell'affrontare un tema così delicato e così diretto, stanno veramente facendo miracoli negli ospedali lombardi, ma quelli che arrivano in condizioni disperate sono di più di quelli che devono essere curati". Il tema, com'è noto, è relativo alla scelta di quali pazienti curare e quali no: scelta difficile e sofferta ma, in alcuni casi, indispensabile perché purtroppo non ci sono macchinari per tutti quanti ne avrebbero bisogno. "I medici devono decidere chi intubare e chi no - prosegue Gori - è una cosa drammatica che può straziare ogni medico, nonostante l'impegno pazzesco la situazione è ad un livello di gravità. Ci si deve preparare, noi stessi abbiamo tardato un po'. Chi ha la fortuna di non essere tra i primi a essere investiti da questa epidemia ha un vantaggio e deve sfruttarlo".

Giorgio Gori scrive su Twitter: pazienti «lasciati morire». Poi si scusa. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Monica Guerzoni. Un post di Giorgio Gori ha scatenato, nella giornata di mercoledì, notevoli polemiche. Il sindaco di Bergamo, la cui provincia ha il record di contagiati da coronavirus (1472, al 10 marzo: il cluster di Alzano Lombardo è uno dei più misteriosi e persistenti di questa epidemia), ha scritto su Twitter che «il dato dei pazienti in terapia intensiva può trarre in inganno»: se l’epidemia sembra frenare è «solo perché non ci sono più posti in terapia intensiva». Poi la frase che ha destato sgomento: «I pazienti che non possono essere trattati sono lasciati morire». Parole che riecheggiano il drammatico documento degli anestetisti rianimatori circolato giorni fa - oltre che le parole dell’anestesista di Bergamo Christian Salaroli raccolte sul Corriere da Marco Imarisio — e che hanno destato sorpresa in Parlamento, nel Pd e tra molti cittadini. Poco più tardi lo stesso Gori si è scusato con i suoi follower: «È quello che hanno raccontato diversi medici impegnati nel fronteggiare l’emergenza nei nostri ospedali. Ma avrei dovuto dirlo con maggiore delicatezza. Mi scuso». Ma se molti polemizzano e Selvaggia Lucarelli tranquillizza («Ho chiesto a un medico che lavora giorno e notte a Crema e ha smentito categoricamente»), tanti scrivono che «Gori ha ragione, bisogna dire la verità».

Il primario: "Qui ora è come un terremoto. Perché rischiamo la catastrofe". L'avvertimento lanciato: "La Lombardia ormai è l'epicentro di un terremoto che sembra non finire mai. State in casa per evitare la catastrofe". Luca Sablone, Giovedì 12/03/2020 su Il Giornale. Sottovalutata in molti all'inizio, la situazione Coronavirus in Italia sta provocando ingenti danni e limitazioni. Dopo il secondo mezzo giro di vite adottato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte, si fa fiducia sul buonsenso e sul rispetto delle regole da parte dei cittadini. Anche perché se la situazione dovesse ulteriormente degenerare, a rimetterci sarebbe il personale medico e sanitario. Non a caso il primario della medicina d'urgenza dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ha definito la Lombardia "l'epicentro di un terremoto che sembra non finire mai". Ogni pomeriggio arriva puntuale "una scossa e gli ospedali scoppiano". E il tutto potrebbe presto cedere: "Se non riusciamo a trovare subito altri letti, più medici e infermieri, in queste condizioni possiamo resistere ancora per poco". L'auspicio è che l'ondata nuova cali: "Altrimenti il sistema sanitario va verso il collasso". Il milanese Roberto Cosentini ha paragonato l'emergenza Covid-19 a un sisma a causa della ciclicità delle crisi: "Nei primi giorni del contagio, gli infetti erano spalmati lungo tutta la giornata e si presentavano con febbri leggere e bronchiti modeste. Adesso seguono il picco febbrile del pomeriggio e arrivano già con polmoniti gravi, che richiedono terapie intensive e respirazione assistita". Il contesto rimane molto delicato: mentre in una polmonite normale i pazienti riescono a sfebbrarsi solitamente entro quattro giorni, nel caso del Coronavirus "siamo in media tra otto e dieci giorni". Ora bisogna assolutamente accelerare la creazione di posti letto: il rischio è quello "di non poter più accogliere e curare chi rischia la vita".

"La società sarà irriconoscibile". Nell'intervista rilasciata a La Repubblica, il direttore del centro Emergenza di alta specializzazione (Eas) ha spiegato la nuova riorganizzazione in occasione di uno scenario che è già diverso rispetto all'inizio. I contagiati sono divisi in tre categorie, che vanno ridistribuite in strutture diverse poiché il sistema potrebbe non reggere: "Gli intubati, quelli che hanno bisogno di una ventilazione sub-intensiva e i pazienti meno gravi". Inevitabilmente i turni di lavoro hanno subito una vera e propria rivoluzione: "Tra medici e infermieri siamo 26, per ora uno solo si è ammalato. Un rianimatore, vestito con la tuta impermeabile, non resiste più di 6 ore: oggi ne fa 10 o 12". Anche loro con il camice plastificato e le protezioni non traspiranti, da 7 ore sono arrivati a 12 e dovranno resistere ancora per settimane. Dunque hanno deciso di dividersi in tre turni alleggerendo quello di notte: "Il virus insegna che l'onda monta nel pomeriggio". Infine il primario ha parlato di quello che potrebbe essere lo scenario futuro una volta terminata l'emergenza Coronavirus: "Una sanità totalmente diversa e anche una società irriconoscibile. Le nostre città e il nostro modo di vivere non potranno essere più quelli di prima". Perciò continua a "scongiurare le persone di restare a casa": non soltanto per fornire un aiuto concreto ai medici, ma anche "per evitare di essere sconvolte da una catastrofe reale".

Giampaolo Visetti per repubblica.it il 12 marzo 2020. «La Lombardia ormai è l'epicentro di un terremoto che sembra non finire mai. Ogni pomeriggio arriva una scossa e gli ospedali scoppiano. Se non riusciamo a trovare subito altri letti, più medici e infermieri, in queste condizioni possiamo resistere ancora per poco». Roberto Cosentini, milanese, 60 anni, è il primario della medicina d' urgenza dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo e dirige il centro Emergenza di alta specializzazione (Eas), all' avanguardia in Italia nello studio della ventilazione non invasiva. Da quasi tre settimane, assieme ai 26 medici e infermieri della sua équipe, non lascia il reparto, prima linea nazionale della lotta contro il Covid-19. Cosentini è un clinico esperto e pacato, proprio a Wuhan si è confrontato con i colleghi cinesi sulla crisi dei problemi respiratori acuti. Per la prima volta però, anche in lui «una profonda preoccupazione» affianca ora la fiducia. «Il problema - dice a Repubblica - è che la dinamica innescata dal coronavirus è già cambiata. Adesso arrivano nel mio ospedale 60-80 contagiati al giorno. Sempre di più, ma in particolare tutti insieme, tutti gravi, di ogni età e fino a prima del contagio sani e forti. Se questa ondata nuova non cala, il sistema sanitario va verso il collasso: innescato da quella che possiamo paragonare ad una catastrofe naturale».

Perché equipara la nuova emergenza a un terremoto?

«Per la ciclicità delle crisi. Nei primi giorni del contagio, gli infetti erano spalmati lungo tutta la giornata e si presentavano con febbri leggere e bronchiti modeste.

Adesso seguono il picco febbrile del pomeriggio e arrivano già con polmoniti gravi, che richiedono terapie intensive e respirazione assistita. Ogni giorno tre le 16 e le 18 arriva una scossa, ossia un' ondata di urgenze concentrate. Una situazione simile si verifica solo durante i terremoti: questa volta però siamo alla terza settimana e non si vede la fine».

Qual è la causa del mutamento?

«I primi ad essere aggrediti dal virus sono stati gli anziani con una somma di patologie. Adesso il contagio attacca anche i giovani e i più sani, quelli che hanno resistito a casa più a lungo, curandosi con i farmaci conosciuti. Non siamo più alle influenze leggere, questa è l' ora delle polmoniti più gravi».

Perché prevede di non poter resistere più di qualche giorno?

«In una polmonite normale, i pazienti si sfebbrano nel giro di tre o quattro giorni. In quella da Covid-19 siamo in media tra otto e dieci giorni. In terapia intensiva i letti dei contagiati restano occupati il triplo, un tempo senza precedenti. Dobbiamo accelerare ancora la creazione di posti letto: il rischio è non poter più accogliere e curare chi rischia la vita».

Come vi state preparando a uno scenario che è già diverso rispetto all' inizio?

«Dividiamo i contagiati in tre categorie: gli intubati, quelli che hanno bisogno di una ventilazione sub-intensiva e i pazienti meno gravi. Queste tre categorie vanno ridistribuite in strutture diverse. Se restano nello stesso ospedale, il sistema non regge».

Quale soluzione propone?

«Se penso a Bergamo, a Milano e alle zone più colpite del Nord, da Piacenza a Cremona, si devono liberare subito spazi per le terapie sub-acute. Non bastano le strutture private e gli ospedali militari: vanno liberate e riorganizzate le case per anziani, o i centri che accolgono i non autosufficienti. Forse all' esterno non sono ancora chiare le quantità di contagiati che si stanno accumulando dentro gli ospedali. Mi preoccupa molto il pensiero di un simile scenario trasferito presto in altre regioni del Paese, in particolare al Sud».

Voi come vi siete organizzati?

«Abbiamo rivoluzionato i turni. Tra medici e infermieri siamo in 26, per ora uno solo si è ammalato. Un rianimatore, vestito con la tuta impermeabile, non resiste più di sei ore: oggi ne fa dieci o dodici. Anche tutti noi, con il camice plastificato e le protezioni non traspiranti, da sette ore arriviamo a dodici. Resistiamo dal 21 febbraio, ma saremo costretti a non cedere per settimane. Così ci siamo divisi in tre turni alleggerendo quello di notte: il virus insegna che l' onda monta nel pomeriggio».

Ha notato altri mutamenti nel contagio?

«Stiamo imparando molto. Le sorprese più impattanti sono la lunghezza dei tempi di guarigione, l' aggressività del virus e la gravità delle polmoniti che si manifestano ora: questo sta facendo la differenza rispetto alle prime previsioni».

Perché l' Italia è tanto colpita?

«Non lo sappiamo e non è detto che tra qualche giorno questo dato resti reale. Non sappiamo nemmeno con certezza se un contagiato guarito può contrarre il virus di nuovo e in quale forma. I colleghi di tutta Europa ci stanno chiedendo dati e informazioni per non farsi trovare impreparati».

Cosa lascerà il Covid-19?

«Una sanità totalmente diversa e anche una società irriconoscibile. Le nostre città e il nostro modo di vivere non potranno più essere quelli di prima. Per questo mi permetto di scongiurare le persone di restare in casa: sappiano che non lo fanno per aiutare noi medici, ma per evitare di essere sconvolte da una catastrofe reale».

Gian Carlo Caselli per il “Fatto quotidiano” l'11 marzo 2020. La "Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva" (Siaarti) ha diffuso un documento indirizzato al governo che avrebbe meritato una discussione più ampia. Dichiaro subito che sono ormai vicino agli 81 anni, per cui confesso che attendersi da me del distacco emotivo o una disattivazione della sfera dei sentimenti è assurdo, come dire che il vino prodotto nelle Langhe vale quanto gli ignobili intrugli dei wine kit. Nello stesso tempo non intendo appellarmi (sarebbe stolida arroganza) all' autorità o saggezza che solitamente si ritengono essere diretta conseguenza dell' età. Debbo anzi superare il timore reverenziale che la denominazione stessa (obiettivamente fragorosa) della "Società" suscita in me; consapevole come sono che quando comincia l' algoritmo - anche quello medico/sanitario - io mi perdo. So pure che il destino dei figli degli uomini è (citando José Saramago) "dall'argilla all'argilla, dalla polvere alla polvere, dalla terra alla terra, nulla comincia che non debba finire, nulla finisce che non cominci". E tuttavia non riesco a liberarmi dalla sensazione che quel documento contenga una nota stonata nei confronti dei vecchi come me. In sostanza esso sostiene che prima o poi, perdurando la disastrosa emergenza del coronavirus, sarà necessario fissare un limite di età per l' accesso alle terapie intensive, basato sulle maggiori possibilità di sopravvivenza e sul fatto di avere più anni di vita salvata. Non è proprio l' invito a selezionare gli ingressi in ospedale stilando liste differenziate a seconda dell'età, fino a prevedere una specie di "proscrizione" dei più vecchi e malandati, ma un poco ci assomiglia. Il documento si preoccupa di avvertire che affrontare il tema dell' accessibilità o meno alle cure intensive può essere moralmente ed emotivamente difficile. È ovviamente giusto porsi anche questo problema. I medici della "Siaarti" lo risolvono dicendo che il loro è solo un tentativo di illuminare il processo decisionale del singolo anestesista/rianimatore (che sia posto di fronte al dilemma di chi "privilegiare" quando non vi sia possibilità di trattamento intensivo per tutti), offrendogli un piccolo supporto che potrebbe contribuire a ridurne l' ansia, lo stress e soprattutto il senso di solitudine. Bene, ma col difetto di trascurare l' ansia, lo stress e il senso di solitudine che il documento non può non provocare nei vecchi, specie se malandati. I quali, trovandoselo squadernato dai media, poiché esso sembra (forse al di là delle intenzioni) escludere di fatto ogni residuo spazio di speranza, inevitabilmente saranno portati a rimuginare sul triste destino senza scampo che potrebbe loro toccare, quando l' eventuale ricovero in ospedale non fosse più per curarli ma soltanto per sostituire ai medici il decorso del tempo necessario a morire. Intendo dire che, imperniando il ragionamento sulle aspettative di vita e circoscrivendolo in quest' ambito, si finisce per trascurare il profilo altrettanto se non più importante della qualità della vita dei vecchi, che sebbene ormai breve, non merita assolutamente di essere avvelenata da angosce indotte che si aggiungano a quelle fisiologiche. Questo, a mio avviso, il difetto del documento dei medici. Cui si debbono peraltro riconoscere vari pregi: l' evocazione nient' affatto retorica dell' abnegazione di cui medici e infermieri danno quotidianamente prova; la perentoria raccomandazione alla comunità tutta di starsene quanto più possibile in casa per evitare sviluppi catastrofici; la sacrosanta richiesta di aumentare i posti e potenziare le attrezzature in rianimazione; la motivata prospettazione dei pericoli di ricaduta dell' emergenza (se non adeguatamente fronteggiata) sul sistema sanitario intero e non solo sul versante dei pazienti vecchi. Che tuttavia, per concludere, non debbono di certo sopportare - per statuto - colpe che non hanno. E neppure un' etica clinica quantomeno apodittica.

Il piano per liberare posti letto in Lombardia: dimissioni lampo per i casi stabili. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Simona Ravizza. È corsa in Lombardia a liberare letti d’ospedale per altri malati, gli ennesimi: «Il paziente Covid-19 non ha febbre da tre giorni e ha una frazione ispirata di ossigeno superiore a 300? Fuori subito dalla terapia intensiva»; «Il casco per respirare è stato tolto da 72 ore? Anche lui fuori dalla rianimazione»; «Un malato cronico che in più ha il Covid-19 ma che si è stabilizzato? Via dal reparto ospedaliero». I primi saranno trasferiti in strutture tipo quelle specializzate in riabilitazione pneumologica, i secondi in strutture sociosanitarie (come le case per anziani) che diventeranno dedicate ai malati di coronavirus. Lo stesso vale per chi non è colpito dal contagio ma ha patologie respiratorie, cardio-respiratorie, neurologiche o neuromuscolari: dimissioni il prima possibile per coloro che hanno sufficiente stabilità clinica, assenza di aritmie minacciose per la vita, emoglobina superiore a 7 grammi/decilitro, temperatura inferiore a 37 °C, normale conta piastrinica e dei globuli bianchi, assenza di indicazioni chirurgiche ed embolia polmonare ad alto rischio. Anche loro tutti spostati nelle strutture di solito dedicate alle cure extra-ospedaliere, ossia per i non acuti. Al di là dei tecnicismi, il messaggio che arriva dalla delibera approvata domenica dalla Regione Lombardia con una giunta straordinaria guidata da Attilio Fontana e dall’assessore alla Sanità Giulio Gallera, è chiaro: «I posti delle terapie intensive e degli ospedali per acuti vanno liberati velocemente per fare posto ad altri malati». Solo domenica si contano 556 positivi al tampone in più ricoverati nei reparti e 40 in più nelle rianimazioni. Ormai i letti per i pazienti più gravi, aperti anche nelle sale operatorie, nei corridoi e nelle stanze di risveglio, sono 497: «Ma non facciamo in tempo a crearli, con ristrutturazioni complesse perché devono essere completamente isolati, che già sono pieni e in più c’è chi rischia di aggravarsi da un momento all’altro e che deve avere un posto libero dove andare», ripetono come un mantra gli esperti dell’Unità di crisi. Non possono essere dimenticati gli altri, anche loro bisognosi delle rianimazioni: 20-25 posti letto in terapia intensiva servono per i 38 incidenti gravi a settimana che coinvolgono per lo più i giovani, poi ci sono 100-120 emorragie cerebrali (o simili), 154 urgenze cardiologiche e 50 pazienti cardiochirurgici da piazzare, sempre a settimana. È tutta in questi numeri l’emergenza della Lombardia che per fare fronte all’onda d’urto dei malati è costretta a reinventarsi la rete ospedaliera: «A fronte della necessità di liberare rapidamente posti letto di terapia intensiva, sub intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti — si legge nel provvedimento adottato domenica da Regione Lombardia —, occorre mettere a disposizione del sistema regionale i posti letto delle “cure extra ospedaliere” (sub-acuti, post-acuti, riabilitazione specialistica sanitaria in particolare pneumologica, cure intermedie intensive, posti letto nelle residenze sanitarie per anziani)». Nel bollettino quotidiano, di giorno in giorno più drammatico, il 65% dei ricoverati è over 65, il 35% più giovane. Per tutti l’assessore Gallera parla di una ricerca affannosa di letti in un sistema ospedaliero che, nonostante gli sforzi di medici, infermieri e organizzazione politico-sanitaria, rischia il collasso. Cremona, Lodi, Bergamo sono tra i primi ospedali a rischiare di non farcela più, con il trasferimento dei malati più gravi verso altre strutture. Adesso è sotto stress tutto il sistema: «Il pericolo è di una catastrofe sanitaria», è lo sfogo degli ultimi giorni dei medici delle rianimazioni, abituati per mestiere a tenere i nervi saldi. Su 108 pubblici e 42 privati accreditati, gli ospedali dedicati ad altre malattie adesso sono 18 (il provvedimento approvato domenica dalla giunta definisce chi fa cosa). Tutti gli altri sono chiamati a occuparsi dei pazienti di coronavirus. In una Lombardia dove da domani sono sospese anche le attività ambulatoriali non indispensabili e dove ormai le équipe sanitarie, affiancate dai medici dell’esercito, si spostano da una struttura all’altra a seconda delle necessità.

Lettera di Daniele Macchini - Medico di Bergamo - a “la Verità” l'8 marzo 2020. Dopo aver pensato a lungo se e cosa scrivere di ciò che ci sta accadendo, ho ritenuto che il silenzio non fosse da responsabili. Capisco la necessità di non creare panico, ma quando il messaggio della pericolosità di ciò che sta accadendo non arriva alle persone e sento ancora chi se ne frega delle raccomandazioni e gente che si raggruppa lamentandosi di non poter andare in palestra o poter fare tornei di calcetto rabbrividisco. Bene, la situazione ora è a dir poco drammatica. Non mi vengono altre parole in mente. Uno dopo l' altro i poveri malcapitati si presentano in pronto soccorso. Hanno tutt' altro che le complicazioni di un' influenza. Non respirano abbastanza, hanno bisogno di ossigeno. Le terapie farmacologiche per questo virus sono poche. Il decorso dipende prevalentemente dal nostro organismo. Noi possiamo solo supportarlo quando non ce la fa più. Si spera prevalentemente che il nostro organismo debelli il virus da solo, diciamola tutta. Ora però è arrivato quel bisogno di posti letto in tutta la sua drammaticità. Uno dopo l' altro i reparti che erano stati svuotati, si riempiono a un ritmo impressionante. I tabelloni con i nomi dei malati, di colori diversi a seconda dell' unità operativa di appartenenza, ora sono tutti rossi e al posto dell' intervento chirurgico c' è la diagnosi, che è sempre la stessa maledetta: polmonite interstiziale bilaterale. Ora, spiegatemi quale virus influenzale causa un dramma così rapido. Perché quella è la differenza (ora scendo un po' nel tecnico): nell' influenza classica, a parte contagiare molta meno popolazione nell'arco di più mesi, i casi si possono complicare meno frequentemente, solo quando il virus distruggendo le barriere protettive delle nostre vie respiratorie permette ai batteri normalmente residenti nelle alte vie di invadere bronchi e polmoni provocando casi più gravi. Il Covid-19 causa una banale influenza in molte persone giovani, ma in tanti anziani (e non solo) una vera e propria Sars perché arriva direttamente negli alveoli dei polmoni e li infetta rendendoli incapaci di svolgere la loro funzione. L' insufficienza respiratoria che ne deriva è spesso grave. E mentre ci sono sui social ancora persone che si vantano di non aver paura ignorando le indicazioni, protestando perché le loro normali abitudini di vita sono messe «temporaneamente» in crisi, il disastro epidemiologico si va compiendo. E non esistono più chirurghi, urologi, ortopedici, siamo unicamente medici che diventano improvvisamente parte di un unico team per fronteggiare questo tsunami che ci ha travolto. I casi si moltiplicano, arriviamo a ritmi di 15-20 ricoveri al giorno tutti per lo stesso motivo. I risultati dei tamponi arrivano uno dopo l' altro: positivo, positivo, positivo. Improvvisamente il pronto soccorso è al collasso. Le disposizioni di emergenza vengono emanate: serve aiuto in pronto soccorso. La schermata del pc con i motivi degli accessi è sempre la stessa: febbre e difficoltà respiratoria, febbre e tosse, insufficienza respiratoria. Gli esami, la radiologia sempre con la stessa sentenza: polmonite interstiziale bilaterale. Tutti da ricoverare. Qualcuno già da intubare e va in terapia intensiva. Per altri invece è tardi. La terapia intensiva diventa satura, e dove finisce la terapia intensiva se ne creano altre. Ogni ventilatore diventa come oro: quelli delle sale operatorie che hanno ormai sospeso la loro attività non urgente diventano posti da terapia intensiva che prima non esistevano. Ho trovato incredibile come si sia riusciti a mettere in atto in così poco tempo un dispiego e una riorganizzazione di risorse così finemente architettata per prepararsi a un disastro di tale entità. Quei reparti che prima sembravano fantasmi ora sono saturi, pronti a cercare di dare il meglio per i malati, ma esausti. Il personale è sfinito. Ho visto la stanchezza su volti che non sapevano cosa fosse nonostante i carichi di lavoro già massacranti che avevano. Ho visto le persone fermarsi ancora oltre gli orari a cui erano soliti fermarsi già, per straordinari che erano ormai abituali. Medici che spostano letti e trasferiscono pazienti, che somministrano terapie al posto degli infermieri. Infermieri con le lacrime agli occhi perché non riusciamo a salvare tutti e i parametri vitali di più malati contemporaneamente rilevano un destino già segnato. Non esistono più turni, orari. La vita sociale per noi è sospesa. È da due settimane che volontariamente non vedo né mio figlio né miei familiari per la paura di contagiarli. Mi accontento di qualche videochiamata. Perciò abbiate pazienza anche voi che non potete andare a teatro, nei musei o in palestra. Cercate di aver pietà per quella miriade di persone anziane che potreste sterminare. Non è colpa vostra, lo so, ma di chi vi mette in testa che si sta esagerando. Non andate in massa a fare scorte nei supermercati: è la cosa peggiore perché così vi concentrate ed è più alto il rischio di contatti con contagiati che non sanno di esserlo. Siamo dove le vostre paure vi potrebbero far stare lontani. Cercate di fare in modo di stare lontani. Dite ai vostri familiari anziani o con altre malattie di stare in casa. Portategliela voi la spesa per favore. Noi non abbiamo alternativa. È il nostro lavoro.

Matteo Zorzoli per it.businessinsider.com il 7 marzo 2020. La terapia intensiva è la prima linea nella battaglia al virus che sta piegando l’Italia. Secondo l’ultimo bollettino diramato dal Ministero della Salute, in Lombardia, la regione più colpita dal Covid-19, i pazienti che al momento presentano i sintomi più gravi e necessitano un ricovero in uno di questi reparti sono 244, il 13% dei casi positivi totali. Nel Paese in media un contagiato su 10 ha bisogno di cure invasive per debellare l’infezione. Numeri destinati a crescere stando alla curva epidemiologica elaborata dagli esperti dell’Unità di Crisi della sola Regione Lombardia che parlano di 8.000 contagi entro il 22 marzo. Di questi, 1250 potrebbero risultare critici. Una crisi sanitaria che non ha eguali dal Dopoguerra. Considerando che i posti letto delle terapie intensive lombarde sono 900 tra strutture pubbliche e private accreditate, si tratta di una corsa contro il tempo iniziata lo scorso 1° marzo quando il Ministero della Salute ha pubblicato una circolare che prevede «un incremento del 50% dei posti in terapia intensiva e del 100% nelle unità di Pneumologia e Malattie infettive». Il documento indica anche la «necessità di una rimodulazione locale delle attività ospedaliere». L’idea è quella di trasformare interi reparti destinati ad altri ricoveri, così come avvenuto nell’ospedale di Cremona, il primo che ha affrontato l’emergenza del focolaio di Codogno del 21 febbraio, in cui gli spazi di Chirurgia multidisciplinare e specialistica e di Medicina interna, comprese alcune sale operatorie, sono state attrezzati per affrontare i pazienti più gravi di Coronavirus, come riferito a Business Insider Italia da una fonte interna. “La maggior parte delle strutture ospedaliere in questi giorni hanno radicalmente modificato la propria organizzazione – spiega Stefano Magnone, segretario generale di ANAAO-ASSOMED Lombardia e chirurgo dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII, un altro tra i più colpiti  – Il 15% dei posti letto liberi nelle terapie intensive in periodi normali, quota fisiologica, è ormai coperto. E’ stato raggiunto qualche giorno fa il livello di saturazione. Le indicazioni regionali prevedono per gli ospedali medio-piccoli la diminuzione del 70% dell’attività chirurgica programmata, mentre per i grandi centri del 50%. Tutto questo per reclutare personale e avere a disposizione respiratori automatici”. Uno scenario di assoluta emergenza che prevede anche il coinvolgimento di medici di aree sanitarie limitrofe e l’assunzione di personale attraverso l’istituzione di “bandi lampo” da parte di alcune aziende ospedaliere. In questo senso la domanda sorge spontanea: quanto costa allo Stato un paziente grave affetto da Covid-19? Come evidenziato dall’ESICM (European Society of Intensive Care Medicine) la terapia intensiva è la specialità medica che supporta i pazienti la cui vita è in pericolo immediato. «Nel caso dell’infezione derivante da Coronavirus può rendersi necessaria per fornire ventilazione artificiale a causa delle gravi difficoltà respiratorie che il patogeno può innescare – spiega Giuliano Rizzardini, virologo dell’Unità di Crisi del Sacco di Milano – La terapia applicata è quindi quella di supporto ad una polmonite tradizionale che va dalla prevenzione di complicanze alla nutrizione per i pazienti che non possono mangiare da soli. A questa va aggiunto il consumo della protezione individuale del personale che è forse il problema principale che stiamo affrontando oltre a quello dei posti letto: alcuni ospedali fanno fatica ad approvvigionarsi. Le protezioni sono tutte mono-uso, il singolo operatore che lavora in un reparto a regime Covid si cambia più volte all’interno del turno perché i dispositivi perdono di efficacia dopo alcune ore. E la situazione è resa ancora più drammatica dal rapporto personale/paziente che molto più alto rispetto ad un reparto normale. Questo mette a rischio il sistema, in quanto una dotazione non sufficiente mette a repentaglio la salute dei dipendenti, chiaramente molto più esposti al contagio». Ai costi fissi ordinari e alla vestizione del personale, si aggiunge una terapia antivirale basata su due farmaci: il Ritonavir, utilizzato anche per l’infezione da Hiv  ed il Remdesivir, prescritto per l’epatite e potenzialmente attivo contro il nuovo virus. “Se la vulgata medica attesta il costo medio giornaliero di un paziente in terapia intensiva intorno ai 1.200/1.300 euro. – conclude Magnone – Nel caso specifico del Covid-19 va aggiunto un 20%, per cui si arriva almeno a 1.500. Considerato un periodo di degenza medio di due settimane, un paziente con complicanze derivanti da Coronavirus può costare più di 20.000 euro allo Stato”. Anche per far fronte a questa voce di spesa, dunque, il governo punterà a destinare circa un miliardo da destinare al Servizio sanitario nazionale con un nuovo decreto anti-epidemia il più presto possibile.

Da video.lastampa.it l'8 marzo 2020. "Bisogna stare a casa", è questo il succo dell'appello di Barbara Balanzoni, medico anestesista rianimatore, sull'emergenza coronavirus. "C'è troppa gente in giro. Lo dico chiaramente - spiega sul suo profilo Facebook - perché a volte cercare di essere empatici non rende l'idea: non ci sono i posti nelle rianimazioni, non ci sono abbastanza respiratori. I posti in rianimazione sono un numero, i pazienti che hanno bisogno di rianimazione sono e saranno di più: l'unica cosa che si può fare in caso in cui non ci siano abbastanza respiratori è bloccare le sale operatorie, vuol dire che chi deve essere operato non può essere operato. Se continuate a stare assembrati nei bar, nelle discoteche, se continuate a fare la vostra vita come sempre, aumenterete il numero di contagi".

Alberto Giannoni per “il Giornale” l'8 marzo 2020. «Calamità sanitaria». La Lombardia, ora, è a un passo dal baratro. Lo dicono i numeri e lo certificano gli appelli delle autorità sanitarie e istituzionali: gli ospedali sono saturi e senza un calo dei contagi subito si profilerà presto lo scenario più temuto: sarà impossibile curare tutti. Per questo da ieri è cominciato il trasferimento dei pazienti - non positivi - in altre regioni. Il sistema sanitario lombardo è allo stremo: i letti in terapia intensiva non bastano, la Regione sta facendo i salti mortali e un' ipotesi accreditata calcola in 4-5 giorni al massimo il tempo che resta, prima del temuto disastro. «Disastrosa calamità sanitaria» è la definizione che usa il coordinamento delle terapie intensive lombarde. Questi medici, in prima linea nella strenua battaglia contro i contagi, denunciano «una situazione al limite», una «pressione oltre ogni misura». «Le attività ambulatoriali, la Chirurgia non urgente, i ricoveri nelle medicine - si legge nel documento inviato alla Regione - si sono ridotte a livelli prossimi allo zero». Il riallestimento dei reparti prosegue, come l' arruolamento di medici e infermieri. La Regione ha annunciato che intende richiamare anche i medici laureati e non specializzati, e gli specializzandi del primo, secondo e terzo anno. «L' intera rete delle terapie intensive - si legge nel documento - si lavora con grande fatica per assistere malati gravi e gravissimi, la cui vita dipende da apparecchiature tecnologicamente complesse disponibili purtroppo in numero limitato». «Anche per questo motivo - prosegue il documento - è assolutamente necessaria l' immediata adozione di drastiche misure finalizzate a ridurre i contatti sociali e utili al contenimento dell' epidemia». «In assenza di tempestive e adeguate disposizioni delle autorità - conclude drammaticamente il documento - saremo costretti ad affrontare un evento che potremo solo qualificare come una disastrosa calamità sanitaria». La Regione chiede nuove zone rosse, nella Bergamasca e nel Cremonese ma si parla di un superamento della stessa idea di «zona rossa». I contagiati in Lombardia sono giunti a quota 3.400. Il giorno prima erano 2.612 ma 300 casi del Bresciano di ieri sono stati entrati nel computo di oggi. L' assessore regionale, Giulio Gallera, ha annunciato che i ricoverati in terapia intensiva sono 359, quelli in altri reparti 1.661, mentre le persone dimesse sono arrivate a 524 e i deceduti, purtroppo, a 154. È una corsa contro il tempo. In Lombardia l' epidemia è partita prima che altrove, 15 giorni fa, la Lombardia resta la Regione più esposta e per evitare il baratro tutti stanno producendo ogni sforzo, «oltre l' immaginabile» come ha spiegato Gallera. Tutti raccomandano ai cittadini - con toni sempre più accorati - di restare a casa, di evitare occasioni di contatto - e di contagio - di rallentare al massimo la vita sociale. Una «rarefazione della vita sociale» che ieri, in una giornata meteorologicamente bella, a Milano e in altre località non è vista. L' sos sanitario è al livello massimo e impone un intervento di solidarietà del resto del Paese. Questo aiuto si è già concretizzato. «La Regione Lombardia - ha annunciato ieri il commissario per l' emergenza Coronavirus - chiederà di trasferire fuori Regione un numero di pazienti e la scelta che si è fatta è di trasferire pazienti non positivi». «Per quanto riguarda il numero dei posti letto - ha spiegato - abbiamo posti in Piemonte, Liguria, Veneto. In riferimento alla Lombardia guardiamo ai posti più vicini. Stiamo lavorando per incrementare il numero dei posti letto in terapia intensiva e subintensiva, cercando soluzioni interne al nostro Paese».

Chiara Baldi per “la Stampa” il 9 marzo 2020. «Persone che fino a tre settimane fa avremmo salvato ora muoiono. È una guerra». La cronaca spicciola è di uno specializzando dell' ospedale di Bergamo che chiede di rimanere anonimo. «Nelle ultime 48 ore ne ho dormite tre», dice, perché da 17 giorni è finito nell' emergenza da coronavirus in cui è sprofondata la Lombardia. «C' è anche l' ondata di colleghi contagiati», racconta, «e fa impressione ricoverare chi fino a un giorno prima era con te dall' altra parte della linea rossa». I medici non sono immuni al virus e fino a qualche giorno fa erano il 12 per cento del totale. Poi, si è perso il conto. Negli ospedali in prima linea - Lodi, Crema, Cremona, ma anche il Papa Giovanni XXIII di Bergamo - si attendono da giorni medici e infermieri in soccorso di chi da settimane lavora anche 15 ore di fila. In particolare, tra domani e mercoledì sono stati annunciati 250 infermieri. Ma oggi sono pochissimi. Al nosocomio di Bergamo «i pochi arrivati sono insufficienti al bisogno». Idem all' ospedale di Cremona dove, a parte il medico della Ong, di rinforzi non se ne sono visti. «Abbiamo fatto un bando per medici e uno per infermieri ma non è andato un granché», commenta Rosario Canino, direttore sanitario dell' Asst di Cremona. Che si rivolge al Governo: «Dove sono finiti i medici nel limbo tra laurea e specialità? Servono professionisti anche con meno esperienza. Ma ci servono. Visitare un paziente Covid19 è impegnativo: devi mettere lo scafandro, entrare nella stanza, visitarlo, uscire e spogliarti e per eseguire tutta questa procedura abbiamo bisogno di tanta gente, perché è molto faticoso». A Milano, dove i contagi sono 171, in crescita, la situazione non è migliore. Spiega Antonio Pesenti, direttore dell' Unità operativa complessa Anestesia e Rianimazione adulti del Policlinico: «Abbiamo parlato molto della necessità di ampliare i posti letto nelle terapie intensive ed è chiaro che questo bisogno resta. Ma dobbiamo anche renderci conto che, per ogni posto letto in più in questo reparto, servono professionisti in grado di svolgere quel lavoro. Al momento non ne abbiamo». Pesenti sottolinea in particolare l' importanza degli infermieri: «Il dottore visita e prescrive la terapia ma poi è l' infermiere che sta accanto al letto del paziente». Quello del personale sanitario è un problema che si aggiunge al già drammatico stato delle terapie intensive. «Abbiamo ricavato 457 posti letto», ha assicurato l' assessore al Welfare Giulio Gallera, snocciolando i numeri: 399 i pazienti Covid19 in terapia intensiva, 40 in più rispetto al giorno precedente. Per questo, la Regione ha rimodulato la sua strategia, individuando 18 hub dedicati alla gestione dei grandi traumi, delle urgenze neurochirugiche, neurologiche e cardiovascolari lasciando altri 90 ospedali "a prevalenza Covid19". «L' obiettivo», ha detto, «è creare maggiore disponibilità negli altri ospedali per i pazienti con coronavirus». Gli hub ospiteranno pazienti con infarti, ictus e patologie non riconducibili al virus e dovranno, nel contempo, creare un «percorso separato per i pazienti Covid19». Intanto ieri in Lombardia c'è stato il dato più alto di decessi in un giorno: 113, per un totale di 267 dal 21 febbraio. Gli ospedalizzati, senza la terapia intensiva, sono 2217. Sabato erano 1661. Ma per Gallera c' è un solo modo per sconfiggere il virus: «Ridurre drasticamente le attività sociali, rimanere a casa e avere una distanza adeguata dagli altri. Non ci sono vaccini e farmaci». 

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2020. «All' interno del Pronto soccorso è stato aperto uno stanzone con venti posti letto, che viene utilizzato solo per eventi di massa. Lo chiamiamo Pemaf, ovvero Piano di emergenza per il maxi-afflusso. È qui che viene fatto il triage, ovvero la scelta». Non è un colloquio facile, quello con Christian Salaroli, 48 anni, una moglie, due figli, dirigente medico, anestesista rianimatore dell' ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, uno dei più sollecitati di queste settimane, distante appena sette chilometri dal cluster di Alzano Lombardo, uno dei più misteriosi e persistenti di questa epidemia. Non lo è per l' argomento che tratta, non lo è per l' emotività che ci scorre dentro, che abbiamo il dovere di asciugare, anche se pure dice molto di quello che sta avvenendo dove si combatte per davvero. «Si decide per età, e per condizioni di salute. Come in tutte le situazioni di guerra. Non lo dico io, ma i manuali sui quali abbiamo studiato».

Allora è vero?

«Certo che lo è. In quei letti vengono ammessi solo donne e uomini con la polmonite da Covid-19, affetti da insufficienza respiratoria. Gli altri, a casa».

Poi cosa succede?

«Li mettiamo in ventilazione non invasiva, che si chiama Niv. Il primo passo è quello».

E gli altri passi?

«Vengo al più importante. Al mattino presto, con i curanti del Pronto soccorso, passa il rianimatore. Il suo parere è molto importante».

Perché conta così tanto?

«Oltre all' età e al quadro generale, il terzo elemento è la capacità del paziente di guarire da un intervento rianimatorio».

Di cosa stiamo parlando?

«Questa indotta dal Covid-19 è una polmonite interstiziale, una forma molto aggressiva che impatta tanto sull' ossigenazione del sangue. I pazienti più colpiti diventano ipossici, ovvero non hanno più quantità sufficienti di ossigeno nell' organismo».

Quando arriva il momento di scegliere?

«Subito dopo. Siamo obbligati a farlo. Nel giro di un paio di giorni, al massimo. La ventilazione non invasiva è solo una fase di passaggio. Siccome purtroppo c' è sproporzione tra le risorse ospedaliere, i posti letto in terapia intensiva, e gli ammalati critici, non tutti vengono intubati».

A quel punto cosa succede?

«Diventa necessario ventilarli meccanicamente. Quelli su cui si sceglie di proseguire vengono tutti intubati e pronati, ovvero messi a pancia in giù, perché questa manovra può favorire la ventilazione delle zone basse del polmone».

Esiste una regola scritta?

«Al momento, nonostante quel che leggo, no. Per consuetudine, anche se mi rendo conto che è una brutta parola, si valutano con molta attenzione i pazienti con gravi patologie cardiorespiratorie, e le persone con problemi gravi alle coronarie, perché tollerano male l' ipossia acuta e hanno poche probabilità di sopravvivere alla fase critica».

Nient' altro?

«Se una persona tra gli 80 e i 95 anni ha una grave insufficienza respiratoria, verosimilmente non procedi. Se ha una insufficienza multi organica di più di tre organi vitali, significa che ha un tasso di mortalità del cento per cento. Ormai è andato».

Lo lasciate andare?

«Anche questa è una frase terribile. Ma purtroppo è vera.

Non siamo in condizione di tentare quelli che si chiamano miracoli. È la realtà».

Non è sempre così?

«No. Certo, anche in tempi normali si valuta caso per caso, nei reparti si cerca di capire se il paziente può recuperare da qualunque intervento. Adesso questa discrezionalità la stiamo applicando su larga scala».

Chi viene lasciato andare muore di Covid-19 o di patologie pregresse?

«Questa che non muoiono di coronavirus è una bugia che mi amareggia. Non è neppure rispettosa nei confronti di chi ci lascia. Muoiono di Covid-19, perché nella sua forma critica la polmonite interstiziale incide su problemi respiratori pregressi, e il malato non riesce più a sopportare questa situazione. Il decesso è causato dal virus, non da altro».

E voi medici, riuscite a sopportare questa situazione?

«Alcuni ne escono stritolati. Capita al primario, e al ragazzino appena arrivato che si trova di prima mattina a dover decidere della sorte di un essere umano. Su larga scala, lo ripeto».

A lei non pesa essere arbitro della vita e della morte di un essere umano?

«Io per ora dormo la notte. Perché so che la scelta è basata sul presupposto che qualcuno, quasi sempre più giovane, ha più probabilità di sopravvivere dell' altro. Almeno, è una consolazione».

Cosa ne pensa degli ultimi provvedimenti del governo?

«Forse sono un po' generici. Il concetto di chiudere il virus in certe zone è giusto, ma arriva con almeno una settimana di ritardo. Quello che conta davvero è un' altra cosa».

Quale?

«State a casa. State a casa. Non mi stanco di ripeterlo. Vedo troppa gente per strada. La miglior risposta a questo virus è non andare in giro. Voi non immaginate cosa succede qui dentro. State a casa».

C' è carenza di personale?

«Tutti stiamo facendo tutto. Noi anestesisti facciamo turni di supporto nella nostra sala operativa, che gestisce Bergamo, Brescia e Sondrio. Altri medici di ambulanza finiscono in corsia, oggi toccherà a me».

Nello stanzone?

«Esatto. Tanti miei colleghi stanno accusando questa situazione. Non è solo il carico di lavoro, ma quello emotivo, che è devastante. Ho visto piangere infermieri con trent' anni di esperienza alle spalle, Gente che ha crisi di nervi e all' improvviso trema. Voi non sapete cosa sta succedendo negli ospedali, per questo ho deciso di parlare con lei».

Esiste ancora il diritto alla cura?

«In questo momento è minacciato dal fatto che il sistema non è in grado di farsi carico dell' ordinario e dello straordinario al tempo stesso. Così le cure standard possono avere ritardi anche gravi».

Mi fa un esempio?

«Normalmente la chiamata per un infarto viene processata in pochi minuti. Ora può capitare che si aspetti anche per un' ora o più».

Trova una spiegazione a tutto questo?

«Non la cerco. Mi dico che è come per la chirurgia di guerra. Si cerca di salvare la pelle solo a chi ce la può fare. È quel che sta succedendo».

Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2020. «Ormai siamo costretti a creare terapie intensive in corridoio, nelle sale operatorie, nelle stanze di risveglio. Abbiamo sventrato interi reparti d' ospedale per fare posto ai malati gravi. Una delle Sanità migliori del mondo, quella lombarda, è a un passo dal collasso». Antonio Pesenti, 68 anni, è il coordinatore dell' Unità di crisi di Regione Lombardia per le terapie intensive. Elogiato pubblicamente dallo scienziato Alberto Mantovani come uno dei migliori uomini di scienza italiani, è un medico-rianimatore dai nervi saldi, abituato a governare ogni tipo di emergenza. Ma alle nove di sabato sera, dopo 17 giorni di lavoro senza sosta, la sua voce è rotta dalla stanchezza e dalla preoccupazione: «Se la popolazione non capisce che deve stare a casa, la situazione diventerà catastrofica». Lei, insieme ai colleghi delle rianimazioni, è l'autore di una lettera durissima diretta al governo di Giuseppe Conte: «Le proiezioni scientifiche sono molto allarmanti». Cosa intende dire? «Il quadro è di gravità tale da richiedere un aumento dei posti in rianimazione fino a dieci volte l'attuale disponibilità. Il numero di ricoverati in ospedale previsto alla data del 26 marzo è di 18 mila malati lombardi, dei quali un numero compreso tra 2.700 e 3.200 richiederà il ricovero in terapia intensiva. Oggi ci sono già oltre mille pazienti tra quelli in rianimazione e quelli che rischiano di aggravarsi da un minuto all' altro. Noi monitoriamo la situazione 24 ore su 24». Nella lettera parla di rischi non solo per i malati di coronavirus, ma anche per tutti gli altri: «In pericolo c'è la sopravvivenza non solo dei pazienti di Covid-19 - scrivete -, ma anche di quella parte di popolazione che comunque si rivolge al sistema sanitario». «Finora in Lombardia le ambulanze sono sempre arrivate in 8 minuti, adesso rischiano di non arrivare entro un'ora. Un pericolo enorme per chi ha un infarto, e non solo». Insomma, il sistema di emergenza-urgenza della Lombardia non è più in grado di garantire gli standard ordinari. «Purtroppo è la verità. Io non lo dico per allarmare i cittadini, ma per fare capire a tutti che non è il momento di uscire, né di fare shopping né di andare a bere lo spritz, come ormai ripetiamo da giorni. Bisogna modificare i rapporti sociali, con i negozi e i mercati rionali chiusi. A Milano, dove io vivo, almeno finora c' è stata troppa gente inutilmente in giro. Bisogna uscire solo per comprarsi da mangiare». I posti letto nelle terapie intensive aumentano di giorno in giorno, ma non bastano mai. «Stiamo creando blocchi Covid-19 ovunque. Ormai sono stati coinvolti tutti i principali ospedali della Lombardia, almeno una cinquantina. Come noto i pazienti contagiati non possono essere mischiati agli altri. Vuol dire avere rianimazioni dove tutto avviene con particolari sistemi di protezione: dall' aria filtrata a medici e infermieri che si vestono e svestono sempre in presenza di un' altra persona per controllare che le procedure siano corrette perché basta una minima distrazione per infettarsi».

In che condizioni state lavorando?

«Lavoriamo bardati per proteggerci dal virus. Dopo 4 ore siamo sudati fradici, i movimenti sono rallentati e dobbiamo uscire dalla rianimazione per idratarci. Noi stiamo facendo tutto il possibile, e anche di più, ma bisogna fermare i contagi. L' unico modo è la prevenzione».

In una delle ultime riunioni con i medici delle terapie intensive c' è chi non è riuscito a trattenere le lacrime.

«Per mestiere siamo abituati a fare fronte a qualunque situazione con sangue freddo.

Ma solo chi la sta vivendo in prima linea può capire la drammaticità degli eventi».

È verosimile pensare di trasportare malati gravi nel resto d' Italia?

«Sono pazienti molto complessi da spostare. Sia per le loro condizioni fisiche sia per le protezioni che vanno assunte per non contagiarci. La vedo difficile».

Terapie intensive, il documento choc: "Liste di meritevoli per essere curati". Piano per gli scenari più gravi: intubare solo chi ha la maggior speranza di vita. Maria Sorbi, Domenica 08/03/2020 su Il Giornale.  Potrebbe arrivare anche il giorno più doloroso: quello in cui i medici saranno costretti a decidere chi salvare e chi no. Scrivendo sulla cartella clinica degli esclusi: «Non intubare». E stilando delle liste. Uno scenario da film di fantascienza ma a cui è necessario prepararsi perché, nonostante i mille sforzi per aumentare i letti di terapia intensiva, a breve potrebbe non esserci posto per tutti. Le stime parlano di quota 9mila contagi nel giro di due settimane e l'Oms denuncia la carenza di ossigeno in molti Paesi colpiti dal virus, come già capitato in alcuni ospedali delle zone critiche. «Le previsioni stimano un aumento dei casi di insufficienza respiratoria acuta di tale entità da determinare un enorme squilibrio tra le necessità cliniche reali della popolazione e la disponibilità effettiva di risorse intensive» è la pungente premessa del documento che la società di Anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva Siaarti ha scritto per dare una guida etica ai primari che hanno da gestire un'emergenza più grande delle loro possibilità di cura. E per non lasciarli soli in una decisione così delicata e sollevarli da una parte della responsabilità nelle scelte. Anche perché può essere che si debba decidere nel giro di pochi minuti e chissà in che condizioni. Il criterio base su cui lavorare è «privilegiare la maggior speranza di vita». Bisognerà quindi tenere in considerazione alcuni parametri: la gravità della malattia, la presenza di altre patologie, la compromissione di altri organi. E, ahimè, l'età. Che significherebbe sparigliare totalmente le carte del nostro sistema sanitario che - come nessun altro al modo - cura e opera anche i 90enni che hanno una possibilità di farcela. L'emergenza sballa ogni protocollo e costringe a una selezione. Non sarà più valido il principio secondo cui il primo arrivato è il primo assistito perché - spiega la società degli anestesisti - «equivarrebbe comunque a scegliere di non curare eventuali pazienti successivi che rimarrebbero esclusi dalla terapia intensiva». La decisione di porre una limitazione alle cure dovrà essere comunque motivata, comunicata, documentata. Anche se di fatto si nega la ventilazione meccanica al paziente, devono comunque essere garantite le cure alternative e, in caso, la sedazione palliativa. In base alle raccomandazioni di etica clinica, i criteri di accesso alla terapia intensiva andrebbero discussi per ogni paziente «in modo il più possibile anticipato» creando una lista di persone «meritevoli» della rianimazione nel momento in cui le loro condizioni dovessero peggiorare. Come se non bastasse, c'è un altro risvolto che i medici cominciano a considerare: i pazienti non coronavirus che comunque hanno bisogno della terapia intensiva. Anche loro, a estremi mali, potrebbero pagare sulla loro pelle le conseguenze di questa emergenza. «È da considerare anche l'aumento prevedibile della mortalità per condizioni cliniche non legate all'epidemia in corso, dovuta alla riduzione dell'attività chirurgica e ambulatoriale elettiva e alla scarsità di risorse intensive». Già, perché i malati «ordinari» non cessano di esistere e hanno gli stessi diritti di quelli affetti da coronavirus. Al momento devono solo rinviare visite ambulatoriali e interventi non urgenti ma in futuro potrebbero finire nei listoni della terapia intensiva. Si cerca in tutti i modi di evitare il giorno in cui verrà steso l'elenco dei pazienti da salvare e da non salvare. E anche il codice etico degli anestesisti si ispira al principio che fa da slogan alla loro associazione: «Pro vita contra dolorem semper».

·        Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Da video.corriere.it il 6 novembre 2020. Il Prof. Bernabei (Geriatria del Policlinico Gemelli di Roma): «Muoiono praticamente quasi solo ed esclusivamente i vecchi. L’età media del deceduto da marzo supera gli 80 anni e con almeno 3 patologie. Per morire di covid devi avere più di 80 anni e almeno 3 patologie».

Coronavirus, Bernabei del Cts: "Muoiono quasi solo i vecchi". Il geriatra Roberto Bernabei, membro del Cts, ha analizzato i tassi di mortalità nel Paese e sottolineato come siano gli anziani over 80 i più colpiti. Francesca Galici, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Si è riacceso il dibattito sulla mortalità da Covid nel Paese. Le correnti di pensiero in merito sono diverse, soprattutto su base anagrafica. Il professor Roberto Bernabei, geriatra del Policlinico Gemelli di Roma, è stato recentemente ospite a Piazzapulita su La7 dove ha sostenuto la tesi secondo la quale a morire a causa del coronavirus siano soprattutto le persone anziane e, in particolare, gli ottuagenari. Un'idea sostenuta da più parti in questi mesi per smontare gli allarmismi legati alla paura di contrarre il coronavirus e di non riuscire a superarlo. Roberto Bernabei, oltre a essere uno dei medici geriatri più importanti del Paese, è anche uno dei membri del Comitato tecnico scientifico che in queste settimane sta tenendo sotto controllo la situazione epidemiologica in Italia. La tesi esposta nel programma di Corrado Formigli si basa su evidenze statistiche e scientifiche che non sembrano lasciare spazio a dubbi: "I contagiati sono tra 0 e 40 anni il 32%, i contagiati tra 30 e 70 sono il 42%, rimane un 25% che sono i contagiati dai 70 in su. Ebbene, questo 25% fa il 90% dei morti". La sua analisi si basa sui dati delle ultime settimane e porta il medico del Policlinico Gemelli di Roma a trarre una conclusione netta: "Muoiono praticamente quasi solo ed esclusivamente i vecchi, l’età media dei deceduti supera gli 80 anni. E in più hanno tre malattie". Parole che non sembrano lasciare spazio ai dubbi e alle interpretazioni quelle di Roberto Bernabei, che nella sua esposizione ha anche accennato a quali sembrano essere le patologie che causano la maggiore probabilità di decesso tra i pazienti più anziani che contraggono il coronavirus: "Le più frequenti sono diabete, ipertensione, insufficienza renale, fibrillazione atriale e lo scompenso di circolo. Sono le malattie della cronicità, della fragilità". Stando al suo ragionamento, quindi, il coronavirus colpisce con forza e letalità laddove il quadro clinico del paziente è già fortemente compromesso da patologie croniche, che espongono gli anziani a maggiori rischi e non solo in ambito Covid: "Quando nel 2003 ci fu l’ondata di calore, morirono le stesse persone, ultra 80enni e con le stesse patologie". Sarebbe proprio la compromissione del quadro clinico a causare i problemi maggiori nei pazienti. Tuttavia, l'analisi della situazione del geriatra appare lucida e rassicurante, ben diversa da quelle che venivano fatte in primavera: "Il passaggio in terapia intensiva, ma anche nel reparto normale, evita fatti gravi, perché ormai sappiamo curare i pazienti". Ma le sue parole non sono un via libera per abbassare la guardia, anzi: "Se questa malattia fucila i vecchi è molto grave, ma è una malattia normale: le malattie infettive purtroppo aggrediscono i più fragili".

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 marzo 2020. Capire perché in Germania i morti sono così pochi forse aiuta a capire perché in Lombardia o altrove sono così tanti, e forse aiuta a capire - se davvero fosse solo una questione di età dei vari popoli - perché in Italia a essere più falcidiate non sono le regioni che hanno più anziani rispetto alle altre. Intanto: c' è un equivoco iniziale che in realtà è stato chiarito da un pezzo, cioè: non è vero che in Germania contano i morti solo «per coronavirus» e non «con coronavirus», ossia non è vero che escludono coloro a cui il virus ha dato solo un colpo di grazia. L' altro giorno ha voluto chiarirlo anche l' Istituto Robert Koch, che è il responsabile del controllo delle malattie infettive in Germania: tutte le persone affette da coronavirus, e poi morte, vengono conteggiate come decessi da coronavirus anche se prima e durante avevano altre malattie, esattamente come fa l' Istituto Superiore di Sanità (che semmai ha altri problemi di conteggio che riguardano i morti nelle case) e come fanno gli altri paesi dell' Unione Europea. Lasciamo anche perdere che l' epidemia tedesca è iniziata dopo, anche se ora sta galoppando e i suoi dati potrebbero farlo a loro volta: la differenza proporzionale rimane, e all' inizio faceva quasi ridere per quanto sembrava irreale. Sino a tre giorni fa, quando i contagiati tedeschi risultavano 30mila con 119 morti (mentre scriviamo sono già 43mila con 239 morti) il tasso di mortalità tedesco era dello 0,4 per cento e il nostro del 9 per cento, questo, attenzione, tra i già malati e quindi perlopiù ospedalizzati. E già qui le cose si complicano, perché tutti hanno ormai capito che il vero tasso di contagiati italiani è almeno dieci o 15 volte superiore al dato ufficiale, il che riporterebbe il tasso di mortalità italiano comunque sotto lo zero come si diceva sin dall' inizio.

Quindi il primo dato da vedere, c' è poco da fare, è l' età media dei malati, e qui sta la prima differenza notevole: in Italia l' età mediana dei malati è di 64 anni (dati sempre di tre giorni fa) e in Germania è di 47. Una distanza abissale che in moltissimi casi fa la differenza tra la vita e la morte, anzi tra la morte e la guarigione. In Italia solo il 3 per cento dei decessi ha riguardato persone con meno di 60 anni, sinora. 64 anni contro 47 Il dato però è contraddetto dal fatto che Italia e Germania sono entrambi due paesi «vecchi» con età mediane molto simili e molto alte: dunque? Va premesso che anche il numero di tamponi fatti in Italia e in Germania non è molto dissimile: l' Italia è in un vantaggio proporzionato al fatto che l' epidemia è cominciata prima, ma in Germania sono comunque messi meglio e ora vanno di corsa, anche perché i medici di base hanno la possibilità di farli, cosa che i nostri possono solo sognarsi.

In secondo luogo, il contagio in Germania non è cominciato in una cittadina come Codogno, ma in modo più sparpagliato e distribuito in soggetti che spesso tornavano da vacanze invernali sciistiche o carnevalesche: sicuramente non anziani, bensì fasce, appunto, più giovani con molti bambini che al limite hanno contagiato altri bambini, o gli stessi genitori certo non anziani.

E i famosi nonni? Ecco: la Germania, come modello sociale, è un paese che guarda più a nord che a sud, ossia ha più asili e strutture per tenere i figli rispetto a un Italia notoriamente più «mammona» e con un concetto di famiglia allargata o, se volete, un modello di «welfare nostrano» che accoglie i nonni direttamente in casa o nei dintorni.

Italia «mammona». Anche questo è noto, resta il fatto che gli anziani in Germania stanno più tra di loro, mentre i nostri anziani si mescolano di più: abitudine che può essere apprezzata (Avvenire ha titolato «In Italia generazioni più unite») ma che è stata apprezzata anche dal coronavirus. Il dato è ovvio ma anche scientifico, ed è stato confermato dal Centro di Scienze Demografiche dell' Università di Oxford che ha analizzato l' impatto della demografia sui differenziali di mortalità. Se così fosse, però, dovremmo guardare con preoccupazione alle regioni italiane più anziane rispetto a quelle più giovani: e invece non è così, non sembra esserci corrispondenza. La Liguria (dati Istat) è di gran lunga la regione più anziana del paese, poi ci sono anche il Molise o le zone di Grosseto, Terni, Ferrara e Oristano. Eppure, qui, il coronavirus non si è fatto particolarmente sentire. Sono molto anziane anche zone come la provincia di Vercelli e di Alessandria, dove il virus si è fatto sentire eccome. E però le ampie zone del bergamasco e del bresciano, falcidiate, sono relativamente più giovani. Insomma, l' età divisa soltanto per zone non è una bussola. Mentre lo è, sicuramente, il fattore delle «generazioni più unite» miscelato a una densità abitativa pure socialmente unita: stare a Milano, che è la classica metropoli da single e da «folla solitaria», può risultare meno rischioso che vivere in una concatenazione di paesi e paesini uno attaccato all' altro e con un grado di socialità e aggregazione molto più elevato, dove nel privato e nel lavoro si conoscono tutti. Gente solitamente più felice, dicono i sociologi: ma non in questo periodo.

I numeri dell’epidemia: perché l’Italia ha  più morti rispetto a tutto il resto del mondo. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Secondo un grafico postato il 22 marzo da @theworldindex (si veda sotto, ndr), l’Italia ha il maggior numero di morti per milioni di persone dovuti al coronavirus rispetto al resto del mondo (79.84). Seguono a distanza Spagna, Iran e Francia. Che la nostra nazione abbia il primato della triste classifica è indubbio, ma per spiegare perché dobbiamo prima considerare almeno due dati. La maggior parte dei Paesi sono indietro a livello temporale di 6 giorni (minimo), ma spesso di più di due settimane nella locale storia dell’epidemia. Due settimane in questo momento sono moltissimo, visto che nella massima espansione del virus si calcola che la diffusione arrivi al 33% di crescita ogni giorno. (fonte Mark Handley) Se guardiamo il grafico composto da Mark Handley, professore all’University College London (UCL), che allinea a livello temporale i Paesi (cfr sopra, ndr), vediamo che la maggior parte sta seguendo una linea di progressione del 22% giornaliera e la Spagna in particolare, il Paese con più morti dopo di noi in Europa (28.36 per milioni di persone), è anche la nazione in una fase più avanzata dell’epidemia. Questo non spiega del tutto il numero di decessi, ma avere una situazione di piena espansione in qualche modo purtroppo è motivo per avere anche più morti. Il secondo fattore da tenere presente riguarda i Paesi che sono invece più avanti di noi nella linea temporale e possono valere come esempio per capire la specificità dell’Italia: ce ne sono pochi che hanno avuto un certo numero di casi, ovviamente la Cina, ma anche l’Iran e la Corea del Sud. Tutti hanno avuto meno decessi di noi, ma mentre l’Iran in questo calcolo è comunque al terzo posto con 18.53 decessi per milioni di persone, ci stupiamo della Cina a 2.24 e della Sud Corea a 2.03. Parliamo degli ultimi due Paesi, che sono anche i più studiati. Calcolare il dato della Cina in questo modo è fuorviante perché la Cina è stata colpita in modo marginale e ha un miliardo e mezzo di abitanti, il calcolo quindi andrebbe fatto solo su quei famosi 57 milioni di abitanti dell’Hubei che è stata la provincia più colpita. Questo è un dato che influisce sui calcoli, la variabile invece che influisce sui morti è la totale chiusura di Wuhan che, per quanto in ritardo, non è paragonabile a quella italiana (a macchia di leopardo e con tempi diversi) e che ha interrotto drasticamente la catena dei contagi. E veniamo a un altro fattore: l’età media della popolazione colpita in Cina (ma anche in Corea del Sud). Nello studio più completo effettuato in Cina dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, su 55mila casi confermati, l’età media calcolata è stata di 51 anni, con la maggioranza dei casi nell’intervallo di età 30–69 anni. In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, l’età media dei pazienti è di 63 anni, con la maggioranza dei casi nell’intervallo di età 80-89 anni. L’età mediana dei pazienti deceduti positivi è più alta di oltre 15 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (pazienti deceduti 80 anni – pazienti con infezione 63 anni). Sappiamo che più passano gli anni, più aumentano le patologie croniche presenti nella popolazione, ed ecco perché il 48% dei deceduti italiani aveva 3 o più patologie in corso. Sono le patologie a essere il reale fattore di rischio, più che l’età da sola, che già conta. Sicuramente il caso Corea del Sud è ancora diverso, perché il virus si è diffuso (all’opposto che in Italia) in maggioranza tra donne di 20-29 anni, come vediamo nel grafico datato 13 marzo di Andreas Backhaus, ricercatore tedesco in Economia (vedi sopra, ndr), la categoria più forte rispetto al virus. Inoltre, il fatto di essersi diffuso in una setta religiosa ha facilitato il tracciamento dei contatti e l’isolamento, oltre alle politiche che hanno dato il via libera ad app e sistemi geolocalizzanti che in questo hanno aiutato. Questi dati basterebbero a dare ragione dei numeri italiani, ma ci sono altre variabili a comporre la “tempesta perfetta” e ognuna costruisce un pezzettino di quella triste curva. Li riassumiamo per punti.

Come si contano i morti: se abbiamo detto che in Italia il 48% dei deceduti ha tre o più patologie attive si può parlare perlomeno di concausa. In Cina i morti come sono stati conteggiati? In Germania il presidente dell’Istituto Robert Koch ha riferito che i morti vengono conteggiati come da noi, cioè “se sono affetti da COVID-19 e poi muoiono, entrano nei morti da coronavirus”, ma sappiamo che l’età media per ora da loro è più bassa (vedi sotto, ndr)e che i tedeschi partivano con moltissimi posti di terapia intensiva in più rispetto all’Italia. Questo conta. Lo stress del sistema sanitario: mette a rischio tutta una serie di pazienti, arrivo tardivo dei soccorsi, ritardo nelle terapie, spostamenti di pazienti critici, malati che non vanno in ospedale per paura, scelta di priorità in mancanza di dispositivi salvavita.

Gli ospedali: il focolaio ha intaccato ospedali, residenze per anziani e medici creando un corto circuito in luoghi dove il contagio si diffonde e le persone sono più deboli, quindi se prendono il virus sono più a rischio di morte.

I polmoni: avevamo in pianura Padana polmoni indeboliti da smog e fumo attivo? Forse c’è anche questa variabile, condivisa però anche da altri Paesi, perlomeno dalla Cina.

I numeri dei contagiati: anche se non sono decessi, l’Italia si sta avviando ad avere un numero di positivi che probabilmente supererà quello della Cina e sono solo quelli conteggiati, come sappiamo. Da solo questo dato (intrecciato con quello dell’età media della popolazione) potrebbe spiegare i numeri. Se saremo il Paese con più casi al mondo e siamo al settimo posto tra i Paesi più longevi al mondo, la conta dei decessi sarà probabilmente a nostro sfavore. Anche se la chiarezza statistica l’avremo solo quando tutto finalmente sarà finito.

Coronavirus, perché in Italia la letalità è la più alta del mondo? Le possibili spiegazioni. Le Iene News il 22 marzo 2020. Ci sono molti fattori che possono in parte spiegare perché in Italia il tasso di letalità è al 9% mentre in Cina è meno del 4 e in Germania addirittura dello 0,3%. Dal metodo di conteggio delle vittime alla frequenza dei test fino all'inquinamento atmosferico, ecco tutto quello che potrebbe dare una risposta a questo enigma. L’Italia è il paese che ha pagato il tributo più alto di morti al coronavirus. Sono infatti 5.476 le persone decedute dall’inizio della pandemia, su un totale di contagiati di 59.138. La letalità nel nostro Paese è al 9,3%. Un numero altissimo. Come è possibile un numero simile? E soprattutto, com’è possibile che il dato italiano sia così tanto più alto rispetto all’estero? Eh già, perché nessun Paese del mondo si avvicina neanche lontanamente alla nostra percentuale. In Cina, con la pandemia quasi sotto controllo, il tasso di letalità sfiora il 4%. In Francia è al 3,6%, in Corea del Sud e in Germania addirittura dello 0,1 e dello 0,3% rispettivamente. 

Una prima possibile risposta è già nota: il numero di malati da coronavirus in Italia potrebbe essere molto più alto di quello ufficialmente registrato. Le strategie con cui l’Italia ha finora condotto i test sui sospetti contagiati potrebbe aver portato a sottostimare enormemente i casi: secondo uno studio pubblicato su Science addirittura l’86% dei casi di coronavirus potrebbe non essere registrato dalle autorità. “Il tasso di letalità in Italia è più elevato perché, oltre ad avere una popolazione più anziana, non si stanno testando e di conseguenza isolando i casi più lievi», ha detto nei giorni scorsi Bruce Aylward, vicedirettore generale dell’Oms. Tuttavia bisogna segnalare due possibili aspetti negativi di questa risposta: il primo è che l’Italia è il secondo paese al mondo per numero di tamponi eseguiti pro capite dopo la Corea del Sud; il secondo è che la sottostima dei casi potrebbe riguardare tutto il mondo e non solo noi.

E’ quindi necessario aggiungere un secondo fattore: l’età media della popolazione italiana. Con 44,3 anni l’Italia è il Paese più vecchio d’Europa e il secondo del mondo dopo il Giappone. Come è noto il coronavirus ha un tasso di letalità molto più alto tra le fasce più anziane della popolazione, e la nostra età media potrebbe contribuire a far schizzare verso l’alto la percentuale di malati deceduti. Anche qui però è da segnalare un dato avverso: la Germania è il secondo paese più “anziano” d’Europa ma è anche quello con la percentuale di letalità più bassa nel Vecchio Continente.

Serve dunque aggiungere un terzo elemento che può essere dirimente per capire l’elevata letalità del COVID-19 in Italia: i morti registrati sono deceduti con il coronavirus, non per il coronavirus. E non è una differenza da poco. Cosa significa questo? Che a volte, o meglio quasi sempre, il COVID-19 è solo una delle concause di morte e non necessariamente la prima o più importante. Secondo i dati diffusi dall’Istituto superiore della sanità il 17 marzo, solo lo 0,3% dei malati è deceduto senza avere altre serie patologie oltre al coronavirus. Ammettendo che a oggi quel dato sia sostanzialmente invariato, significa che i morti per il solo COVID-19 in Italia sarebbero solo 17 su un totale di 5476. Una distinzione importante quindi, che già il capo della Protezione civile Angelo Borrelli aveva fatto il 10 marzo “Ci tengo a precisare che non si tratta di decessi “da” coronavirus. Sono persone che sono decedute e tra le diverse patologie avevano anche il coronavirus”. Anche qui dobbiamo però dare voce alle note negative di questa interpretazione: non siamo gli unici al mondo a conteggiare i morti in questo modo. Il Robert Koch Institute in Germania afferma che le regole su come si registrano i morti non sono particolarmente rilevanti: a dimostrarlo c’è il fatto che i primi due decessi attribuiti al coronavirus in Germania erano due anziani affetti da diverse e gravi patologie.

Insomma, non esiste una singola semplice risposta a questo dilemma: perché in Italia il coronavirus uccide molte più persone che altrove? E’ probabile che sia una concausa di tutti questi elementi messi insieme a cui ne vanno aggiunti altri. Uno su tutti, il livello di inquinamento nel nostro Paese.

Virus, dal fumo alla genetica: perché cosi tanti morti in Italia. Tra le possibili motivazioni legate all'alto tasso di mortalità in Italia per il Covid-19, il gerontologo Antonelli Incalzi ha individuato le malattie croniche, uno stile di vita non del tutto sano e l'inquinamento atmosferico nelle città del Nord. Lavinia Greci, Giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. Da quando si è diffusa la nuova epidemia causata dal coronavirus, l'Italia ha registrato 28.710 contagi, 2.978 decessi e 4.025 guariti. E il nostro Paese, soprattutto in alcune aree, ha contanto un elevato numero di anziani morti a causa del Covid-19, in proporzione più che in Cina, dove si sono registrati i primissimi casi. Secondo quanto riportato da La Stampa, però, il professor Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e primario di Geriatria al campus biomedico di Roma, ha provato a dare una spiegazione al fenomeno, anche se non risulta del tutto chiaro.

La multimorbilità degli anziani. Tra i motivi che vedono gli anziani più esposti c'è la loro multimorbilità, cioè la compresenza di molteplici malattie croniche, che tra le persone di una certa età, in Italia, è piuttosto elevata. Ma secondo il professor Antonelli Incalzi a influire è anche la maggiore attenzione, nel nostro Paese, alla salute degli anziani: "Poiché sono generalmente più seguiti e tutelati, a fronte di malattie note e quindi più facilmente combattibili, ora che il nemico è l'ignoto coronavirus, gli anziani diventano molto più esposti e vulnerabili".

Geni e inquinamento. Non è esclusa nemmeno una componente genetica, che rende la popolazione senile italiana più predisposta rispetto a quella cinese, ma l'attenzione, secondo quanto riportato dall'esperto, è da rivolgere anche all'inquinamento atmosferico. E in questo senso è l'Italia del nord la parte più colpita: "A parte la diffusione del virus per un contagio con effetto domino, la bassa pianura padana, lo scorso febbraio, ha registrato un livello di inquinamento atmosferico molto alto. L'esposizione all'aria inquinata non ha quindi favorito la 'clearance mucociliare', ossia le ciglia sull'epitelio dell'intero appartato respiratorio non hanno lavorato come avrebbero dovuto, non hanno cioè eliminato il muco che, anzi, è ristagnato e ha quindi favorito l'infezione".

Il problema del fumo. E oltre ai geni, l'alto numero delle malattie e i fattori legati all'inquinamento, una parte rilevante, con questo virus, la sta giocando anche il fumo. "Tra i nostri anziani, ancorché con malattie croniche, c'è un elevato tasso di fumatori", ha spieato il professore. Anche se, in termini di vulnerabilità, la variabilità è individuale, soprattutto in età avanzata. "La riserva omeostatica, ovvero la capacità di far fronte alle emergenze, cambia più facilmente da persona a persona. Però non bisogna disperarsi, non bisogna cedere al timore di non riuscire a guarire", ha chiarito il medico. Che aggiunge: "In effetti, l'ideale è non ammalarsi, puntare sulla prevenzione".

I consigli agli over 65. Come spiegato dallo specialista, esistono comunque dei suggerimenti per le persone che hanno superato i 65 anni di età: "Devono attenersi scrupolosamente alle regole: non uscire di casa, evitare categoricamente contatti sociali, disinfettare gli oggetti che ricevono nella propria abitazione, lavarsi spesso le mani. Se vivono insieme a figli o a nipoti devono mantenere da loro una distanza di almeno due metri, per contenere il pericolo". E alla domanda se da anziani è possibile potenziare ancora il proprio sistema immunitario, Antonelli Incalzi ha dichiarato che non esistono terapie ad hoc per rafforzarlo, ma l'importante è anche "mangiare bene, in modo sano, seguendo una dieta di prodotti anti-ossidanti".

PERCHÉ IN ITALIA MUOIONO COSÌ TANTI ANZIANI? Grazia Longo per “la Stampa” il 19 marzo 2020. Per il professor Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e primario di Geriatria al Campus biomedico di Roma, l' eccessivo numero di anziani che muoiono di coronavirus nel nostro Paese, in proporzione più che in Cina, «è un fenomeno non del tutto chiaro, ma possiamo intravederne alcune ragioni».

Quali?

«Innanzitutto gli anziani si ammalano più facilmente perché la loro multimorbilità, ovvero la compresenza di molteplici malattie croniche, è assai elevata. Probabilmente più che in Cina. Ma influisce anche la maggiore attenzione, in Italia, alla salute degli anziani».

In che senso?

«Poiché sono generalmente più seguiti e tutelati, a fronte di malattie note e quindi più facilmente combattibili, ora che il nemico è l' ignoto coronavirus, gli anziani diventato molto più esposti e vulnerabili».

C' è forse una componente genetica che rende la popolazione senile italiana più predisposta rispetto a quella cinese?

«Non è escluso. È allo studio dei ricercatori, mentre è decisamente più probabile la causa dell' inquinamento atmosferico».

Nel Nord Italia più che al Sud quindi?

«Certamente, perché a parte la diffusione del virus per un contagio con effetto domino, la bassa pianura padana lo scorso febbraio ha registrato un livello di inquinamento atmosferico molto alto. L' esposizione all' aria inquinata non ha quindi favorito la "clearance mucociliare", ossia le ciglia sull' epitelio dell' intero apparato respiratorio non hanno lavorato come avrebbero dovuto, non hanno cioè eliminato il muco, che anzi è ristagnato e ha quindi favorito l' infezione».

Quanto ha pesato l' abitudine al fumo?

«Molto. Tra i nostri anziani, ancorché con malattie croniche, c' è un elevato tasso di fumatori».

Possibile che gli italiani siano tanto più vulnerabili dei cinesi?

«Purtroppo in età avanzata cresce enormemente la variabilità individuale. Nel senso che la riserva omeostatica, ovvero la capacità di far fronte alle emergenze, cambia più facilmente da persona a persona. Però non bisogna disperarsi, non bisogna cedere al timore di non riuscire a guarire».

Quando si registrano casi isolati di ultraottantenni che guariscono si grida quasi al miracolo.

«In effetti, l' ideale è non ammalarsi. Puntare sulla prevenzione».

A cosa devono fare maggiormente attenzione gli over 65 anni?

«Devono attenersi scrupolosamente alle regole: non uscire di casa, evitare categoricamente contatti sociali, disinfettare gli oggetti che ricevono nella propria abitazione, lavarsi spesso le mani. Se vivono insieme a figli o a nipoti devono mantenere da loro una distanza di almeno due metri, per contenere il pericolo».

A una certa età si è ancora in tempo per potenziare il sistema immunitario?

«Sì, anche se purtroppo non esistono terapie ad hoc per rafforzarlo. L' importante è mangiare bene, in modo sano, seguendo una dieta di prodotti anti ossidanti».

Coronavirus, parla il geriatra: "Più vittime anziane che in Cina. Incidono inquinamento, genetica e fumo". Libero Quotidiano il 19 marzo 2020.  Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e primario di Geriatria al Campus biomedico di Roma, svela che l'eccessivo numero di anziani che muoiono di coronavirus nel nostro Paese, in proporzione più che in Cina, "è un fenomeno non del tutto chiaro, ma possiamo intravederne alcune ragioni". Lo spiega in una intervista oggi alla Stampa. "Tra le cause che incidono di più nel contagio dei nostri anziani: l'inquinamento, la genetica e il fumo". 

Lombardia, arrivano i rinforzi anti-virus. Impensabile: "Personale specializzato da Cuba". Gallera, una svolta anche sul fronte Bergamo?

"In età avanzata cresce enormemente la variabilità individuale. Nel senso che la riserva omeostatica, ovvero la capacità di far fronte alle emergenze, cambia più facilmente da persona a persona. Però non bisogna disperarsi, non bisogna cedere al timore di non riuscire a guarire. Gli over 65 devono attenersi scrupolosamente alle regole: non uscire di casa, evitare categoricamente contatti sociali, disinfettare gli oggetti che ricevono nella propria abitazione, lavarsi spesso le mani. Se vivono insieme a figli o a nipoti devono mantenere da loro una distanza di almeno due metri, per contenere il pericolo".

 Perché tanti morti in Italia? Molti anziani, focolai negli ospedali, pochi tamponi. Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin Sono 53.578 i casi positivi confermati in Italia secondo il bollettino della Protezione Civile diramato sabato sera, 17.708 i pazienti in ospedale, di cui 2.857 in terapia intensiva. I morti sono saliti a 4.825. In Europa, la Spagna totalizza oltre 25mila positivi con 1.375 decessi, la Germania ora viene subito prima degli U.S.A. con 21.828 casi confermati (ha scavalcato l’Iran) ma “solo” 75 morti. Cosa succede in Italia? I morti in Cina sono stati 3.259 con un tasso di letalità del 3,8%, secondo il report finale della missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità di ritorno dal Paese asiatico. In Italia lo stesso tasso è al 9% (il 12,1% in Lombardia), mentre quello di Wuhan era al 5,8% e il resto della Cina si è fermato allo 0,7%. Come si spiega la differenza rispetto a tutti i Paesi del mondo? I fattori che concorrono al calcolo del dato numerico sono molti. Bisogna considerare che il tasso di letalità (che non è la mortalità) è il numero di decessi dovuti a COVID-19 diviso per il numero totale di casi confermati di infezione da coronavirus, un valore che dipende, quindi, dai soggetti positivi tracciati. La prima ipotesi interpretativa è che in Italia i contagiati siano molti di più: un studio pubblicato su Science calcola che per ogni positivo ce ne siano almeno 5-10 non censiti. Un modello matematico firmato da Livio Fenga dell’Istat mostra a sua volta come il 12 marzo rispetto ai 12.839 casi denunciati in Italia, le persone infette dal SARS-CoV-2 potrebbero essere state 105.789. Se davvero i soggetti contagiati fossero fino a dieci volte tanto, la percentuale di letalità calcolata rispetto all’intera nazione scenderebbe su valori vicinissimi a quelli della Cina continentale. «Il tasso di letalità in Italia è più elevato perché, oltre ad avere una popolazione più anziana, non si stanno testando (e di conseguenza isolando) i casi più lievi», ha dichiarato recentemente il vice direttore generale dell’Oms, Bruce Aylward. I positivi confermati sono i soggetti che hanno fatto un tampone. Quanti test si eseguono in Italia? Nei giorni passati la questione è stata oggetto di dibattito, visto che questo numero determina l’andamento dell’epidemia. In ogni Paese i tamponi sono stati effettuati con direttive diverse e variabili, spesso a seconda dell’urgenza del momento. Così in Italia (come in Cina) all’inizio si facevano test a tutte le persone “sospette” di contatto con casi positivi o a chi arrivava da zone “a rischio” (anche asintomatici), poi si è passati (dopo circa una settimana) a farli solo alle persone con sintomatologia seria, che sono però anche quelle più suscettibili di morte. Da allora, le percentuali sono cambiate e la letalità ha cominciato a crescere. C’è anche da ricordare che nelle regioni che sperimentano il maggior stress sanitario (Lombardia ed Emilia-Romagna), dove la letalità è “fuori scala”, si fanno meno tamponi per contagiati rispetto al resto d’Italia. In assoluto, però, i test pro capite non sono così pochi, al 21 marzo oltre 233mila: l’Italia è il Paese al mondo con più tamponi per milioni di persone, superata solo dalla Corea del Sud. La spiegazione del triste primato del nostro Paese potrebbe anche riguardare come si contano i decessi: i morti avevano quasi sempre patologie concomitanti, qual è stata la causa reale della fine? Altra aggravante, la grandezza del focolaio Lombardo: 10 paesi dove gli spostamenti lavorativi sono notevoli, con un interessamento che ha intaccato gli ospedali, che, a loro volta, hanno fatto da amplificatori. Ennesima variabile rispetto ad altri Paesi è l’età media degli Italiani molto elevata: siamo secondi in Europa, in Cina è molto più bassa. In Corea del Sud, Paese che viene preso come l’esempio più “virtuoso” (con 102 morti su 8.799 casi e letalità allo 0,01%), il virus ha contagiato in maggioranza giovani donne: il 30% dei positivi si trova nella fascia 20-29 anni e il 62% è donna (in Italia il 41,1%). In più, solo il 3% di tutti i casi confermati nel Sud Corea aveva almeno 80 anni. Da noi il 36,3% del totale ha più di 70 anni (fonte, Istituto Superiore di Sanità al 20 marzo). Una popolazione più anziana significa più persone deboli e a rischio di aggravarsi, col passare degli anni, infatti, compaiono altre malattie (le cosiddette “comorbilità”): sono queste a essere il fattore di rischio maggiore per i malati di COVID-19. Problemi cardiovascolari, ipertensione, diabete: secondo l’ISS i deceduti che non avevano patologie preesistenti rappresentano l’1,2% del totale, il 48,6% aveva almeno tre patologie in corso. Altro fattore concomitante: visto che l’esito più grave del COVID-19 è una grave e insidiosa polmonite, il numero dei decessi potrebbe riflettere anche lo “stato dei polmoni” degli italiani. Pensiamo alle polveri sottili della Pianura Padana, ma anche (specie in persone di una certa età) alla prevalenza di fumatori nei casi più gravi. Non ci sono ancora studi relativi, ma il fatto che muoiano più uomini che donne potrebbe essere dovuto a questa abitudine e sicuramente chi fuma ha maggiore probabilità di diventare un caso grave. Infine, alcune analisi ipotizzano che le differenze nelle interazioni sociali svolgano un ruolo chiave nella diffusione dell’epidemia e, di conseguenza, nella letalità. Due studi, rispettivamente dell’Università di Oxford e di Bonn, arrivano alla stessa conclusione: in Italia gli anziani si prendono spesso cura dei nipoti e, in genere, hanno contatti frequenti con i propri figli e i rispettivi nuclei familiari. La percentuale di persone tra i 30-49 anni che vive con i genitori è inferiore al 5% in Francia, Svizzera e Paesi Bassi; invece in Giappone, Cina, Corea del Sud e Italia ci sono quote superiori al 20%. Le numerose interazioni potrebbero aver aggravato l’epidemia in Italia, favorendo il contagio tra generazioni: figli adulti e nipoti (che sono più spesso asintomatici) avrebbero fatto ammalare inconsapevolmente gli anziani genitori.

Coronavirus, perché tanti morti in Italia? «Più interazioni sociali tra nonni e nipoti». Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. Le differenze nei tassi di letalità tra Italia, Corea del Sud e altri Paesi è spiegata in parte dalla longevità dei nostri anziani ma anche, secondo alcuni studi, dalle maggiori interazioni sociali tra generazioni, in particolare tra nonni e nipoti. In Italia, gli anziani si prendono spesso cura dei nipoti e, in genere, hanno contatti frequenti con i propri figli e i rispettivi nuclei familiari. Non è così in molti altri Paesi del mondo. Alcuni studiosi hanno provato ad incrociare questi fattori con la letalità della recente epidemia di coronavirus. Qualche giorno fa è stato pubblicato uno studio preliminare realizzato da Jennifer Beam Dowd, epidemiologa e demografa dell’Università di Oxford, che prende in esame il caso italiano. L’analisi è stata pubblicata in anteprima, in attesa di revisione. «Secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istituto nazionale di statistica italiano – si legge nel documento-, l’iterazione giovani-anziani in Italia riguarda oltre la metà della popolazione nelle regioni settentrionali. Queste interazioni intergenerazionali, la co-residenza e i modelli di pendolarismo potrebbero aver accelerato l’epidemia in Italia. Le differenti età, insieme alla diagnosi precoce e alla gestione dell’emergenza, spiegano probabilmente anche il basso numero di vittime in Corea del Sud e Singapore rispetto all’Italia».

La percentuale di persone tra i 30-49 anni che vivono con i loro genitori per ogni Paese (fonte Moritz Kuhn). Alla stessa conclusione rispetto ai rapporti famigliari sono giunti due professori di Economia dell’Università di Bonn, Christian Bayer e Moritz Kuhn. La loro ipotesi è che le differenze nelle interazioni sociali svolgano un ruolo chiave nella diffusione dell’epidemia e di conseguenza nella letalità. Scrivono: «Supponiamo che nel paese A quasi tutte le interazioni avvengano all’interno di un solo gruppo di persone: vale a dire che le persone in età lavorativa si ritrovano tra di loro e gli anziani fanno lo stesso con i coetanei. Nel paese B l’interazione avviene tra generazioni: giovani e anziani vivono insieme e interagiscono, ad esempio, con la cura dei nipoti o dei giovani lavoratori che vivono ancora con mamma in quanto non possono permettersi di vivere da soli». I due studiosi, nell’analisi datata 13 marzo, hanno preso i dati del World Value Surveye e hanno calcolato la percentuale di persone tra i 30-49 anni che vivono con i loro genitori per ogni Paese (si veda grafico sopra, ndr).

Paesi con più interazioni genitori-figli e tasso di mortalità da COVID-19 (fonte Moritz Kuhn). La quota è inferiore al 5% in Francia, Svizzera e Paesi Bassi, invece in Giappone, Cina, Corea del Sud e Italia ci sono quote superiori al 20%. «Ecco come appare questo valore – scrivono - , quando lo confrontiamo con il tasso di mortalità (CFR) per tutte le economie industrializzate con oltre 100 casi (dal 12 marzo). L’Italia spicca in entrambi i grafici. Quello che sembra è che la struttura delle interazioni sociali è importante e che il distanziamento sociale deve riguardare in particolare gli anziani». Gli studiosi spiegano anche che l’effetto interazione tra generazioni probabilmente scomparirà nel tempo man mano che il virus si diffonderà a tutta la popolazione, ma ammoniscono i Paesi dove ci sono frequenti contatti figli-nonni-nipoti a prendere le opportune misure (in Europa in particolare sono Serbia, Polonia, Bulgaria, Croazia e Slovenia).

Coronavirus, è vero che in Lombardia si muore di più perché il virus è mutato? Pubblicato sabato, 21 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. La domanda è: perché la Lombardia è colpita così duramente dall’epidemia di Sars-Cov-2? Ad oggi nella regione governata da Fontana ci sono oltre 15mila positivi accertati, con 7.700 ricoverati e mille pazienti in terapia intensiva. I morti finora sono stati 2.549 (dato del 20 marzo). Oltre 57mila i tamponi eseguiti. In Veneto, dove in virus è arrivato nello stesso periodo, un mese fa (con i focolai: lombardo a Codogno, veneto a Vo’) le persone attualmente positive sono 3.600, i deceduti 131. Tamponi fatti: quasi 50mila. Però in Lombardia ci sono 10 milioni di abitanti, in Veneto esattamente la metà. E mentre nella regione presieduta da Zaia la diffusione di Covid-19 sembra stabilizzata, con un tasso di positivi del 36.2 per 100mila abitanti e un indice di ricoveri del 9.9, in Lombardia la curva dei contagi sale a 90 per 100mila abitanti, con 56 di ricoveri. Ma ad impressionare di più è il tasso di mortalità, sempre per 100mila abitanti: 9.6 in Lombardia, 1.1 nel Veneto. Quale potrebbe essere la spiegazione? Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano, ritiene che Sars-CoV-2 possa essere mutato. «Un pensiero convergente», ha spiegato, con quello della virologa Ilaria Capua, docente all’Università della Florida, che aveva detto: «In Lombardia c’è qualcosa che non comprendiamo. Si sono superati i morti della Cina in un’area infinitesimamente più piccola e in un tempo minore». «Sta succedendo qualcosa di strano — avverte Gismondo parlando con AdnKronos Salute —. In Lombardia c’è un’aggressività che non si spiega. Le ipotesi possono essere tutte valide, una è che il virus sia forse mutato. Lancio un appello alla comunità scientifica: uniamoci per capire. Se tutti ci mettiamo insieme e ne studiamo un pezzetto, probabilmente riusciremo a comprendere». «Quella della mutazione è un’ipotesi da verificare — commenta Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi —, mentre sappiamo per certo che i contagi in Lombardia sono ampiamente sottostimati. Secondo alcune stime, il numero dei positivi accertati (oltre 15mila) andrebbe moltiplicato per dieci. Questo spiegherebbe l’altissima letalità: se davvero i positivi fossero 150mila, la percentuale dei morti sarebbe in linea con il Veneto. Il problema è che in Lombardia, in particolare a Milano, vengono fatti tamponi solo a chi sta male e ha sintomi evidenti. Ci sono sicuramente persone asintomatiche o con disturbi lievi che sono positive ma non annoverate nell’elenco ufficiale». A tal proposito, diversi esperti ritengono che si debba aumentare in modo massiccio il numero di tamponi eseguiti, addirittura allargando lo screening all’intera popolazione. A favore dell’opzione Susanna Esposito, presidente WAidid (Associazione mondiale delle malattie infettive e i disordini immunologici) e professore ordinario di Pediatria all’Università di Parma: «L’Organizzazione mondiale della sanità ha preso una grande cantonata sui tamponi, ha sottovalutato il peso dei portatori asintomatici nella diffusione dell’epidemia: adesso dice di fare più test possibili, ma da poco. Laddove ci sia una diffusione epidemica, è essenziale che si esegua il tampone su tutti i soggetti con sintomi lievi e questo oggi nel nostro Paese non viene fatto».

 Da startmag.it il 3 aprile 2020. Morti per Coronavirus, che cosa ha detto Giuliano Rizzardini, direttore/responsabile Malattie Infettive 1 all’Ospedale Luigi Sacco di Milano, al Tg3 del 31 marzo sul confronto tra Italia e Germania. Giuliano Rizzardini, direttore/responsabile Malattie Infettive 1 all’Ospedale Luigi Sacco di Milano, intervistato dal Tg3 del 31 marzo, ha spiegato le differenze così alte fra Italia e Germania sui morti per Coronavirus. Ecco la breve intervista andata in onda oggi.

Come è possibile la discrasia tra il tasso di mortalità per Covid-19 che in Germania è dell’1% e in Italia circa l’8%?

«Dipende da come si contano e qual è il denominatore. Intanto in Germania riescono a fare molti tamponi per cui aumenta il denominatore».

Loro contano meno morti da Coronavirus. Come mai?

«Noi un ammalato che è morto per infarto se aveva il Coronavirus lo classifichiamo come morto per Coronavirus, come facciamo sempre anche quando la causa principale di morte è un’altra. I tedeschi questo non lo fanno».

Potrebbe essere importante fare più tamponi in persone che che mostrano sintomi e che stanno a casa?

«Molto spesso non si può ma non perché non ci sono i laboratori, anche il reperimento e la preparazione die kit non è facile».

Chiara Merico per businessinsider.com il 3 aprile 2020. Quante persone sono morte per la pandemia di coronavirus? Le cifre ufficiali, aggiornate di giorno in giorno dalle autorità sanitarie dei singoli Paesi, sono impressionanti: ma potrebbero addirittura essere sottostimate. A partire da quelle che ci riguardano da vicino: in Italia, come ha spiegato il presidente dell’Istituto superiore di Sanità Silvio Brusaferro, “è  verosimile che abbiamo una sottostima rispetto ai morti riportati”. I dati ufficiali prendono infatti in considerazione i “decessi con tampone positivo, e sappiamo che questo ne intercetta una larga parte”, ma nel caso dei decessi in casa, ha precisato il presidente dell’Iss, non esistono referti clinici così come, in parte, per quelli avvenuti nelle case di riposo. Brusaferro ha assicurato che l’Iss è al lavoro con l’Istat per mettere a punto una stima più precisa del numero dei morti, ma il problema rimane. Come hanno denunciato diversi sindaci lombardi, in particolare della bergamasca, una delle zone d’Italia più colpite dalla pandemia. Secondo una ricerca condotta dall’Eco di Bergamo, nella provincia lombarda a marzo sarebbero morte 4.500 persone, più del doppio rispetto ai dati ufficiali. Uno dei casi più eclatanti in zona è quello del paese di Albino, dove lo scorso anno tra fine febbraio e fine marzo erano morte 24 persone. Quest’anno, come ha denunciato il sindaco Fabio Terzi, nello stesso periodo i morti sono stati 145, di cui solo 30 “certificati” come affetti da Covid-19. Appare quindi abbastanza evidente che le cifre sui morti possano essere sottostimate, ma questo non significa che la mortalità del coronavirus in Italia sia ancora più elevata di quanto dicano i dati ufficiali: al 31 marzo la percentuale dei deceduti rispetto al totale dei casi era dell’11,1%, come riferisce l’Iss, a fronte di una media globale del 4,8% (fonte Oms). Piuttosto, la presenza di migliaia di casi di morte non dichiarati va letta come un indizio del fatto che in Italia l’epidemia potrebbe verosimilmente essere molto più diffusa, e i contagiati molti di più rispetto ai casi ufficialmente censiti. Ad ammetterlo, la scorsa settimana, era stato lo stesso capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, secondo cui il rapporto di un malato certificato ogni dieci non censiti “è credibile”. E si sono spinti anche oltre i ricercatori del Centro per i modelli delle malattie infettive dell’Imperial College di Londra, che in uno studio pubblicato lo scorso 30 marzo hanno stimato che in Italia e in altri Paesi europei i contagiati dal nuovo coronavirus potrebbero essere milioni. Nel nostro Paese, in particolare, le persone che hanno finora contratto il virus SarsCoV2 potrebbero essere 5,9 milioni, il 9,8% della popolazione, mentre le misure di contenimento del contagio avrebbero salvato circa 38mila vite. E mentre nei Paesi occidentali i numeri su morti e contagi continuano a crescere, l’ombra del dubbio si allunga sulle cifre della malattia in Cina, il Paese epicentro della pandemia. Secondo un rapporto dell’intelligence Usa, svelato da Bloomberg, Pechino avrebbe nascosto la reale portata dell’epidemia del coronavirus dichiarando “numeri falsi” sia sui contagi sia sulle vittime, e diffondendo dati “intenzionalmente incompleti“. Ad oggi le autorità cinesi hanno dichiarato solo 82mila casi accertati e 3.300 decessi, meno di Usa, Italia e Spagna, e ci sono dubbi anche sulle cifre ufficiali fornite da Paesi come Iran, Russia, Indonesia, Corea del Nord, Arabia Saudita ed Egitto. Nella città di Wuhan, in particolare, nei giorni scorsi sempre Bloomberg ha rivelato di code chilometriche fuori dai crematori, dai quali i cittadini sono stati chiamati a prelevare le ceneri dei propri cari per poterle portare via, in occasione della ricorrenza del Qingming, dedicata ai defunti. Fuori da una casa funeraria fonti locali hanno riferito di aver contato 2.500 urne impilate in attesa di essere distribuite e altre fonti parlano di cifre anche maggiori: numeri che, secondo i calcoli, se fossero moltiplicati per le otto strutture del genere presenti in città darebbero un totale dei morti ben diverso dalla cifra ufficiale. A Wuhan, secondo le autorità cinesi, l’epidemia di coronavirus avrebbe infatti ucciso in tutto 2535 persone.

Perché Covid-19 uccide di meno in Germania. Andrea Muratore su Inside Over il 3 aprile 2020. Italia e Germania sono, sotto il profilo epidemiologico, due esempi antitetici nella diffusione del Covid-19 in Europa. Nel nostro Paese l’effetto dell’epidemia è stato travolgente, con lo scoppio di due focolai a Codogno e nella bergamasca che hanno travolto la Lombardia, epicentro dell’infezione, e portato in poche settimane al superamento degli 11mila morti, mentre in Germania, a fronte di 64mila casi, i decessi registrati sono stati solo 560. Certamente il dato tedesco è stimato al ribasso, in quanto calcola esclusivamente i casi in cui l’infezione da Covid-19 è risultata la causa determinante del decesso. Tuttavia, la minore letalità del virus in Germania non è spiegabile esclusivamente con tale artificio contabile – che dimostra la grande trasparenza italiana nella comunicazione – ma principalmente con le evidenze della diversa curva epidemiologica dei due Paesi. Sono almeno quattro, infatti, le principali evidenze che si possono trarre dallo studio dei due casi. In primo luogo, l’Italia ha avuto due focolai di partenza dell’epidemia, come detto, in cui si è concentrata la diffusione del contagio in Lombardia. In terra tedesca il contagio è sempre stato spalmato in tutti i Land, senza che uno di essi assurgesse all’infausto equivalente della Lombardia in Italia o della regione di Madrid in Spagna. In secondo luogo, pesa la diversa incidenza demografica dell’epidemia. In Italia l’età media degli infetti si aggira attorno ai 64 anni, 17 in più di quella tedesca. Stando alle ricostruzioni, in Germania i principali vettori del contagio sono stati i turisti rientrati dalle Alpi, in larga misura di età mediamente giovane, mentre in Italia il virus ha colpito in ospedali, case di riposo e abitazioni private una popolazione anziana estremamente vulnerabile. Secondo quanto dichiarato a La Verità da Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità pubblica all’università Vita-Salute del San Raffaele di Milano, la maggiore promiscuità tra giovani e anziani nelle case italiane ha favorito la diffusione del contagio: i giovani italiani passano più tempo a contatto con nonni e parenti anziani rispetto a quelli tedeschi, e questo ha favorito indubbiamente il passaggio del virus, specie attraverso il contagio asintomatico. Inoltre, terzo punto, vi è il problema degli ospedali. Come sottolineato anche nel recente rapporto dell’Università di Harvard, l’eccessivo tasso di ospedalizzazione iniziale ha veicolato un’accelerazione del contagio in Lombardia, che ha finito per colpire soggetti deboli, dai pazienti oncologici agli immunodepressi, aumentando notevolmente il conto dei decessi. La Germania ha avuto più tempo dell’Italia per prepararsi allo choc e, complice la minore età dei ricoverati, ha potuto contare con più facilità sul fatto che le difese immunitarie dei suoi cittadini fossero il primo, essenziale antemurale. In quarto luogo, diretta conseguenza dello scarto temporale, la Germania ha potuto utilizzare per il tamponamento e il monitoraggio dei casi il modello sudcoreano esportato, con successo, anche in Veneto, che ha ricevuto gli encomi degli studiosi di Harvard. La somma tra tamponamenti di massa, tracciamento degli spostamenti dei positivi, verifica della possibile infezione dei loro contatti e sfruttamento massiccio, nei limiti del possibile, delle cure in isolamento domiciliare ha fornito la base del successo del modello Veneto fin dalla metà di marzo. Favorita dalla minore virulenza della malattia, Berlino ha potuto, come quinto punto, porre in essere misure per contenerla senza l’assillo di una crescita vertiginosa e rovinosa dei contagi. La somma di diversità sociali, demografiche e gestionali è un “cigno nero” nel “cigno nero” che ha ulteriormente complicato il compito italiano: a fare scuola sono stati quei modelli, quali il Veneto, in cui la pragmaticità è stata seguita sin dalle prime ore, prevenendo un disastro generalizzato.

In Italia il virus uccide, in Germania no. Il mistero della resistenza dei tedeschi. La letalità da Covid 19 del nostro Paese è la più alta del mondo. I tedeschi, che contano pure loro decine di migliaia di contagiati e una popolazione anziana come la nostra, hanno invece un tasso dello 0,3 per cento. Circa 28 volte più basso. Una differenza che dipende da fattori sociali e culturali. Dall'età media degli infettati. E dalla qualità del sistema sanitario. Emiliano Fittipaldi il 21 marzo 2020 su L'Espresso. Nella mappa dell'orrore della John Hopkins University, che ogni giorno traccia quasi in diretta il numero di infettatati e morti da coronavirus paese per paese, c'è una sorprendente anomalia. Quella della Germania. Con un ritardo di una settimana circa rispetto all'Italia, anche i cugini teutonici stanno subendo gli effetti devastanti del Covid 19, e il governo della cancelliera Angela Merkel ha seguito l'esempio italiano ordinando il lockdown di quasi tutto il paese. Eppure i dati sfornati quotidianamente dal loro istituto nazionale di ricerca, il Koch, sono assai diversi sia dai nostri, sia da quelli del resto del mondo. Se il tasso di crescita dei contagi è esponenziale (mentre scriviamo la Germania è il quarto paese al mondo per numero di infetti, in tutto 20.705), il numero dei morti assoluti resta bassissimo. Solo 72 al 20 marzo 2020. Il tasso di letalità è di conseguenza dello 0,3 per cento. È il più basso del mondo. Ancora meno grave di quello della Corea del Sud (all'1,1 per cento), di quello della Francia (12.483 casi e 450 morti, per una letalità del 3,6 per cento) e della Cina, ferma al 3,8. Ma è impressionante confrontare il dato tedesco con quello della Spagna (al 5,4 per cento) e soprattutto con quello dell'Italia, dove per Covid 19 muoiono 8,5 persone ogni 100 infettate. Un record di letalità che non ha paragoni. Da qualche giorno gli esperti di mezzo mondo si stanno così interrogando sull'eccezione tedesca. E, di riflesso, su quella italiana. L'epidemia da coronavirus è ancora agli inizi, ed è troppo presto per tirare qualsiasi conclusione. Soprattutto perché – come suggeriscono da tempo Roberto Burioni e Nino Cartabellotta – la letalità in Italia (ma non solo) è probabilmente sovrastimata, perché il numero complessivo dei contagiati (un denominatore di fatto ignoto, a causa della grande percentuale di infettati asintomatici) è probabilmente molto più alto. Ma lo spread tra Italia e Germania è ormai così ampio che qualche scienziato sta provando a proporre alcune prime ipotesi. Basate sui dati epidemiologici, certo. Ma pure su fattori sociali e culturali che potrebbero spiegare il diverso decorso dell'epidemia. Senza dimenticare le differenze dei due sistemi sanitari nazionali, e le diverse risposte dei governi e delle autorità sanitarie alla pandemia.

1) Partiamo dall'età dei contagiati. Gli esperti tedeschi del Koch Institute di Berlino segnalano che in Germania per ora si sono ammalati soprattutto i più giovani, rispetto a quello che è accaduto in Italia e Spagna. Le generazioni under 50 hanno, come sappiamo anche dalle prime statistiche cinesi, una probabilità molto più bassa di morire, intorno allo 0,4-0,3 per cento. Mentre l'esito rischia di essere letale soprattutto per gli anziani over 70. A differenza che in Corea o in Cina, dove l'età media della popolazione è più bassa che in Italia, la Germania ha una percentuale di anziani molto simile a quella italiana. Gli over 65 sono il 25 per cento dei tedeschi, in Italia (dati Istat 2019) quasi il 23. Dunque perché in Italia, e in particolare al Nord, si sono infettati così tanti anziani e in Germania no (o non ancora)? Bruce Aylward, vicedirettore generale Oms, ha ipotizzato al New York Times che le differenze tra paesi potrebbero dipendere dalle diverse strutture sociali. In Cina, per esempio, quasi l'80 per cento delle infezioni da Covid 19 si sono sviluppate in famiglia. Le famiglie numerose caratterizzano non solo Wuhan e il distretto di Hubei, ma anche l'organizzazione sociale dei paesi mediterranei. È possibile dunque che in Italia e Cina i giovani, spesso asintomatici o con sintomi blandi, abbiano poi contagiato genitori o nonni più fragili che vivono a stretto contatto con loro. In Germania, invece, giovani e anziani hanno rapporti più distanziati. Se in Italia e Cina (come ha spiegato Moritz Kuhn, docente di economia all'università di Bonn) le persone tra i 30 e i 49 anni che vivono ancora con i genitori sono più del 20 per cento, in Germania la percentuale si dimezza. Le statistiche Eurostat confortano il ragionamento del professore: in Italia la metà dei giovani tra i 25 e i 34 anni vive ancora con genitori, mentre i tedeschi in media vanno via di casa a 23 anni. La solitudine degli anziani tedeschi, dunque, potrebbe aver abbassato il tasso di letalità. Almeno per ora. La cautela, spiegano dal Koch, è d'obbligo, anche perché la Germania è indietro nello sviluppo dell'epidemia almeno una settimana rispetto all'Italia. Hans Georg Krausslich, virologo dell'Università di Heidelberg, ascoltato dal Financial Times ha chiarito che tutto potrebbe cambiare presto anche lì: «In Germania la stragrande maggioranza dei pazienti è stata contagiata solo nell'ultima settimana o due, e probabilmente vedremo casi più gravi in futuro. Così come un cambiamento dei tassi di mortalità».

2) Gli ottimisti, però, sono pronti a scommettere che i tedeschi avranno meno decessi di altri paesi europei. Anche grazie alla risposta rapida del loro sistema sanitario. Il basso tasso di letalità sarebbe dovuto infatti, come in Corea del Sud, all'uso massiccio dei tamponi fatto fin dai primi giorni dell'epidemia. Secondo la Federazione dei medici tedeschi anche prima di registrare i primi decessi in Germania sarebbero stati fatti decine di migliaia di test (solo 135 mila nelle prime due settimane di marzo), a cui bisogna sommare (chiosa un articolo di Le Monde) anche i tamponi fatti negli ospedali e nelle cliniche, il cui numero preciso non è ancora conosciuto. Lo screening massiccio fatto in tempi utili, insieme al distanziamento tra giovani e anziani, può aver abbassato di molto il tasso di letalità nazionale. «La capacità di fare test in Germania è molto importante» ha chiarito Lothar Wieler del Koch «Possiamo fare più di 160 mila tamponi alla settimana». In Italia i test fatti, soprattutto nelle prime settimane, sono stati molto inferiori. Non perché mancano tamponi, ma per una bassa capacità di analizzare i test da parte di cliniche private e ospedali. Solo ora Walter Ricciardi, esperto dell'Oms e consulente del governo, sta spingendo a copiare il modello coreano e tedesco.

3) Infine, il tasso di letalità potrebbe essere legato alla risposta dei vari sistemi sanitari. Quello tedesco può vantare il più alto numero di terapie intensive. In Italia all'inizio dell'epidemia avevamo poco più di 5000 ventilatori meccanici, e gli ospedali delle zone più colpite (in primis il lodigiano, Cremona, Brescia e poi Bergamo) sono andati presto in tilt. Molti anziani sono morti nelle loro case, come raccontato da medici e politici, senza la possibilità di essere intubati e, forse, salvati. In Germania ci sono ben 28 mila terapie intensive, e il governo federale punta a raddoppiarli (grazie ai produttori tedeschi) in pochi mesi. «Qui siamo all'inizio dell'epidemia» chiude Wieler «e possiamo ancora garantire che le persone gravemente malate possano essere curate in ospedale». È probabile che la Germania riesca a non saturare mai le sue strutture. È probabile dunque che il mistero del basso tasso di letalità tedesco sia frutto di diversi fattori. Anche dovuti al caso (e l'Italia è stata molto poco fortunata) e all'imprevedibilità della pandemia. Gli scienziati si aspettano pure che, con il passare del tempo, la mortalità da Covid 19 si uniformi in tutto il mondo. Ma molti esperti scommettono che i tedeschi rispetto ad altri paesi europei riusciranno a contenere le perdite. Sia umane che economiche.

Udo Gumpel: "In Germania meno decessi per coronavirus? Gli anziani sono molto più soli ma ora molto più vivi". Libero Quotidiano il 19 marzo 2020. Rispetto alle polemiche sui numeri della Germania sui contagi e sui morti da Covid-19 interviene il giornalista tedesco Udo Gumpel. Il quale mette a tacere i vari complottisti con un post pubblicato sul suo profilo Twitter: "Vorrei tranquillizzare tutti coloro che sospettano che la Germania nasconda i decessi per Coronavirus: attualmente il totale dei positivi è salito a 14.217 e i decessi adesso contano 44 persone", scrive. Quindi una spiegazione molto plausibile: "La minore letalità è dovuta a un molto minore contagio tra anziani". Perché? Semplice. "La faccio breve", continua Gumpel: "Primo: gli anziani tedeschi vivono molto più socialmente separati dai giovani, "perfetti trasmettitori" in quanto spesso asintomatici. Secondo: tra gli anziani ci sono meno punti di contatto sociale, tipo bar, tabaccherie, circoli". Insomma, conclude il giornalista tedesco, in Germania gli anziani sono "molto più soli.

Da corriere.it il 19 marzo 2020. Il presidente del Brasile Bolsonaro: "L'Italia è una città... un Paese pieno di vecchietti, in ogni palazzo ce ne sono almeno una coppia, come a Copacabana, per questo motivo ci sono tanti morti".

Da repubblica.it il 19 marzo 2020. Qualche giorno fa i dirigenti dell’Organizzazione mondiale della Sanità hanno dato qualche consiglio per le persone in quarantena: non informatevi troppo, hanno detto, inutile stare tutto il giorno a pensare al coronavirus, cercando aggiornamenti sui social, fatelo solo un paio di volte al giorno e da fonti affidabili. Pensate anche ad altro. Facile a dirsi. Facile a dirsi se non stai in Italia. Se non vivi in un paese paralizzato eppure fiero, che ogni giorno registra il record mondiale di vittime, di contagi, di casi gravi. Saremo pure un modello, il modello italiano, ma finora l’epidemia ha colpito qui più duramente che in qualunque altro posto del mondo: lasciate stare la Corea del Sud (che è ferma a 84 morti, quasi 2900 meno di noi). Prendete la Cina, dove tutto è iniziato: li ha colpito 56 abitanti su un milione, da noi dieci volte tanto. Perché? Un giorno lo capiremo ma intanto si avanzano tante ipotesi. Una viene dallo studio appena pubblicato da un team di ricercatori di Oxford: numeri alla mano, emergono due fattori che avrebbero reso il coronavirus così letale da noi. Il primo è noto, è la demografia: da noi una persona su quattro ha più di 65 anni, in Cina la metà. Il secondo è sorprendente: dicono, i ricercatori, che potrebbe aver influito il nostro senso della famiglia, il fatto che i ragazzi vivono con i genitori fino a tardi, e che i nonni di solito sono nei paraggi; e che ci tocchiamo, ci abbracciamo, ci baciamo sulle guance per salutarci. Siamo affettuosi con le persone che amiamo. La vera storia del coronavirus sarà scritta solo alla fine, ma una cosa si può già dire: se anche fosse vero che il nostro modo di volerci bene ha influito sulla diffusione, sarà il nostro cuore che ci farà venire fuori dal tunnel.

·        Una Generazione a perdere.

Coronavirus, dall'epidemia sanitaria a quella morale: in Italia c'è l'odio verso gli anziani. Alberto Luppichini su Libero Quotidiano il 07 novembre 2020.  La migliore università, in Italia, è il bar sotto casa o la trattoria di paese dove abbuffarsi in compagnia. Il motivo è semplice. Si tratta di posti spiccioli ma genuini, dove gli italiani si sentono a casa e così si lasciano andare a considerazioni di micidiale buon senso. Da un po' di tempo, non si parla più dei mascalzoni al governo o della rovesciata del fenomenale Ibrahimovic. Qualcosa di più serio e preoccupante ha rubato la scena alla sempreverde politica e al mitico pallone: il tema degli anziani, ormai considerati un accessorio futile e addirittura pericoloso nella nostra società, sempre più portata a venerare i giovani come divinità. Tornando alla nostra trattoria, la discussione fra gli avventori settantenni è più o meno la seguente. Abbiamo lavorato una vita, versato allo Stato contributi che non si meritava, in più siamo stati capaci di crescere i nostri figli. E adesso saremmo noi lo scarto della società? Abbiamo esperienza da vendere e insegnato il mestiere a generazioni di ragazzotti. Ci vuole rispetto. Nel bar sotto casa, all'ora del caffè, un tavolo di giovani discute a voce alta. Il senso è questo. Sintetizzo. Gli anziani sono dappertutto, persino sul posto di lavoro. Non ci valorizzano e, anzi, ci impediscono di avere le promozioni che meritiamo perché loro non si smuovono, da veri egoisti. In fin dei conti, il futuro ci appartiene. La conversazione qui riportata è un condensato del clima che si respira nel Paese, con un pericoloso risentimento dei più giovani verso gli anziani, i quali si limitano a pretendere il rispetto guadagnato con anni di lavoro e sacrifici. Poca riconoscenza - La brutalità dei giovanotti presuntuosi di oggi è raccapricciante. Essi trascurano un dato sostanziale. Gli anziani, infatti, in assenza dei genitori spesso affaccendati, li hanno cresciuti e allevati con amore. La fatica riversata in fabbrica, nei campi o nella bottega del paesello, il sudore per raggranellare con fatica i primi quattrini e potersi così costruire una casa dignitosa, la preoccupazione di assicurare una prospettiva all'altezza ai propri figli. La storia dell'Italia è, in buona sostanza, la storia dei nostri vecchi, i quali, mattone su mattone, hanno saputo costruire un edificio che ancora oggi resiste, pur con tutti i problemi veri o presunti di cui ci lamentiamo ogni giorno. Lamentarsi, in effetti, non è mai stata prerogativa degli anziani. Semmai, l'auto-commiserazione è pratica assai diffusa fra le nuove generazioni, le quali, per il solo fatto di avere 18 o 20 anni credono di avere il mondo a loro disposizione e di potersi così permettere veri e propri insulti ai danni di chi li ha cresciuti. Il Coronavirus è stato il detonatore finale per la loro stupidità. Aumentata la preoccupazione per il lavoro che non c'è e per un futuro tutto da inventare, l'odio degli italiani verso i "vecchi" si è trasformato in un tic insopportabile e retrogrado. Dati alla mano, il razzismo che colpisce gli anziani è ben più dannoso di quello rivolto agli immigrati, a torto considerati vittime sacrificali della intolleranza. Il fenomeno, nei fatti grave e degradante, ancor di più nel nome (si chiama "ageismo"), ha ormai preso piede nel nostro Paese. Si tratta delle crudeli sofferenze inflitte agli anziani ad opera di comportamenti inaccettabili e disumani dei loro connazionali. Secondo uno studio condotto nel 2020 in tutti i paesi europei, il 28% degli anziani ha riferito episodi di intolleranza, addirittura più di coloro che subiscono atti di sessismo (22%) e razzismo (12%). La tendenza risulta accentuata nell'ambito della sanità, dove il 30% degli ultrasessantenni ha denunciato di aver subìto trattamenti ingiusti a causa dell'età. Le conseguenze sono devastanti. La società francese di gerontologia e geriatria riferisce che essi, in quanto discriminati, vivrebbero in media 7 anni e mezzo in meno rispetto agli altri. Dal passato al futuro - Per questo motivo, le associazioni di 29 paesi hanno lanciato lo slogan «Old Lives Matter» («Le vite degli anziani contano») per sensibilizzare i cittadini, le istituzioni e i media. Come si vede, la maggioranza, in Italia come in Europa, è rappresentata da persone perbene, tuttavia le mele marce rimangono. I giovanotti presuntuosi, in effetti, non finiranno mai di logorarci l'anima, ma la pazienza dei nostri anziani non può durare ancora a lungo. Tucidide, storico greco, amava dire: «Bisogna conoscere il passato per capire il presente e orientare il futuro». L'Italia fa di tutto per cancellare il suo passato. Come possiamo avere un futuro?

Il post di Toti sugli anziani: «Non sono indispensabili». Le polemiche e poi le scuse. Il Corriere della Sera l'1/11/2020. «Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate». Con queste parole, pubblicate sui suoi profili di Facebook e Twitter, il presidente della Liguria Giovanni Toti ha scatenato una polemica in Rete. L’esternazione è arrivata nel corso della riunione tra ministri e Regioni in vista del nuovo Dpcm per contenere il coronavirus. Insieme ai governatori di Piemonte e Lombardia, Toti ha avanzato la proposta di limitare gli spostamenti degli over 70 per evitare un lockdown generalizzato. E sui social, come detto, ha fatto un intervento molto discusso, definendo gli anziani «persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese», che vanno «però» tutelate. Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate.

— Giovanni Toti (@GiovanniToti) November 1, 2020: «Ditemi che non è vero, vi prego» ha commentato il virologo Roberto Burioni. «Facci capire meglio, vanno tutelate o no?» chiede qualcuno. «Toti ha assunto Himmler come ghost writer?» si domanda qualcun altro. Migliaia i commenti, tanto da spingere lo staff del governatore a una repentina precisazione: «Il senso di questo tweet, che appartiene a un ragionamento più ampio, è stato frainteso. I nostri anziani sono i più colpiti dal virus, sono persone spesso in pensione che possono restare di più a casa e essere tutelate di più».

Toti e il cinismo della politica di destra in Italia. Di Federico Quadrelli su Formiche.net l'1/11/2020. Questo è un commento pubblicato sui social del governatore della Liguria Giovanni Toti. Si tratta della quinta essenza del cinismo. L’idea che sta dietro questo commento, però, è assai diffusa in ogni ambito dell’esistente. Si tratta dell’estremizzazione del “rapporto costo-beneficio”, la ragione senza il sentimento. Sì, perché da un punto di vista logico, per chi condivide questa visione economicistica dell’esistente, è assolutamente lineare e comprensibile. I “liberali”, ai quali Toti vorrebbe richiamarsi, dovrebbero avvertire un moto di orrore. Poiché niente c’è di quella cultura in quell’affermazione. Mi sforzo di immaginare Adam Smith, filosofo morale, davanti a un simile pronunciamento. Per questo, da tempo, si parla di neoliberisti. Questa deviazione razionalistica, economicistica e cinica dell’esistente interpreta le persone come “oggetti”. Per cui, sono viste sempre e solo in funzione dell’utilità che essi possono avere per il raggiungimento di un determinato scopo. Se non sono utili sono quindi semplicemente “inutili” e se sono “inutili” sono un costo. Per questo vi invito a leggere con attenzione quella frasetta del tweet, che cito ora qua “(…) persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del paese che vanno però tutelate (…)”. Vite di scarto, per citare il sociologo polacco Bauman. E se sei uno scarto, perché sei inabile al lavoro, perché sei vecchio e/o hai una pensione (poco conta che tu abbia lavorato 40 anni spaccandoti la schiena, e che tu te la sia di fatto pagata quella pensione), perché sei malato, l’unica opzione che resta è lo “smaltimento”. Dopotutto, quel “che vanno però tutelati”, suona alla fine dei conti di una profonda ipocrisia. Questa affermazione di Toti potrebbe serenamente essere derubricata a un tweet imbecille scritto da un soggetto che non meriterebbe nemmeno un secondo di attenzione. Purtroppo per noi, il soggetto è un Presidente di Regione, esponente storico di un movimento politico che ha governato questo Paese per 15 anni circa e che ha influenzato (in peggio) la cultura politica del paese e soprattutto ne ha corrotto l’etica. Un approccio per altro anticristiano. Il che è interessante per chi si richiama sempre ai “valori” del cristianesimo. Un richiamo che fanno senza averne mai compreso però il senso. Si tratta del riassunto perfetto dell’ideologia dominante di una certa classe dirigente. Che spiega bene il perché dello sbandamento complessivo della politica e della società italiana degli ultimi 20 anni almeno. E delle reazioni “populiste” degli ultimi 10 anni e del loro successo. Toti non esprime nulla di nuovo, anzi, si tratta di un pensiero vecchio, che si fonda sul un’idea estremizzata però del pragmatismo e l’utilitarismo, sulla deumanizzazione delle persone, che sono ridotte ad oggetto e  che è dunque riassumibile con questa considerazione: puro cinismo. Quindi, che muoiano pure i vecchi, gli inabili e i malati, per Toti sarebbe, evidentemente, solo un modo per correggere in positivo la bilancia economica del paese.

Le parole di Toti sugli anziani e la fine dell’ipocrisia della destra sul Covid. Adriano Manna su Sinistraineutopa.it il 2 Novembre 2020. Hanno provocato notevole scalpore le dichiarazioni rilasciate via Twitter dal Governatore della Liguria, Giovanni Toti, espressione dell’area più “moderata” del centro-destra italiano. Il suo tweet, che vi riproponiamo qui sotto, e l’immediato scalpore da esso provocato, l’hanno costretto a immediate rettifiche e scuse, se non fosse altro perché governa una delle regioni d’Italia con l’età media più alta e che una buona fetta del suo elettorato è rappresentata proprio da quei pensionati, over70, che in effetti non sono più indispensabili allo sforzo produttivo del Paese, “godendosi” oggi quella pensione che hanno pagato con il lavoro di una vita. Tuttavia bisognerebbe ringraziarlo Toti, perché nella sostanza ha reso manifesto, senza tante ipocrisie, quello che è il pensiero della destra italiana e di importanti settori del mondo imprenditoriale riguardo alle priorità gestionali dell’emergenza sanitaria in corso. Anche la specificazione sulle persone anziane “che però vanno tutelate”, con cui chiude il messaggio, non è assolutamente un controsenso come potrebbe apparire ad una prima lettura, ma la dimostrazione che si tratta di un messaggio ragionato, un “detto e non detto” che vuole di fondo far passare il messaggio principale, lasciandosi però una via d’uscita qualora la reazione dell’opinione pubblica fosse troppo negativa. Inutile nascondercelo: la seconda ondata dell’epidemia sta mettendo i policy makers dinanzi al più dilaniante dei trade-off: tutelare la salute oppure l’economia? E’ infatti evidente che, se accettassimo come moralmente accettabile l’idea di “sacrificare” i settori più deboli della popolazione italiana (che non sono semplicemente i più anziani, ma anche i soggetti più giovani che si trovano ai margini della società e tutte le persone con un quadro clinico già aggravato da patologie pregresse) la gestione sanitaria potrebbe essere decisamente diversa, più leggera e meno punitiva verso tutti quei settori economici che stanno soffocando sotto le restrizioni socio-sanitarie. Si tratta di scelte ovviamente, di priorità. La destra italiana ha sempre avuto in questi mesi un comportamento che poteva apparire schizofrenico: prima andava in piazza senza mascherine, poi accusava il governo di non aver prevenuto la seconda ondata, poi ancora strizzava l’occhiolino verso le comprensibili proteste dei commercianti, dipendenti non tutelati e liberi professionisti terrorizzati dall’ipotesi di un nuovo lock-down. Si tratta di un comportamento che, se viene letto alla luce di questa affermazione, probabilmente la più sincera mai pronunciata da un politico della destra italiana nell’ultimo ventennio, assume una chiarezza ed una coerenza facilmente spiegabili: la destra sa bene che l’emergenza sanitaria è vera, ma ritiene che la salvaguardia del livello di produttività del nostro paese venga prima della tutela di quelle fasce della popolazione maggiormente esposte al rischio sanitario. Del resto si tratta esattamente della posizione enunciata ad inizio marzo dai vari Johnson, Bolsonaro e Trump, insomma dai massimi esponenti della “nuova” destra affermatasi in questi ultimi anni sullo scenario internazionale. Una posizione che i nostri vari Salvini, Meloni e compagnia avrebbero probabilmente fatto volentieri loro ma che, sconsigliati dai sondaggi che ne indicavano la forte impopolarità nell’opinione pubblica italiana, hanno ben pensato di non esplicitare, salvo poi condividerne l’essenza nei loro comportamenti. La battaglia contro questa destra diviene quindi prima di tutto una battaglia di civiltà: vogliamo vivere in una società dove nel nome del Dio denaro è possibile mettere in secondo piano le vite umane, oppure la salvaguardia della vita, di tutte le vite, assume un valore primario? Vogliamo uno Stato che tuteli i cittadini in primo luogo, oppure uno Stato ridotto a mero esecutore delle esigenze del mercato?

Monica Guerzoni e Fiorenza Sarzanini per corriere.it l'1 novembre 2020. Limitazione agli spostamenti delle persone che hanno più di 70 anni. È una delle proposte avanzate al governo da alcuni governatori nel corso della riunione tra ministri e Regioni in vista del Dpcm che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dovrebbe firmare tra lunedì e martedì. Il primo a proporla è stato il presidente della Liguria Giovanni Toti ed è stata condivisa Lombardia Attilio Fontana e da quello del Piemonte Alberto Cirio. I governatori - Toti e soprattutto quello del Veneto Luca Zaia - respingono l’idea di lockdown locali «che penalizzerebbero alcune aree in maniera troppo pesante».

L’allarme di Toti. Il presidente della Liguria ha lanciato l’allarme sui ricoveri in ospedale chiedendo di «intervenire per proteggere in modo rigoroso gli anziani». Perché non si interviene su questa categoria: proteggendo in modo modo rigoroso questa categoria di persone, il tema degli ospedali e dei decessi diventerebbe infinitamente minore. Sarebbe folle richiudere in casa persone per cui il Covid normalmente ha esiti lievi, bloccare la produzione del paese, bloccare la scuola e il futuro sei nostri giovani, e non considerare alcun intervento su coloro che rischiano davvero.

No lockdown locali. I governatori respingono l’idea di fare lockdown locali chiedendo al governo di prendere decisioni. Per questo hanno sollecitato il governo a prendere misure che tengano conto dell’Rt, l’indice di trasmissione del contagio, ma anche della tenuta delle strutture sanitarie.

 Giovanni Toti sugli over 70: «Non sono indispensabili». Polemiche in Rete, Burioni: «Ditemi che non è vero». Da corriere.it l'1 novembre 2020. «Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate». Con queste parole, pubblicate sui suoi profili di Facebook e Twitter, il presidente della Liguria Giovanni Toti ha scatenato una polemica in Rete. L’esternazione è arrivata nel corso della riunione tra ministri e Regioni in vista del nuovo Dpcm per contenere il coronavirus. Insieme ai governatori di Piemonte e Lombardia, Toti ha avanzato la proposta di limitare gli spostamenti degli over 70 per evitare un lockdown generalizzato. E sui social, come detto, ha fatto un intervento molto discusso, definendo gli anziani «persone non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese», che vanno «però» tutelate. «Ditemi che non è vero, vi prego» ha commentato il virologo Roberto Burioni. «Facci capire meglio, vanno tutelate o no?» chiede qualcuno. «Toti ha assunto Himmler come ghost writer?» si domanda qualcun altro. Migliaia i commenti, tanto da spingere lo staff del governatore a una repentina precisazione: «Il senso di questo tweet, che appartiene a un ragionamento più ampio, è stato frainteso. I nostri anziani sono i più colpiti dal virus, sono persone spesso in pensione che possono restare di più a casa e essere tutelate di più».

Toti: "Frase maldestra, ma sostanza chiara: non è ghetto, è protezione". HuffPost 2/11/2020. Il Governatore della Liguria conferma a Corriere della Sera: "Prima di pensare ad ulteriori chiusure di attività che servono al sostentamento del Paese e anche a pagare le pensioni, bisognerebbe adottare interventi differenziati". “Il mio collaboratore che ha commesso l’errore in una live tweet, come me, si scusa, imparerà e migliorerà. Ma non lo farà una classe dirigente ipocrita, meschina, che la butta in gazzarra e non vuole vedere la realtà drammatica che abbiamo di fronte”. Lo afferma il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti, in un’intervista al Corriere della Sera. ″È un passaggio scritto in modo maldestro e mi dispiace se ha ferito qualcuno. Ma la sostanza è chiarissima - aggiunge Toti - Non è piacevole chiedere sacrifici alla popolazione. Ma per il nostro presente e il nostro futuro, è più giusto adottare politiche che contengano il danno proteggendo i più fragili e più esposti, gli over 75anni che rappresentano il 90% dei morti, o impedire che vadano a scuola, all’università, a lavoro persone giovani, sane, che spesso sono asintomatici o superano senza problemi la malattia?”. Continua Toti: “Prima di pensare ad ulteriori chiusure di attività che servono al sostentamento del Paese e anche a pagare le pensioni, bisognerebbe adottare interventi differenziati. Vogliamo immaginare per esempio fasce orarie nei supermercati, alle poste, in banca dedicate ai più anziani? A bonus taxi per gli over 75, come qui in Liguria, perché non debbano usare mezzi pubblici? E vale anche per i comportamenti di tutti i giorni. Non è ghetto, è protezione. Mio padre ha 81anni, è cardiopatico, sta molto attento a uscire di casa e fa bene. Mia sorella ha 50 anni, fa la commessa, se il suo negozio chiude non avrà più lavoro”. Poi conclude: “So bene quanto pesi la rinuncia a vedere i nonni, a frequentare le persone, so anche quanto grande sia il contributo economico e pratico per le famiglie che gli anziani danno. Ma se la casa brucia è crudele o è umano dire che i primi a dover scendere dalla scala dei pompieri sono i più fragili?”

Cosa ha detto Toti sul suo tweet che ha scatenato le polemiche. "Forma maldestra, ma confermo tutto. Non è ghetto, è protezione". (askanews Lunedì 2 novembre 2020) – “È un passaggio scritto in modo maldestro e mi dispiace se ha ferito qualcuno. Ma la sostanza è chiarissima. Io dico che non ha senso che in guerra vadano allo stesso modo gli ottantenni come i ventenni, dico che il peso in questa fase ù mandare avanti il Paese per reggere all’urto dell’emergenza sanitaria ora e della crisi economica e sociale per il futuro ù deve essere portato da chi le forze le ha, proteggendo chi non le ha”. Così in un’intervista al Corriere della Sera il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti commenta le polemiche scatenate ieri per il tweet sugli anziani apparso sul suo profilo ufficiale. “Il mio collaboratore che ha commesso l’errore in una live tweet, come me, si scusa, imparerà e migliorerà. Ma non lo farà una classe dirigente ipocrita, meschina, che la butta in gazzarra e non vuole vedere la realtà drammatica che abbiamo di fronte”, spiega Toti. Per il governatore “non è piacevole chiedere sacrifici alla popolazione. Ma per il nostro presente e il nostro futuro, è più giusto adottare politiche che contengano il danno proteggendo i più fragili e più esposti ù gli over 75 anni che rappresentano il 90% dei morti ù o impedire che vadano a scuola, all’università, a lavoro persone giovani, sane, che spesso sono asintomatici o superano senza problemi la malattia?”. “Non è ghetto, è protezione”, conclude Toti: “Serve prima di tuttoasalvare loro stessi e in ogni caso abbiamo chiuso palestre, pub, scuole, università imponendo sacrifici a chi frequentando questi luoghi molto raramente si ammala in modo grave di Covid. L’alternativa è la perdita di attività produttive con danni economici e sociali per anni”.

Toti chiede scusa per la frase sugli anziani che ha scatenato le proteste sui social. Il governatore della Liguria: "E' stata una cosa mal fatta, mi dispiace per il tweet scritto da un mio collaboratore, ma no a meschine strumentalizzazioni". E assicura, "non si tratta di una guerra tra generazioni". AGI 1 novembre 2020-  “Mi assumo sempre la piena responsabilità delle mie idee e delle loro esplicitazioni e lo faccio anche in questo caso. Un mio precedente tweet, scritto in effetti malamente da un mio collaboratore, ha scatenato l’inferno". Il Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti torna sulla vicenda che lo ha visto protagonista di una durissima polemica e, sulla sua pagina Facebook, chiede scusa per il Tweet relativo alla proposta di misure ad hoc per gli over 75. "È stata una cosa mal fatta. Mi dispiace e chiedo scusa, per me e per chi l’ha scritto. Chi lavora talvolta sbaglia. E magari imparando dall’errore, migliorerà in futuro. Chi temo non possa migliorare e farà grandi danni al Paese nel prossimo futuro è chi meschinamente strumentalizza per evitare di dare risposte su un tema difficile, umanamente, eticamente, politicamente ed economicamente. Pertanto meglio buttarla, come si dice, in gazzarra". "Il tema è questo: nelle prossime ore, visto che i nostri ospedali sono quasi allo stremo e i morti aumentano, il Governo sarà chiamato a nuove e dolorose scelte. Un percorso che abbiamo già visto: abbiamo chiuso bar e ristoranti, poi chiuderemo altro, settimana dopo settimana, fino al finale lockdown", spiega Toti.  "Siccome sto scrivendo in prima persona, ricorderò anche in futuro di averlo detto. - aggiunge - Lo dico a tutti coloro, categorie economiche e sociali, che verranno a protestare contro le scelte fatte. Non certo da me. Perché la nostra sanità è in difficolta? Perché i nostri morti aumentano. Tutto sommato, con buona pace degli esperti, basta scorrere i numeri". "Il Covid, ormai anche i sassi dovrebbero saperlo, colpisce severamente e spesso drammaticamente i soggetti più fragili: anziani, sopra i 75 anni e, ovviamente, i malati di molte patologie. Non lo dice Toti, lo dicono i numeri: oltre il 40% dei ricoverati nei nostri Pronto Soccorso ha oltre 75 anni, e oltre il 90 % dei decessi riguarda proprio anziani e persone già con patologie". Allora, continua il governatore ligure, "a me appare chiaro che, proteggendo loro, proteggiamo anche il resto dei nostri cittadini. Se troviamo il modo di proteggerli, i nostri genitori e nonni non si ammaleranno, i nostri Pronto Soccorso si svuoteranno, chi andrà nei nostri ospedali farà parte della parte meno fragile della società e quindi la loro degenza durerà poco e per lo più con esiti felici". "Non è una guerra tra generazioni. È semplice senso di responsabilità", sottolinea Toti che precedentemente, nel bel mezzo della bufera, aveva spiegato: "Cari amici, sta girando un mio tweet su cui vorrei chiarire due concetti e, innanzitutto, chiedere scusa se ha offeso qualcuno poiché non rappresenta minimamente il mio pensiero". "La frase è stata estrapolata da un concetto più ampio e mal interpretata a causa del taglio erroneo su Twitter di un mio post. Non a caso su Facebook, dove il testo è stato pubblicato integralmente, le stesse frasi non hanno creato il medesimo scalpore". Il tweet diceva: "Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate". Ma il governatore spiega di esser stato frainteso: "Il concetto è - precisa Toti - bisogna proteggere gli anziani. Il cinico è chi non lo fa. Il fatto che le persone oltre i 75 anni siano in pensione consente loro di proteggersi, senza per questo dover fermare l'economia del Paese. Il 40% dei ricoverati ha oltre 75 anni di età. Oltre il 95% dei deceduti per Covid ha più di 75 anni di età. L'età media dei decessi è di 84 anni. Servono - prosegue il governatore - misure anagrafiche di protezione per queste categorie se vogliamo sconfiggere il virus. A me sembra francamente più immorale un Paese che vieta scuola e sport ai giovani a cui il Covid fa poco, mentre non tuteliamo coloro che invece per il virus rischiano di morire". Infine il presidente della Liguria conclude: "Basta demagogia e muoviamoci dove serve, senza distruggere il Paese. Questo è quello che volevo dire e spero che facciate girare il più possibile il mio messaggio di chiarimento, con la stessa velocità con cui si fa un processo sui social".

Giovanni Toti, il tweet scatena la polemica: "Anziani non indispensabili allo sforzo produttivo". Libero Quotidiano l'1 novembre 2020. Uno scivolone per Giovanni Toti, che come spesso accade informa la popolazione durante le riunioni tra regioni e governo sull'emergenza coronavirus. E questa mattina, domenica 1 novembre, si è tenuto l'incontro in vista del nuovo dpcm. Le regioni, su proposta di Toti, hanno chiesto di limitare gli spostamenti di chi ha più di 70 anni in modo da evitare lockdown locali. E il governatore della Liguria lo ha reso pubblico su Twitter. Ed eccoci allo scivolone, a una frase che è stata male interpretata e gli sta costando un diluvio di critiche. "Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate", ha scritto Toti. Ed è esplosa la polemica per quel "non indispensabili allo sforzo produttivo del paese". Scritto ovviamente con la massima buonafede ma, oggettivamente, che si presta facilmente alla polemica. Tra i vari, anche Roberto Burioni ha commentato: "Ditemi che non è vero, vi prego". Ma non solo: in risposta al tweet di Toti, diversi attacchi e critiche. Il governatore, comunque, ha subito rettificato con un secondo cinguettio, che potete vedere qui sotto.

Dagospia l'1 novembre 2020. Dal profilo Facebook di Giovanni Toti. “Sto scrivendo questo post in prima persona, parola per parola, come faccio sempre con i messaggi più importanti e prego tutti i frequentatori di questa pagina Facebook, amici, nemici, giornalisti e curiosi, di leggerlo con attenzione. Mi assumo sempre la piena responsabilità delle mie idee e delle loro esplicitazioni e lo faccio anche in questo caso. Un mio precedente tweet, scritto in effetti malamente da un mio collaboratore, ha scatenato l’inferno. È stata una cosa mal fatta. Mi dispiace e chiedo scusa, per me e per chi l’ha scritto. Chi lavora talvolta sbaglia. E magari imparando dall’errore, migliorerà in futuro. Chi temo non possa migliorare e farà grandi danni al Paese nel prossimo futuro è chi meschinamente strumentalizza per evitare di dare risposte su un tema difficile, umanamente, eticamente, politicamente ed economicamente. Pertanto meglio buttarla, come si dice, in gazzarra. Il tema è questo: nelle prossime ore, visto che i nostri ospedali sono quasi allo stremo e i morti aumentano, il Governo sarà chiamato a nuove e dolorose scelte. Un percorso che abbiamo già visto: abbiamo chiuso bar e ristoranti, poi chiuderemo altro, settimana dopo settimana, fino al finale lockdown. Siccome sto scrivendo in prima persona, ricorderò anche in futuro di averlo detto. Lo dico a tutti coloro, categorie economiche e sociali, che verranno a protestare contro le scelte fatte. Non certo da me. Perché la nostra sanità è in difficolta? Perché i nostri morti aumentano. Tutto sommato, con buona pace degli esperti, basta scorrere i numeri. Il Covid, ormai anche i sassi dovrebbero saperlo, colpisce severamente e spesso drammaticamente i soggetti più fragili: anziani, sopra i 75 anni e, ovviamente, i malati di molte patologie. Non lo dice Toti, lo dicono i numeri: oltre il 40% dei ricoverati nei nostri Pronto Soccorso ha oltre 75 anni, e oltre il 90 % dei decessi riguarda proprio anziani e persone già con patologie. Allora a me appare chiaro che, proteggendo loro, proteggiamo anche il resto dei nostri cittadini. Se troviamo il modo di proteggerli, i nostri genitori e nonni non si ammaleranno, i nostri Pronto Soccorso si svuoteranno, chi andrà nei nostri ospedali farà parte della parte meno fragile della società e quindi la loro degenza durerà poco e per lo più con esiti felici. Inoltre avremo modo di curare tutti, ci sarà posto nei nostri ospedali, i nostri medici avranno fiato, e noi, potendo curare ogni persona, non dovremo chiudere di nuovo il Paese. E insieme chiudere reparti interi di ospedale per curare pazienti Covid lasciando indietro gli altri. Non è una guerra tra generazioni. È semplice senso di responsabilità. Io ho un papà di 81 anni, operato al cuore. Vive di una piccola pensione in una casa di sua proprietà. Raramente, per sicurezza, passo a trovarlo, lo saluto da lontano per ulteriore precauzione. Esce il minimo indispensabile. E fa bene. Nella casa di sopra abita mia sorella: ha 50 anni, lavora in un negozio per mantenersi e mantenere agli studi mio nipote, spero futuro ingegnere. Lei deve uscire e andare a lavorare per vivere. Mio nipote deve studiare e sarebbe bello potesse tornare presto all’università. Sono certo che per fare uscire loro di casa mio papà sarebbe felice di stare un’ora in più a casa lui. Sarebbe infelice se mia sorella e mio nipote perdessero il loro futuro per una sua imprudenza o anche una sua mancanza di attenzione o generosità. Ci pensi bene chi oggi urla troppo... quell’urlo verrà sovrastato dal rumore assordante delle saracinesche che saremo costretti a chiudere domani. Per viltà e ipocrisia”, così scrive il Presidente Toti sulla sua pagina Facebook.

(askanews il 2 novembre 2020) “Sto scrivendo questo post in prima persona, parola per parola, come faccio sempre con i messaggi più importanti e prego tutti i frequentatori di questa pagina Facebook, amici, nemici, giornalisti e curiosi, di leggerlo con attenzione. Mi assumo sempre la piena responsabilità delle mie idee e delle loro esplicitazioni e lo faccio anche in questo caso. Un mio precedente tweet, scritto in effetti malamente da un mio collaboratore, ha scatenato l’inferno. E’ stata una cosa mal fatta. Mi dispiace e chiedo scusa, per me e per chi l’ha scritto. Chi lavora talvolta sbaglia. E magari imparando dall’errore, migliorerà in futuro”. Lo ha scritto il presidente della Liguria Giovanni Toti in un post su Facebook.“Chi temo non possa migliorare e farà grandi danni al Paese nel prossimo futuro è chi meschinamente strumentalizza per evitare di dare risposte su un tema difficile, umanamente, eticamente, politicamente ed economicamente. Pertanto meglio buttarla, come si dice, in gazzarra”, sottolinea Toti.

Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 2 novembre 2020. Raramente un tweet aveva messo d'accordo tutti come quello apparso ieri mattina sul profilo ufficiale di Giovanni Toti, presidente della Liguria. Una sequela di «Vergogna», «Si dimetta», «Abominio», «Parole naziste» accoglie il pensiero del leader di Cambiamo. Che si scusa per la forma, ma non fa marcia indietro nella sostanza: «Il mio collaboratore che ha commesso l'errore in una live tweet , come me, si scusa, imparerà e migliorerà. Ma non lo farà una classe dirigente ipocrita, meschina, che la butta in gazzarra e non vuole vedere la realtà drammatica che abbiamo di fronte». Nel tweet è scritto che la maggioranza dei morti sono persone «per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese».

Suona terribile.

«È un passaggio scritto in modo maldestro e mi dispiace se ha ferito qualcuno. Ma la sostanza è chiarissima».

Evidentemente no, se non lo ha capito nessuno.

«Non è piacevole chiedere sacrifici alla popolazione. Ma per il nostro presente e il nostro futuro, è più giusto adottare politiche che contengano il danno proteggendo i più fragili e più esposti - gli over 75 anni che rappresentano il 90% dei morti -, o impedire che vadano a scuola, all'università, a lavoro persone giovani, sane, che spesso sono asintomatici o superano senza problemi la malattia?».

Ma il suo tweet fa pensare a un sacrificio sopportabile, quello delle vite degli anziani, rispetto a uno insostenibile, quello della produzione.

«È il contrario. Io dico che non ha senso che in guerra vadano allo stesso modo gli ottantenni come i ventenni, dico che il peso in questa fase - mandare avanti il Paese per reggere all'urto dell'emergenza sanitaria ora e della crisi economica e sociale per il futuro - deve essere portato da chi le forze le ha, proteggendo chi non le ha».

Che significa?

«Che prima di pensare ad ulteriori chiusure di attività che servono al sostentamento del Paese e anche a pagare le pensioni, bisognerebbe adottare interventi differenziati. Vogliamo immaginare per esempio fasce orarie nei supermercati, alle poste, in banca dedicate ai più anziani? A bonus taxi per gli over 75, come qui in Liguria, perché non debbano usare mezzi pubblici? E vale anche per i comportamenti di tutti i giorni».

Non c'è un rischio ghetto?

«Non è ghetto, è protezione. Mio padre ha 81 anni, è cardiopatico, sta molto attento ad uscire di casa e fa bene. Mia sorella ha 50 anni, fa la commessa, se il suo negozio chiude non avrà più lavoro. Chi va protetto e chi deve continuare a fare la sua vita? So bene quanto pesi la rinuncia a vedere i nonni, a frequentare le persone, so anche quanto grande sia il contributo economico e pratico per le famiglie che gli anziani danno. Ma se la casa brucia è crudele o è umano dire che i primi a dover scendere dalla scala dei pompieri sono i più fragili?».

Quindi il «sacrificio» della socialità degli anziani serve per salvare gli altri?

«Serve prima di tutto a salvare loro stessi e in ogni caso abbiamo chiuso palestre, pub, scuole, università imponendo sacrifici a chi frequentando questi luoghi molto raramente si ammala in modo grave di Covid. L'alternativa è la perdita di attività produttive con danni economici e sociali per anni».

Non si poteva «pensarci prima», facendosi trovare meno impreparati, vivendo un'estate meno spensierata?

«Non è vero che siamo impreparati, ci sono più posti letto, cure, mascherine, c'è tracciamento. E sull'estate, meno male che si è riaperto, con un Pil che è salito del 13%, altrimenti oggi saremmo stati molto peggio. Purtroppo nessuno è riuscito a fare bene, da nessuna parte, probabilmente non si poteva. Oggi però possiamo modulare i nostri interventi, proteggendo i più deboli e salvaguardando il lavoro dei più resistenti».

Mario Calabresi su mariocalabresi.com il 6 novembre 2020. «La gente è diventata troppo seria, io ho 91 anni ma ho la fortuna di essere molto ironica, così non mi accorgo della presenza della morte che mi osserva da vicino pronta a prendermi, e la mattina continuo ad alzarmi contenta». Mi siedo di fronte a Natalia Aspesi nell’ultimo giorno possibile prima del nuovo lockdown, nella sua casa invasa dai libri. Teniamo sempre la mascherina, ma la sua voce inconfondibile e la sua ironia sono intatte. Natalia è stata inviata di cronaca e costume per “Il Giorno”, critica cinematografica per “Repubblica”, ma è soprattutto una strepitosa raccontatrice degli esseri umani, animata da una curiosità che non ha mai ceduto al cinismo o al disincanto. Sono venuto a trovarla per parlare di vecchiaia al tempo della pandemia, in un’epoca in cui si può sentir dire che: «Gli anziani non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese». Natalia non si fa pregare e non ha falsi pudori, si definisce “vecchia” e non cerca di mitigare il passare del tempo addolcendo le parole. «Che gli anziani non servissero a mandare avanti il Paese forse poteva essere vero un tempo ma se oggi guardo all’età di molti grandi industriali, architetti, professori, scienziati, spesso vedo settantenni e anche ottantenni. Potrei dirti che chi lo ha detto è un cretino, ma invece ti dirò che è stato utile: ha rotto un’ipocrisia, perché è vero che diamo fastidio. Ci chiamano nonnini, nonnetti, a parole ci vezzeggiano ma poi ci mettono nelle Rsa, prima di metterci nella tomba. L’ipocrisia sui vecchi è tremenda, se non ci salviamo da soli è l’inferno. Ogni giorno vedo ciò che accade intorno a me e come vengono considerate le persone della mia età».

E che cosa vedi?

«Che diamo fastidio perché costiamo, perché siamo una spesa medica e sociale, perché prendiamo le pensioni, perché occupiamo posti negli ospedali e case o abitiamo in quelle dei figli e magari abbiamo la colpa di continuare a fare un lavoro. Io ho una rubrica delle lettere sul “Venerdì di Repubblica”, a un certo punto qualcuno ha cominciato a scrivermi, una minoranza per carità, che era tempo che lasciassi posto ai giovani. Nello stesso momento lo stesso pensiero è passato per la testa di colleghe più giovani. Io non mi considero inamovibile, se mi dicessero che le mie cose non interessano più, che sono rimbambita, non più capace di scrivere o fuori tempo allora farei subito un passo indietro, ma non per una questione anagrafica, non perché sono vecchia. Non è una colpa».

Tu però non sembri curartene troppo di queste critiche e di chi cerca di prendere il tuo posto.

«Ho la fortuna di aver sempre lavorato e risparmiato e di poter essere ancora indipendente, ma te lo ripeto: i vecchi danno fastidio e la gente non accetta che possano ancora lavorare. Dieci anni fa, quando avevo appena passato gli 80, un giorno un giovane tassista che aveva sentito che parlavo di impegni di lavoro al telefono, alla fine della corsa mi chiese: “Ma lei ancora lavora? Ma non è tempo di smettere e riposarsi? Che cosa fa?” Risposi: “Sa, sono una cuoca, continuo a cucinare”. A quel punto lui disse: “Ah, allora ok”. Se stai in cucina può andare bene, non disturbi troppo…».

Che cosa invece provoca più fastidio a te?

«Ti regalo una notizia: non tutti i vecchi sono sordi! Questa è un’altra cosa che mi fa impazzire, ti parlano e gridano o scandiscono le parole, come se fossi sorda o rincretinita. Ci trattano come i bambini e ogni frase finisce con il sorriso. Poi ci sono quelli che vogliono rassicurarti e con tono consolatorio ti dicono: “Dai, che vivrai fino a cent’anni”. Ma fatti gli affari tuoi, io non ho futuro ma ho un bellissimo passato, ho vissuto nell’Italia meravigliosa della ricostruzione e del boom economico e sono piena di memorie che mi tengono compagnia, non ho bisogno di compassione».

E tu, da giovane, come guardavi al mondo degli anziani?

«Io, da giovane, i vecchi nemmeno li vedevo, non ho mai conosciuto i miei nonni e vivevo sempre tra i miei coetanei. Quando avevo 16 anni ricordo che i miei amici erano tutti innamorati di una ragazza bellissima che di anni ne aveva 26, io ero stupita e continuavo a chiedere: ma come fa a piacervi una così vecchia?! Quante cose ho visto, durante la guerra ho assistito al matrimonio di una mia amichetta che aveva 14 anni e che aveva avuto la dispensa dal vescovo per sposarsi con un ragazzo che partiva per il fronte. Mi piacciono tanto le storie del passato, le conservo con cura, ma senza alcun rimpianto».

Perché non scrivi un’autobiografia?

«Non ci penso nemmeno, non ne ho nessuna voglia e penso non interesserebbe a nessuno. E poi non mi piace scrivere libri, la mia capacità di raccontare si ferma a 80 righe, la dimensione dei miei articoli. A me i libri piace leggerli».

Mentre parliamo ci raggiunge la sua gatta, si sdraia sul divano: «Si chiama Mimma, è vecchia anche lei, ha 17 anni, e mi adora». Accanto a sé Natalia ha appoggiato un bel bastone istoriato. 

«Porto sempre con me il bastone quando esco, mi aiuta a camminare ma serve anche molto, non tanto per difesa quanto per offesa, mi è utile con i giovanotti maleducati o con i vecchi che non sanno stare al mondo. Poche settimane fa, durante il mio piccolo giro intorno a casa, ho dato dei soldi a un ragazzino africano. Un signore mi ha vista e ad alta voce ha cominciato a criticarmi, dicendo che venivano dall’Africa per colpa di gente come me che li mantiene e li foraggia; gli sono andata incontro mentre continuava a criticarmi, ho alzato il bastone e gliel’ho messo sotto il mento e gli ho detto soltanto: “Non permetterti di dire un’altra parola, fascista”. Si è dileguato».

Come vivi oggi?

«Vivo alla giornata, la mia vita comincia la mattina quando mi sveglio e finisce quando vado a letto la sera, sperando sempre di morire nel sonno. Sai, io non sono vecchia, non sono un’ottantenne, io sono ultra-vecchia, penso spesso che potrei avere un figlio di più di settant’anni».

Come sono le tue giornate?

«La mia giornata era sempre uguale da alcuni anni, mi alzavo alle sette, andavo a fare una passeggiata, tornavo a casa, mi lavavo, facevo colazione e poi cominciavo a lavorare. Certo, il virus ha cambiato anche la mia vita, perché non vado più nei negozi, non faccio più la spesa, ma alla mia età molto era già cambiato, mi ero adattata a trascorrere la gran parte del tempo in casa, passati i novant’anni dove vuoi che vada?»

Come dividi il tuo tempo, come riesci a scrivere ancora così tanto?

«Dopo la colazione mi metto al computer e controllo le mail, poi sfoglio velocemente i giornali – “Repubblica”, “Corriere”, “Fatto”, “Foglio” e “New York Times” – e guardo il sito del “Guardian”, ma senza leggere niente, giusto per farmi un’idea. La mattina è dedicata al lavoro e alla scrittura. Leggo poi dopo pranzo, mi metto sul letto seduta e mi dedico soprattutto alle pagine di cultura e spettacoli, niente economia e sport, di cui non capisco nulla, un po’ di mondo, quasi mai la cronaca, che è stata uno degli amori della mia vita, perché la trovo troppo cupa e truculenta, priva di umanità, e poi poca politica perché mi arrabbio ancora molto. Non ho mai imparato a prendere le cose con un po’ di filosofia e distanza. La politica di oggi è troppo lontana dalla mia mentalità, io a uno che governa chiedo scelte, decisioni, atti, e a chi sta all’opposizione critiche vere e proposte, non recite sterili: foto di panini, vacanze, gite in bicicletta, fidanzate, tutta la parte social per me è oscena. Ma probabilmente sono soltanto vecchia e il nuovo pubblico ama questo spettacolo».

E la sera cosa fai?

«Da quando è arrivata la pandemia non esco più e vado a letto alle otto, prima uscivo tre sere alla settimana per andare al cinema o a teatro, l’ultima volta è stato il 22 febbraio per andare alla Scala, alla Prima, e in questo caso anche ultima, del “Turco in Italia” di Rossini con la regia di Roberto Andò. Da allora sono stata rispettosissima di regole e consigli e non esco più, solo un piccolo giro quotidiano dell’isolato».

Hai paura di ammalarti?

«Non ho nessuna preoccupazione per me, ma per le persone che conosco».

Dicevi che vai a letto molto presto.

«E ho i miei riti: guardo una puntata di una serie di Netflix, mai più di una. Con Netflix faccio il giro del mondo: guardo serie di ogni nazione, dalla Polonia all’Arabia Saudita, dalla Danimarca all’India. Amo scoprire cose che non immagino. Poi, ogni sera leggo un libro, mai libri di lavoro, sempre per piacere, fino alle 11. Non leggo quasi più romanzi, salvo che siano dei classici, per esempio Tolstoj, preferisco i libri di storia, mi è piaciuta tantissimo la trilogia sulla vita di Thomas Cromwell scritta da Hilary Mantel. Ma leggo tantissimo, libri italiani, inglesi, americani, sono in combutta con la libreria Hoepli e loro mi mandano dieci libri alla volta, li chiamo ogni mese per avere gli ultimi titoli internazionali. Spesso mi sveglio durante la notte e allora guardo Facebook e Instagram, rispondendo gentilmente alle persone curiose e intelligenti e villanamente agli scemi e poi leggo ancora qualche pagina».

Sei circondata dai libri e sembrano essere loro il grande amore della tua vita.

«A chi è giovane oggi vorrei dire: “Svegliatevi, informatevi, leggete libri, è una cosa che costa poco, puoi fare da solo e riempie di gioia”. Non è mai tempo perso!»

Che cos’è la libertà per te?

«Per me la libertà è fare quello che voglio, nei limiti della mia età e delle mie energie, ma è qualcosa che sta nella testa. A me questi che rivendicano la libertà di non mettere la mascherina mi sembrano dei deficienti, le libertà sono dentro di noi, non fuori».

Quale sarà la prima cosa che farai quando sarà finita la pandemia?

«Andrò a fare la spesa, scenderò dall’ortolano a scegliere la verdura. Adoro fare la spesa ed è una cosa che mi manca tantissimo. Poi guarderò sul giornale se c’è un bel film quella sera andrò al cinema e vorrei avere ancora l’occasione di tornare alla Scala. Intanto cerco di arrivare a stasera».

De Rita: "Noi anziani non siamo gli agnelli sacrificali della pandemia". Maria Novella De Luca su La Repubblica il 2 novembre 2020. Il fondatore del Censis contesta anche la gestione dei dati della pandemia: "Sono imprecisi e terrorizzano la gente. Io li avrei dati in mano all'Istat". “Vogliono fare di noi anziani gli agnelli sacrificali di un’emergenza gestita male, chiuderci in casa quasi fossimo noi gli untori di questo virus. Francamente mi sembra un’idea stupida, ma certo, ho 88 anni, sono di parte, durante il primo lockdown sono andato a lavorare tutti i giorni, non penso certo di fermarmi adesso”. Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, respinge con urticante ironia la proposta del governatore della Liguria Giovanni Toti di applicare un lockdown selettivo agli over70, per proteggerli da virus, certo, ma anche per evitare la diffusione del contagio e la saturazione delle terapie intensive.

De Rita, lei esce di casa?

“Certo. In questi giorni un po’ meno perché ho fatto il vaccino dell’influenza, ma ogni giorno vado a comprare giornali, vado a messa, continuo a lavorare. Dovrei smettere? Non ci penso proprio. Volete togliervi di torno noi vecchi? Non è così che si rimedia agli errori fatti nel governo della pandemia”.

Si sente offeso, in quanto anziano?

“Figuriamoci. Preoccupato sì. Vedo l’incultura dell’intervento pubblico, l’incapacità di gestire un’articolazione territoriale per il contenimento dell’epidemia. Perché utilizzare le stesse regole in Basilicata che magari ha zero contagi, rispetto alla Lombardia dove i morti sono centinaia? Eravamo stati colpiti al cuore a marzo, ma non abbiamo imparato niente. E adesso chiedono a noi anziani di non intralciare, di farci da parte”.

Però il virus attacca proprio la terza età.

“A giudicare da quanti atleti sono risultati positivi, direi che oggi il Coronavirus colpisce senza troppe distinzioni. Il punto è un altro. Se davvero fosse una misura di tutela, forse ne potremmo anche discutere. Ma dietro queste proposte c’è l’idea che gli anziani prima muoiono meglio è, così non intasano le terapie intensive e lasciano il posto ai contagiati giovani, più “utili” alla società. Però non è vox populi, gli italiani amano i propri vecchi, è piuttosto il potere sanitario che spinge in quella direzione".

Una riflessione amara, De Rita.

“Inevitabile. Si pensa al lockdown per gli over 70 mentre in tutto il Paese ci sono le rivolte di piazza, fomentate dagli insurrezionisti di professione. Di questo ci dobbiamo preoccupare, forse. Della tristezza delle persone. Li guardate gli occhi sopra le mascherine? Rassegnati, disperati. In cerca di pace. Mentre una comunicazione ansiogena e quotidiana di morti e contagiati scandisce le nostre vite”.

Secondo lei non si dovrebbero comunicare le cifre dell’epidemia ogni giorno?

“Quei dati sono imprecisi, fatti da chi non sa nulla di statistica. Sapete a chi avrei affidato la comunicazione in questa emergenza? All’Istat. Non ho mai avuto rapporti eccellenti con l’Istat, ma sono bravi e sanno leggere e spiegare i dati. Perché il rischio di questa comunicazione emotiva è poi la rabbia delle persone o la rassegnazione”.

Come ne usciremo?

“Con gli aiuti a pioggia dello Stato, come è sempre avvenuto in Italia. Ma anche con la nostra innata capacità di rialzarci”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 7 novembre 2020. Caro Dago, e a proposito di italiani “improduttivi” perché hanno ormai superato la soglia dei 70 anni, nel giorno in cui ci ha lasciati il settantaduenne batterista dei Pooh Stefano D’Orazio – per dire di un gruppo che se si fosse riunito su un palco saremmo accorsi a migliaia dopo aver pagato per ascoltarli suonare –, lasciami esprimere la delizia intellettuale suscitata in me dalla lettura dell’intervista di Mario Calabresi alla novantunenne Natalia Aspesi, un patrimonio dell’umanità che ce ne vorrebbero quattro o cinque di trentenni vispe vispe di me-too per starle al paro. Premesso che non ho mai avuto professionalmente e umanamente avuto a che fare con la Aspesi (né credo, a giudicare da un suo sgradevole riferimento di alcuni anni fa, che lei abbia molta simpatia nei miei confronti), tango a sottolineare il termine “patrimonio dell’umanità” perché esattamente di questo si tratta nel suo caso. Di una che porta con tale eleganza, con tale ironia, con tale garbo intellettuale i suoi 91 anni da essere semplicemente insostituibile. Non ci posso credere che qualche demente tra gli utenti della sua rubrica di corrispondenza con i lettori sul “Venerdì” le scriva di mettersi da parte, di lasciare spazio ai giovani o alle giovani. E come se invece non fosse un valore insostituibile quello di averne viste tante, di averni conosciuti tanti, di conoscere a puntino l’Italia di oggi ma anche quella di trent’anni fa ma anche quella della Seconda guerra mondiale, di avere assistito allo scorrere di un pressoché infinito corteo ora di cialtroni ora di eroi. Non solo i musei sono un patrimonio dell’umanità ma anche le persone, la loro memoria, la loro esperienza, il fatto che di vite ne abbiano vissute non una ma due o tre. Ricordo come fosse ieri il momento in cui mi trovai di fronte – in una casa di Lugano – il Giuseppe Prezzolini che stava per compiere cent’anni, “l’italiano inutile” che io adoravo e adoro, quello che da editore aveva pubblicato il primo libro di Benito Mussolini ma anche il primo libro di Clemente Rebora, quello che a Parigi era stato al letto di ospedale dove l’esule Piero Gobetti stava agonizzando e dove morì il giorno dopo. A trovarmelo di fronte, di quell’ “italiano inutile” mi deliziava anche un battito di ciglia. E del resto vale per me stesso, se pure sia possibile raffrontare uno così piccolo a gente così grande. Adesso che sto per compiere ottant’anni, sono infinitamente più bravo e più lucido non dico di quando avevo trent’anni, ed ero solo un frutto acerbo, ma di quando ne avevo cinquanta e pure ero già molto bravo.

Giampiero Mughini per Dagospia il 2 novembre 2020. Caro Dago, io che sono larghissimamente un over 70 e ho i capelli bianchissimi di certo non me lo farei scrivere da qualcuno un tweet orripilante come quello firmato dal governatore Toti in cui si definivano gli “over 70” come gente che non partecipa attivamente alla “produttività” del nostro Paese. Uno che di “anziani” se ne intende eccome, il professore Roberto Bernabei, ha detto che le prestazioni professionali e lavorative di tanti settantenni di oggi non sono inferiori a quelle dei cinquantenni. Per quanto mi riguarda, oggi pomeriggio monterò su un treno diretto a Milano dove farò una prestazione professionale di oltre due ore che terminerà a mezzanotte. Per quanto mi riguarda verso al fisco più di 100mila euro l’anno _ tutto denaro ricavato dalla mia fatica e dal mio talento, che col tempo s’è accresciuto, non molto meno di quel che versavo quando avevo 50 anni ed esistevano i giornali di carta su cui scrivevo. Com’è ovvio non esistono i “settantenni” così come non esistono “gli uomini” o “le donne” se intesi come un blocco compatto e omogeno. Esistono le differentissime persone ciascuno con una sua storia e una sua identità. E in quanto persona vorrei che nessuno mi rompesse i coglioni.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 novembre 2020. Ci risiamo coi vecchi. C' è chi, come Grillo, vuole togliere loro il diritto al voto. Al comico si è accodato Toti, governatore della Liguria, il quale pretende vengano reclusi in maniera che non siano colti dalla pandemia. Costui sostiene in sostanza che i nonni, essendo pensionati, siano inutili ai fini della produzione. Il fatto che fino a ieri abbiano lavorato sodo e pagato fior di contributi mensili all' INPS, secondo lui, sarebbe ininfluente. Egli ignora che l'assegno previdenziale non è altro che la restituzione di denaro versato una vita alle casse dell' istituto più sgangherato d'Italia. Quella del presidente ligure non è la prima manifestazione di razzismo verso gli anziani. Ogni tanto, in effetti, salta su un cretino che li schifa quasi fossero un peso degno di essere depositato nella camera mortuaria in attesa di giacere in un loculo. Io modestamente sono quasi ottuagenario e me ne vanto: meglio essere della terza età che della prima o seconda imbecillità. Sgobbo oggi come quando avevo quarant' anni, mi reco in redazione anche il sabato e la domenica e dovrei chiedere a Toti il permesso di uscire di casa per compiere il mio mestiere? Dilaga non soltanto il virus, persino la stupidità di chi ignora la storia. Faccio notare ai fessi che intendono relegarmi in un tinello che Churchill, il vincitore della seconda guerra mondiale, non era un fighetto bensì un vegliardo, che De Gaulle non aveva i calzoni corti, che Einaudi morì a 87 anni più lucido di un auto nuova, che Pertini non era un ragazzino quando entrò al Quirinale, che Berlusconi ha 84 anni e grazie a lui vengono distribuiti migliaia di stipendi ai suoi dipendenti. Tutti questi signori citati erano e sono talmente scemi da meritare gli arresti domiciliari allo scopo di lasciare spazio a Conte e a Toti? Invecchiare non è una colpa ma un grande merito, tra l' altro è l' unico modo per campare a lungo, una aspirazione che nutrono pure i giovani, i quali da quando ho compiuto i 70 anni mi sono diventati antipatici poiché pensano di cambiare il mondo mentre non sono capaci di cambiare neppure loro stessi. Noi antidiluviani sappiamo benissimo che crepano molti uomini in verde età e che i matusalemme decedono tutti. Se ne vanno senza la spinta di politici scriteriati e ingrati.

Parla il governatore della Liguria. La verità di Giovanni Toti: “Rivendico le mie scelte e sugli anziani avevo ragione io”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Giornalista prestato alla politica, recentemente rieletto per il secondo mandato, Giovanni Toti – ex delfino di Berlusconi, da cui ha preso le distanze – ha vissuto giornate difficili dopo aver fatto partire un tweet molto maldestro sugli anziani “non produttivi”. Lo raggiungiamo mentre la Procura di Genova confina ai domiciliari l’ex a.d. di Autostrade per l’Italia e ex numero uno di Atlantia, Giovanni Castellucci, nell’ambito di un’inchiesta della procura di Genova. Tra Toti e Castellucci, una telefonata adesso agli atti degli inquirenti. Salvare i risparmiatori liguri: questa è l’unica ragione per cui ho discusso telefonicamente con Giovanni Castellucci di un possibile intervento di Atlantia, di cui allora era amministratore delegato, nel salvataggio di Banca Carige.

Di cosa avete parlato?

«Si è trattato di un contatto sollecitato da tutti i soggetti interessati al salvataggio dell’Istituto di Credito genovese. A due mesi dalla tragedia del crollo di Ponte Morandi, la Liguria non si sarebbe potuta permettere anche il fallimento del suo Istituto di credito, motivo per cui ogni ipotesi per evitarlo è stata presa in considerazione in quei momenti, compreso un eventuale intervento di Atlantia».

Riparliamo anche del tweet-scivolone sugli anziani, Toti? Le hanno risposto per le rime.

«Il tweet, per cui mi sono già scusato per la maldestra sintesi con cui è stato pubblicato, voleva esprimere un concetto che continuo a sostenere: i grandi anziani, gli over 75 sono quelli che purtroppo più spesso finiscono nei nostri ospedali e non riescono a vincere la battaglia contro il virus. Quindi penso che sia doveroso proteggerli, non solo con i progetti che in Liguria abbiamo già realizzato ma, ad esempio, prevedendo fasce orarie a loro dedicate per la spesa o sui mezzi pubblici o mettendo in campo politiche sociali adeguate».

Suo padre cosa le ha detto?

«Mio papà, che ha 81 anni ed è stato operato al cuore, ha capito cosa intendevo dire. In questo periodo io stesso, per sicurezza, raramente passo a trovarlo e quando lo vedo adotto tutte le precauzioni necessarie, dall’uso della mascherina al distanziamento, e credo sia un comportamento rispettoso nei confronti dei nostri genitori anziani o dei nonni. Da tempo sostengo che i nostri anziani e le persone più fragili debbano essere tutelate e protette perché sono molto più esposti al Covid-19. Perciò, invece di strumentalizzare per evitare di dare risposte su un tema difficile, qui in Liguria abbiamo messo sul campo iniziative concrete a tutela della fascia più anziana e fragile della popolazione: tra queste, l’estensione del bonus taxi agli over 75, per evitare loro di dover prendere i mezzi pubblici grazie ad una carta prepagata che possono richiedere in modo semplice, ritirare presso gli sportelli bancari e utilizzare con taxi e Ncc».

Lei ha assunto l’interim alla sanità, caso unico in Italia.

«In un momento come questo, dove tutti gli sforzi, o quasi, sono concentrati per gestire al meglio un’emergenza non del Paese o della Liguria ma planetaria, ho ritenuto un dovere mantenere la delega alla sanità. Lavoro con una task force già dalla prima fase dell’emergenza. Ci sono specialisti, medici, tecnici e dirigenti di grande qualità».

Funziona?

«La collaborazione tra sanità e Protezione Civile funziona perfettamente. Aver tenuto sotto la presidenza della Giunta la delega credo rappresenti una catena di comando più corta, rapida e politicamente autorevole, indispensabile per affrontare questa emergenza in modo efficace».

Sta funzionando il piano vaccini?

«Per aiutare il nostro personale medico anche nella diagnosi precoce del Covid e per tutelare le fasce della popolazione più fragili, quest’anno la campagna di vaccinazione antinfluenzale in Liguria è partita con un mese di anticipo. Non solo, sono state ordinate 500mila dosi, ben il 50% in più rispetto all’anno scorso».

Quante già consegnate?

«Oltre 390mila».

E per il sospirato anti-Covid, ha già una quantità prenotata?

«Per quanto riguarda il vaccino Covid, sarà opzionato a livello centrale, nazionale quando ci sarà quello validato e testato e noi siamo pronti come sempre. Ora bisogna lavorare su una serie di regole che stanno ancora ingessando il paese. Si è tanto parlato del modello Genova e del modello Liguria per il ponte Morandi e non si è fatto nulla che assomigliasse a un modello Liguria per la sanità».

Un problema di gestione?

«I nostri ospedali non sono in crisi perché mancano i mezzi o le apparecchiature ma perché mancano i medici specializzati e gli infermieri e mancano regole sufficientemente snelle per poter assumere il personale».

Forse non ha neanche più senso tenere il numero chiuso per Medicina…

«Noi paghiamo una programmazione sbagliata nel corso degli ultimi 20 anni: per questo abbiamo pochi infermieri, pochi anestesisti, pochi rianimatori e poche professioni mediche. Eppure ancora oggi facciamo concorsi, ma solo da poco e per questa emergenza abbiamo potuto utilizzare i medici non ancora specializzati nei nostri ospedali. La situazione è complessa e c’è bisogno di regole straordinarie per affrontare in modo efficace la pandemia».

Dalla crisi economica come e quando ne usciremo, secondo lei?

«Il lockdown, le chiusure per diverse categorie economiche a più riprese, hanno fortemente compromesso l’economia del nostro Paese. Ora che la Liguria è entrata in zona arancione, mi auguro che i ristori per chi subirà i danni maggiori arrivino celermente e non come nella precedente ondata. Di sicuro, questo Paese ha bisogno di regole che ci consentano di spendere le risorse che arriveranno in Italia come, per esempio il Recovery Fund. La capacità di investimento e anche la velocità di realizzazione delle opere sono la chiave del successo, ma l’ostacolo più temibile, oltre alla burocrazia, resta quello della variabile tempo, una sfida che il nostro Paese non può permettersi di perdere se vuole costruire il futuro».

Lei ha un suo partito: Cambiamo. Che figura stabilmente nei sondaggi, rimane un soggetto autonomo nella federazione di centrodestra? O guarda a nuovi scenari?

«Cambiamo nasce come soggetto autonomo in un panorama politico in trasformazione, all’interno di cui si era creato uno spazio “vuoto” che i partiti non riuscivano più a riempire. Parlo di quell’area moderata che non si riconosce più nei partiti tradizionali e che vorrei “rianimare”, confrontandomi con tutti».

Una lunga marcia.

«I risultati delle ultime elezioni in tante regioni tra cui proprio la Liguria, dove la Lista che porta il mio nome è diventata il primo partito in assoluto con il 22% dei voti, dimostrano proprio questo: il bisogno di una fascia moderata in cui i cittadini possano tornare a credere e a dare fiducia».

Una nuova Forza Italia o c’è di più?

«Mi piacerebbe che fossimo in tanti, anche unendo sensibilità diverse, a impegnarci in questo progetto, da cui dipende un’importante fetta del futuro del centrodestra che unito vince come dimostrato in Liguria in questi anni e alle ultime elezioni».

Dicono che assumerà la guida della conferenza Stato-Regioni. Solo rumors o c’è un progetto che la riguarda?

«In realtà, a parte qualche voce, nessuno mi ha chiesto formalmente di fare il presidente della Conferenza. Seppur capisco, dopo le ultime amministrative, che gli equilibri andrebbero rivisti nonostante io lavori e abbia lavorato bene con l’attuale Presidente Bonaccini in questo momento, in cui abbiamo tanto da fare per affrontare l’emergenza sanitaria. Ci sono comunque colleghi del centrodestra che stimo, come Fedriga o Zaia, che sono certo farebbero benissimo».

Il De Senecute dei nostri giorni. I vecchi italiani hanno voglia di vivere, tra sessualità e lotta al virus. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Novembre 2020. “Meglio un campo di bocce in meno, ma uno scatolone di Viagra in più”, scriveva sulla prima pagina del Corriere Rossella Verga il 27 novembre del 2005. Lo avevano richiesto in un’affollata assemblea al Circolo della stampa di Milano ben trecento anziani, e allora che ero assessore alle politiche sociali me ne ero fatta subito portavoce, proponendo di destinare al Viagra scontato per gli anziani una voce consistente nel bilancio del 2006. Cinquecentomila euro. La questione riguardava infatti la qualità della vita e l’affettività, ma anche un problema economico: una singola pillola blu costava 9 euro, ma la confezione era da quattro e la spesa ammontava a 36,98. Milano è da sempre una città longeva (e la Regione Lombardia ne ha il primato in Europa), in cui le varie amministrazioni comunali di ogni tendenza hanno sempre dato grande attenzione alle politiche sociali. Gli anziani sono tanti, almeno il trenta per cento, e molti vivono soli. Sconfiggere la loro solitudine vuol dire allungare loro la vita, aiutarli a essere parte attiva della società e della città. E in tanti lo sono. Quel grido per avere il prezzo sociale sul Viagra di quel novembre del 2005 era un modo di dire al mondo: ci siamo, siamo vivi, siamo attivi e viviamo ogni giorno anche l’amore e la sessualità. In farmacia non andiamo solo per il farmaco dell’ipertensione, ma anche per quello dell’amore. Non avrebbero certo immaginato che, quindici anni dopo, avrebbero sognato un vaccino per il Covid 19 invece del Viagra. E neanche che qualcuno (penso siano in tanti, non solo l’incauto addetto stampa di un governatore) li avrebbe considerati “improduttivi”. Proprio loro che avevano ricostruito un Paese sulle macerie della seconda guerra mondiale e poi si erano ritrovati negli anni Duemila anche a mantenere spesso con la loro pensione figli e nipoti. Per questo vennero presi molto sul serio a Milano nel 2005, anche se poi i 500.000 euro necessari non trovarono compatibilità nel bilancio e le case farmaceutiche si mostrarono poco disponibili al “prezzo politico”. La politica se ne occupò, certo. Gabriele Albertini, che oggi ha per l’appunto settanta anni esatti, e che allora era il sindaco di una giunta di centrodestra, ricorda che se ne parlò molto. «E’ un argomento controverso – dice prudentemente-, certo la cosa più importante è la salute, ma se si è anche sessualmente attivi si sta meglio». Attivi, appunto, un termine che pare in contraddizione con il concetto di vecchiaia. Ci furono quelli incuriositi, allora, come l’ex premier Romano Prodi che disse: «Perché no?», quelli lirici come Emanuele Fiano, che era il capogruppo Pd in consiglio comunale («Il sesso e l’amore non sono le cose più belle della vita?») e quelli scettici come il capogruppo della Lega Matteo Salvini il quale, un po’ disorientato, spostò il discorso («Meglio investire i soldi nel latte in polvere»), ma tutti sapevano che non si stava parlando solo di disfunzione erettile. Infatti la popolazione anziana attiva, fatta di quelli che si erano sempre alzati al mattino e si erano rimboccati le maniche, quelli che erano stati la spina dorsale della società, nella richiesta di sconto sul Viagra aveva trovato il proprio simbolo. La vecchiaia non è solo fragilità, ma neanche solo esperienza e saggezza, avevano detto al mondo. Avere settant’anni (o magari ottanta) avevano detto, è anche la ricchezza e la gioia della vita. È uscire dalle quattro mura, quelle domestiche e quelle della mente. È avere un progetto di vita. Di vita, non di sopravvivenza. Come scrivevano ogni giorno, su un mensile di otto pagine con testata registrata al Palazzo di giustizia che avevo creato con il titolo di Anziano sarà lei, non bisogna farsi travolgere dall’indebolimento del corpo, ci sono tanti modi di “prendersi cura”, di se stessi e degli altri. Il fatto stesso che in quei giorni il problema fosse diventato politico, e non solo in sede locale, potrebbe essere un segnale anche per i giorni di un oggi drammatico. Nel momento in cui tutti stiamo correndo il rischio di ammalarci e la possibilità di morire di virus è proporzionalmente legata, oltre che ad altre fragilità, anche all’età, vogliamo che gli anziani vivano o sopravvivano? Vogliamo che siano soggetti attivi, e quindi produttivi, o un fardello, sia pur affettivo, da nascondere – affettuosamente, certo – sotto il tappeto insieme alla polvere? «Ciascuna parte della vita ha un suo proprio carattere, sì che la debolezza dei fanciulli, la baldanza dei giovani, la serietà dell’età virile e la maturità della vecchiezza portano un loro frutto naturale che va colto a suo tempo». “Cato Maior de senectute” viene raccontato da Cicerone quando ha 83 anni. “Maior” vuol dire “Il Vecchio”, ed è una parola nobile, che distingue dal più giovane, ma che non evoca per forza la vicinanza alla fine. Nel dialogo si parla della vecchiaia, Catone parla a due giovani e discutendo contesta i luoghi comuni sull’età avanzata e anche l’uso di accostarne il concetto a quello di morte. La debolezza fisica, prima di tutto, che è poi la stessa maledizione che viene rovesciata addosso, nel 2020 del virus, a chiunque sia portatore di “altre patologie”. L’attenuarsi delle capacità psichiche, poi, quasi come se, quando oggi si dice di attenersi alle tre regole (lavarsi spesso le mani, portare la mascherina, evitare gli assembramenti con il distanziamento), la persona anziana non fosse in grado di cogliere bene il messaggio e quindi sia meglio tenerlo sotto chiave, in modo che non si sbagli. Catone parla anche della sessualità, e ne contesta l’abbandono da parte dei vecchi. È solo diversa, dice, non potendosi appellare all’aiutino di qualche farmaco che non esisteva duemila e rotti anni prima. È diversa nell’età ancora fragile e incerta del fanciullo, in quella baldanzosa dei giovani, in quella equilibrata dell’età adulta e in quella matura dei vecchi. Poi dice degli affetti, anche tra padri e figli e nipoti, tra giovani e anziani. Una comunità. Una comunità che è e non può che essere un unicum. Senza egoismi o contrasti di generazioni. Lo ricordava lo stesso Presidente Sergio Mattarella pochi mesi fa, nella lettera che il 22 marzo di quest’anno, in piena emergenza Covid, aveva scritto al suo collega tedesco Steinmeier che aveva mostrato solidarietà al popolo italiano per la tempesta virale che lo aveva colpito. «Qui –aveva scritto il Presidente italiano – in numerosi territori, con tante vittime, viene decimata la generazione più anziana, composta da persone che costituiscono per i più giovani punto di riferimento non soltanto negli affetti ma anche nella vita quotidiana». Catone Il Vecchio ottantatreenne nell’anno 151 avanti cristo, trecento anziani milanesi nel 2005, il settantanovenne Presidente Mattarella nel 2020 parlano di una comunità. Non parlano ai giovani in modo paternalistico, non rivendicano per sé saggezza e onnipotenza. Ma non accettano che la convivenza con la fragilità appartenga solo ai vecchi. E che la vita, da un certo momento in poi, sia ridotta a sopravvivenza. Ci siamo tutti, dicono. E se siamo attivi, siamo anche “produttivi”.

Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 3 novembre 2020.

Professor Francesco Alberoni, in questi giorni aleggia l' ipotesi di un lockdown anagrafico, solo per gli anziani. Che ne pensa?

«Mi sembra un problema politico, l' altro giorno Toti ha detto che i vecchi sono inutili... una stupidaggine. Nel '44 Churchill aveva 70 anni, era inutile? E De Gaulle, quando divenne Presidente della Repubblica, ne aveva 69: era inutile?».

Però l' emergenza colpisce soprattutto gli anziani.

«Certo, le persone anziane sono particolarmente vulnerabili al Covid e, quindi, servono misure protettive particolari. Questo si può dire. Ma, piuttosto che dire che non sono indispensabili, è meglio tacere. E poi ci sono un sacco di giovani che non sono indispensabili, che cosa vuol dire?».

A quali misure protettive pensa? Perché la misura protettiva estrema è, appunto, chiudersi in casa.

«Io sono perfettamente d' accordo che servano queste misure, ma non solo lo stare chiuso in casa. Per esempio, io sto in casa, ma ho rapporti con tutti, lavoro al pc, faccio riunioni, partecipo a comitati, scrivo, il tutto stando fermo in casa. Non sono imbecille, non vado a infilarmi nella movida».

Che vuol dire chiusi in casa allora?

«Forse chi pensa a questo immagina i vecchi come il nonnetto col cane ai giardini, o chi va a bocce a chiacchierare e si prende a pacche sulla spalla con gli amici, ma questo è assurdo. Se vogliamo parlare di anziani in pericolo, allora parliamo del fatto che sono soli, del fatto che, se uno cade per terra, ci muore, senza aver preso il Covid, perché non ha assistenza. E lo stesso vale per procurarsi il cibo».

È una questione sociale e culturale quindi?

«Sì. Non basta dire ti chiudo in casa, c' è bisogno, per esempio, di un medico che chiami con regolarità, o che possa essere chiamato con regolarità. Serve la telemedicina, serve qualcuno che aiuti la persona a fare l' ordine della spesa on line, qualcuno che le porti le medicine, che le ricordi che cosa deve fare o, più semplicemente, che le chieda come sta».

Ma il lockdown non è l' ultima spiaggia?

«Certo, questo governo ha fatto stupidaggini, e fra le più grandi c' è l' apertura delle scuole, per via del mito, e dell' ideologia, come il politicamente corretto, che se i giovani non vanno a scuola faccia a faccia sia irreparabile. Ma è una balla, pensi alla guerra... Quello che conta non è stare faccia a faccia sui tavoli con le ruote, bensì gli ausilii per poter studiare; e questi mezzi tecnici, che oggi abbiamo a disposizione, sono un grande progresso».

L' anziano costretto a stare chiuso in casa magari protegge la salute, ma non soffre tremendamente di solitudine?

«Soffre, sì, ma questo vale per tutti, nel senso che, per alcune persone, il lockdown è un dramma: sono belve in gabbia, pensano di perdere la testa. Nel caso degli anziani, mi spiace ma non sono d' accordo: non è tanto il fatto di essere soli, bensì di aver bisogno di aiuto. Serve una rete di medicina periferica per cui l' anziano è sempre monitorato, un dottore che vada a casa, non per due ore ma per dieci minuti, che lo guardi, lo visiti, gli dica su, coraggio, torno fra due giorni, e questo già lo salva...».

Servirebbe il personale.

«Che non è stato mobilitato. Ma io insisto, più che sull' aspetto soggettivo della solitudine, su quello reale. Poi chi vuole infilarsi nella movida lo fa, ma è una minoranza di stupidi, li vede gli anziani per strada? Camminano tranquilli, ad abbracciarsi e a saltare sono i calciatori, che hanno vent' anni e sono dei ragazzoni. Infatti hanno preso tutti il Covid, e poi lo passano ai parenti. Non sono gli anziani a contagiare, non sono loro ad aver diffuso il virus, loro sono quelli che sono morti. C' è bisogno di dignità da parte dei politici».

 Gli anziani sono saggi, secondo lei?

«Sono prudenti. Hanno paura. Io ho 90 anni, so che posso morire anche stanotte, non vado certo a farmi soffiare in faccia o a corteggiare un donna, sto a casa. Sono i contatti che producono il contagio. Io penso sempre al pratico, sono portato a chiedermi: cosa si può fare?».

E invece?

«Ho l' impressione che questo governo sia ignorante e pigro. Poi scusi, se i vecchi sono inutili, perché stanno richiamando i medici in pensione? Un' assurdità. Dovrebbero reclutare tutti i laureati in medicina, mobilitare tutti, come in guerra; ma questo governo è tirannico con gli altri, e molle con i suoi».

Quanto sono importanti gli anziani nella nostra società?

«Scrittori, musicisti, registi, scienziati, tutte le figure eminenti rimaste hanno più di sessant' anni, anche se sembra impossibile. La nostra società vive ancora della cultura di questa gente, e l' allontanamento dei sapienti ci impoverisce, tutti lo sanno, ci vogliono i grillini per non capirlo. E poi c' è chi fa opere sociali, chi fa volontariato, chi cura i nipoti. Se non è produttivo chi fa il nonno e cura i nipoti... Ma scherziamo?».

Chiudere tutti in casa non è una sconfitta?

«Per il governo sì, per noi no. Ci hanno fregato, quello sì. Noi abbiamo il danno».

Maurizio Caverzan per cavevisioni.it il 3 novembre 2020. Sarà la pandemia. O sarà la sintonia. O, infine, sarà l’età che avanza. O magari tutte e tre le cose insieme. Fatto sta che ieri sera, nella consueta rubrica Dataroom del lunedì che ripropone nel TgLa7 la ricerca realizzata per il Corriere della sera, Milena Gabanelli ha lasciato trapelare qualche tratto personale più del solito. Si parlava della situazione degli anziani - dei vecchi, dicendola schietta - e di come vengono assistiti e accuditi nelle strutture pubbliche e private, nelle Rsa del sistema sanitario, negli istituti profit e non profit e nelle case famiglia. Dati, numeri, profitti e perdite della situazione. Alla fine dell’intervento registrato, Gabanelli ha detto che «la terza età è stata scaricata dal pubblico e il Covid ne ha mostrato l’orrore. Ora il ministro ha istituito una commissione di saggi che si confronteranno sulle idee, poi diventerà una relazione e alla fine magari un libro», ha concluso con chiaro riferimento all’inopportuna pubblicazione licenziata e subito ritirata qualche giorno fa dal ministro Roberto Speranza (Perché guariremo, Feltrinelli). Nel breve dialogo che è seguito tra Gabanelli ed Enrico Mentana, oltre la denuncia documentata del trattamento degli anziani «come spazzatura», è trapelato, piuttosto inedito, il lato umano dei due giornalisti, rappresentanti di un modo di fare informazione solitamente freddo, distaccato, terzo. La prima faccenda sconcertante è che non esiste una vera mappatura della situazione degli anziani in Italia. «Non ce l’ha il ministero, non ce l’hanno le regioni, non ce l’hanno i comuni. La situazione è fuori controllo», si è accorata Gabanelli. «La cosa migliore che ci possa capitare è diventare anziani…», ha osservato. «L’alternativa è peggio», ha fulmineamente chiosato Mentana, senza la solita ironia. «Esattamente», ha convenuto l’ex conduttrice di Report. Il ministro si è accorto del problema e ha creato questa commissione piena di menti illuminate guidata da monsignor Vincenzo Paglia per il quale Gabanelli nutre «enorme rispetto». Ma il tutto suona un po’ come «affidate l’anima a Dio. Lo dico da credente», ha confidato. «Mi aspetterei un tavolo tecnico…». Invece. Sarà la pandemia che «intenerisce il core». Sarà la sintonia su un certo modo di fare informazione. Sarà l’età, che per entrambi si approssima alla soglia della terza (per inciso, è anche la mia). Sta di fatto che, forse, per la prima volta, o almeno in modo abbastanza insolito, abbiamo constatato che anche Milena Gabanelli ed Enrico Mentana hanno un core.

Edward Luttwak a DiMartedì: "I vecchiacci in Italia". Lo sconcerto di Concita De Gregorio in Italia. Libero Quotidiano il 04 novembre 2020. "Secondo lei qual è la priorità?". Concita De Gregorio interroga Edward Luttwak e l'analista americano, in collegamento con DiMartedì, la sconcerta: "I bambini, gli adolescenti, i liceali". La contestata proposta del governatore della Liguria Giovanni Toti di mettere in isolamento gli anziani continua a dividere i commentatori e Luttwak stupisce tutti. "Se tu guardi le statistiche di mortalità da coronavirus nei Paesi che hanno chiuso le scuole e nei Paesi che non le hanno chiuse, c'è pochissima differenza". "Se si parla di etica - prosegue Luttwak - , la prima è difendere i giovani. Capisco che in Italia i vecchiacci che controllano il potere politico vogliono spostare tutte le risorse su di loro, ma guarda le statistiche in quei Paesi che hanno lasciate aperte le scuole. Ma in Italia la priorità è totalmente differente".

Estratto dell’articolo di Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 2 novembre 2020. «I nostri figli e nipoti hanno già pagato un prezzo fin troppo alto per questa pandemia. Nella primavera scorsa sono stati chiusi in casa, hanno fatto lezione a distanza, hanno rinunciato alla socialità per proteggere noi, gli anziani. Adesso basta. È la mia generazione che deve fare un passo indietro. Possiamo limitare la nostra libertà, se questo vuol dire lasciare le scuole aperte e permettere ai bambini e ai ragazzi di vivere la loro giovinezza». Chiara Saraceno, 79 anni, è una delle più famose sociologhe italiane. […]

Saraceno, quindi in caso di lockdown "selettivi" lei sarebbe d' accordo nel limitare la libertà degli over 70?

«Ho 79 anni, questi sono forse gli ultimi anni buoni della mia vita, da mesi non vedo se non virtualmente i miei nipoti, non viaggio più, il peso della poca libertà cui ci obbliga la pandemia lo sento con forza. Ma di una cosa sono certa: un nuovo lockdown per i giovanissimi, per i bambini, anche per i più piccoli, sarebbe una tragedia». «[…] dobbiamo cedere il passo ai giovani. La mancanza della scuola, la clausura domestica hanno già provocato danni enormi sull' apprendimento, sulla tenuta psicologica degli adolescenti, sulla serenità dei bambini. Mi dispiace, ma sento molto egoismo da parte dei miei coetanei. Senza contare che siamo proprio noi, gli over settanta, i primi bersagli del virus».

Dunque limitare i movimenti sarebbe anche una protezione.

«[…] è una scelta estrema, ma in fondo giusta. […] è un misura di buon senso».

[…] Tanti anziani però sono soli, queste sono esigenze primarie.

«Infatti, c' è bisogno di reti di solidarietà. Di chi porta la spesa a casa, di medici a domicilio, di vicini disponibili, di giovani che si mettano a disposizione dei più vecchi. […]». «[…] Se qualcuno pensa che gli anziani siano un ramo secco della società, fa un errore macroscopico. Gli anziani sono una risorsa straordinaria. Ed è per questo che bisogna andare oltre l' egoismo, per salvare noi stessi e i nostri ragazzi». […]

Estratto dell’articolo di Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 2 novembre 2020. «Una misura che va contro ogni regola di buon senso. Ci si può ammalare di clausura prima ancora che di Covid». Alberto Asor Rosa è vigorosamente contrario alla proposta di chiudere a casa gli ultrasettantenni. Ha appena compiuto 87 anni e non intende rinunciare alla sua passeggiata quotidiana. «È come se volessero anticipare la nostra scomparsa dal mondo». […]

Perché è importante uscire di casa?

«La passeggiata può rappresentare un motivo in più per sopravvivere alla pandemia. Le mie piccole uscite con Marina, la mia compagna, servono per rimanere dentro un circolo vitale senza il quale l'esistenza diventerebbe insopportabile […]».

Come se la clausura evocasse la fine dell' esistenza.

«Costringere un vecchio dentro le mura di casa è un modo per anticiparne la morte. […]».

Quindi le appare equivoco questo modo di tutelare i vecchi: li proteggiamo levandoceli di torno.

«La tentazione di rinchiudere gli ultrasettantenni ha un evidente retropensiero secondo il quale sono una delle scocciature fondamentali dell' esistenza contemporanea […]».

[…] Lei sostiene che il virus interrompe il rapporto con la memoria . Perché?

«Quel che conta oggi è vivere, anche a costo di perdere il legame con il passato. Siamo tutti troppo concentrati a sopravvivere per dare importanza a valori che vadano oltre questo. È come se l' urgenza biologica avesse schiacciato tutte le altre ragioni, sociali e culturali». […]

Maria Luisa Agnese per corriere.it il 2 novembre 2020. Sono nei miei primi 70 anni e da un po’ sento circolare questa idea di chiuderci in casa, qualche giorno fa un amico che vive a Mosca mi ha detto che là già non vendono più biglietti del metrò agli Over 65. Continuo a pensarci e mi chiedo cosa farei in questi arresti domiciliari forzati (poi ve lo dico, qualche idea ce l’ho). Adesso che se ne parla anche da noi, che la invocano alcuni governatori come misura preliminare per allontanare il lockdown generale, mi interrogo sul destino bizzarro e simbolico dei baby boomer, la generazione nata fra il 1946 e il 1964, che è stata protagonista nel secolo scorso di una straordinaria e fortunata avventura di vita. È la generazione che ha inventato la gioventù, che ha approfittato di tutti gli ascensori sociali (oggi negati ai nostri giovani) e che ha prolungato l’idea di vecchiaia felice e desiderante oltre ogni limite biblico, basta pensare ai due contendenti al soglio di presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, 74 anni, e Joe Biden, 77: comunque vada, ne avremo uno a governarci nei prossimi anni.

All’improvviso un peso sociale. E ora questa generazione (quasi) benedetta, cresciuta senza guerre, si trova d’improvviso esiliata in casa, svalutata, quasi umiliata. Qualcuno ha definito con cinico neologismo questo virus Covid-19 un «baby boomer remover» che, dopo aver fatto fuori gli 80/90enni ora attenta anche alla generazione più dinamica della storia, e il governatore ligure Giovanni Toti ha segnato un clamoroso autogol con un tweet supercontestato in cui definisce gli anziani «persone che sono per fortuna perlopiù in pensione, non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese ma essendo più fragili vanno tutelate in ogni modo». Sconcerta essere trattati all’improvviso come un peso sociale e sanitario da abbattere, liquidati come categoria superflua, mentre fino a ieri eravamo quelli o quelle che tenevano in piedi, grazie alla pensione della nonna e del nonno e con consumi non certo minimalisti, le nostre economie asfittiche che non sanno produrre lavoro.

Reiventarsi (come suggerisce Macron). Ma la questione è seria (e se ci pensi bene forse conviene anche a te con i tuoi polmoni non proprio giovinetti evitare di buttarti nel traffico mefitico delle metropoli): la faccenda della generazione fragile l’aveva sollevata per primo Vittorio Colao, chiamato nell’aprile scorso dal governo a progettare un piano per uscire dalla prima ondata, prevedendo per gli over 65 un rientro morbido, con lavoro da casa e suscitando polemiche e dubbi costituzionali. Torna ora sul tema il premier Emmanuel Macron, 42 anni, vistosa eccezione in un mondo attempato, che già nel primo lockdown aveva invitato gli over 70 a restare a casa e aveva concluso allargando il raggio: «È necessario reinventarsi. A cominciare da me». E forse ha ragione Macron: reinventiamoci per primi da soli, ciascuno a suo modo, e proviamo a riscoprire un senso di responsabilità individuale, a provare a fare la nostra parte, senza tante sollecitazioni umilianti, e lockdown tagliati su misura su una sola categoria.

Il piano per i prossimi mesi. Ed ecco che cosa ho pensato, per evitare che lo spettro di questo confino casalingo uccida il nostro corpo e la nostra mente, che ci ricacci nell’incubo del primo lockdown che sul piano dell’equilibrio psicologico ha fatto male a tutti, rendendoci più fragili. Ricominciare con mesi e mesi di buio davanti è una prospettiva disorientante e dolorosa. Amo camminare e il dovermi chiudere in casa mi annienta. Vorrei puntare sull’equilibrio corpo/mente — come ripeteva nei suoi libri mio marito Francesco Padrini che da poco non c’è più — leggere, cercar di scrivere e di lavorare, spero, e poi fare yoga, molto yoga; farlo online, con la mia maestra Paola, non è difficile per me, ritrovo da remoto le compagne che vedevo in palestra e poi avendo praticato tanto (sono anche diventata maestra, ahimè senza esercitare) mi ritrovo facilmente nelle lezioni collettive su Zoom. Soprattutto la meditazione finale aiuta a ritrovare un po’ di equilibrio nel dolore personale e nella devastazione.

«L’immaginazione al potere». Di sicuro è più difficile per me seguire online le lezioni di danza classica, mai messo le scarpette a punta prima di 10 anni fa, quando ho cominciato questo corso per allieve attempate, e nella danza si è attempate dai 10 anni in su. Ma anche lì, con la paziente Eleonora spero di farcela: ho già comprato su Amazon una sbarra portatile per seguire le lezioni da casa, è arrivata due giorni fa, con i piedini rosa shocking e adesso con la solita idiozia meccanica sto cercando di montarla, rimandando la prova di ora in ora, anche se tutte le altre colleghe ballerine dicono che si può fare. Penso che alla fine sia giusto per questa generazione «fortunata» che, con gli inevitabili dolori e traversie di qualsiasi vita, è arrivata anche lei sulla soglia della saggezza, restituire qualcosa a chi viene dopo e provare, se necessario, a sacrificarsi e, se possibile, a ritornare creativa, a rilanciare il mantra che l’ ha fatta sognare per tutta la vita: «L’immaginazione al potere». Ma senza discriminazioni e con il rispetto degli altri che vengono dopo. D’altronde sarà difficile metterci del tutto da parte, perché fra qualche giorno, comunque vada, ci sarà un over baby boomer che governerà sui destini del mondo. Da casa o dallo Studio ovale?

Dpcm, Annalisa Chirico condivide la proposta delle regioni: "Decessi Covid, età media 82 anni. Salvare anziani e lavoro". Libero Quotidiano l'1 novembre 2020. Al netto della gaffe per cui è stato crocifisso, la richiesta di Giovanni Toti accolta poi dalle altre regioni è chiara: per scongiurare un nuovo lockdown, limitare la mobilità di chi ha più di 70 anni. La proposta è stata avanzata al tavolo di confronto tra regioni e governo in vista del prossimo dpcm, in arrivo tra lunedì e martedì. Proposta che Annalisa Chirico mostra di condividere, e lo spiega su Twitter, in sintesi: "L’età media dei decessi Covid è 82 anni, in 3 casi su 4 sono pazienti con altre malattie. Per fronteggiare la pandemia servono risposte mirate sia geograficamente che anagraficamente: proteggiamo gli anziani e consentiamo agli altri di andare avanti. Lavoro lavoro lavoro", conclude la firma del Foglio. Insomma: salvare gli anziani e salvare il lavoro.

Roberto D’Agostino per vanityfair.it l'1 giugno 2020. Per anni ci hanno martellato i coglioni che «vecchio è bello», che il ciuffo argentato era un simbolo di attizzante sensualità, che i confini tra giovinezza, maturità e vecchiaia erano diventati mobili. Anzi, non esistevano più se il tuo «stile di vita» era «appropriato», abolendo i piaceri della vita – fumo, droghe e millefoglie – sostituiti da un orrendo atto contro natura: la ginnastica. Ecco facce smaltate come una vasca da bagno, con abitini da fighetti informati, atteggiamenti da gagà capricciosi, che escono da un letto ed entrano in un altro. E grazie a un’overdose di Viagra, Saul Bellow, Nobel per la letteratura, diventò papà a 84 anni battendo il record di Anthony Quinn, al quale nel ’96, all’età di 81 anni, nacque un maschio. L’altra settimana il 70enne Richard Gere ha attaccato un fiocco azzurro davanti alla porta.

Una volta giravano battutacce: «Vecchio io? Se posso ancora fare l’amore due volte di seguito. Una volta d’inverno, una volta d’estate». Oppure quest’altra: «Per un 70enne è facile amare il prossimo. Meno facile amare la prossima». Uscire con un ammuffito e finire sotto le lenzuola con una mummia non era più una cosa turpe. Da Villa Arzilla si era passati alla «sindrome di Cher» (da qui all’Eternit), una 70enne in grado di trasformare una fascia Gibaud in un tanga. Questa alterazione d’età era ormai una linea di vita vissuta e gassata come una gazzosa. Nonnetta ritmo!, come sghignazzava Alberto Sordi. E le Pantere Grigie e le Carampane rosse ci hanno subito creduto. Fino a ieri, il più grave problema della vecchiaia era il timore che non durasse troppo a lungo. Del resto, già lo diceva Ivan Turgenev: «Sapete qual è il più grande di tutti i vizi? Avere 60 anni». Avevamo l’immunità anagrafica, olè! Adesso, fermi lì. Perché, causa ’sto coronavirus, dopo la Strage degli Innocenti, sta per partire la Strage degli Anziani. Da 60 in su sono da rinchiudere perché contagiano pure le zanzare. I virologi hanno deciso così. Avanti l’infame «immunità di gregge» di Boris Johnson («Only the strong survive»), per finire con le agghiaccianti cronache sulla strage degli anziani nelle Rsa. Per qualche ragione legata ai miei 72 anni, non credo nei giovani e non credo nei vecchi, banali categorie da marketing. Fateci caso, alla fine contano solo censo e peso sociali: i poveri sono «vecchi», i ricchi «anziani». In preda a qualche buon Negroni, tenevo a memoria il famoso paradigma di Alberto Arbasino: «In Italia c’è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo. Soltanto a pochi fortunati l’età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». A ciascuno il suo, questa è la giustizia, anche nei sentimenti e nei giudizi morali. Ai vecchi tocca il privilegio di aver vissuto, il cinismo dell’esperienza, il rispetto della tradizione, una visione delle cose robusta, meno facile di quella dei giovani concorrenti, quel tanto di ironia che fa a pugni spesso con il fanatismo d’impulso legato alla continua scoperta del mondo. Insomma, che volete? Avete già quello cui i vostri figli e nipoti aspirano. E non uso l’argomento più stupido, che ci si sente giovani o vecchi dentro, l’età anagrafica non conta, sì, ma solo per gli imbecilli. E nemmeno quello forse ancora più stupido, per cui ci sono tanti vecchi belli e interessanti e tanti giovanotti dallo sguardo bieco e dalla pelle orrendamente butterata di foruncoli. Così, inalberando l’ultimo tatuaggio, preferisco mettere sotto lo sguardo dei nostri esperti e virologi quel grandioso motto africano che detta: «è vero: i giovani corrono più veloci, ma gli anziani conoscono la via».

Il Coronavirus toglie 10 anni di vita, lo studio sulle vittime italiane. Redazione de Il Riformista il 4 Maggio 2020. In questi mesi di pandemia globale le cifre dei morti hanno subito un’impennata in varie parti del mondo, dall’Italia agli Stati Uniti passando per la Spagna e il Brasile. Chi prima, chi dopo tutte le varie nazioni sono state colpite necessitando di un intervento di lockdown immediato. Il nostro Paese è stato tra i primi ad adottare una chiusura totale in vista dell’escalation dell’emergenza covid-19. Secondo le prime stime, la maggioranza delle vittime avevano già patologie pregresse e il coronavirus non ha fatto altro che aggravare la situazione portando prematuramente alla morte. Questo ha scatenato un ampio dibattito sul fatto che le persone morte a causa del virus sarebbero comunque decedute presto. Secondo uno studio, non è proprio così. Infatti, stando ai risultati di una ricerca scozzese, i malati sarebbero vissuti in media altri 10-11 anni. Lo studio “Covid-19 – esplorare le implicazioni del tipo di condizione a lungo termine e l’estensione della multimorbidità su anni di vita persi: uno studio di modellistica”, è stato pubblicato dall’Istituto pubblico di Sanità della Scozia in base a delle ricerche incrociate con i dati provenienti dall’Istituto Superiore di Sanità italiano e dal SAIL Databank del Galles. LO STUDIO – Tra le ipotesi che si sono spesso sentite in questo periodo di lockdown, c’è quella secondo cui il distanziamento sociale sia inutile, dal momento che le vittime anziane di Covid-19 sarebbero presto morte per altre cause. In Gran Bretagna molti esperti hanno affermato che i due terzi dei morti del paese erano già in procinto di morire. La fonte citata sarebbe una stima fatta a marzo da Neil Ferguson, un epidemiologo dell’Imperial College di Londra. Ferguson ha osservato che i due terzi erano il limite superiore della sua stima e che la frazione reale potrebbe essere molto più bassa. Inoltre ha affermato che è “molto difficile” misurare quanto fossero ammalate le vittime del covid-19 prima di essere contagiati e per quanto tempo avrebbero potuto vivere se non fossero risultati positivi. Tuttavia, uno studio condotto da ricercatori di un gruppo di università scozzesi ha tentato di farlo. Hanno scoperto che gli anni della vita persi per il britannico medio o italiano che è deceduto erano probabilmente intorno agli 11, il che significa che poche delle vittime di Covid-19 sarebbero morte nel breve tempo.

I DATI – Innanzitutto gli autori hanno analizzato i dati relativi a 6.801 vittime italiane, raggruppate per età e sesso per riservatezza. Circa il 40% degli uomini aveva più di 80 anni, così come il 60% delle donne. Secondo alcuni studi il virus ha ucciso meno donne rispetto agli uomini, forse perché hanno diverse risposte immunitarie. Gli autori hanno escluso l’1% delle vittime sotto i 50 anni. Quindi hanno calcolato per quanto tempo sarebbero sopravvissute queste fasce d’età. Le aspettative di vita per gli anziani sono sorprendentemente alte, anche quando hanno condizioni di malattie pregresse, perché molti dei più gravi sono già deceduti. Ad esempio, un ottantenne italiano medio raggiungerà i 90 anni. Il valore standard dell’epidemiologia chiamato in inglese è chiamato YLL, Years of Life Lost, ovvero gli anni di vita rimanenti. Secondo questo metodo, gli yll si aggiornano intono agli 11,5 per gli uomini italiani e 10,9 per le donne. Quindi gli autori hanno tenuto conto delle altre malattie delle vittime, nel caso fossero insolitamente fragili per la loro età. Per 710 italiani, potevano vedere quanti avevano una specifica condizione a lungo termine, come l’ipertensione o il cancro. Lo studio ha utilizzato un campione scozzese più piccolo per stimare la frequenza con cui ogni combinazione di malattie si verifica tra le vittime covid-19. Infine, hanno analizzato i dati per 850.000 persone gallesi, per prevedere per quanto tempo vivrebbero normalmente persone con una determinata età e un insieme di condizioni. Sorprendentemente, lo studio mostra che in questo modello europeo ibrido, le persone uccise da covid-19 avevano solo tassi leggermente più alti di malattia di base rispetto a tutti gli altri della loro età. Quando gli autori si sono adeguati alle condizioni preesistenti e hanno simulato i decessi usando le normali aspettative di vita italiane, il valore degli yll è diminuito di poco, a 11,1 per gli uomini e 10,2 per le donne.  Il 20% dei morti erano persone maggiormente sane tra i 50 e i 60 anni, che avrebbero dovuto vivere in media per altri 25 anni. I ricercatori avvertono che i loro dati escludono le persone che sono morte nelle case di cura, le quali potrebbero avere avuto un indice di mortalità diverso dato il peggioramento di alcune condizioni pregresse o di vecchiaia. Né possono spiegare la gravità delle malattie di base. Ad esempio, le vittime di covid-19 potrebbero aver avuto condizioni polmonari o cardiache particolarmente acute. Se la pandemia ha semplicemente accelerato la morte imminente, ci dovrebbero essere meno deceduti una volta che il covid-19 è sotto controllo. In conclusione, le prove disponibili suggeriscono che molte vittime da coronavirus erano lontane dalla morte e che la pandemia ha cancellato dieci anni di vita. Permettere al virus di diffondersi liberamente sacrificherebbe sia le persone più forti che le più fragili.

Solitudine e coronavirus. Liliana, 83 anni: “Piango tutto il giorno, nel mio condominio nessuno mi aiuta”. Redazione su Il Riformista il 30 Aprile 2020. “Ogni notte, quando vado a letto, prego Dio di non farmi risvegliare. La mia vita è un inferno. Ho 83 anni, vivo sola in tre stanze, mio marito è ricoverato in una Rsa, è cieco, sordo, ha l’Alzheimer, non mi riconosce. Non abbiamo figli perché non li abbiamo potuti avere. Non ho nipoti. Vivo in un condominio dove nessuno mi considera, potrei morire e nessuno se ne accorgerebbe”. Tolgono il fiato le parole di Liliana, raccolte dal blog Storie di Firenze, che raccontano della solitudine di chi, anziano e solo, deve fare i conti con le conseguenze del coronavirus. “Passo tutto il giorno a piangere, le lacrime mi hanno deformato gli occhi e non riesco più a leggere neppure un libro. Impiego il tempo guardando film e telegiornali, cerco soprattutto belle notizie ma ce ne sono poche. A pranzo mangio un panino, la sera una minestra. Non pulisco neppure la casa perché ho male alla schiena. Per fare il letto mi metto in ginocchio, altrimenti non ci riesco. Esco solo per andare a fare la spesa perché i dottori mi dicono che devo sgranchire le gambe, ma potrei cadere, è già successo. Poi torno a casa e mi rimetto sul divano”. Il marito di Liliana è in una casa di cura e le spese per il mantenimento portano via quasi tutte le entrate familiari: “La retta per il ricovero di mio marito costa 1.780 euro, la sua pensione è di 2.300. Devo vivere con 500 euro al mese e non è facile. Devo fare tutto da sola, nessuno mi aiuta. Soltanto l’Auser mi tiene compagnia con una volontaria che mi telefona tutte le settimane, ma non può portarmi fuori perché rischierei di contagiarmi. Con lei piango al telefono”. Il suo unico desiderio è poter salutare un’ultima volta suo marito Riccardo e trovare un po’ di compagnia per sfuggire dalla solitudine. “Il ricordo più bello della mia vita è il giorno del matrimonio, 57 anni fa, a Venezia, mio marito Riccardo era bellissimo. Adesso ho soltanto due sogni: andare a trovare mio marito nella struttura in cui vive per dargli l’ultimo saluto, ma non mi fanno andare per colpa del coronavirus. E poi fare due passi, trovare qualcuno che possa accompagnarmi e tenermi compagnia, scambiando qualche parola. E poi basta, poi morire, perché questa non è vita”. Sui social le parole della signora Liliana commuovono in tanti che si fanno avanti per offrire sostegno alla donna. “Potete farmi avere in privato il telefono di questa signora? – si legge in un commento – Non ho più i miei genitori e vorrei fare qualcosa per lei!”.

Ida Di Grazia per leggo.it il 29 aprile 2020. Coronavirus e anziani, l'intenso monologo di Lella Costa a EPCC: «Cosa dobbiamo fare, pagare con la vita?». Ospite di EPCC LIVE di questa settimana Lella Costa, uno dei nomi più apprezzati del nostro teatro. L’attrice ha portato sul palco un monologo sull’emergenza globale che stiamo vivendo vista però dagli occhi degli anziani, tra le fasce della popolazione più colpite, e raccontata a tutti gli altri, anche ai più giovani. Un monologo intenso, un sorriso amaro, un carisma unico. Lella Costa ospite a EPCC ha portato un monologo intenso e importante dedicato agli anziani subito acclamatissimo sui social. Il testo integrale:

«Adesso provo a spiegarvelo io che ce li ho più di 60 anni che cosa vuol dire.  Perché noi magari saremo anche un po’ più a rischio di coronavirus, però non è che di colpo siamo rincoglioniti. Il rischio di rincoglionimento è in qualche modo indipendente dall’età e forse perfino dalla geografia, per quanto secondo me in America sono più portati, perché non soltanto il vicegovernatore del Texas, ma anche il presidente dice le sue…Ma il punto è: provate a mettervi nei nostri panni. Di colpo è cambiato tutto. Due mesi fa era: “Non si chiede l’età a una signora”. Adesso è: “Signora, se non mi dice l’età non esce di casa”. Un po’ tanto… no? Un po’ tutto di colpo…A parte che poi l’età a una donna non è che non si deve mai chiedere, non è come la fedina penale, non è che abbiamo la data di scadenza come lo yogurt…Scusate, vogliamo dare un’occhiata alla Regina Elisabetta, che di anni ne ha 94 anni e secondo me sopravvive grazie alla cromoterapia perché si mette addosso dei colori che solo lei… Però quella donna lì, durante questo periodo, niente, non ha fatto un plissé, c’ha avuto allettati - nel senso di malati - credo il marito, il figlio, il primo ministro che è già tornato all’opera, ma lei niente, neanche un plissé. D’altra parte, una che è sopravvissuta alle più grandi crisi economiche, alle bombe di Hitler, ma cosa vuoi che le faccia il coronavirus? È sopravvissuta alle permanenti della Thatcher e alla frangia di Boris Johnson! E poi va detta un’altra cosa, a vantaggio del sesso femminile di cui tu hai così ben parlato prima. Noi ragazze non è che non cogliamo i segni dell’età avanza, del fatto che dovremmo smetterla con le sneakers… ci sono dei segnali precisi che noi riconosciamo, per esempio: uno dei momenti decisivi è il giorno in cui sull’autobus o in metropolitana qualcuno si alza per cederti il posto, e tu prima ti guardi intorno e dici: “Ma con chi ce l’ha quello lì. Who me? Really?!”. Poi quando ti rendi contro che parla proprio con te dici: “No no, ma non esiste proprio, stia tranquillo tanto scendo alla prossima”, e se poi non riesci a dissimularti tra la folla va a finire che scendi davvero alla fermata successiva anche se te ne mancano ancora 8. …il giorno in cui gli amici dei tuoi figli smettono di darti del tu, il giorno in cui gli impiegati della ASL cominciano a darti del tu e ti parlano a voce altissima e scandiscono le parole come se tu fossi appena arrivata dallo Sri Lanka…E in questi tempi di code ai supermercati? Vogliamo parlare del momento fatale in cui tu sei lì, in una lunga coda, e aspetti, e a un certo punto passa un tale, un addetto, e dice: “Chi ha più di 65 anni può saltare la coda”. Cosa fai? Fai coming out? Ti fidi? Perché il problema non è se ti chiede i documenti, è se non te li chiede e ci crede sulla parola che tu hai più di 65 anni. E allora cosa scegli? Di risparmiarti un po’ di tempo o di essere così sputtanata? Perché a noi fa fatica prendere atto che quell’età anagrafica corrisponda davvero a quello che siamo. Esiste un’età percepita e l’anagrafe c’entra poco. Vi ricordo una scena epica di uno dei film della nostra formazione che è I Predatori dell’Arca Perduta, Indiana Jones. Dopo tutte le avventure, dopo che lui è stato massacrato in tutti i modi fisicamente, Indiana Jones è nella cabina della nave insieme a lei che a un certo punto vendendolo così massacrato gli dice: “Ma Jones, non sei più quello di dieci anni fa”, e lui le risponde: “Non sono gli anni, amore, sono i chilometri”. Quello che fa la differenza sono i chilometri, sono le biografie… e le biografie contano. Certo che l’età conta, però fino all’altro ieri ci ripetevate che non contava niente, anzi che dovevamo continuare a vivere perché eravamo così deliziosamente giovanili – che parola orribile “giovanili” – e ci avete detto, e noi ci abbiamo creduto, che i 40 sono i nuovi 20, e i 60 sono i nuovi 40… e adesso basta? È tutto finito? Ma siamo noi che abbiamo i chilometri sulle spalle, ed è il nostro chilometraggio che conta, è la strada che abbiamo fatto fin qui, forse vi dovremo fare spazio, volentieri, ma levarci di mezzo? Di colpo? Ma perché? Siamo noi quelli che tengono in piedi la baracca, quelli che consumano, che lavorano e “non potranno mai smettere” - ci dicevano fino a qualche anno fa, anzi fino a qualche mese fa. Noi consumiamo, consumiamo vestiti, consumiamo vacanze, consumiamo viaggi, consumiamo cultura, siamo noi che andiamo a teatro, al cinema, nelle librerie… Quando noi entriamo nelle librerie: tappeti rossi! E adesso di colpo basta, finito? Ci prendete ancora in giro perché i pensionati (maschi peraltro) passano il tempo a guardare i cantieri – a parte che averne di cantieri in questo periodo, sarebbe già tanta roba – ma non è mica vero. Dovreste andare voi a guardare i cantieri, andare voi a vedere le case che non potrete mai permettervi di comprare. Noi - anzi i nostri consorti - se le guardano è perché al massimo hanno un po’ di nostalgia per il periodo della vita in cui si facevano i sogni e si facevano i progetti. E adesso, cos’altro dobbiamo fare di più? Sparire? Levarci di mezzo, pagare con la vita… Non è così che si fa! Davvero vorreste questo? Così ci leviamo dai coglioni noi e voi avete la strada e i chilometri più facili… non è così che funziona, dovete metterci voi il vostro pensiero, i vostri chilometri, e liberarvi dalla retorica, non potete essere retorici alla vostra età, neanche noi possiamo. Questa solfa “andrà tutto bene”… non è vero, non andrà affatto tutto bene. “Ne usciremo migliori”… palle, siamo già peggiori: io non sopporto più il mio vicino di casa che tutti i giorni alle 6 canta! E canta Umberto Tozzi, e io non lo posso sopportare! E soprattutto non pensiate che vi ricorderete tutto, che rimarrete segnati per sempre da quest’esperienza. Sì, certo, ma solo se prederete appunti. Tocca a voi adesso trovare le parole giuste per raccontarla questa cosa terribile, nuova e difficile che sta succedendo, ma dovete farlo voi, con le vostre parole, con il vostro pensiero – avendocelo – perché altrimenti non avrà davvero avuto senso. Eugenio Montale ha scritto: “La memoria non è peccato finché giova”. E allora provate voi a ricordarvi quello che stiamo attraversando adesso, senza per forza far fuori quelli che hanno qualche chilometro sulle spalle di più, perché se non lo farete, se perderete quest’occasione di riformulare, di ripensare, di riprogettare il mondo, di segnare nuove autostrade verso il futuro, allora davvero sarà una colpa imperdonabile e ve ne pentirete per tutta la vita, perché se non lo farete voi, se non le troverete voi le parole nuove, efficaci per dire tutto questo, allora mi dispiace, ma l’ultimo messaggio che resterà all’umanità sarà…».

Anziani morti in abbandono, ricostruire relazione con la generazione mietuta dal male nascosto. Alberto Cisterna de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Antonio Scurati ha, da par suo, puntato l’indice sulla decimazione di anziani, su quelli che la pandemia sta sterminando in queste settimane di dolore. Ci ha ricordato che a quella generazione l’Italia deve la sua rinascita e la sua crescita nel dopoguerra, che a quelle donne e a quegli uomini si deve la formazione di un patrimonio immobiliare imponente che pone tanta gente al riparo nelle avversità, che da quella stagione deriva la costituzione di un risparmio familiare tra i più alti al mondo. È tutto vero. Impegno, fatica, fattori economici di partenza terribili, condizioni di lavoro disumane, logiche di sfruttamento salariale che ancora lasciano strascichi nella vita del Paese. Tuttavia. Tuttavia è la stessa generazione che ha consegnato ai più giovani un territorio deturpato e saccheggiato da abusivismo e inquinamento come nessun altro in Occidente, ha messo in piedi un regime pensionistico che, per anni, ha consentito di andare in pensione dopo solo 14 anni e 6 mesi di lavoro; ha determinato una spesa pubblica incontrollata e gigantesca in settori parassitari e clientelari; ha consegnato un apparato statale e istituzionale sostanzialmente fallito; ha contrastato in modo inefficace mafie e corruzione. E l’elenco dei danni sarebbe lungo da snocciolare: dalla scuola ai partiti, dai sindacati alla giustizia, dalla selezione della classe dirigente alla sanità. Ecco la sanità. Migliaia di anziani – e vedrete il conto sarà ancora più drammatico quando la magistratura avrà setacciato tutte le responsabilità – sono morti in totale abbandono e in una imperdonabile solitudine. Lontano dagli affetti e dai propri parenti; lontano da un conforto religioso o morale che non fosse quello di eroici cappellani e medici. Tutti hanno pagato un prezzo enorme e intollerabile alle tante negligenze che pur hanno non sempre consapevolmente assecondato in vita; ai tanti politici cialtroni e incompetenti che hanno tollerato nel loro eloquio mistificante; alle tante risorse che, non poche volte, hanno concorso a sperperare facendo cadere su figli e nipoti il prezzo di un debito pubblico spaventoso e fuori controllo ormai. Sono gli stessi anziani che, purtroppo per i più giovani, hanno talvolta abdicato alla propria cittadinanza trasformandosi in onnivori spettatori televisivi, che da un certo punto in poi sono diventati più benestanti dei propri figli precari o dei nipoti disoccupati; che hanno difeso strenuamente le proprie pensioni in nome del diritto quesito. Una Nazione mal governata, mal gestita, mal funzionante li ha fagocitati d’un colpo, senza muovere un dito, senza neanche attaccarli a un respiratore nei terribili spasmi della fame d’aria. O forse no. O forse dobbiamo chiederci se a pagare il prezzo di tutto ciò siano stati quelli con le pensioni minime, quelli che non potevano permettersi le case di riposo di lusso, quelli che i familiari hanno derelitto perché le pensioni non erano appetibili, quelli soli e senza un aiuto. Risuonano ruvide, quasi urticanti le parole di Giuseppe De Rita nell’intervista resa al Corriere della sera il 14 aprile scorso: «Moltissimi anziani hanno una pensione decente, aiutano figli e nipoti, hanno case acquistate in una irripetibile stagione della nostra storia … Gli anziani in Italia manterranno un ruolo affettivo perché è anche economico». Ma al tempo stesso sono parole che tracciano la distanza e la differenza tra “i sommersi e i salvati” dal fuoco virale di questo tempo; tra chi aveva a disposizione una rete di protezione, comunque conquistata, e chi si è trovato esposto alla morte nella solitudine di una corsia o di una stanza. Non sono morti su cui si può stendere il velo del giustizialismo, invocando la testa dei colpevoli e reclamando adeguati risarcimenti. «Da allora, a un’ora incerta, quell’agonia mi torna. E finché la mia storia di orrore non sarà detta. Questo cuore brucia in me» recitava un verso della Ballata del vecchio marinaio di Coleridge con cui Primo Levi iniziava la sua opera più dolorosa. Ecco toccherà all’intero Paese ricostruire, senza inganni e senza retorica, una relazione sincera e profonda con la generazione mietuta dal male nascosto, poiché la storia di orrore di queste settimane andrà pur raccontata nei suoi epiloghi, ma anche nelle sue terribili premesse. E, cessata la furia delle Erinni che pretendono di trasformare la storia in sentenze o le sentenze in storia, dovrà pur stabilirsi se e quando i morti e i sopravvissuti hanno errato nell’edificazione della nazione che consegniamo alle generazioni future, uniche al mondo a star barricate in casa con le scuole chiuse sino al prossimo autunno e a veder crescere la propria distanza dalla modernità che ci trascina.

Il Covid ha portato via dai 2 ai 13 anni di vita alle vittime. «Non sarebbero morti subito». Silvia Turin il 25 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Uno studio scozzese calcola quanti anni sarebbero vissuti i morti per coronavirus e scopre che, anche in presenza di malattie croniche, gli anziani sarebbero vissuti molto di più. «Dato che le persone che muoiono per Covid-19 sono prevalentemente anziane e hanno malattie croniche preesistenti, alcuni hanno ipotizzato che molte di queste persone sarebbero morte comunque presto e che quindi la loro aspettativa di vita potrebbe non essere stata ridotta di molto», è la premessa che fanno gli autori di uno studio scozzese (non ancora revisionato per la pubblicazione) che si sono posti come obiettivo quello di calcolare un valore standard dell’epidemiologia chiamato in inglese YLL, Years of Life Lost. È una misura utilizzata per spiegare gli anni di vita potenziale persa, il numero medio di anni che un individuo si sarebbe aspettato di vivere se non fosse morto per una determinata causa. YLL viene utilizzato per consentire un equo confronto dell’impatto sulla salute di diverse politiche sanitarie.

Studio anche sui casi italiani. Nel caso dei decessi Covid-19 gli studiosi hanno cercato di calcolare gli anni di vita persi, tenendo conto degli effetti della presenza di altre malattie croniche preesistenti nelle vittime. L’approccio standard per il calcolo degli anni di vita persi, è quello di applicare la distribuzione delle età tra coloro che sono morti per una causa specifica a una tabella di vita standard. Ai fini del confronto internazionale, gli autori dello studio hanno scelto di utilizzare la “tabella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per il 2010 sulle malattie globali” che presenta gli anni di vita persi-per età-per malattia. Poi hanno confrontato la tabella con la distribuzione per età dei decessi Covid-19 come sono avvenuti in Italia, in base ai dati pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e hanno calcolato gli anni di vita persi. In base al rapporto ISS, sono state prese in esame 11 malattie croniche comuni (cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca, ictus, ipertensione, diabete, demenza, cronica malattia polmonare ostruttiva, tumore attivo negli ultimi 5 anni, malattia epatica cronica e insufficienza renale cronica), nonché la percentuale di pazienti deceduti con 0 comorbilità (2,1%), 1 (21,3%), 2 (25,9%) e 3 o più comorbilità (50,7%).

Almeno 5 anni di vita in meno pure se anziani e malati. Per gli uomini la perdita di anni di vita calibrata per numero e tipo di malattie croniche preesistenti è stata così in media di 13,1 anni. Per le donne 10,5 anni. In confronto, la perdita di anni di vita basata esclusivamente sull’età usando le tabelle dell’Oms sarebbe stata rispettivamente 14 anni e 11,8 anni. La perdita di anni di vita ovviamente variava a seconda dell’età e delle malattie croniche preesistenti. Ad esempio, negli anziani di età superiore agli 80 anni, la perdita di anni di vita senza malattie croniche preesistenti era di 11 anni, fino a circa 2 anni negli 80enni con un gran numero di malattie. Per la maggior parte delle fasce d’età la perdita di anni di vita è rimasta al di sopra dei 5 anni. La differenza minore è stata meno di un anno di vita perso in caso di donne di età compresa tra 50 e 59 anni con almeno 6 comorbilità. Per la maggior parte delle fasce di comorbilità-età, gli anni di vita persi erano gli stessi in entrambi i modelli di sopravvivenza. Per rendere l’idea, nel Regno Unito la perdita di anni di vita pro capite varia da 8,2 anni per malattia polmonare ostruttiva cronica, 11,6 per malattia coronarica, 13,1 per polmonite e 21,6 per asma. «Rispetto a questi parametri di riferimento, la mortalità per Covid-19 rappresenta un gravissimo danno per ogni tipo di individuo in qualsiasi condizione di salute ed età», concludono gli autori.

Paolo Conti per il ''Corriere della Sera'' il 14 aprile 2020.

Professor Giuseppe De Rita, lei conosce l' Italia come pochi, è attivo nel campo della sociologia dagli anni '50, ha 87 anni.

«Io non parlo da un mese. Non mi piace nulla di quello che sta succedendo. Non mi va di polemizzare con mezzo mondo».

Secondo la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen «gli anziani dovrebbero rimanere in isolamento fino a gennaio». La figura dell' anziano, nel panorama sociale, cambia.

«Sa cosa accade in Olanda? Me lo ha raccontato mio figlio che vive lì. Gli over 70 hanno ricevuto un bel modulo in cui si impegnano, in caso di coronavirus, a non ricoverarsi in ospedale per non sottrarre posti a chi ha più possibilità di guarire. Il bello è che lo hanno firmato tutti».

Approccio diverso rispetto all' Italia...

«La mentalità lì è meno comunitaria, c' è una forte dimensione di autonomia, di prestigio dell' individualità. Quasi un esempio di coscienza pubblica: sono vecchio, se mi ammalo cerco di farcela da solo ma non tolgo spazio ai più giovani».

Qui scompare un' intera generazione.

«Trovo corretta l' analisi del geriatra Roberto Bernabei. Gli anziani morti avevano alle spalle, in media, almeno due o tre malattie pregresse. Gli italiani hanno assistito a tutto questo con dolore e stupore. Poi si è capito che questa malattia anticipava ciò che sarebbe accaduto magari tra un anno. Come in un terremoto: un anziano con un bypass, con uno scompenso renale non ce la fa a salvarsi. Non voglio essere crudele ma è la verità».

Cambierà, con questo progressivo isolamento degli anziani, il loro ruolo nella società italiana?

«Anche qui non vorrei essere cattivo. Moltissimi anziani hanno una pensione decente, aiutano figli e nipoti, hanno case acquistate in una irripetibile stagione della nostra storia. Il livello di patrimonializzazione immobiliare altissimo, che caratterizza il nostro Paese, è di fatto in gran parte nelle mani di quella generazione. Gli anziani in Italia manterranno un ruolo affettivo perché è anche economico».

E resta il ruolo degli anziani nella trasmissione del sapere, del passato...

«Questo è cambiato da tempo. Pensiamo all' idea di conflitto, di guerra. Se racconto a un mio nipote l' atmosfera dell' occupazione nazista a Roma tra l' 8 settembre 1943 e il 4 giugno 1944 mi guarda come un marziano. Ormai la conoscenza della storia, quindi della guerra, è delegata all' audiovisivo, magari alle Playstation. Noi che abbiamo vissuto pagine irripetibili di storia non siamo più in grado di trasmetterle come in passato. Chi ha la benedizione della fede può forse ancora consegnarla come valore. Ma tutto il resto...».

Pensa che gli anziani si adatteranno a una nuova condizione di lungo isolamento?

«Il popolo italiano è meravigliosamente adattativo. Gli anziani hanno già trovato una nuova condizione. Se ne stanno tranquilli in casa, rispettano le regole. Anche in Lucania nei piccoli paesi, dove il virus praticamente non c' è. Siamo fatti così. È anche il nostro bello».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 24 aprile 2020. «Andare in pensione a 65 anni è ridicolo. A 65 anni avevo ancora i brufoli», sbottò George Burns, protagonista con Walter Matthau de I ragazzi irresistibili . Figuratevi se gli avessero chiesto a sessanta di restare recluso in casa in una proroga senza scadenza. Va da sé che la proposta buttata lì da Vittorio Colao, per quanto stoppata da Giuseppe Conte, sta sollevando ansie e proteste a non finire. All' inizio, a dire il vero, era girata voce di una prorogatio, istituto che in Italia è spesso declinato all' infinito biblico, agli ottantenni ed oltre. E già quell' ipotesi, che avrebbe toccato quasi quattro milioni e mezzo di italiani, aveva fatto saltar su i più combattivi veterani tipo l' avvocato Raffaele Della Valle: «Alla prima udienza utile dopo il 3 maggio sarò in tribunale a fare il mio mestiere. Se mi fermeranno chiederò lo stesso provvedimento per tutti i coetanei ai vertici delle istituzioni, della Corte Costituzionale, della politica...». Poi la platea dei possibili isolati in casa, stando alle parole del ministro Francesco Boccia che ipotizzava la proroga fin dentro l' estate col coinvolgimento degli studenti «che prenderanno la Maturità e che potrebbero essere arruolati per i servizi essenziali nelle loro città, ad esempio la consegna della spesa o i servizi agli anziani», è sembrata allargarsi ai settantenni. Cioè a dieci milioni e 300mila persone pari al 17% del totale. Fino a gonfiarsi ancora, nell' ipotesi Colao, fino ai sessantenni. Con l' esonero dal lavoro fuori casa, al momento della ripresa (fatto salvo l' home working già oggi, ovviamente, consentito) di 17 milioni e 600.000 cittadini. Pari al 29% della popolazione. Un terzo. Ma ha un senso? Certo, l' ultimo bilancio ufficiale dell' Istituto superiore di sanità sui morti per fasce d' età, fornito ieri, dice che solo 1.037 defunti su 22.587, cioè uno su ventuno, avevano meno di sessant' anni. Ma, come hanno spiegato mille volte gli esperti in queste settimane, nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di persone più esposte perché già indebolite da altre malattie. L' ipotesi d' una quarantena a oltranza basata sull' età «è una follia», spiega Sabino Cassese, presidente emerito della Corte Costituzionale: «L' articolo 16 della Costituzione che riguarda la libertà di circolazione dice che si possono stabilire dei limiti con una legge in via generale. E "in via generale" vuol dire che non si possono fare eccezioni. Non è che puoi dire questa categoria sì quest' altra no. La ratio dell' esclusione di persone sopra una certa età è quella che sono più fragili, più aggredibili, perché ci sono fenomeni di co-morbilità. Se questa è la ratio, però, allora bisognerebbe anche escludere il trentenne iperteso, il quarantenne diabetico e così via. Di più: anche oltre i sessant' anni c' è tanta gente che sta benissimo. Conosco ottantenni che sono in piena forma. Che giocano a tennis... E allora?». E poi, chiede il demografo Gianpiero Dalla Zuanna, esiste davvero un criterio per definire un anziano? «Diciamo che il vecchio è colui cui probabilmente resta l' aspettativa di una quindicina di anni di vita. Ma anche questo è un criterio che cambia. Era ormai vecchio un uomo di 49 anni ai tempi dei Greci e dei Romani, fino grossomodo al 1300. Poi uno di 58 anni al momento dell' unità d' Italia, di 62 all' inizio del '900, di 65 nel 1967, 68 nel 1992, 72 nel 2017. E sarà vecchio nel 2042 chi ne avrà 76». Avviato, salvo pandemie, alla novantina. Di più: «Negli ultimi quarant' anni uno degli elementi più interessanti è l' iper-sopravvivenza delle élites. Ci sono vari studi che lo hanno riscontrato nei cardinali, nei professori universitari, più ancora negli accademici...». Come mai? Per molti motivi. Su tutti, l' ipotesi che chi allena quotidianamente la testa venga in qualche modo favorito. «Dissento in base alla mia esperienza personale dall' affermazione che "chi loda la vecchiaia non l' ha vista in faccia"», scriveva Rita Levi Montalcini nel libro L' asso nella manica a brandelli , «questa fase della vita può essere vissuta in modo positivo e cioè nell' acquisizione di una visione più ampia e prospettica di quanto sia possibile negli anni della piena attività lavorativa». La chiamavano saggezza, un tempo. Forse nessuno è stato netto come sei anni fa Papa Francesco: «Quante volte si scartano gli anziani con atteggiamenti di abbandono che sono una vera e propria eutanasia nascosta! È l' effetto di quella cultura dello scarto che fa molto male al nostro mondo...». Ma attenzione a non perdere le radici. Gli anziani sono «alberi vivi, che anche nella vecchiaia non smettono di portare frutto». Una tesi non lontana da quella espressa, laicamente, si capisce, da oltre un centinaio di scrittori, filosofi storici, poeti, da Giorgio Agamben a Carlo Ginzburg, da Ginevra Bompiani a padre Enzo Bianchi, che si sono raccolti intorno a un appello da inviare al capo dello Stato, al premier, a vari ministri per manifestare il loro dissenso «nei confronti dell' eventualità di una disposizione limitativa della libertà personale, che volesse mantenere una fascia di persone ancora attive, in buona salute e in grado di dare ulteriori preziosi apporti alla nostra società, in una segregazione sine die solo in base al dato anagrafico, dell' appartenenza cioè a una fascia di età dai settanta anni in su...». Una «imposizione del tutto ingiustificata». Non solo perché «spesso l' età effettiva non corrisponde a quella riportata sui documenti». Peggio: «Una «reclusione sine die , anche in vista di un possibile eccessivo calore dell' estate in una città come Milano, già provata, metterebbe invece ad effettivo rischio la nostra salute con il protrarsi di una condizione di vita innaturale e anti igienica, quando proprio nella cosiddetta terza età l' aria aperta, il contatto con la natura, la socialità sia pure controllata e il movimento fisico, sono essenziali. Chiuderci in casa vorrebbe dire, perciò, minacciare e non proteggere la nostra salute». Come andrà a finire, dopo il 3 maggio, non si sa. Certo fa sorridere come l' idea degli anni che scorrono possa essere vissuta, di tempi in tempi, in maniera diversa. Basti rileggere lo sfogo lontano di Guido Gozzano: «Venticinqu' anni!...Sono vecchio, sono vecchio!» E ancora: «Venticinqu' anni!... Ed ecco la trentina / inquietante, torbida d' istinti / moribondi.... ecco poi la quarantina / spaventosa, l' età cupa dei vinti / poi la vecchiezza, l' orrida vecchiezza / dai denti finti e dai capelli tinti...».

Da liberoquotidiano.it il 24 aprile 2020. Lockdown. Fase 2. Ormai questi due termini sono entrati nel nostro vocabolario da giorni. E sul nostro calendario abbiamo cerchiato in rosso una sola data: il 4 maggio, quando dovrebbe terminare la quarantena. Gli artisti scalpitano sui social, dove sono più popolari che mai tra dirette e chat con i fan. Il grande Fiorello, unico e inimitabile, è sicuramente uno dei pionieri delle dirette in Rete: la sua edicolaFiore - lo ricordiamo - da anni viene trasmessa con uno smartphone. Quindi sicuramente riassume dal punto di vista digitale tutto quello che accade oggi. Ma Fiore, proprio sui social, non perde la sua ironia e “pizzica” sulle nuove misure del Governo per la fase 2. “Ho 60 anni e starò a casa come Ligabue: Venditti e Baglioni non ne parliamo", dice Fiorello in un video che diventa virale. Poi, sempre con in diretta social, sfodera il nuovo look: “Buongiorno, sono Rosario Fiorello, sono nato il 16 maggio del 1960 - dice Fiore - questo significa che il 16 maggio compirò 60 anni. E adesso i 60enni non possono uscire. Io non ce li ho ancora, quindi io dal 4 al 16 maggio potrei uscire. Ma noi 60enni dobbiamo fare fronte comune e dobbiamo dare retta a chi ci governa. Quindi se dicono che noi sessantenni dobbiamo stare a casa significa che siamo a rischio, siamo persone da proteggere. Siamo un po' come il panda, il colibrì dell'Himalaya, siamo in via di estinzione. Però non usciamo. Stiamo a casa".

Vladimiro Zagrebelsky per “la Stampa” il 14 aprile 2020. In vista della "Fase 2" della reazione alla pandemia, si affaccia un ventaglio di ipotesi di superamento delle limitazioni imposte alle libertà costituzionali di ciascuno di noi (circolazione, impresa, ecc.). Ogni scelta che faranno le autorità pubbliche dovrà rispondere a criteri di ragionevolezza e proporzione, considerando che le libertà dei cittadini possono essere ristrette nella sola misura del necessario. Limitazioni irragionevoli o esorbitanti si tradurrebbero in abusi discriminatori, inammissibili nel regime delle garanzie liberali disegnato dalla Costituzione. Si è affacciata la possibilità che ai cittadini anziani sia imposto di rimanere in casa anche dopo che per tutti gli altri sia nuovamente iniziata la consueta vita sociale. In una intervista a un tabloid tedesco, a sostegno di una simile ipotesi, addirittura sino a fine anno, si è ora detta la presidente della Commissione europea (in materia di salute la competenza è però degli Stati). Le ragioni che sono state portate nel dibattito italiano si fondano sulla constatazione della maggior letalità del virus quando il paziente sia anziano. Tener chiusi gli anziani servirebbe a proteggerli dall' infezione e a salvarne la vita. Il maggior rischio per la vita non è però prodotto dall' età in sé. La causa ne è invece la vulnerabilità, che spesso si accompagna all' invecchiamento quando siano presenti altre comorbilità. E specifiche ragioni di particolare debolezza ed esposizione al rischio esistono anche in soggetti più giovani. Quanto a stato di salute, la categoria degli "anziani" è estremamente eterogenea al suo interno, in rapporto allo scopo legittimo di sanità che potrebbe spingere il legislatore ad imporre restrizioni: non tutti gli anziani sono particolarmente fragili e non tutti i più giovani sono invece forti di fronte al virus. Sarebbe più ragionevole semmai considerare altre categorie: gli ipertesi o i diabetici, per esempio. Ma dovrebbe provvedere il medico curante a consigliare o prescrivere. Le attuali regole restrittive tendono a ridurre la diffusione dell' epidemia, limitando il contatto sociale e quindi la diffusione del contagio. Si tratta del classico motivo di impedimento della circolazione delle persone per contrastare la circolazione del virus. Ma gli anziani non sono più contagiosi degli altri. Essi non rappresentano un pericolo maggiore per la generalità della società, tale da giustificare (o addirittura imporre) quarantene e "zone rosse". Secondo la Costituzione, la legge può limitare la libertà di circolazione per motivi di sanità. Ma si tratta della sanità pubblica, messa a rischio dalla circolazione delle persone. Invece ora si vorrebbe imporre a un gruppo di persone un comportamento prudente per se stesse, non rispetto alla sanità pubblica. Si faccia invece opera di informazione sui rischi, si offra a chi ne ha bisogno opportunità di sostegno, come si fa consigliando agli anziani il vaccino antinfluenzale. Ma non si violi la libertà di cittadini adulti, capaci di scegliere per sé cosa fare e cosa rischiare (magari sentendo il proprio medico).

Rosario Dimito e Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 22 aprile 2020. Lo stato di vulnerabilità: sarà quella la traccia dettata dagli esperti del governo per poter far ripartire, nella fase 2, la fascia di cittadini over 70 anni. In queste ore si sta ragionando su come proteggere chi non è più giovanissimo, acciaccato ed è particolarmente sensibile agli effetti del coronavirus. L' ipotesi è che chi - avanti con l' età - è affetto da patologie dismetaboliche importanti, come il diabete, l' ipertensione o problemi cardiovascolari, venga maggiormente monitorato, censito, e anche sottoposto, con maggiore attenzione, ai test sierologici che verranno effettuati nello screening sulla popolazione. Se l' esito delle indagini mediche dovesse rivelare uno stato di salute a rischio, scatta una sorveglianza sanitaria speciale con un giudizio di inidoneità temporanea, o anche una limitazione agli spostamenti, che potrebbe voler dire non poter uscire di casa per qualche mese. I criteri base per la valutazione dei rischi restano, dunque, le patologie. L' anziano che verrà monitorato, sarà più vulnerabile se è affetto da almeno due di queste malattie (comorbilità con l' infezione) perchè può aggravare la patologia. Anche perché la sola ipertensione, a esempio, non potrà costituire una ragione per limitarne i movimenti, considerato che ne soffre buona parte della popolazione over 50.

IL RAPPORTO. Sono tante, dunque, le valutazioni che si stanno facendo in queste ore. E la maggior parte sono basate su un rapporto della Società italiana di Gerontologia e geriatria preparato per il Comitato tecnico scientifico e la task force, presieduta da Vittorio Colao. Gli esperti partono dall' assunto che «l' età, di per sé, non possa costituire un discrimine normativo, non essendolo sul piano biologico. È, infatti - chiariscono - la maggior prevalenza di condizioni morbose che accresce la letalità del Covid-19, non l' età in sé». Il professor Roberto Bernabei, direttore del Dipartimento di Geriatria Neuroscienze dell' università Cattolica, componente del Comitato scientifico, considera che per le persone che hanno superato i 70 anni «l' esercizio fisico è un farmaco salvavita, uno strumento promotore di salute». Ed è proprio su questo che il rapporto insiste quando considera che anche gli esercizi fatti a casa «non sono sufficienti per assolvere un ruolo di completa supplenza dell' attività esterna». Stare chiusi nel proprio appartamento, secondo i medici, «ha un impatto sul tono dell' umore e, nei malati dementi o psichiatrici, sta determinando importanti effetti avversi. Molto comune è il sovvertimento del ritmo sonno veglia nel demente». Il consiglio, quindi, è di consentire, «al termine del lockdown, la facoltà di uscire per tutti gli anziani, anche se con alcune precauzioni da seguire».

IL CONFINAMENTO. Innanzitutto - viene specificato - che le limitazioni debbano persistere «solo in aree ad alto rischio di contagio. Tale limitazioni - aggiungono - potrebbero consistere nell' obbligo di protezioni o nella proroga del confinamento, anche in rapporto al profilo di rischio. L' obbligo del confinamento potrebbe valere per malati immunodepressi o con polipatologia». Con specifico riferimento, appunto, a malattie tipo diabete, ipertensione, e cardiovascolari. Gli esperti suggeriscono anche una soluzione già adottata in Francia: «La rimozione, parziale o totale, delle limitazioni si potrebbe prevedere da soli o accompagnati da un familiare, nell' arco di un chilometro, con l' obbligo dell' uso della mascherina in rapporto alla situazione di rischio ambientale e individuale. È comunque precluso qualunque contatto, se non con il familiare, e restano immutate le norme igieniche già in atto, individuali e ambientali».

LE ONDATE DI CALORE. La metodologia da seguire, poi, dovrebbe essere la stessa adottata in occasione delle ondate di calore, quindi con «l' avvio di un sistema di monitoraggio dei soggetti a maggiore rischio, al fine di cogliere tempestivamente un peggioramento dello stato di salute compatibile tanto con aggravamento di una malattia cronica, rischio da non escludere dopo protratto decondizionamento, quanto l' insorgenza di un' infezione da Covid-19. In tal modo - concludono i geriatri - si potrebbero anche circoscrivere subito eventuali microfocolai».

Fulvio Abbate per ilriformista.it il 21 aprile 2020. Gli anziani, meglio, i “vecchi”, così come appaiono, sia pure edulcorati nella retorica, metti, ora delle canzoni di Renato Zero ora del film di Marco Ferreri La casa del sorriso, nel sentire comune ufficiale, certificato implicitamente da ciò che dovrebbero essere gli organismi preposti al governo, alla cura sanitaria e alle stesse protezioni civili, ed è questo un crimine, sono percepiti e indicati come “razza” a se stante, quasi trattando di loro stessimo ragionando di zebre o dei licaoni. Assenti al nostro sguardo, se non nel privato degli affetti, segregati nelle case di riposo, meglio, negli ospizi talvolta immondi, se ne pronuncia la persistenza nell’universo dei viventi come fossero scarti, eccedenze umane, individui assenti all’anagrafe delle rispettive singole identità, vecchi, timbrati, marchiati come tali, quasi come nei lager nazisti un tempo. Quasi che il passato che, come per tutti, li ha visti dapprima bambini, poi adolescenti, giovani e infine adulti, persone presenti nel mondo del lavoro, della produzione e nell’acquisto delle merci, ossia consumatori già blanditi dapprima da Carosello” poi dagli spot, non fosse mai né esistito né ormai più conti. Idealmente strappate dai cassetti delle loro case per finire in mano ai rigattieri, agli “svuota cantine”, le loro foto dal bordo frastagliato da piccini e poi del matrimonio, le pose in divisa al servizio militare, e ancora gli scatti dei figli e dei nipoti già a colori, poco importa se kodacrome o polaroid, incorniciate o tenute lì in casa, tra soggiorno e camera da letto. La signora Ida Serrani, anni addietro mia vicina di casa, nella sua casa a pianterreno del quartiere Miani di Roma, sarta, poetessa, oltre a narrarmi di suo papà “repubblicano mazziniano”, che non l’aveva mandata a scuola così da risparmiarle l’insulto dell’uniforme da “piccola italiana” nei giorni del fascismo, custodiva accanto al comodino le foto dei suoi cari, c’erano i genitori, ma anche le amiche vicine di casa, mi diceva: «… questa è la foto della signora Ricciardi, tanto brava. Il figlio, Salvatore, stava nelle Brigate Rosse, ma garbato pure lui». La signora Serrani è stata per me il corrispettivo del “pensionato” di Guccini, raccontava pure del marito che lavorava al Drive In di Roma, quando questo ancora esisteva. Ai vecchi sembra negato di appartenere all’anagrafe dell’umano, come fossero ingombri, pesi, pesi morti: un assassinio culturale che la pandemia in atto ha mostrato in modo sempre più evidente e appunto criminale. Nel migliore dei casi, su di loro si fa ironia, nominando un’ipotetica “Villa Arzilla”, o li si mostra come bontemponi, pronti a importunare, da pensionati, gli uomini in arancione fosforescente dell’Anas, o d’ogni altra impresa, al lavoro con gli scavi stradali, le donne come tante Tina Pica, i maschi invece simili ai caratteristi abilitati a recitare la stessa parte con il cinismo che si riverbera nella barzelletta che così termina: «… mica dovranno sparargli perché si decida a morire?». Non ho certezze e neppure opinioni su ciò che sarà, reputo tuttavia irresponsabile immaginare che tutto ricominci come prima. I poveri vecchi potranno mai utilizzare i mezzi pubblici se è vero che si tratti di bacillari in atto? Chi ne curerà l’igiene in modo radicale? E lo stesso avverrà con i taxi. Esiste il know-how che renda possibile proteggere innanzitutto le creature più vulnerabili del genere umano cittadino e non, gli anziani? Non ho opinioni su ciò che sarà, trovo però, e lo ribadisco fino allo stremo, che il dato più scandaloso, delittuoso e infame dell’intera questione covid-19 (che mai definirei “guerra” e neppure parlerei di “eroi” trattando di infermieri e medici lasciati spesso senza protezioni certe né presidi) la cosa più criminale che ravviso è appunto il modo in cui i vecchi sono stati condannati a morte anticipatamente, ignorando scientemente che gli anziani siamo tutti noi, in potenza o in atto. Poveri vecchi, costretti a guardarsi le spalle dal nostro cinismo e dalla nostra indifferente malvagità su carta intestata pubblica. In assenza dell’antico “proletariato”, certi giorni auspico che a sollevare la bandiera della rivolta siano proprio loro, i vecchi, li immagino malfermi sulle gambe o perfino con un deambulatore o su sedia rotelle, eppure conto che da tutti loro, una volta organizzati, possa arrivare una nuova scintilla rivoluzionaria. Così come Pasolini immaginava gli “Alì dagli occhi azzurri” pronti a raggiungerci per «deporre il germe della storia antica» e «poi col Papa e ogni sacramento su come zingari con le bandiere rosse di Trotzky al vento…», io vedo i vecchi. Salvando se stessi, salveranno anche noi e il senso della dignità umana, vedo in loro una futura umanità.

Coronavirus, il nuovo razzismo sugli over 70. Guido Neppi Modona su Il Dubbio il 19 aprile 2020. La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha proposto la segregazione in casa degli anziani sino alla fine dell’anno. Tra i pericolosi veleni diffusi dal Coronavirus ho colto una proposta particolarmente malsana e inquietante, che si riflette negativamente sulla moralità, la ragionevolezza e la credibilità delle risposte alla pandemia. Tra altre sortite piuttosto infelici, alcune riferite alla specifica situazione italiana, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha proposto la segregazione in casa degli anziani, se ho ben capito, sino alla fine dell’anno. Anziani segregati solo per via dell’età: il nuovo razzismo. Quindi ben oltre il prevedibile picco della pandemia, con il pretesto di apprestare una più forte tutela di una categoria di soggetti ritenuti particolarmente vulnerabili. Con stupore ho rilevato che nel dibattito che ne è seguito la proposta ha incontrato non poche adesioni, peraltro prive di qualsiasi evidenza scientifica dei rapporti tra mera anzianità e vulnerabilità al contagio. Tale è la confusione e lo sconcerto di fronte alla aggressività e alla diffusione del coronavirus che anche una proposta che comporterebbe la sostanziale morte civile di un’intera categoria di cittadini, individuata esclusivamente in relazione al dato astratto dell’età, rischia di entrare nel novero delle possibili risposte alla pandemia. Uno dei punti di forza della reazione al coronavirus è stato ed è tuttora l’atteggiamento del popolo italiano, che sta affrontando con grande senso di responsabilità e consapevolezza della gravità della situazione le restrizioni imposte all’esercizio di numerosi diritti costituzionali, tra cui in primo luogo la libertà di circolazione. Tanto è vero che il Presidente Mattarella, che si è più volte appellato ai valori dell’unità e della solidarietà quali presupposti di una efficace risposta al coronavirus, ha ripetutamente riconosciuto che tali valori sono condivisi dalla stragrande maggioranza della popolazione. Ebbene, la creazione artificiale e astratta di una categoria di cittadini “diversi” a cagione del solo dato dell’età violerebbe palesemente i fondamentali valori dell’unità e della solidarietà. In realtà dietro la dichiarata intenzione di predisporre una speciale tutela per gli anziani si cela la convinzione che gli anziani siano di per sé, per il solo dato dell’età, potenziali portatori e diffusori del virus, a prescindere dalle loro effettive condizioni di salute: con il pretesto di difendere la sua vulnerabilità, in realtà l’anziano viene minacciato di totale isolamento per una supposta maggiore pericolosità. Bisogna stare molto attenti perché la proposta, oltre a scalzare i valori dell’unità e della solidarietà, riecheggia metodi che richiamano le dinamiche del razzismo: quelli che sino a ieri erano cittadini come tutti gli altri diventerebbero “diversi”, come da un giorno all’altro lo furono gli ebrei dopo le leggi razziali del 1938. Tutti gli anziani sarebbero relegati in casa e destinatari del divieto di circolazione per il solo fatto di avere più di 65/ 70 anni, a prescindere dal loro effettivo stato di salute. Ecco il punto: vi sono anziani che malgrado l’età sono perfettamente sani e, in quanto tali, non sono di per sé più vulnerabili di un giovane; al contrario, vi possono essere giovani affetti da malattie gravi che li rendono particolarmente vulnerabili e quindi potenziali propagatori del contagio. Disporre misure limitatrici per una categoria di soggetti individuati solo sulla base dell’età determinerebbe anche una palese violazione del principio costituzionale di eguaglianza. Nell’epoca del coronavirus l’anziano e il giovane non affetti da alcuna morbilità sarebbero destinatari di un trattamento diverso, in quanto solo il primo verrebbe confinato in casa e privato del diritto alla libera circolazione. Alla faccia dei valori dell’unità e della solidarietà gli anziani diverrebbero una categoria di soggetti “diversi”, di per sé sospetti di essere contagiabili o contagiati, sì che, se un anziano avesse l’ardire di mostrarsi in strada, potrebbe essere considerato e trattato alla stregua degli “untori” della peste di manzoniana memoria. Ma allora eravamo alla metà del ‘Seicento, un secolo che, quanto alla risposta alle epidemie, abbiamo sempre ritenuto essere governato da superstizioni e ignoranza.

Marco Benedetto per blitzquotidiano.it il 20 aprile 2020. Coronavirus e vecchi. Lasciateci morire in pace, ho scritto. Non ho scritto: voglio morire. Ho rivendicato per tutti, anche per chi ha superato i 70 anni, come me, il diritto di camminare nelle strade e nei giardini, andare al cinema, ricevere gli amici in casa, fare festa in terrazzo. Per tutti, non solo per noi. Rivendico, ho scritto, il diritto alla vita e alla morte. Anche perché non è che sequestrandomi mi renderete immortale. Amici che conosco e stimo da decenni hanno preso la mia invocazione di libertà come un atto di rinuncia. Giovanni Valentini, con il quale, a partire dal 1976, ho condiviso anche tratti importanti di vita, mi ha scritto sgomento: “Un combattente come te non può deporre le armi. Sappiamo tutti che dobbiamo finire, ma ciascuno di noi ha il dovere di vivere il più a lungo possibile, nel miglior modo possibile. La vita è una sola e va vissuta fino in fondo. Forza e coraggio!”. Condivido pienamente, non ci penso nemmeno a rinunciare. Il mio motto è sempre stato: Credere: con precauzione, obbedire: mai, combattere: sempre. La mia invocazione del diritto di morire come si vuole era un grido di libertà. Era il rifiuto della corrente imperante ipocrisia che fa piangere la strage dei nonni, che però ci vuole tenere reclusi a vita, per poi magari alla fine del percorso tagliarci anche le pensioni. Dall’alto dei miei 75 anni, rivendico il diritto di morire godendomela. Non voglio essere segregato in casa, esposto, se esco, all’arbitrio di una delle tante pattuglie che decidono, senza appello e spesso in contraddizione fra loro, della validità delle nostre ragioni. Se i vecchi sono l’anello debole della catena, come peraltro Natura vuole che sia, sono invece i giovani e i giovanissimi i massimi diffusori del contagio. Non sono portato al suicidio al punto di cercare il contagio per sfidare la morte. Me ne sto ben chiuso in casa, come faccio peraltro da anni. Ho solo un po’ ridotto le passeggiate, già rare e solo finalizzate all’esercizio motorio, a zero, ripiegando sulla cyclette. Ma non accetto che a decidere se, come e quando posso uscire sia una van der Leyen qualunque. Ursula van der Leyen, presidente della Commissione Europea, è diventata la porta bandiera della segregazione dei vecchi. Dai suoi primi atti è risultata abbastanza incapace. In realtà la sua nomina è stata un colpo magistrale di Angela Merkel, che si è tolta dal governo un ministro della Difesa inadeguato, inviso ai militari e sotto incubo di inchiesta giudiziaria. La van der Leyen non è certo di sinistra nemmeno un po’. Ma qui da noi le sono tutti corsi dietro. Il coronavirus fa esplodere le contraddizioni, come si diceva una volta. Non del capitalismo, o non solo. Ma, nel caso nostro, della pseudo sinistra, figlia di benestanti borghesi, impanata in sacrestia e in parrocchia, fritta nell’olio un po’ rancido che ogni tanto i superstiti di Lc o delle Br tirano fuori dalla dispensa della loro politica. Un maitre à penser di questa sinistra è Tito Boeri, posto da Matteo Renzi alla presidenza dell’Inps. Arrivò a invocare tagli alle pensioni più elevate. Un intervento, spiegò, che avrebbe alzato la mortalità del segmento e determinato significativi risparmi. “Chi percepisce pensioni più alte ha un tasso di mortalità più basso della media nazionale e questo ci dice che interventi perequativi sugli assegni in essere avrebbero “un impatto sul sistema pensionistico ancora più forte” diventando una “fonte di risparmio importante”. Renzi, a dire il vero, lo aveva anticipato, auspicando un taglio o la abolizione delle pensioni di reversibilità. Quando i compagni Zingaretti, Orlando e Franceschini si interrogano sulle cause del crollo dei voti, dal 40 al 20 per cento, che afflisse e affligge il loro partito in questi ultimi anni, pensino alle incaute parole di cui sopra. Adesso sono tutti scatenati sui vecchietti che il coronavirus vuole morti. In fondo, il coronavirus ha agito nel senso auspicato da Boeri. Quando sarà finita, sarà interessante conoscere il risparmio dell’Inps sul conto pensionistico. Siamo già ben oltre quota 10 mila. Loro, i giovani, questo non lo ammettono. Almeno a parole, ci vogliono eterni. Ma chi gli crede? Ecco emergere la grande ipocrisia. Premesso che la Morte è condizione preliminare della Vita. Ci dobbiamo dire fortunati perché le aspettative di vita, dai 30 – 40 anni dei nostri remoti antenati (eccezion fatta per gli ultra centenari Patriarchi) sono oggi di 80, anche 90 anni. Muoiono i giovani, per malattie incurabili e improvvise. Muoiono per incidenti stradali o domestici. Fra il 1915 e il 1918 sono morti in seicentomila, in prevalenza sotto i 30 anni. Fra il 1940 e il 1945 credo siamo andati vicini. Non ci furono trincee, ma carri armati e bombardamenti a tappeto sulle città inermi. Alfa e Omega, non c’è Alfa senza Omega. Una recente biografia di Riccardo Gualino, grande imprenditore italiano fra le due guerra, caduto come tanto di buono che c’è in Italia nell’oblio, ricorda come, lui laico e ateo, superati i settanta anni di età prese a parlare di “Mi Signur”, Nostro Signore in Piemontese. Sentiva avvicinarsi l’ora della resa dei conti. Le probabilità di farli proprio con Mi Signur aumentavano, vedessi mai. Ci sono ampie spiegazioni sul perché la morte colpisca in prevalenza le fasce di età più elevate. Ci sono anche noti casi di vecchi che, opportunamente curati, sono guariti. Il dubbio è che la scelta di tenerci chiusi in casa fino alla fine dell’anno sia solo un diversivo. Non sanno che pesci pigliare. Non sanno come imbrigliare l’espansione del contagio. Come in una partita di pallanuoto chissà quali oscure lotte di potere e di interessi ciclopici si stanno combattendo sotto il pelo dell’acqua della piscina in cui nuotano scienziati e politici. La posta in gioco è gigantesca. Se pensate che quando si fondono due case farmaceutiche i valori in gioco sono decine di miliardi di dollari o euro, avete una pallida idea di quanto può valere il primato su un vaccino. Ma fino a quel momento, tutti a casa. Più di tanto non possono. Se bloccano le fabbriche moriamo tutti per altra malattia, la decrescita tutt’altro che felice e la fame. Se aprono le fabbriche devono aprire anche le scuole. Altrimenti dove li mettono i bambini senza genitori a controllarli? Qualcosa devono pur fare. E allora se la prendono con gli anziani, almeno noi dobbiamo restare isolati. Isolati, ma come? Un nonno che vive solo può cavarsela, ma un nonno che vive in famiglia come farà? Apriranno le scuole, apriranno gli esercizi pubblici e gli uffici. I nonni torneranno a svolgere la funzione essenziale di baby sitter qualificati e amorosi. E gli adorati pargoletti, da sempre portatori più o meno sani di tutti i genere di malattie infettive da quei centri di infezione che sono le aule scolastiche, tornando a casa saranno per i nonni una minaccia molto più intensa di una passeggiata in una strada deserta.

Il Covid sta ammazzando una generazione che non vuole morire. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 3 Aprile 2020. Un giornalista teoricamente non dovrebbe parlare di sé, ma poi non è vero. Anche quando facciamo finta, parliamo sempre di quel che siamo, che abbiamo capito. Per esempio, ho capito da poche settimane di far parte di una generazione che – forzando un bel po’ la metafora – si fa una strana gita sui treni di Auschwitz. Naturalmente tutti invecchiano. Quelli che ci arrivano. Tutti coloro che arrivano a settanta e oltre sanno che cosa li aspetta. Dunque, non fa notizia. Quel che fa notizia, è che la mia generazione, nata con la guerra e che oggi lambisce gli ottanta anni, si è trovata in quest’epidemia nel ruolo inaspettato non soltanto di chi è candidato a lasciarci la pelle e poi in un altro ruolo, inatteso, bruciante, odioso. Quello di chi non merita il respiratore. Dai miei appunti: «Voi italiani avete tanti morti perché vi accanite a mantenere in vita persone oltre i settanta che invece devono essere lasciati al loro destino». Oppure: «Sono un medico della terapia intensiva e devo dire che è molto duro dover decidere chi ha diritto a vivere e chi no e lasciar morire chi potrebbe essere salvato». Dunque, io ho ottanta anni. Questione di mesi. Tutti i miei amici, stessa età più o meno. Eravamo ragazzi, eravamo fichissimi, sexy, spudorati, lavoravamo come furie, combattevamo come furie, facevamo danni come furie e anche riparazioni sbagliate, come furie. Siamo quelli che nei maledetti anni Sessanta eravamo ancora in bianco e nero e sentivamo l’odore della guerra e delle guerre, vi risparmio l’amarcord della guerra fredda e delle sue delizie, ma era roba greve, assassina. Oggi mi fanno ridere quelli che predicano odiosamente contro l’odio. Io – e certo non da solo – ho visto soltanto odio, fra tanta febbre di operosa costruttività. Ci si odiava per la politica in famiglia, mia nonna sfilava dalla tasca di suo figlio, mio zio in bicicletta, la copia dell’Unità e la brandiva come un trofeo prima di farla a pezzi. Fra cugini ci si accapigliava, per strada ci si menava, insultava, detestava. Odio, a carrette. Quello di oggi, con il dovuto rispetto, giuggiole. Ma adesso tocca a noi e dovete sapere che io non sono cresciuto con i Beatles né con i Rolling Stones (che adoro, sia chiaro con tutti gli altri gruppi inglesi) ma crescevamo con le canzoni di Georges Brassens, quelle che Fabrizio De André copiava con la licenza dell’autore e che tutti pensavano fossero sue finché Mina non gli sdoganò la Canzone di Marinella che era, a confronto, robetta trash. Cantavamo tutti i canti politici possibili e immaginabili e mi sono accorto con stupore che ricordo l’intero canzoniere della guerra di Spagna, ma qui si scade nel reducismo, dunque un passo indietro. Brassens cantava molto allegramente della sua morte in arrivo e diceva che di fronte alla morte bisogna fare l’école buissonnière, fare come quando si fa sega a scuola, bigiare, andare verso la tomba recalcitrando e perdendo tempo. Ed eravamo tutti più o meno d’accordo che si dovesse fare così: chi è in prima linea sull’orlo della fossa comune del tempo, cerca di scherzare, diminuire, sdrammatizzare. Figli nipoti amici e affini si regolano nello stesso modo. Quando la mia generazione era bambina e nel banco di legno della scuola trovava un bicchiere di inchiostro in cui intingere una penna con pennino da ripulire con lo straccetto prima di riporla nell’astuccio, vedevamo i vecchi allora, gente nata poco dopo l’unità d’Italia e che aveva familiarità con Garibaldi, almeno di nome, che viveva e moriva in casa. Mia nonna Amelia è morta di cancro polmonare nella sua stanza da letto e io le portavo i pasti e le leggevo le novelle e insieme ascoltavamo alla radio a notte fonda degli sceneggiati magnifici pieni di misteri e porte che gemevano. Da un po’ di decenni si muore in ospedale e si muore da soli e ti portano giù col montacarichi nel frigo, poi una autopsia protocollare ricucita con spago macchiato di talco, e via con le pompe funebri. C’era noia e rispetto per la morte, noia e rispetto per la generazione passata che ordinatamente saliva sul treno che avrebbe cancellato le loro tracce. Non eravamo preparati a questo delitto. La morte alla quale speriamo testardamente di sfuggire barricandoci come ricercati – ci viene inflitta con parole collettive: “Si tratta comunque di malati per lo più ultrasettantenni e con altre malattie pregresse”. Chi diventa vecchio ha sempre qualche malattia ma nessuno aveva mai detto che, essendo il prodotto ormai evidentemente avariato, non merita che si strafaccia per tenerlo in vita. Non è questa l’eugenetica che ha generato tutte le ingegnerie sociali? Furono gli ottocenteschi svedesi che predicavano il nudismo nel gelo, crepi chi deve crepare, ginnastica, alimentazione scientifica, eliminazione dei soggetti irrecuperabili. I romani gettavano gli infanti venuti male giù dalla Rupe Tarpea, alcune tribù dell’estremo Nord quando la famiglia lo decide prendono l’anziano, lo vestono e lo bardano di tutto punto, gli mettono a tracolla una sacca di pesce secco, lo accompagnano con una barca in un posto da cui non potrà mai tornare e lo abbandonano là, ad estinguersi. Gli ebrei non erano mai stati considerati una razza fino all’Ottocento, ma una religione: i rari ebrei convertiti diventavano subito ottimi cristiani e nessuno pensava a perseguitarli finché non arrivarono gli ingegneri etnici e sociali con i loro maledetti manuali. Con il coronavirus Covid-19, la mia generazione – non era mai successo dai tempi che sapete – è stata messa in questione. Che ne facciamo di costoro? Salvarli tutti, diceva Boris Johnson prima che il dio dell’umorismo lo infettasse – costa troppo. Sapete che c’è di bello? Che crepino. Un bel po’, dovranno crepare. La dottoressa della terapia intensiva dice: purtroppo ho dovuto scegliere chi far morire e chi no. Ecco, so benissimo che le opinioni sono molte e non voglio accapigliarmi con le opinioni. Mi limito, anche come giornalista, come testimone, come involontario protagonista, a mostrare il fatto: la sopravvivenza, la tutela della nostra salute, è argomento di discussione. C’è chi dice ma chi se ne frega, che crepino; e chi dice no, un po’ almeno vanno salvati. Avete visto le case di riposo della Bergamasca: aprono la porta e trovano montagne di cadaveri. Vecchi. Morti. Quanti? Il dato è nascosto, o almeno non è chiaro. Da quando in qua si chiama l’esercito con i suoi camion per caricare sotto i teli mimetici centinaia e poi migliaia di morti inscatolati da avviare non alla tomba ma al crematorio? Non ricordiamo nulla di simile. Vi prego, non fraintendetemi. Nessuna lagna. Ma le centinaia di giovani che seguitano a riunirsi dando feste in casa, trovandosi in luoghi reconditi infischiandosene di ogni divieto, dicono semplicemente questo: la mia libertà di giovane che non si sente minacciato dall’epidemia, non vale la vita di mio nonno o di tuo nonno. Questo è il fatto nuovo. Vorrei dire, lo scandalo. Scandalo perché questa situazione odiosa è nascosta, occultata, edulcorata, tutto sommato consentita da questo governo di incapaci che emette editti, bandi e bandette, editti e correzioni di editti, con un primo ministro che ha vinto la sua sedia alla lotteria e che fa di tutto per non farcelo dimenticare. Così, noi di questa età che ci troviamo a vivere i nostri anni in modo molto diverso da chi ci ha preceduto, (e speriamo anche da chi ci seguirà) ci troviamo improvvisamente nudi e indifesi, ma anche curiosi. Questo perché, credo, siamo una generazione sventurata che ha dovuto imparare presto a cavarsela senza fare troppo chiasso. Quando siamo nati il mondo era in guerra e dopo la guerra, la guerra era sempre nell’aria. Quando nel 1950 scoppiò la guerra di Corea, accumulavamo scatolette di tonno e di piselli. La generazione dei nostri padri e nonni aveva modi più o meno fascisti, anche a sinistra: autoritarismo, disprezzo, umiliazione, pedagogia della privazione prima che arrivassero i giorni grassi di chi è nato dopo il 1955, quando i nostri babyboomer si affogavano nella famosa Nutella di Nanni Moretti, a noi sconosciuta. Troppo piccoli per essere stati qualsiasi cosa durante la guerra o dopo. Fummo i primi a trasgredire, i primi a fare casino, i primi a usare barbe e capelli per “contestare” come si diceva allora, invaghiti di testi assolutamente sopravvalutati come L’Uomo a una sola dimensione di Marcuse. Il Sessantotto ci trovò già prossimi alla trentina, e il Sessantotto era roba per adolescenti, ma quanto meno, tutti scopavano scardinando i fondamentali. Il femminismo ancora non c’era e le nostre compagne erano ancora angeli del ciclostile. Basta, o si scade nel reducismo. La vecchiaia ci ha teso un agguato alle spalle quando ancora non era il momento. Io guidavo come Serpico, celebre poliziottaccio, e un giorno una abbassò il finestrino e mi urlò: «Lo vuoi capi’ che sei vecchio? Sei vecchio!». E ripartì. Aveva ragione. Ho poi pensato che quella donna fosse la “Commare Secca” di Pasolini, la morte in persona, ma c’è sempre una prima volta per tutti. Adesso però, aprile del 2020, noi che fra vent’anni non ci saremo più, noi che fra dieci anni saremo come l’albumina nelle analisi – tracce – noi che già eravamo cauti nel dire domani, che ripuliamo la rubrica telefonica dai numeri inutili e appassiti, noi oggi siamo su una nuova prima linea e mi viene in mente quella faccia irata e spaventata, ma più irata, tra i fucilati di Goya, davanti al plotone dei francesi. Ce l’hanno con noi. Non ne possono più di stare in casa chiusi a chiave per non farci crepare anzitempo e i giornali tendono a ibernarci: ci chiamano la brava generazione che ha tanto costruito, i bravi ragazzi dai capelli corti quando invece eravamo capelloni (e costava carissimo anche a sinistra), i laboriosi e umili che oggi, carichi di anni, hanno fatto il loro tempo. È vero, lo abbiamo fatto. Ma poiché siamo gente adattabile e camuffabile come Zelig (Woody non per caso è dei nostri) la nostra resistenza all’ecatombe sarà astuta, sinuosa, subdola, cerbottana al curaro, alla fine vinceranno loro, ma intanto – fateci caso – ancora vinciamo noi, e da questa conclusione senescente e fragile, già capite che non è così, ma ci piacerebbe.

Coronavirus: anziani, vite e memoria. Se ne sta andando una generazione. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Giangiacomo Schiavi. Luigi, il falegname. Marisa, la mondina. Don Luigi, il parroco. Carletto, il mugnaio. Mario, l’ex deportato. Sandro, il panettiere. Giovanni, l’avvocato. Michele, il genetista, Bruno, il muratore. Ivana, l’ostetrica. Sono morti da soli. Uniformati dall’età e da un necrologio. Senza un rosario. Seppelliti in fretta. Gente comune. Vecchi leoni. Memorie storiche. Leggende di paese. Per loro gli anni purtroppo contano e pesano. «C’è un nemico che sceglie i suoi bersagli seguendo regole che non comprendiamo», scrive Carlo Orlandini, 92 anni, per ricordare la moglie Mariella. «È triste salutarsi così dopo 64 anni di matrimonio. Come si fa a rinunciare all’abbraccio, a una messa, al conforto di essere con le persone amate?». La piccola grande Italia si ritrova orfana di vite e di storie: con il coronavirus una generazione di anziani se ne va, muta, silenziosa, senza rintocchi di campane. «È mancato all’affetto dei suoi cari», si legge nella formula di rito delle pagine in fondo ai quotidiani. «Ciao Lido, non avrei mai pensato di salutarti così», scrivono i familiari di Luigi Mazzocchi, 89 anni, di Piacenza. «Eri il nostro profeta», salutano gli amici di Sandro Battaglia, 81 anni, una vita passata tra pane e focacce a San Giorgio Piacentino: fino a ieri era il riassunto vivente di un’intera comunità. Maledetto coronavirus. Giovanni Bana, 83 anni, grande avvocato e gran signore, venti giorni fa aveva condiviso un messaggio con il solito coraggio: «Nervi saldi, non dobbiamo aver paura». Sabato mattina sotto il suo nome c’erano sei colonne di necrologi sul «Corriere». Giovanni Bertocchi, 82 anni, a Selvino lo chiamavano «Duce». Allusioni politiche zero, aveva solo una passione dittatoriale per il Milan: l’altro virus, più feroce e più crudele, se l’è portato via. In pochi giorni gli annunci funebri sull’«Eco di Bergamo» hanno raggiunto le dodici pagine. Quello per il pensionato Mario Riva, ottantenne, è uno dei pochi uscito dalla ritualità. I familiari si dicono «sconvolti dall’assalto di un male oscuro che imperversa senza pietà». È così: per gli anziani in questi giorni infiniti non c’è misericordia. Nei paesi poi ci si conosce tutti, la piazza, il bar, la chiesa, il dottore… A Codogno tutti volevano bene al commendator Umberto Falchetti, 86 anni di energia e vitalità. Girava con le auto d’epoca, era il titolare della Mta, seicento dipendenti, otto filiali all’estero, unica fabbrica della zona rossa autorizzata ad aprire dopo l’allarme coronavirus. È morto da solo all’ospedale di Cremona. Il fratello l’ha soltanto pettinato un po’. Quando il carro funebre è passato davanti alla fabbrica ai suoi dipendenti è stato concesso un saluto virtuale. Si dice anziani fragili, con malattie concomitanti. Ma Ottavio Pettenati, 83 anni portati con eleganza, farmacista storico di piazza Libertà a Cremona, non era così. Sabato sera è riuscito a salutare via Skype la figlia Francesca e il nipote Nicola. Poi via anche lui, senza messa e senza corteo. La moglie è ricoverata in un reparto Covid. La statistica è impietosa con gli anziani. A Gropello Cairoli i coniugi Gorini, lui 82 e lei 84 anni, se ne sono andati senza un saluto, divisi anche nel ricovero al reparto Malattie infettive di Pavia. La figlia, isolata nella sua casa, ha dettato il necrologio alla Provincia Pavese. Qualcuno ha detto che ci vorrebbe un memoriale per trasformare questo tempo perduto in un tempo ritrovato. L’addio di Mario Cristalli, classe 1917, a Piacenza, ha lasciato un vuoto. Era l’ultimo deportato dai lager, il testimone degli orrori della guerra. Nonostante l’età, mai mancato un’elezione, hanno scritto su «Libertà», il quotidiano che ha dovuto aumentare la foliazione per far spazio ai necrologi . Poi c’è chi non ha avuto nemmeno un fiore al cimitero. Don Giovanni Boselli, 87 anni, prete per cinquant’anni del santuario piacentino della Madonna del Pilastro, è stato portato via quattro giorni dopo la morte del fratello gemello. Stessa diagnosi: coronavirus. I preti anziani, in questa tragedia, muoiono ancora più soli.

La strage degli anziani: in cinque paesi Ue, la metà dei morti per covid-19 è avvenuta nelle case di riposo. Marco Cimminella il 14 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Dal Pio Albergo Trivulzio ad altre Rsa lombarde, le inchieste giudiziarie stanno provando a fare luce sulle numerosi morti avvenute nelle strutture che ospitano le persone più anziane e quindi a rischio in piena emergenza covid-19. Una bomba a orologeria, che è esplosa in diverse parti d’Italia nonostante i continui allarmi lanciati da lavoratori e sindacati. La mancanza di dispositivi protettivi, le procedure sbagliate, gli spazi inadeguati a fronteggiare la pandemia hanno contribuito a peggiorare un’emergenza sanitaria che ha avuto gioco facile a colpire gli individui più fragili e con patologie, quindi vittime ideali del coronavirus. Un dramma che non si è consumato solo in Italia: in cinque paesi europei oltre la metà delle morti associate al covid-19 sono avvenute nelle case di riposo. Nelle residenze sanitarie assistenziali di Italia, Francia, Spagna, Belgio e Irlanda il coronavirus si è mosso velocemente, approfittando della debolezza dei suoi ospiti. Lo certificano i dati di un nuovo studio pubblicato dall’International Long-Term Care Policy Network, un gruppo di ricerca accademico che fa parte della London School of Economics, che mostrano come oltre il 42 per cento dei decessi associati al coronavirus – fino a raggiungere il picco del 57 per cento per la Spagna – si sia verificato nelle case di riposo.

I dati sui decessi nelle case di riposo in Italia, Francia, Spagna, Irlanda e Belgio – International Long-Term Care Policy Network. Come mostra la tabella, secondo i calcoli e le indagini effettuate dai ricercatori, fino al 6 aprile 2020 le morti confermate per covid-19 avvenute nelle strutture residenziali e sociosanitarie in Italia sono state 9509, il 53 per cento dei decessi totali. Una tendenza simile è stata registrata in Spagna, dove fino all’8 aprile 2020 si contavano 9756 decessi legati alla pandemia nelle case di riposo, il 57 per cento del totale. Sono le percentuali più alte, insieme a quella irlandese (il 54 per cento). Le indagini in corso in Lombardia stanno cercando di chiarire alcuni aspetti della tragedia, individuando tutte le cause che vi hanno concorso. Oltre alla mancanza di dispositivi di protezione individuale e protocolli sbagliati denunciati dai sindacati, sotto i riflettori c’è anche la delibera regionale dell’8 marzo, che dava la possibilità alle strutture su base volontaria di ospitare pazienti covid dimessi dagli ospedali. Come si legge nell’allegato 2 del provvedimento, “a fronte della necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti, occorre mettere a disposizione del Sistema Regionale i posti letto delle “Cure extra ospedaliere” (subacuti, postacuti, riabilitazione specialistica sanitaria (in particolare pneumologica), cure intermedie intensive e estensive, posti letto in RSA)”. A tal fine, la delibera dispone che “l’individuazione da parte delle ATS di strutture autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e dal punto di vista organizzativo, sia di strutture non inserite nella rete dell’emergenza urgenza e POT, sia di strutture della rete sociosanitaria (ad esempio RSA) da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi”. Un provvedimento che l’assessore al Welfare della regione Lombardia Giulio Gallera ha difeso, spiegando che era necessario “trasferire pazienti dagli ospedali alle rsa per ricoverare persone e salvare vite”. Secondo Gallera, il trasferimento sarebbe avvenuto solo in quelle strutture che offrivano padiglioni separati e indipendenti e con personale dedicato, in modo da evitare qualsiasi contagio. Tuttavia, la decisione è stata molto contestata. “È stata una delle criticità che sono emerse, un errore madornale. Non si può mettere nella stessa struttura pazienti covid-19 e non. La diffusione della malattia è immediata, visto che si tratta di un virus a rapida contagiosità”, spiega a Business Insider Italia Carlo Palermo, segretario nazionale Anaao – Assomed (associazione medici dirigenti), che aggiunge: “La questione però da non dimenticare è che il sistema sanitario delle zone più colpite si è trovato assalito, anche perché il metodo seguito per fronteggiare l’emergenza si basava sull’ospedalizzazione, mentre l’assistenza domiciliare è mancata”. In altre parole, il sistema ospedaliero è andato rapidamente in saturazione, con la necessità di liberare posti letto, anche perché sono stati assenti o insufficienti gli interventi sul territorio per garantire le cure e l’isolamento dei pazienti con tutte le precauzioni del caso. Altro problema è stato la mancanza di mascherine adeguate e di altri dpi. “Molte realtà in Italia, tra cui le rsa, si sono trovate impreparate e non sufficientemente equipaggiate per fronteggiare l’emergenza”, continua Palermo, sottolineando che “in generale, ci sono state difficoltà di sistema. La protezione degli operatori sanitari, una risorsa fondamentale per fronteggiare l’epidemia, non è stata garantita; i piani pandemici regionali e nazionali sono fermi al 2007, con qualche revisione nel 2010 rimasta lettera morta; non c’è stata un’allerta tempestiva, che poteva derivare dai casi strani di broncopolmonite registrati. Abbiamo poi perso un mese dalla dichiarazione dello stato di emergenza avvenuto il 31 gennaio”.

I decessi nelle case di riposo in Italia. Lo studio condotto da Adelina Comas-Herrera (CPEC, LSE) ed Joseba Zalakain (SIIS) fa notare che “i dati provengono da fonti diverse e quindi non sono comparabili”. Questo perché le statistiche ufficiali non sono disponibili in ogni stato e quindi in alcuni casi i ricercatori hanno dovuto raccogliere informazioni dalla stampa. Inoltre, “il metodo seguito per registrare i decessi associati al covid-19 nelle case di riposo (e la definizione stessa di casa di riposo) varia tra i paesi e tra le regioni di uno stesso paese”, sottolinea il team della London School of Economics. Per quanto riguarda il caso della penisola, la fonte dello studio sono i dati ufficiali contenuti in un report dell’Istituto superiore di Sanità, che ha effettuato una survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Il sondaggio è stato inviato a 2166 case di riposo (su un totale di 4629) presenti sul territorio nazionale. Di queste, hanno risposto solo 577, che contano 44457 residenti: il 26 per cento di quelle invitate a prendere parte alla ricerca, circa il 10 per cento delle strutture italiane). Come scrivono i ricercatori, “tra il 26 febbraio e il 6 aprile, ci sono state in generale 3859 decessi nelle case di riposo che hanno risposto, circa l’8,6 per cento degli ospiti. C’erano anche differenze regionali, dal 13,1 per cento della Lombardia al 7 per cento del Veneto. Si stima che il 37,3 per cento di tutte queste morti erano associate al covid-19 (il 3,2 per cento del numero totale dei residenti nelle strutture)”. Gli studiosi hanno analizzato questi dati considerando il numero complessivo delle persone che vivono nelle case di riposo in Italia. E sono arrivati a stimare che 9509 decessi in queste strutture sono legate al covid-19, vale a dire “il 53 per cento del numero totale di morti pari a 18 mila registrate in Italia al 9 aprile 2020”.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 16 aprile 2020. Le premesse non erano delle migliori. I numeri di denunce e sanzioni del Nas, già nel 2019, sporte a dirigenti e personale di Rsa e case di riposo, erano il preludio alla catastrofe che si sarebbe poi abbattuta sugli anziani in piena emergenza Coronavirus. Appena un anno fa veniva fotografato dai carabinieri un sistema fragile, le cui contraddizioni sarebbero scoppiate durante la prima tempesta. Ed ecco che alla prima pioggia di contagi l'ombrello protettivo, aperto sugli anziani nelle case di riposo, ha mostrato tutti i suoi buchi. Il risultato è un numero sproporzionato di morti all'interno di queste strutture dove il virus è entrato e si è diffuso con troppa facilità. Una serie a catena di decessi, sparsi in tutta Italia, la cui drammatica conta ancora oggi non è terminata. Un pericolo che rischia di allargarsi anche alle Residenze sanitarie per disabili. Si tratta di un «nuovo fronte dimenticato di diffusione del SarsCov2», accusa il presidente della Associazione nazionale famiglie di disabili intellettivi (Anffas) Roberto Speziale: «In 17 delle Rsd che fanno capo all'Anffas (su un totale di 156) ci sono importanti focolai, con 57 soggetti disabili e 52 operatori contagiati, e 5 decessi tra gli ospiti». È «grave che ad oggi non sia stato fatto un censimento - afferma Speziale - come per le Rsa per anziani». E proprio il 31 marzo carabinieri e l'Asl, dopo aver riscontrato carenze igienico sanitarie e strutturali, hanno disposto la chiusura di una struttura Rsd a Giugliano, in provincia di Napoli. Ma è soprattutto sulle Rsa, le case di riposo, i centri ad orientamento sanitario-riabilitativo e di lungodegenza che si è concentrata l'attenzione del Nas. Si scopre dai dati presentati dall'Arma che quasi un terzo delle strutture controllate l'anno scorso, in totale 2.716, presentava irregolarità. I primi mesi del 2020 non hanno certo rappresentato una svolta. Su 918 centri per anziani controllati 183 presentavano le più disparate irregolarità: la mancanza di figure professionali adeguate alle necessità degli ospiti, la presenza di un numero superiore di anziani rispetto al limite previsto, l'uso di spazi e stanze inferiori a quelle minime da utilizzare, la mancata assistenza e custodia dei pazienti, l'esercizio abusivo della professione sanitaria, l'uso di false attestazioni di possesso di autorizzazione all'esercizio e di titoli professionali validi. Tradotto in numeri: 172 persone denunciate. Ma il dato che fa più riflettere è il numero di case di riposo per cui è stata imposta la chiusura, 25. I motivi per i quali si è deciso di apporre i sigilli sono sostanzialmente due: ambienti deficitari in materia sanitaria ed edilizia oppure strutture abusive. È il caso di una casa di riposo a Fonte Nuova, ad est della Capitale, senza uno straccio di autorizzazione. Quattordici anziani divisi in due palazzine. Una accanto all'altra. Un potenziale focolaio per il Coronavirus. Ad accertare le irregolarità gestionali delle strutture socio-assistenziali per la terza età e provvedere alla chiusura e al ricollocamento dei pazienti, lo scorso tre marzo, sono stati i carabinieri del Nas di Roma guidati dal comandante Maurizio Santori. A Reggio Calabria il 15 febbraio è stata chiusa una struttura illegale che ospitava 14 anziani. A Taranto sono stati messi i sigilli a una casa di riposo che ospitava pazienti affetti da patologie psico fisiche, ma non aveva né personale né impianti qualificati per quel tipo di assistenza. Un copione simile è andato in scena a Campobasso. In Umbria gli investigatori hanno scoperto che in 5 diverse case di riposo erano ospitati anziani invalidi. Nella documentazione medica si sosteneva il contrario. Un modo per aggirare le autorizzazioni regionali e ridurre così il personale qualificato per l'assistenza ed infine incassare più soldi. I Nas di Udine sono invece intervenuti in una struttura in cui i 21 ospiti erano tutti positivi al Covid-19. La casa di riposo presentava gravi carenze organizzative, per questo è stata chiusa. I pazienti sono stati tutti trasferiti.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 aprile 2020. Si continua a parlare dei vecchi. Nelle zone rurali delle isole Fiji, gli anziani vivono a casa dei figli che li curano amorevolmente e gli premasticano il cibo. Invece gli inuit dell'artico e gli aborigeni australiani, a un certo punto, cominciano a trascurare i vecchi sinché non muoiono: li ignorano, li nutrono male, li isolano, li abbandonano a morire nel loro sudiciume. Alcuni popoli siberiani, oltre agli inuit e ai vichinghi norse, preferiscono indurre gli anziani a gettarsi da un dirupo, o a prendere la via del mare senza fare più ritorno, questo con la loro collaborazione: danno l' addio a parenti e amici e poi vanno. In ben tre continenti i vecchi invece tiranneggiano: ai giovani è proibito sposarsi sino ai 40 anni e le giovani sono tutte per gli anziani. Venendo all' Occidente, negli Stati Uniti - ha scritto l' antropologo Jared Diamond - è normale che i genitori vengano piazzati in case di riposo, dove i figli però li vanno a trovare in media una volta all' anno. Venendo poi all' Italia, si continua a parlare dei vecchi anche per via del coronavirus. L' altro giorno l' autorevole 87enne Giuseppe De Rita (Censis) ha detto che gli over 70 malati, in Olanda, firmano un modulo in cui si impegnano a non ricoverarsi per non sottrarre posti ai giovani, che hanno più possibilità di guarire: e giù casino, polemiche. De Rita ha anche detto che gli anziani da noi manterranno un ruolo affettivo perché è un ruolo soprattutto economico, cioè hanno pensione decente, aiutano figli e nipoti e hanno case comprate in stagioni irripetibili: e giù casino, polemiche. Esattamente come quando si è improvvisamente scoperto che gli ospedali curano anche in base all' età, quindi alle condizioni di salute, al quadro clinico generale, alle possibilità che un paziente guarisca da una rianimazione, e che certi vecchi neppure li intubano, perché un trattamento invasivo sarebbe accanimento. Casino, polemiche, «lasciano morire i vecchi».

«Mezzo morto». Che poi: quando si diventa vecchi? Non perdiamo tempo con questo: in Nuova Guinea a meno di 50 anni ti chiamano «mezzo morto» («setengah mati») e in Occidente ci sono ottantenni che ballano il limbo e sembrano Brad Pitt: dipende ovviamente dall' aspettativa di vita, da quando si acquisisce il diritto alla pensione, da tante cose. Che poi, forse, non sono così tante. Arriviamoci. Negli ultimi due secoli, ma anche in epoca contemporanea, in molte società non occidentali (africane, per esempio) uno è considerato vecchio se non è in grado di procurarsi il cibo e costruirsi una capanna. I lapponi sami e gli indiani omaha e gli indios tropicali (che sono tribù di cacciatori-raccoglitori, come un tempo eravamo tutti) abbandonano le persone anziane o ammalate mentre il resto del gruppo si trasferisce. Gli indios, in particolare, conducono gli anziani maschi fuori dalla foresta a vagare sperduti, sinché non se ne saprà più nulla; le donne no: vengono ammazzate subito. Nella maggior parte dei casi, però, i vecchi vengono lasciati nel campo che sta per essere smobilitato con un po' di cibo e acqua; l' antropologo Allan Holmberg ha raccontato che una cinquantenne fu lasciata inerte nella sua amaca (troppo inferma per camminare) ma tre settimane dopo, ripassando dal vecchio campo, si imbattè nelle sue ossa spolpate dagli avvoltoi che erano distese sul sentiero, come se lei avesse lottato allo stremo per seguire il gruppo. Ora: non perdiamo tempo neppure coi discorsi su noi occidentali che non siamo più selvaggi e sull' uomo moderno che nel frattempo si è evoluto, perché, in quel senso, non si è evoluto per niente: il nostro cervello ha tre milioni di anni - come ha spiegato meglio di chiunque Rita Levi Montalcini - ma è sempre quello, a cambiare sono le cognizioni, il linguaggio, la cultura. I lapponi e gli indios non sono più cattivi di noi. Gli antichi greci non erano più cattivi di noi. Alla nascita, ancor oggi, come dire: homo homini lupus. Dunque apprendiamo che i chukchi siberiani, sino a poco tempo fa, inscenavano una specie di cerimonia in cui si rassicurava l' anziano circa un' eccellente accoglienza nell' oltretomba: poi lui appoggiava la testa sulle ginocchia della moglie (in genere) e due uomini gli stringevano una corda attorno al collo, sino all' asfissia. Tra i kaulong della Nuova Britannia, sino agli anni Cinquanta, se moriva il padre, era normale che i figli strangolassero la madre, la neo vedova. Era un atto ritenuto necessario, e astenersene era disonorevole: Jane Goodale (quella degli scimpanzè) ha raccontato di una madre che aveva costretto il figlio a ucciderla svergognandolo pubblicamente, perché non si decideva. Nelle Banks Island (Sud Pacifico) i vecchi e gli infermi imploravano gli amici di seppellirli - non è chiaro perché - vivi. Col catalogo ci fermiamo qui. E non perdiamo tempo neppure a cercare conforto in qualche superata spiegazione evoluzionistica: tipo che ai giovani conviene preservare i genitori che la natura ha via via selezionato, perché servono da modello di comportamento, di apprendimento, ergo i genitori si prendono cura dei figli che a loro volta si prendono cura dei genitori. In parte è così, beninteso. E meno male. Ma la stessa natura insegna che questo non è sempre bene: un conflitto tra generazioni è anche fisiologico, i figli non possono vivere in eterna riconoscenza; cinicamente, più i vecchi consumano e meno rimane per i giovani. Le tribù di cacciatori raccoglitori, coi vecchi a carico incapaci di spostarsi, spesso sarebbero morte. Nelle regioni artiche e nei deserti, spesso, non c' è la possibilità di accumulare cibo per i periodi di crisi: e ci sono popoli che sacrificano i meno produttivi per non morire tutti. Non pensiate che ne siano contenti. Gli anziani sarebbero utilissimi anche a loro, possono fare un sacco di cose, sono enciclopedie viventi, hanno una manualità che lèvati, accudiscono i nipoti - dalla preistoria all' Italia moderna - e insomma, nessuno ha mai rinunciato a loro per cattiveria. La Storia insegna che la cura degli anziani dipende dalla loro utilità sociale e poi da una chimera che chiamiamo «i valori». In gran parte dell' Oriente la «pietà filiale» è sacra. Il rispetto degli anziani, in Italia come in Messico o nella Cina patriarcale, deriva dalla centralità della famiglia. Ma lo sappiamo tutti, e pare inevitabile: il mondo vola a velocità supersonica verso modelli individualisti corteggiati dal marketing, cioè verso giovani che peraltro non fanno figli e poi si stupiscono perché è pieno di vecchi che spesso però li mantengono. Cortocircuito. Rispetto a qualsiasi altro periodo della storia umana, oggi i vecchi vivono mediamente più a lungo e in condizioni migliori, con più cose da fare e meno probabilità di piangere un figlio. Ma non è per questo, da noi, che i giovani non scalzano i vecchi. Semmai li scalzerà il coronavirus. La gerontocrazia, bla bla: cazzate. I giovani, opinione personale, non scalzano i vecchi perché sono una generazione di debosciati: la gerontocrazia che sovrasta il nostro Paese è troppo smaliziata perché a scalzarla sia una generazione che chiama «guerra» il coronavirus, e affoga nel nulla internettiano e piange gli aperitivi. E sto parlando di una generazione che è la mia.

Gioia Locati per “il Giornale” il 17 aprile 2020. «I bombardamenti erano meglio, ci si chiudeva nelle case ma almeno si stava tutti insieme». Usa l' espressione di un suo paziente, il geriatra Andrea Mazzone per descrivere il vuoto che sta opprimendo un' intera generazione. Dove non arriva la polmonite da Covid 19, arriva la depressione. È un' ombra scura che spegne i sorrisi fino a stringere il cuore di tutti gli anziani. Di quelli ricoverati, perché non ricevono più le visite dei loro cari e non sanno se e quando potranno rivederli. Di quelli isolati a casa, smarriti senza le abitudini che hanno arricchito di senso le loro giornate fino a due mesi fa: la chiacchierata con gli amici al bar, la partita a bocce, la passeggiatina al parco. Di tutti che si avvicinano all' addio pensando di non ricevere più nemmeno un abbraccio o un bacio.

«Mio padre ha 90 anni - scrive un lettore - è sempre stato bene. In due mesi si è spento dentro, mi chiede che senso ha per lui vivere in queste condizioni fino all' autunno, magari il mese prossimo non ci sarò più mi dice. È un uomo di tempra forte, che ha visto la guerra da ragazzino e i suoi genitori sacrificarsi fino allo stremo, mangiando poco e niente. Me lo ritrovo annichilito».

Abbiamo chiesto ad Andrea Mazzone, geriatra dell' Istituto milanese Golgi Redaelli, cosa si risponde a un anziano che preferisce correre il rischio di ammalarsi piuttosto che rinunciare alla propria libertà.

«Lo inviterei a pensare che lo stare appartati rappresenta un gesto di protezione per gli altri, forse così si convincerebbe». Mazzone aggiunge che la terza età è una stagione critica sia per chi sta male sia per chi non ha problemi di salute. «La mancanza di contatto fisico o il non aver qualcuno con cui scambiare due parole possono far credere di essere stati abbandonati. È importante la stabilità emotiva, lavoriamo sempre con psicologi e fisioterapisti ma le situazioni sono anche molto diverse». Avete messo a disposizione un tablet. «Così ciascuno può parlare con i propri familiari e vederli nello schermo. L' iniziativa è piaciuta e ci è parso di intravedere qualche sorriso in più. A turno lo portiamo a tutti».

Al Redaelli ci sono in tutto 450 ricoverati fra reparti destinati alla riabilitazione da ictus o da fratture, il Coviatria (padiglione riservato ai malati di Covid 19),residenze e centri diurni per l' Alzheimer che però in questo periodo sono chiusi. Lei che si occupa di Alzheimer cosa ha osservato di questi pazienti? «I meno gravi, quelli che hanno sempre vissuto nelle loro case e frequentavano i centri diurni hanno subito un contraccolpo pesante. Ora sono affidati alle famiglie che non sempre riescono a gestirli. Alcuni soffrono di una forma detta della camminata incessante', hanno bisogno di camminare per chilometri». Ma i più sofferenti sono sicuramente gli anziani a casa soli che accusano i sintomi del Covid e non ricevono neppure una visita a domicilio.

Coronavirus, Vittorio Feltri: "Finché uccide i vecchi non è il caso di allarmarsi. Ecco il vero razzismo". Libero Quotidiano il 25 Febbraio 2020. Vittorio Feltri ammette che il razzismo, in tutta questa vicenda del coronavirus esiste. Ma attenzione, è razzismo verso gli anziani. "Contrordine: non è vero che non esista il razzismo", scrive il direttore di Libero in un post pubblicato sul suo profilo Twitter. "C'è e colpisce i vecchi". E c'è anche "la prova", che "consiste nel fatto che il virus uccide le persone su di età e ciò sembra consolare chi ha paura" del contagio. "Finché crepano i Matusalemme", conclude Feltri, "non è il caso di allarmarsi". Insomma, come aveva scritto in un tweet precedente, "non è più il colore della pelle a essere discriminante ma l'età. Ma il razzismo è lo stesso".

Ecco il nuovo razzismo: "È morto? Era anziano..." Alessandro Sallusti, Martedì 25/02/2020 su Il Giornale. Sono anziani, e quindi spesso già malati di loro, i primi morti italiani del Coronavirus. Nei commenti ufficiali e nelle chiacchiere tra conoscenti e amici è quello dell'età l'argomento principe per scacciare la paura di essere coinvolti nell'epidemia o per depotenziarne gli effetti. Io non sono più giovane, ma neppure ottantenne, quindi sono in una specie di limbo: in caso di contagio, essendo pure cardiopatico, rischio di morire ma non troppo, diciamo una cosa giusta. È ovvio che i primi a cadere, in guerra come nella vita, sono i più deboli o se volete i meno forti. E sarebbe banale ricordare che dopo i primi (i vecchietti) è il turno dei secondi (gli adulti) e poi dei terzi (i giovani) come è purtroppo successo in Cina dove l'età media dei contagiati secondo uno studio dell'americana Emory University pubblicato dalla rivista scientifica Jama -, si attesta attorno ai 54 anni. Ma attenzione, mettiamo pure che l'azione più virulenta del virus resti confinata nella terza età, che per gli statistici inizia chissà perché - a 65 anni. Parliamo di un bacino potenziale di oltre dodici milioni di persone a rischio, tanti sono gli ultra sessantacinquenni in Italia. E se stringiamo il campo agli ultra ottantenni non tutti ovviamente in ottima salute la cifra scende a quattro milioni (di cui uno nella sola Lombardia), direi non proprio noccioline. Se l'epidemia dovesse fare strage in questa fascia di popolazione darebbe certo una mano ai traballanti conti dell'Inps, ma non mi sembra questo un valido motivo per lasciarglielo fare. Non è che la vita di un anziano con la salute «così così» vale meno di un'altra. Anzi, semmai va più protetta proprio perché più fragile. E proteggerla non è soltanto compito delle autorità preposte ma anche direi soprattutto di chi anziano non è e che con i suoi comportamenti («tanto io sono forte, sano e la faccio franca») può seminare il virus là dove attecchirà con più violenza. In un'epoca in cui tutto (spesso anche le scemenze) è definito razzismo, teniamo alta l'allerta sul razzismo contro gli anziani. Ieri non sono morti di Coronavirus due ottantenni, ma due persone esattamente come chiunque di noi. Se non deve contare il colore della pelle, perché mai dovrebbe essere importante l'età?

Coronavirus in Italia, neanche gli anziani meritano di morire. Giampiero Casoni 25/02/2020 su Notizie.it. A ogni notizia di morte per Coronavirus ci rassicuriamo dicendo: "Muoiono solo anziani". E magari abbiamo accanto nostra madre e nostro padre, che smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi. Fra le tante appendici un po’ cretine che l’arrivo in Italia del Coronavirus sta generando ce n’è una che proprio non dovrebbe andarci giù: quella per cui, essendo clinicamente le persone anziane più suscettibili di andarsene al Creatore a causa di Covid 19, la percezione della loro morte sia vista come un fatto quasi ineluttabile o secondario. Come al solito essere anziani è faccenda dura, non solo nel tran tran di una quotidianità che li percula nei meme sui cantieri, ma anche nella drammatica eccezionalità di un’epidemia birbacciona come poche. Torna prepotente ed immortale alla memoria Zavattini, che pare dicesse che “l’età non produce saggi, ma solo vecchi”, persone cioè che ogni società si ostina ad elevare ad archetipo di categoria da rispettare, ma che poi puntualmente, quando le ginocchia dei sistemi complessi occidentali tremano, sono le prime a pagare pegno ad un cinismo che ci dovrebbe far incazzare anche a fare la tara alle paure di questi giorni. Dove sta scritto che, essendo morte per lo più persone anziane a causa del Covid 19, la cosa deve farci meno da ariete emotivo? Entro certi limiti funziona la psicologia narcotica per cui tutti, oggi, ubriachi di social, di scazzottate politiche e di bollettini virologici, cerchiamo di esorcizzare il male rimarcando con ostinazione bambina gli ambiti dove fa male davvero, quelli cioè dove sui documenti di identità campeggiano date da Italia monarchica. Però non basta. Chi ha riflettuto, seriamente riflettuto sul fatto empirico e semplice che magari una di quelle persone morte in questi giorni avrebbe avuto davanti a sé altri cinque, dieci, quindici anni di vita, magari anche attiva e gratificante? Ci siamo posti il problema che ogni morte è devastazione pura per gli affetti che essa scuote e che ci sono persone che piangono quei morti, anziani, giovani o prefetali che siano? No, se sei vecchio puoi morire quasi nella beatitudine beota di chi ormai ha fatto il suo tempo e paga pegno all’eugenetica imbecille di un certo modo di percepire la società. E si badi bene e finiamola di non dircelo, trattasi di società che è buonista ma non buona, che disegna una povera Italia 2.0 e fa rimpiangere l’Italia povera degli anni ’50, che guarda al progresso ma non conosce la civiltà, due cose cioè che, come diceva Guareschi, sono completamente diverse. Ma a noi poco frega: con le mani imbevute di Amuchina, un occhio ai social e pronti a trasformare ogni “etciù” nel nuovo Allah Akbar, abbiamo trovato il nostro nuovo mantra, il vaccino emozionale che precede il vaccino clinico di Moderna Technologies Inc: quello con cui, ad ogni notizia di morte avvenuta lanciamo nell’aria la litania del "muoiono solo anziani". Magari dicendolo con nostra madre e nostro padre che, dal tinello, smettono di parlare e calano in un silenzio che è imbarazzato per loro, ma imbarazzante per noi.

·        Non solo anziani. Chi sono le vittime?

IL REPORT SUI DECEDUTI POSITIVI A COVID 19 ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA'. Coronavirus, la pandemia di Covid-19: la situazione il 18 marzo 2020. informazioni aggiornate al 17 marzo 2020 L'epidemia in Italia e nel resto del mondo di Covid-19, la malattia causata dal coronavirus Sars-Cov-2, prosegue. In Italia i contagiati sono oltre 30mila e stanno mettendo in ginocchio le zone più colpite. L'Italia è il paese più colpito dopo la Cina e anche quello che per primo in Occidente ha messo in campo misure straordinarie, decidendo la chiusura di tutti gli esercizio commerciali non essenziali e chiedendo alla popolazione di limitare gli spostamenti. Un modello che stanno iniziando a imitare in tutto il mondo. Report dell’ Istituto superiore di sanità sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 in Italia. Il presente report è basato sui dati aggiornati al 17 Marzo 2020.

1. Campione. Il presente report descrive le caratteristiche di 2003 pazienti deceduti e positivi a COVID-19 in Italia. La distribuzione geografica dei decessi è la seguente.

2. Dati demografici. L’età media dei pazienti deceduti e positivi a COVID-19 è 79.5 anni (mediana 80.5, range 31-103, Range InterQuartile - IQR 74.3-85.9). Le donne sono 601 (30.0%). La figura 1 mostra che l’età mediana dei pazienti deceduti positivi a COVID-19 è più alta di oltre 15 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (età mediane: pazienti deceduti 80.5 anni – pazienti con infezione 63 anni). La figura 2 mostra il numero dei decessi per fascia di età. Le donne decedute dopo aver contratto infezione da COVID-19 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 83.7 – uomini 79.5).

3. Patologie pre-esistenti. La tabella 1 presenta le più comuni patologie croniche pre-esistenti (diagnosticate prima di contrarre l’infezione) nei pazienti deceduti. Questo dato è stato ottenuto in 355/2003 deceduti (17,7% del campione complessivo). Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 2.7 (mediana 2, Deviazione Standard 1.6). Complessivamente, 3 pazienti (0,8% del campione) presentavano 0 patologie, 89 (25,1%) presentavano 1 patologia, 91 presentavano 2 patologie (25.6%) e 172 (48,5%) presentavano 3 o più patologie.

4. Sintomi. La figura 3 mostra i sintomi più comunemente osservati prima del ricovero nei pazienti deceduti COVID- 19 positivo. Come mostrato nella figura, dispnea e febbre rappresentano i sintomi di più comune riscontro, meno comuni sono tosse, diarrea e emottisi. Il 5,2% delle persone non presentavano alcun sintomo al momento del ricovero.

5. Complicanze. L’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente osservata in questo campione (97,2% dicasi), danno renale acuto (27,8%), seguita da danno miocardico acuto(10,8%) e sovrainfezione (10,2%).

6. Terapie. La figura 4 mostra le terapie somministrate nei pazienti deceduti COVID-19 positivi durante il ricovero. La terapia antibiotica è stata quella più utilizzata (83% dei casi), meno utilizzata quella antivirale (52%), più raramente la terapia steroidea (27%). Il comune utilizzo di terapia antibiotica può essere spiegato dalla presenza di sovrainfezioni o è compatibile con inizio terapia empirica in pazienti con polmonite, in attesa di conferma laboratoristica di COVID-19. In 25 casi (14,9%) sono state utilizzate tutte 3 le terapie.

7. Tempi. La figura 5 mostra, per i pazienti deceduti COVID-19 positivo, i tempi mediani, in giorni, che trascorrono dall’insorgenza dei sintomi al decesso (8 giorni), dall’insorgenza dei sintomi al ricovero in ospedale (4 giorni) e dal ricovero in ospedale al decesso (4 giorni). Il tempo intercorso dal ricovero in ospedale al decesso era di 1 giorno più lungo in coloro che venivano trasferiti in rianimazione rispetto a quelli che non venivano trasferiti (5 giorni contro 4 giorni).

8. Decessi di età inferiore ai 50 anni. Ad oggi (17 marzo) sono 17 i pazienti deceduti COVID-19 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 5 di questi avevano meno di 40 ed erano tutte persone di sesso maschile con età compresa tra i 31 ed i 39 anni con gravi patologie pre-esistenti (patologie cardiovascolari, renali, psichiatriche, diabete, obesità).

"Over 60 sono più a rischio Covid". Ma le cose stanno davvero così? Gli esperti dicono che chi ha più di sessant'anni e i più anziani sono soggetti esposti maggiormente all’infezione da coronavirus, rischiando di ammalarsi in modo più grave. Ma il nodo è quello delle patologie pregresse. Alberto Giorgi, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. "I dati statistici indicano che finora le persone over 65 si sono ammalate di più di quelle più giovani e che la sintomatologia è stata più grave" si legge sul sito del ministero della Salute, nella pagina dedicata a tutte le Faq in materia di pandemia di Covid-19 e relative misure di contenimento. Gli over 60 e i più anziani, insomma, secondo gli esperti sono più esposti al pericolo di contrarre l'infezione da coronavirus e di sviluppare la malattia in forma più grave. Motivo per il quale, dall'inizio dell'isolamento forzato in casa, chi rientra in questa fascia di età è stato attenzionato e aiutato con servizi – quali la spesa gratuita a domicilio, giusto per fare un esempio – per far sì che uscisse il meno possibile dalla propria abitazione. Sulla stessa falsariga si sta muovendo la task force per la ricostruzione e la ripartenza di Vittorio Colao, i cui tecnici, in vista della Fase 2, sembrano intenzionati a esonerare dal lavoro tutti gli over 60, così da proteggerli ulteriormente. Visto che, numeri dell'Istituto di Superiore di Sanità alla mano, la letalità tra i 60 e i 69 anni è sfiora il 10% - per l'esattezza è del 9,9% - contro il 2,6% di chi ha tra le 50 e le 59 primavere. Tra i 70 e i 79 anni, invece, il tasso di letalità del Covid si impenna al 24,7%. Si tratta però di numeri molto probabilmente sovrastimati, come peraltro sottolinea Paolo Bonanni, professore di Igiene all'Università di Firenze, al Corriere della Sera, dal momento che "inizialmente i tamponi sono stati fatti solo a pazienti gravi in ingresso al pronto soccorso e solo nelle fasi più recenti sono stati estesi a persone poco sintomatiche". Motivo per il quale, aggiunge: "Sarà difficile fare una valutazione finale della letalità anche per fascia di età perché i criteri di rilevazione sono cambiati in corsa e non sappiamo quante persone si sono realmente ammalate". Ecco allora perché il punto critico è un altro rispetto alla mera età anagrafica. Ed è quello rappresentato dalle patologie pregresse che una persona ha sviluppato nel corso della vita. Su questo fronte, sempre nelle "Frequently Asked Questions" del dicastero della Salute, si legge per l'appunto anche che "le persone anziane spesso convivono con più patologie contemporaneamente (come il diabete o l'ipertensione, giusto per fare due esempi, ndr) e contrarre l'infezione da Covid può determinare in loro uno squilibrio generale che può portare a conseguenze più serie che nel resto della popolazione". Bene, eccoci qui al punto: certamente gli over 60, 65 e comunque i più anziani sono più esposti se hanno patologie pregresse e concomitanti con l'infezione da Covid. Ma non è invece affatto detto che un brillante settantenne in ottima forma fisica e dunque sano sia più in pericolo di un cinquantenne o sessantenne con il diabete. Anzi. Ovviamente l'età gioca un ruolo importante, visto che più si invecchia più l'organismo si espone alle malattie ma l'età avanzata non è sinonimo di maggiore esposizione al rischio. Quello che gioca a favore del virus è la presenza o meno, nell'individuo che va a infettare, di patologie croniche pregresse (specialmente se sono più di una).

Diario del virus: i vecchi. Gianfrancesco Turano il 18 marzo 2020 su L'Espresso. Si ammalano solo i vecchi. Per frenare la fregnaccia virale è intervenuto l'Oms ma ancora si sente ripetere, qui e là, il concetto dal vago sapore eugenetico. Editorialisti a reti unificate, generalmente anziani come un editorialista dovrebbe essere, hanno già profuso colonne su colonne di sdegno, seguiti dai non troppo anziani con genitori anziani, sinceramente affettuosi oppure timorosi di passare per avvoltoi in attesa di ricevere l'eredità di quell'appartamentino a Zoagli troppo stretto per tutta la famiglia. Vediamo che cosa dicono le cifre. Ieri nella tarda serata l'Istituto superiore di sanità ha emesso il suo bollettino bisettimanale aggiornato alle ore 16 del 16 marzo. Su un campione di 25058 casi (59,7% maschi). L'età media è di 63 anni contro un'aspettativa di vita media complessiva della popolazione italiana di 82,5 anni (non si è mai capito se il virgola cinque sono mesi o la metà di uno). In ogni caso, i 63 sono considerati oggi una mezza età avanzata. La distribuzione dei casi per fasce di età, come si vede dalla tabella allegata qua sotto alla bell'e meglio, oscilla poco dalla zona 40-49 anni (12% dei casi totali) a quella degli 80-89 (15,5%). L'intervallo più colpito è 70-79 anni (20,4%) seguito dai 50-59 con il 18,9%. Sull'indice di letalità (6,8% dei casi totali ma 8,1% per gli uomini), non si registrano morti sotto i 30 anni, a differenza di quanto accaduto in Cina dove ci sono stati decessi fino a 9 anni di età. In Italia il 78,3% delle vittime è fra i 70 e gli 89 anni. Fuori dalla statistica, bisogna ribadire che il punto centrale del Covid19 non sono i morti, per quanto possa suonare cinico. Quello che sta cambiando il mondo rispetto a come lo conoscevamo è l'enorme quantità di contagiati, anche per chi non teme dieci giorni con 39,5° a casa. Di solito, gente che per sua fortuna non è mai stata in un ospedale e che non ha mai avuto 39,5°. La società umana, di oggi e di diecimila anni fa, è perfettamente attrezzata a fare a meno dei vecchi, secondo la legge di natura. Ma il Cov-Sars-2 colpisce senza grandi distinzioni anagrafiche, com'è tipico delle epidemie. È per questo che le strade sono vuote. È per questo che la polizia multa soprattutto i vecchi in giro senza giustificazione perché essere vecchi non è quasi mai giustificabile. È per questo che continua ad aumentare la gente insospettabile, la buona gente che vorrebbe uccidere i vecchi perché stanno troppo vicini al supermercato, perché vanno in posta per futili motivi o in banca con un F24 che non sanno pagare online oppure banalmente perché tossiscono a raffica di mitra, con strafottenza calcolata. Bisogna provare a riflettere su un fatto. Se ci sono tanti vecchi, è per lo stesso motivo per cui un aereo vola: l'essere umano riesce a battere la legge di natura. Nessuno vuole che cada un aereo. Nessuno dovrebbe volere la morte dei vecchi.

Il Covid-19 uccide gli anziani e i giovani se ne fottono. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 12 Marzo 2020. Signor direttore, mi viene il sospetto che l’affermazione «decideremo noi di volta in volta, secondo età, condizioni di salute e prospettiva di vita, chi può essere intubato e ventilato e chi destinato a morire», sia lievemente discutibile. Gli anestesisti sono fior di medici e fra i più filosofici proprio perché sono specializzati a destreggiar fra vita, morte, dolore, realismo e dedizione. Ciò detto, non mi sento al sicuro se debbo consegnare le mie speranze di sopravvivenza a uno screening in entrata.  Lo so, è bassa retorica, ma quando i treni vomitavano ad Auschwitz la derelitta umanità destinata al campo, per prima cosa un gruppo di medici valutava coloro che potevano essere utili per lavorare e quelli inutili: subito vecchi, bambini e malati venivano avviati ai gas e al crematorio. Lo so, non avrei dovuto fare questo esempio, ma l’ho fatto. Io ho avuto la fortuna di aver frequentato la facoltà di Medicina per tre anni, in un tempo lontano. Non sono affatto un mezzo medico, ma ho acquisito una volta e per tutte una mentalità scientifica che è come un vaccino contro l’idiozia. Di idiozia ne sta girando a carrette. Dunque, mi sono premurato di leggere il miglior Summary che il mondo della ricerca abbia prodotto, basato su 80 lavori tutti citati in bibliografia, tutti su riviste “indexate” e scaricabili. Chi legge questo lavoro e i suoi allegati, le sue fonti e le pubblicazioni su cui è fondato, ha la conferma: la quasi totalità dei morti per polmonite interstiziale bilaterale ha più di 69 anni. Si danno pochi casi di adulti malati che necessitano di essere intubati e fatti respirare con la macchina in età compresa fra i 30 e i 59 anni e nessun caso di bambini morti di polmonite da Covid19. Dunque, non è che il povero medico si trovi di fronte al dilemma: «Oh Dio mio, e adesso? Attacco al respiratore questo giovane che ha tutta la vita di fronte a sé e lascio morire questo vecchio rottame settantenne, e persino ottantenne oppure salvo il vecchio rottame e condanno una giovane vita?». È un dilemma che non c’è. Nel 90 e rotti per cento dei casi, coloro che hanno bisogno di essere attaccati a una macchina per salvare la pelle, hanno 60 o più anni. In Italia il flagello ha assunto un carattere più violento di quello cinese, perché in Italia e soltanto in Italia il tasso di mortalità si assesta ormai in prossimità del cinque per cento degli infettati. In Cina è stato inferiore all’uno, salvo che in Wuhan, città della provincia di Hubei. Le percentuali dei morti sono variabili e per ora l’Italia sembra in testa. Ma quasi tutte le morti sono di gente anziana. Attenzione all’equivoco: non è che quasi tutti i malati sono anziani. No, ci si ammala a quasi tutte le età. Ma non si muore a tutte le età. La malattia nella sua versione letale ha un nome specifico: Sars-CoV-2. È il nuovo nome della morte e non riguarda i giovani. Usciamo adesso da queste formule e guardiamo il servizio andato in onda di Mezz’ora in più fra i ragazzi del quartiere di San Lorenzo a Roma, i quali dichiarano in massa di fottersene delle norme che vietano le riunioni, perché hanno visto – dicono apertamente – che questa famosa epidemia non li riguarda, se non in una percentuale trascurabile. Chi è che crepa? Gli ultrasettantenni: «Embè? E che ce frega a noi? Possono pure crepà: mo’ nun è che io devo smette de uscì pe’ sta propaganda». L’aspetto infernale di questo atteggiamento, è che è realistico: se il virus Hiv veniva liquidato come una malattia che uccide solo gli omosessuali e se tu non lo sei, che ti frega, il Covid-19 è un virus che fa strage di soltanto di umanità scaduta e avariata: «Tutti i deceduti erano di età avanzata e con pregresse condizioni patologiche». Sarebbe il caso di ricordare che chiunque abbia più di settanta anni è un sopravvissuto a qualcosa: alla pressione alta, al diabete, alle malattie respiratorie. Dunque, la decisione di negare la macchina che permette di vivere vita a chi è vecchio per poter salvare la vita di chi è giovane, è moralmente inaccettabile e statisticamente sbagliata. Troverei più utile, civile ed educativo prendere a calci nel sedere quelli della movida: tutti i nuovi ariani negazionisti per i quali il Covid-19 è “propaganda”. Quanto meno, sarebbe, una profilassi. Grazie dell’ospitalità.

Coronavirus, perché potrebbe colpire in modo serio anche i giovani. Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Cristina Marrone. Dalle terapie intensive del Nord Italia la sensazione è la stessa: non ci sono solo anziani con patologie pregresse ricoverati in terapia intensiva a causa del coronavirus ma sempre più spesso hanno bisogno di un importante supporto respiratorio anche pazienti più giovani, sotto i cinquanta anni. Per primo lo ha raccontato Luca Lorini, direttore dell’Unità di Anestesia e rianimazione 2 dell’Ospedale Papa Giovanni di Bergamo appena due giorni fa: «Il tipo di paziente sta cambiando, è un po’ più giovane, ha dai 40 ai 45 anni. Stanno arrivando persone che si sono ammalate sei o sette giorni fa e si sono curate a casa, ma le condizioni sono poi diventate critiche». Qui su 80 posti in rianimazione, 30 sono occupati da under 60 e anche loro non sempre ce la fanno. Anche all’ospedale San Paolo di Milano negli ultimi giorni non sono stati ricoverati solo anziani. Tre giorni fa un 42enne è stato intubato e in poche ore sono arrivati tre 50enni e un 48enne. Quasi tutti godevano di ottima salute. Allo stesso tempo sono stati dimessi due uomini di 49 e 55 anni. Negli ospedali San Raffaele e San Donato di Milano su 42 posti in terapia intensiva, 7 sono occupati da under 50. Un paziente ha poco più di 18 anni. Anche al San Matteo di Pavia, che ha attrezzato 24 posti in Terapia intensiva, arrivano malati più giovani, tra loro anche il paziente 1 di Codogno e una ragazza di 30. Guariscono, anche se la malattia li mette a dura prova. Ma è verosimile che nei prossimi giorni altri giovani potranno finire in ospedale. Il perché lo ha spiegato in conferenza stampa lo stesso Silvio Brusaferro dell’Istituto Superiore di Sanità: «È verosimile aspettarci casi in questo weekend in parte come effetto dei comportamenti assunti lo scorso fine settimana. L’incubazione è tra 4 e 7 giorni: abbiamo visto folle assembrate al mare o in stazioni sciistiche o in mega aperitivi, luoghi dove probabilmente il virus ha circolato. Una parte di quelle persone nei prossimi giorni probabilmente mostrerà una sintomatologia. È un’ipotesi, vedremo le curve, speriamo di essere smentiti dai fatti» . Questo aumento di casi dovrebbe riguardare principalmente il centrosud dove il pericolo di contagio, nonostante gli appelli, non è stato subito ben percepito. E quelle persone che si sono accalcate in coda alle funivie, nei parchi o lungo la Darsena di Milano a prendere il sole e sorseggiare spritz erano giovani. «Anche se i dati sono parziali, che ci siano più persone giovani ricoverate e in terapia intensiva rispetto alla prima ondata va interpretato come un fenomeno naturale – spiega il professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa – e ricordiamoci che in Cina, dove gli anziani sono meno che in Italia, la classe più colpita sono stati proprio i giovani adulti. In Italia i primi cluster d’infezione sono nati intorno agli ospedali, più frequentati da anziani, e in piccoli centri. Ora il virus si è diffuso, circola molto di più in tutto il Paese e sono proprio le persone più giovani, con tanti contatti sociali, a rischiare di più il contagio se non si attengono alla regola del distanziamento sociale, cosa che, nonostante gli appelli non è successa se non negli ultimissimi giorni (e non dappertutto) quando l’intera Italia è stata “blindata”. Statisticamente quindi, dal momento che il virus circola molto di più, c’è da aspettarsi che anche persone più giovani e sane possano sviluppare la polmonite interstiziale. Solo perché hanno un fisico più forte, hanno maggiori possibilità di guarire». Tra i ricoverati in terapia intensiva quasi il 12% ha meno di 50 anni. Gli ultimi dati statistici forniti dall’Istituto Superiore di Sanità ci dicono infatti che il 12% dei casi totali di positività al coronavirus (1755) richiedono un ricovero ospedaliero. Di questi il 14% sono ricoverati in terapia intensiva (con un’età mediana di 66 anni). Nessuno ha meno di 18 anni; l’11,9% ha tra i 19 e i 50 anni; il 51, 2% tra i 51 e i 70 anni; il 36,9% è over 70. L’età media dei pazienti deceduti e positivi per Covid-19 è 80 anni, più alta di circa 15 anni rispetto ai positivi e le donne sono decisamente meno degli uomini: il 24,4%. Finora due pazienti under 40 non ce l’hanno fatta, entrambi con patologie pre esistenti. Tra i 40 e i 49 anni sono morte quattro persone; tra i 50 e i 50, 24. E la mortalità in provincia di Bergamo sfiora il 9%. Emblematico il caso di Nembro, 12 mila abitanti. Lo scorso anno sono decedute 120 persone, quest’anno, solo negli ultimi 12 giorni hanno perso la vita in 70 a causa del coronavirus.

Federico Mereta per ilsole24ore.com il 6 marzo 2020. Il Sars2-CoV-2019? Magari cambierà, impercettibilmente, ma non si modifica la tendenza a sviluppare i casi più gravi e a concentrare la mortalità nelle persone più avanti con gli anni, specie se affette da altre patologie che ne minano il benessere generale. Così, anche in Italia si riproduce una situazione simile a quella osservata in Cina e documentata su Jama. Ad offrire le nuove informazioni su quanto accade nel nostro Paese sono i dati raccolti dall'Istituto Superiore di Sanità (ISS) su 105 decessi avvenuti in Italia fino al 4 marzo (oggi, 5 marzo, le vittime solo salite a 148). Siano essi “per” o “con” coronavirus, la situazione non cambia. L'età media dei pazienti deceduti e positivi per il virus è di 81 anni. Si conferma anche nel nostro Paese una sorta di “differenza di genere” che vede il sesso maschile svantaggiato. I morti infatti sono, sono in maggioranza uomini e in più di due terzi dei casi hanno tre o più patologie preesistenti.

Oltre metà dei decessi negli over-80. Il report riguarda 73 pazienti deceduti in Lombardia, 21 in Emilia Romagna, 7 in Veneto e 3 nelle Marche, ed è basato sui dati ottenuti tramite la compilazione di un questionario sviluppato ad hoc ai fini della rilevazione dei casi di morte. L'età media delle vittime è 81 anni, circa 20 anni superiore all’età media dei pazienti che hanno contratto l'infezione, e le donne sono 28 (26.7%). La maggior parte dei decessi (42.2%) si è avuta nella fascia di età tra 80 e 89 anni, mentre 32.4% erano tra 70 e 79, 8.4% tra 60 e 69, 2.8% tra 50 e 59 e 14.1% sopra i 90 anni. Le donne decedute dopo aver contratto infezione da COVID-2019 hanno un'età più alta rispetto agli uomini (età mediana donne 83.4 – età mediana uomini 79.9). Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 3,4.

Ipertensione, cardiopatia e diabete le patologie più comuni. Complessivamente, il 15.5% del campione presentava zero o una patologia, il 18.3% presentavano 2 patologie e 67.2% presentavano 3 o più patologie. La comorbilità più rappresentata è l'ipertensione (presente nel 74,6% del campione), seguita dalla cardiopatia ischemica (70,4%) e dal diabete mellito (33,8%). Il tempo mediano dall'insorgenza dei sintomi al ricovero in ospedale è stato di 5 giorni e la mediana del tempo intercorso tra il ricovero e il decesso è stato di 4 giorni.

Il rischio si concentra nella terza età. Queste informazioni italiane ribadiscono quanto già osservato in altri Paesi, ed in particolare in Cina. «Anche se preliminari, questi dati confermano le osservazioni fatte fino a questo momento nel resto del mondo sulle caratteristiche principali dei pazienti – commenta il presidente dell'ISS Silvio Brusaferro -, in particolare sul fatto che gli anziani e le persone con patologie preesistenti sono più a rischio. Si tratta di persone molto fragili, che spesso vivono a stretto contatto e che dobbiamo proteggere il più possibile».

Lo studio cinese. In chiaroscuro, pare di rileggere quanto riportato dal Center for Disease Control and Prevention Cinese, (CCDC) su JAMA. La ricerca, coordinata da Wu Zunyou e Jennifer M. McGoogan, ha preso in esame una serie di 72314 casi di malattia legata al coronavirus registrati fino all'11 febbraio scorso. A fronte di una letalità che si aggira intorno al 2,3 per cento nei circa 45.000 casi confermati, nelle persone over-80 il tasso di letalità è risultato del 14,8% contro l'8% osservato tra i i 70 e gli 80 anni. Oltre al parametro dell’età, poi, si confermano i rischi maggiori per chi soffre di malattie cardiovascolari. In questa popolazione il tasso di letalità supera il 10 per cento. Per l'ipertensione, presente in elevata percentuale anche nei pazienti italiani, lo studio cinese rivela un aumento di letalità che arriva fino al 6 per cento, rispetto alla media. Infine la presenza di un tumore appare correlata con un tasso di mortalità superiore alla media riportata. Si arriva in questi malati intorno al 5,6% con un rischio di oltre tre punti maggiore rispetto alla media.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 6 marzo 2020. La Corea del Sud ha 6.088 contagiati, quasi il doppio dei nostri, ma conta "solo" 40 morti, un quarto delle vittime italiane: in proporzione il Paese orientale ha il rapporto più basso del mondo. In Italia, dove il tasso di letalità del Coronavirus si aggira intorno al 3%, il bollettino dei decessi "da Covid-19" cresce esponenzialmente. Nella Repubblica orientale, invece, la statistica è molto più contenuta, e il tasso di letalità è inferiore all' 1. Qualcuno, tra la pletora di esperti veri e presunti che affollano i talk-show e fanno a gara per finire sui giornali, va dicendo che è del tutto normale, che in Corea del Sud la popolazione è molto più giovane di quella italiana. In realtà non è vero: la nostra età media (la terza più alta del pianeta dopo Germania e Giappone) è di 46,3 anni, e nello Stato asiatico è di 42,1. La differenza c' è, ma non ci sembra tale da giustificare un simile squilibrio tra le due nazioni, anche se non pretendiamo di saperne per forza di più dei professionisti da Covid-19. Il rapporto età-morti pare avere maggior valenza in Iran, piuttosto, che ha un po' meno contagi (3.513) rispetto all' Italia (3.858), un numero di decessi inferiore (107 stando all' ultimo bollettino ufficiale pervenuto in Europa), e un' età media di appena 27 anni, quindi 20 in meno di noi. E dunque da dove deriva l' enorme differenza statistica tra Italia e Corea del Sud? Ovviamente possiamo avanzare solo ipotesi: nessuno, al momento - se non Seul - può sapere come stanno realmente le cose. Di certo loro hanno eseguito un numero enorme di test, oltre 140 mila, cinque volte tanto i tamponi effettuati nei nostri ospedali. La Corea, poi, appena cinque anni fa si era trovata a fare i conti con l' epidemia di Mers, una patologia di Coronavirus simile alla Sars. E lo Stato, accortosi in ritardo del contagio, in ottica futura aveva deciso di allestire un protocollo per le emergenze che oggi coinvolge diverse aziende biomediche specializzate nella produzione di strumenti per scovare le malattie virali. Nella Repubblica orientale eseguono test anti-Coronavirus anche per strada senza che gli automobilisti scendano dalla vettura. Insomma, il numero dei contagiati sarebbe così elevato perché vengono svolti esami a tappeto, un po' com' è avvenuto in Italia nei primissimi giorni dell' emergenza, solo che poi le nostre autorità hanno cambiato strategia, forse per tentare di rimediare all' immagine di italiani-untori che hanno drammaticamente fatto passare nel mondo, e hanno deciso di effettuarli solo sui pazienti sospetti. E di sospetto ce n' è anche un altro, e cioè che in Corea del Sud - come in altri Stati - solo una parte dei decessi venga associata al famigerato contagio, e che gli altri vengano correlati alle patologie preesistenti nel paziente. In pratica farebbero il contrario di ciò che avviene in Italia, dove vengono ascritte alle "morti da Coronavirus" anche quelle di persone il cui stato di salute, purtroppo, era già ampiamente compromesso anche in ragione dell' età piuttosto avanzata. È chiaro che ogni nazione, volendo, può comunicare i dati come meglio crede - verifiche capillari in questo senso sono pressoché impossibili - e che certi governi, per non spaventare i propri cittadini e non affossare l' economia e l' immagine all'estero, possano aver deciso di tenere una linea meno allarmistica, il che non vuole dire per forza scorretta, anzi. Registriamo che la Germania è alle prese con 514 infezioni (per ora nessun decesso comunicato) e la Francia con 423 contagi e 6 morti, lo stesso numero di decessi del Giappone. Nello Stato dell' imperatore sono state comunicate 361 infezioni, circa 3.200 in meno dell' Italia.

Perchè occorre chiarezza su chi sono i morti col Coronavirus. Il Corriere del Giorno il 6 Marzo 2020. Nella maggior parte dei casi il coronavirus è stata soltanto una concausa del decesso. Due terzi di loro doveva fare i conti con malattie pregresse. L’età media delle vittime è di 81 anni. La percentuale tasso di letalità in Italia del Covid-19, a tutti meglio noto come CoronaVirus , si aggira intorno al 3,8% anche se questa percentuale, se analizzata a prima vista, ci dice ben poco dei deceduti. Le persone che hanno contratto il coronavirus guariscono nella maggioranza dei casi  senza particolari cure o ricoveri. L’attenzione in ogni caso deve comunque  deve restare elevata, anche se dopo aver analizzato ai raggi X le vittime del virus è importante e necessario fare un distinguo tra i “i morti di coronavirus” e “le morti legate al coronavirus“. Da questo punto di vista ci viene in aiuto l’identikit di 105 persone decedute fino allo scorso 4 marzo 2020 reso noto dall’Istituto superiore di Sanità . Leggerlo e capirlo è importante e diventa molto utile perché ci consente di identificare quale siano le persone più esposte a rischio e, più in generale, rende possibile fare il punto della situazione sulle vittime fin qui accertate.

Quale età hanno le vittime del coronavirus? L’età media dei pazienti deceduti è di 81 anni. Come evidenzia il Corriere della Sera rifacendosi all’Istituto Superiore della Sanità, ci sono 20 anni di differenza tra l’età media dei deceduti e quella dei pazienti “positivi” al Covid-19. La percentuale più alta dei decessi, il 42,2%, si colloca nella fascia di età compresa tra gli 80 e gli 89 anni. Subito dopo si riscontra un 32,4% di decessi situati a cavallo tra i 70 e i 79 anni. L’8,4% riguarda la parentesi 60-69 anni mentre il 2,8% quella tra 50 e 59. Infine, tra gli over 90, la percentuale si attesta al 14,1%.

Qual è il loro sesso? La maggior parte delle vittime risultate positive al CoronaVirus sono per lo più uomini. Da questo punto di vista emerge una tendenza: le donne decedute dopo aver contratto il virus hanno un’età più alta degli uomini. L’età mediana per il gentil sesso è di 83,4 anni; per gli uomini di 79,9.

Quali e quante patologie preesistenti avevano? Più di due terzi dei pazienti morti con il CoronaVirus dovevano fare i conti con tre o più patologie pregresse. La media è del 3,4. Scendendo nel dettaglio, il 15,5% del campione preso in esame non aveva patologie o una soltanto; il 18,3% ne presentava 2; il 67,2% ne aveva tre o un numero superiore. Tra le varie patologie, va per la maggiore l’ipertensione  con il 74,6% dopodichè la cardiopatia ischemica (70,4%) e diabete mellito (33,8).

Il rischio di morire è alto? Angelo Borrelli, il commissario straordinario per l’emergenza CoronaVirus ,  ha chiaramente spiegato che la percentuale dei guariti ammonta al 10,7% del totale di coloro che hanno contratto l’agente patogeno; i deceduti soltanto il 3,8%. Tornando alle vittime, nella maggioranza dei casi ci si è trovati di fronte ad organismi deboli e non abbastanza forti per reagire adeguatamente ai sintomi provocati dalla malattia. Si può quindi affermare che che il CoronaVirus è stata una concausa del decesso e non la causa principale della morte. In poche parole chiare il Covid-19 ha indebolito un organismo già fragile a causadi preesistenti malattie e patologie, come tumori, diabete ed altro ancora.

Come proteggersi e cosa fare se abbiamo il coronavirus? Se abbiamo più di 75 anni, o 65 non in buona salute, è consigliabile restare in casa per un po’ di tempo, almeno fino a quando l’emergenza non sarà passata. Per limitare il rischio contagio è bene non toccarsi naso, occhi e bocca con mani non igienizzate. È fondamentale lavarsi spesso le mani (nel modo giusto, almeno 20 secondi con acqua e sapone) e mantenersi a distanza da chi tossisce o starnutisce. Chi sospetta di aver contratto il coronavirus ha di fronte a sé due strade. Innanzitutto telefonare al proprio medico di base, spiegargli la propria situazione e segnalare i sintomi sopratutto se siamo stati in aree particolari o a contatto con persone contagiate. In base alle risposte il medico consiglierà i prossimi step, compreso il trasferimento del paziente in ospedale. Dopodichè passaggio fondamentale è quello di chiamare il numero di emergenza attivo in ogni regione. Risponderanno degli operatori preparati  a dare informazioni ed eventualmente avviare procedure personali nei casi necessari.

Cinque domande sulle vittime. Ecco chi sono i morti col Coronavirus. L'età media delle vittime è di 81 anni. Due terzi di loro doveva fare i conti con malattie pregresse. Nella maggior parte dei casi il coronavirus è stata una concausa del decesso. Federico Giuliani, Venerdì 06/03/2020 su Il Giornale.  Nella maggioranza dei casi le persone che hanno contratto il coronavirus guariscono senza particolari cure o ricoveri. Il tasso di letalità del Covid-19, in Italia, si aggira intorno al 3,8% anche se questa cifra, detta così, ci dice ben poco dei deceduti. Certo, la guardia deve restare alta, altissima. Ma dopo aver analizzato ai raggi X le vittime del virus si può e si deve fare una distinzione tra i "i morti di coronavirus" e "le morti legate al coronavirus". Da questo punto di vista ci viene in soccorso l'identikit fornito dall'Istituto superiore di Sanità (Iss) di 105 persone decedute fino allo scorso 4 marzo 2020. Leggerlo è molto utile perché ci consente di spiegare quale siano le persone più esposte a rischio e, più in generale, ci consente di fare il punto della situazione sulle vittime fin qui accertate.

Che età hanno le vittime del coronavirus?

L'età media dei pazienti deceduti è di 81 anni. Come sottolinea Il Corriere della Sera rifacendosi all'Iss, ci sono 20 anni di differenza tra l'età media dei deceduti e quella dei pazienti positivi al Covid-19. Il numero più alto di decessi, il 42,2%, si colloca nella fascia di età compresa tra gli 80 e gli 89 anni. A seguire troviamo un 32,4% di morti situati a cavallo tra i 70 e i 79 anni. L'8,4% riguarda la parentesi 60-69 anni mentre il 2,8% quella tra 50 e 59. Infine, tra gli over 90, la percentuale si attesta al 14,1%.

Qual è il loro sesso? La maggior parte delle vittime risultate positive al coronavirus sono per lo più uomini. Da questo punto di vista emerge una tendenza: le donne decedute dopo aver contratto il virus hanno un'età più alta degli uomini. L'età mediana per il gentil sesso è di 83,4 anni; per gli uomini di 79,9.

Quante e quali patologie preesistenti avevano? Più di due terzi dei pazienti morti con il coronavirus dovevano fare i conti con tre o più patologie pregresse. La media è di 3,4. Scendendo nel dettaglio, il 15,5% del campione preso in esame non aveva patologie o una soltanto; il 18,3% ne presentava due; il 67,2% tre o un numero superiore. Tra le patologie, l'ipertensione va per la maggiore con il 74,6% quindi troviamo cardiopatia ischemica (70,4%) e diabete mellito (33,8).

È alto il rischio di morire? Il commissario straordinario per l'emergenza coronavirus, Angelo Borrelli, ha spiegato che la percentuale dei guariti ammonta al 10,7% del totale di coloro che hanno contratto l'agente patogeno; i deceduti il 3,8%. Tornando alle vittime, nella maggioranza dei casi stiamo parlando di organismi non abbastanza forti per reagire adeguatamente ai sintomi provocati dalla malattia. Si può dire che il coronavirus è stata una concausa del decesso e non la causa principale della morte. In altre parole il Covid-19 ha indebolito un corpo già fragile per via di malattie preesistenti, come tumori, diabete e altro ancora.

Come proteggersi e cosa fare se abbiamo il coronavirus? Se abbiamo più di 75 anni, o 65 non in buona salute, è consigliabile restare in casa per un po' di tempo, almeno fino a quando l'emergenza non sarà passata. Per limitare il rischio contagio è bene non toccarsi naso, occhi e bocca con mani nono igienizzate. È fondamentale lavarsi spesso le mani (nel modo giusto, almeno 20 secondi con acqua e sapone) e mantenersi a distanza da chi tossisce o starnutisce. Chi sospetta di aver contratto il coronavirus ha di fronte a sé due strade. La prima: telefonare al proprio medico di base, segnalare i sintomi e spiegargli la propria situazione (se siamo stati in aree particolari o a contatto con persone contagiate). In base alle risposte il medico consiglierà i prossimi step, compreso il trasferimento del paziente in ospedale. La seconda: chiamare il numero di emergenza attivo in ogni regione. Risponderanno operatori capaci di dare informazioni e avviare procedure personali nei casi opportuni.

Coronavirus, chi sono le vittime in Italia: l’analisi dell’Iss. Laura Pellegrini il 6 marzo 2020 su Notizie.it. Uno studio realizzato dall'Istituto Superiore della Sanità ha rivelato chi sono le vittime positive al coronavirus in Italia. Sono stati analizzati i dati e le cartelle cliniche d 105 pazienti risultati positivi al coronavirus e poi morti: ne è emerso l’identikit delle vittime in Italia. Da quanto si apprende dall’analisi realizzata dall’Istituto Superiore della Sanità, pare che i soggetti maggiormente esposti al rischio siano, come noto, le persone che soffrono di patologie pregresse. Il range di età che presenta il maggior numero di decessi, invece, è quella superiore agli 80 anni. Infine, pare siano gli uomini i pazienti maggiormente colpiti dalla morte. Le vittime di coronavirus in Italia aumentano di giorno in giorno, ma uno studio realizzato dall’Iss ha messo in chiaro chi sono le persone maggiormente esposte al rischio. Da quanto emerge dall’analisi, infatti, nei due terzi dei casi, i decessi provengono da persone che soffrivano in precedenza di altre patologie più o meno gravi. L’età media delle vittime, inoltre, si aggira attorno agli 81 anni e riguarda in maggioranza pazienti uomini (le donne, infatti, sono il 26,7%). Tuttavia, l’Iss ha voluto specificare che esiste una differenza di 20 anni tra l’età media delle persone morte in Italia e quella delle persone che hanno contratto il virus. Tornando all’analisi, inoltre, si evince che la maggior parte delle persone morte per Covid-19 (42%) riguarda pazienti di età compresa tra gli 80 e gli 89 anni. Il 32,4%, invece, si trova in un’età compresa tra i 70 e i 79 anni. Infine l’8,4% delle persone colpite dal virus è compreso tra i 60 e i 69 anni. Soltanto il 2,8% ha tra i 50 e i 59 anni. Tra i decessi, il 14,1% aveva più di 90 anni e le donne decedute risultavano più vecchie rispetto agli uomini. L’età media dei decessi tra gli uomini è appunto 79,9 anni, mentre per le donne sale a 83,4 anni. Per quanto concerne invece il quadro clinico dei pazienti contagiati: il 15,5% presentava al massimo una patologia pregressa, il 18,3% soffriva di due patologie e il 67,2% ne aveva tre o più. Tra quelle più frequenti, infine, vi è l’ipertensione nel 74,6% dei casi. Anche la cardiopatia ischemica è presente nel 70,4% dei pazienti deceduti, mentre il 33,8% soffriva di diabete mellito.

Coronavirus, Burioni: “Non è vero che muoiono solo gli anziani”. Il virologo Roberto Burioni ha smentito che a morire di coronavirus sono solo pazienti anziani: “Non dobbiamo pensare agli anziani come persone che sono in fin di vita. Questo virus ha ucciso persone che stavano tutto sommato bene. Dire che ‘pazienza se muore un anziano’ è una cosa abietta”. Davide Falcioni il 3 marzo 2020 su Fanpage. "Muoiono solo gli anziani". È il refrain delle ultime settimane quando si  parla di coronavirus, la frase ricorrente di chi – spesso molto maldestramente – vuole rassicurare sulle conseguenze della malattia sostenendo che a pagare il prezzo più caro sono persone già debilitate, come se non fosse proprio di quelle che ci si dovrebbe prendere cura. Lo stesso Roberto Burioni, in un'intervista rilasciata a "I Lunatici", su Rai Radio2, ha criticato questo approccio alla malattia: "Quanto mi infastidisce sentir dire che muoiono solo gli anziani? E' una cosa non vera. Il paziente 1 ha 38 anni e in questo momento è in rianimazione in condizioni critiche. E anche il medico cinese di 31 anni non era anziano. Poi non dobbiamo pensare agli anziani come persone che sono in fin di vita. Questo virus ha ucciso persone che stavano tutto sommato bene. Dire che pazienza se muore un anziano è una cosa abietta. Che facciamo, iniziamo a decidere una graduatoria di importanza delle persone?". Il virologo, come tutti gli altri medici impegnati nel tentativo di contenere i contagi, ha ricordato che "siamo nel momento decisivo. Il virus è arrivato e si è diffuso senza alcuno ostacolo fino a una settimana fa. Poi ci siamo accorti che si è diffuso. Fortunatamente il focolaio di diffusione sembra limitato. Però questo è un virus molto contagioso. Pericoloso, perché manda un sacco di persone nei reparti di terapia intensiva. Dobbiamo fare di tutto per bloccarne o rallentarne la diffusione, così avremo tempo di allestire reparti per curare più malati, e non affollare troppo le terapie intensive. Bisogna fare di tutto per ostacolarne la diffusione, anche se costa qualche sacrificio". Insomma, le misure restrittive imposte dal governo in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono oggi necessarie per contenere il contagio e non mettere in crisi il sistema sanitario nazionale. Burioni ha poi ricordati che ""il Coronavirus non è la peste ma non è neanche un raffreddore. E' un virus che dà una sindrome respiratoria di una certa gravità. Che provoca la morte in casi piuttosto rari, ma non rarissimi, si parla circa dell'uno percento. Ma spedisce un sacco di persone in terapia intensiva. E i posti in terapia intensiva sono limitati. E' importantissimo in questo momento rallentare la diffusione. Capiremo tra una settimana o dieci giorni se le misure prese in questo momento sono state corrette. Il che è ragionevole perché la malattia ha circa sei giorni di incubazione in media. Chi si infetta oggi si ammala tra sette otto giorni". Per quanto riguarda la reazione dei cittadini all'epidemia il virologo ha aggiunto: "Ho visto una iniziale reazione di panico ingiustificato. I supermercati svuotati mi hanno molto colpito. Però allo stesso modo mi ha stupito il fatto che da due o tre giorni si dica che il pericolo è passato. Non ci vuole il panico, ma serve maturità. Dobbiamo assumere comportamenti che possano ostacolare il virus, che si trasmette attraverso il contatto umano. Bisogna evitare di andare in luoghi affollati che non siano indispensabili da frequentare. Non è il momento di andare a una partita di calcio o a un concerto". Sui possibili danni all'economia, Burioni ha detto: "Non possiamo dire che non ci interessa, c'è gente che sta avendo dei grandi danni economici. E' una cosa che non va presa con superficialità. Ma in questo momento c'è un interesse superiore. L'epidemia va fermata. Credo che lo Stato dovrebbe distribuire questo disagio. Alcuni cittadini hanno dei danni gravissimi, altri meno. Spero che lo Stato aiuti chi è colpito".

Daniela Minerva per “la Repubblica” il 6 marzo 2020. A che età possiamo considerarci anziani? Oggi, fino ai 70 anni solo circa il 7 per cento delle persone ha delle malattie o delle disabilità serie, prima dei 70 la maggior parte degli italiani se la passa bene, poi inizia la discesa (più o meno ripida a seconda della nostra storia individuale). Quindi la linea del fronte sta tra i 70 e i 75 anni. E le nuove regole anticoronavirus tengono conto delle definizioni che la medicina dà delle età della vita. Così consigliano a chi ha superato i 75 anni di non esporsi, stare a casa. Certo, specificano gli esperti, ci sono ultrasettantacinquenni in piena forma: che non hanno patologie disabilitanti, che fanno sport, hanno cuore e polmoni in perfetto stato e potrebbero affrontare Covid-19, ma dovendo dare una regola che vale per tutti: mettere l' asticella a 75 è perfettamente coerente con studi e linee guida internazionali. La zona d' ombra è invece quella che circonda chi ha compiuto i 65 anni: per lo più si tratta di persone in perfetta forma, le cosiddette pantere grigie. Ma è proprio in questa fascia di popolazione che i distinguo si fanno più rigidi: chi sta bene, non se la passa tanto diversamente dalla media degli over 55, ma molti di coloro che hanno compiuto i 65 hanno malattie dell' apparato respiratorio, hanno avuto a che fare col cancro, hanno patologie cardiache, neurologiche, diabete e per diverse ragioni devono considerarsi immunodepresse. A loro il governo dice di regolarsi a seconda dello stato di salute. E fa bene: gli anziani "Rambo", come li chiamo gli addetti ai lavori, non hanno da temere il coronavirus, gli altri invece sì. Resta il fatto che tanti italiani non sapranno come orientarsi e dovranno chiedere al medico.

·        Andati senza salutarci.

La lunga notte di Milano. Durante il lockdown, mentre paura e dolore paralizzano il Paese, uno scrittore scende per le strade deserte della sua città. E, come dentro un “Reality”, va incontro a ciò che sta accadendo: tra medici, infermieri, gente che non interrompe il suo lavoro. E vite in bilico. Reality. Cosa è successo. Il libro di Giuseppe Genna per Rizzoli. Giuseppe Genna il 14 luglio 2020 su L'Espresso. L'incontro con il contatto è fissato al Policlinico. L’uomo mi condurrà dai morti infetti. Voglio arrivare in piazza della Scala, penetro la città serrata, dove è l’assedio e dove l’assediante?, voglio toccare con mano le pietre parlanti del teatro e del municipio, la galleria che porta verso il Duomo, le pietre mute perché nessuno ascolta più il loro insegnamento. Questo è un tempo incapace di concepire la pietra, cioè la statua, di scolpirla e di esporla ovunque, è un tempo senza statue. Noi, i viventi di adesso, ci muoviamo ormai troppo lenti, siamo noi le statue: di carne. Chi ci scolpisce? La messaggistica istantanea e l’elettricità pervasiva contraggono il tempo, noi ci muoviamo pachidermici e biologici in un tempo che scarta l’organismo a favore della macchina e delle sue dimensioni. Milano è la capitale di questo stato evolutivo, l’umano sempre più veloce è troppo lento. L’elettricità è lo spirito. Milano esercita un mesmerismo. Ipnotizza dieci milioni di turisti l’anno, con il suo skyline instabile, quattro grattacieli velleitari che stanno scrivendo la storia mondiale e surclassano la maestosità silente e meditabonda di una cattedrale che osserva con gravità l’umano da sei secoli. Entro come un fantasma nella cerchia della città fantasma. Al ventesimo giorno del contagio la nazione ha chiuso, ma la metropoli aveva chiuso ben prima. Il silenzio era andato solidificandosi di giorno in giorno. Gli umani, in giro, sempre più rari. Ci sentivamo grossi bacilli in fila per predare il supermercato i primi giorni dell’emergenza. Bisogna raccontare gli scaffali svuotati. Nessuno di noi aveva mai visto prima il fondo della scaffalatura al supermercato, era un segreto che detenevano soltanto gli addetti a riempirli. Gli scaffalisti dei supermercati, questi stipatori per conto terzi, pallidi e trasandati sotto i loro camici bianchi e verdi semiaperti sul davanti, si distinguono dai commessi, turnano, accumulano. Cosa sappiamo delle loro vite private, delle loro perversioni?...Ruoto solitario nella piazza della Scala, non c’è anima viva, non ci sono neanche le anime morte. È un capogiro, ruotare a trecentosessanta gradi nel vuoto smisurato, la piazza metafisica, De Chirico diventato reale, io come un manichino minato dalla bronchite acuta e dall’insufficienza morale: dove sono i miei concittadini? Murati nelle case, ridotte a catacombe vivibili, hanno maturato il sentimento di colpa verso il mondo e se stessi? Hanno compreso che stavamo tutti correndo troppo?...E quindi punto all’ospedale centrale. Il contatto è un infermiere di chirurgia toracica. Sta fumando con un’indolenza da sonnambulo, da fantasma... Mi fa strada. Mi porta al centro occulto del contagio. Dove rianimano. Dove li perdono. «Ieri ne è scappato uno.» Emette una voce calda, meridionale, ha il polso largo e irsuto, piccole escrescenze di pelle sulla faccia gonfia, l’occhio cirrotico, una stazza da maschio del Sud più retrivo e umbratile. Parla secondo una calma meridiana, ritratto nell’ombra delle stanze più interne in quelle case per cui si indebitano i miei parenti siculi, coprono di cellophane i divani e ci sistemano sopra bambole a grandezza umana. Quest’uomo viene fuori da Balzac, non da Kafka. È l’errore del tempo, di questo tempo: servirebbe Kafka, il cruccio del padre di famiglia davanti a un rocchetto di filo vivente che gli sopravvivrà, la talpa che racconta, il cane che indaga, i topi che cantano l’opera lirica, la scimmia che conciona all’accademia, il macchinario che invade il corpo prolungando l’attesa del decesso, l’agrimensore che non misura nulla, la condanna alla morte per acqua sancita contro il figlio dal genitore moribondo. E non ciò che conosciamo già. L’umano deve stupirci, deve non confermare il giudizio che da sempre abbiamo desunto dalla sua vicenda sul pianeta, fin troppo credibile. L’infrazione alla storia, non l’estrazione dalla storia.

«In che senso ne è scappato uno?»

«È scappato. Uno positivo. Era in reparto Covid» risponde mentre zoccola tra i sotterranei. Pare di essere in The Kingdom di Lars von Trier. Le mattonelle in cotto sono viscose, una fanghiglia che sa di candeggina, qualcuno ha passato lo straccio imbevuto di un’acqua sporca, senza asciugare.

«Ma dove è andato?»

«È uscito in pigiama, a piedi nudi. Nella confusione del triage non se ne è accorto nessuno. Un uomo. Cinquant’anni. Non del tutto asintomatico, aveva le energie per correre. È uscito dall’ospedale, ha attraversato Francesco Sforza, è passato oltre l’università, verso il Verziere, piazza Fontana, poi piazza Duomo. È sceso nella metropolitana. In pigiama, nessuno lo ha fermato, ha passato i tornelli, si è precipitato sulla banchina e si è lanciato sui binari mentre arrivava un treno. Il conducente è riuscito a frenare. Il paziente Covid è rimasto lì, col treno a un metro, il suicidio fallito, la gente che tentava di tirarlo su ed era un positivo.»

«Ma perché è scappato così?»

«Una crisi di angoscia. Ha derealizzato. È un imprenditore. Due anni fa a distanza di un mese pare che gli siano morti il padre e la madre. La moglie lo ha mollato, hanno due figli, la maggiore è stata sottoposta a sette interventi per un difetto cardiaco, un martirio, poi hanno cominciato a operargli il figlio minore, era andato in peritonite. Ha dovuto chiudere l’azienda settimane fa, per il virus, è sul lastrico. In reparto ha cortocircuitato.»

«E adesso?»

«Adesso lo hanno messo in reparto psichiatrico, che non è attrezzato per pazienti positivi. Hanno tirato su un muro in cartongesso in due ore, per isolarlo, sedandolo, lo hanno asfaltato di antipsicotici, ma è positivo, rischia di contagiare tutti. Hanno tirato su il muro, ma il bagno è in comune, non hanno la ventilazione.»

Risaliamo le scale lerce di lana di polvere, bigi, dal sotterraneo in superficie, proprio sotto il reparto dei contagiati...Aspetto il presidio. Attendo per un tempo che mi sfinisce... Come una scimmia lenta, brachicardica, fuoriesce dal reparto il mio contatto. Mi dà le disposizioni. Non so cosa faccio. Devo muovermi secondo standard inconsulti. Compio gesti non familiari. Mi slogo. Agisco a specchio con chi mi sta davanti e mi istruisce. Mi sento ridicolo e tragico. Sanifico le mani con il gel alcolico, con lentezza e vigore incrocio le dita, sanifico il pollice, la punta delle dita contro il centro della mano, dobbiamo canticchiare per due volte Tanti auguri a te, quello è il tempo giusto per una sanificazione soddisfacente, biascichiamo la canzoncina del compleanno, ostentando i movimenti a braccia tese in avanti. Indosso il primo paio di guanti. Infilo il sovracamice, cartaceo, verdino, annodo i legacci dietro il collo e alla vita, i polsini devono sovrapporsi ai guanti. Devo sistemarmi la cuffia con precisione, lasciare dentro tutti i capelli, fasciare il collo, annodare sul retro. Preparo il filtrante facciale ffp3, è la mascherina professionale, devo modellare lo spazio per il naso, vanno posizionati gli elastici sulla nuca e sul collo, gli elastici non devono incrociarsi, bisogna eseguire la prova di tenuta, gonfiare con il fiato la mascherina, lasciarla aderire alla perfezione, plasmare ancora la zona del naso. Sulla fronte sistemare la fascia della visiera protettiva, la plastica rimanda il calore del volto, è il principio di una sauna biologica.

Il secondo paio di guanti, devono coprire i polsini. Impieghiamo un quarto d’ora. Sono inesperto, la goffaggine significa contaminazione, allerta, l’attenzione allo spasimo. Tutto il tatto è rivoluzionato. Sono isolato. Non sento niente. Entro...Le stanze della terapia subintensiva: decine di umani sotto caschi da palombaro della regia marina, sono i caschi cpap, in queste ore gli acronimi dominano la lingua tra la vita e la morte, la lingua penultima, c’è un piacere suppletivo a parlare per acronimi, ci si sente tecnici, iniziati. Producono la ventilazione a pressione positiva continua, per le insufficienze respiratorie. I pazienti sono chiamati così: “le insufficienze”....Cosmonauti ottocenteschi. Teche di formalina per teste attaccate ai tronchi... Ognuno è uguale a ognuno. Ogni storia individuale è ammutolita, non è dato conoscerla, compressa nello stordimento dello spasmo. Le parole sono dismesse. Più ci si avvicina alla fine del respiro e più le parole si rarefanno, sono disabilitate. Parole, antiche sorelle: addio. E oltre quella porta più avanti, oltre le infermiere che vorticano come api, la terapia intensiva: gli “intensivi” che non mostrano da nessuna parte, rari lacerti video e nessuna foto. I corpi prossimi all’estinzione, l’avanguardia di noi tutti. Il monito silenzioso, il silenzio da penetrare. Nessuno parla. Eccoci. Otto umani sospesi. Sono intubati. Li hanno messi proni. La pronazione aiuta a respirare, all’ultimo. In coma farmacologico, sedati. Rilasciano le braccia lungo il corpo, i palmi delle mani verso il soffitto. Nudi, coperti da un lenzuolo minimo. Il caldo qua è tropicale e si annusa il sudore acido nell’aria cattiva, i camici e gli scafandri impediscono la traspirazione, medici e infermieri non possono pisciare, per sei, dieci ore, vanno avanti trattenendo la vescica e puzzando come selvaggina, come homeless, sono homeless, non hanno casa...La febbre arde i corpi. È un olocausto. Il fuoco è l’estremo rimedio, l’estrema linea di confine. I cadaveri viventi sono gonfi, proni, nudi con il tubo tracheale. Fatico a trattenere la tosse, il catarro si muove al ritmo del mio respiro corto. Le infermiere hanno i lividi da mascherina, quando la tolgono, la pelle in ecchimosi dove i lacci stringono: sono spaventose, come se avessero evitato i femminicidi...Chi si sveglia dalla sedazione o dal coma farmacologico è in stato confusionale, capisce male, sta nel capogiro, nella vertigine, non può parlare. Gli infermieri comunicano con i risvegliati mostrando fogli scritti a mano con il pennarello, “Buongiorno”, “È ricoverato in terapia intensiva”, “Non c’è libero accesso ai parenti”, “Siamo in stretto contatto”. E non è vero. E non sentiranno più una parola umana, una fonazione, gli intubati che con lentezza muoiono a spasmi...Io sono tra i loro corpi instabili, tra le loro anime acuite, che tremano, nel sisma delle macchine....Fratelli miei, sorelle mie, sono qui a guardarvi per la prima volta, per l’ultima volta. Voi siete per me pericolosi. Ogni sguardo su di voi è un lascito, un’oscenità. Appoggio il dito indice nella mano rilasciata di un anziano. Per riflesso nervoso me lo stringe, risponde come un neonato vecchio, artiglia il dito, le unghie lunghe, ingiallite, le dita catramate di chi fu un fumatore, il caldo infetto della sua pelle attraverso i doppi guanti si percepisce bene che lo consuma, che lo finisce. Per intubarlo gli hanno tolto la protesi dentaria, il volto gli è collassato dentro, il volto di tutta la terza età avanzata. Come vorrei fargli scivolare via dalla gola il tubo duro, stringerlo al petto, allattarlo al capezzolo con la mastite, dargli vita, baciare la sua fronte, liberarlo dalla fleboclisi, portarlo insieme a me fuori, nell’aria pericolosa di questa primavera che stenta a crescere, caricarmelo sulle spalle, nella città deserta, come un Anchise, per piazze e svolte sentirmelo sulla schiena, povere ossa e pelle rilasciata, la pelle di cartapecora, di papiro, e deporlo sul sagrato della cattedrale e recitare un peana, una lode, per colui che muore al posto nostro e ci rappresenta in questa avanguardia, muore per noi...Vorrei carezzarli uno per uno, questi corpi, carezzare i loro respiri minuscoli, la fatica di morire sempre un poco di più, un poco di più ancora...Scusatemi tutti.

Reality. Cosa è successo. Il libro di Giuseppe Genna per Rizzoli. Estratto pubblicato per gentile concessione dell’autore in accordo con Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

L'alpino e il diario dal fronte del Covid. "I giorni tenendo gli anziani per mano". Il colonnello Lunardi è paracadutista e medico: la sua esperienza nelle corsie degli ospedali più colpiti come un racconto di guerra. Fausto Biloslavo, Venerdì 12/06/2020 su Il Giornale. «Se gli ospedali sono diventati trincea del personale sanitario vorrei che questi scritti fossero delle cartoline di guerra» si legge nell'agile diario, ma ricco di emozioni, del colonnello Federico Lunardi, in prima linea nell'emergenza virus. «Covid-19 - Cartoline dal fronte», della casa editrice QuiEdit, uscirà in questi giorni. Il voluto riferimento è alle cartoline delle guerre dei nostri padri «quelle ingiallite cariche di parole scritte fitte fitte che coprivano tutto lo spazio, compresa l'area attorno al francobollo». Il diario della «guerra» al «nemico invisibile», uno dei primi dato alle stampe dai militari, sono «schizzi di umanità, parole nate dal dialogo con pazienti, colleghi, famigliari. Parole scritte nelle corsie ospedaliere, in un'Italia che mai nella propria storia ha vissuto limitazioni di libertà così spinte». Lunardi non cerca la ribalta, ma come ufficiale medico è un prezioso testimone della pandemia. Prima responsabile dell'unità Covid del Centro Militare Ospedaliero di Milano, poi nell'inferno di Lodi. E dal 14 aprile «on scene commander» per la Lombardia e il Piemonte orientale di 140 uomini lanciati nei focolai peggiori compreso Alzano e la Val Seriana. Il colonnello degli alpini paracadutisti non si è mai tirato indietro. In Afghanistan si era lanciato sotto il fuoco talebano per salvare i feriti di un'imboscata costata la vita a quattro alpini. Lo stesso slancio da prima linea durante la pandemia. «A febbraio e marzo era impressionante il martello che si abbatteva sui Pronto Soccorso verso le 17.30 - si legge nelle Cartoline - Giungeva il primo paziente e poi una sequela fino a notte con autoambulanze che rimanevano in fila, con il proprio malato a bordo, per attendere il momento dedicato alla consegna del carico umano, sofferente e affamato d'aria». Lunardi abituato ai fronti più ostici delle nostre missioni all'estero scrive che «quando la prima linea cade le retrovie vengono invase: di fronte alla medicina territoriale annullata dal virus e dalla burocrazia () gli ospedali s'ingolfavano fino a giungere al collasso». E arriva il momento, terribile, di adottare «a denti stretti, un triage stile militare () valutare chi è più urgente, ma anche chi potrà sopravvivere e chi no e, in base alle scelte, agire di conseguenza». Civili e militari sono tutti nella stessa trincea degli «ospedali e nelle case visitate dal Covid (dove) la morte era cadenzata da un respiro sempre più rumoroso e difficile che si spegneva, per sempre, quando i muscoli non riuscivano più a reggere lo sforzo di rubare un minimo d'aria al cielo. Era quello il momento nel quale il medico, l'infermiere l'assistente socio sanitario, il malcapitato che si trovava di fronte al letto sussurrava qualche parola tra le labbra per affidare quell'anima a Dio o al Nulla». La quotidiana guerra contro il virus è cadenzata dalle vestizioni per evitare il contagio: «Lavare le mani, vestire i calzari (un paio basta ma due è meglio), indossare primo paio di guanti, vestire camice, indossare la maschera, vestire camice monouso e mascherina chirurgica, occhiali o copri occhi (). Ora si è pronti per entrare in trincea». E con i pazienti anziani «sotto maschera o casco d'ossigeno - che guardano spaesati è impossibile non avvicinarsi prendendoli per mano e iniziare a urlare vicino al padiglione auricolare. Poi prontamente portarsi di fronte alla bocca per cogliere quel fiato lieve che dovrebbe essere risposta». Nelle Cartoline dal fronte del virus non ci sono super eroi, ma persone in camice bianco con le stellette o senza, che hanno fatto il loro dovere fino in fondo. Per questo Lunardi, al posto delle medaglie a pochi, magari ingiuste, propone che venga istituito una sorta di «Cavalierato di Codogno».

Da video.lastampa.it il 22 aprile 2020. A dare l'ultimo saluto a Nucci erano quattro parenti, quattro operatori delle onoranze funebri e il parroco della Parrocchia Salice di Fossano. «Si nasce soli e si muore soli» è il commosso sacerdote Don Mario, a descrivere questo terribile momento di sofferenza e angoscia.  E’ storia di oggi, vera, triste e terribile, di chi perde la vita ai tempi del coronavirus. E che spesso, «muore solo» per davvero.

Brindisi, marito e moglie uccisi dal Coronavirus in una settimana: stavano insieme da 82 anni. Cosima Serenelli e Crocefisso Miglietta. Avevano 93 anni erano molto conosciuti in paese, a Torchiarolo, descritti da tutti come due persone meravigliose. Lo scorso anno avevano festeggiato settant'anni di matrimonio dopo 12 anni di fidanzamento. Lucia Portolano il 26 aprile 2020 su La Repubblica. BRINDISI - Si sono amati per 82 anni e sono rimasti insieme sino alla fine. Dopo una settimana dalla morte del marito, Crocefisso Miglietta, anche Cosima Serenelli lo ha raggiunto. Si erano ammalati entrambi di Covid-19, avevano 93 anni ed erano di Torchiarolo. Crocefisso è morto il 16 aprile all'ospedale Dea di Lecce. Era stato ricoverato all'ospedale Perrino di Brindisi per altre patologie, poi tornato a casa aveva scoperto di aver contratto il virus: successivamente a  causa di alcune complicazioni è stato nuovamente portato in ospedale a Lecce, dove purtroppo non ce l'ha fatta. Nel frattempo erano risultate positive anche sua moglie e la figlia che viveva con loro e che da sempre si prendeva cura dei genitori. Dopo qualche giorno anche Cosima si è aggravata e dopo una settimana esatta ha raggiunto il suo Crocefisso, noto in paese come il Capitano. La donna è venuta a mancare il 24 aprile all'ospedale Perrino. La loro è stata una storia di amore eterno. I due erano molto conosciuti in paese, descritti da tutti come due persone meravigliose. Lo scorso anno avevano festeggiato settant'anni di matrimonio dopo 12 anni di fidanzamento. La famiglia si era riunita per la festa del loro grande amore. Sulla pagina Facebook di sua figlia Mariella è postata una delle ultime foto della coppia, dove si vede Crocefisso sul divano con Cosima che regge in mano lo striscione con l'arcobaleno con scritto: Andrà tutto bene.

Torchiarolo, marito e moglie uccisi dal Coronavirus: stavano insieme da 82 anni. La storia nel Brindisino raccontata sui social dai parenti. La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Aprile 2020. Dopo 82 anni passati insieme sono morti a distanza di una settimana l’uno dall’altro, entrambi a causa del coronavirus: è la triste storia di due anziani coniugi di Torchiarolo (Brindisi) che avevano entrambi 93 anni. La vicenda è stata raccontata dai parenti su facebook. Crocefisso Miglietta era morto il 16 aprile al Dea di Lecce. Aveva subito diversi ricoveri per altre patologie prima di essere infettato dal Covid 19. Erano poi risultate positive la moglie la figlia. La donna, Cosima Serinelli, è morta il 24 aprile all’ospedale Perrino. Erano stati insieme per una vita: prima 12 anni di fidanzamento, poi 70 di matrimonio festeggiati insieme al resto della famiglia e immortalati in una foto ricordo che sta ora facendo il giro dei social, insieme alla loro storia commovente.

Aeronautica in lutto, la tragedia di Mario morto a soli 56 anni per Covid. Redazione de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Era ricoverato all’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina. Mario Serpillo, Primo Luogotenente in servizio presso il 311° Gruppo Volo dell’Aeronautica Militare, all’aeroporto di Pratica di Mare, a Pomezia, è morto a 56 anni a causa del coronavirus. Il militare era molto conosciuto nella sua città, Aprilia, dove praticava anche teatro a livello amatoriale ed era un grande appassionato di scacchi. Si tratta della seconda vittima apriliana del Covid-19, dopo la donna di 85 anni deceduta nei giorni scorsi all’ospedale Sant’Andrea di Roma. Serpillo aveva accusato i primi sintomi della malattia a inizio marzo dopo un periodo di permanenza a Bergamo. L’uomo aveva febbre alta e tosse ed era stato in isolamento presso la propria abitazione. Le sue condizioni sono peggiorate a metà marzo, quando è stato trasferito in ambulanza all’ospedale Santa Maria Goretti. È stato uno dei primi casi di coronavirus a Aprilia, città in lutto per la sua scomparsa, dove era molto conosciuto. Cordoglio per la scomparsa del militare espresso anche da Lorenzo Guerini, ministro della Difesa: “È in questi tempi difficili che traspare inequivocabilmente il senso del dovere e la fedeltà alle istituzioni che contraddistinguono gli appartenenti alla grande famiglia della Difesa, specificità uniche, preziose e indispensabili che spingono i militari anche all’estremo sacrificio nell’adempimento del proprio dovere. Senso del dovere che l’Aeronautica Militare, che piange oggi la triste perdita in questa crisi senza precedenti, sta dimostrando ogni giorno, in prima linea, nella guerra contro un nemico invisibile”. “Il Primo Luogotenente Mario Serpillo – ha concluso ministro – ha dedicato la sua vita proprio al dovere e alle istituzioni e per questo non posso che rivolgergli un ricordo carico di gratitudine”.

Coronavirus in Lombardia, muore a 32 anni: era incinta del secondo figlio. Si chiamava Yaye Mai Diouf, era di origini senegalesi e abitava a Pontida. E' la vittima più giovane in provincia di Bergamo. Lucia Landoni su La Repubblica il 17 aprile 2020. Ieri avrebbe compiuto 32 anni e festeggiato il quarto anniversario di matrimonio, ma il coronavirus le ha impedito di vivere questa doppia gioia e di dare alla luce il figlio che portava in grembo: Yaye Mai Diouf - operaia alla Brembo di Curno, senegalese d'origine e residente da anni a Pontida - è la vittima più giovane del Covid-19 nella Bergamasca, uno dei territori più provati dall'emergenza sanitaria. Se n'è andata nella notte del 21 marzo all'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dov'era arrivata poco prima in ambulanza. "La sua è una famiglia molto conosciuta in zona e ben integrata. Conosco bene sua madre e i suoi fratelli e conoscevo lei - racconta Giovannina Piromalli, che lavora all'ufficio Servizi sociali del Comune di Pontida - Yaye Mai aveva un bambino di tre anni e la madre mi ha detto che aveva scoperto da poche settimane di essere incinta del secondo figlio. Mi ha raccontato che stava bene fino a qualche giorno prima della tragedia, ha iniziato ad avere un po' di tosse ed è arrivata la febbre. La situazione si è aggravata improvvisamente". Tutta la comunità è rimasta sconvolta dalla notizia e il marito Daouda Timera ha affidato il proprio dolore a lunghi post su Facebook: "Vivi dentro di me sempre e per sempre. A volte la vita può rivelarsi ingiusta e difficile, ma ci siamo dentro lo stesso e ce la caviamo. È grazie a te che sono quello che sono oggi, grazie per aver illuminato la mia vita - ha scritto -. Ora riposa in pace nel tuo meritato paradiso, tesoro. Sono sicuro che veglierai su di me e su nostro figlio".

La famiglia sterminata dal Covid: morti quattro fratelli in tre settimane. Alessandro Fulloni il 16/4/2020 su Il Corriere della Sera. Un’altra famiglia annientata: se ne sono andati Giovanni Battista Bigaroli, 79 anni, i gemelli Battista e Alberto, 75, e Natale, 78. Un’altra famiglia annientata, azzerata, dal Coronavirus. Nel giro di tre settimane il Covid-19 si è infatti portato via quattro dei cinque fratelli Bigaroli. Si tratta di Giovanni Battista, 79 anni, dei gemelli Battista e Alberto, 75, e di Natale, 78, i primi tre residenti a Cremosano (piccolo paesino nel Cremonese di 1.700 abitanti) mentre Natale viveva a Crema. Ora rimane solo Agnese, la più anziana della famiglia, di Trescore Cremasco, mentre molti anni fa era morta, piuttosto giovane, un’altra loro sorella.

I quattro fratelli morti a Trigolo. Una serie impressionante di lutti che annichilisce e sgomenta anche per l’analogia con ciò che, sempre da queste parti nel Cremonese, è successo alla famiglia Pedretti, nel paesino di Trigolo, 1.700 abitanti, a una ventina di chilometri da Cremosano. Anche in questo caso quattro fratelli morti. Anche in questo caso due gemelli morti. E anche in questo caso è rimasta una sola sorella. Il primo ad andarsene dei fratelli Pedretti, a metà marzo, è stato Francesco, 68 anni, agricoltore. Poi Vittore e Giuseppe, 66, elettricista uno e infermiere l’altro. Celibi, vivevano assieme in una casa accanto a quella di Paola, la sorella che ha assistito a tutti i funerali guardandoli dal balcone di casa sua, vicino al camposanto. Luigi, il quarto, 58 anni e cinque figli, si è spento martedì sera della settimana scorsa.

Tutti benvoluti, tutti in pensione. Come Trigolo, anche Cremosano è incredula, sotto choc. Qui tutti conoscevano i fratelli Bigaroli, lavoratori in pensione. Giovanni Battista aveva lavorato alla Ferriera di Crema, Alberto e Battista erano stati dipendenti dell’azienda vinicola Folonari, la ditta di Trescore che poi si era trasferita nel Cremonese; Natale era stato modellista meccanico in diverse ditte fra Milano ed il circondario. «Una tragedia — ha detto a Crema News il sindaco di Cremosano Raffaele Perrino — fra le peggiori da quando è scoppiata l’epidemia, che ci lascia sgomenti». L’analogia tra ciò che è accaduto alle famiglie Bigaroli e Pedretti è dovuta con ogni probabilità alle dolenti leggi del caso. Resta però un’osservazione che fa il direttore di Crema News Pier Giorgio Ruggeri: «Ci arriva in queste settimane una quantità impressionante di necrologi. Se Cremona è una delle città più flagellate dal Covid, questi paesi vicino a Crema lo sono ancora di più. Forse è la spiegazione per cui raccontiamo, spesso, queste storie sconvolgenti».

Festeggia compleanno e finisce in coma, paura per Tuccillo: “Forza avvocato”. Redazione de il Riformista l'1 Aprile 2020. È in coma Enrico Tuccillo. Il noto avvocato penalista napoletano è stato trasferito la scorsa notte dall’ospedale Cotugno al Loreto Mare di Napoli. È intubato, in rianimazione, a causa delle conseguenze del coronavirus che lo ha colpito. Celebre avvocato, Tuccillo ha preso parte ai processi di Tangentopoli negli anni ’90; ha difeso il cardinale Michele Giordano, accusato dalla Procura di Lagonegro di prendere parte alle attività usurarie del fratello Mario Lucio; è stato il legale di Giuseppe Rassello, sacerdote del Rione Sanità accusato di abusi sessuali. La famiglia di Tuccillo si è stretta nel riserbo. La notizia è stata data da Gennaro Montuori, conosciuto come “palummella”, storico ultras della Curva B dello Stadio San Paolo. Montuori, che con l’avvocato condivideva la passione per il calcio e anche lA partecipazione a trasmissioni televisive sullo sport, ha fatto sapere del ricovero di Tuccillo con un post su Facebook. Tuccillo aveva da poco compiuto 78 anni. Precisamente il 3 marzo. Una ricorrenza festeggiata con parenti e amici. Sulla sua pagina Facebook si vede in un video l’avvocato sorridere e sollevare il pollice la sera della festa. “Ecco come combattiamo i virus a Napoli”, commentava il penalista. Qualche giorno prima, sempre via social, Tuccillo scriveva: “Un abbraccio a tutti senza maschere e mascherine”. L’avvocato ha accusato i primi sintomi alcuni giorni dopo la festa di compleanno. Ricoverato al Cotugno, è stato intubato nel reparto Rianimazione. La notte scorsa il trasferimento presso il Loreto Mare. Numerosi i messaggi di solidarietà e vicinanza, anche sui social, per il penalista napoletano.

Si è spento nel giorno di Pasqua. Coronavirus, è morto Enrico Tuccillo, lutto tra gli avvocati napoletani. Redazione de il Riformista il 12 Aprile 2020. Non ce l’ha fatta Enrico Tuccillo, avvocato penalista tra i più noti di Napoli. Si è spento alle prime luci dell’alba, nel giorno di Pasqua, per le complicazioni dell’infezione da coronavirus. L’avvocato che difese Cristiana Sinagra, madre di Maradona Jr, nel processo per il riconoscimento della paternità da parte dell’attaccante argentino, aveva compiuto 78 anni il 3 marzo scorso, appena qualche giorno prima che l’esito del tampone confermasse la positività al virus. Inizialmente era stato ricoverato all’ospedale Cotugno ma le sue condizioni sono progressivamente peggiorate tanto da richiedere prima l’intubazione nel reparto di rianimazione poi il trasferimento in coma, ieri sera, all’ospedale Loreto Mare, il presidio Covid della città. Volto noto del tribunale napoletano, l’avvocato Tuccillo era conosciuto anche per la sua grande passione per il calcio e, in particolare, per il Napoli. Da tifoso illustre era spesso ospite come opinionista in alcune trasmissioni sportive.

Addio all’avvocato Tuccillo: salvò il cardinale Michele Giordano dalla gogna giudiziaria. Il Dubbio il 13 aprile 2020. Il noto avvocato napoletano è morto a causa del Coronavirus. Iniziò la sua ascesa con i processi di Tangentopoli. Addio all’avvocato napoletano Enrico Tuccillo sabato notte a causa del coronavirus. Il ricovero in ospedale ara arrivato dopo i primi sintomi accusati una settimana fa. Inizialmente era stato nell’ospedale Cotugno, successivamente le sue condizioni di salute si erano aggravate tanto da rendere necessaria l’intubazione. Nella scorsa notte era stato trasferito al Loreto Mare, in gravi condizioni. Celebre avvocato, Tuccillo ha preso parte ai processi di Tangentopoli negli anni ’90; ha difeso il cardinale Michele Giordano, che fu accusato dalla Procura di Lagonegro di prendere parte alle attività usurarie del fratello Mario Lucio. Ma è stato anche il legale di Giuseppe Rassello, sacerdote del Rione Sanità, accusato di abusi sessuali. Don Rassello fu accusato da un quattordicenne che frequentava la chiesa. Nel quartiere quasi nessuno credette alle accuse ma, dopo un arresto spettacolo eseguito in chiesa, don Rassello venne condannato. Gli allievi del liceo “Genovesi” dove aveva insegnato, i parrocchiani firmarono più appelli di solidarietà, la Curia lo sostenne. E molti dubbi sorsero sulle accuse. “Parroco troppo scomodo per la locale feccia politica e camorristica” scrisse Ermanno Rea nel suo ultimo libro, pubblicato postumo nel 2016, “Nostalgia”. Anche Diego Armando Maradona Junior ha voluto ricordare il noto avvocato con un messaggio sul suo profilo Instagram: “Caro avvocato mi hai sempre raccontato di aver difeso il figlio di tutti i napoletani con orgoglio e perseveranza. Oggi quel figlio orgogliosamente napoletano piange la tua scomparsa…”.“Non smetterò mai di esserti grato per quello che hai fatto per me, mi hai ridato il cognome che tanto avevo desiderato, mi hai ridato la dignità, mi hai sposato, mi hai guidato nel cammino della fede!! Ti voglio bene avvocato e non so se mai potrò ridarti tutto ciò che tu hai dato a me!! Un giorno ci rivedremo!” ha scritto il figlio del Pibe de Oro in ricordo del noto avvocato.

Coronavirus, morto brigadiere capo a Foggia: “Una persona umile e gentile”. Asia Angaroni il 14/04/2020 su Notizie.it. Risultato positivo al coronavirus, è morto al Policlinico Riuniti di Foggia il brigadiere capo Claudio Santoro. Aveva 57 anni. L’Arma dei Carabinieri piange un altro militare deceduto a causa del coronavirus: a Foggia è morto il brigadiere capo Claudio Santoro. L’uomo, 57 anni, ha lottato strenuamente contro il Covid-19, ma non ce l’ha fatta. Il sindaco ha commemorato la vittima, stringendosi al dolore della famiglia. “Ha lottato ma non ce l’ha fatta”: così è stata data la triste notizia. Claudio Santoro, il brigadiere capo originario di San Severo, è deceduto nella tarda serata di Pasquetta, lunedì 13 aprile. Il 57enne era ricoverato presso il Policlinico Riuniti di Foggia. L’uomo era in servizio presso la compagnia dell’Arma dei Carabinieri a Lucera. Il sindaco Antonio Tutolo ha commentato la morte del carabiniere, una scomparsa improvvisa e inattesa a causa del Covid-19. Su di lui ha dichiarato: “Chi lo conosceva lo apprezzava per la sua gentilezza e disponibilità”. A nome dell’intera comunità sono state espresse le condoglianze alla famiglia, all’arma dei carabinieri e alla compagnia di Lucera. Chi gli era amico commenta: “Ho avuto il piacere e l’onore di conoscerlo, una brava persona“. In molti lo ricordano come un uomo “umile e gentile”. I colleghi con commozione hanno reso omaggio a Santoro: “Una bruttissima notizia. Ci siamo conosciuti quando Claudio prestava servizio al comando stazione di Amendola. Abbiamo collaborato in servizio di vigilanza e scorte. Non ci siamo più persi di vista. Un uomo e un carabiniere apprezzato per la sua disponibilità e professionalità”.

Coronavirus, il cordoglio di Occhiuto per la morte del vigile del fuoco Bonaventura Ferri: «Ha sempre onorato la sua divisa». Il Quotidiano del Sud il 13 aprile 2020. Profondo cordoglio è stato espresso dal Sindaco Mario Occhiuto per la scomparsa, avvenuta all’Ospedale Mater Domini di Catanzaro, del vigile del fuoco cosentino Bonaventura Ferri, ricoverato da diverse settimane a causa del coronavirus. «Una notizia – ha commentato Occhiuto nel messaggio di cordoglio indirizzato ai familiari – che non avremmo mai voluto apprendere e che ci rattrista enormemente. Giungano alla moglie e alla famiglia, profondamente colpite negli affetti più cari, i sentimenti della mia più affettuosa vicinanza, insieme a quelli dell’intera comunità cosentina». «Parimenti – ha proseguito il sindaco – rivolgo un pensiero di eguale vicinanza a tutti i suoi colleghi e all’intero corpo dei vigili del fuoco, a cominciare dal Comandante provinciale». «In questo triste momento – ha concluso – mi preme ricordare le qualità umane e professionali del nostro concittadino, da sempre impegnato in prima linea nell’assolvimento del suo dovere cui si dedicava con grande impegno ed onorando la divisa in ogni istante della sua meritoria attività».

Il dramma dei Larotonda: l’effetto domino cancella famiglia lucana. Fulvio Bufi il 12/4/2020 su Il Corriere della Sera. Paolo e Giuseppe, padre e figlio, morti a distanza di pochi giorni l'uno dall'altro. Il contagio un mese fa a Parma, dove erano andati a recuperare il feretro dell'altro figlio stroncato a 26 anni da fibrosi cistica. Agli inizi di marzo, mentre l’Italia cominciava a capire che il coronavirus non era un problema soltanto di Codogno e di Vo’ Euganeo, in Basilicata il sessantaseienne Paolo Larotonda ricevette una telefonata dall’ospedale di Parma: Marco, il più giovane dei suoi figli, aveva perso la battaglia contro la fibrosi cistica, e se n’era andato ad appena 26 anni. Un lutto devastante, ma che per questa famiglia di Rapolla — paese di quattromila abitanti in provincia di Potenza — sarebbe stato solo il primo masso di una valanga che in meno di un mese e mezzo l’ha travolta portandosi via prima il figlio più grande, Pino, e poi lo stesso Paolo, e mandando in ospedale l’altra figlia. E stavolta il coronavirus c’entra eccome.

Il viaggio. Perché quella prima tragedia è stata, con tutta probabilità, per i Larotonda anche la causa del contagio da Covid 19 e della morte dell’altro figlio e del padre. Perché fu Pino, Giuseppe, 38 anni, assistente nella polizia municipale di Melfi, a incaricarsi di partire per l’Emilia e riportare in paese la bara del fratello. Con lui andò anche la sorella, e nemmeno due settimane dopo entrambi si ritrovarono ad accusare quei sintomi che ormai tutti abbiamo imparato: febbre alta, affaticamento, difficoltà respiratorie. Tampone positivo e ricovero all’ospedale San Carlo di Potenza. Prima che arrivasse quella notizia da Parma, Pino era un uomo felice perché due mesi fa era nato suo figlio. Ed era giovane, sano e bastava vederlo per capire quanto fosse anche forte fisicamente. Ma tutto questo non lo ha salvato. Come non lo hanno salvato i dieci giorni di terapia intensiva: è morto il pomeriggio del 1 aprile.

Il funerale. I media lucani si erano occupati di lui come della più giovane vittima per coronavirus della regione, e in rete c’è un video girato davanti al cimitero: la bara, con sopra un fascio di fiori, è sistemata su un carrello al centro di uno spiazzale, e intorno, ma distanti sia tra loro che dal feretro, ci sono il sindaco di Rapolla Biagio Cristoforo, con la fascia tricolore, il picchetto d’onore della polizia municipale e pochissimi altri. Un momento di lutto per tutto il paese, ma non l’ultimo. Perché dopo la morte di Pino, e mentre sua sorella dava incoraggianti segni di ripresa, ha cominciato a star male il padre. E se nella reazione al virus c’entra qualcosa anche lo stato emotivo di chi è contagiato, lui certo non aveva grandi forze da mettere in campo: due figli morti in pochi giorni annichiliscono anche un gigante, e Paolo Larotonda ha affrontato la malattia già annientato psicologicamente. Il virus, poi, gli ha distrutto il corpo, e ieri, ancora una volta nel reparto di terapia intensiva del San Carlo, se n’è andato anche lui.

La tragedia della famiglia Ravasio: Coronavirus uccide 4 fratelli e una cognata in 24 giorni. Redazione de Il Riformista il 9 Aprile 2020. A un certo punto è diventato difficile per tutti orientarsi con i numeri del coronavirus, anche se dietro i bollettini c’erano delle persone, delle storie. Come quella della famiglia Ravasio di Gazzaniga, nel bergamasco, la provincia più colpita dal coronavirus in Italia. A causa del Covid-19 sono morti infatti quattro fratelli e una cognata. Un bilancio tragico quello della storia raccontata da L’Eco di Bergamo. Sandrino Ravasio era un ristoratore piuttosto noto. Prima era stato proprietario del ristorante Il Giardino, nel centro di Gazzaniga, e poi aveva fondato il Circolo della Valle in Val Vertova. Un luogo di ritrovo dal gusto popolare, quest’ultimo, dove alle specialità tipiche della zona si accompagnava qualche volta anche il suono della fisarmonica di Sandrino. L’uomo era stato infatti campione europeo dello strumento musicale ed era sommelier professionista. Quella della ristorazione è una questione di famiglia, visto che anche il figlio di Sandrino, Fabio, gestisce un ristorante, a Cirano di Gandino, insieme con la moglie Mariangela. Lo scorso tre marzo la famiglia si era riunita per festeggiare il compleanno di Sandrino. Anche se i fratelli vivevano in diversi appartamenti della stessa casa in via Manzoni a Gazzaniga e quindi passavano quotidianamente molto tempo insieme. I Ravasio si prendevano da tempo cura l’uno dell’altro: recentemente anche Liliana, una delle sorelle, si era trasferita nello stabile dopo aver subito un intervento chirurgico. Sandrino è morto a causa del virus lo scorso 13 marzo. Nelle settimane successive, racconta lo stesso quotidiano, non ce l’hanno fatta neanche le sorelle Liliana (ex infermiera) e Celestina (volontaria del Gruppo missionario parrocchiale) e poi il fratello Virgilio (ex vigile urbano), che aveva appena perso la moglie Rosa Luponi (ex infermiera). Tutti scomparsi nel giro di 24 giorni. Un bilancio insostenibile per una famiglia, una tragedia che addolora i familiari rimasti come i figli delle vittime e Maria Vittoria, la sorella maggiore di 82 anni di Sandrino, Liliana, Celestina e Virgilio. La provincia di Bergamo è stata la più colpita dal virus. Hanno fatto il giro del mondo le immagini dei mezzi militari diretti in altre regioni per trasferire le salme delle vittime. Secondo un’indagine dell’Eco di Bergamo le morti del virus nella provincia sono state molto più numerose di quelle riportate nei dati ufficiali.

La Cura e la Pietà. Lo smarrimento degli sguardi, la fragilità dei corpi, l’impossibilità di dire Dio, di dirsi addio. La carezza che saluta chi sta lasciando la sua casa su una barella trascinata giù per le scale. Negli scatti di Bucciarelli, pubblicati in esclusiva sull'Espresso, c’è il bloccarsi sul momento del dramma, quando la vita di ogni giorno finisce. Ma anche la consolazione e il prendersi cura dell'altro. Marco Damilano il 3 aprile 2020 su L'Espresso. La Cura e la Pietà. Cosa ci porteremo dietro, tutto quello che di queste giornate non potremo dimenticare, è solo questo, è tutto qui. Lo smarrimento degli sguardi, la fragilità dei corpi, l’impossibilità di dire Dio, di dirsi addio. La carezza che saluta chi sta lasciando la sua casa su una barella trascinata giù per le scale, era il luogo sicuro, il condominio, la palazzina, con le scale da salire e scendere ogni giorno, è qui che ora ogni gesto si consuma come definitivo, con l’angoscia che sia l’ultimo. Chi ha affrontato un momento simile, chi ha veduto un genitore o una persona cara uscire di casa per andare in un ospedale in emergenza, conosce la paura non espressa perché reale e terribile, l’esplodere nel petto dell’ansia, il precipitare allucinato di ogni istante, così rapido che non te ne accorgi, così lento che sarai destinato a riviverlo mille volte. Tutto risucchiato, in un unico momento convulso. Il pigiama, le pantofole, il copriletto colorato e caldo, le foto accanto al letto con la cornice, le madonnine alle pareti, le mensole affollate di ricordi, lo specchio sul comò davanti al quale ogni giorno ti pettinavi prima di uscire e oggi invece non ci sarà neppure il tempo di dare l’ultimo sguardo, per vedere se almeno sei in ordine, mentre vai via. Lasciano così, in tantissimi, le loro case, le residenze assistite, i centri di riposo che sono una trappola. Se ne vanno come ce li mostra Fabio Bucciarelli, alcune delle sue foto sono state pubblicate dal New York Times e hanno fatto il giro del mondo, pubblichiamo sull’Espresso per la prima volta la serie integrale e inedita. Sono i frammenti di una notte nella provincia di Bergamo, sono le immagini universali che la sensibilità di un reporter straordinario ha fermato per sempre, per racchiudere tutto quello che non potremo mai dimenticare per anni e anni. Siamo in Italia, siamo nel cuore di Madrid, a Central Park a New York, siamo in Africa, in Cina, India, Messico, Brasile, e poi siamo di nuovo ad Alzano Lombardo, a Cenate Sotto, a Pradalunga, a Gazzaniga, in quelle case ci siamo tutti, tutti siamo accanto al signor Claudio, alla signora Teresina, a Maddalena, tutti condividiamo l’allarme e il rigore di Nadia Vallati della Croce Rossa. Ci siamo tutti dentro queste stanze, in quei corridoi, quella cucina, a dare quella carezza. Siamo lì dove non possiamo dimenticare di essere stati, in questo luogo del mondo, in questo tempo, in questo inizio di primavera così mite che fa male. «Ebbero il tempo di seppellire i loro morti in una tomba fraterna», ha scritto Elias Canetti. Per i nostri morti non c’è stato neppure questo tempo. Nella provincia di Bergamo sono molto di più dei dichiarati: 4500 in un mese, più del doppio dei 2000 ufficiali di covid-19. Muoiono in casa, nuovo luogo del contagio, e non ospedale. Domenica 5 aprile è per i cattolici la domenica delle Palme, in cui si fa memoria di un ingresso trionfale e del tradimento di un amico, di una condanna ingiusta, la crocifissione, l’abbandono, la solitudine di fronte alla morte. Il silenzio del cielo, il buio su tutta la terra, il velo squarciato, la fine di ogni fede, di ogni certezza. Domenica 5 aprile è anche la laica giornata universale della coscienza, proclamata dalle Nazioni Unite, per ricordare che all’articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo si afferma che tutti gli esseri umani sono dotati di ragione e di coscienza. La coscienza percorsa da mille inquietudini, ecco un’altra cosa che non potremo dimenticare di queste settimane. Si danno battaglia, nella coscienza di ciascuno e a ore alterne, oltre che nel dibattito politico, il partito di chi considera il virus come una parentesi, dopo la quale tutto dovrà tornare in fretta come prima, alla felice normalità perduta, come la Vienna dopo lo sparo di Sarajevo descritta da Karl Kraus in Gli ultimi giorni dell’umanità: «Hanno ucciso l’Arciduca? Sarà un danno enorme per i teatri, il Volkstheater era tutto esaurito... bella serata rovinata». E il partito di chi ritiene che invece il virus sarà uno spartiacque della storia, che cambierà tutto. In meglio, sostengono i cantori del tempo presente che non si fanno mai sgualcire dalla certezza di essere sempre accomodati nella piega giusta della storia, sempre seduti al tavolo d’onore della festa. Quel che si vede in questi giorni di riflessioni su quello che avverrà dopo, in realtà, è che l’unità vacilla per cedere il passo alla frammentazione. L’emergenza si fa burocrazia che indica ai cittadini i metri da percorrere, la compagnia di un bambino o di un cane, in un florilegio di disposizioni, decreti, interpretazioni, spesso in contrasto tra loro. L’Inps litiga con i cittadini, le regioni litigano con lo Stato centrale, l’Italia litiga con gli altri paesi europei, in Ungheria e non solo i nazionalisti ne approfittano per chiudere la democrazia. Il virus distanzia, disgrega e ancor più lo farà dopo la decisione del governo di prorogare il lockdown. Sarà necessario ragionare caso per caso, regione per regione e città per città, per evitare lo spettacolo di un pezzo di paese che già si spacca sul dopo mentre un altro pezzo ancora lotta per sopravvivere e la maggior parte dei cittadini teme per la prima volta da generazioni la povertà, la mancanza di futuro, la rabbia. Servirà una leadership diffusa in grado di compiere scelte e distinzioni, in una strategia comune, più che appiattire tutto in una sola parola d’ordine, come è stato necessario fino ad oggi. E considerare il corpo del Paese, la sua ossatura, il suo sistema nervoso, la sua tenuta democratica, vulnerabile e fragile come il corpo di una persona quando sta scendendo il livello dell’ossigeno. Quando c’è bisogno di aria, di respiro, di cura. La Cura e la Pietà. Negli scatti di Fabio Bucciarelli c’è il bloccarsi sul momento del dramma, quando la vita di ogni giorno finisce. E c’è la consolazione, il prendersi cura, Teresina sollevata come una bambina dal suo letto, la delicatezza dei soccoritori. È tutto quel che ci porteremo dietro, in questo buio su tutta la terra, in questa notte, in questo dolore. E ce lo mettiamo in un angolo di cuore, lo portiamo con noi questo abbraccio di tutti, questo affidarsi, per ricordarlo quando arriverà il dopo, per non dimenticarlo più, questo istante di povera, consumata, disperata fraternità.

Papà muore da solo in ospedale per Covid, il medico scrive alla figlia: “L’ho abbracciato al posto tuo”. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. “Il papà l’ho abbracciato io al posto suo prima che lo portassero dal pronto soccorso alle cure palliative. Non potevo mandarlo su così. A lui ho detto che lo ricoveravamo, volevo non si accorgesse di niente. Gli abbiamo dato tutto l’ossigeno del mondo fino alla fine”. Così in una lettera scrive il medico di un paziente di 84 anni morto di coronavirus all’ospedale di Crema. Oltre al dramma di perdere le persone care, i familiari dei malati da covid 19 devono anche affrontare il triste peso di non essere lì accanto a loro in tutto il periodo di ricovero e/o quando sono sul punto di morte. Per questo un medico che si è occupato dell’84enne ha voluto scrivere un messaggio alla famiglia del paziente, la cui portavoce è stata la figlia Francesca che ha raccontato la storia all’Ansa. La donna ha voluto riportare la sua esperienza soprattutto per spiegare l’importante lavoro che medici ed infermieri stanno svolgendo in queste settimane d’emergenza donando non soltanto la loro conoscenza medica ma anche tutta l’umanità possibile. “Non ci si può dimenticare di questi medici e infermieri. Sono riusciti a fare in modo, tenendo il cellulare vicino al suo orecchio, che io e mio figlio, il suo unico nipote, lo potessimo salutare per l’ultima volta”, spiega Francesca nell’intervista. “Questa è la prova del grande regalo che mi ha fatto sostituendosi a me”.

LA LETTERA – Ogni giorno siamo aggiornati attraverso il bollettino sulla situazione dei contagiati, dei guariti e dei morti quasi come se attendessimo un segnale di speranza nel vedere calare quei numeri. Ma dietro i dati ci sono storie e persone che hanno bisogno di umanità, in un momento così delicato. Il personale sanitario diventa così una vera e propria famiglia, in quanto ultime persone che i pazienti vedono prima di andarsene per sempre. Per questo, la testimonianza di Francesca permette di avvicinarsi ancor di più a quel lato umano non soltanto di medici e infermieri, ma anche delle persone che vivono questa situazione non potendo salutare i loro cari. Questa la lettera del medico: “Volevo dirle che abbiamo fatto tutto il possibile. Ieri quando le ho comunicato per telefono che lo stavamo trasferendo all’hospice mi sono sentito morire dentro un po’anche io. Mi ero affezionato. Era un brav’uomo. Sempre gentile. Mi salgono ancora le lacrime agli occhi – prosegue – pensando a come teneva stretto il cellulare grazie al quale si sentiva vicino a voi tutti. Ho provato a dargli tutte le chances di questo mondo. Mi spiace terribilmente di non esser riuscito a salvarlo. Voglio dirle che non ha sofferto per niente. Me ne sono assicurato personalmente. Il papà  l’ho abbracciato io al posto suo prima che lo portassero dal pronto soccorso alle cure palliative. Non potevo mandarlo su così. A lui ho detto che lo ricoveravamo (dal pronto soccorso in reparto, ndr.), volevo non si accorgesse di niente. Gli abbiamo dato tutto l’ossigeno del mondo fino alla fine. Glielo garantisco io. (…) Si faccia forza signora e come si dice a Milano, ‘su de carengià. E’ un momento terribile per tutti, lo è per noi medici, che spesso dobbiamo arrenderci, non oso immaginare per voi”.

 "Le ho tenuto la mano..." Il gesto dell'infermiera per l'anziana moribonda. Ha voluto restarle accanto durante gli ultimi istanti di vita. Non voleva che morisse da sola. Valentina Dardari, Lunedì 06/04/2020 su Il Giornale. Il coronavirus spesso regala testimonianze, racconti che aprono il cuore. In queste settimane di morte e disperazione c’è spazio per lacrime e sorrisi di tenerezza. Come per esempio quelli che nascono spontanei ascoltando una operatrice del 118 che ha voluto essere vicino, fino all’ultimo istante di vita, ad Albertina, una anziana signora del Veronese.

Due angeli al suo fianco. Come ha riportato dal Corriere, Marina Vanzetta, 55 anni, coordinatrice infermieristica del reparto di Otorinolaringoiatria all’ospedale di Negrar, in provincia di Verona, e infermiera delle ambulanze del 118, ha spiegato: “L’ho accarezzata, le ho tenuto la mano, le ho sistemato una ciocca dei suoi capelli bianchi e sottili. Insomma: l’ho accompagnata fino alla morte. Ho fatto quello che avrebbe fatto una figlia”. Anche se non era sua figlia, né una parente della donna. Ma si è accorta che ormai stava morendo e non ci ha pensato due volte, ha avvertito la centrale e le è rimasta accanto. In due, la Vanzetta e la sua collega, Cristina, guidatrice dell’ambulanza, si sono messe ai due lati del letto, come due angeli. E hanno aspettato che il cuore della signora 89enne smettesse di battere nel suo letto, nella Casa Maria Gasparini, la residenza per anziani di Villa Bartolomeo, in provincia di Verona. Dalla Ras hanno chiamato l’ambulanza e sono arrivate Marina, Cristina e un medico. Subito hanno capito che l’anziana stava morendo e la corsa in ospedale sarebbe stata inutile. Sarebbe probabilmente morta in un letto da sola, senza nessuno al suo fianco, nessuno che le tenesse la mano per accompagnarla nell’ultimo viaggio. In quel momento hanno preso la decisione: “Ci siamo detti che non l’avremmo lasciata morire da sola. Io e la collega siamo rimaste con lei, il medico era fuori dalla stanza a parlare con l’ospedale. È morta un’ora dopo ma se anche avesse respirato per più tempo io sarei stata lì. Ho pensato a tutte le persone che ogni giorno muoiono sole e lontano dalle famiglie. Non volevo che capitasse anche a lei”.

Troppo alto il rischio di contrarre il coronavirus. La figlia della donna, raggiunta telefonicamente, è stata informata che la madre non sarebbe morta sola. Un piccolo sollievo. Almeno quello. Le operatrici sanitarie della casa di cura erano in corridoio spaventate e stanche, provate da settimane durissime anche per loro. Una cinquantina gli ospiti della struttura risultati positivi al coronavirus, su 70 in totale. Otto giorni prima l’anziana era risultata negativa al tampone, ma nei giorni seguenti può averlo contratto. Almeno quel giorno la solitudine è stata sconfitta. In un momento in cui anche chi viene operato deve affrontare tutto da solo, sia il ricovero, che l’operazione e la degenza. Senza parenti e amici. Troppo alto il rischio di contrarre il Covid-19 in ospedale. Anziani lasciati nelle loro camere in case di cure dove figli e nipoti non possono entrare, chissà fino a quando. La signora Albertina ha ricordato a Marina la sua nonna, colei grazie alla quale aveva scelto di diventare infermiera. La 55enne ha solo un rimpianto: “Mi è solo spiaciuto non aver potuto togliere i guanti mentre l’accarezzavo o le tenevo la mano. Lei ha mai provato una carezza da una mano guantata? Non è la stessa cosa, è un contatto diverso, più freddo. Però a me piace pensare che lei abbia sentito lo stesso il calore umano che volevo trasmetterle”.

Il dramma dei figli di un malato Covid: “Ciao papà, hai lottato ma con noi accanto ce l’avresti fatta”. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. “Ciao papà, hai lottato come un guerriero ma il tuo corpo non rispondeva più. Ti mancava troppo la tua famiglia per riuscire a farcela da solo. Nelle ultime videochiamate eri sempre emozionato e ci chiedevi con un filo di voce quando saresti tornato a casa, la tua famiglia ti avrebbe dato la forza di reagire ma purtroppo questo è stato un incubo”. Così scrive Lori con un post sui social, una figlia che ha perso suo padre a causa del coronavirus. Infatti all’emergenza coronavirus si aggiunge quella derivata dalla morte delle persone care e il non poter fare nulla a livello fisico e umano per dare loro un ultimo saluto. Sono molte le testimonianze che si accodano a quella di Lori raccolte attraverso la rete, i social e altri canali di comunicazione che vedono famiglie preoccupate per i loro cari ricoverati in ospedale o sofferenti per aver contratto il covid-19 ma impotenti di fronte all’impossibilità di essere lì con loro. Per motivi di sicurezza e precauzione, come ormai da settimane indicano i provvedimenti del governo, non è possibile fare visita ai propri familiari nè è possibile riuscire a dare loro un funerale. Questo per molte famiglie sta diventando un vero e proprio dramma, non potendo alleviare le agonie di chi è costretto a stare molto giorni intubato o in terapia intensiva. La solitudine dei pazienti da covid-19 è spesso sottovalutata, ma è uno dei temi umani e umanitari che sta emergendo in questa situazione. Per questo molto spesso i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario sono considerati come degli ‘angeli’ che accompagnano nel loro ultimo viaggio papà, madri, nonni, nonne, zii e zie diventando le ultime persone con cui hanno un contatto.

LA STORIA – Lori è di Bergamo, una delle città più colpite dalla pandemia tanto che le salme viaggiano fuori regione per poter trovare un posto dove essere accolte. I forni crematori della città lombarda sono pieni e così oltre a non aver potuto salutare per un’ultima volta i loro cari, i familiari vedono i loro parenti andare altrove. Lori racconta che il padre è morto il 4 aprile dopo 30 giorni, una “vera devastazione” dopo 20 giorni di intubazione. Sembrava che togliendosi il casco con la mascherina poteva farcela e invece ha perso la battaglia. Lori ha voluto lasciare un messaggio sui social soprattutto per ricordare la sua vicinanza ad ogni famiglia che ha perso i suoi cari soli nella disperazione e nella sofferenza degli ultimi momenti. “Ciao papà, sei stato sempre un guerriero, un padre, un nonno e un marito esemplare. Adesso riposa in pace”.

 “Sono stata fortunata, mia madre è morta di tumore” le parole di Silvia per chi perde un caro per il Covid-19. Redazione de Il Riformista il 5 Aprile 2020. È forse solo il dramma della separazione a superare la tragedia della morte. La impossibilità di dare l’ultimo saluto ai propri cari. Perché il coronavirus non permette di celebrare i funerali e quindi di compiere la funzione che, come hanno scritto editorialisti e psicologi, gioca una parte fondamentale nell’elaborazione del lutto. Il Covid-19 non permette neanche di poter accudire nelle ultime ore i propri cari. E sono stati molti i racconti di infermieri e personale sanitario che hanno fatto sapere come l’ultimo saluto sia stato in molte occasioni concesso attraverso una videochiamata. È a tutto questo che si riferisce Silvia, che in un suo post sui social ha voluto esprimere la propria solidarietà e vicinanza a chi, a causa delle ripercussioni del coronavirus, ha perso un familiare, un congiunto, un caro. “Domani è il primo anniversario della morte della mia adorata mamma – ha scritto – Un brutto tumore in qualche mese se l’è portata via. Da quando è esplosa la pandemia del Covid-19 non faccio altro che pensare che, nella tragedia, io e mia sorella abbiamo avuto l’immensa fortuna di poterla accudire e coccolare fino all’ ultimo, supportate da medici meravigliosi e da amici veramente impagabili. Mia madre – continua il post – è spirata a casa sua serenamente tra le nostre carezze. I vostri cari no, non hanno avuto nulla del genere, non voglio immaginare la vostra disperazione nel non potergli stare vicino e accudirli. Per me questo pensiero è diventato un chiodo fisso. Scusate se magari sono off topic ma volevo esprimervi la più profonda vicinanza. Con il cuore vi abbraccio tutti”.

Alberto Vito: “Paura e solitudine dei pazienti: ossessionati dalla morte”. Bruno Buonanno de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Lo stress da Coronavirus entra nel nostro cervello provocando reazioni sulle quali gli psicologi lavorano intensamente. La quarantena rappresenta una misura restrittiva che fa schizzare in alto la nostra ansia. “Provoca fantasie catastrofiche e un’ipocondria che molti non riescono a controllare. Ossia una forte paura della malattia che aumenta ancora di più se un soggetto, sanissimo, ha un banale colpo di tosse”, spiega Alberto Vito (nella foto, ndr), psicologo e psicoterapeuta familiare che nell’Azienda dei Colli (quella che comprende gli ospedali Cotugno, Monaldi e Cto) dirige l’unità semplice dipartimentale di Psicologia clinica. “In azienda siamo otto, ognuno con una diversa tipologia contrattuale perché abbiamo anche borsisti e colleghi con contratti a progetto o a termine”, spiega lo specialista.  Aumentano i contagi, sale costantemente il numero dei ricoverati che riempiono le terapie intensive e i reparti di degenza dei tre ospedali dell’Azienda dei Colli. Paura per la malattia, speranza di superare un momento–no vissuto in assoluta solitudine. “Ai ricoverati manca il contatto con parenti e amici – ricorda Vito – Vivono una situazione di isolamento reale che attiva un enorme sconforto. In ospedale è vietato l’accesso agli estranei: è un divieto opportuno perché limita le possibilità di contagio, ma per i pazienti rappresenta quasi un castigo. Questo rappresenta un freno per la nostra attività che richiede un rapporto diretto e personale con chi è ricoverato. Oggi il nostro lavoro è modificato dalle regole imposte dalla pandemia, norme necessarie, ma che limitano i contatti con i ricoverati”. Cosa vuol dire? Una persona positiva al Covid-19 è isolata dalla famiglia e dagli amici. Che tipo di aiuto può avere dagli psicologi? “Molti contatti sono soprattutto di sostegno telefonico per aiutare quelle persone a esternare ansie, speranze, preoccupazioni. C’è chi attiva le difese personali e sfoga la propria paura piangendo. Reazione naturale e corretta, altri hanno invece un senso di onnipotenza si considerano più forti della malattia dimostrando in questo modo superficialità. Cose che ci raccontano con gli smartphone”. Ascoltando il dottore Vito si ha la sensazione che, all’interno di un ospedale, un paziente positivo al Coronavirus sia solo e abbandonato. “Assolutamente no – chiarisce lo psicologo – Se un ricoverato ha l’ossigeno per problemi respiratori, medici, virologi, infermieri e gli altri membri del personale sanitario gli prestano le cure lo aiutano a superare la solitudine con uno sguardo o con una carezza. Ogni collega regala fiducia a chi è ricoverato parlando e tenendolo per mano. È un sostegno importante. Purtroppo per noi psicologi le regole dell’isolamento sono rigide: lavoriamo per ridurre lo stress dei parenti di chi è ricoverato, ma soprattutto ci preoccupa quello del personale sanitario che ha paura di contagiare i propri cari. In ospedale l’isolamento obbligatorio frena il sostegno psicologico, ma sappiamo che ce ne sarà molto più bisogno quando sarà finita la pandemia”.

  Da ilfattoquotidiano.it il 3 aprile 2020. “Ho sperato nell’impossibile, ho creduto fino all’ultimo che fossi l’unico in grado di scampare a quella maledetta figura oscura con la falce in mano. Mi sbagliavo. La morte piano piano prende tutti, non capisco perchè debba prendere sempre prima del dovuto tutti quelli a cui tengo”. Inizia così il toccante messaggio pubblicato su Instagram da Fabio Rovazzi per annunciare la morte del nonno a causa del coronavirus. Il cantante condivide alcuni scatti della sua infanzia, che li ritraggono insieme, e sfoga la sua rabbia e il suo dolore per questo virus che si è portato via quel nonno che per lui è stato come un padre. “Ho fatto il possibile, l’impossibile e l’impensabile…. ma alla fine questo maledetto virus ti è venuto a bussare alla porta. E fidati quando ti dico che non te lo meritavi – scrive Rovazzi nel lungo post – . Con te ho passato gran parte della mia infanzia e credo che tutto quello che sono oggi per la stragrande maggioranza lo devo a te. Sei l’uomo che mi ha insegnato tutto. Mi hai insegnato che la fortuna non esiste. Mi hai insegnato che la tenacia e la forza di volontà sono alla base di tutto”. “Sei partito da gommista e sei volato in Argentina diventando dirigente di una delle più grosse multinazionali del mondo. Sei sempre stato il mio esempio di vita e lo sarai sempre nonostante l’assenza di quest’ultima – ha iniziato a ricordare Rovazzi, rimasto orfano di padre anni addietro – . Dentro di me sapevo che prima o poi questo giorno sarebbe arrivato ma… scusami non riuscirò mai ad abituarmi a queste cose. Ogni volta che succede una parte di me crolla e un altra diventa più forte perchè sa che dovrà andare avanti sempre più sola. Ne hai passate tante negli ultimi anni, ti ho visto sparire a poco a poco nella nebbia e nell’ultimo periodo sono venuto a trovare solo il tuo ricordo… – ha rivelato, lasciando intendere che il nonno fosse malato da tempo – .Tramandare i ricordi è stato fondamentale per te: penso che tu sia l’unico nonno al mondo che in eredità mi ha lasciato terabyte di video storici di famiglia, con annesse lettere e spiegazioni di ogni situazione”. “Hai sempre filmato tutto, chissà da chi ho preso la passione per i video – ha concluso Rovazzi – . Sei sempre stato orgoglioso di me, ma non ti sei mai reso conto che quello che sono diventato è solo grazie a te. Grazie di cuore, sei stato il miglior nonno che si possa desiderare”.

Francesca Angeleri per corriere.it il 3 aprile 2020. Fiordaliso ha iniziato la mattinata di giovedi postando sui suoi social un cuore con i colori dell’Italia e dentro la sagoma del nostro stivale. Nel testo, però, c’era tutta la sua sofferenza. Infatti, termina con: «Vaff… Coronavirus». La cantante, il cui vero nome è Marina Fiordaliso, scrive di aver perso la sua cara mamma proprio a causa del Covid-19. L’artista 64 enne, che recentemente abbiamo visto impegnata nella pièce teatrale tratta dal film premio Oscar «Sul lago dorato» insieme a Corinne Clery e Gianfranco D’Angelo, è originaria di Piacenza. L’Emilia Romagna è, tra le regioni italiane, una delle prime a essere stata ferita dall’incubo del Coronavirus e anche una con il più alto numero di vittime. Con la mamma Carla, l’artista aveva un rapporto stretto e complice, come avevano dimostrato partecipando insieme a «Bake Off Italia-Celebrity Edition» nel 2017. La cantante dall’animo sempre rock è la prima di sei figli. Dall’inizio dell’incubo virus del che ha sconvolto il mondo intero, aveva da subito iniziato a fare post su Instagram per sensibilizzare i suoi fan in merito all’emergenza. L’ultimo risaliva al 12 marzo. Poi quello di oggi in cui svela di essersi ammalata anche lei: «Ti sei portato via la mia mamma. Io mi sono ammalata (ora guarita), mia sorella ammalata ((ora guarita). Ma la roccia (mio padre) ti ha sconfitto. È guarito. Vaff Coronavirus». Le condoglianze stanno arrivando in moltissime da parte dei suoi follower e colleghi.

Coronavirus, morto poliziotto della scorta del premier Conte. Le Iene News il 4 aprile 2020. È morto Giorgio Guastamacchia, commissario della Polizia di Stato assegnato alla scorta del premier Giuseppe Conte. Era positivo al coronavirus: 52 anni, lascia la moglie e due figli. È morto Giorgio Guastamacchia, il sostituto commissario della Polizia di Stato assegnato alla scorta del presidente del consiglio Giuseppe Conte. Guastamacchia da alcune settimane era ricoverato al policlinico di Tor Vergata a Roma dopo essere risultato positivo al coronavirus. Il poliziotto si era ammalato a metà marzo di polmonite che si è aggravata fino al decesso di oggi. Nelle settimane precedenti il suo ricovero non aveva avuto contatti diretti con Conte, né aveva viaggiato sull'auto del premier. Guastamacchia, 52 anni, lascia la moglie e due figli. Anche il Capo della Polizia ha espresso sentimenti di cordoglio e di vicinanza ai familiari attorno ai quali si stringe la Polizia di Stato. "Per tutti noi che l’abbiamo conosciuto, per i colleghi del servizio di protezione, per i dipendenti della Presidenza del Consiglio, è un momento di grande dolore", ha detto Conte. "Ci stringiamo alla signora Emanuela, ai suoi figli e ai suoi cari, per esprimere loro i nostri sentimenti di commossa vicinanza. Rimarrà in me indelebile il ricordo della sua dedizione professionale, dei suoi gesti generosi, dei suoi sorrisi ravvivati da un chiaro filo di ironia".

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 4 aprile 2020. L’agente di polizia della scorta del presidente del Consiglio Giuseppe Conte che era stato ricoverato 12 giorni fa a Roma dopo aver contratto il coronavirus è morto al Policlinico di Tor Vergata. Giorgio Guastamacchia, 52 anni, era Sostituto Commissario della Polizia, ed era in servizio presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Lascia 2 figli e la moglie. Dopo essere risultato positivo, era stato ricoverato: le sue condizioni erano risultate però da subito estremamente gravi, ed era stato intubato e portato in terapia intensiva. «Abbiamo seguito con fedeltà le linee guida scientifiche adottate per il trattamento della Covid 19, fino al grado più elevato ricorrendo al trattamento extra corporeo — Ecmo — per tentare fino all’ultimo di recuperarlo», hanno spiegato i medici. Il presidente del Consiglio aveva eseguito il tampone, risultando negativo: l’agente e il premier non erano entrati in contatto diretto nelle due settimane precedenti l’accertamento della positività del poliziotto. «Per tutti noi che l’abbiamo conosciuto, per i colleghi del servizio di protezione, per i dipendenti della Presidenza del Consiglio, è un momento di grande dolore», ha scritto il presidente del Consiglio su Facebook. «Ci stringiamo alla signora Emanuela, ai suoi figli e ai suoi cari, per esprimere loro i nostri sentimenti di commossa vicinanza. Rimarrà in me indelebile il ricordo della sua dedizione professionale, dei suoi gesti generosi, dei suoi sorrisi ravvivati da un chiaro filo di ironia». Il capo della Polizia Franco Gabrielli ha espresso sentimenti di cordoglio e di vicinanza ai familiari attorno ai quali si stringe la grande famiglia della Polizia di Stato. «Ricordo Giorgio Guastamacchia, poliziotto esemplare, vittima del Covid-19 e mi unisco al dolore della sua famiglia e dei colleghi del sevizio scorte», ha scritto su Twitter il commissario europeo all’Economia ed ex premier Paolo Gentiloni. «Ho iniziato a conoscere il mondo delle scorte da quando sono ministro», ha detto il titolare degli Esteri Luigi Di Maio. «Sono uomini e donne con cui condividi gran parte della tua giornata e con cui entri in simbiosi. Con il passare del tempo inizi a conoscere le loro famiglie, i loro figli e alla fine condividi con loro un pezzo della tua vita, dei tuoi umori e delle tue preoccupazioni. Sono sicuramente le persone che passano con noi più tempo di tutti gli altri, padri e madri di famiglia che fanno il loro lavoro ogni giorno prendendosi rischi per proteggere lo Stato. Al sostituto commissario Guastamacchia va il mio grazie e un grande abbraccio alla sua famiglia». «Esprimo il mio profondo cordoglio per la scomparsa di Giorgio Guastamacchia», ha detto Pierpaolo Sileri, viceministro della Salute. «Ogni giorno subiamo perdite di vite umane che lasciano una profonda ferita di dolore. Un dolore che possiamo lenire scoprendoci comunità, e soprattutto consapevoli che seguendo con responsabilità le impegnative regole che ci siamo dati, salveremo molte vite».

Tommaso Ciriaco per ''la Repubblica'' il 6 aprile 2020. Era il “senior” della scorta di Giuseppe Conte, Giorgio Guastamacchia. Gli agenti più giovani lo chiamavano “dottore”. Sarà per quella passione per le tecniche di protezione che conosceva a perfezione, seguendo il modello del Secret service. Perché aveva studiato e conosciuto quel mondo, le strategie militari e dei servizi di sicurezza, e gli piaceva condividere quel bagaglio con i colleghi. Sarà perché leggeva parecchio e si teneva costantemente informato. Tecnicamente era vicecapo, secondo solo ai due “fox” che gestiscono l’apparato di protezione del Presidente del Consiglio. Ma era qualcosa in più, a Palazzo Chigi: era la memoria e l’esperienza del gruppo che protegge il capo del governo. E adesso quel gruppo e il premier sono sotto choc. Sedeva sull’auto che affianca quella su cui è a bordo Conte. Ed è stato questo dettaglio a far ritenere fin da subito che difficilmente avrebbe potuto contagiare il premier, una volta accertato con il tampone che si trattava di coronavirus. La sua figura occupava lo spazio. Guastamacchia portava in giro per il mondo qualche chilo di troppo, ma era comunque un poliziotto di 51 anni sportivo, allenato, in salute. Romano, viveva nel quartiere di Spinaceto. In passato aveva praticato anche le arti marziali, ma era quanto di più lontano da quel prototipo: era discreto, quasi taciturno, autorevole tra i suoi, eppure gentile. “Per bene”, dicono tutti, “riservato, ma un pezzo di pane”. Conte ricordandolo, lo descrive così: “E’ un momento di grande dolore. Rimarrà in me indelebile il ricordo della sua dedizione professionale, dei suoi gesti generosi, dei suoi sorrisi ravvivati da un chiaro filo d’ironia”. Girava come una trottola, come tutti gli agenti dei servizi di protezione. E chi fa parte della delegazione ricorda adesso che una volta dismessa quella giacca un po’ larga, messa via la cravatta, indossava una felpa e le snickers per una passeggiata tra le vie deserte di una delle capitali del mondo. Ne aveva viste tante, tantissime. Perché dalla sua postazione di Palazzo Chigi aveva attraversato cinque governi e quattro presidenti del Consiglio: Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Conte, nella versione gialloverde e in quella giallorossa. Sei anni in tutto, quasi sette, finché non ci ha pensato il maledetto coronavirus a fermarlo. E tutti lo hanno voluto ricordare, oggi, appena la notizia si è diffusa. Conte ha deciso di tenersi informato quotidianamente sulle condizioni dell’agente della sua scorta. Un vero calvario: le prime gravi crisi respiratorie, poi il supporto delle macchine per la ventilazione. La fase critica, a un certo punto, sembrava superata, perché il vicecapo scorta rispondeva alle cure. Finché non è sopraggiunta una complicanza, un’infezione che l’ha ucciso.  Lascia una moglie e due figli ormai maggiorenni.

Salvatore Garzillo per fanpage.it il 6 aprile 2020. “Giorgio era innanzitutto un uomo con la U maiuscola e un poliziotto a 360 gradi. Una persona squisita, di sani principi. Sarà impossibile dimenticarlo”. A parlare è Loris Pessina, collega dai tempi in cui il presidente del Consiglio era Matteo Renzi e che da allora ha diviso con Giorgio Guastamacchia la tutela di Gentiloni e oggi di Giuseppe Conte. L'agente di polizia è morto oggi, ucciso dal coronavirus. “Giorgio era molto corretto, leale, un uomo dedito al lavoro in maniera pazzesca. E anche alla famiglia, chiaramente. Uno che quando si metteva un’idea in testa la portava avanti fino in fondo. Certo, era un tipo particolare, e per questo ci siamo anche scontrati qualche volta. Ma sempre con rispetto reciproco”. L’ultima volta che hanno parlato è stato il 10 marzo, un paio di giorni dopo Guastamacchia ha manifestato i sintomi del Covid-19 ed è stato ricoverato al Policlinico di Tor Vergata. “Lo hanno intubato quasi subito, non abbiamo avuto più modo di sentirci – continua Pessina, che ha preso lo stesso grado di sostituto commissario un mese dopo l’amico – Nella chat di gruppo con gli altri colleghi abbiamo vissuto con grande apprensione l’evolversi delle sue condizioni, anche il presidente Conte si è interessato e veniva informato quotidianamente sul quadro clinico. Il premier è molto attento ai suoi uomini, glielo riconoscono tutti. In ogni caso erano settimane che non entrava in contatto con lui, quindi non ci sono rischi di contagio”. Poi, gli ultimi 5 giorni, le condizioni di Guastamacchia sono precipitate. “È un grande dolore, forse lo è ancora di più perché solo 10 mesi fa è scomparso un altro caro amico e collega delle scorte, Paolo. Anche Giorgio aveva sofferto molto per la sua morte. È pazzesco pensare che non c’è più neppure lui. Giorgio riempiva le giornate a tutti. Ricordo che gli piaceva moltissimo ballare i latinoamericani e che era una buona forchetta, sempre pronto a mangiar bene. Era anche un intenditore di vino (ride, ndr). Sul lavoro, poi, non c’è nulla da dire: parlava più lingue, era uno stimato istruttore degli altri agenti di scorta, aveva un’ottima mira. Mi ripeto, era un poliziotto completo. Non a caso sono in tanti a tributargli i giusti onori”.

Camilla Mozzetti per ''Il Messaggero'' il 6 aprile 2020. L'aveva conquistata con la gentilezza e con la premura. Con quei tratti caratteriali che Giorgio Guastamacchia, sostituto commissario della Polizia di Stato, non risparmiava mai neanche nel suo lavoro. Attento da anni alla sicurezza degli altri in qualità di agente di scorta di tanti presidenti del Consiglio, compreso l'attuale premier Giuseppe Conte. «Il Covid-19 ce l'ha portato via - dice la moglie Emanuela - ma non rimpiango nulla. Vivere con lui è stato il regalo più grande che la vita potesse farmi». Avrebbe compiuto 52 anni il prossimo agosto questo «gigante buono» che «si prendeva cura degli altri con la stessa passione che riservava agli affetti più cari».

Signora Guastamacchia quando avete scoperto che suo marito si era ammalato?

«Sono arrivati i classici sintomi di questo virus, per un paio di giorni Giorgio ha avuto un po' di mal di gola poi la tosse. La febbre è comparsa il quarto giorno e non andava via nonostante il paracetamolo. È stato ricoverato la sera del 18 marzo prima all'ospedale Sant'Eugenio e poi è stato trasferito a Tor Vergata dove è scomparso questa mattina (ieri ndr)».

Aveva delle patologie pregresse?

«No o almeno nulla che fosse stato diagnosticato».

Lei come sta?

«A me, ai ragazzi (il sostituto commissario lascia anche due figli ndr) e a mia suocera hanno fatto il tampone e siamo tutti negativi ma fin dalla comparsa dei primi sintomi abbiamo osservato anche in casa tutte le misure di precauzione e credo che questo ci abbia salvati».

Siete riusciti a ricostruire la catena del contagio?

«No, lo può aver preso ovunque anche al bar. I medici hanno fatto di tutto. A loro va il mio più grande ringraziamento perché non si sono risparmiati con Giorgio come con nessun altro paziente».

Dalla sera del primo ricovero l'ha più visto?

«L'ho salutato sulla porta di casa quella sera e da allora non l'ho più visto. Giorgio sapeva che era una cosa seria ma era rimasto sereno, non ci voleva spaventare. Pensi che la mattina dopo mi ha mandato una foto con l'immagine del tè che gli avevano portato e il messaggio oggi colazione a letto questo per farle capire che persona era mio marito».

Sono arrivati tanti messaggi di cordoglio. Che uomo era suo marito?

«Giorgio aveva un gran cuore e non lo dico perché sono la moglie. Era in polizia da trent'anni. Ci era entrato da ragazzo con una vera passione che non si è mai scalfita. Era profondamente innamorato del suo lavoro, per un po' è stato anche nell'Antimafia ha fatto un bel percorso con la forza di fare sempre il suo dovere. Ma al contempo non ne ha mai fatto un vanto perché era anche una persona profondamente discreta, riservata con un'intelligenza vivace. Si è laureato mentre lavorava in Sociologia e Giurisprudenza. Non capivo come ci fosse riuscito, dove trovava il tempo. Era uno di quegli uomini che capiscono al volo le situazioni e sanno leggere oltre. Anche in famiglia era così: semplice e ironico, sempre presente».

Come vi siete conosciuti?

«Nella seconda parte della vita, tramite amici. Per noi è stata una seconda occasione. Ci siamo sposati nel 2016 con rito civile. Mi ha conquistato con la sua testa e poi con il modo con cui mi ha amato: tenero e sornione ma anche sagace. Aveva sempre un pensiero, in qualunque posto andasse per lavoro non tornava mai senza un regalo».

In questo momento non potrete celebrare il funerale.

«Faremo sicuramente una funzione in sua memoria quando sarà possibile. Non l'ho più visto da quella sera in cui è salito sull'autoambulanza: questa è la parte più tragica. Sono vicina in questo momento a tutti quelli che hanno perso i propri cari. Non li vedi più, non puoi neanche accarezzare una bara. Ma al contempo mi sento anche di dire che se veramente gli altri non vogliono provare quello che stiamo provando noi adesso, stare chiusi in casa è l'unica soluzione. So che è difficile e penso a tante situazioni drammatiche: donne costrette a vivere, ad esempio, con compagni o mariti violenti, ma rispettare veramente le regole è l'unico modo per salvarsi. Sembra estremo lo so, ma noi in famiglia lo abbiamo fatto e siamo qui».

Cosa resterà di questa pandemia quando potremo tornare alla normalità, alle nostre vite di sempre?

«Io spero che ci sia un cambiamento nei rapporti con e tra le persone. Queste sono le situazioni in cui ti rendi conto che tante cose le puoi lasciare andare perché sono futili. Perché poi non avrai più la possibilità di poter rimediare. Spero molto nella nostra umanità».

Coronavirus, morta la madre dell’ex ministro dell’Ambente Galletti. Jacopo Bongini il 31/03/2020 su Notizie.it. Positiva al coronavirus, è morta a 91 anni la madre di Gian Luca Galletti: ministro dell'Ambiente nei governi di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Nella giornata del 31 marzo è morta a Bologna per le conseguenze del coronavirus Marisa Fusco, madre dell’ex ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti e moglie di Gian Franco Galletti, figura di spicco della Democrazia Cristiana bolognese tra gli anni ’70 e ’80 scomparso nel 2014. Gian Luca Galletti aveva ricoperto il dicastero dell’Ambiente dal 2014 al 2018, durante i governi guidati da Matteo Renzi e Paolo Gentiloni. Tramite una nota ufficiale diffusa nel pomeriggio, l’attuale ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha voluto esprimere il proprio cordoglio per la scomparsa della madre del suo predecessore: “Ho appreso con tristezza la notizia della scomparsa, a Bologna, della signora Marisa Fusco, mamma del mio predecessore al Ministero dell’Ambiente, Gian Luca Galletti. Marisa Fusco, risultata positiva al coronavirus qualche giorno fa e deceduta per le conseguenze del Covid-19, era la moglie del politico democristiano Gian Franco Galletti. Da esso aveva avuto i tre figli: l’avvocato Gian Piero, il commercialista Gian Paolo e il terzogenito Gian Luca: quest’ultimo l’unico che in seguito decise di seguire le orme paterne e di entrare in politica, iniziando la carriera come consigliere comunale nella sua Bologna e giungendo infine a diventare ministro della Repubblica durante il governo Renzi.

Coronavirus, morti i genitori a distanza di 4 giorni: "In simbiosi anche in questo". Le Iene il 30 marzo 2020. Carlo Manara ci racconta gli ultimi giorni dei suoi genitori, di Treviglio. E la paura per la sua famiglia: "Non ci hanno fatto i tamponi, intorno a noi tutti hanno i sintomi". "Li abbiamo accuditi fino alla fine, era l'unica cosa che potevamo fare". Carlo Manara, 61 anni di Treviglio, in provincia di Bergamo, è un fiume in piena. La voce è spezzata soltanto dalle lacrime. Un momento di pausa, e riprende: "Mio papà aveva 90 anni, mia mamma 87. Certo, erano anziani, ma stavano bene. Mio papà badava ancora all'orto. Sono morti a distanza di quattro giorni uno dall'altro, in simbiosi anche sul punto di morte". Una vita passata insieme, più di 60 anni. Stefano faceva il falegname, Caterina lavorava nella ceramica. Ha lasciato il lavoro per famiglia. "Siamo cinque fratelli, ha avuto un gran da fare". E anche sul punto di morte sono rimasti insieme. "Si sono ammalati circa due settimane fa. Non avevano più le forze, non avevano fame", spiega Carlo. "Con mio fratello e mia cognata li abbiamo accuditi, aiutati dal medico di base e l'infermiera. Ci tengo a fare i loro nomi perché sono stati due angeli: il dott. Leoni e Cristina, giovane e bravissima". Ma poi è arrivato l'esito: "Il medico ha detto che erano due casi sospetti di coronavirus, e terminali. Non c'era niente da fare". La mamma è morta ieri alle 17, il papà quattro giorni prima. "Sono convinto che abbia accelerato il decorso per andarsene con la mamma. È riuscito a piegare la flebo tanto da provocarsi un'emorragia, andata avanti per diverse ore. Era terrorizzato dall'idea di morire dopo la mamma". Ai coniugi non è stato fatto il tampone, ma neanche ai figli che li hanno accuditi e ai membri di questa famiglia numerosa: "Lo abbiamo chiesto a chiunque, ma niente. Io sono l'unico senza sintomi, ma tutti gli altri miei fratelli si sono sentiti male, chi con la febbre, chi non sente i sapori. Ma comunque ci hanno lasciato così". Interviene la cognata: "Abbiamo visto che ai calciatori i tamponi vengono fatti, a noi no. Perché?". La paura è tanta: "Qui intorno a noi tutti hanno sintomi, e in tanti stanno morendo". La provincia di Bergamo è una delle più colpite dal coronavirus. E la voce si spezza nuovamente: "Piango tutti i giorni perché non posso abbracciare mia nipote". "Quello che è successo deve insegnarci qualcosa", spiega. "È inimmaginabile: stai bene, sei felice con la tua famiglia, e poi ti succede una cosa del genere". Ha deciso di contattarci dopo che ha visto la testimonianza di Silvia Caldara, che ha perso il papà. "Ha dovuto accendersi un mutuo per poter pagare il feretro del padre. Ma ci rendiamo conto? È inaccettabile". Prima del coronavirus non si conoscevano. "Una donna incredibile, andrebbe aiutata". Perché nel dolore c'è spazio anche per pensare agli altri. 

Scampato ai nazisti e ai sovietici, stavolta non ce l'ha fatta. Alberto Giannoni, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale. Adesso starà finalmente pedalando Gino Mazzini, morto a cent'anni di Coronavirus. Sarà finalmente tornato in sella alla sua bicicletta. Diretto senza fermate lassù, dove vanno quelli come lui. Buoni, onesti, timorati di Dio, come si diceva un tempo. Gino era scampato prima ai lager nazisti e poi alla prigionia dei «liberatori» sovietici. E non aveva visto una gran differenza: «Come si stava? Meglio non direi» ricordava. Delle Ss, invece, ricordava le impiccagioni. Da prigioniero, aveva passato in Germania quasi due anni. A Torun - dove scrisse una lettera ai genitori - poi a Brumberg, era infine arrivato a Danzica e nel lungo viaggio di ritorno a Varsavia e poi a Lodz e infine il rimpatrio: a Pescantina, poi da lì a Brescia e con la corriera a Cremona. Il resto della sua vita lo aveva trascorso nella sua Bassa, fra la campagna, il caseificio, la chiesa. La vita semplice di quella generazione che aveva ricostruito l'Italia, laboriosa e solida e che ora sta drammaticamente scomparendo, portata via in silenzio dall'epidemia. «Un uomo buono», così lo descrivevano nel suo paese, dove lo avevano sempre visto girare in bicicletta: prima andare nei campi, poi a lavorare e infine a messa. Tutte le domeniche. O quasi. Aveva saltato la funzione, quel giorno in cui il Giornale era andato a trovarlo alla Fondazione Sospiro, ai primi di novembre, alla vigilia del suo centesimo compleanno: «Oggi non sono andato in chiesa perché aspettavo visite», spiegò sorridendo nel suo bel dialetto cremonese. Era, Gino, il figlio di un mondo contadino, in cui il socialismo umanitario conviveva senza problemi con la fede. Una tradizione radicatissima nelle campagne lombarde. Era nato a Pieve San Giacomo, in una famiglia con otto fra sorelle e fratelli. E aveva sempre vissuto alle porte di Cremona, dal 1948 con la moglie Elvira, poi da solo quando Elvira purtroppo se n'è andata. Due anni fa, quando alle soglie dei 98 anni ha accettato l'idea di un aiuto alla Fondazione Sospiro, grande realtà assistenziali della Lombardia, in cui si apprestavano a festeggiarlo, insieme alle autorità e alle associazioni d'arma. «Non potrò mettermi sull'attenti» si crucciava Gino. «Me lo immagino che da lassù sorride - dice Matteo, da Sospiro - imbarazzato da tanta attenzione».

Emiliana Costa per il Messaggero il 27 marzo 2020. Lo sfogo di un'infermiera in terapia intensiva: «Ho visto una paziente dire addio alla figlia con una videochiamata». Noemi Bonfiglio assiste i malati di coronavirus nel reparto terapia intensiva dell’ospedale Martini di Torino. In un commovente post su Facebook, l'infermiera ha raccontato l'ultimo saluto tra una paziente e la figlia. Ecco le sue parole: «Non auguro a nessuno di vedere ciò che sto vedendo in ospedale nelle ultime settimane, ma so che se solo fosse possibile far provare a tutti quell’emozione provata durante quella videochiamata, sarebbero in molti a dire quel ti voglio bene in più… Sarebbero in molti ad essere più comprensivi col prossimo». E continua raccontando l'addio tra una donna ricoverata e la figlia. Un addio telefonico, dal momento che ai pazienti Covid-19 positivi è negato l'incontro con i propri cari. «Ho detto alla paziente: signora, facciamo una videochiamata con sua figlia? Vediamo se risponde. Squilla il telefono ed ecco, dall’altro lato della fotocamera, l’immagine di una figlia con occhi lucidi che finalmente, dopo giorni di ricovero, rivede la sua mamma in un letto di ospedale, accerchiata da operatori sanitari completamente bardati fino a non poterne scorgere neanche il viso, un monitor che suona di continuo, un casco in testa che non permette di parlare, un respiro difficile e affannoso, la stanchezza dovuta alla malattia… e dall’altro lato si odono parole dolci e tristi, leggere e pesanti allo stesso tempo Sei sempre stata una guerriera mamma, non mollare mai, siamo tutti con te!. Ed io lì accanto, dietro la mia mascherina a provare brividi e lacrime di unica emozione!! Non saprei neanche dire di che emozione si tratti… So solo che non la dimenticherò mai. Probabilmente questa è stata l’ultima volta in cui una mamma ha potuto vedere sua figlia e le ha potuto dire ti voglio bene». E conclude: «Non importa chi venga colpito e a quale età, questo virus molto velocemente separa legami fino a spegnerli anche definitivamente. Non auguro a nessuno di vedere ciò che sto vedendo in ospedale nelle ultime settimane, ma so che se solo fosse possibile far provare a tutti quell’emozione provata durante quella videochiamata, sarebbero in molti a dire quel ti voglio bene in più».

Muore a 26 anni per il Coronavirus, il capo scout Andrea tra le vittime più giovani. Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. A soli 26 anni stroncato dal Coronavirus, che miete così una delle vittime più giovani in Italia. È morto per il Covid-19 Andrea Tesei, giovane di Predappio, comune della provincia di Forlì-Cesena noto per aver dato i natali a Benito Mussolini. Andrea era particolarmente conosciuto in città per la sua attività di capo scout. Il 26enne, affetto da una malattia cronica che non gli impediva di condurre una vita normale, dopo aver manifestato i primi sintomi ad inizio marzo, era stato ricoverato in un primo momento il 10 marzo all’ospedale di Cesena in terapia intensiva. Dopo un primo miglioramento era stato quindi trasferito al vicino ospedale di Forlì, ma un improvviso peggioramento avvenuto giovedì mattina ha portato rapidamente al decesso. A darne notizia è stato il sindaco del comune romagnolo, Roberto Canali. “È un terribile colpo per la nostra comunità – ha spiegato il primo cittadino di Predappio –  è la tragica dimostrazione che il virus non uccide solo gli anziani. I giovani, perciò, debbono stare molto attenti”.

Vigile del fuoco muore per il Coronavirus: era “l’Angelo” che salvò una bimba di 9 anni dalla morte. Redazione de Il Riformista il 25 Marzo 2020. Ha combattuto tante battaglie contro il fuoco, ma non è riuscito a sconfiggere l’avversario più duro, il Coronavirus. È morto dopo il ricovero all’ospedale di Scafati, dove era giunto per le complicanze respiratorie dovute dal Covid-19, il comandante del distaccamento dei Vigili del Fuoco di Sala Consilina (Salerno) Luigi Morello. Il 54enne, che lascia moglie e due figlie, era risultato positivo al Coronavirus all’inizio di marzo. Tanti i messaggi di cordoglio e solidarietà rivolti alla famiglia di Morello, tra i quali spicca quello del comandante provinciale dei caschi rossi di Salerno, Rosa D’Eliseo: “Da giorni seguivamo con apprensione, ma anche con molta speranza, l’evolversi del suo stato di salute, pregando che il Signore potesse aiutarlo in questa grande e difficile sfida, – afferma – non è stato così e oggi piangiamo insieme la grande perdita ed il vuoto che si è creato tra noi. Una vita vissuta da pompiere, sempre tra il fuoco, gli interventi e in mezzo alla gente della sua amata Teggiano dove era riconosciuto come il ‘Capo’ dei pompieri di Sala Consilina”. Ma c’è chi nella Valle di Diano ricorda uno degli episodi che hanno contraddistinto la carriera di Morello, sempre all’insegna del coraggio e della professionalità. A raccontarlo è Antonio Sica, giornalista di Sala Consilina, che ricorda come fosse proprio Luigi il valoroso vigili del fuoco che salvò una bambina in preda ad un malore sull’Autostrada Salerno-Reggio Calabria. “In borghese, fuori servizio, con la moglie stava andando a Salerno. La piccola, una bambina di soli 9 anni, aveva avuto una grave crisi respiratoria sulla A2 – scrive Sica – Erano seguiti momenti angoscianti, con la mamma che, fermata l’autovettura sulla corsia di emergenza dell’autostrada, aveva adagiato la bambina sull’asfalto cercando disperatamente di rianimarla. Nella situazione drammatica, che rischiava di trasformarsi in tragedia, si era rivelato fondamentale l’apporto di quello che la signora Luisa (madre della bambina, ndr) definì “il suo Angelo”.  Luigi non esitò un istante: vista la donna in gravissime difficoltà, si fermò sulla corsia di emergenza con la sua vettura e la supportò in tutto e per tutto. La bimba si salvò, e Luigi “sparì”, senza che la mamma potesse dirgli “grazie”. Poi la signora si rivolse ai media per trovare il suo “Angelo”, e le ricerche che seguirono, mi portarono quasi per caso a “scoprire” che quell’Angelo era un Vigile del Fuoco di Sala Consilina”. Era proprio Luigi, il vigile del fuoco sconfitto oggi dal Coronavirus.

Morto 15 giorni dalla laurea. Diventa dottore alla memoria. Tra due settimane avrebbe dovuto discutere la tesi e conseguire la laurea in Scienze Agrarie, ma il Coronavirus l'ha ucciso in meno di una decina di giorni. Marco Gemelli, Mercoledì 25/03/2020 su Il Giornale. Tra due settimane avrebbe dovuto discutere la tesi e conseguire la laurea in Scienze Agrarie, ma il Coronavirus l'ha ucciso in meno di una decina di giorni: aveva 30 anni e si chiamava Christin Kamdem Tadjuidje, la più giovane vittima in Toscana dall'inizio della pandemia. Lo studente, originario del Camerun ma residente a San Giuliano Terme, nel pisano, è anche il primo studente universitario ad aver perso la vita a causa del contagio. Era iscritto alla facoltà di Scienze Agrarie all'università di Pisa, e ad annunciare la sua morte è stata proprio l'Associazione degli studenti camerunensi di Pisa. «Colpito da una polmonite acuta hanno raccontato i suoi compagni di corso - è stato trasportato all'ospedale di Cisanello il 14 marzo. Negli ultimi giorni la situazione era migliorata così tanto che gli era stato tolta la respirazione assistita, ma è spirato durante la notte tra il 22 e il 23 marzo durante una crisi improvvisa». Christin stava preparando la tesi di laurea, che avrebbe dovuto discutere il 7 aprile. «Era un ragazzo generoso, studioso e volitivo: ha lottato per anni per una laurea che non otterrà» hanno ricordato i suoi connazionali, ma già nel pomeriggio di ieri è arrivata la notizia che l'ateneo pisano conferirà allo studente il titolo alla memoria. «La scomparsa di Christin Kamdem Tadjuidje ha spiegato il rettore Paolo Mencarella è una notizia dolorosa che apre una profonda ferita nella nostra comunità ed è emblematica del dramma che stiamo vivendo ogni giorno. Siamo vicini ai suoi familiari e ai suoi amici dell'Associazione studenti camerunensi di Pisa, a cui esprimo tutto il nostro cordoglio con una promessa: farò in modo che a questo ragazzo venga conferito, seppur alla memoria, il titolo per cui aveva faticato tanto».

Entra in ospedale per il tampone. Ma in 4 giorni il virus lo uccide. «Mio fratello era un medico di base e un odontoiatra. Ha lavorato fino all'ultimo, senza risparmiarsi. Ma non stava molto bene. Così 15 giorni fa è andato in ospedale per fare il tampone, voleva essere sicuro di non avere il virus, per i suoi pazienti». Lodovica Bulian, Mercoledì 25/03/2020 su Il Giornale. «Mio fratello era un medico di base e un odontoiatra. Ha lavorato fino all'ultimo, senza risparmiarsi. Ma non stava molto bene. Così 15 giorni fa è andato in ospedale per fare il tampone, voleva essere sicuro di non avere il virus, per i suoi pazienti». Invece quel giorno all'ospedale di Lucca, Marco Lera, 68 anni, medico di famiglia a Capannori, è stato trovato positivo. Quella è stata l'ultima volta in cui la moglie, che lo aveva accompagnato, l'ha visto. «È stato ricoverato subito nel reparto di malattie infettive - ricorda il fratello Paolo Lera - ma non stava troppo male. Diceva che respirava a fatica ma non aveva nessun tipo di paura». Quattro giorni fa se ne è andato. «Dopo due giorni dal ricovero la sua situazione era peggiorata e nella notte è stato trasportato d'urgenza in rianimazione dove col suo consenso è intubato e sedato. Non si è risvegliato». Poco prima è riuscito a parlare un'ultima volta al telefono con la moglie, Patrizia: «Quando ha capito, essendo medico, che lo mandavano in rianimazione ha parlato con la moglie. Gliel'ha detto piangendo dove stava andando. Forse aveva capito che era un viaggio senza ritorno. Nessuno ha più potuto vederlo. La tortura di questa malattia è che il malato si stacca completamente dai suoi affetti». Senza la possibilità di fargli un funerale, ieri, il carro funebre è passato davanti all'abitazione e i familiari più stretti lo hanno accompagnato al cimitero. «È così che si celebra la morte ora. Si va davanti al cancello del cimitero e il parroco dà la benedizione. Poi la tumulazione». La figlia Marta affida qualche parola a un post su Facebook: «Per molte persone era il dottore, per tanti era l'amico Marco, per altri nessuno, per la televisione un numero in più nella colonna sbagliata, per me, per me era il mio papà». 

Coronavirus Lecco, è morta Serena Lanfranchi: aveva 45 anni. Laura Pellegrini il 26/03/2020 Notizie.it. Serena Lanfranchi è morta a causa del coronavirus: la donna di 45 anni era stata ricoverata all'ospedale di Lecco. Tragedia a Lecco, dove è morta una giovane donna di 45 anni: Serena Lanfranchi aveva contratto il coronavirus ed era stata ricoverata in ospedale. Era inizio marzo quando la donna ha accusato i primi sintomi: problemi respiratori e uno stato febbrile. La sua scomparsa ha sconvolto tutti gli amici e i parenti che si sono stretti alla famiglia. Serena Lanfranchi è morta in provincia di lecco a causa del coronavirus: aveva 45 anni. Classe 1974, residente nel piccolo paesino di Calolziocorte era stata ricoverata in ospedale agli inizi di marzo dopo aver riportato i primi sintomi. Aveva frequentato, in giovane età, le scuole del paese e in seguito si era iscritta alle superiori all’istituto Bovara di Lecco. Era una geometra, ma aveva lavorato come disegnatrice all’Edilsider, per poi passare in alcune concessionarie d’auto della zona. Amava la pallavolo ed era una grande appassionata della musica. Per oltre 20 anni, infatti, aveva giocato con il Gsa alpini di Calolzio e con il Volley Vercurago. Calolziocorte è uno dei paesi più colpiti della provincia di Lecco. A ricordare la donna, la cui scomparsa ha sconvolto moltissime persone, sono stati amici, parenti e conoscenti. Molti anche i ricordi pubblicati sui profili social della 45enne: “Ti voglio bene Sere, ora sei il nostro angelo“. Oppure: “Tanti momenti passati insieme, ogni tanto ci si incontrava per strada e i ricordi correvano al campo da gioco… Ti porterò sempre nel cuore e non appena tutto sarà finito verrò a incontrarti nel luogo del tuo riposo. Ciao piccola Sere. Non ti dimenticheremo”. 

Il padre di Dario Marcolin è morto: aveva 75 anni. Debora Faravelli il Notizie.it. Lutto per Dario Marcolin, il cui padre è morto all'età di 75 anni dopo aver contratto il coronavirus. Tra le vittime con coronavirus a Brescia vi è anche il padre di Dario Marcolin, morto a 75 anni dopo aver contratto l’infezione. Nella sua provincia i decessi hanno quasi raggiunto le mille unità. Si tratta di Giancarlo Marcolin, padre dell’ex centrocampista di Lazio e Cremonese e oggi commentatore per DAZN, piattaforma dello sport in streaming. Prima di entrare nel mondo della tv prima su La7 e poi su SkySport, ha giocato in diversi club oltre ad aver svolto il ruolo di tecnico e allenatore per svariate squadre tra cui Brescia, Modena, Padova e Catania. Non è noto al momento se l’uomo avesse patologie pregresse e a cosa siano dovute le complicanze che lo hanno portato alla morte. Non è altrettanto chiaro se abbia trasmesso l’infezione a Dario o ad altri familiari. Per il momento questi ultimi non hanno ancora fatto giungere alcun commento. Il suo nome entra nella lista ufficiale delle persone decedute nella provincia lombarda risultate positive al tampone. Un numero che secondo molti è nettamente superiore a quello fornito perché questo non contempla i deceduti con sintomi tipici del virus a cui il personale non ha mai fatto alcuna analisi per avere un riscontro definitivo. Solo nelle case di riposo di città e provincia nelle ultime settimane si sono registrate quasi cento vittime.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it il 30 marzo 2020. «Gli ultimi due giorni non ha più risposto, era sensibilmente peggiorato. Chiamavamo il reparto e le risposte erano “è stabile”, “non bene”, infine “non è cosciente“. Una discesa inarrestabile. Quando abbiamo chiesto se fosse questione di ore o di giorni, ci hanno detto “di ore”. Gianca se n’è andato in due settimane, è morto mercoledì, era entrato in ospedale, alla nuova Poliambulanza di Brescia, giovedì 12». Dario Marcolin, 48 anni, un percorso calcistico lungo e completo - giocatore, viceallenatore, tecnico in prima e da qualche stagione commentatore televisivo per Dazn, dopo l’esperienza a Fox - parla con comprensibile piacere del padre, Giancarlo. «Raccontarlo mi fa bene - spiega - nel giro di pochissimo sono passato dal grande pieno a un vuoto immenso. Dopo che si è saputa la notizia avrò ricevuto più di mille testimonianze, tra telefonate e messaggi, dal mondo del calcio e della televisione. Ho risposto a tutti, non ho nemmeno avuto il tempo di avvertire l’assenza. Il primo a chiamare è stato Mancio, subito dopo Sinisa. Roberto e Sinisa lo conoscevano, Sinisa ha perso il padre da poco. E poi Totti, Pancaro, Favalli, Cosmi, Costacurta, Tare, Ciro Ferrara, Ferri, Adani, Peluso, Taglialatela, tifosi di Lazio e Napoli, Carolina Morace, Foroni, Bonan, quelli di Sky. Insomma, tantissima gente. È stato il tributo a Gianca che di calcio era malato. Non si è mai perso una mia partita o una mia telecronaca. Ivan, seguiva in streaming anche il nostro programma a Napoli. Ha vissuto per i figli. A Brescia abbiamo una casa su tre piani, Gianca abitava al primo, Mauro, mio fratello, sopra di lui. Quando oggi gli ho chiesto se stesse riuscendo a metabolizzare il lutto, mi ha detto che Gianca era ancora di sotto. Lo sentiva… È qualcosa di irreale, è tutto così distante dalla vita... E Brescia è come Bergamo, se non peggio».

È giusto che tu lo sottolinei.

«Hanno superato i mille morti, le strade sono deserte, passano solo le ambulanze. Non avremo neppure la possibilità di fargli il funerale. Gianca sarà cremato come le altre persone che non ce l’hanno fatta. Siamo in lista d’attesa, forse tra una settimana, non so. È sconvolgente. L’affetto e la solidarietà del mondo del calcio è l’unica cosa bella, vorrei potergli dire “Gianca, ha visto, tutti per te?”».

Mi hai detto che la progressione è stata rapidissima.

«Prima un po’ di febbre. Era un soggetto a rischio, e non solo perché aveva 75 anni. Pesava centocinquanta chili, era un omone di oltre un metro e ottanta e soffriva di ipertensione. Il virus ha trovato terreno fertilissimo. Nei primi giorni quelli dell’ospedale ci avevano suggerito di monitorarne le condizioni a casa. Al quarto giorno di febbre, 39 e mezzo, quaranta, mio fratello, che lavora nella cosmetica, si è fatto dare dalla socia la macchinetta che misura la saturazione dell’ossigeno nel sangue. Il valore minimo è 92, mio padre aveva 78. Quando l’abbiamo comunicato all’ospedale sono andati a prenderlo immediatamente».

Riuscivate comunque a sentirlo?

«Aveva con sé il cellulare. Sì, lo sentivamo con una certa frequenza, si toglieva la mascherina di Venturi, quella per l’ossigenazione, e ci parlava. Pian piano le telefonate si sono diradate e accorciate. Dopo trenta secondi non ce la faceva più. Quando è peggiorato sono ricorsi alla morfina sottocutanea, non accettava la maschera, quella che volgarmente chiamano da palombaro, Non la tollerava proprio. Diceva che un minuto con quell’aggeggio sembra un anno. Eravamo preparati al peggio. Ma il peggio non è mai come te lo immagini. Io ero andato a trovarlo a casa a inizio febbraio, non avrò nemmeno la possibilità di dargli un bacio sulla fronte. Nelle nostre stesse condizioni si trovano tutti quelli che hanno perso qualcuno che amavano. Non incolpo nessuno, non è una situazione normale quella che stiamo vivendo. E Gianca era così solare…».

Coronavirus Roma, l'autopsia sul giovane di 34 anni: “Emanuele era sano, vittima del Covid". Gli esami sul corpo di Emanuele Renzi, il giovane che lavorava nel call center Youtility morto sabato notte, hanno evidenziato che non aveva nessuna patologia pregressa. Mercoledì, sempre a Roma, morto un ragazzo di 33 anni: disposta autopsia. Lorenzo D'Albergo il 26 Marzo 2020. Emanuele Renzi era sano, sanissimo. Il 34enne, uno dei responsabili del call center Youtility, non aveva nessuna patologia pregressa. A dirlo sono i risultati dell'autopsia effettuata allo Spallanzani e trasmessi ieri ai medici del policlinico Tor Vergata che hanno seguito il caso del ragazzo di Cave, a 50 chilometri dalla capitale. Sabato notte a strappare Lele alla figlia, alla famiglia e agli amici è stato un improvviso peggioramento dell'infiammazione causata dal coronavirus. Il referto degli esami effettuati sulla vittima - che potrebbe aver contratto l'infezione durante un addio al celibato a Barcellona, dov'era stato dal 6 all'8 marzo - evidenzia un quadro complesso. Racconta come il Covid- 19, nella sua forma più aggressiva, non faccia poi troppe differenze tra giovani e anziani. Pericardite, miocardite, coagulopatia intravascolare disseminata. Un colpo dietro l'altro, in rapida successione. Per Emanuele non c'è stato nulla da fare. Al 34enne, a casa per sei giorni con la febbre e poi trasportato in ospedale già gravissimo, era stata applicata la terapia standard: antivirali e il farmaco contro l'artrite che sembra aiutare i pazienti intubati a limitare i danni. Armi che nella storia clinica di Emanuele si sono rivelate spuntate. La morte del ragazzo, come spiega Stefano Andreoni, virologo del Tor Vergata, è tra quelle " inattese". "In letteratura - spiega il primario, senza nascondere l'amarezza - sono già presenti casi in cui l'autopsia non ha evidenziato la presenza di morbosità pregresse. Parliamo quindi della morte di un giovane sano, venuto a mancare nonostante siano stati applicati tutti i trattamenti a disposizione. È una nostra sconfitta, dovuta alle armi che abbiamo ora. Aiutano, ma non sono sicuramente vincenti e questo caso ne è la dimostrazione. La ricerca ci deve dare qualcosa in più". Nel frattempo continua la psicosi tra i colleghi di Renzi. Youtility spiega di aver sanificato subito il call center, ancor prima della Asl, e di rispettare le prescritte distanze tra i lavoratori. Ma i sindacati attaccano: secondo i Cobas, l'azienda di Settebagni non ha informato i lavoratori e non ha nemmeno fermato il travaso di operatori tra le sedi di Roma e Frascati, "mettendo tutti a rischio".

Lorenzo D'Albergo per ''la Repubblica - Roma'' il 23 marzo 2020. Sei giorni in terapia intensiva al policlinico Tor Vergata. Sei giorni attaccato a un respiratore e al cellulare per tenersi sempre in contatto con la famiglia. Poi, nella notte sabato e domenica, il collasso. Per Emanuele Renzi non c' è stato nulla da fare. È un ragazzo di Cave, cittadina a 50 chilometri dalla capitale, la più giovane vittima del Lazio. Lele, come lo chiamavano, se n' è andato a soli 34 anni. Lascia una famiglia distrutta, una comunità smarrita. Perché il ragazzone con la barba e il sorriso sempre stampato in volto era il papà di una bimba di 7 anni. Ora toccherà a nonno Gugliemo e nonna Franca spiegarle cosa sia successo. La notizia della morte di Emanuele Renzi scuote anche chi teme per la propria salute. Il 34enne, infatti, lavorava da più di 8 anni per Youtility, un call center che ha il quartier generale in via Faustiniana e che tra i clienti ha anche Tim e lo 060606 del Campidoglio. Lì, a poche centinaia di metri dall' incrocio tra via Tiburtina e il Gra questa mattina partirà l' indagine epidemiologica dell' Asl Roma 2. Un' operazione che si preannuncia lunga. I racconti dei colleghi, infatti, lasciano intendere che le ricerche dei virologi potrebbero durare più del previsto. « Lele - racconta una di loro - era stato a Barcellona, dal 6 all' 8 marzo » . Poi, dicono i ragazzi del centralino, Emanuele è tornato al lavoro. Era il 9 marzo, anche se alcuni dei compagni ricordano che ha lavorato altri due giorni: «Al ritorno dalla Spagna aveva qualche linea di febbre. Per questo una decina di lavoratori sono stati messi in quarantena». Tornato a casa, il 34enne è rimasto in isolamento fino al 16 marzo. Poi, dopo aver sentito il suo medico, è stato trasportato al policlinico Tor Vergata. Ora a fare luce sulla sua morte sarà l' autopsia: va chiarito se la vittima avesse già patologie pregresse di cui non era a conoscenza. In attesa dei risultati, ieri al call center è scoppiato il caos. I suoi oltre 2.000 dipendenti hanno continuato a presentarsi in ufficio fino a ieri, perché i call center sono considerati dal governo come una delle attività produttive essenziali. Vanno tenuti aperti. Anche se ora in via Tiburtina è scoppiato il panico. I sindacati hanno presentato un esposto. E Youtility, subissata di insulti dei suoi impiegati e dai parenti, ha dovuto cancellare anche il post di condoglianze pubblicato in serata su Facebook e ha oscurato il proprio profilo social. « Solo alcuni di noi - racconta una dipendente in una mail inviata a Repubblica - sono stati messi in smart working. Solo da martedì, quando Emanuele stava già male e si sapeva del contagio, hanno distanziato le postazioni a più di un metro l' una dall' altra. I disinfettanti ce li siamo comprati facendo la colletta, la sanificazione è stata fatta solo venerdì. Lele? Il suo sorriso non lo vedremo più».

Emanuele, 34 anni,   vittima del virus. Il padre: «Era sano, non fumava». Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Cave, piccolo centro alle porte di Roma. Ore 18 di una domenica di sconfinato dolore. «Scusi, è la casa dei genitori di Emanuele?...» Silenzio.Voce incerta. «No, mi scusi lei... Comprenderà che adesso non è il momento? Lo capisce?» Nuova pausa. Lungo sospiro: «E va bene, sì, sono io... Il padre di Emanuele... Cosa vuole sapere?» La domanda del cronista è un sussurro, bisbigliato con pudore: solo se c’erano state avvisaglie, patologie pregresse. Null’altro... «No, stava bene! Nessuna malattia! - il tono ora è secco, scandito dalla disperazione - Mio figlio aveva un fisico integro, perfetto. Da sportivo. Era sanissimo, non fumatore... Adesso la posso salutare?» Nella terza domenica da incubo coronavirus, arriva da un paesone collinare famoso per l’aria buona, ai piedi dei monti Prenestini, la notizia più cattiva: Emanuele Renzi, 34 anni, ex studente d’ingegneria e poi dipendente di un call center, trasferitosi a Roma dai tempi dell’università, papà di un bambino di sei anni, è la più giovane delle 53 vittime finora registrate nel Lazio. Impiegato in una società privata che lavora anche per Poste italiane, Emanuele è morto nella notte tra sabato e domenica al Policlinico di Tor Vergata, dopo essere risultato positivo al coronavirus. Fatale la crisi respiratoria, intervenuta nel reparto di terapia intensiva, legata a un improvviso aggravamento del quadro clinico. E’ stato Angelo Lupi, il sindaco di Cave, dove abitano i genitori - la mamma casalinga e il papà Guglielmo Renzi, dirigente del Cotral, ex responsabile di esercizio della metro A di Roma (fu nominato nel 2015, all'indomani dello scandalo dei macchinisti assenti in massa la notte di Capodanno) - a ufficializzare la notizia nella tarda mattinata. La voce era che fosse ricoverato da venerdì mattina. «Apprendiamo, con profondo dolore, della scomparsa del nostro giovane concittadino Emanuele...». Come da protocolli sanitari, ai genitori, accorsi subito in ospedale, è stato impedito di vedere il figlio. Un decesso - a un’età giovane, senza allarmi pregressi - che ora è destinato a far interrogare il mondo scientifico. Ma dove e in quali circostanze è rimasto contagiato Emanuele Renzi? Una prima ipotesi è stata fatta balenare dalla nota emessa dall’Unità di crisi Covid-19 della Regione Lazio: «Proveniva da un viaggio in Spagna». Un parente, anche lui residente a Cave, sa essere più preciso: «Non lo vedevo da tanto, ormai la sua vita era a Roma. Emanuele dopo il liceo scientifico aveva frequentato Ingegneria, ma non era arrivato alla laurea. Aveva trovato lavoro e avuto un bambino con la sua compagna. Di recente era stato a Barcellona, penso per vacanza...». Un quadro che si è andato dettagliando di ora in ora. Una nota della stessa Unità di crisi, nella serata della domenica più triste per un intero paese, ha fornito ulteriori elementi della procedura prontamente attivata per limitare i danni. «Dall’indagine epidemiologica svolta dal servizio di prevenzione della Asl Roma 2 emerge che il ragazzo, che lavorava in un call center, era stato a Barcellona dal 6 all’8 marzo e il 9 marzo è stato il suo ultimo giorno di lavoro e poi si era posto in auto isolamento, ha mostrato i primi sintomi di febbre il giorno 11 e il 16 è stato trasferito, su indicazione del suo medico, in ambulanza e ricoverato al Policlinico di Tor Vergata dove entrava in terapia intensiva». Il solito triste calvario che finora è toccato a 5.500 persone in Italia: nelle prossime ore, oltre all’autopsia, si terrà un sopralluogo presso la sede della società Youtility Center (Gruppo Distribuzione Spa). Ma il parente, sotto garanzia dell’anonimato, evidenza anche un’ipotesi alquanto precisa: «Emanuele è morto perché in ospedale è arrivato in ritardo. I primi sintomi sono stati sottovalutati».

Anna e l’addio a papà Luciano: «Ci ha scritto:  io sono immortale». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. «Ci ha scritto “vi prego, non venite a trovarmi. Io sono immortale, non riesco a morire. Vi abbraccio tutti”. Quello era il suo modo di proteggerci dalla morte ma era anche il suo saluto, e io non so darmi pace a pensarlo solo in quel letto mentre se ne andava. Avrà avuto paura? Avrà sofferto? Avranno pianto i suoi bellissimi occhi azzurri?». Il racconto di Anna arriva assieme alle lacrime. Suo padre — «l’uomo della mia vita», ripete lei — è morto di coronavirus all’ospedale San Matteo di Pavia. Aveva 78 anni, si chiamava Luciano Mercalli ed era testa e cuore della Cerim, azienda di Vigevano fondata negli anni Sessanta che produce macchine per la costruzione delle calzature. Dalle pagine del Corriere della Sera, oggi, Anna scrive una lunga lettera al padre, «per fargli almeno un saluto, per dirgli un po’ delle cose che non ha potuto sentire dalla mia voce». Anna scrive per se stessa ma anche a nome delle sue bambine, Emma e Viola, e di sua madre Enza: «Ciao papà. In tanti mi dicono che quando parlo di te mi si illuminano gli occhi. E non può che essere così. Sei sempre stato l’uomo della mia vita, padre presente, punto di riferimento di ogni azione, esempio da seguire, faro dell’esistenza». La lettera si chiude con una citazione da L’amore ai tempi del colera, di Gabriel Garcia Marquez, «...è la vita, più che la morte, a non avere limiti». In queste giornate di solitudine e silenzio, nelle case di chi ha perso una persona cara si fanno i conti con l’assenza, con i ricordi e con il dispiacere di essere stati lontani nel momento dell’ultimo respiro. Neanche una carezza, un incrocio di sguardi. «Le mie figlie hanno disegnato un cuore su un foglio e hanno creato un quadretto con le loro fotografie. So che gli infermieri lo avevano messo sul suo comodino, almeno poteva vederlo...» racconta Anna. «Lui era terrorizzato da questo virus, sentiva delle persone anziane che sono più vulnerabili e si preoccupava moltissimo. Leggeva di Codogno e aveva l’angoscia che potesse arrivare fino a lui. Quando ha cominciato a tossire, ad avere la febbre e poi dopo, quando il tampone è risultato positivo, l’ho visto molto arrabbiato. Con il destino, con questa situazione orribile, con quel che gli stava capitando... È stato 12 giorni in ospedale. L’ho guardato mentre saliva sull’ambulanza e poi più niente. Un ciao con la mano e se n’è andato». Era un ingegnere mancato, Luciano Mercalli. Un insonne che di notte pensava al brevetto per costruire questo o quel pezzo di scarpa. «Non c’è calzaturificio al mondo che non abbia una delle macchine inventate da lui» dice sua figlia. «Era geniale. Per i suoi 80 anni avevo pensato di fargli avere la laurea honoris causa in ingegneria. Avevo già contattato l’università di Pavia, sarebbe stata una bellissima sorpresa. Lo avrei fatto felice. E invece...». Invece la sorte ha deciso di scrivere una pagina tragica. «Nei suoi giorni d’ospedale l’ho riempito di fotografie» ripensa Anna. «Non so più quanti messaggi gli ho scritto. Ho visto la spunta blu, quindi ha letto e guardato tutto. Avrà capito che mai un minuto ci siamo dimenticati di lui. Mai. Quando questa storia sarà finita faremo onore al suo ricordo con un funerale vero, una cerimonia vera. Lo hanno messo in una bara, una benedizione veloce e via... Non abbiamo nemmeno potuto vederlo da morto, niente vestiti, né un bacio. È morto domenica, oggi (ieri, ndr) ci siamo portati a casa le sue ceneri assieme al suo telefonino, agli occhiali e all’orologio». Anna racconta e piange. Dice che in questi giorni ha ricevuto centinaia di messaggi, email, telegrammi. «Sa qual è la parola più ricorrente che mi hanno scritto?» chiede. «È Perbene. Scrivono tutti che il mio papà era una persona perbene, un galantuomo d’altri tempi, leale e onesto. Unico, aggiungo io. Come l’azzurro intenso dei suoi occhi».

Bergamo, lo strazio dei pazienti: «Dottoressa, dica  a mia moglie che la amo». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Giuliana Ubbiali. «Un attimo che tolgo la mascherina, faccio una pausa». L.B., chirurgo all’ospedale di Treviglio, non sta rispondendo al telefono dalla corsia. È a casa, per tirare il fiato, dove ha un marito, un bambino e una bambina che non può abbracciare né lasciar avvicinare. Dietro agli eroi di questa emergenza, «ma quali eroi...», dice lei, ci sono storie di sacrifici non solo nelle ore che non si contano più tra barelle e letti ma anche nelle loro, di famiglie. Aveva i capelli biondi lunghi sulla schiena, la dottoressa, e li ha tagliati cortissimi. Non è un vezzo, ma un’immagine potente della sua rinuncia come donna per continuare ad essere medico e mamma. «Quando sto per arrivare a casa avviso mio marito perché tenga i bambini lontani. Vado in bagno, butto tutto da lavare, sto sotto la doccia per 40 minuti, mi sfrego con acqua e sapone. Poi mi infilo la mascherina e, comunque, tengo i miei figli a distanza. Ho tagliato i capelli corti per evitare il più possibile di portami a casa qualcosa». La dottoressa durante il suo turnoA casa, di sicuro, si porta gli occhi colmi di immagini inedite anche per un medico da sala operatoria. Ormai, anche le mani devono avere in memoria le manovre di rianimazione per salvare il salvabile. Voleva fare il medico e non lo rinnega. Voleva una famiglia e la vuole proteggere. «Ma noi medici non dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare quello che facciamo. Qui ci sono delle responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Valle Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione». È arrabbiata, «stiamo in piedi con la rabbia. Non abbiamo gli strumenti per intervenire su tutti, oltre che le protezioni». Non è solo il mantra che arriva da più voci negli ospedali. È cruda, lei, con gli esempi, perché il soldato in corsia non ha tempo ed energia per essere diplomatico con le parole. «Il paziente va in arresto respiratorio, gli pratichi il massaggio cardiaco perché no, tu medico non riesci a lasciarlo morire, ti guarda. E quando lo devi intubare? Il tubo ce l’hai ma non hai il ventilatore. Quindi? Età e comorbidità (più patologie nda) sono criteri di esclusione dalle manovre. Adesso dobbiamo intubare i quarantenni. Se domani arrivo io con il diabete, per fare un esempio, vengo dopo di lui. Si discute tanto di eutanasia, ma queste sono persone che, se avessimo i presidi, potrebbero farcela». «Ti guarda, il paziente», dice la dottoressa, 50 anni. In quel momento, il medico non è solo un paio di mani che premono disperatamente su un torace o infilano un tubo in gola, quando può. È anche l’unico ponte tra il paziente e il mondo fuori. Mogli e mariti, figli e nipoti che aspettano notizie dietro all’enorme vetro dell’isolamento collettivo. «Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi. “Dica a mia moglie che la amo” o “mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere”, ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti, diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante. Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari». I medici, quelli che ancora resistono. «Un collega con la moglie incinta si è trasferito con un altro in un B&B. Decine e decine si stanno ammalando. Vengono con la febbre ma non possiamo fare diagnosi, perché siamo troppo pochi, se non quando i sintomi sono tali che non si può più stare qui». Il suo qui è la metà del reparto di chirurgia all’ottavo piano «pulito», cioè senza malati di covid-19, perché l’altra metà, sullo stesso piano, ha i contagiati. «Cosa faccio? Dove sono malati vado bardata con la cuffia, la mascherina, due camici di stoffa perché mancano quelli più protettivi. Poi mi fermo a metà corridoio per comunicare al personale i dati dei pazienti. Il rischio, andando da una parte all’altra, è di contagiare». Domenica, si è aggiunto il turno al pronto soccorso: «Ci sono pazienti in bagno, per isolarli. Oppure che restano in ambulanza, li visitiamo lì». Ha staccato, la dottoressa, per stare qualche ora a casa con la sua famiglia, la mascherina e i bambini a distanza. Ha staccato, sì. «Sto aspettando gli esiti di due tamponi. A due ragazzi del 1973». E poi arrivano: uno positivo e uno negativo. «Sono felice, a metà».

Coronavirus, morto l'ex magistrato Pavone. Smantellò la Mala del Brenta. Si è spento in ospedale a Mestre a 75 anni. La figlia: "Non sono riuscito neanche ad abbracciarlo". Il suo pool fece condannare il boss Felice Maniero a 33 anni di carcere. Visse sotto scorta per 17 anni fino al 2006. Enrico Ferro il 16 marzo 2020 su La Repubblica. È morto l'ex magistrato Francesco Saverio Pavone, acerrimo nemico del boss della Mala del Brenta Felice Maniero e testimone, dagli anni '80, della storia criminale del Veneto. Da due settimane era ricoverato all'ospedale all'Angelo di Mestre, dopo essere risultato positivo al coronavirus. Ieri si è spento in un letto di terapia intensiva a causa della grave insufficienza polmonare. "Mio papà, dopo settimane di lotta, non ce l'ha fatta: il coronavirus me lo ha portato via senza pietà, senza che io potessi neanche abbracciarlo", è lo sfogo della figlia Antonella su Facebook. Nato a Taranto il 25 marzo 1944, è andato in pensione nel 2016 da procuratore capo di Belluno. Ma è a Venezia che si svolge la parte più consistente della sua carriera. Incrocia Felice Maniero la prima volta nel 1983 per l'omicidio di Ottavio Andreoli, boss che non si voleva piegare a "faccia d'angelo". Tre anni dopo il pool di Pavone ricostruisce l'organigramma completo della banda che stava seminando il terrore in Veneto, generando così il primo processo (quello del 1994), con Felicetto condannato a 33 anni per associazione di stampo mafioso. Francesco Saverio Pavone ha vissuto sotto scorta dal 1989 al 2006, per via delle minacce che arrivavano sia dai sodali dalla Mala del Brenta che dalla mafia siciliana. C'è un aneddoto che Pavone amava raccontare raccontava: il giorno della strage di Capaci avrebbe dovuto incontrare Giovanni Falcone a Roma, nel suo ufficio di direttore degli Affari Penali, per le carte di una rogatoria. La sera prima la segreteria lo chiamò spostando l'appuntamento al mercoledì successivo. Finì come tutti sanno. A gennaio 1994 venne spostato alla Direzione distrettuale antimafia, dove rimase fino a luglio del 2008, svolgendo un'indagine sulla mafia russa che coinvolgeva anche i servizi segreti italiani. Da Procuratore capo di Belluno interrogò due volte Angelo Izzo, il mostro del Circeo, nell'ambito dell'inchiesta sul giallo della morte di Rossella Corazzin il 21 agosto 1975. I colleghi lo ricordano come un magistrato instancabile e caparbio. "Grazie al reparto di Rianimazione di Mestre e al dottor Terenzio Violo che mi ha permesso di vederlo, anche se da dietro un vetro. Ciao papà", scrive la figlia sui social.

Si è spento in Veneto il magistrato tarantino Francesco Saverio Pavone colpito dal CoronaVirus. Il Corriere del Giorno il 17 Marzo 2020. Ricoverato lo scorso 28 febbraio per una grave polmonite, legata proprio al virus nel reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale di Mestre, le sue condizioni erano apparse subito gravi, anche se nella cerchia di amici si era riaccesa la scorsa settimana la speranza per un lieve miglioramento, che però purtroppo non è bastato.  Si è spento ieri lunedì 16 marzo, nel reparto di Terapia intensiva dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, Francesco Saverio Pavone, il magistrato alla guida di alcune delle più importanti indagini in Veneto e che smantellò la “Mala del Brenta”.  Era stato ricoverato 15 giorni fa per problemi polmonari risultando positivo al coronavirus. “Mio papà, dopo settimane di lotta, non ce l’ha fatta: il coronavirus me lo ha portato via senza pietà, senza che io potessi neanche abbracciarlo“, è lo sfogo di dolore di sua figlia Sara, avvocato penalista del Foro di Modena,  in suo post su Facebook. Il dottor Pavone era nato a Taranto il 25 marzo 1944, entrando a far parte del sistema giudiziario come cancelliere, vincendo successivamente il concorso in magistratura, venendo poi assegnato alla pretura circondariale di Mestre nel 1989.  Poi, nel 1993, divenne giudice istruttore.  A lungo a capo della Procura di Venezia,  ha concluso la sua carriera alla guida della Procura di Belluno andando in pensione tre anni fa. Il magistrato tarantino è deceduto ieri, pochi giorni prima di compiere 76 anni, nel reparto di Terapia intensiva dell’Ospedale di Mestre, dove era stato ricoverato lo scorso 28 febbraio per una grave polmonite, legata proprio al virus. Le sue condizioni erano apparse subito gravi, anche se nella cerchia di amici la scorsa settimana si era riaccesa la speranza per un lieve miglioramento, che però non è bastato. Va ricordata la sua dura battaglia contro i mafiosi in Veneto che lo portò a collaborare anche con il magistrato Giovanni Falcone. Infatti il maledetto giorno della strage di Capaci, in cui il magistrato siciliano, la moglie e la sua scorta furono uccisi in un attentato dinamitardo, si sarebbero dovuti vedere per discutere di un’estradizione. La sera prima la segreteria lo chiamò spostando l’appuntamento al mercoledì successivo. Come finì purtroppo ben noto a tutti. A gennaio 1994 il dr. Pavone venne trasferito ed assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, dove rimase fino a luglio del 2008, svolgendo un’indagine sulla mafia russa che coinvolgeva anche i servizi segreti italiani. Da pm si era occupato dell’inchiesta sulle mazzette ad alti ufficiali della Guardia di Finanza veneziana, conclusasi con pesanti condanne. Da Procuratore capo di Belluno ha interrogato Angelo Izzo, il mostro del Circeo, per ben due volte nell’ambito dell’inchiesta sul giallo della morte di Rossella Corazzin il 21 agosto 1975. I colleghi lo ricordano come un magistrato instancabile e caparbio. “Grazie al reparto di Rianimazione di Mestre e al dottor Terenzio Violo che mi ha permesso di vederlo, anche se da dietro un vetro. Ciao papà“, scrive la figlia sui social. E’ a Venezia che il dr. Pavone svolse la parte più consistente della sua carriera. Si occupò di Felice Maniero nel 1983 per la prima volta  a seguito dell’omicidio di Ottavio Andreoli, boss che non si voleva piegare a “faccia d’angelo”. Tre anni dopo il pool di Pavone ricostruì l’organigramma completo della banda che stava seminando il terrore in Veneto, generando così il primo processo (quello del 1994), con Felicetto condannato a 33 anni per associazione di stampo mafioso. Francesco Saverio Pavone ha vissuto sotto scorta dal 1989 al 2006, per via delle minacce che arrivavano sia dai sodali dalla Mala del Brenta che dalla mafia siciliana. “Esprimo il cordoglio dell’intero Consiglio regionale del Veneto per la scomparsa di Francesco Saverio Pavone, per 50 anni al servizio dello stato, magistrato che ricordiamo per aver contrastato la Mafia del Brenta, smantellato la banda dei giostrai e combattuto le ecomafie dimostrando che lo stato può vincere anche le sfide più complesse contro nemici potenti” con queste parole lo ha ricordato il presidente del Consiglio regionale del Veneto, Roberto Ciambetti, che ha aggiunto “Pavone è uomo simbolo della lotta alle mafie e alla criminalità organizzata in Veneto». Il presidente Ciambetti ha voluto manifestare la sua partecipazione personale e del Consiglio regionale “al lutto della famiglia e della magistratura veneta che in lui ha avuto un chiaro punto di riferimento. Purtroppo il coronavirus inizia a portarci via anzitempo anche figure esemplari. Di certo, chi conobbe il suo sforzo e il suo impegno in 50 anni al servizio della Legge e in difesa del Diritto, non lo dimenticherà facilmente, anche se ci rimane l’amaro in bocca per non avergli detto, ancora una volta, grazie per quanto ha fatto per noi tutti e per quel Veneto che lui stesso, dopo la sua Puglia e la sua Taranto, aveva scelto come propria casa“. “Oggi se n’è andato un uomo con cui ho lavorato fianco a fianco per 15 anni, un uomo che conoscevo fin da quando ero piccola perchè mia mamma prima di me, aveva lavorato con lui, prima in Tribunale e poi vedendo nascere assieme l’allora Ufficio di Sorveglianza. Io ricordo che ero piccolina e gli saltavo in braccio per giocare tra le urla di mia mamma che avendo rispetto della sua funzione e ruolo, mi sgridava arrossendo per la vergogna” racconta Cristina Casagrande  “Poi la decisione di entrare in Polizia. Dopo annni fatti fuori sede, rientrata a Venezia in Questura nei primi mesi del 1995, lo incontrai per i corridoi di Santa Chiara dove mi chiese: vuoi venire a lavorare con me in Procura? Accettai, onorata di quella richiesta. Era appena stata emessa l’ordinanza di custodia cautelare dell'”operazione Rialto” alla “Mafia del Brenta“. ce n’era di lavoro da fare! Tutti al lavoro! Squadra Mobile, Criminalpol, Carabinieri…. interrogatori in giro per tutta Italia fino alle 5 del mattino! I collaboratori di giustizia cominciavano a parlare”. ” Ho potuto vedere criminali che lo stimavano, e stimare un magistrato per il suo lavoro non capita spesso – conclude la Casagrande – Un Uomo che mi ha insegnato tanto, nel lavoro e nella vita, Un uomo con cui mi sono anche scornata ma poi riappacificata, perchè era un giusto. E I GRANDI UOMINI VIVRANNO PER SEMPRE NELLA MEMORIA DEI GIUSTI. Voglio ricordarlo come in questa foto, fatta in una trasferta a Pesaro, perchè oltre ad essere l’Uomo austero e tutto d’un pezzo, quale la sua figura imponeva, era anche un uomo spiritoso e divertente, come forse pochi se lo immaginano. Mi mancherà Dottore. E come mancherà a me, mancherà a molti. Buon viaggio. Toccante anche il ricordo di alcuni uomini della sua scorta come Bortolami Luigino “Quante giornate e kilometri passati assieme, ora che ci hai lasciato, sentiamo già la tua mancanza. Rimani nei nostri cuori ed un pensiero va alla tua famiglia. Buon viaggio Doc, perché per noi da oggi e per sempre rimarrai nei nostri cuori“, a cui è aggiunto Gilberto Barbon “Oggi Venezia perde un grande magistrato e uomo che tanto ha dato alla giustizia di questa città, un magistrato che ha combattuto in prima linea l’unica mafia nata fuori dalla Sicilia mettendo a repentaglio la sua vita. Ho avuto assieme ad altri colleghi l’onore di garantirne l’incolumità e sicurezza per molti anni. Ciao Doc”. Alla famiglia del dr. Pavone i sentimenti più sinceri di profondo cordoglio da parte dalla Direzione, redazione e Fondazione del CORRIERE DEL GIORNO, certi di poter esprimere anche il sentimento di quella parte sana di Taranto che lo ha sempre ammirato e stimato.

Sergio Bocconi per corriere.it il 17 marzo 2020. Il «Manuale di diritto privato», che ha scritto con Andrea Torrente, è da sempre un testo sacro per gli studenti, di giurisprudenza e non solo. È morto sabato sera a Milano Piero Schlesinger, giurista, avvocato e banchiere. In maggio avrebbe compiuto 90 anni. È stato ricoverato dieci giorni fa al Policlinico, dove è deceduto in seguito a complicazioni legate al coronavirus. Nato a Napoli e laureatosi a Torino, ha iniziato la carriera accademica a Urbino e due anni dopo si è trasferito alla Cattolica di Milano, chiamato dal rettore e fondatore Padre Agostino Gemelli. Accanto all’insegnamento ha coltivato l’attività di avvocato, specializzato in diritto civile e societario, ed è stato un banchiere e, in questa veste, un protagonista della grande finanza italiana. È entrato nel consiglio della Popolare di Milano nel 1964 e nel 1971 ne è diventato presidente, carica che ha mantenuto fino al 1993, con un intermezzo di un anno nel 1980 all’Imi. Giovanni Bazoli, allora alla guida del Nuovo Banco Ambrosiano, lo ha chiamato nel 1982 a presiedere La Centrale, finanziaria che faceva parte del gruppo colpito dal crac di Roberto Calvi. È stato anche presidente del centro di ricerca sulle imprese pubbliche Ciriec e consigliere di Gemina. Amava dire: il primo maggio si festeggia il lavoro lavorando. E lui si è dedicato fino all’ultimo alla ricerca. Ha trascorso la vita accanto alla moglie, la psicanalista Claudia Artoni. Lascia, con i due figli, sette nipoti.

Dagospia il 17 marzo 2020. Dal profilo Instagram di Gabriele Corsi. Era mio padre. Quello della foto un po’ sfocata nei necrologi di ieri.

Era mio padre. Lo ricordo con una barba nera nera che mi insegnava a dare calci a un pallone nel parco sotto casa.

Era mia madre. Quella signora elegante morta da sola in ospedale perché non si poteva entrare. Il dolore più grande. Lei. Da sola.

Era mia madre. Che mi faceva posto nel letto grande quando avevo la febbre e mi sembrava, sempre, l’unica cura possibile.

Era mio zio. Quel signore con gli occhiali che se n’è andato tra i tanti ieri.

Era mio zio. Lo stesso che mi portava a giocare con i modellini di aerei e mi faceva volare restando con i piedi a terra.

Era mia zia. La signora senza foto. Solo data di nascita e di morte.

Era mia zia. Perché non possiamo neanche andare a casa sua a cercare una polaroid che la ritragga. Lei che a Natale mi ha regalato la prima macchina fotografica.

Erano mio padre.

Erano mia madre.

Erano i miei zii, i miei vicini, i genitori, i parenti dei miei amici.

Quelli che, adesso, non possiamo piangere.

Quelli che, adesso, non possiamo abbracciarci per lenire il dolore. Quelli che tu non sai chi sono.

Ma io sì.

Quelli che, per qualcuno, sono “muoiono solo i vecchi”, “sì, ma erano già malati”, “ne muoiono molti di più per altre cause”.

E, se sei tra quelli, vuol dire che questo, tutto questo, non ti ha davvero insegnato niente.

Morto il carabiniere di Bergamo Polzoni: «Cambiava la vita delle persone in pochi istanti». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Morosi. «Grazie Claudio, buon viaggio». Con un post su Instagram, l'Arma dei Carabinieri ha voluto rendere omaggio a Claudio Polzoni, appuntato scelto di Bergamo, morto nella notte di giovedì dopo essere stato ricoverato, in seguito al contagio. I militari hanno spiegato come «difficilmente lo avrete incontrato in servizio a Bergamo, lui rispondeva al 112, raccogliendo emergenze, paure, a volte solo il bisogno di dialogare. A 46 anni, lascia una moglie e una figlia che la grande famiglia dell’Arma sta già abbracciando con amore», continua il post. «E lascia il ricordo degli uomini invisibili, ma in grado di cambiare la vita delle persone attraverso pochi istanti». Sposato, lascia una figlia di 10 anni. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha espresso le sue condoglianze ai familiari: «Voglio esprimere la mia vicinanza e quella del Governo a tutti gli italiani che in questo momento piangono la perdita di un proprio caro. Supereremo insieme questa emergenza ma in questo momento è necessario stare a casa. È questo l'unico modo per aiutare tutti coloro che in queste ore stanno lavorando senza sosta». Solo poche ore prima era venuto a mancare anche un altro carabiniere, della centrale di La Spezia, ricoverato da qualche giorno nel reparto di malattie infettive dell'ospedale della città dopo aver contratto il coronavirus. Si tratta del Maresciallo Massimiliano Maggi, 53 anni. A dare notizia della sua scomparsa era stata l'Arma con un post sui social: «Ha trascorso la sua vita dedicandola al servizio del Paese e alla sicurezza della comunità affidata alla sua responsabilità». L'uomo lascia una moglie di 58 anni e due figli di 22 e 16 anni: «Oggi il virus si è potato via per sempre il suo respiro. Aveva 53 anni ed era padre modello di due ragazzi che oggi, nel giorno della festa dedicata ai papà, ne piangono la sua perdita». Condoglianze erano arrivate sempre da parte del ministro Guerini: «Alla famiglia del Maggiore Maggi, ai suoi due figli e a tutta l'Arma dei Carabinieri, giungano i miei più profondi sentimenti di vicinanza e cordoglio, e gli stessi sentimenti di vicinanza voglio esprimerli a tutti gli italiani che in questo momento piangono la perdita di un proprio caro. Il Maresciallo ha dedicato la sua vita al dovere e alle Istituzioni e per lo questo lo ringrazio».

Francesco Loiacono per fanpage.it il 20 marzo 2020. La più giovane vittima italiana di Coronavirus è di Pesaro, nelle Marche. Si tratta di una ragazza di 27 anni, le cui generalità non sono state al momento comunicate, che figura tra le 22 persone che sono morte nella giornata odierna nelle regione del Centro Italia a causa dell'epidemia di Covid-19, che ha mietuto complessivamente 3450 vittime in tutta la Penisola. La 27enne deceduta, stando a quanto si apprende, soffriva di gravi patologie pregresse che l'infezione da Coronavirus ha acuito, portandola al decesso. In tutta la Regione i decessi odierni sono stati 22, che portano a un totale di 136 i morti a causa dell'epidemia in corso. In totale sono 1737 i cittadini marchigiani attualmente positivi al Covid-19: 797 quelle ricoverate in ospedale con sintomi, di cui 141 in condizioni più gravi nei reparti di terapia intensiva e 77 ricoverati in sub-intensiva. Ieri la notizia della morte del barista Fabrizio Marchetti, brianzolo 32enne. Soltanto nella giornata di ieri era stata diffusa la notizia della morte di Fabrizio Marchetti, barista di 32 anni molto conosciuto nella zona di Nova Milanese e Seregno, in Brianza, considerato fino a questo momento una delle vittime più giovani del coronavirus. Anche Fabrizio non godeva di buone condizioni di salute a causa di un’infezione contratta alcuni mesi fa. Il quadro clinico è peggiorato all’inizio di marzo a causa dei sintomi del Coronavirus. Dopo il ricovero in ospedale le sue condizioni si sono aggravate, fino al decesso. In tutta Italia le vittime di Coronavirus sono 3450. La giovane 27enne si aggiunge purtroppo a un triste elenco che va allungandosi di giorno in giorno: quello delle vittime dell'epidemia di Coronavirus nel nostro Paese. Stando agli ultimi dati diffusi dal capo della Protezione civile Angelo Borrelli, in Italia i morti per Covid-19 sono arrivati a 3450. Le persone complessivamente contagiate dal virus sono invece oltre 41mila.

Coronavirus Pesaro, morta una ragazza di 27 anni: è la più giovane in Italia. Laura Pellegrini il 20 marzo 2020 su Notizie.it. La vittima italiana di coronavirus più giovane è stata registrata a Pesaro: si tratta di una ragazza di 27 anni che soffriva di patologie pregresse. Arriva dalle Marche la vittima italiana di coronavirus più giovane e si tratta di una ragazza di 27 anni di Pesaro. Una volta risultata positiva al coronavirus, la giovane è stata subito ricoverata in ospedale. Le sue condizioni, purtroppo, non sono migliorate e dopo un brutto peggioramento è deceduta. Da quanto si apprende, però, la ragazza aveva altre patologie pregresse. Sono in crescita i numeri di contagi e decessi per coronavirus nelle Marche: l’ultimo in particolare riguarda una ragazza di 27 anni di Pesaro. Affetta da altre gravi patologie, le sue condizioni si sono aggravate non appena è risultata positiva al Covid-19. Nonostante la tenacia e la giovane età, dunque, la ragazza è deceduta. Non sono state rese note le generalità, ma il dolore per una perdita così giovane è grande. In tutta la Regione i decessi odierni sono stati 22 in un solo giorno, mentre il totale dall’inizio dell’epidemia è di 136 morti. Sono invece 1737 i cittadini marchigiani positivi al Covid-19: di questi, 797 persone sono ricoverate in ospedale con sintomi, delle quali 141 in condizioni più gravi nei reparti di terapia intensiva e 77 in sub-intensiva. Il 18 marzo scorso, inoltre, è morto anche un noto barista della Brianza di 32 anni: Fabrizio Marchetti. Anche lui, come la 27enne, soffriva di importanti patologie pregresse: era considerato tra le vittime più giovani in Italia.

Storia di Stefano e Maurizio, le due vittime più giovani del coronavirus. Redazione de Il Riformista il 16 Marzo 2020. Stefano e Maurizio, due ragazzi provenienti da due poli opposti dell’Italia eppure così vicini da condividere la disabilità e la morte per coronavirus a soli 38 anni divenendo così le due vittime più giovani in Italia. Stefano originario di Manerbio, in provincia di Brescia, era affetto da disabilità e in passato aveva già sofferto di problemi respiratori. Il 38enne è venuto a mancare giovedì 12 marzo dopo essere stato trasportato presso l’Ospedale di Manerbio cinque giorni prima per la presenza di febbre alta e problemi a respirare. Stefano è stato subito sottoposto al tampone che ha confermato la presenza del virus, ma in seguito la sua situazione si è ulteriormente aggravata anche a causa di pregressi problemi di respirazione. Secondo quanto riportano i media locali, Stefano frequentava la Cooperativa Il Gabbiano di Pontevico che assisteva persone disabili. Nel centro all’interno dl gruppo di lavoro un educatore di 51 anni era già risultato positivo al coronavirus, ma è guarito ritornando a casa in buone condizioni. In seguito al contagio la Cooperativa era stata sottoposta a chiusura fino al 6 marzo per poi riaprire, anche se molti genitori dei ragazzi si sono opposti e hanno protestato per tutelare la salute dei propri figli che sono un bersaglio fragile. La provincia di Brescia, dove Stefano è morto, è una delle più colpite in Italia con un picco di contagi che superano i 1.500. Maurizio invece, sempre 38enne e con disabilità, ma originario di Turi in provincia di Bari è morto da poco a causa di una crisi respiratoria dovuta ad una polmonite. Infatti è risultato positivo al tampone del coronavirus. Come riporta il padre Antonio in un’intervista rilasciata a Repubblica, Maurizio da un po’ di tempo era in dialisi ed era in sedie a rotelle dall’età di 20 anni a causa di un incidente, ma era indipendente e aveva un lavoro. L’uomo racconta che lui e sua moglie non sono ancora a conoscenza di come sia stato contagiato in quanto, secondo la sua ricostruzione, non è stato a contatto con qualcuno che abbia contratto il virus. Lui è un medico, un radiologo molto conosciuto, ed ora insieme a sua moglie è in quarantena. Maurizio lavorava come amministrativo in una Residenza sanitaria per anziani e incontrava ogni giorno molte persone, ma risalire al contagio risulta molto difficile. Antonio racconta che il figlio “agli inizi di marzo ha avuto una febbre strana. Dopo qualche giorno lo abbiamo portato in ospedale al Policlinico di Bari dove è stato ricoverato nel reparto di malattie infettive. Le sue condizioni sono parse subito gravi, respirava a fatica con l’aiuto del casco respiratorio. Poi venerdì è arrivato l’esito del tampone per il Coronavirus ed era positivo. Ci hanno cacciato dal reparto ed è stata l’ultima volta che ho potuto vedere mio figlio”.

Chi era Maurizio Pinto, il 38enne morto per coronavirus in Puglia. Lisa Pendezza il 15/03/2020 su Notizie.it. Maurizio Pinto, originario di Turi, in Puglia, si è spento a causa delle complicanze del coronavirus: è la seconda vittima 38enne in Italia. Si chiamava Maurizio Pinto e viveva a Turi, in provincia di Bari: è lui la seconda vittima di 38 anni in Italia (la più giovane nel Paese, insieme al bresciano Stefano Amighetti). Non appena ha manifestato i primi sintomi di Covid-19, l’uomo è stato ricoverato in ospedale, dove è stato sottoposto agli accertamenti del caso. Ma nonostante i tentativi di salvargli la vita, per Maurizio non c’è stato nulla da fare. L’identità della vittima di Turi (la 13esima in Puglia dall’inizio dell’epidemia) è stata rivelata dai media locali. Al momento, la famiglia non ha rilasciato alcuna dichiarazione. Maurizio soffriva di patologie pregresse ed era sottoposto a dialisi. Lavorava presso una struttura per anziani, la “Mamma Rosa” di Turi. Tutti coloro che sono entrati a contatto con lui nei giorni immediatamente precedenti al contagio e al decesso sono stati messi in isolamento. Al momento, non si ha notizia di altri contagi all’interno della struttura. Il 38enne ha iniziato a manifestare i primi sintomi del coronavirus lo scorso 6 marzo. A preoccupare familiari e conoscenti è stata soprattutto la febbre alta. Trasferito all’ospedale di Putignano, è stato sottoposto ad alcuni test, tra cui una radiografia toracica e il tampone che ha svelato la positività al coronavirus. Immediato il ricovero, a cui è seguito il trasferimento al Policlinico di Bari nel disperato tentativo di salvargli la vita. Le complicanze dell’infezione, però, hanno reso vani gli sforzi di medici e infermieri.

Coronavirus, a Nova Milanese una delle vittime più giovani: Fabrizio morto a 32 anni. Lucia Landoni per repubblica.it il 18 marzo 2020. Aveva 32 anni e nei messaggi che si stanno moltiplicando sui social network viene ricordato come "un ragazzo meraviglioso e pieno di passione, che amava il suo lavoro e le persone": Fabrizio Marchetti, barista di Nova Milanese (in Brianza) è una delle più giovani vittime del coronavirus. Qualche mese fa era stato in viaggio a Cuba, dove aveva contratto un'infezione che ne aveva indebolito le difese immunitarie. All'inizio di marzo ha iniziato ad accusare sintomi influenzali, a cominciare dalla febbre alta. Poi il ricovero in ospedale, dove le sue condizioni si sono progressivamente aggravate. "Era il proprietario del bellissimo Mada Coffee & Bakery di Seveso - ha scritto su Facebook una cliente - Aveva sempre un sorriso per tutti e per mesi ha allietato le mie mattinate e i pomeriggi del sabato col mio ragazzo". Stando dietro al bancone di vari locali della zona, nel corso degli anni Fabrizio era diventato un volto familiare e un amico per tante persone, giovani e non solo. "Ascoltava tutti e si raccontava" ricorda con affetto qualcuno, mentre altri sottolineano che "sapeva proprio come farsi voler bene, il tempo volava e poi lui si ritrovava a fine giornata a regalarci le brioche solo per ringraziarci della compagnia. Un'anima bella e rara". Un'amica di famiglia ha spiegato attraverso i social che "Fabrizio verrà cremato, ma i suoi familiari ci tengono a dargli il funerale che merita non appena sarà finita quest'emergenza. Verrà celebrato a Nova Milanese". Intanto, nell'attesa di potersi riunire per salutarlo insieme un'ultima volta, amici e conoscenti stanno affidando il loro dolore al web. "Ti ricorderemo sempre sorridente" si legge nel post pubblicato sulla pagina dell'accademia di arti marziali che il giovane frequentava, mentre le tante foto condivise sono accompagnate da messaggi colmi di rimpianto: "Eri sempre pieno di idee e voglia di fare, non ti fermavi mai. È stato un onore averti conosciuto e aver condiviso parte della vita con te", ma anche "Educato, gentile, buono come il pane, generoso e incredibilmente dolce. Fabrizio rispecchiava quella generazione di ragazzi in gamba e con la testa sulle spalle. Aveva sogni infiniti che concretizzava poco per volta. Mi mancherà vederlo appassionarsi per ogni cosa" e tantissimi "ti voglio bene". E c'è anche chi si sta attivando per "far arrivare un pensiero alla sua mamma" ed esprimere così almeno virtualmente la propria vicinanza alla famiglia.

Coronavirus a Brescia, morto 38enne: è la più giovane vittima in Italia. Lisa Pendezza il 13/03/2020 su Notizie.it. Si chiamava Stefano Amighetti ed è morto a soli 38 anni a Manerbio, in provincia di Brescia: è la più giovane vittima di coronavirus in Italia. Non solo anziani: si abbassa sempre di più l’età media delle vittime di Covid-19 nel nostro Paese. La vittima più giovane è stata registrata a Brescia dove Stefano Amighetti è morto a soli 38 anni dopo aver contratto il nuovo coronavirus. Era ricoverato da qualche giorno all’ospedale di Manerbio. I familiari fanno sapere che in passato aveva già sofferto di problemi respiratori.

Le parole dei familiari. Stefano lascia la madre Giovanna, il padre Bruno, la sorella Sara e la nonna Ninì. Nel necrologio l’ultimo saluto dei familiari per il 38enne tragicamente scomparso: “Io sento in me la tua pace, la gioia che tu solo dai. Attorno a me io sento il cielo, un mondo di felicità”. A nulla è servito il ricovero, avvenuto sabato 7 marzo dopo che sono comparsi i primi sintomi della malattia, inclusa la febbre sempre alta. Il tampone eseguito all’ospedale di Manerbio – comune dove Stefano viveva – ha confermato la diagnosi. Da una prima ricostruzione, sembra che Stefano sia stato contagiato presso la cooperativa Il Gabbiano di Pontevico, il centro per disabili dove lavorava anche il primo caso di coronavirus a Brescia. In seguito alla conferma del primo tampone, il centro è stato immediatamente chiuso e il personale sottoposto a quarantena. La cooperativa esprime il proprio cordoglio per la morte del 38enne.

I funerali. I funerali si svolgeranno in forma strettamente privata, come previsto dalle più recenti norme del governo per contenere i contagi. La salma sarà accompagnata subito al cimitero.

Chi era Stefano Amighetti, la vittima di coronavirus più giovane in Italia. Laura Pellegrini 13/03/2020 su Notizie.it. Stefano Amighetti è la vittima di coronavirus più giovane registrata in Italia: 38 anni, residente a Manerbio è morto giovedì 12 marzo. Stefano Amighetti è morto giovedì 12 marzo a Manerbio, in provincia di Brescia: è la vittima di coronavirus più giovane in Italia. Le sue condizioni si erano improvvisamente aggravate e nulla è stato possibile fare per salvarlo. Un giovane che già in passato aveva avuto alcuni problemi respiratori, ma la cui scomparsa getta nello sconforto l’intero paese di Manerbio, dove risiedeva insieme ai genitori e alla sorella. I funerali per Stefano si terranno in forma strettamente privata, in presenza dei soli familiari. Una lotta contro il tempo per tentare di salvare un giovane, Stefano Amighetti: il 38enne, positivo al coronavirus, è la vittima più giovane registrata in Italia. Era arrivato all’ospedale di Manerbio presentando alcuni sintomi che hanno mostrato poi la positività ai test. Il Covid-19, stando agli ultimi dati sui contagi, ha abbassato l’età media dei contagi. Ora non sono più solo gli anziani a finire in terapia intensiva, ma anche moltissimi giovani. Stefano viveva con la sua famiglia, i genitori e la sorella, a Manerbio, in provincia di Brescia. Frequentava la cooperativa per disabili Il Gabbiano, dove è stato segnalato il primo caso di coronavirus nella provincia lombarda. Quest’ultimo, comunque, è già stato ricoverato e dimesso dall’ospedale. Per Stefano, invece, nulla è stato possibile per evitare una tragedia. La sua vita è stata spazzata via da un virus del quale sappiamo ancora poco.

Muore a Piacenza Nelio Pavesi, consigliere comunale della Lega. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Carlotta Lombardo. Il mondo politico piacentino è in lutto. Nelio Pavesi, 68 anni, consigliere comunale di Piacenza della Lega, è morto questa mattina in ospedale dove era ricoverato da qualche giorno per aver contratto il Coronavirus. «Ciao Nelio con grande dolore oggi ho appreso della tua scomparsa. Pubblicamente ti voglio salutare e ringraziare per tutto l’impegno che in questi anni hai sempre messo nello svolgere il tuo ruolo di Consigliere comunale. Mi mancherai». Così in un post pubblicato sulla pagina Facebook il sindaco di Piacenza Patrizia Barbieri, contagiata anche lei dal virus e da qualche giorno chiusa in casa da dove lavora in video conferenza. È il primo decesso per coronavirus nella politica. «In queste ore drammatiche per tutto il Paese — ha commentato il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini — il nostro impegno è massimo per superare questa crisi. Sul fonte sanitario, ma anche su quello economico e sociale. Siamo di fronte a un’emergenza senza precedenti, che ci coinvolge sia come amministratori che cittadini. E il mio invito non può che essere quello a fare fronte comune, rafforzando lo spirito di comunità e il sentimento di solidarietà che ci deve legare tutti, soprattutto nei frangenti più difficili come quello che stiamo attraversando. Un impegno che sia davvero comune, anche nel ricordo di Nelio Pavesi». Esponente storico del Carroccio piacentino, Pavesi era già stato consigliere tra il 1998 e il 2002 per la Lega Nord ed era poi tornato in Consiglio nel 2017 dopo la vittoria del centrodestra alle Amministrative. Si era distinto negli ultimi anni come voce critica e autorevole dai banchi del consiglio comunale, schierato a fianco del sindaco Patrizia Barbieri. «Tanti piacentini — sottolinea la prima cittadina — hanno avuto la fortuna di apprezzarne, come docente in diverse scuole di città e provincia, nonché al Conservatorio Nicolini, le doti umane, la competenza e l’amore per la musica, che lo ha accompagnato costantemente anche nella sua lunga e preziosa attività politica. In questi anni, Nelio si è speso con generosità e passione per promuovere e valorizzare il patrimonio culturale e artistico del nostro territorio, animato da una fervida volontà di lavorare per il bene comune. Fedele ai princìpi in cui credeva, ha saputo esternare le sue opinioni con schiettezza e sincerità rare, mai in modo strumentale ma sempre con l’obiettivo di costruire, insieme, un progetto di crescita per quella Piacenza a cui ha voluto bene con tutto se stesso». Maestro e docente di musica, pianista e grande appassionato di cultura, Pavesi si era infatti distinto anche come docente in diverse scuole di città e provincia, nonché al conservatorio Nicolini. Immediato anche il cordoglio della Lega e della senatrice Lucia Borgonzoni. Pavesi ha «una lunga storia di tante battaglie alle spalle. Una di queste battaglie, quella contro il coronavirus, ci vede oggi tutti impegnati ed è anche per Nelio che la porteremo avanti, con massimo senso di responsabilità, e la vogliamo vincere». Di lui «ci rimarranno i suoi insegnamenti, la sua simpatia, il suo impegno e il suo amore per Piacenza, per la quale si è sempre battuto dai banchi del Consiglio comunale», aggiunge Matteo Rancan, a nome di tutto il gruppo della Lega in Emilia-Romagna. Benedetta Fiorini, deputata emiliana di Forza Italia, ha espresso il suo « profondo cordoglio per la scomparsa del consigliere comunale di Piacenza, Nelio Pavesi. Alla sua famiglia, ai suoi cari e a tutta la cittadinanza piacentina rivolgo la mia vicinanza e solidarietà. Tutti insieme sapremo superare questa dura prova contro il coronavirus». Così come Silvia Piccinini, consigliera del Movimento 5 stelle in Regione Emilia-Romagna: «Ci stringiamo attorno alla famiglia di Nelio Pavesi, il consigliere comunale di Piacenza della Lega, morto questa mattina mentre era ricoverato in ospedale dopo aver contratto il coronavirus. Si tratta di una notizia terribile che si va a sommare, purtroppo, agli altri decessi che in questi giorni si stanno verificando nel nostro Paese. Alla sua famiglia e al gruppo della Lega va il nostro più sentito cordoglio». Nelio Pavesi lascia la moglie e due figli. «La scomparsa di Nelio Pavesi — conclude la sindaca Patrizia Barbieri — ci lascia attoniti, profondamente scossi. Oggi piangiamo non solo una figura istituzionale stimata per il suo impegno politico e culturale, ma un amico che ha sempre avuto il coraggio di essere trasparente e onesto nell’esprimere il proprio pensiero, leale e coerente nel difendere le sue idee».

Coronavirus, la morte senza lacrime al tempo dell'epidemia. Lucia Esposito su Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. All’inizio i morti erano ultraottantenni con patologie pregresse, uccisi solo per caso dal Coronavirus e descritti come se avessero già un piede nella fossa. Come se fossero vite meno importanti, quasi a rendere più sopportabile la morte e minimamente più accettabile questo virus. Sì, è vero, uccide, ma voi che state bene, che non avete patologie pregresse, voi che avete quaranta, cinquanta, sessant’anni potete stare tranquilli. Poi i morti sono aumentati e sono diventati soltanto numeri: cento, cinquecento, ottocento, mille, e ora si fa fatica a stare dietro a questa macabra contabilità. Il bollettino quotidiano della protezione civile arriva a metà pomeriggio e squaderna le nuove cifre, i morti del giorno che sembrano militi ignoti. Il silenzio delle strade di Milano è rotto solo dal suono delle sirene delle ambulanze che ricorda le sirene prima dei bombardamenti durante la guerra. Ma qui non c’è da scappare, non ci sono ricoveri da raggiungere c’è solo stare in casa e stare lontano dagli altri. Col pensiero però esci dalla porta di casa e insegui quella sirena e pensi all’arrivo al pronto soccorso, ai medici che si attiveranno, all’uomo o alla donna che è solo lì dentro con il suo respiro corto e mille domande in gola. Si è sempre soli davanti alla morte, ma il Coronavirus ti strappa assieme alla vita anche l’ultima carezza, l’ultimo sguardo di chi ti ha amato. I parenti restano a casa, piangono in quarantena e chi è in ospedale muore come in trincea. Solo. Il corpo pietosamente coperto da qualche infermiere viene portato via in fretta, il letto disinfettato ben bene è già pronto per il prossimo. Niente lacrime. Niente messe. Niente funerali né benedizioni. I parenti non piangono i loro morti davanti a una bara, restano in casa a contare i giorni e sperare che la bestia non sia in agguato da qualche parte anche nei loro polmoni. I morti da o per Coronavirus (cambia davvero poco) diventano numeri, puntini sulle curve della statistica. Non hanno nomi, non hanno età, non hanno volto. Sono morti per Covid-19, eppure erano vite.

Coronavirus, quegli anziani che non tornano più indietro. Il racconto di una figlia che ha visto morire il padre ottantenne per il coronavirus. Quando ha chiamato i medici le hanno risposto: "Siamo nella m…" Michele Di Lollo, Martedì 10/03/2020, su Il Giornale.  "Signora, deve capire, noi siamo nella m..." La situazione è vicina alla tragedia. Un sistema sanitario allo stremo soffocato dal coronavirus. E i medici che lavorano senza sosta in questo caos. Quando hanno portato via suo papà, mentre era su una barella nel piccolo giardino di casa, è riuscita solo a dirgli: "Mi raccomando, non avere paura, so che sei un fifone". Poi più nulla. Questo è il racconto che Orietta fa a La Stampa. La sua storia è quella di tante, troppe persone che vedono la mamma o il papà anziani andare via in ambulanza. Aspettano che il telefono squilli per tutto il giorno e tutta la notte, poi più nulla. La giornalista chiede: "Suo padre, Dino, si è spento nell’ospedale di Crema lunedì 2 marzo. Era ricoverato in terapia intensiva?". La risposta non si fa attendere. "A oggi non lo so, ma non credo che sia neppure arrivato in quel reparto. So solo che, quando ho chiamato domenica, mi ha risposto un medico che era molto preso. Mi ha detto: Signora, deve capire, noi siamo nella m... Il papà è intubato e sedato in sala operatoria, in attesa che si liberi un posto in terapia intensiva". Lo ha pregato di darle qualche notizia. Erano le 3 del pomeriggio e il papà è morto alle 8 e mezzo di sera. Nessuno le ha detto nulla, non sa ancora che cosa sia successo. A comunicare che era venuto a mancare sono state le forze dell’ordine. "Il giorno dopo si è presentato a casa il maresciallo dei carabinieri. Non so dire che cosa ho provato quando l’ho visto: avevo già capito". Ma ripercorriamo i momenti dell’infezione. "Mio padre non ha mai avuto i sintomi del coronavirus. Martedì 25 febbraio è caduto in casa. Mi ha detto che aveva avuto un giramento di testa. E anche nei giorni successivi diceva di sentirsi stanco. Così venerdì ho chiamato il medico per un controllo". È stato lui ad accorgersi che aveva un focolaio al polmone e ha chiesto l’intervento di un’ambulanza. Ha chiamato quattro ospedali, ma erano tutti al collasso. Alla fine, ha trovato posto a Crema: erano le 5 del pomeriggio di venerdì 28 febbraio. Dino non aveva altri problemi di salute. Era un uomo in forma. Aveva 80 anni, ma sembrava uno di 60. Faceva le sue cose: il bar, gli amici, a Castiglione tutti gli volevano bene. Era il classico uomo col cappello in testa che quando te lo trovi davanti in macchina ti arrabbi un po’ perché va a 30 all’ora, ma era lucidissimo. Prendeva le pastiglie per la pressione e niente più. Dopo il ricovero, nessuno le ha mai telefonato dall’ospedale. Ha chiamato lei sabato e le hanno detto che lo stavano aiutando a respirare, ma che era vigile. Ha richiamato domenica, le hanno detto che era stabile. Il giorno dopo la situazione è precipitata. "Ho saputo che mio padre non c’era più solo lunedì".

Coronavirus, l’infermiera che intuba i pazienti: «Che strazio i malati che ti chiedono aiuto con un filo di voce». Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. «L’altro giorno ero con l’anestesista e un paziente Covid di 48 anni. Gli abbiamo spiegato che lo avremmo intubato, che non avrebbe sentito niente. Lui mi ha stretto la mano e mi ha guardato. “Giurami che mi sveglio” mi ha detto. E io: certo che ti svegli. Mi ha risposto: “Perché io ho due figlie e le vorrei rivedere”. Beh... ho pensato a lui tutto il giorno, con la mascherina piena di lacrime». Maria Cristina Settembrese ha 54 anni e lavora al San Paolo di Milano dal 1997, al reparto di malattie infettive da 11 anni. In questi giorni è nella divisione di pneumologia Covid. Emergenza continua, pazienti che hanno fame d’aria.

Come sta ora quell’uomo?

«È stato trasferito altrove, è ancora intubato».

Sono giorni in grandissima salita...

«Sì, scaliamo montagne da mattina a sera. Ho il naso che non riesco più a toccare dal male che fa per la stretta della mascherina, stiamo in piedi con i succhi di frutta perché le cannucce passano sotto la mascherina. Niente pipì altrimenti toccherebbe sbardarsi e ribardarsi ed è complicato. Ma tutto questo ormai la gente ha imparato a conoscerlo. Quello che non si può capire se non si prova è altro...».

Altro cosa?

«È lo stato d’animo che si vive, con tutti quegli occhi che ti guardano, che ti chiedono aiuto anche se la voce non esce. Tanti guariscono, certo. Però più passano i giorni più si vedono arrivare persone sulla cinquantina e in tanti, soprattutto degli anziani, non ce la fanno. Alcuni — se hanno più di 70 anni e altre patologie importanti — arrivano con la sigla “ncr”, non candidabili alla rianimazione».

Chi decide che sono «ncr»?

«L’anestesista, lo pneumologo e l’infettivologo. Non è che li abbandoniamo a loro stessi, sia chiaro. Vengono spostati in un altro reparto Covid dove vanno a continuare le cure palliative».

Come si sopporta tutto questo ogni santo giorno?

«Devi lavorare e devi essere lucido, non puoi permettere che l’emotività interferisca. Poi quando torni a casa porti con te anche tutto quel che vivi, ed è pesante. Nella notte fra mercoledì e giovedì eravamo tre infermieri, io e i colleghi Massimiliano Rizzo e Vincenzo Palmieri, per 15 pazienti con un bisogno di assistenza importante. In situazioni normali siamo un infermiere ogni 2, massimo 3 pazienti. Cerchiamo di essere disponibili oltre che presenti, perché magari un piccolo gesto fa felici persone che lì dentro sono sole, vulnerabili e lontano dalle famiglie».

Ci fa un esempio?

«L’altra mattina. Mi ero appena svestita quando mi ha telefonato la figlia di un paziente: “La prego, mio papà ha chiamato disperato perché non trova gli occhiali e non riesce a mandare messaggi o a vedere la foto di mio figlio, può aiutarlo?”. Mi sono rivestita e sono andata a vedere. Ho trovato gli occhiali, li ho portati al paziente e prima che la figlia richiamasse gli ho detto: dille che stai bene e la notte è andata bene. Sapesse com’era felice di vedere la foto del nipotino... A volte qualcuno ci chiede di chiamare e parlare con la famiglia perché non ha abbastanza fiato per farlo da solo».

Grado di stanchezza?

«Non la definirei più nemmeno stanchezza. Siamo oltre. Magari con i nervi un po’ scoperti quando arriviamo a fine turno. Giovedì mattina, dopo una notte pazzesca, è suonato l’allarme perché stava finendo l’ossigeno. Non era mai successo perché non siamo mai arrivati a usarne tanto. I tecnici lo hanno ricaricato e sa una cosa?»

Cosa?

«Quando se ne sono andati ho parlato con i colleghi. Ciascuno di noi ha pensato a chi avrebbe salvato se l’ossigeno fosse finito. Io mi sono detta: corro dal 51enne... poi abbiamo visto di nuovo la luce verde. Ci è scappato un sorriso».

Nei reparti dove si muore da soli e senza l’ultimo saluto. Lo strazio di chi resta:  «Avrei voluto dirgli: “Papà ti voglio bene”». Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. La voce di Enrico Palestra arriva da Codogno, racconta di suo padre Giovanni, 80 anni. «L’hanno portato via da casa il lunedì, il giovedì era morto. Mi si stringe il cuore a pensarlo solo mentre moriva. È straziante. Ti dicono che si è aggravato e tu sei lì e pensi: e adesso cosa faccio? Fa male sapere che non puoi nemmeno correre ad abbracciarlo. Mi è tornata in mente una cosa che mi ha detto non molto tempo fa: io sono fortunato, ha detto, ho sempre fatto tutto quello che ho voluto, nella vita. Beh... è questo che voglio ricordare di lui». Dalla provincia di Bergamo parla e piange al telefono il figlio di un altro padre, stavolta di 86 anni, in buona salute fino alla settimana scorsa e morto nel giro di un giorno all’ospedale di Ponte San Pietro. Non vuole che si scrivano i loro nomi ma descrive scene, ansie. Anche lui è lacerato da quel pensiero: «Se n’è andato per insufficienza respiratoria... da solo». E poi la domanda delle domande: poteva essere salvato? Il figlio è convinto di sì, ed è convinto che non intubarlo sia stata una scelta legata all’età: «Così ha finito di vivere... soffocato, da solo. E questo a Bergamo, non in Ruanda». Morire in solitudine, con l’aria che manca e nemmeno la mano di un figlio, una moglie, un fratello da stringere. Va così, nel tempo buio del coronavirus. Nei reparti ospedalieri degli infetti o dei presunti tali che non hanno ancora l’esito del tampone, non si può entrare. E davanti a quelle porte sbarrate ogni giorno ci sono più dolore, più sensi di colpa, più preghiere. I familiari capiscono, ma faticano lo stesso a voltare le spalle e tornarsene a casa. Come se stare lì, a un passo dalla persona alla quale si vuole bene, possa in qualche modo farle sentire che non è sola, che non è abbandonata, che «siamo qui vicino, mamma», come avranno pensato proprio ieri nell’ospedale di Codogno i figli di Mirella, 72 anni, di Pandino (vicino a Cremona), l’ennesima vittima del virus. Anche per loro niente addio, non un sorriso. Non è difficile immaginare lo sgomento di chi ha un familiare ricoverato in gravi condizioni, non importa che abbia o meno superato gli ottanta. Basta che ciascuno di noi immagini di ritrovarsi nella stessa situazione...Le infermiere e gli operatori sanitari quando possono leggono o attaccano da qualche parte i bigliettini mandati ai contagiati assieme al cambio della biancheria. Che possano almeno vederli, se le condizioni cliniche lo consentono. Che possano riempirsi gli occhi del calore umano che arriva da quei «pizzini» colorati da nipotini e firmati da famiglie intere. Chissà se anche Francesca, alla fine dei suoi 92 anni, ha potuto contare sul saluto di un messaggio scritto. È morta all’ospedale di Lodi dopo una vita vissuta a Bertonico, Comune fra i dieci della prima zona rossa lombarda. Se n’è andata senza nessuno accanto pure lei, con sintomi sospetti che l’hanno fatta morire in solitudine ma che — si è scoperto poi facendo il test — non avevano niente a che vedere con il coronavirus. Al cimitero a dirle addio c’erano il prete, il marito, la figlia e il nipote. Non uno di più perché anche i non-funerali contano sul minimo dei contatti umani possibili: meno si è meglio è (di solito, appunto, sono ammessi tre parenti). Non-funerali perché, quando si celebrano, sono nient’altro che una veloce benedizione, direttamente al cimitero e senza corteo o messa. Prima di chiuderli in una bara (vietata la vestizione), i morti vengono mostrati quasi sempre a un solo familiare e con tutte le precauzioni del caso, cioè dopo avergli fatto indossare quella specie di scafandro da palombaro che serve a proteggere chi entra nelle aree contagiate. È amaro anche non potersi abbracciare mentre si seppellisce qualcuno che si è amato, certo. Ma il dolore più grande resta sempre quello, non avergli detto un’ultima volta «ti voglio bene», non esserci stati mentre moriva. Drammatico il racconto di Orietta S. a La Stampa, qualche giorno fa. Mentre l’ambulanza portava via suo padre Dino, 80 anni, gli ha detto: «Mi raccomando papà, non avere paura, so che sei un fifone». È stata l’ultima volta che ha incrociato i suoi occhi. Fra quell’istante e la voce che le ha detto che era morto sono passati pochi giorni, un tempo infinito per chi come lei ha cercato di avere notizie, rassicurazioni. Lui come tutti quanti gli altri. Avrà avuto paura? Avrà sofferto? Si sarà sentito abbandonato? Ecco. Chiedersi tutto ciò cento, mille, un milione di volte è inevitabile, struggente, tristissimo. Bisognerà mettere anche questo nella conta dei danni quando il mostro se ne sarà andato.

"È uno tsunami. E muoiono lucidi". Viaggio tra i medici eroi nella terapia intensiva del San Carlo. Gian Micalessin, Mercoledì 11/03/2020, su Il Giornale. «Sai qual è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t'implorano di salutare figli e nipotini». La dottoressa Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso dell'Ospedale San Carlo Borromeo ti guarda, comprende il tuo stupore. «Vedi il pronto soccorso? I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente lì può assistere e quando stanno per andarsene lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L'ultimo è stato stanotte. Lei era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel'ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n'è andata. Ormai ho un lungo elenco di video-chiamate. La chiamo lista dell'addio. Spero ci diano dei mini iPad, ne basterebbero tre o quattro, per non farli morire da soli». La prima linea della guerra al Covid passa anche dai corridoi di questo palazzone grigio dall'aspetto vagamente sovietico disegnato dal Giò Ponti negli anni '50. Tra le sue mura i volti nascosti dalle mascherine, i saluti attenti alle reciproche distanze mescolati alla routine di una grande struttura regalano la sensazione di un film catastrofista anni '70. Poi ascolti i racconti di Francesca e dei suoi colleghi e realizzi che non è un film, che la catastrofe è già qui, che tutti questi volti coperti, tutte queste mani guantate lottano disperatamente per venirne fuori. Il professor Stefano Muttini, primario della rianimazione lo ammette senza giri di parole. «Ho l'impressione di esser finito in un tsunami che, per quanto lotti, non riuscirò mai a fermare. Il problema principale è inventarsi nuovi posti. La mia rianimazione aveva 8 letti. Poi sono riuscito ad aggiungerne 7, poi altri 8 e infine 16, arrivando a 31 posti. Domenica mattina ero felicissimo di aver trovato 6 nuovi posti, ma a mezzogiorno me li sono ritrovati tutti occupati. Per un attimo mi son sentito sconfitto, inadeguato». Creare nuovi spazi è l'assillo di tutti. Il professor Stefano Carugo, primario del reparto cuore-polmoni, mi fa strada tra sale coperte di polvere dove gli operai tirano cablaggi e allacciano terminali elettrici. «Questi sono 12 posti in più per i pazienti cardiopatici che hanno bisogno di terapia intensiva. La trasformazione è stata progettata venerdì, ma tra due giorni le stanze saranno pienamente operative. In tempi normali ci avremmo messo dei mesi, invece l'abbiamo fatto in 5 giorni». Ma questa corsa contro il tempo, alla ricerca di posti che non bastano mai è anche una maledizione di Sisifo. «Questo dover rincorrere l'emergenza pur con tutto l'aiuto che ci viene garantito crea uno stress emotivo non indifferente. Quando ho chiesto alla mia squadra chi se la sentisse di andare a lavorare nel reparto Covid ricorda il professor Mutti - si sono tutti offerti volontari. Ne sono orgoglioso, ma sono consapevole che per molti saranno esperienze assai dure. Alla fine tutta la nostra categoria si troverà profondamente provata per il periodo che stiamo affrontando». Il primario ti accompagna in trincea, ti fa strada lungo il muro tirato su nell'ultima settimana. È la sottile linea rossa tra la rianimazione convenzionale e quella riservata ai nuovi dannati. Si muore in entrambe, ma in maniera diversa. Te lo raccontano le tute e gli scafandri in cui è imprigionato il personale affacciatosi sulla porta per salutare il proprio primario. Alzano il dito, sorridono da dietro le maschere, ma la vittoria è ancora lontana. Molto lontana. Il dottor Carlo Serini in quel reparto ha appena trascorso la notte. «Faccio il rianimatore da anni, ma ora è diverso. Stanotte mi sono avvicinato a un anziano. Gli avevamo messo il casco per la respirazione. Lui si guardava intorno spaurito. Mi sono chinato e lui ha sussurrato Ma allora è vero? Sono grave?. Ho incrociato quel suo sguardo da cane bastonato e ho capito. Stavolta non avevo risposte».

Paolo Conti per il “Corriere della Sera” il 12 marzo 2020. Addio all'addio. Non è un gioco di parole ma il coronavirus ha cancellato il rito collettivo più antico dell' umanità: il commiato verso i defunti, il «compianto», ovvero il piangere insieme. Come scrisse Benedetto Croce: «Con l' esprimere il dolore nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi». Perché chi resta ha bisogno di salutare la persona cara, chiunque essa sia stata, assieme agli amici, ai parenti, a chi ha vissuto con chi ci ha lasciato. Sono andati via senza un funerale tanti italiani scomparsi in questi giorni per malattie diverse dal coronavirus ma che non hanno potuto avere il «loro» funerale per le disposizioni decise dal governo per limitare la crescita del contagio. Un esempio tra i tanti: giorni fa è morta a 97 anni Giovanna Cau, mitica avvocatessa del cinema italiano, da giovane staffetta partigiana, protagonista del movimento per i diritti femminili nel dopoguerra, amica di Marcello Mastroianni, Alberto Moravia, Italo Calvino, Luchino Visconti. In tempi normali le sue esequie avrebbero meritato ampie cronache, con la tipica galleria di foto dei personaggi famosi. Invece il commiato è avvenuto solo sui giornali, impossibile organizzare qualsiasi cerimonia. Ma lo stesso è accaduto a tanti «italiani normali», che sono di fatto spariti dal consesso sociale senza rituali. E forse vale la pena ricordarne qualcuno, scelto a caso. A Tricesimo, in provincia di Udine, se n' è andata due giorni fa Lidia Agostini Confente, di 63 anni. Nel suo necrologio si legge: «I funerali avranno luogo in forma strettamente privata viste le ultime disposizioni ministeriali. Non fiori ma opere di bene». A Torino ha lasciato un gran vuoto l' avvocato Giuseppe Scalvini, non solo «amato marito e padre» ma a lungo impegnato nella difesa dei diritti sindacali accanto alla Fiom Cgil Torino e Piemonte. Così si è letto nel suo necrologio: «In base a quanto previsto dal DPCM del 08.03.2020 e dall' Arcidiocesi di Milano, sono sospese tutte le cerimonie funebri. Il rito di sepoltura verrà celebrato, in forma privata, direttamente presso il Cimitero di Cuggiono. La Santa Messa esequiale sarà celebrata a tempo opportuno al termine dell' emergenza». Ancora più chiaro il necrologio di Maria Giovanna Cancellara vedova Aliano, morta a 99 anni a Codroipo: «In ottemperanza alle disposizioni contenute nel DPCM e secondo quanto stabilito dalle Conferenza Episcopale Italiana, il rito funebre non sarà celebrato e dovrà essere evitata ogni forma di cordoglio incompatibile con le disposizioni sanitarie vigenti». Espressioni soltanto apparentemente burocratiche. A leggerle in filigrana, con la doverosa attenzione, si scopre tutta l' amarezza delle famiglie di non poter radunare il mondo di riferimento di queste persone per ritrovare insieme il senso di un lascito, di un' eredità umana da ricostruire. Come sempre avviene in questi casi, piangendo e anche sorridendo insieme. Perché la vita va avanti anche quando ci sembra che si debba interrompere per sempre.

Coronavirus, coppia del lodigiano muore insieme dopo il 50esimo anniversario. Riccardo Castrichini l'11/03/2020 su Notizie.it.  Nel lodigiano una coppia di anziani consorti è morta a causa del coronavirus dopo aver festeggiato il 50esimo anniversario di matrimonio. É questa la storia di Alberto, 81 anni, e Antonietta 79 risultati positivi al coronavirus il 23 febbraio lui e la moglie pochi giorni dopo, a Guardamiglio, in provincia di Lodi. Poi il ricovero, ma in ospedali diversi a causa del sovraffollamento: Alberto a Crema, in condizioni gravi e Antonietta in quello di Lodi. Per loro, da sempre insieme, una separazione forzata che perà non avrebbe sortito effetti sul loro legame indissolubile. Il coronavirus ha preso il sopravvento su di loro, tanto innamorati l’uno dell’altra quanto fragili, per via dell’età, davanti al virus. Lui è morto il 7 marzo, lei il giorno seguente, solo 13 ore dopo. Un legame descritto come indissolubile tra i due, andati via insieme dopo aver da posto festeggiato il loro 50esimo anniversario di matrimonio. Non a caso per l’ultimo saluto insieme è stata scelta la foto dei festeggiamento del loro ultimo anniversario.

Le parole della figlia della coppia. “Non potevamo raggiungerli, ma sapevamo che se fosse mancato l’uno, l’altra non avrebbe retto l’assenza”, queste le parole che la figlia della coppia del lodigiano ha rilasciato a Il Cittadino. “Credo che papà avesse capito che non ce l’avrebbe fatta così ha voluto chiamare tutti in quei giorni, quasi volesse rivolgerci l’ultimo saluto. Sapevamo che se ne fosse andato uno, l’altro non ne avrebbe sopportato l’assenza. Così è stato: insieme fino alla fine, anche nel loro ultimo viaggio“. Nei report di questa epocale epidemia da oggi compariranno anche i nomi di Severa Belotti e Luigi Carrara. Avevano 82 e 86 anni, erano sposati da più di 60 e hanno passato gli ultimi otto giorni della loro vita chiusi nella loro casa di Albino con la febbre alta e tutte le difficoltà a ricevere assistenza medica. Lui è stato ricoverato sabato. Lei domenica. Sono morti ieri a un paio d’ore di distanza l’una dall’altro: alle 9.15 e alle 11. «Ed è vero che erano anziani, ma stavano bene, mio padre alla sua età non sapeva che cosa fosse il medico. La verità è che questa non è una banale influenza, questa è un’influenza della madonna e se finisci all’ospedale, esci vivo o esci morto». Luca Carrara è il figlio a cui il coronavirus non ha nemmeno concesso di salutare i suoi genitori. «Sono morti soli, è così con questo virus», parla con un filo di rabbia, ma c’è più rassegnazione nella sua voce. «I tuoi cari restano soli e tu non puoi nemmeno salutarli, abbracciarli, cercare di portare loro un po’ di conforto, magari anche con una bugia buona: andrà tutto bene». Dipendente di Uniacque, vive anche lui ad Albino con la moglie e i due figli. L’evoluzione della malattia, per i suoi genitori, è stata simile a quella di tanti casi. «Hanno fatto otto giorni con la febbre a 39 — racconta Carrara —, il medico condotto non c’era, il 118 non veniva. Sia chiaro, non ce l’ho con il 118, li capisco e anzi devo solo ringraziarli perché hanno tentato di salvarli». È stato nel fine settimana, quando la situazione è precipitata e prima il papà e poi la mamma sono stati trasferiti al Papa Giovanni XXIII di Bergamo. «In ospedale è un disastro — prosegue Carrara —, non sanno più dove mettere i pazienti, probabilmente i medici stanno facendo selezione e lasciano andare i più anziani. Ma d’altra parte che cosa possono fare?». I numeri, quelli dei report, impressionano: l’epidemia procede di oltre 200 contagi al giorno: 248 lunedì, 227 ieri. Siamo a 1.472 casi in Bergamasca, ad Albino 60, persone con sintomi ben visibili. I tamponi, agli altri, non li fanno più. E poi ci sono 116 vittime, di cui 6 in paese, anche se la sensazione è che le stime siano al ribasso. È una ricorsa agli annunci che si susseguono su Facebook. Anche Carrara ne ha scritto uno: «Ciao papà e mamma, questo brutto virus vi ha portato via tutti e due nello stesso giorno, continuerete a bisticciare anche lassù? Credo di sì, ma poi finiva tutto in un abbraccio». Sembrano le scene di tante case. «Erano così, ma poi si cercavano sempre», li ricorda il figlio. Luigi prima della pensione lavorava come muratore. Severa era casalinga. «Mio padre aveva 86 anni, era anziano, ma non aveva nessuna patologia — sottolinea Carrara —. La gente deve capire che deve stare in casa, perché va bene che continuano a ripetere che le vittime sono anziane, ma poi quando capita ai tuoi genitori è davvero dura. Io non li ho più visti, le salme sono state portate al cimitero e sappiamo che li cremeranno fra giorni, perché ci sono troppi morti». Ai tempi del coronavirus i social diventano la piazza del dolore. Un po’ per forza. «Io, i miei figli e mia moglie siamo in quarantena — spiega Carrara —, così la tristezza è doppia. In questo momento, non posso vedere mia sorella, che si è occupata di sbrigare tutte le pratiche. Non posso ricevere la visita di un amico. Nulla. In un giorno solo ho perso tutti e due i miei genitori. Ma andiamo avanti, mio padre me lo diceva sempre».

L’ultimo saluto dei figli a papà Romano, vittima del coronavirus. Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano. «Ciao papà. Te ne sei andato solo, anche se solo non sei mai stato perché il mio amore infinito per te non ti ha mai abbandonato nemmeno per un istante. Spero che quel cuore rosso disegnato su un foglio di carta, nell’isolamento della tua stanza ti abbia dato la forza per non avere paura. La tua luce sarà sempre nel mio cuore». Ale. E poi Bruno: «Papà ho sempre desiderato da piccolo fare quello che facevi tu, mi hai trasmesso l’amore per i motori e per le corse ma soprattutto mi hai insegnato i valori più importanti della vita: la famiglia, l’amore, la gratitudine, il rispetto. Mi spezza il cuore non averti tenuto la mano negli ultimi momenti della tua bellissima vita, ma ti sono sempre stato vicino e sarai sempre nel mio cuore». Alessandro e Bruno sono fratelli, figli di Romano Zanini, imprenditore 81enne di Sesto San Giovanni morto a Niguarda di coronavirus nella notte fra sabato e domenica. I loro due messaggi al padre sono necrologi affidati ieri alle pagine del Corriere della Sera. E oggi il seguito: una lettera (sempre sul Corriere) per ricordarlo, salutarlo e dirgli «ci mancherai tantissimo». «Caro Romano - scrivono i due figli in uno dei primi passaggi - a te va questo pensiero perché non possiamo nemmeno celebrarti con tutti gli amici e le persone a te care. Non si può più stare vicini, toccarsi, abbracciarsi, baciarsi, stringersi e amarsi. E questa cosa uccide un po’ anche tutti noi». Le parole amare dei fratelli Zanini trasmettono tutto lo sgomento di tanti, tantissimi familiari che si trovano ogni santo giorno nella stessa loro situazione: un padre o una madre che muore e nemmeno un saluto. Vietato avvicinarsi ai reparti dove sono ricoverati gli infetti, e se sono in condizioni gravi diventa difficilissimo anche solo una telefonata, una videochiamata, il sorriso in diretta dei nipotini o una fotografia da guardare. Aggravarsi, essere intubati e morire molte volte è un percorso breve, poche ore e tutto finisce. Senza nemmeno un saluto, appunto. I bigliettini sono la cosa che funziona di più. Basta un disegno, una frase e i nomi delle persone care per sentire un po’ della vita che passa, là fuori, e non più la vita che finisce nella loro stanza. Alessandro dice che «il bel cuore rosso» di cui parla il suo necrologio lo hanno disegnato i suoi figli su un pezzo di carta, ci hanno scritto sotto i loro nomi e l’hanno mandato al nonno. «Mi hanno detto che glielo hanno appeso al muro davanti al letto» ci racconta. «Quindi questo cuore lui lo vedeva, spero che gli sia stato di conforto quando si è reso conto che se ne stava andando. Non potergli stare vicino nel momento della sofferenza, mi creda, è un dolore che non si può immaginare. Fino a settimana scorsa eravamo una famiglia senza problemi, lui veniva in ufficio ogni mattina, e invece guarda adesso...». Adesso Alessandro e suo fratello sono in ansia per la madre Emilia, 77 anni, ricoverata anche lei per coronavirus al San Raffaele. E’ intubata, non sa che suo marito è morto. «Ogni tanto riusciamo a comunicare al telefono con lei, quando le tolgono l’apparecchiatura, ma ha un filo di voce e si fa molta fatica. Prego il cielo che si riprenda, non voglio pensare al peggio» dice Bruno. Anche lui come suo fratello è direttore generale della Motorquality, l’azienda che il padre fondò nel 1976 e che distribuisce marchi di componentistica di alto livello per auto sportive e moto. Una sede centrale a Sesto san Giovanni, una piccola succursale in Germania e, più di recente, una a Shanghay, in Cina. Il destino, in questa storia, ha disegnato un cerchio. Una traccia che parte e si chiude in Cina. «Pensi che cosa pazzesca - racconta Bruno -. Dovevamo andare a inaugurare la nuova impresa a Shanghay. Avevamo detto a papà: ti portiamo in Cina con mamma e inauguriamo assieme la sede. Ma poi lì è scoppiato il coronavirus e non abbiamo più potuto partire. Adesso lì è finito l’allarme e possono riaprire e la nostra sede l’hanno inaugurata i nostri dipendenti settimana scorsa, proprio mentre mio padre, il fondatore, era ai suoi giorni finali per un virus che arriva da laggiù...». Bruno e Alessandro sono in quarantena. In questo tempo di distanze e silenzi, Bruno dice che «se penso a mio padre sono preso dai rimorsi per non aver speso del tempo in più con lui o per non aver fatto questo o quello». I funerali, «li faremo fra sei-otto mesi, un anno. Giovedì andremo a chiuderlo ma non possiamo nemmeno portargli un vestito, dargli un bacio. Ci siamo chiesti ovviamente dove possa essersi infettato ma non riusciamo a capirlo. Noi non andiamo in Cina da inizio dicembre, lui è stato bene fino a pochi giorni fa... chissà da dove è arrivato quel bastardo che ti entra dentro e ti ammazza in pochi giorni...». Sospiro. L’ondata del ricordi si mescola ai sensi di colpa. «Ho sentito per la prima volta nella mia vita una sensazione di impotenza - si commuove Bruno -. Anche i miei figli hanno scritto un bigliettino per lui, per fargli sapere del bene che gli volevano, e glielo hanno mandato fra con i panni del cambio biancheria. Non poterlo vedere, non potergli stringere la mano mentre moriva... è struggente, difficilissimo da accettare. Ho pianto così tanto che le lacrime le ho finite». Consola immaginare che lui sapesse, che non serve un addio di parole e di mani strette per capire tutto l’amore di cui è fatto. Che i bigliettini ricevuti - chissà - magari erano un po’ magici, mostravano parole non scritte per dire tutte le cose mai dette. Compreso un saluto finale.

Monica Serra per “la Stampa” il 10 marzo 2020. Quando hanno portato via suo papà, mentre era su una barella nel piccolo giardino di casa, è riuscita solo a dirgli: «Mi raccomando, non avere paura, so che sei un fifone». Poi più nulla. Non una parola, non una carezza. Neanche un funerale. Una cassa di legno chiusa al cimitero cinque giorni più tardi. Due parole del parroco e la tumulazione della salma accanto a quella della mamma, morta da anni, mentre fuori aspettavano già i parenti di un' altra vittima, che si era spenta in fretta in qualche altro ospedale della Bassa. L'urlo di dolore di Orietta S. è quello di tante, troppe persone che vedono la mamma o il papà anziani andare via in ambulanza. Aspettano che il telefono squilli per tutto il giorno e tutta la notte, poi più nulla.

Suo padre, Dino, si è spento nell' ospedale di Crema lunedì 2 marzo. Era ricoverato in terapia intensiva?

«A oggi non lo so ma non credo che sia neppure arrivato in quel reparto. So solo che, quando ho chiamato domenica, mi ha risposto un medico che era molto preso. Mi ha detto: "Signora, deve capire, noi siamo nella m... Il papà è intubato e sedato in sala operatoria, in attesa che si liberi un posto in terapia intensiva". L' ho pregato di darmi qualche notizia. Erano le 3 del pomeriggio e il papà è morto alle 8 e mezzo di sera. Nessuno mi ha detto nulla, non so ancora che cosa sia successo».

Chi le ha comunicato che era venuto a mancare?

«Il giorno dopo si è presentato a casa il maresciallo dei carabinieri. Non so dire che cosa ho provato quando l'ho visto: avevo già capito».

Quando suo papà ha iniziato ad avere i sintomi?

«Mio padre non ha mai avuto i sintomi del coronavirus. Martedì 25 febbraio è caduto in casa. Mi ha detto che aveva avuto un giramento di testa. E anche nei giorni successivi diceva di sentirsi stanco. Così venerdì ho chiamato il medico per un controllo. È stato lui ad accorgersi che aveva un focolaio al polmone e ha chiesto l' intervento di un'ambulanza. Ha chiamato quattro ospedali, ma erano tutti al collasso. Alla fine ha trovato posto a Crema: erano le 5 del pomeriggio di venerdì 28 febbraio».

Suo padre aveva altri problemi di salute?

«Ma no, era un uomo in forma. Aveva 80 anni, ma sembrava uno di 60. Faceva le sue cose: il bar, gli amici, a Castiglione tutti gli volevano bene. Era il classico uomo col cappello in testa, che quando te lo trovi davanti in macchina ti arrabbi un po' perché va a 30 all' ora, ma era lucidissimo. Prendeva le pastiglie per la pressione e niente più».

Dopo il ricovero che cosa è successo?

«Nessuno mi ha mai telefonato dall' ospedale. Ho chiamato io sabato e mi hanno detto che lo stavano aiutando a respirare, ma che era vigile. Ho richiamato domenica, mi hanno detto che era stabile. Il giorno dopo la situazione è precipitata. Ho saputo che mio padre non c' era più solo lunedì».

Nelle sue parole c' è molta rabbia.

«Si, mio papà se n' è andato e non gli ho potuto dire "ti voglio bene". L' ho visto uscire su una barella e poi in una cassa chiusa al cimitero. Non gli è stato concesso un funerale.

Due parole rapide del parroco e via, tumulato sotto quattro pietre».

·        Spariti nel Nulla.

Gianni la vittima dimenticata, sepolto tra chi non ha nessuno. La famiglia: noi mai avvertiti. Pubblicato venerdì, 22 maggio 2020 su Corriere.it  da A. Coppola e G. Santucci. Alle 15.44 del 4 aprile il dottor Vando Fossati preme «invio» sulla tastiera del computer. L’email raggiunge l’indirizzo istituzionale del sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Fossati non lo conosce personalmente, ma è il suo ultimo, disperato tentativo: non sa più a chi rivolgersi. Il messaggio inizia così: «Gentilissimo, sono a chiederle un aiuto...». Poi spiega: «Mio fratello Gianni Fossati è deceduto per coronavirus il 24 marzo all’ospedale “Fatebenefratelli”, dove è tuttora ricoverata sua moglie. Sono l’unico fratello e ho saputo del decesso da fonti informali». Non dal personale medico, né dal Comune. Fossati, senza informazioni e senza risposte alle sue domande poste in ogni sede possibile, chiede infine al sindaco come può «acquisire il certificato di morte» e recuperare «gli oggetti personali» del fratello: ma soprattutto, se possibile, vorrebbe sapere «dove è il feretro». È questo che è successo, a Milano: a 11 giorni dalla morte, Vando Fossati non sa dove sia la salma del fratello. L’amarezza più nera e composta traspare solo nell’ultima riga: «Non possiamo, non vogliamo essere trattati da clandestini». Non c’è offesa nel termine, non intende riferirsi a immigrati senza documenti. Il sostantivo viene usato in accezione letterale. Gianni Fossati, 79 anni, dirigente di Rcs per decenni, docente a contratto dell’università «Cattolica», vice presidente dell’Accademia italiana della cucina, portavoce del corpo consolare di Milano e Grande ufficiale della Repubblica insignito sotto la presidenza di Sergio Mattarella, è morto da «clandestino». Senza che nessuno avvertisse la famiglia. E così è stato inumato, come se fosse un marito, uno zio, un fratello di nessuno, fossa 23, Campo 87, la zona ricavata al Cimitero maggiore per i morti che nessuno reclama. Di quella collocazione Vando viene a conoscenza 13 giorni dopo la morte, due dopo la sepoltura. Erano i tempi peggiori della pandemia. C’erano il caos, il dolore, la fatica e molto è ancora da capire. In tanti sono morti lontani dai propri cari. Al personale medico, già provato, è toccato fare da filtro. Il «Fatebenefratelli» fa una ricostruzione diversa della vicenda. La prima parte coincide: Gianni è stato ricoverato il 18, il 24 marzo è morto. L’ospedale sottolinea: «Abbiamo tempestivamente avvisato la moglie», che a sua volta è stata ricoverata (il 27 marzo) restando in contatto costante con i parenti, ricordano i medici. «Telefonava spesso utilizzando il telefono del reparto dedicato ai degenti». La signora è guarita, è stata dimessa. Ma è stata lei stessa ad affidarsi al cognato per scoprire il destino del marito: ribadisce di non aver saputo della morte, tanto meno della collocazione al Campo 87. «È un’offesa gravissima — riflette Vando Fossati — che un uomo debba morire ed essere sepolto senza che la famiglia venga informata»; è «inammissibile che un fratello, zio e marito» debba andare sotto terra da solo, «come se la sua famiglia fosse legalmente “disinteressata” alla sua salma e al suo percorso dopo la morte»: perché quell’uomo una famiglia ce l’aveva, lui stesso ancora in vita aveva espresso la volontà di essere cremato, e infine «ricondotto nella tomba dei parenti della moglie, nel cimitero di Pavia, dove c’è anche nostra madre». Il Campo 87 è stato individuato in base a un’ordinanza del sindaco del 13 marzo scorso, quando i morti di Covid iniziavano ad aumentare e il Comune si è reso conto che la gestione delle salme sarebbe stata un problema. Quel giorno l’amministrazione decide di ridurre da 30 a 5 giorni il tempo che le famiglie hanno a disposizione per definire la gestione dei deceduti. Da quel termine in poi, l’amministrazione si fa carico delle sepolture, come accadeva già prima per le famiglie gravemente indigenti o legalmente disinteressate. Interpellato, l’assessorato ai Servizi civici non contempla errori, bensì casi di parenti irraggiungibili o malati, che non hanno potuto dare disposizioni. Per il caso di Gianni Fossati, il Comune parla di un’email dall’ospedale che riferiva di non aver trovato parenti. Due versioni inconciliabili. Il Corriere ha già raccontatola storia del professor L., ex preside, deceduto ancora al «Fatebenefratelli» e sepolto al Campo 87 per una carenza di informazioni alle figlie, residenti a Milano. Nella vicenda di Fossati sembra che le informazioni siano del tutto mancate. Il 18 marzo Fossati va a farsi vedere da un medico a Villa Marelli, un centro dell’ospedale Niguarda. Da qualche giorno sente sintomi strani. A Villa Marelli ha un amico, entra con la sua auto. Chiede un consulto. Il medico gli dice che deve andare in ospedale. Quel giorno stesso viene ricoverato al Fatebenefratelli. Il fratello Vando, appena lo viene a sapere, chiama più volte l’ospedale. Cerca informazioni. Non le riceve. Le telefonate rimbalzano senza esito tra centralino e reparti. Continua a tentare per giorni. Alla fine, riesce ad aprire un canale alternativo: grazie a un amico del figlio, trova un infermiere, che cerca tra le cartelle e riferisce che Fossati non è intubato, non ha il casco e viene assistito solo con un po’ di ossigeno. Ma il 24 marzo Fossati muore. Vando lo scopre il giorno dopo, ma non dall’ospedale. «Mio fratello — racconta — aveva tante conoscenze a Bergamo, e da lì, non so attraverso che giro, rimbalza fino a noi la notizia del decesso». Tanto che il 26 marzo escono già alcuni necrologi sul Corriere: «Il mio è uscito solo il giorno successivo, il 27». Da quel momento, l’uomo inizia una nuova ricerca, stavolta per sapere dove si trovi la salma. Chiama più volte l’ospedale; prova con i centralini del Comune. Non riesce a venirne a capo. Per rendersi conto dell’attenzione e dello scrupolo della famiglia, va detto che Vando Fossati, sapendo che suo fratello deteneva un’arma, dopo il decesso si preoccupa di chiamare la polizia, che infatti va nell’appartamento e la ritira. Il 4 aprile, a 11 giorni dalla morte del fratello, Vando Fossati scrive l’email al sindaco. Poi gli viene in mente di avere una vecchia conoscenza nei Radicali, e da quella arriva a Lorenzo Lipparini, assessore comunale alla Partecipazione. Lo contatta. Gli spiega. Lipparini si interessa. Poche ore dopo, nel tardo pomeriggio del 6 aprile, Vando Fossati riceve una email (recapitata per conoscenza anche al sindaco e all’assessore ai Servizi civici, Roberta Cocco): «Non avendo avuto disposizioni da parte dei parenti entro 5 giorni dal decesso», il Comune di Milano ha sepolto d’ufficio Gianni Fossati il 4 aprile, nel «campo 87», «fossa 23».

Sull'ambulanza a Bergamo con Marco e Roberto: "Dopo 8 notti la paura del buio". Il racconto all'Huffpost di due volontari della Croce Rossa partiti da Firenze per la città più colpita dal Covid-19. "La guerra divide le famiglie, come il virus. Uno dei nostri compiti era proprio strappare le persone dalle braccia dei familiari”. Silvia Renda il  16/05/2020 su l'Huffingtonpost.it. “Ho ricominciato ad avere paura del buio. Il sole segnava la fine del turno, la possibilità di stare tranquilli per qualche ora”. Otto notti a Bergamo. Otto turni da quattordici ore nell’ambulanza per rispondere alle chiamate covid. A respirare il tuo stesso fiato nella mascherina, a sentire la tuta appiccarsi sulla pelle per il sudore, e con gli occhi, solo gli occhi, per comunicare, quando non puoi permetterti neanche di poggiare la mano su una spalla per dare conforto a chi si deve rassegnare alla morte. Come volontari della Croce Rossa, Marco e Roberto hanno portato la loro esperienza dove c’era bisogno, spostandosi da Firenze a una delle città più colpite dalla pandemia. Era metà marzo e a Bergamo la notte appariva spettrale. Non si incontrava altro in giro se non ambulanze. Non c’era traccia di umanità, se non bardata da capo a piede con tute, mascherine e occhiali protettivi. “Abbiamo smesso di usare la sirena perché non ce n’era bisogno”, raccontano ad Huffpost, “L’ambiente era così terrorizzante che anche sentire quel rumore faceva paura. È stato pesante, parecchio”. Puoi partire credendoti pronto, puoi avere alle spalle una lunga esperienza – Roberto fa il volontario da 4 anni, Marco da 2 – ma la gravità della situazione ti coglie comunque impreparato. Non professionalmente, ma umanamente: “Qui a Firenze non si sono viste le strade davvero deserte, la gente lasciata morire a casa, gli ospedali al collasso. Non si è visto un livello di saturazione del sangue che io credevo appartenesse solo ai cadaveri e invece registravo in gente ancora viva. Lassù si assisteva tutti i giorni a situazioni del genere”. La saturazione normale, in una persona sana, è 98/100. Sotto i 94 è considerata soglia d’allarme. Lassù vedere il saturimetro segnare 82 “era oro colato. Trovavamo gente a 40”. “E a quel punto cosa facevi?” chiediamo. Una pausa. “Niente”. Niente significa non portare neanche il paziente in ospedale, insolito per un volontario che non è praticamente mai chiamato a prendere una decisione del genere, ma in quelle notti a Bergamo, per un parametro, ha dovuto decidere della vita delle persone. E comunicarlo non era semplice: “Avevamo solo gli occhi, solo lo sguardo. Le parole erano poche, perché c’era poco da dire. Ti facevano domande a cui non sapevi dare risposta. O non volevi darla, perché non era ciò che avrebbero voluto sentire. A chi ti chiedeva se le avremmo riportato il marito, cosa avevi da dire? Come potevi mentire, per l’istinto di dare conforto? Non avevi la forza d’animo”. L’elastico della mascherina scava dietro le orecchie e lascia un solco doloroso. Gli occhiali protettivi premono sul naso, si appannano. Nel freddo di Bergamo, sentivano il sudore colare sul volto, sul corpo accaldato da una tuta che non permette traspirazione. Sette minuti per prepararsi così, a controllare mille e mille volte che fosse tutto in ordine, sicuro. Per gli altri e per se stessi: “Sentivo addosso tantissima paura. Talmente tanta, da non riuscire neanche a identificare cosa mi terrorizzasse esattamente. Se contrarre il virus, portarlo a casa, contagiare le mie figlie. C’era questo, ma non solo. Non riesco a capirlo fino in fondo”. Marco e Roberto si sono ritrovati a rapportarsi con persone al massimo del loro bisogno e della loro impotenza. Inermi e fragili come bambini. “Si aspettano che li salvi, che li curi. Vogliono da te speranza, ma tu non sei la speranza, sei il tramite”. E in quello scenario estremo, hanno visto il bene immenso e hanno visto “il compromesso”. Marco prima lo chiama disumanità, poi si corregge. È un termine troppo giudicante. Chi può dire cosa c’è di disumano nello scegliere di salvare se stessi e i figli, sacrificando la propria madre? Nessuno, se non lo ha vissuto sulla propria pelle. “Dalle poltrone è facile non chiamarla guerra”, dice Marco, “ma la guerra divide le famiglie, così come ha fatto il covid. Uno dei nostri compiti era proprio questo: strappare le persone dalle braccia dei familiari”. Una notte, erano le 3 e mezza circa, Roberto era rimasto solo in ambulanza, attendeva il ritorno di Marco, entrato in una casa dove c’era stata una segnalazione. A un tratto sulla strada è comparsa una donna. “Lì per lì ho avuto quasi paura”, ricorda, “Poi mi ha accennato un sorriso e mi sono tranquillizzato. Le ho chiesto di cosa avesse bisogno”. Il virus aveva colpito la sorella con cui viveva, ha raccontato a Roberto che l’ascoltava dal finestrino abbassato. Qualche giorno prima era stata portata in ospedale e non era più tornata. La donna non sapeva neanche dove si trovasse il corpo della sorella morta. Nella casa che divideva con lei era rimasta completamente sola, col suo dolore: “Vedendo la nostra ambulanza è scesa per strada, perché aveva bisogno di piangere con qualcuno. E abbiamo pianto insieme”. Roberto ne ricorda un altro di episodio emblematico, di una donna costretta a scegliere tra il sacrificio della madre o dei figli: “Una signora di 70 anni stava male. Abbiamo chiesto alla figlia se fosse certa di volere che la portassimo in ospedale, un luogo in quei giorni poco sicuro, da cui forse non sarebbe più uscita. ‘Ho due figli in casa. Se si infettano loro? Cosa devo fare?’, ci ha risposto lei. Immagino che la signora avrebbe tenuto volentieri la madre con sé, ma era così spaventata da preferirla ovunque fuorché a casa sua”. Partiti da sconosciuti, dopo otto notti a Bergamo Marco e Roberto si sentono uniti da un legame profondo. C’erano per l’uno e per l’altro, mentre osservavano un’umanità smarrita, e all’umanità si aggrappavano per non rimanere devastati, dalla stanchezza e dai sentimenti. Per medici e infermieri assistere i malati di coronavirus non è stata sempre una decisione: il mestiere ha imposto loro la presenza negli ospedali in un momento pericoloso e drammatico. I volontari quel rischio se lo sono assunti per scelta. Marco e Roberto si dicono sconvolti da “otto notti di terrore”, ma a domanda rispondono senza esitare: se ci fosse ancora bisogno, sarebbero pronti a ripartire.

Da "Corriere della Sera" il 9 maggio 2020. Nei giorni terribili di Bergamo, quando il mondo sospirava davanti alle immagini della città, il caporal maggiore Tomaso Chessa guidava uno di quei camion militari. Accanto aveva un collega e con lui fece due viaggi che non dimenticherà mai. «Nel camion non eravamo in due ma in sette... cinque dei quali affrontavano il loro ultimo viaggio... eh sì l' ultimo. Quando il silenzio rompeva la routine, il pensiero si posava su di loro». Con i due militari, verso il forno crematorio, viaggiavano cinque persone che non ce l' avevano fatta. Cinque corpi senza vita, destinati all' ultimo atto su questa terra. Senza un parente, lontani dal loro paese, a bordo di un anonimo mezzo dell' esercito. Le colonne di camion verdi che portavano altrove le vittime della nuova peste perché non c' era più posto a Bergamo, sono uno dei simboli della pandemia, il più cupo e penoso. Novecento bare, trasportate in mezza Italia per un mese interminabile, dal 18 marzo al 17 aprile. «Io vi dico la mia, anche se sono cosciente di non rendere (per fortuna) l' idea», racconta su Facebook il caporale Chessa, 42 anni, origini sarde, in uno slancio confidenziale che supera le strette regole dell' esercito. Sulla vicenda le Forze armate hanno infatti scelto un rispettoso silenzio. Con questo racconto, il caporale ha voluto restituire un po' di calore alla fredda processione di quei giorni. «Ti rendi conto di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo ma purtroppo non poteva e allora tocca a te... e ti senti addosso una grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro. Ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti... poi arrivi alla fine del viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare "il tuo carico", che ormai fa parte di te. È come se ti togliessero una parte di cuore, ed è lì che cerchi di capire l' identità del tuo compagno... cosa difficilissima». Lui, soldato e operatore funebre. Naturalmente era la prima volta per Chessa, da 22 anni nell' esercito e attualmente in forza al reggimento di supporto logistico al comando della Nato, a Solbiate Olona. «Delle otto persone che personalmente ho accompagnato, l' unica della quale sono risalito all' identità è il signor Guerra, classe 1938. Pagherei per conoscere tutti i parenti delle otto persone e poter dire loro che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore». Chiude con una speranza: «Vorrei conoscere le persone care dei miei compagni di viaggio, ma se così non fosse sappiano che c' ho messo l' anima!».

Troppi i morti di Covid per cimiteri e forni crematori. “Pagherei oro per incontrare i parenti”, il racconto del militare che ha trasportato i morti di Bergamo. Redazione su Il Riformista l'8 Maggio 2020. Più che i numeri e i bollettini, a dare la misura del dramma che stava vivendo la città di Bergamo furono le immagini viste il 18 marzo. Quella sera un convoglio militare si recò presso il cimitero Monumentale che non riusciva più a far fronte all’emergenza. Una sessantina di cadaveri, vittime del coronavirus, vennero così trasferiti altrove, anche fuori dalla Regione. Quelle immagini fecero il giro del mondo e si sarebbero ripetute anche nei giorni successivi. Bergamo, che si trova in quella Lombardia che è stata la regione più colpita dal Covid-19, è stata per molti giorni l’area più critica dell’emergenza. Oltre un mese dopo quelle scene drammatiche arriva il racconto di uno degli autisti che furono incaricati di compiere quell’operazione, “anche se sono cosciente di non rendere l’idea”. Tomaso Chessa si trovava alla guida di uno di quei mezzi militari trasformatisi in carri funebri. Il suo pensiero lo ha voluto condividere sui social alla vigilia della Fase 2. “E stasera termina la fase uno …che dire? – ha esordito Chessa – forse la gente non si rende conto, non ha materialmente avuto il tempo di percepire la realtà”. “Essere alla guida di un camion – continua – una giornata qualunque dove il pensiero ti porta oltre la tua quotidianità. Tu guidi, scambi due chiacchiere con il collega alla parte opposta della cabina, ma quando, per forza di cose, per un istante il silenzio rompe tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro. Realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette … cinque dei quali affrontano il loro ultimo viaggio … e si …. l’ultimo … ti rendi conto di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo ma purtroppo non può … tocca a te … ed è li che senti addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro. Ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti”. “Poi arrivi lì, alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare “il tuo carico”, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore. Ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio … cosa difficilissima. Delle otto persone che personalmente ho accompagnato, l’unico dei quali sono riuscito a risalite alla sua identità è il Signor Guerra classe 1938. Pagherei oro per conoscere tutti i parenti delle otto persone e potergli dire che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore …” Il militare chiosa con un appello affinché non si sottovaluti l’emergenza :”Facile dire: qua non siamo a Bergamo … Bene, abbiate la coscienza ed il buon senso di tutelare i nostri cari che hanno la fortuna di vivere in posti più sicure, ma non dimenticate che sbagliare è un attimo … Spero un giorno di poter conoscere i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”

Il militare che guidò i camion con i morti di Bergamo: “Straziante”. Antonino Paviglianiti il 08/05/2020 su Notizie.it. Coronavirus, le immagini con i morti di Bergamo trasportati in camionette dei militari resteranno sempre parte di Tomaso Chessa. Le immagini dei morti di Bergamo trasportati all’interno di bare con camionette dei militari resteranno per sempre nella mente degli italiani. Danno dimensione di cosa è stato e continua a essere l’emergenza Coronavirus in Italia. E adesso, terminata la cosiddetta fase 1, a parlare è uno di quei militari che quei giorni strazianti li ha vissuti in prima persona e che difficilmente riuscirà mai a dimenticare. Tomaso Chessa dà libero sfogo ai suoi pensieri su Facebook: “Essere alla guida di un camion, una giornata qualunque dove il pensiero ti porta oltre la tua quotidianità. Tu guidi, scambi due chiacchiere con il collega alla parte opposta della cabina, ma quando per forza di cose, per un istante il silenzio rompe tua routine, il tuo pensiero si posa su di loro, realizzi che dentro quel camion non siamo in due, ma in sette…”.

Coronavirus e morti a Bergamo: la lettera. Inizia così la lettera aperta che il caporalmaggiore capo scelto Chessa, 42 anni, sassarese, scrive per raccontare le sue settimane alla guida di un camion dell’Esercito adibito al trasporto delle vittime bergamasche di coronavirus.

In servizio nel Reggimento di supporto tattico e logistico di Solbiate Olona (Varese), Chessa ripercorre i pensieri che hanno accompagnato “l’ultimo viaggio” di quei “compagni di viaggio”. “Ti rendi conto di essere la persona sbagliata, o meglio, qualcuno doveva essere al posto tuo ma purtroppo non può e tocca a te – spiega Chessa – ed è li che sentì addosso quella grande responsabilità, qualcosa che ti preme dentro, ogni buca, ogni avvallamento sembra una mancanza di rispetto nei loro confronti…”. “Poi arrivi lì alla fine del tuo viaggio, dove ti ritrovi ad abbandonare ‘il tuo carico’, oramai fa parte di te, come se ti togliessero una parte di cuore, ed è li che cerchi di capire l’identità del tuo compagno di viaggio… cosa difficilissima, delle otto persone che personalmente ho accompagnato, l’unico dei quali sono riuscito a risalite alla sua identità è il Signor Guerra classe 1938″. Tomaso Chessa racconta ancora: “Pagherei oro per conoscere tutti i parenti delle otto persone e potergli dire che nonostante il contesto non avrebbero potuto fare un viaggio migliore….”

Il commovente sfogo di Tomaso Chessa. Ma Chessa, il militare che ha trasportato le bare con i morti di Bergamo da Coronavirus, è anche arrabbiato. Con chi non capisce la gravità della situazione: “La cosa che mi dispiace di più, nonostante questo, amici e famigliari, continuano a non rendersi conto che tutto questo non è uno scherzo, la gente muore, chi non muore soffre, facile dire qua non siamo a Bergamo… Bene, abbiate la coscienza ed il buon senso di tutelare i nostri cari che hanno la fortuna di vivere in posti più sicure, ma non dimenticate che sbagliare è un attimo… Spero un giorno di poter conoscere i cari dei miei compagni del loro ultimo viaggio, ma se cosi non fosse sappiano che c’ho messo l’anima!”.

Fabio Poletti per “la Stampa” il 6 maggio 2020. Per entrare al cimitero di Alzano Lombardo si fa la fila con i guanti e la mascherina. I volontari della Protezione Civile fanno entrare 17 persone per volta. Quando uno esce, entra un altro. Sembra una catena di montaggio. O la fila al supermercato. Una ragazza giovane con una coda di capelli biondi, racconta il flagello che si è abbattuto nella valle: «Tre parenti morti solo tra quelli diretti di mio padre. Sono morti in casa, di polmonite hanno detto i medici. Nessuno gli ha mai fatto il tampone. Non è che perché fossero anziani dovevano morire così. Due sono stati cremati a Varese. Uno a Firenze ma stiamo ancora aspettando l'urna con le ceneri. Li han portati via col camion dell'esercito. Non è stato possibile fargli il funerale. Solo l'inumazione con la benedizione del parroco ma è già una consolazione». Un muro di lapidi bianche senza nome, che non c' è stato il tempo. Foglietti volanti attaccati con lo scotch, nome cognome e foto sbiadite dal computer. Pierangela Carrara era nata nel 1949 ed è morta il 6 marzo. Alessandro Deldossi era del 1944 ed è morta il 9 marzo. Luigi Morosini del 1930 è morto il 10 marzo. Un altro Luigi Morosini, ma del 1936, è morto l' 11 aprile. Poi c' è Arnaldo Nespoli del 1942 morto il 4 aprile. E Teresina Sonzoli del 1935, morta il 9 aprile. Così per 40 volte, un nome su un foglietto, una foto, una lapide candida. I colombari del cimitero di Villa d'Alserio, tutto il lato sinistro vicino alla cappella per le preghiere, raccontano cos'è stato il Coronavirus in Val Seriana, provincia di Bergamo, migliaia di morti che si è perso quasi il conto, con un incremento di decessi rispetto all' anno scorso del 568%, come registra l' Istat. La riapertura Il fiorista a fianco dell' ingresso del cimitero dice che gli stanno arrivando in massa le richieste per sistemare i vasi dei colombari. Il cimitero è stato riaperto solo lunedì, dopo due mesi di chiusura voluta dal sindaco per i troppi assembramenti. C' era il rischio di contagiarsi, a piangere i morti. Una signora con un soprabito leggero azzurrino, ha in mano un mazzo di margherite. Sono per suo marito morto tanti anni fa: «Venivo qui ogni settimana. Sono più di due mesi che non lo vedo». Il dolore livella. La contabilità inarrestabile per due mesi dei morti è uno tsunami. Per fare prima, per evitare assembramenti, al cimitero di Alzano Lombardo, si entra solo in ordine alfabetico. Ieri pomeriggio toccava a quelli con la G, l' H, la I e la J. La moglie di uno che era qui per rivedere su un foglietto delle pompe funebri un amico, ha il cognome che inizia con la V. Le toccherà tornare venerdì. Sabrina Brignoli della Protezione Civile, fa rispettare le disposizioni. Sotto la divisa gialla non c' è solo un' addetta: «Il cimitero è stato riaperto lunedì. Ripartiamo ma il dolore ce lo porteremo dentro sempre». I funerali continui Al cimitero di Seriate dove sono morti in 270, al martedì e al venerdì pomeriggio si fanno le inumazioni dei defunti cremati altrove, anche lontano perché si faticava a tenere il ritmo. Dieci alla volta, siamo già a sessanta ma è tutt' altro che finita. La custode tiene l' elenco: «È una fabbrica, ma così hanno tutti la possibilità di avere una benedizione per i loro cari». Davanti alla chiesetta del cimitero, sulla ghiaia, un prete con i paramenti per i defunti asperge di acqua benedetta le urne in mano ai parenti. Per ogni urna non più di dieci parenti. Gli altri entrano dopo, per il secondo turno. Bruna Lizzola è qui per la funzione delle 16 e 30 per il cognato Angelo Finazzi che aveva 68 anni: «L' ultima volta l' ho visto al funerale di sua mamma l' 8 marzo, morta in una Rsa. Sono sicura che il virus l' abbia preso quella volta. Dopo pochi giorni è stato male. Gli hanno messo il casco con l' ossigeno a casa, poi lo hanno ricoverato a Seriate ma è morto alla clinica San Giuseppe di Milano. È morto da solo, come tutti. Senza che nessuno potesse vederlo. L' hanno cremato una settimana fa a Novara. Aspettavamo questo momento da giorni, almeno una benedizione perché possa essere finalmente in pace».

Una Y su morti di Covid: ecco cosa sta a indicare. Le bare dei morti per covid-19 segnate con una Y per renderle riconoscibili in caso di esumazione delle salme: gli addetti avranno l'obbligo di indossare le tute protettive anche a distanza di 2 anni dalla sepoltura. Marco Della Corte, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Le bare dei morti per coronavirus saranno segnate con una Y per riconoscerle anche a distanza di 100 anni. Gli addetti avranno l'obbligo di indossare le tute protettive anche a distanza di 2 anni dalla sepoltura, questo nel caso di esumazione delle salme. Come spiega FanPage, i loculi occupati dai deceduti per tale virus dovranno essere sanificati, anche nel caso in cui passasse un secolo, prima di poter essere di nuovo usati per la sepoltura di altre salme. Una concessione, infatti, ha la durata di 99 anni. In realtà, è bene sapere come la procedura qui descritta non è una vera novità: viene, infatti, utilizzata anche per altre malattie altamente infettive come la peste. Y è un simbolo ben preciso, un codice che deve essere apposto sui registri dei cimiteri, per indicare un determinato feretro correlato ad un individuo morto per una malattia pericolosamente contagiosa.

Una Y sulle bare dei morti per coronavirus. A rendere nota ufficialmente tale disposizione è stato il ministero della salute, tramite una circolare del 1 aprile 2020, lettera G, comma 20. La procedura è già diventata concreta nei cimiteri napoletani. Secondo i dati resi noti dalla protezione civile regionale e aggiornati al 21 aprile 2020, in Campania sono 317 gli individui morti per coronavirus, 54 dei quali solo in territorio partenopeo. Molti dei morti sono stati cremati e tale procedimento funebre è stato facilitato dalla protezione civile nazionale. tuttavia, l'incenerimento non deve essere letto come un obbligo in tale periodo, poiché altri morti continuano ad essere tranquillamente tumulati o inumati. Sono state formalizzate regole severe anche per le esumazioni e le estumulazioni delle persone decedute con covid-19, segnate con Y. Questo è quanto chiarificato dal ministero della salute: “Se eseguite prima di 24 mesi da quando si sia proceduto rispettivamente alla tumulazione o all'inumazione, sono da effettuarsi con procedure di salvaguardia del personale operante, dotato dei Dpi (Dispositivi di Protezione Individuale) adeguati, e in orario di chiusura al pubblico del cimitero". Ma le novità non finiscono qui e il ministero spiega come anche negli anni seguenti, quando (si spera) la fase d'emergenza sarà terminata, le estumulazioni temporanee dovranno essere attuate, tramite metodi cautelativi opportuni e inoltre: "I loculi risultati di nuovo liberi devono essere sanificati". È, tuttavia, raccomandato l'utilizzo di locolu vuoti per le future tumulazioni. Procedimenti eccezionali, certo, ma comunque necessari visto lo status quo caratterizzante l'Italia e non solo. Nonostante la pandemia sembri, gradualmente, attenuarsi, purtroppo il numero dei deceduti per coronavirus è ancora da non prendere sottogamba. Ad ogni modo, informiamo come anche il 22 aprile risulti caratterizzato da un record di guariti (2.943) con un calo significativo dei ricoverati.

Da ilmessaggero.it il 23 aprile 2020. Una storia drammatica, una delle tante purtroppo scritte dall'emergenza coronavirus. E c'è anche la «tragedia nella tragedia», come l'ha definita il sindaco di Milano, Giuseppe Sala. Un cimitero con 600 croci bianche tutte uguali, il campo 87 del cimitero Maggiore di Milano. «Questo spazio è quello dove sono stati sepolti coloro le cui spoglie non sono state richieste da un famigliare, la tragedia nella tragedia» ha detto Sala. Si tratta dei defunti che le famiglie non hanno potuto reclamare nei cinque giorni prescritti dal nuovo regolamento comunale dei cimiteri, deciso proprio per l'emergenza Coronavirus, a volte perché in quarantena. E per due anni non si potranno costruire monumenti funebri. «Sessantuno croci bianche spiccano sulla terra ancora brulla - scrive oggi Repubblica -  appena seminata a prato, del Cimitero Maggiore di Milano.Il nome e la data scritti sopra, raccontano la storia dei milanesi sconfitti nella battaglia del nemico invisibile. I caduti del Covid. Al 'Campo 87' c'è il primo cimitero di guerra in tempo di pace, seicento posti dedicati a chi morto lontano dai suoi cari, ostaggio del Coronavirus». 

Gian Antonio Stella per il Corriere della Sera il 20 aprile 2020. A Tana Toraja, nell' isola di Sulawesi, in Indonesia, tra monti terrazzati a riso, giungle rigogliose e orti di carote, i funerali possono durare anche anni. Quando c' andammo noi, un po' di tempo fa, ce n' era uno in corso da diciotto. La morta, una ricca matrona destinata a restare, diciamo così, temporaneamente mezza-viva fino alla conclusione delle interminabili cerimonie funebri, era lì rappresentata in una specie di grande tabernacolo da una statua di legno, con la sua faccia, i suoi vestiti, i suoi bracciali e i suoi occhiali a cavallo del naso. Ogni tanto, ci spiegarono, arrivavano da ogni dove i suoi parenti e amici, prendevano alloggio in una delle ampie capanne «provvisorie» sparpagliate per gli ospiti tutte intorno, ammazzavano un po' di bufali e di maiali, mangiavano, bevevano e benedicevano la defunta. Se nel frattempo la signora sia «morta» davvero per esaurimento dei soldi o della riconoscenza, non sappiamo. Certo doveva essere stata, in vita, molto amata. O molto rispettata. Sono millenni che l' umanità intera, da una parte all' altra del pianeta, mostra rispetto verso i propri morti. Spiegò anzi Confucio nel Libro dei riti ( Lijì ), che «un pappagallo può imparare a parlare, ma resterà comunque un uccello. Una scimmia può imparare a parlare, ma resterà comunque una bestia priva di ragione. L' uomo che non si attiene ai riti, benché possieda la favella, ha il cuore di un essere privo di ragione. (...) Così i grandi saggi apparsi nel mondo hanno formulato le norme di condotta per ammaestrare gli uomini e per consentir loro di distinguersi dalle bestie tramite l' osservanza dei riti». Primi fra tutti quelli funerari. Riti scanditi nei secoli dei secoli attraverso forme e costumi diversi. «Già l' uomo di Neanderthal, diciamo centomila anni fa, non buttava via i morti come carcasse di animali», spiega l' archeologo Fabio Martini, da anni al lavoro sulla necropoli preistorica di Romito, in quello che oggi è il parco del Pollino, «e l' homo sapiens , intorno a quarantamila anni fa, già dava sepoltura ai defunti con oggetti vari, ossa, monili, che davano a ciascuno la propria identità». Non è un caso se le fosse comuni, come quelle viste ad Auschwitz, Srebrenica o giorni fa ad Hart Island, nel Bronx, hanno destato sempre raccapriccio. Lì c' era l' insulto finale, la cancellazione dell' identità. Scriveva Boccaccio nel Decamerone , inorridito da quanto visto coi suoi occhi durante la peste del 1348: «E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n' avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre». Uno sdegno non diverso, spiega Eugenia Tognotti nel saggio La «Spagnola» in Italia (Edizioni FrancoAngeli), da quello provato dai milanesi alla vista dei poveretti uccisi dalla pandemia del 1918 e sistemati in due depositi al Monumentale e alla stazione ferroviaria di Porta Romana. Per non dire della Napoli descritta da un padre sconvolto in una lettera al figlio fuggito in America: «Dalle 7 di sera fino alla mattina non vi è una goccia d' acqua con un caldo africano che si sta soffrendo e il Municipio tace, sui cimiteri sono ammonticchiati cadaveri e aumentano giorno per giorno...». E ti chiedi: ma c' è ancora, oggi, quella indignazione che squassava le coscienze allora? Mah...«La foto che ha fatto il giro del mondo, la colonna infame dei camion militari coi fari accesi tra i semafori che lampeggiano nel nulla», ha scritto giorni fa Francesco Battistini in un duro atto d' accusa sui cortei di automezzi carichi di morti portati via dalle province più bastonate dal coronavirus, «è tutto ciò che oggi la pandemia ci permette: un funerale di Stato senza Stato, né bandiere né fanfare, né presidenti né preti, niente lacrime e parenti». Immagini raggelanti. Accompagnate da tormenti: «Non so ancora dove sia finito mio papà...». «Non so ancora dove abbiano portato mio marito...». Per giorni e giorni. Ventiquattro camion dalla sola Bergamo. Con 486 salme verso 15 diversi inceneritori. Fino all' altro ieri. E non è ancora finita...Bisognava farli di giorno quei cortei, ha detto il filosofo Umberto Galimberti al «Corriere del Veneto», «in modo che fosse chiaro, che la gente si rendesse conto della gravità della situazione. Ma siccome la cultura occidentale ha rimosso la morte, si è ritenuto opportuno di cercare che la gente non vedesse le bare. Che non vedesse la morte nella catastrofe generalizzata. Non abbiamo più capacità critiche per comprendere la morte, data la nostra rimozione». Parole simili a quelle usate, in un' intervista a Silvia Truzzi, dallo storico Franco Cardini: un tempo «morte e malattie erano più comuni, più vicine. La modernità ha portato con sé una sorta di diffusa volontà di potenza che confligge col nostro pur vantato razionalismo: la morte si rifiuta, si nega, si dissimula, si eufemizza, si nasconde grazie a un complesso sistema di segregazione socio-simbolica per cui gli ammalati vengono nascosti e i funerali travestiti il più possibile da eventi non luttuosi. Nel Medioevo e nella prima età moderna, fino al Settecento, si reagiva viceversa ostentando: penso ai trionfi della morte, alle danze macabre. Era un modo di rassegnarsi, ma anche di "addomesticare la morte" che oggi, negata, torna "selvaggia"». Estranea. Emarginata. Come facesse parte, per dirla con papa Francesco, della «cultura dello scarto». Un rifiuto insultante. «Visto che la morte è solo la cessazione di un certo stato di vita, essa non esisterebbe se non esistesse la vita», scrive François Cheng, scrittore e poeta cinese, nelle Cinque meditazioni sulla morte (Bollati Boringhieri). Di più: «Paradossalmente la morte corporale, che è ineluttabile, rivela la vita come il reale principio assoluto. C' è una sola avventura, ed è quella della vita». Solo rispettando l' una si può capire l' altra. E non si dica, per favore, che tutto ciò che abbiamo visto in quei cortei carichi di bare è dovuto «solo» alla stramaledetta polmonite da Covid-19. Non è così, purtroppo. Gli archivi sono pieni di inchieste giudiziarie, da una parte all' altra della penisola, che raccontano in tempi «normali» di ceneri perdute, ceneri mischiate, ceneri trovate tra i rifiuti, trafficoni sbattuti in carcere per aver «buttato in sei bidoni le ceneri di almeno duemila corpi» Un degrado figlio d' una storia lunga lunga. Dove è stato smarrito anche il senso dell' ultima strofa dell' amarissima Livella di Totò: «Nuje simmo serie.../ appartenimmo à morte!».

Da leggo.it il 26 marzo 2020. In tempi di pandemia di coronavirus, abbiamo ancora negli occhi le immagini delle bare che da Bergamo si spostavano in altri comuni perché i forni crematori erano pieni: e il tema dei defunti da Covid-19 fa riflettere, per i tanti anziani morti da soli negli ospedali senza parenti a vegliarli, per ovvi motivi di sicurezza. Per gli operatori del settore funebre sono state diffuse da Utilitalia le regole da seguire per trattare le salme di morti di coronavirus ed evitare di infettarsi. Ne parla oggi il quotidiano Il Messaggero a firma di Franca Giansoldati, che elenca le regole da seguire: niente vestizione, escluse le operazioni di tanacosmesi come il lavaggio, il taglio delle unghie, dei capelli, della barba e del tamponamento, i cadaveri vanno avvolti come si trovano in un lenzuolo imbevuto di disinfettante. I corpi devono essere composti all'interno di una duplice cassa ed «essere manipolate il meno possibile facendo la massima attenzione». Il cadavere, scrive ancora Il Messaggero citando le indicazioni di Utilitalia, «non deve essere spogliato dei suoi abiti e va avvolto in un lenzuolo imbevuto di disinfettante. L'autorità può anche vietare il rito funebre in caso di diffusione epidemiologica della malattia». L'esumazione di una persona deceduta per una malattia infettiva può essere svolta solo due anni dopo la relativa inumazione. Infine, prima di chiudere la bara, si chiede agli operatori funebri di stare attenti «agli oggetti potenzialmente contaminati dal virus, come letto, comodini», ma anche al fatto che per gli spostamenti «potrebbero aversi fuoriuscite di aria dai polmoni nonchè di materiali biologici fluidi infetti. Tutto va disinfettato anche dopo, perchè il virus resiste alle superfici e potrebbe ancora contagiare». Tra i consigli, conclude Il Messaggero, anche quello di usare tablet e telefonini per velocizzare i tempi delle pratiche e facilitare la trasmissione telematica dei documenti, per ridurre al minimo i contatti diretti con le persone.

Il sindaco insegnante che accompagna i morti al cimitero: “è il nostro Virigilio”. Il Dubbio il 25 marzo 2020. il primo cittadino di Castellone accompagna uomini e donne nel loro ultimo solitario viaggio. Pietro Fiori, insegnante di lettere e sindaco di Castellone, 9450 abitanti in provincia di Cremona, e’ stato soprannominato dai suoi concittadini “Virgilio” perchè  si è preso la responsabilità  di accompagnare i morti, altrimenti soli nel loro ultimo pezzo di strada, al cimitero. “Da quando è iniziata l’emergenza coronavirus – racconta all’AGI – contiamo più di un centinaio di persone positive e dal primo marzo a ieri ne sono morte 27, 23 in più rispetto allo stesso periodo dello scorso anno”. Uomini e donne che non hanno un funerale e nessuno che li scorti al passo d’addio. Lui ha deciso di stare assieme a loro, al cimitero del paese trasfigurato da chi gli ha dato il soprannome nell’inferno dantesco. Se siano tutte vittime del virus non lo sa: “Non ho dati ufficiali, di alcuni i familiari mi hanno detto che quella è stata la causa e lo hanno scritto sul certificato di morte. Ma il numero è troppo esiguo rispetto al totale. Tanti sono morti in casa, presumo almeno una quindicina”. Il cruccio del sindaco “è che non stampano più i manifesti e a Castelleone è importante come forma di comunicazione. Il cittadino si informa con la parrocchia o attraverso il sito cremanews che ci ha dato ospitalità per i necrologi. Così appena posso – dice – vado ad accompagnare i defunti anche per far vedere la presenza della cittadinanza ai familiari. Poi in questi giorni faccio altre due cose: vado in chiesa e accendo sempre un lumino a don Bosco per tutti i castelleonesi, credenti o meno, ora non vale la distinzione. E tutti i giorni quando passo dal cimitero, anche in auto, recito un eterno riposo per tutti i morti che non possono essere affiancati dai familiari. Il lutto di uno, adesso, è il lutto di tutti”. Del suo paese, che ha una rete di 175 associazioni, molte di volontariato, si reputa “orgoglioso per l’enorme spirito di solidarietà che tutti stanno dimostrando”. Un’immagine in particolare si porterà dentro: “Quando sono andato a portare una scatola di mascherine alla casa di riposo Brunenghi, comprata da uno dei tanti imprenditori che ci aiutano, un’impiegata che l’ha presa dal balcone si è commossa. Ecco, ho pensato, ora un pezzo di stoffa vale più dell’oro. Ricordiamolo quando sarà tutto finito”.

Coronavirus, Silvia perde il papà: “Mai più visto dall'ambulanza”. Le Iene News il 24 marzo 2020. Silvia Caldara è la figlia di una delle vittime del coronavirus. Noi di Iene.it l’abbiamo intervistata con Giulia Innocenzi: ci racconta il dramma di non aver potuto salutare il papà e i problemi economici che ora deve affrontare. "Noi figli e parenti di vittime del coronavirus non lasciateci soli”. È l’appello di Silvia Caldara, che racconta il calvario dei suoi ultimi giorni nell’intervista di Giulia Innocenzi che potete vedere qui sopra. Silvia ci contatta da Mozzanica, un paesino di 4mila abitanti nella provincia di Bergamo. Da due settimane questa è la zona del Paese più colpita dal coronavirus. Solo nelle ultime 24 ore qui sono 257 le persone contagiate, per un totale di 6.728 positivi al COVID-19. Tra loro c’è anche il papà di Silvia, che ci racconta non solo il dramma di non averlo potuto assistere nelle sue ultime ore, ma neppure di averlo potuto salutare. Silvia continua a combattere contro il coronavirus, ma anche con tutti i problemi economici che ne conseguono.  

Tuo papà quando ha iniziato a stare male?

“Ai primi di marzo mia mamma ha avuto i primi sintomi influenzali e ha contattato il medico, presumendo potesse essere un’influenza. Dopo 3 giorni, anche mio papà ha iniziato ad avere questi problemi ed è stato visitato. Finché l’8 marzo, il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno è stato portato via in ambulanza. Faceva fatica a respirare. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. Da lì è stata una discesa rapidissima…”.

Quando ti hanno comunicato che tuo papà aveva il coronavirus?

“Dopo 3 giorni dal ricovero, quando è arrivato l’esito del tampone. A mia mamma invece non è stato fatto. Lei si è messa in quarantena perché aveva gli stessi sintomi”.

Dopo il ricovero in ospedale che cos’è successo?

“Ci ha mandato un messaggio la domenica sera dicendo che stava poco bene. Il giorno dopo è arrivato un secondo messaggio in cui diceva di stare male. Poi il silenzio, non ha più risposto né l’abbiamo sentito. Abbiamo pensato che non potesse ricaricare il telefono”.

Sei riuscita a ottenere notizie dai medici?

“Solo un paio di giorni dopo sono riuscita a parlare con qualcuno chiamando i vari reparti, finché mi hanno passato la rianimazione. Mi hanno confermato che papà era intubato e che la situazione era grave. Dopo pochi giorni ci hanno chiamato per dirci che non ce l’aveva fatta. Da lì è partito un calvario. Ho dovuto dare questa notizia a mia mamma per telefono perché non potevo andare da lei. L’ho sentita gridare. Non aver potuto condividere questo dolore insieme è stata la parte peggiore”.

A quel punto che cosa hai fatto?

“Ho chiamato le onoranze funebri e sono rimasta sconvolta. Non abbiamo potuto né vedere né dare un saluto a mio papà. Mi hanno detto che non l’avrebbero neanche vestito, ma sarebbe stato chiuso in un sacco e portato direttamente dalla camera mortuaria al cimitero. Come se non bastasse mi hanno chiesto prezzi stellari, chi 6.000 euro, chi 5.000. Solo dopo una serie di telefonate sono riuscita a strappare il prezzo di 3.800 euro, ma da pagare subito”.

In questa situazione che cosa hai fatto?

“Ho chiesto di poterlo cremare come era suo desiderio, ma mi hanno detto che non era possibile per via delle attese che sarebbero state troppo lunghe. Lo stesso valeva per una sepoltura. L’unica scelta che ti lasciano è il loculo”.

Sei riuscita ad andarlo a salutare?

“No, perché siamo in quarantena e non possiamo uscire. Gli hanno fatto il funerale da solo. Ho solo ricevuto un paio di fotografie dagli addetti delle onoranze funebri. Non c’era né un fiore né nessuno”.

Avevi i 3.800 euro per pagare il loculo?

“Mia mamma ha messo da parte un piccolo gruzzoletto utile per le spese del funerale, ma questi soldi sono vincolati. Anche le banche sono chiuse per l’emergenza e ora sembra che per 3 mesi non possiamo sbloccarli”.

Come avete fatto a pagare?

“Abbiamo chiesto ad amici e parenti un prestito. Senza di loro non avremmo potuto pagare”.

Qual è la cosa che più ti ha fatto arrabbiare?

“Il servizio fatto dalle onoranze funebri non permette di elaborare il lutto, di accompagnare il proprio caro. Non so neanche dove è stato sepolto, dovrò potrò andarlo a cercare. E c’è chi ha perso anche più di un parente e tutto diventa ancora più insostenibile. Noi siamo abbandonati e non sappiamo come comportarci. Aiutate le persone che hanno perso una persona cara. Non lasciateci soli!”.

Qual è il pensiero che ti aiuta ad andare avanti?

"Quando finalmente potrò riabbracciare mia mamma, perché ho rischiato di perdere anche lei. E finalmente saremo tutti insieme, per poter ricordare mio padre".

Coronavirus, Silvia perde il papà: “Mai più visto dall'ambulanza”. Le Iene News il 24 marzo 2020. Silvia Caldara è la figlia di una delle vittime del coronavirus. Noi di Iene.it l’abbiamo intervistata con Giulia Innocenzi: ci racconta il dramma di non aver potuto salutare il papà e i problemi economici che ora deve affrontare. "Noi figli e parenti di vittime del coronavirus non lasciateci soli”. È l’appello di Silvia Caldara, che racconta il calvario dei suoi ultimi giorni nell’intervista di Giulia Innocenzi che potete vedere qui sopra. Silvia ci contatta da Mozzanica, un paesino di 4mila abitanti nella provincia di Bergamo. Da due settimane questa è la zona del Paese più colpita dal coronavirus. Solo nelle ultime 24 ore qui sono 257 le persone contagiate, per un totale di 6.728 positivi al COVID-19. Tra loro c’è anche il papà di Silvia, che ci racconta non solo il dramma di non averlo potuto assistere nelle sue ultime ore, ma neppure di averlo potuto salutare. Silvia continua a combattere contro il coronavirus, ma anche con tutti i problemi economici che ne conseguono.  

Tuo papà quando ha iniziato a stare male?

“Ai primi di marzo mia mamma ha avuto i primi sintomi influenzali e ha contattato il medico, presumendo potesse essere un’influenza. Dopo 3 giorni, anche mio papà ha iniziato ad avere questi problemi ed è stato visitato. Finché l’8 marzo, il giorno del suo sessantaseiesimo compleanno è stato portato via in ambulanza. Faceva fatica a respirare. Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto. Da lì è stata una discesa rapidissima…”.

Quando ti hanno comunicato che tuo papà aveva il coronavirus?

“Dopo 3 giorni dal ricovero, quando è arrivato l’esito del tampone. A mia mamma invece non è stato fatto. Lei si è messa in quarantena perché aveva gli stessi sintomi”.

Dopo il ricovero in ospedale che cos’è successo?

“Ci ha mandato un messaggio la domenica sera dicendo che stava poco bene. Il giorno dopo è arrivato un secondo messaggio in cui diceva di stare male. Poi il silenzio, non ha più risposto né l’abbiamo sentito. Abbiamo pensato che non potesse ricaricare il telefono”.

Sei riuscita a ottenere notizie dai medici?

“Solo un paio di giorni dopo sono riuscita a parlare con qualcuno chiamando i vari reparti, finché mi hanno passato la rianimazione. Mi hanno confermato che papà era intubato e che la situazione era grave. Dopo pochi giorni ci hanno chiamato per dirci che non ce l’aveva fatta. Da lì è partito un calvario. Ho dovuto dare questa notizia a mia mamma per telefono perché non potevo andare da lei. L’ho sentita gridare. Non aver potuto condividere questo dolore insieme è stata la parte peggiore”.

A quel punto che cosa hai fatto?

“Ho chiamato le onoranze funebri e sono rimasta sconvolta. Non abbiamo potuto né vedere né dare un saluto a mio papà. Mi hanno detto che non l’avrebbero neanche vestito, ma sarebbe stato chiuso in un sacco e portato direttamente dalla camera mortuaria al cimitero. Come se non bastasse mi hanno chiesto prezzi stellari, chi 6.000 euro, chi 5.000. Solo dopo una serie di telefonate sono riuscita a strappare il prezzo di 3.800 euro, ma da pagare subito”.

In questa situazione che cosa hai fatto?

“Ho chiesto di poterlo cremare come era suo desiderio, ma mi hanno detto che non era possibile per via delle attese che sarebbero state troppo lunghe. Lo stesso valeva per una sepoltura. L’unica scelta che ti lasciano è il loculo”.

Sei riuscita ad andarlo a salutare?

“No, perché siamo in quarantena e non possiamo uscire. Gli hanno fatto il funerale da solo. Ho solo ricevuto un paio di fotografie dagli addetti delle onoranze funebri. Non c’era né un fiore né nessuno”.

Avevi i 3.800 euro per pagare il loculo?

“Mia mamma ha messo da parte un piccolo gruzzoletto utile per le spese del funerale, ma questi soldi sono vincolati. Anche le banche sono chiuse per l’emergenza e ora sembra che per 3 mesi non possiamo sbloccarli”.

Come avete fatto a pagare?

“Abbiamo chiesto ad amici e parenti un prestito. Senza di loro non avremmo potuto pagare”.

Qual è la cosa che più ti ha fatto arrabbiare?

“Il servizio fatto dalle onoranze funebri non permette di elaborare il lutto, di accompagnare il proprio caro. Non so neanche dove è stato sepolto, dovrò potrò andarlo a cercare. E c’è chi ha perso anche più di un parente e tutto diventa ancora più insostenibile. Noi siamo abbandonati e non sappiamo come comportarci. Aiutate le persone che hanno perso una persona cara. Non lasciateci soli!”.

Qual è il pensiero che ti aiuta ad andare avanti?

"Quando finalmente potrò riabbracciare mia mamma, perché ho rischiato di perdere anche lei. E finalmente saremo tutti insieme, per poter ricordare mio padre".

L'era del Covid, a Manduria niente funerali, nemmeno veglia e vestizione del defunto. L'accesso alla sala mortuaria per la veglia del defunto è riservata solo ai parenti più stretti del defunto che devono entrare un po’ per volta e per brevi periodo. La Voce di Manduria mercoledì 25 marzo 2020. Il comune di Manduria ha adottato dolorosissime norme sulla gestione dei defunti quale misura per il contenimento della diffusione del coronavirus. A Manduria è vietata la veglia della salma presso l'abitazione del defunto che può essere effettuata esclusivamente presso il cimitero comunale. La constatazione di morte dovrà essere eseguita dal medico dalle 15 ore dal decesso. La salma, inoltre, «deve essere adagiata nella cassa di legno senza il rito della vestizione e prontamente trasportata presso la "sala mortuaria" del civico cimitero». È ammesso, però, «porre nella cassa gli abiti del defunto». L'accesso alla sala mortuaria per la veglia del defunto è riservata solo ai parenti più stretti del defunto che devono entrare un po’ per volta e per brevi periodo. Il custode del cimitero, in occasione di entrata dei feretri per le conseguenti operazioni di seppellimento, ha l’obbligo di consentire l'ingresso nel ai soli parenti del defunto più prossimi ed in maniera contingentata nel numero e nel tempo e, comunque, nel numero massimo di due persone per volta tra gli appartenenti alle categorie sopra indicate e nel rispetto delle distanze interpersonali imposte dalle disposizioni ministeriali. All’interno del cimitero comunale, infine, è sospesa ogni attività di iniziativa privata. A quanto pare al nuovo regolamento che vale su tutti i defunti e non solo a quelli Covid positivi, sia stato espressamente richiesto dagli operatori delle agenzie funebri. A firmarlo è stato il commissario Luigi Cagnazzo, l’unico dei tre che è stato delegato a recarsi periodicamente a Manduria.

Franco Giubilei per “la Stampa” il 24 marzo 2020. A Piacenza, la città della regione più funestata dal coronavirus, non sanno più dove mettere le bare: un centinaio di feretri giacciono accatastati nella sala del commiato del forno crematorio del cimitero. Altri 40 sono custoditi nella sede della più grande impresa funebre del capoluogo, dopo che l' ospedale ne ha chiesto l' intervento, in attesa che la situazione cominci a normalizzarsi. Già, perché il Piacentino anche ieri si è riconfermato la zona emiliano-romagnola più bersagliata dal Covid-19, com' è stato fin dall' inizio dell' epidemia, in questo lembo di pianura confinante col Lodigiano e i suoi focolai. Gli ultimi numeri resi noti dalla Regione - che ieri sera ha emesso un' ordinanza che prevede la sospensione delle attività economiche e vieta gli assembramenti di più di due persone - vedono questa provincia davanti a tutte le altre sia per contagi, 120 in più rispetto a domenica, che per morti, 26 in più. In Emilia-Romagna poi i casi positivi hanno raggiunto quota 8.535, più 980 in un giorno, mentre i decessi sono arrivati a 892, più 76. Le guarigioni ora sono 423, più 74. Ma è Piacenza, dov' è appena stato ultimato un ospedale militare da campo da 40 posti a rinforzo di quello cittadino, che la situazione è particolarmente drammatica, tanto da riverberarsi sulla cremazione e sull' interramento dei defunti. Michele Marinello del gruppo Altair, la società che gestisce l'impianto crematorio della città, oltre ad altri 14 disseminati perlopiù nel nord Italia, parla di condizioni «al limite del collasso per cui da domani (oggi per chi legge, ndr) quasi non potremo ricevere altri feretri e dovremo rallentare la capacità di ricezione in tutte le nostre strutture». Circa cento bare aspettano di essere cremate solo a Piacenza, depositate anche nella sala del commiato, quella che in tempi normali è destinata alle cerimonie. Stessa situazione a Brescia e Serravalle Scrivia, mentre a Parma ce ne sono 40, a Modena 50 di cui 35 provenienti da Bergamo (i feretri portati dall' esercito, ndr), ad Acqui Terme 30. «E' un effetto domino partito da Bergamo - aggiunge Marinello - Abbiamo cominciato ad aiutare loro e poi siamo andati in crisi noi. Così però non può andare avanti, altrimenti dovremo chiudere fino allo smaltimento. Rischia di saltare il sistema in tutto il nord Italia». Del resto l'aritmetica è spietata: la capacità massima dell' impianto di Piacenza è di 12-13 cremazioni al giorno, ma i feretri arrivano al ritmo di 20-25, con punte di 33, come domenica scorsa. Per sbloccare quest' emergenza nell' emergenza, i titolari dell' attività chiedono aiuto al governo: «Ci servono deroghe al limite di ore di utilizzo degli impianti al giorno, così da fare più cremazioni e alle regole sui luoghi dove tenere le bare. Già c' è un utilizzo improprio, i feretri sono nella sala del commiato». Sempre a Piacenza è stata mobilitata l' agenzia di onoranze funebri più grande della città: «La direzione sanitaria dell' ospedale ci ha chiesto di tenere in custodia una quarantina di bare - dice Pascal Villa, della ditta Maccini -. Sono salme inattesa di tumulazione o cremazione». Hanno accettato di prendere i feretri «per non lasciarli in ospedale, dove la camera mortuaria era stracolma di cadaveri». Come in un bollettino di guerra, l' attività dell' agenzia è scandito da numeri impressionanti: «Prima in media facevamo una ventina di funerali alla settimana, ora 12-15 al giorno». In tutto questo, chi lavora nel settore si sente abbandonato: «Il governo si è dimenticato delle imprese private - denuncia Villa -. Le mascherine si stanno esaurendo, riutilizziamo le stesse, disinfettandole ogni volta. E scarseggiano guanti e tute da usare quando c' è da prendere un defunto per Covid-19».

Flavia Amabile per “la Stampa” il 24 marzo 2020. Non ci sono cifre, c' è però una netta tendenza che i notai non hanno timori a confermare. L' epidemia sta mettendo a dura prova ogni certezza sul futuro, gli italiani che non sono mai stati troppo propensi a pensare alla morte ora chiamano i notai per chiedere informazioni su come fare testamento o comunque mettere ordine nelle proprie situazioni patrimoniali e giuridiche per evitare problemi successivi. Giulio Biino, notaio di Torino, consigliere del Consiglio Nazionale del Notariato: «In genere il 15-20% degli italiani fanno testamento. È una percentuale molto bassa legata a fattori culturali: nei Paesi anglosassoni si arriva al 70%. In questi giorni però stanno arrivando numerose richieste di informazioni per capire come fare, quali strumenti utilizzare e quali decisioni prendere». Gli italiani, quindi, non stanno solo prendendo in considerazione la tradizionale idea di redigere un testamento ma provano a programmare il futuro in un momento in cui l' orizzonte appare così nebuloso. Dai sondaggi condotti in questi giorni emerge il senso di precarietà, la paura di perdere il lavoro, di non poter più assicurare un futuro ai propri figli. Le telefonate ai notai sono il volto concreto di questo inevitabile timore. «Il testamento andrebbe fatto quando si sta bene - spiega Giulio Biino - non in situazioni di emergenza. Chi ci sta chiamando esprime innanzitutto i propri timori. Alcuni vorrebbero cautelarsi da eventuali aumenti delle imposte sulle successioni. Oppure desiderano chiarire le complicazioni legate ai nuclei familiari allargati sempre più frequenti nelle famiglie italiane tra separazioni, figli di genitori diversi». Ma sono arrivate anche telefonate da parte di parenti di persone malate. «Situazioni molto difficili da gestire - ammette Biino - sono necessarie precauzioni molto rigorose per effettuare l' atto in sicurezza». Ma l' atto viene effettuato: i notai fanno parte delle categorie professionali che continuano a operare. «Con il decreto del 21 marzo non cambia la situazione degli studi notarili che restano aperti, il notaio è un pubblico ufficiale tenuto a prestare la sua attività quali che siano le circostanze, come previsto dalla legge notarile», spiega Cesare Felice Giuliani, presidente del Consiglio nazionale del notariato. «Un testamento da parte di un soggetto che si trovi nell' impossibilità di scrivere, una disposizione anticipata di trattamento sono negozi giuridici che non possono essere posticipati o rinviati neppure in caso di malattie epidemiche o contagiose. Si tratta di un' importante assunzione di responsabilità e una significativa rassicurazione per la cittadinanza preoccupata in un momento di grave incertezza, ma la diffusione del coronavirus impone al notaio di attenersi alle indicazioni impartite dal governo nello svolgimento della propria funzione pubblica».

Tanti i morti da Coronavirus senza un addio. “Funerali in tutta fretta”.  Salvatore Lavino il 12 Marzo 2020 su viagginews.com. La situazione legata ai morti da Coronavirus presenta ulteriori pieghe drammatiche. Gestire la situazione normalmente è impossibile, tante le storie tristi. I morti da Coronavirus sono molti in Italia, con oltre 800 vittime registrate all’11 marzo 2020 (827 per la precisione), 10.590 casi di positività riscontrati e 1045 persone guarite. Numeri ufficiali forniti dal Ministero della Salute sul suo portale web istituzionale. E la maggior parte delle persone morte erano in età ormai avanzata e con a volte anche delle patologie importanti in corso. Cosa che comunque non rendeva meno preziose le loro vittime. Purtroppo quella in corso è una emergenza sanitaria senza precedenti, che ha portato alla saturazione di tutti gli ospedali d’Italia. Si lavora spesso in condizioni di difficoltà, nonostante lo sforzo profuso da medici, paramedici ed infermieri. Ma a morire sono anziani che versavano anche in buona salute. Ed è convinzione di tanti, a partire dai parenti delle vittime, che il personale medico sia costretto a dovere compiere delle scelte. Si dà la precedenza ai casi da Coronavirus che affliggono individui più giovani. Purtroppo per una questione numerica, perché i letti non ci sono e specialmente i reparti di Terapia Intensiva sono ormai strapieni. Questo purtroppo porta molti uomini e donne a morire in solitudine, lontani dai loro parenti e senza che quest’ultimi possano fare qualcosa. Per non parlare poi dell’impossibilità di poter procedere con dei funerali normali. Ci sono casi in cui le persone decedute sono state portate in cimitero per essere cremate il prima possibile, come riferito da alcuni testimoni alla stampa locale e nazionale. I familiari di chi subisce tutto questo capiscono come la situazione sia del tutto nuova ed eccezionale. Ma comprendere risulta comunque difficile. Viene riferito anche di messaggi scritti mandati ai propri cari, ricoverati in solitudine, con infermieri e medici che leggono ciò che un loro figlio od un loro nipote ha scritto da lontano. In merito ai funerali, prima di mettere il caro estinto in una bara senza eseguire la vestizione, il corpo viene mostrato ad un solo parente stretto, nelle massime condizioni possibili di sicurezza. Con ad esempio l’utilizzo di tute di sicurezza e molto altro.

«Noi, operatori funerari seppelliamo morti senza sosta. Ma per il governo non esistiamo». Imprenditori e dipendenti delle onoranze funebri lavorano incessantemente per assicurare la sepoltura o la cremazione delle vittime del covid-19. Il racconto di uno di loro all'Espresso: «Siamo sul fronte e rischiamo il contagio perché sono finite le mascherine e altri dispositivi di sicurezza individuali». Giovanni Tizian il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Le immagini del corteo funebre di camion militari a Bergamo hanno fatto il giro del mondo. Mezzi speciali per trasferire le troppe salme delle vittime del Covid-19 in altre regioni. E mentre i medici si occupano dei contagiati, dei positivi, dei ricoverati, c'è chi si occupa dei morti lontano dai riflettori. Chi porta i corpi infetti nei forni o chi li deve tumulare. Gli operatori funerari sono i testimoni di prima linea della pericolosità del coronavirus tanto quanto gli operatori sanitari. Eppure dimenticati, invisibili agli occhi di chi gestisce l'emergenza. Che rischiano di restare senza protezioni minime. L'operazione di trasferimento delle salme bergamsche è stata possibile grazie all'impegno di un imprenditore, che ha messo a disposizione i suoi contatti in Emilia per trovare crematori disponibili ad accettare i corpi provenienti dalla Lombardia. L'imprenditore si chiama Gianni Gibellini. Ed è testimone della “Spoon river” emiliana del coronavirus. «Gli operatori funerari», dice Gibellini, «si ritrovano anche nelle abitazioni dei positivi che piangono un loro congiunto morto per le complicazioni da Covid-19. Qualche giorno fa Carpi, per esempio, è morta la suocera di un mio vecchio amico di scuola. Erano tutti in casa. Il medico legale che doveva certificarne il decesso è arrivato dopo 24 ore. Non potevano fare altro, i morti di Covid-19 non li portano più in ospedale per evitare la diffusione del virus. Per questo bisogna dare al sindaco di Modena di aver fatto la cosa giusta, autorizzando i funerali anche di domenica per decongestionare le camere ardenti e, soprattutto, per evitare che i familiari dei defunti passino più giorni con la salma in casa, così come è accaduto nelle settimane scorse». Il tentativo è anche quello di snellire alcune pratiche burocratiche, come l'autorizzazione alla cremazione: «Serve la dichiarazione dei famigliari più stretti, c'è la possibilità per i comuni di raccoglierla anche per via telematica, così si accelera la procedura e non si lascia il defunto per troppo tempo nell'abitazione». Nell'Emilia che resiste al coronavirus, Gibellini e i suoi dipendenti rischiano ogni giorno di ammalarsi. Anche perché i dispositivi di protezione iniziano a scarseggiare. Un timore diffuso, tanto che alcuni lavoratori si mettono in malattia per non andare in giro. 

Coronavirus, Sos degli operatori funebri, rischi altissimi chi manipola e veste le salme.  Franca Giansoldati Il Mattino Domenica 22 Marzo 2020. Gli addetti alle onoranze funebri che si trovano a gestire le salme delle persone morte di coronavirus, predisponendole a essere cremate, hanno paura del contagio. Bergamo, Cremona, Piacenza, Brescia, Verona. Il timore ormai serpeggia tra gli addetti, visto l'altissimo numero di decessi dovuti al Covid-19. Eppure il lavoro delle pompe funebri spesso passa inosservato e non ha ancora uno specifico riconoscimento sul rischio attuale visto che gli addetti manipolano direttamente decine di salme al giorno, provvedono alla vestizione dei cadaveri, sia nelle case private che negli ospedali, il trasferimento dei resti mortali fino al cimitero, sempre a contatto con oggetti contaminati. Tutto questo rende ogni operazione una incognita, un incubo e non sempre il materiale a disposizione viene giudicato idoneo. La protesta è iniziata a Verona dove il tema è stato sollevato con forza dagli addetti della città scaligera in rappresentanza di tutti i lavoratori della zona. La lettera è rivolta ad Annamaria Furlan, segretaria della Cisl. La prima cosa che evidenziano riguarda «il rischio dovuto alla manipolazione della salma e anche essere a contatto con liquami. In caso di cadavere già nella fase iniziale di decomposizione, è da ritenersi elevato (…) a causa del lungo periodo di sopravvivenza dei virus in ambiente esterno nonché dell'elevato potere infettante».  Matteo Marcheluzzo - socio dipendente di un’azienda comunale di Verona che si occupa di onoranze funebri da 18 anni – non fa mistero della situazione sempre più difficile, non solo per l'alto numero di decessi ma per la cura igienica che necessitano delle salme, la vestizione e la tanatoprassi presso ospedali, obitori comunali, case di riposo e abitazioni private. Senza contare lo stress. C'è chi ormai lavora 24 ore su 24. Nella emergenza, spiega Marcheluzzo, nell' elenco dei lavori utili - dottori, infermieri, farmacisti, commessi di alimentari ed altre professioni- hanno totalmente dimenticato della professione di operatore funebre, nonostante che le parole morti e morte vengano ripetute spesso. «Ci sentiamo come l’ultima ruota del carro, da una parte necessari ma dall’altra da tenere scaramanticamente lontani. Siamo preoccupati non tanto per quanto riguarda le salme dichiarate infette che hanno una procedura precisa: non si posso vestire e vengono consegnate a noi dalle aziende ospedaliere dentro un sacco, noi dobbiamo mettere un lenzuolino e spargere all’interno del feretro un disinfettante; a queste procedure e alla chiusura del feretro i familiari del defunto non possono assistere. Subito dopo viene eseguito un trasporto dalle celle degli ospedali al luogo di destinazione (forni crematori e cimiteri)». La preoccupazione degli addetti riguarda soprattutto le salme potenzialmente infette «prelevate dalle abitazioni private e dalla pubblica via, per poi procedere alla cura igienica e alla vestizione. Durante queste fasi abbiamo un contatto ravvicinato con la salma e con i possibili liquidi e gas che fuoriescono dalla stessa e non sappiamo se sono salme infette perchè nessuno ha mai fatto loro alcun tampone». Durante le operazioni si usano tute e guanti usa e getta, occhiali protettivi e mascherine, «purtroppo però di quest’ultime ne abbiamo a disposizione un numero esiguo dato dal mancato approvvigionamento». A riguardo è stata chiesta anche la costituzione del comitato di gestione del protocollo del 14 marzo. «In questi giorni chiederemo il riconoscimento di infortunio inail in caso di contagio come è stato fatto per gli operatori del Servizio Sanitario Nazionale». Il settore a livello nazionale dà lavoro a 25 mila addetti. Ogni anno le 6 mila imprese funebri si ritrovano alla Tanexpo, la fiera sull'arte funeraria a Bologna. Un settore che non conosce crisi visto che in Italia muoiono ogni anno oltre 600 mila italiani.

Obitori pieni e i parenti che non possono vegliare i defunti. Da giornaledibrescia.it il 13 mar 2020. Ha ragione Fra Giovanni, cappellano dell'obitorio degli Spedali civili, che indossa una tuta bianca e mascherina con il nome scritto con il pennarello all'altezza del cuore. «Per la famiglia delle vittime del coronavirus è un dolore nel dolore». Perché chi muore è solo. Solo all'ultimo respiro in un letto d’ospedale. E anche dopo, attorno ad una bara, non c’è nessuno. Le famiglie sono in quarantena, i parenti più stretti costretti a rimanere a casa. Alcuni addirittura sono ricoverati in ospedale e altri, nei casi più complicati, attaccati ad un respiratore e solo una volta usciti dalla rianimazione sapranno di quanto accaduto al congiunto. Ci sono figli a casa con la febbre alta che non hanno più visto il padre stroncato da quella che sembrava «una influenza un po’ più forte», chi addirittura ha perso prima il padre e poi la madre a distanza di 24 ore e nemmeno può scegliere la bara dei genitori, mogli in quarantena, e in attesa di conoscere l’esito del tampone, che non hanno più guardato negli occhi il marito dal giorno del ricovero. Emergenza. «Una situazione triste e molto fredda. I funerali non si celebrano e la sepoltura sta avvenendo senza parenti» commenta il frate del Civile dopo essersi intrattenuto con chi, mascherina sul volto, è stato da poco colpito da un lutto. Così negli ospedali del territorio l'emergenza si estende sempre più, arrivando anche all'obitorio. Agli Spedali civili infatti in questi giorni le 19 sale mortuarie sono state costantemente piene. All’ingresso, sulla bacheca nera con i numeri delle camere ardenti, non sono nemmeno più indicati i nomi dei defunti. «Non riusciamo più a seguire i continui arrivi» viene spiegato. Chi è morto per il Coronavirus non può essere esposto. Così dice la legge. Dopo il decesso le salme, avvolte in sacchi bianchi dai reparti arrivano all’obitorio. Vengono sistemate, anche una sull’altra, nelle stanze della vestizione, in attesa che si liberino le camere ardenti. «E sempre più spesso ci capita di non avere parenti ai quali rivolgerci perché sono in ospedale pure loro» spiega uno degli addetti alla pompe funebri. Al Civile le bare di chi non è morto per le complicazioni da Coronavirus sono state addirittura posizionate nella cappella dell’obitorio. Difficile anche la gestione delle salme in Poliambulanza. Due degli ultimi morti per Covid-19 sono nella stessa sala perché ogni spazio è occupato. «I defunti sono tanti, ma adesso la situazione è un po’ più ordinata». E poi c’è il tempio crematorio di Sant’Eufemia che negli ultimi giorni sta accettando praticamente solo salme di residenti in città. I tempi di cremazione dalle 48 ore ai dieci giorni. Solo martedì la lista d’attesa comprendeva 120 nominativi. Dai paesi della provincia si deve dunque guardare ad impianti fuori Regione. A Bergamo lavora già a pieno regime e a Lambrate, nel Milanese, sono in corso lavori di manutenzione.

L’addio in solitudine ai tempi del coronavirus. Funerali vietati in chiesa, chiuse case funerarie e sale di commiato, ammessa la benedizione della salma al cimitero in forma privata o cremazione. E la fine della “pietas”? Matteo Borgetto il 14 Marzo 2020 su La Stampa. «Quando si muore, si muore soli» è l’ultimo verso in rima de «Il Testamento», una canzone di Fabrizio De Andrè che con un testo ironico scherza sulla morte, raccontando le ultime volontà di un uomo vicino al trapasso. Prende in giro gli eredi e le loro ipocrisie, riservando però un premio, «una vanga d’oro», al becchino che lo seppellirà. Dall’ironia alla storia di oggi, vera, triste e terribile, di chi perde la vita ai tempi del coronavirus. E che spesso, «muore solo» per davvero. Un radicale cambiamento a livello di cerimonia (funerali vietati in chiesa, chiuse case funerarie e sale di commiato, ammessa la benedizione della salma al cimitero in forma privata o cremazione), dei rapporti tra familiari e che coinvolge anche le imprese di onoranze funebri. In Piemonte sono più di 300 e occupano oltre mille addetti. Sono loro, in questi giorni di emergenza e restrizioni, i più «vicini» al defunto, oltre che gli unici a occuparsene «post mortem», se positivo al Covid19. «Viviamo incertezza e paura - dice Alessandro Bosi, segretario della Federazione nazionale italiana imprese onoranze funebri -. Quando ci si approccia anche a un morto in abitazione e per cause naturali, non si può dare per scontato che non fosse contagiato. Le Regioni dicono che al decesso non esiste un pregiudizio igienico-sanitario perché cessa la respirazione, ma quando lo si va a vestire e movimentare un minimo di pressione del torace provoca scambi d’aria». «Non bisogna creare panico tra gli operatori - aggiunge -, ma sono necessarie le massime precauzioni. In condizioni normali ci si stringe la mano, ora sembriamo tutti medici, indossiamo mascherine, guanti di lattice, grembiuli, prodotti igienizzanti, che però iniziano a mancare». Fra le altre criticità, il calo di fatturato (un funerale costa in media mille euro in meno), soprattutto per le piccole imprese meno strutturate, e poi le difficoltà burocratiche, per la crescente indisponibilità dei medici di base a visitare la salma e compilare le schede Istat sulla causa di morte. Nei casi accertati di coronavirus (43 vittime in Piemonte), la salma non viene «vestita», ma avvolta in un materassino-barriera igienizzante e subito chiusa nella bara zincata. Poi il trasferimento al cimitero, ma senza la partecipazione dei familiari, spesso perché a loro volta contagiati o in isolamento preventivo. «Assistono alla funzione da casa, li informiamo con foto e video Whatsapp di alcuni momenti della benedizione e sepoltura - dice Marco Bagliano, titolare di un’agenzia di Alessandria -. Anche per i decessi “normali” il semplice gesto delle condoglianze si è tramutato in un inchino, anche tra parenti. Il saluto del feretro solo con la voce, non si può toccare. Situazione commovente, anche per noi». «Viene a mancare la “pietas” latina, il sentimento di compassione tra le persone - dice Piergiuseppe Costantino, contitolare di un’agenzia a Cuneo e consigliere dell’Apiof, Associazione piemontese imprese onoranze funebri -. Usi, costumi e tradizioni sono stravolti, soprattutto l’elaborazione del lutto per una famiglia, davvero difficile: lo stringersi tutti insieme, ricevere visite di amici, colleghi, aiuta a superare il dramma, ma oggi è impossibile. E anche noi operatori, non riusciamo ad essere d’aiuto dal punto di vista umano». Così anche in Valle d’Aosta. «I parenti sul manifesto funebre non indicano neanche orari e giorno della sepoltura - dice Marco Camandona, un’impresa funebre ad Aosta -. Chiuse le camere mortuarie, i loro cari li vedono dopo la vestizione, oppure dopo la chiusura del feretro per 5 minuti, e sempre uno per volta. Alla benedizione della salma, il sacerdote impiega in media una trentina di secondi. Uno choc per tutti. I clienti si lamentano, ma comprendono la situazione». Anche per predisporre il funerale, le condizioni e i rapporti sociali sono diversi. «Prima c’era un incontro di persona in ufficio, ora facciamo quasi tutto al telefono o su Whatsapp - dice Alberto Bianco della Brignone, in piazza Municipio a Cuneo -, o anche all’aperto, ma a distanza di sicurezza. Con il massimo tatto e discrezione, ma anche con un po’ di vergogna, ci informiamo sulle cause di morte perché non possiamo escludere il rischio Covid19. Ultimamente, c’è chi ha un parente in fin di vita e telefona per chiedere consigli su come comportarsi quando accadrà». «Brutto da dire, ma siamo solo all’inizio - dice Paolo Schirripa, della Giubileo di Torino -. Quando il Covid è ufficiale, ospedali e strutture sanitarie azzerano i contatti, ma ci saranno altri decessi, anche casi non conclamati, che con il tampone successivo al decesso risulteranno positivi e faranno scattare le procedure. Spiacevole per le famiglie, ma è giusto così. Altrimenti non ne verremo mai a capo». 

Coronavirus, la testimonianza: "Funerali in fretta, salme avvolte nel lenzuolo". Da oglioponews.it il 15 marzo 2020. Davvero una situazione sconvolgente che gli operatori delle Onoranze funebri si sono trovati in questo mese di marzo già una ventina di volte ad effettuare all’Oglio Po. Nel continuo e incessante aumento dei contagi da Covid 19 che si registra in Lombardia è coinvolto anche il territorio casalasco-viadanese. A tale proposito giunge la testimonianza diretta di chi, per lavoro, si trova quotidianamente coinvolto nella drammatica situazione. “Stiamo assistendo ad un fenomeno che mai nella mia carriera avevo avuto modo di vedere – confessa il titolare di un impresa funebre del territorio – e da quando è scoppiato il problema del Corona virus io e i miei colleghi ci stiamo caricando di un lavoro senza precedenti. Ma la situazione più drammatica la stiamo vivendo in questi ultimi giorni. Nelle prime due settimane di marzo ci sono stati una ventina di decessi con una media di più di un funerale al giorno. Funerali che poi rappresentano un’altra sofferenza per i famigliari a cui viene consigliato di presenziare con mille cautele e precauzioni. Un rito che poi si effettua in un silenzio spettrale e molto rapidamente con una veloce benedizione da parte del sacerdote”. “Oltre all’assenza di tutti quegli elementi che rendevano dignitoso il rito del funerale, come la chiesa addobbata con i fiori, la presenza di parenti, amici e conoscenti, l’omelia commemorativa del parroco e in certi casi la musica ora appare angosciante la maniera con cui siamo chiamati a liberare i letti negli ospedali. Con mascherine, guanti e tute speciali prendiamo le salme senza nemmeno più la tradizionale vestizione. Avvolti dentro un semplice lenzuolo bianco i morti vengono messi nelle bare e portati via il più velocemente possibile”. Davvero una situazione sconvolgente, che gli operatori delle Onoranze funebri si sono trovati in questo mese di marzo già una ventina di volte ad effettuare all’Oglio Po per decessi, per buona parte dovuti allo spaventoso e dilagante virus che prima o poi la scienza riuscirà a debellare.

R.P. Cosa succede col funerale quando una persona muore per coronavirus. Si parla ogni giorno di morti da coronavirus, ma come è cambiato tutto il settore delle imprese funebri e la gestione della morte in Italia? Di Leonardo Bianchi il 20 marzo 2020 su vice.com. Quando l’altra sera ho visto la foto dei mezzi militari a Bergamo, lo ammetto, ho pensato fosse una di quelle classiche bufale che girano nei momenti difficili. Il coinvolgimento dell’esercito è già stato tirato in ballo diverse volte in queste ultime settimane in Italia; e di solito, chi sparge notizie false è molto ghiotto di esercitazioni militari da decontestualizzare. Solo che questa volta, purtroppo, era tutto vero. Quella colonna stava realmente trasportando fuori città una sessantina di bare, perché il crematorio della città non riesce a cremare più di 25 defunti al giorno pur lavorando a pieno regime 24 ore su 24. E i numeri, purtroppo, parlano chiaro: secondo i giornali locali, nella provincia di Bergamo siamo ormai arrivati a più di 550 decessi dall’inizio dell’epidemia. Quelle immagini hanno portato alla luce un’emergenza nell’emergenza, quella che ha coinvolto il settore delle agenzie funebri. Proprio in questi giorni la FENIOF (Federazione Nazionale Imprese Onoranze Funebri, che associa oltre 700 imprese in tutta Italia) ha emesso dei comunicati in cui si evidenziano le “problematiche che impattano con l’ordinario snodarsi delle attività funebri sul territorio” e posto una serie di quesiti alla regione Lombardia, la più colpita dall’epidemia. Per capire cosa stia succedendo—e come si siano modificate le procedure di sepoltura, i funerali, ora aperti solo a pochissimi, e i rapporti con i parenti delle vittime—ho fatto qualche domanda al segretario Alessandro Bosi.

VICE: Com’è cambiato il vostro lavoro quotidiano in tutta Italia dall’inizio dell’emergenza? 

«Alessandro Bosi: Il lavoro delle imprese funebri in questo momento è particolarmente difficile perché, oltre a doversi occupare dei circa 600mila decessi annui che mediamente avvengono in Italia, sono subentrate procedure particolari per la gestione dei deceduti causa Covid-19. Ciò che è venuto meno, viste le norme vigenti, è quella vasta offerta di servizi e conforto per i dolenti».

Cosa succede alla dichiarazione del decesso per Covid-19? Qual è il protocollo attuale? E per i deceduti non-Covid, le cose sono rimaste le stesse? 

«Le regole, più o meno stringenti, variano da regione a regione. Quando un'impresa funebre interviene su un defunto per Covid-19, lasciandolo con gli indumenti che indossava al momento del decesso, deve avvolgerlo in lenzuolo intriso di soluzione disinfettante e riporlo nella bara provvedendo alla sua immediata sigillatura e trasferimento al cimitero o crematorio. Per i defunti in ospedale, spesso i parenti non possono nemmeno più vederli: l’ultimo saluto può di norma avvenire solo in presenza della bara sigillata. Per i defunti in abitazione, qualora sia accertata la morte per Covid-19, tutto il nucleo familiare che conviveva con il defunto o che è entrato in contatto con esso viene posto in quarantena. Ciò pone dei problemi per le imprese funebri, che devono in qualche modo relazionarsi con i parenti per l’organizzazione del funerale. Servono pertanto le massime precauzioni».

A questo proposito, gli impiegati del vostro settore hanno abbastanza dispositivi di protezione individuale? 

«Il problema che abbiamo evidenziato da settimane è proprio quello della indisponibilità di mascherine FFP3 e di soluzioni disinfettanti che, causa il dilagare del virus, oggi sono introvabili. È vero che il nostro settore è secondario al lavoro dei sanitari; ma è anche vero che siamo noi quelli che vengono poi incaricati dei funerali dei deceduti per Covid-19, e pertanto dobbiamo necessariamente tutelare i nostri operatori e garantire i loro interventi a beneficio di tutta la popolazione italiana».

Come si svolge un funerale per un paziente deceduto di Covid-19? Finora lei ha parlato di cimiteri o di cremazione.

«Il funerale si articola ormai nel solo trasporto funebre e poco più. Sono vietate tutte le forme di cerimonia e ogni forma di assembramento di persone. Le nuove disposizioni vietano anche i trasferimenti delle salme a cassa aperta; tutti i defunti devono essere movimentati solo a feretro sigillato. Il fatto che i defunti per Covid-19 debbano essere necessariamente cremati è una errata informazione che sta dilagando, ma che non ha alcun fondamento. Al pari dei decessi dovuti ad altre patologie o eventi, i defunti possono essere inumati (seppelliti in terra), tumulati (in loculo) o avviati a cremazione. Non servono drastiche soluzioni quali quelle adottate, senza senso, da qualche comune evidentemente poco informato su questo virus e i suoi effetti dopo la morte».

Se non c'è possibilità di spostarsi o celebrare un normale funerale, come vi rapportate ora con le famiglie?

«Al di là delle già menzionate cautele, soprattutto in caso di decessi in abitazione—dove fino all’intervento in loco del medico di famiglia o di continuità assistenziale, non si può dare nulla per scontato in ordine alle cause di morte e sono previste mascherine, tute e guanti anche nelle relazioni con i parenti—ci sono stati altri cambiamenti. In particolare, nei rapporti con quei familiari che sono in quarantena e che non possono allontanarsi dalle proprie abitazioni o ospedale, alcuni comuni in questi giorni hanno introdotto soluzioni di praticità per ottenere quelle dichiarazioni che dovrebbero essere rese in prima persona. Parliamo, ad esempio, di dichiarazioni di volontà riguardanti la cremazione rese attraverso videomessaggio WhatsApp inviato agli uffici competenti; oppure il disbrigo di pratiche tramite e-mail o applicazioni online. Milano e Torino hanno evidenziato grande senso di praticità introducendo soluzioni che auspichiamo possano rimanere operative anche ad emergenza rientrata.

Tutto questo come sta incidendo sull’elaborazione del lutto? 

«In questo particolare momento, devo riconoscere che gli italiani stanno reagendo con grande spirito di responsabilità e collaborazione. Le famiglie, alle quali oggi viene negata la cerimonia funebre, capiscono che l’ordinanza è giusta e che è stata diramata per evitare situazioni in grado di creare ulteriori occasioni di contagio. Molte prendono accordi con le imprese funebri ed i parroci al fine di celebrare simbolicamente il defunto quando sarà terminata questa fase di emergenza».

La foto dei mezzi militari a Bergamo con le salme ha circolato in tutto il mondo. Pensa sia una fotografia adeguata della situazione nelle zone più colpite dall’epidemia? 

«Quelle foto evidenziano un problema derivante dall’improvviso tasso di mortalità per Covid-19 verificatosi in un singolo territorio, che evidentemente ha generato problemi non pianificabili. Il problema di Bergamo è anche dovuto al fatto che attualmente ci sono imprese funebri in quarantena, e l’improvviso picco di mortalità è gravato sulle altre. Nella città hanno dovuto addirittura collocare temporaneamente i feretri in chiesa attesa l’indisponibilità di spazi nel cimitero o crematorio. Sono soluzioni che non devono e non possono rappresentare la normalità. Alcuni feretri, quelli destinati ai loculi, possono anche sostare per qualche settimana in attesa della tumulazione. Quelli destinati all’inumazione o cremazione sono invece privi dello zinco che sigilla l’interno della bara lignea, e prevedono un manufatto contenitivo dei liquidi cadaverici che—col passare dei giorni—diviene permeabile generando evidenti problemi igienico-sanitari. Penso infine che l’immagine dei mezzi militari sia utile per responsabilizzare le persone a stare a casa e rispettare le ordinanze. Quelle foto e i video hanno chiarito che non si tratta di uno scherzo».

L'intervista è stata editata in alcune parti per ragioni di chiarezza.

·        I Funerali ai tempi del Coronavirus.

Coronavirus, stop a matrimoni e funerali: le regole in chiesa dalla messa in tv alla confessione a distanza. La confessione? Non nel confessionale. E per ovviare all’impossibilità di messe pubbliche Papa Francesco dice messa in diretta tv alle 7 del mattino da Santa Marta.  Nicoletta Cottone il 9 marzo 2020 su ilsole24ore.com. Per frenare una ulteriore diffusione del coronavirus nel Paese, scelte drastiche anche in chiesa. Al tempo dell’emergenza vengono stravolti anche riti religiosi e comportamenti in chiesa, a partire dal fatto che il decreto 8 marzo 2020 ha detto stop a cerimonie civili e religiose, a matrimoni e funerali. Si può andare in chiesa solo se è garantita la distanza di un metro tra le persone. Evitando qualsiasi tipo di assembramento. Sono sospesi tutti i tipi di celebrazioni pubbliche. Le messe si possono seguire online o in tv, le comunioni e i battesimi sono rinviati a data da destinarsi, sono chiusi gli oratori e i corsi di preparazione al matrimonio. Per ora fino al 3 aprile nella zona arancione, fino al 15 marzo nel resto d’Italia. Ecco nel dettaglio cosa succede per cerimonie religiose e dintorni.

La messa virtuale: Papa Francesco in diretta tv alle 7 di mattina. Non si può dire messa dinanzi a un pubblico di fedeli. E così per ovviare all’impossibilità di messe pubbliche Papa Francesco dice messa in diretta tv alle 7 del mattino da Santa Marta. Una messa in forma privata trasmessa in diretta, anche tramite il player di Vatican News, e distribuite da Vatican Media ai media collegati, fra cui Tv2000, e a quelli che ne facciano richiesta, «per consentire a chi lo vorrà - ha spiegato il direttore della sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni - di seguire le celebrazioni in unione di preghiera al Vescovo di Roma». La Diocesi di Milano segnala, per esempio, che è possibile seguire la celebrazione eucaristica feriale anche sul portale della Diocesi di Milano.

Dai matrimoni ai battesimi, le celebrazioni sospese. Sono sospese tutte le celebrazioni pubbliche: messe feriali e festive, battesimi, matrimoni, comunioni e cresime (anche agli adulti). Sospese anche liturgia delle ore, via crucis, celebrazioni comunitarie delle confessioni, rosari per i defunti, adorazioni eucaristiche e qualsiasi altro tipo di convocazione ci sia stata. La Chiesa di Roma, spiega con un decreto il cardinale vicario della Diocesi di Roma, Angelo De Donatis, «assume un atteggiamento di piena responsabilità verso la collettività nella consapevolezza che la tutela dal contagio esige misure anche drastiche, soprattutto nel contatto interpersonale». Come è avvenuto per l’Angelus solo in video di Papa Francesco che, introducendo la preghiera domenica ha detto: «Questo modo di oggi di pregare l'Angelus lo facciamo per compiere le disposizioni preventive, così da evitare piccoli affollamenti di gente che possono favorire la trasmissione del virus».

Niente catechismo, pellegrinaggi, esercizi spirituali, oratori chiusi. Le indicazioni della diocesi di Roma, firmate dal segretario generale Pierangelo Pedretti, sospendono, fino al 15 marzo (3 aprile nella zona arancione) «le attività pastorali non sacramentali rivolte a gruppi di fedeli»: catechismo, corsi di preparazione al matrimonio e di accompagnamento delle coppie, ritiri, esercizi spirituali, pellegrinaggi, attività associative e oratoriali, percorsi di fede di giovani adolescenti e adulti e, in generale, «tutte le attività di gruppo». Oratori chiusi, compresi i cortili e gli altri ambienti. Annullati incontri, iniziative, riunioni, come eventi precedentemente fissati.

Chiese aperte solo per preghiere individuali a distanza. Le chiese possono restare aperte solo per la preghiera individuale, con l'avvertenza che i presenti mantengano tra loro una distanza di almeno un metro. Era già stato vietato lo scambio di pace, la ricezione della Comunione sulla mano. Ed era stato deciso lo svuotamento delle acquasantiere. «In particolare – scrive il segretario generale della Diocesi di Roma Pierangelo Pedretti – ci viene chiesto di collaborare per evitare un ulteriore incremento del numero dei contagiati, che potrebbe portare le strutture ospedaliere al collasso».

La confessione a distanza. Più complesso il tema della confessione, che dovrebbe assicurare anche la corretta privacy. Le indicazioni di monsignor Franco Agnesi, vicario generale della diocesi di Milano, per esempio, invitano a non utilizzare i confessionali, ma luoghi più ampi come la sacrestia o ambienti adiacenti la chiesa. Per la confessione nei banchi, si invita a tenere una distanza di almeno di un metro, a condizione che sia possibile garantire la dovuta riservatezza del sacramento. Cosa certamente non semplice in un ambiente ampio.

Visite ai malati con le mascherine. Le visite ai malati saranno effettuate rispettando «ancor più rigorosamente» distanza minima e igiene, «utilizzando per quanto possibile le apposite mascherine e limitando le occasioni di interazione» ai sacramenti. Monsignor Mauro Parmeggiani, vescovo di Tivoli e di Palestrina, ha disposto che «le visite ai malati siano effettuate rispettando ancora più rigorosamente la distanza minima e l'igiene utilizzando apposite mascherine».

Funerali: solo una breve benedizione al cimitero. Il capitolo più doloroso è quello sui funerali, proibiti per decreto. Le regole sono molto stringenti e, anche se indispensabili, aggiungono dolore al dolore della perdita di un congiunto o di un amico. Per esempio, la diocesi di Bergamo ha stabilito che siano sospese le veglie funebri con convocazione pubblica presso la casa dei defunti, nelle case del commiato e presso gli obitori. Il religioso può recarsi in forma privata presso il defunto per una preghiera. Al cimitero si può celebrare solo un breve rito della sepoltura come previsto dal Rituale per le esequie senza la celebrazione della messa. Durante le esequie al cimitero i presenti devono rispettare la distanza di almeno un metro imposta dalla normativa. Sospesi i cortei funebri a piedi, sia dalla casa sia verso il cimitero. Al termine dell’emergenza sarà corcordata con la famiglia una messa esequiale. La diocesi di Trento precisa che sia in caso di sepoltura che di cremazione, è consentita esclusivamente una breve celebrazione al cimitero, all’aperto, alla presenza dei soli familiari, mantenendo la distanza di almeno un metro tra i presenti e astenendosi dalla stretta di mano per le condoglianze. Un addio a distanza difficile da affrontare, come l’emergenza.

I funerali ai tempi del coronavirus: morire soli, con i parenti in macchina che salutano la bara. Di Irene Famà il 30 marzo 2020 su La Stampa. «Affidiamo il corpo di Antonio alla sepoltura». Il diacono Marco Allara prega da solo davanti a una delle tante bare arrivate al cimitero Monumentale. Intorno il silenzio. I parenti del defunto sono costretti a stare in auto perché in famiglia c’è un altro caso di contagio. Per Antonio nessun canto, nessuna processione. Solo un mazzo di fiori con la scritta «i tuoi cari». E gli operatori dell’Impresa di Onoranze funebri che trasportano la bara sino al tempio crematorio. I funerali si susseguono, al Monumentale così come negli altri cimiteri di Torino (oggi se vengono celebrati 89). «La tristezza più grande è sapere che la nostra è l’unica benedizione per queste persone – dice il diacono - È il non poter dare conforto, non poter stringere la mano o dare un abbraccio a chi accompagna un defunto». Si è soli in ospedale, dove non sono consentite visite. E al funerale, quando qualcuno partecipa, si contano al massimo quattro o cinque persone. Indossano quasi tutti mascherina e guanti e rimangono in piedi, a un metro di distanza uno dall’altro. Alla loro sofferenza non può essere concesso nulla di più. Un responsabile Afc Servizi Cimiteriali di Torino filma la funzione con il cellulare per rassicurare le famiglie. Anche al cimitero si cerca di evitare il contagio. Gli operatori indossano guanti e mascherine, il corpo di chi va in cremazione è avvolto con un materiale di plastica biodegradabile. Mentre per le sepolture in terra o in loculo, la bara è coperta con lo zinco, come previsto dalla procedura per gli infettivi. 

·        La "Tassa della morte". 

Da leggo.it  il 27 aprile 2020. Dopo l'ecatombe della Val Seriana  arriva il conto ai parenti delle vittime. I Comuni della Bergamasca, sui propri canali istituzionali, pubblicano le tariffe, con iva inclusa, applicate dalle città fuori dalla Lombardia che hanno eseguito il servizio di cremazione delle vittime del coronavirus, sottolineando che non sono richiesti costi di trasporto effettuati con mezzi militari. In pratica, tutte le persone che sono state trasportate sui mezzi militari nel picco dell'emergenza per coronavirus nel bergamansco, tutti i familiari delle vittime di covid cremate, dovranno pagare per il servizio ricevuto. Molti parenti delle vittime si sono messi in contatto con dei gruppi su Facebook cercando di organizzarsi per opporsi. In uno dei gruppi,  "Noi denunceremo" si afferma: «Le amministrazioni si interroghino su cosa fare: tanti di noi, senza più lavoro, hanno tumulato più cari». Dopo settimane le ceneri dei cari sono tornate a casa ma con loro le fatture, anche se non tutti sono in grado di sostenere le spese funerarie. La Lombardia non riusciva a far fronte all'emergenza, visto il grande numero di morti, e le immagini delle salme nei mezzi militari hanno fatto il giro del mondo. Così in altri Comuni, come Novara, Padova, Bologna, Ferrara, Vicenza e Firenze, le salme sono state trasportate (con mezzi dell'esercito) e cremate. Le stesse autorità bergamasche invitano però a fare attenzione: «Ogni struttura ha applicato prezzi diversi, in alcuni casi scontati e agevolati - sottolinea l'amministrazione di Bergamo, - e qualora i trasferimenti siano stati effettuati da mezzi militari e delle forze dell’ordine, non possono essere conteggiati costi a carico delle famiglie dei defunti». La posizione del gruppo Facebook "Noi denunceremo" è molto chiara: «In piena emergenza, a comunicazione del decesso per Covid-19 da parte dell'ospedale, i parenti, spesso in quarantena e impossibilitati a prendere accordi per la benedizione religiosa e per una cerimonia ristretta, abbiamo scelto la cremazione, pensando che avvenisse nel forno crematorio di Bergamo", spiega Luca Fusco, fondatore del gruppo social "Noi denunceremo". «Dalla stampa, poi, - continua - abbiamo saputo che i nostri cari venivano trasferiti fuori regione e ora siamo vittime di una disparità di trattamento, stavolta senza scelta: tra i costi applicati, per esempio, tra Bologna e Ferrara c'è una differenza del 100%».

"Prezzi assurdi per i funerali mai fatti dei nostri cari". La denuncia. (Agi)Da metronews.it il 17 aprile 2020.   Duecento euro per il kit infettivo, cioè per mascherine e guanti utilizzati dai necrofori, 950 euro per un funerale che non c'è mai stato e 560 euro per l'uscita della salma dal Comune di Milano. Tre voci comprese nella nota spese firmata dalle pompe funebri - totale 4500 euro compresa la cremazione – che fanno arrabbiare Mara ed Elisabetta Bertolini, figlie di Carlo, morto a 75 anni col coronavirus l'8 marzo a Cremona. “È successo anche ad altre persone che conosciamo, i cui cari sono morti in ospedali tedeschi, a cui sono stati applicati anche prezzi più alti. Sono scioccati come noi. Chiediamo alle istituzioni di farsi carico di queste spese – spiegano all'AGI -  questo è un conto decisamente salato e ci sentiamo lasciati soli, come tanti altri, a pagare le lacune di uno Stato che decide per te e in più ti restano da pagare i danni di una tragedia che neppure nei tuoi peggiori incubi avresti pensato potesse accadere”. “Papà – racconta Mara – era ricoverato all'ospedale di Cremona e poi è stato trasferito al Niguarda di Milano. Lì un medico ci ha detto che era subentrata un'insufficienza renale e la situazione era molto grave, così, in via eccezionale, ci è stato consentito di andare a vederlo da fuori, a venti metri di distanza. Potevamo solo supporre che ci fosse anche lui assieme alle altre 4 persone ricoverate, impossibile riconoscerlo. Due giorni dopo siamo stati chiamati dalla camera mortuaria del Niguarda che ci chiedeva cosa fare della salma. Siamo rimasti allibiti, nessun medico ci aveva ancora comunicato il decesso”. A quel punto, i familiari di Carlo si sono appoggiati a un'agenzia di Cremona, quella che poi ha recapitato il 'conto', e a una di Milano per riavere il corpo del congiunto che poi è stata cremato molti giorni dopo, il 20 marzo. “Quello che contestiamo – sottolinea Mara – sono quelle tre voci. Non c'è stato nessun funerale e, da quello che sappiamo, i kit per i necrofori consistevano solo in mascherina e guanti, 200 euro mi sembra una somma assurda. Ho scritto alla Regione Lombardia ma non ci ha risposto nessuno”. “Cosa ci resta di nostro padre oltre al ricordo? – si domanda la sorella Elisabetta – Un'urna delle ceneri appoggiata sopra il mobile della tv alla quale hai adagiato un piccolo riconoscimento da commendatore. E poi un conto amaro da pagare di cui 1710 euro sono a carico per poter ritirare la salma di tuo padre, per fare in modo che a quel dolore di saperlo disperso fino all'ultimo subentrasse la consapevolezza di rivederlo tornare a casa in qualche modo”.   

Non sa dov’è la salma del padre morto di coronavirus, lo scopre con la fattura per la cremazione. Redazione de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Il cordone militare che trasporta circa 70 bare da Bergamo (foto del 19 marzo). Non sapeva dove fosse la salma del padre. Questo per alcune settimane. Sapeva che era stata trasportata fuori Regione, lontano da Bergamo. Come centinaia di altre bare trasferite perché nei cimiteri non c’era più posto. Soltanto l’arrivo di una fattura ha poi chiarito le cose: il padre di Cristina, morto a causa del coronavirus, era stato trasportato a Ferrara. Nella fase più drammatica i cimiteri e i forni crematori di Bergamo non sono riusciti a sopperire all’emergenza. Le immagini dei convogli militari che, a partire dal 18 marzo, hanno dovuto trasferire le salme altrove hanno fatto il giro del mondo e sono diventate l’immagine stessa della tragedia che aveva colpito la bergamasca. Si stima che sono state oltre 900 le vittime trasportate fuori dalla provincia e dalla regione. Ferrara, Udine, Alessandra, alcune delle destinazioni delle salme. Tra queste anche quella del padre di Cristina. La donna ha raccontato a Rainews24 di aver saputo attraverso la fattura – di 777 euro e 47 centesimi per la cremazione – dove fosse stato trasferito il padre. “Ogni volta che penso a quella tassa, penso al viaggio di mio padre, e penso che anche io avrei voluto fare quel viaggio con la cassa di mio padre”. La provincia di Bergamo è stata per larghi tratti l’area più colpita dalla pandemia da coronavirus. I contagiati totali, secondo i dati al 22 aprile, sono stati 10.848. In Lombardia, la Regione più colpita d’Italia, 69.092, 12.740 i morti. “Siamo tantissime persone – ha dichiarato nell’intervista a Giuseppe La Venia – abbiamo quasi tutti la stessa storia. C’è anche chi ha avuto storie peggiori: c’è chi ha avuto urne perse, bare che non si sono trovate, alcune solo dopo due settimane”. Alla tragedia per la scomparsa dei propri cari si è aggiunta ogni volta il dramma di non poter loro dare un ultimo saluto e il conforto delle ultime ore. “Non abbiamo avuto il tempo di tenergli la mano, dargli una carezza. Io sono stata anche fortunata di poterlo vedere in quella bara”, ha detto la donna. Domani la famiglia presenzierà alla tumulazione dell’uomo: un procedimento di 15 minuti che non prevede benedizione né lapide.

Edoardo Cavadini per “la Verità” il 24 aprile 2020. Non gli hai potuto stringere la mano quando la «fame d'aria» gli squarciava i polmoni. Non gli hai potuto asciugare le lacrime quando lui, smarrito come un bimbo in un letto sconosciuto, cercava il tuo conforto di figlia. Non gli hai potuto dire addio, quando questo bastardo di un Covid te l' ha portato via. Poi un giorno apri una busta, c' è una fattura da pagare, leggi «777,43 euro» e la causale «cremazione». Solo oggi, a distanza di settimane, scopri che il suo corpo lo hanno portato a Ferrara. E muori un' altra volta dentro. Cristina, che ha raccontato la sua storia al Tg1, è solo una delle centinaia vittime collaterali di questa epidemia, le quali hanno avuto un padre, una madre, una figlia, un figlio trasportati dalla Bergamasca in altre regioni per la cremazione (solo 350 dal capoluogo orobico, quasi un migliaio in tutta la provincia). I feretri caricati di notte sui camion dell' esercito e la sfilata silenziosa lungo le vie della città per la loro destinazione finale, gente strappata all' ultimo addio alla propria terra perché non c' era più spazio nelle camere mortuarie: probabilmente un' immagine che ci accompagnerà per il resto della vita. Anche se siamo stati benedetti dal non avere un parente o un amico ucciso dal coronavirus. «Siamo tantissime persone», racconta Cristina, «abbiamo quasi tutti la stessa storia. C' è anche chi ha avuto storie peggiori: c' è chi ha avuto urne perse, bare che non si sono trovate, alcune solo dopo due settimane». Mentre la curva dei contagi cala lentamente, sale però come un montante allo stomaco il pugno della burocrazia. Che colpisce a tradimento chi è rimasto, e per questo fa ancora più male. Centinaia di famiglie si sono infatti ritrovate nella buca delle lettere una missiva spedita dai vari Comuni che hanno preso in carico le salme dei loro cari (oltre a Ferrara, Udine e Alessandria). Nero su bianco le spese per raccogliere le loro ceneri, comprensive di oneri di spedizione e delle ancora più beffarde «competenze d' ufficio». «Ogni volta che penso a quella tassa», la chiama proprio così Cristina davanti alla telecamera, «penso al viaggio che ha fatto il mio papà, penso che anche io avrei voluto fare quel viaggio con la cassa da morto del mio papà». Un altro sfregio sulla pelle di una popolazione che ha dovuto affrontare l' onda di piena dell' epidemia, con un tributo di vittime altissimo, quasi 3.000, e i contagi che sfiorano quota 11.000. Un altro sfregio a una popolazione che si è vista negare dai traccheggiamenti del governo Conte (quando l' esercito era pronto a intervenire) l' istituzione della zona rossa in Val Seriana che avrebbe evitato l' ecatombe che invece c' è stata. Il vice presidente del Senato Roberto Calderoli, leghista bergamasco, lo sottolinea con rabbia: «Lo Stato chiede soldi alle famiglie che non hanno mai più visto i loro cari e hanno dovuto accettare che venissero portati altrove perché le strutture cimiteriali bergamasche erano al collasso?». E invoca un rimedio, anche se tardivo: «Ora il governo si attivi subito con un emendamento al decreto Liquidità per rimediare a questa vergogna: questi soldi li paga lo Stato, che non ha saputo proteggere la vita di queste persone, che non ha voluto mettere la zona rossa in Val Seriana per limitare il diffondersi dei contagi, e non ha saputo controllare questa pandemia». Al senatore della Lega si unisce la deputata di Italia viva Maria Chiara Gadda: «Tutti abbiamo visto le immagini delle bare portate via dai camion dell' Esercito, è necessario fare subito chiarezza per non aggiungere umilianti disagi a chi ha già subito il dolore indicibile di perdere una persona cara, spesso senza neanche poterla salutare. Chi ha chiesto loro le spese? A che titolo?». Dal Comune di Bergamo tutto tace. Il primo cittadino renziano Giorgio Gori, quotidianamente impegnato a cannoneggiare contro la giunta lombarda di Attilio Fontana, accusandola di non aver fatto abbastanza contro il morbo - nel tentativo di far dimenticare le sue cene al ristorante cinese quando il virus per i virologi «era poco più di un raffreddore» - fino a ieri sera non ha ritenuto di commentare. Speriamo abbia attivato gli uffici amministrativi e si sia messo una mano sul cuore. O magari sul portafoglio. 

Virus, la fattura per la cremazione. "È un'altra vergogna di Stato". La denuncia del senatore della Lega Roberto Calderoli: “Lo Stato chiede ai bergamaschi il costo della cremazione delle loro vittime? Una vergogna! Si vergogni Conte, si vergognino i suoi ministri”. Federico Garau, Giovedì 23/04/2020 su Il Giornale. Hanno dovuto dire addio ai loro cari senza neppure poterli salutare un'ultima volta, per poi assistere, impotenti, ai camion dell'Esercito che portavano via le bare fuori dalla città di Bergamo, dal momento che non era possibile provvedere alla cremazione dei corpi di tutti i morti per Coronavirus. Dopo tanto dolore, per alcuni parenti arriva anche la richiesta di denaro da parte delle istituzioni. Un'autentica vergogna, denunciata dal senatore Lega Roberto Calderoli sulla propria pagina Facebook. “Lo Stato chiede ai bergamaschi il costo della cremazione delle loro vittime? Una vergogna!”, tuona lo storico rappresentante del Carroccio. “Le famiglie di Bergamo che non hanno potuto salutare e seppellire i propri cari uccisi dal Coronavirus nelle tragiche settimane di massimo picco adesso si stanno vedendo recapitare le fatture per il trasporto, fuori Regione, delle salme dei propri cari inviate nei cimiteri di Ferrara, Modena ecc per la cremazione”, attacca il vice-presidente del Senato. “E a battere cassa non sono dei privati insensibili, ma è lo Stato italiano. Ma ci rendiamo conto a quale vergogna siamo arrivati? Lo Stato chiede soldi alle famiglie che non hanno mai più visto i loro cari e hanno dovuto accettare che venissero portati altrove perché le strutture cimiteriali bergamasche erano al collasso?”, prosegue nella denuncia. Un attacco duro e diretto, quello del senatore, che prende le difese dei parenti, ancora immersi nel dolore. Ed oltre al lutto dovuto alle perdite, anche le difficoltà economiche che tutto il popolo italiano sta attraversando in questo periodo di limitazioni. “Ora il governo si attivi subito con un emendamento al decreto liquidità per rimediare a questa vergogna. Questi soldi li paga lo Stato, che non ha saputo proteggere la vita di queste persone, che non ha voluto mettere la zona rossa in Val Seriana per limitare il diffondersi dei contagi, e non ha saputo controllare questa pandemia, nonostante gli avvisi da gennaio di tutte le organizzazioni sanitarie a riguardo. Questo non è uno Stato!”, attacca Calderoli. “Da Roma esigiamo che parta una lettera di scuse destinata ad ognuna di queste famiglie. Si vergogni Conte, si vergognino i suoi ministri”. Una condanna, bisogna aggiungere, che non arriva soltanto dalla Lega, ma anche da Italia Viva. Oltre alla denuncia di Roberto Calderoli, infatti, è arrivata anche quella del deputato Maria Chiara Gadda, che chiede di far subito luce sulla vicenda dopo aver visto il servizio sulla televisione pubblica. "Ogni volta che penso a quella tassa", dice la giovane Cristina in un'intervista rilasciata alla Rai, "penso al viaggio che ha fatto il mio papà. Quindi penso che forse anche io avrei voluto fare quel viaggio con la cassa da morto di mio padre". Per settimane, tra l'altro, la ragazza non sapeva dove il corpo del papà fosse finito dopo esser stato caricato su quei carri militari in silenziosa sfilata. Quando è arrivata l'ignominiosa fattura di 777,47 euro lo ha potuto scoprire: si tratta della città di Ferrara. Una situazione che ha riguardato ben 936 vittime del Coronavirus, seppellite lontano da casa per carenza di spazio nei cimiteri. "Siamo tantissime persone", racconta ancora Cristina. "Abbiamo quasi tutti la stessa storia. C'è anche chi ha avuto storie peggiori. C'è chi ha avuto urne perse, chi ha avuto bare che non si sono trovate, se non dopo una o due settimane, perché i cimiteri sono nel caos".

Virus, c'è la "tassa della morte". L'ira di Salvini sul sindaco Pd. Matteo Salvini svela la "tassa sulla morte" del comune di Brescia. Qui il sindaco pretende 142 euro per il trasporto delle bare. In una città duramente colpita. Michele Di Lollo, Sabato 04/04/2020, su Il Giornale. Una notizia che ha dell’incredibile. Arriva dalla Lombardia, terra martoriata dal coronavirus. La regione più colpita dal male. Arriva da Brescia, in particolare, una delle province più in difficoltà. "Mentre i sindaci della Lega distribuiscono mascherine e stoppano le imposte comunali, il comune di Brescia conferma una tassa sulla morte, pretendendo 142 euro per il trasporto delle bare", tuona Matteo Salvini. Che poi aggiunge: "Caro sindaco, sarebbe meglio lavorare tutti insieme per aiutare le famiglie bresciane. La Lega propone inoltre di usare i dividendi di A2A (circa 60 milioni) per abbattere il costo delle bollette del 50%. Per una volta, non ce lo chiede l’Europa, ma lo chiede Brescia". L’appello a Emilio Del Bono, primo cittadino del Pd, arriva in piena emergenza Covid-19. Una richiesta, quella della Lega, che va di pari passo con l’obiettivo fino a ora dichiarato dal governo: agevolare gli italiani in difficoltà. Eppure, la "tassa sulla morte" fa pensare a tutto tranne che a un aiuto. Il problema sollevato da Salvini arriva a pochi giorni dall’enorme polverone alzato dagli ormai tristemente noti sindaci Pd che governano i comuni lombardi. Lo scambio epistolare tra Regione Lombardia e i sindaci del centrosinistra è andato infatti avanti negli ultimi giorni. Dopo la prima dura lettera scritta da Beppe Sala (Milano), Giorgio Gori (Bergamo), Emilio Del Bono (Brescia), Gianluca Galimberti (Cremona), Virginio Brivio (Lecco), Mattia Palazzi (Mantova) e Davide Galimberti (Varese) e la lunga risposta arrivata due giorni fa dal governatore Attilio Fontana, ieri i sette sindaci sono tornati su alcuni punti a loro dire non ancora chiariti. Si parla ancora del "bug" mascherine. Quei dispositivi introvabili e, allo stesso tempo, di vitale importanza per medici e comuni cittadini che affrontano l’epidemia. Scrivono i sindaci: "Se è vero, e ne prendiamo atto, che Regione Lombardia ha effettuato acquisti di mascherine per molti milioni di euro e contestualmente la protezione civile sostiene di aver inviato in Lombardia il 17% di 45 milioni di mascherine - come ha dichiarato Angelo Borrelli - dove sono tutte queste mascherine? Perché noi fino a oggi non le abbiamo viste, né le une né le altre. Possiamo avere una parola certa su quando arriveranno ai comuni e ai nostri cittadini?". Un problema di tutto rispetto. Peccato che i magnifici 7 sindaci dem dimenticano quando sbandieravano calma e sicurezza di fronte al mostro Covid-19. Molti di questi primi cittadini erano stati, a gennaio e ancora a febbraio, in prima linea a minimizzare i rischi del virus e ad accusare la Regione - che già allora chiedeva misure restrittive - di allarmismo e razzismo nei confronti della comunità cinese. Oggi Salvini ci ricorda che uno di loro, Emilio Del Bono, sindaco di Brescia, fa pagare in piena emergenza sanitaria una tassa di quasi 150 euro, per il trasporto delle salme. Proprio in quel lembo di terra dove i morti non si riescono a contare. In un contesto economico disastroso, in cui anche poche decine di euro possono fare la differenza per una famiglia già colpita duramente dal coronavirus.

Coronavirus, lo Stato specula pure sulle mascherine: Iva, aliquota massima al 22%. Libero Quotidiano il 07 aprile 2020. Agli italiani è ben nota la resistenza dello Stato a toccare l'Iva, quando si tratta di abbassarla. Il più comico degli esempi è quello degli assorbenti igienici femminili, la cui imposta sul valore aggiunto, sciaguratamente al 22%, è stata al centro di una lunga querelle: alla fine ci è stato spacciato che nella legge di bilancio era stato stabilito che dal primo gennaio sarebbe stata abbassata al 5%, salvo poi precisare che la norma avrebbe riguardato solo gli assorbenti compostabili o lavabili. L'emergenza virus non ha ammorbidito le sanguisughe, per cui la questione è cominciata daccapo con le mascherine, imparentate con gli assorbenti per non essere sostituibili con altro, essere usa e getta e quindi di larghissimo uso, e necessarie per la salute. Ragion per cui le mascherine, alle 20 di ieri sera, non risultavano ancora beni di prima necessità, come invece il canone tv, tassato al 4%, e nemmeno di "seconda" necessità, come i tartufi (freschi o refrigerati) la cui Iva è al 5%, né così importanti da godere dell'aliquota ridotta al 10% come lo sono le carrube, gli spettacoli teatrali, i francobolli da collezione e la cera d'api. Le mascherine invece (come anche i ventilatori polmonari) sono equiparate al mascara, al calcio balilla e alle motociclette Harley-Davidson. non detraibili Ieri mattina in qualche grande farmacia di Milano vicino al centro era possibile trovarne qualcuna (di mascherina), c'era addirittura una scelta fra quelle chirurgiche, le Ffp2 e le Ffp3. Sullo scontrino è scritta chiaramente l'Iva al 22% e, detraibili sul 730, spiega il farmacista, sono unicamente le meno protettive, quelle chirurgiche, le altre no. Eppure la Commissione europea già quattro giorni fa aveva approvato le richieste degli Stati membri e del Regno Unito di revocare temporaneamente (per sei mesi) i dazi doganali e l'Iva sull'importazione di ventilatori, mascherine, test e altri dispositivi medici da Paesi terzi, cioè tutti, almeno fino a che le mascherine lombarde, liberate da un sospiratissimo ok dell'Iss, non saranno disponibili al pubblico (secondo Regione Lombardia intorno a metà settimana). Che cosa succede? Sembra che il braccino corto sull'Iva abbia colpito ancora: infatti già da tempo il ministro della Salute Roberto Speranza, confortato dal viceministro dell'Economia Antonio Misiani il 3 aprile, ha annunciato lo "studio" di una misura dal valore di circa 400 milioni per introdurre l'Iva al 5%. Ma finora tutto quel che si è visto è una miseria nella bozza del decreto imprese sul tavolo del Consiglio dei ministri, dove compare un credito di imposta per le imprese che acquistano mascherine e strumenti di lavoro come guanti, visiere e occhiali protettivi, tute di protezione e calzari, ma anche per gli acquisti di barriere e pannelli da installare a protezione dei dipendenti, detergenti mani e disinfettanti. E anche qui la miseria è ancora più misera di quel che sembra: il bonus infatti sarebbe del 50% fino all'importo massimo di 20mila euro sulle spese sostenute fino al 31 dicembre 2020. Ovvero: intanto le aziende dovranno pagare (e chi ne ha bisogno per più di 20mila euro si attacca) e poi forse l'anno prossimo verrà restituito qualcosa. Inoltre, questa misura è a favore delle aziende, ma niente è previsto per i privati cittadini, che continueranno a pagare il massimo possibile senza poter neppure detrarre qualcosa. Alcune fonti parlamentari hanno ammesso il braccino della Commissione Bilancio - cui è affidato lo "studio" - perché ridurre l'Iva sarebbe un intervento che costa soldi al gettito, e per questo ci sarebbero titubanze sull'opportunità ed eventualmente il modo di inserirlo nel decreto di aprile. dispositivi medici? Altro giallo sta nel fatto che, a forza di tirarli per i capelli, i membri del governo interpellati hanno nominato le mascherine, ma nulla è stato affermato riguardo i ventilatori: Pier Paolo Baretta, sottosegretario all'Economia, ha confermato ieri che «il governo sta lavorando sulla riduzione dell'Iva sulle mascherine», ma né lui, né Speranza e Misiani hanno mai accennato ai ventilatori. A rilevare il qui pro quo legislativo sulle aliquote agevolate è un articolo pubblicato su Eutekne, quotidiano dei commercialisti, dove viene notato che i ventilatori potrebbero essere configurati, secondo quanto dice il DLgs 46/97, come «dispositivi medici», cioè strumenti «destinato a essere impiegato sull'uomo ai fini di diagnosi, prevenzione, controllo, terapia attenuazione di una malattia»; salvo poi definire «dispositivi medici» con aliquota al 10% solo medicinali e sostanze farmaceutiche. In effetti se l'Iva rimanesse al 22% il gettito ne godrebbe di sicuro, se è vero che l'uso delle mascherine «potrebbe diventare una necessità quotidiana almeno nei prossimi mesi», come ha dichiarato il Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, e l'Iss «sta valutando il modo in cui dovranno essere utilizzate le mascherine nella fase 2 del contenimento». Con il risultato di aver pagato per una vita la Sanità e appena ci serve dover pagare di nuovo, come se comprassimo un'auto di lusso, per il lusso di salvarci la vita.

·        Epidemia e Case di Riposo.

Edoardo Izzo per “La Stampa” il 18 dicembre 2020. Abbandono, trascuratezza, incuria, bisogna contare fino a cinque per ricostruire il quadro delle violazioni dei diritti umani subite dagli anziani nelle Rsa nella fase più buia della pandemia. A essere violati sarebbero «il diritto alla vita, alla salute, al non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, alla non discriminazione, al rispetto della vita privata e familiare». Il j'accuse arriva dal rapporto «Abbandonati» diffuso ieri da Amnesty International Italia, nel quale sono raccolte 87 interviste a familiari di ospiti, esperti, dirigenti e operatori sanitari delle strutture. Sotto la lente le scelte compiute in particolare in Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. A nulla è valso - sottolinea Amnesty - che la popolazione anziana fosse stata dichiarata fin dall'inizio dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) tra le più vulnerabili al virus: le Rsa sono state consapevolmente lasciate indietro rispetto agli ospedali e tutt'ora «non esistono indicazioni uniformi e univoche a livello nazionale che prevedano uno screening continuativo nelle Rsa». L'analisi racconta, con le parole degli operatori sanitari coinvolti, che, soprattutto in Lombardia, gli over 75 sono stati di fatto interdetti dai presidi ospedalieri. L'indicazione, per delibera regionale: «Curateli lì dove si trovano». Nelle Rsa dove a lungo è proseguito l'andirivieni, dove guanti e mascherine sono rimasti un miraggio, dove i tamponi non si facevano e dove addirittura venivano inviati i deospedalizzati «sia con Covid sia con sintomi riconducibili alla malattia». Il tutto senza che i dirigenti delle strutture riuscissero a reagire alle pressioni delle autorità regionali per timore di contraccolpi economici. Accanto alle inchieste giudiziarie già avviate - dice Amnesty - serve un'inchiesta pubblica totalmente indipendente. L'Italia come altri Paesi ha compiuto «scelte profondamente sbagliate da un punto di vista etico». Secondo Gianni Rufini, direttore generale di Amnesty Italia, «ci si è rassegnati al fatto che un po' di persone dovessero morire. Quando si sono dovute fare delle scelte si sono fatte solo guardando la vita in termini economici». Un commento amaro anche da Flavio Insinna, attore e conduttore televisivo schierato con Amnesty: «Non voglio vivere in un Paese che butta via gli anziani e le persone fragili, che ci mette un attimo a dimenticarti».

Da "Ansa" il 18 dicembre 2020. In nessun posto muoiono così tanti pazienti per o col Covid, come nelle case di cura per anziani in Germania. Lo scrive oggi la Bild, in un articolo titolato "la catastrofe del Coronavirus nell'assistenza agli anziani", nel quale il tabloid pubblica alcuni dati "drammatici" sulle percentuali delle vittime. Nel Land di Berlino, per esempio, dal primo ottobre a metà dicembre, si legge, le vittime nei centri per anziani sono state 422, e cioè il 63% del totale. Ad Amburgo, sono state 136, il che vuol dire il 65% delle vittime complessive della città anseatica. Nello Schleswig-Holstein la quota segnalata è addirittura del 90%.

La denuncia di Amnesty: "Negli ospizi violato il diritto alla vita". La Repubblica il 19/12/2020. «Il ritardo nell’emanazione di provvedimenti adeguati, o la loro totale mancanza, si sono spesso tradotti in violazioni del diritto alla vita, alla salute e alla non discriminazione degli ospiti anziani delle strutture e degli operatori che vi lavorano» . È la conclusione a cui giunge Amnesty International in "Abbandonati", il rapporto sulle violazioni dei diritti umani nelle Cra e case di riposo nel corso della pandemia curato dalla sezione italiana dell’ong e incentrato su Emilia- Romagna, Veneto e Lombardia. Un centinaio di pagine che riepilogano le «lacune delle istituzioni a livello nazionale, regionale e locale», ripercorrendo le indicazioni e i provvedimenti adottati e riportando le testimonianze di alcune decine tra rappresentanti del settore, lavoratori e parenti dei degenti. «Se incrociamo i dati della mortalità Covid tra febbraio e maggio, scopriamo che in Emilia- Romagna un decesso su quattro ha avuto luogo in una Rsa – spiega la coautrice del report Martina Chichi – Un dato che, seppur parziale, ci restituisce la gravità del fenomeno». La " tragedia", secondo Amnesty, sarebbe frutto di combinazione di fattori preesistenti (su tutti, la carenza e precarietà di una parte del personale) e di alcune risposte tardive in fase d’emergenza. L’Ong ricorda le difficoltà nell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione, inizialmente introvabili o comunque centellinati, e nell’esecuzione dei tamponi. «Ora i test vengono eseguiti una volta al mese - continua Chichi - È un passo avanti, ma ancora insufficiente» . Tra le tante problematiche emerse negli ultimi mesi, Amnesty ricorda anche la «difficoltà di isolare » i pazienti positivi o di ritorno dagli ospedali per «mancanza di spazi adeguati da parte di molte strutture» e la necessità di aggiornare il piano pandemico. Lo studio ha raccolto anche le testimonianze del Comitato regionale dei familiari delle vittime. «Siamo amareggiati, perché le Procure stanno continuando a chiedere l’archiviazione per le cause che abbiamo intentato in questi mesi – dice la portavoce Francesca Sanfelice – Chiediamo solo la verità».

Le Rsa tornano il focolaio numero uno: da Nord a Sud boom di anziani positivi. Alla Palena di Foggia e a Torre Annunziata tutti contagiati. Nel Padovano 23 le residenze colpite, in Umbria già sei morti. Daniela Uva, Domenica 08/11/2020 su Inside Over il 9 novembre 2020. Da Foggia a Torre Annunziata. Passando dal Veneto, da Trento, dalla provincia di Asti, da quella di Bari e dall'Umbria. Anche in questa seconda ondata a fare paura è la situazione all'interno delle residenze socio-assistenziali, dove il Covid ancora una volta sta dilagando. L'ultimo caso in ordine di tempo è quello della Fondazione Palena di Foggia. Qui sono risultati positivi al coronavirus tutti i 70 anziani presenti nella struttura, ai quali si aggiungono 28 dipendenti. Il focolaio sarebbe partito da un'operatrice risultata positiva a fine ottobre. Da quel momento il virus ci ha messo poco ad attecchire fra la popolazione fragile della Rsa pugliese. «La scorsa settimana sono decedute tre persone hanno raccontato alcuni parenti dei degenti - altre sono state ricoverate in ospedale». Gli anziani con sintomi più lievi vengono invece seguiti da quattro medici dell'Usca, l'unità speciale di continuità assistenziale, come ha fatto sapere la Asl di Foggia. Mentre il ricordo delle stragi della prima ondata - con oltre un terzo dei decessi totali avvenuto proprio nelle case di riposo - è ancora vivo e doloroso, il Covid è tornato mettere in ginocchio le Rsa italiane. Anche nel virtuoso Veneto. Nella provincia di Padova sono più di metà le strutture che denunciano contagi: il virus sarebbe stato trovato in ameno 23 residenze, sulle 38 complessive. Mentre sarebbero almeno cento i casi accertati, fra degenti e dipendenti. Non va meglio nelle province di Treviso e Belluno. Un primo focolaio è stato scoperto in una Rsa di Povegliano, nel Trevigiano, dove sono risultate positive 19 persone fra ospiti e operatori. L'allarme è molto alto anche nella Rsa di Cortina d'Ampezzo, dove in pochi giorni sono saliti a 18 gli anziani risultati positivi. E con loro ci sono anche sei dipendenti. Da Nord a Sud la situazione non cambia, come dimostra il caso della provincia di Napoli. Nella Regione inserita a sorpresa nella «zona gialla» si vive il dramma della casa-famiglia di Torre Annunziata. Due ospiti hanno già perso la vita a causa del Covid, mentre tutte le altre pazienti della struttura sono attualmente contagiate. «Le donne ospitate all'interno della casa di riposo sono tutte in età avanzata e con patologie pregresse spiega il sindaco Vincenzo Ascione -. La loro positività al Covid potrebbe provocare un ulteriore peggioramento delle condizioni di salute». A fare paura è anche Trento, con l'Apsp Benedetti di Mori nella quale sono tre gli ospiti e quattro gli operatori attualmente positivi. Per il momento il focolaio è stato circoscritto, ma si teme che la situazione possa sfuggire di mano. Proprio come è avvenuto nella Casa di soggiorno per anziani San Giuseppe di Castelnuovo Don Bosco, in provincia di Asti. Qui si è registrata un'impennata di contagi in pochissimi giorni, con 82 ospiti e 20 operatori risultati positivi, in attesa che arrivi il risultato dei nuovi tamponi. Servono medici, infermieri e operatori assistenziali per affrontare l'emergenza e così dalla struttura è partita la richiesta di aiuto all'Unità di crisi della Regione Piemonte. Va male anche in provincia di Bari, precisamente nella Rsa di Altamura che conta un decesso e altri 38 anziani e nove operatori colpiti dal Covid. E poi c'è il caso dell'Umbria, con 339 fra ospiti e dipendenti delle Rsa contagiati in tutta la Regione. A perdere la vita sono state già sei persone, mentre altre 29 sono in ospedale. E così anche questa volta le residenze per anziani del nostro Paese si dimostrano fragili ed esposte al virus.

Rsa Covid, perché le case di riposo sono diventate focolai del virus. DATAROOM di Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera lunedì 2 novembre 2020. Partiamo da una domanda: porteresti tua madre in una casa di riposo dopo aver visto che in soli quattro mesi il 40% dei decessi avvenuto nelle Rsa è attribuibile al Covid? (documento dell’Istituto superiore di Sanità). E adesso ci risiamo. L’elenco di cosa è andato storto durante la prima ondata è lungo: mancanza di dispositivi di protezione individuale, impreparazione sulle procedure da svolgere per contenere l’infezione, assenza di personale sanitario qualificato, difficoltà nel trasferire i residenti infetti in strutture ospedaliere, impossibilità di far eseguire i tamponi. Ma questo non basta a spiegare il perché le Rsa sono diventate cimiteri. Il problema è che uno dei pilastri del nostro sistema di welfare non ha le fondamenta.

Tasso di posti letto più basso d’Europa. Siamo il Paese più anziano d’Europa e dove si campa più a lungo. Gli over 80 sono 4,4 milioni, di cui 2,2 sopra gli 84. In prospettiva tra 10 anni ci saranno quasi 800 mila ultra 80enni in più, che diventeranno quasi 8 milioni nel 2050. Siamo anche il Paese che fa meno figli. Vuol dire un esercito di solitudini che se non te ne prendi cura, degenerano. Eppure l’interesse pubblico è così basso che ad oggi non esiste nemmeno una mappa completa della situazione reale. Rispetto al resto d’Europa abbiamo 18,6 posti letto ogni 1.000 anziani, contro media di 43,8. Dopo di noi Lettonia, Polonia, Grecia. In rapporto alla popolazione over 80 dovremmo avere oltre 600 mila posti letto. Qual è invece l’offerta? Per arrivare ad avere un quadro il più possibile realistico Dataroom, con l’aiuto dell’Osservatorio settoriale delle Rsa della Liuc Business School, ha incrociato dati Istat, del ministero della Salute, dell’Annuario statistico e una pila di normative regionali. Risultato: ci sono all’incirca 200 mila posti letto accreditati, di cui 160 mila occupati da non autosufficienti. Altri 50 mila posti sono disponibili in strutture private dove il costo è totalmente a carico dell’ospite. La degenza media è di 12 mesi: si porta la persona anziana nella casa di riposo quando e non è proprio più possibile gestirla a casa con la badante. Da notare: 1,6 milioni di anziani prendono l’assegno di accompagnamento, molti lo utilizzano per pagare la badante. 600 mila sono irregolari. Paradossalmente finanziamo con denaro pubblico il lavoro nero.

Quanto costa la retta mensile. Il sistema di welfare pubblico ha di fatto quasi interamente appaltato alle strutture private l’assistenza ai più fragili. Le case di riposo sono in tutto 7.372. I Comuni ne gestiscono il 26,7%, i privati no profit (cooperative, fondazioni religiose) il 48%, le società private profit il 25%. In questa realtà ogni Regione va per la sua strada e, quindi, c’è una grande difficoltà a ricostruire un quadro complessivo dei punti di caduta del sistema. Punto primo: quanto costa la retta mensile? Dipende dal grado di autosufficienza e va dai 2.400 agli oltre 4.000 euro, a seconda delle Regioni. Il finanziamento pubblico di norma copre la metà del costo e l’altra metà è a carico dell’ospite, ma anche qui entrambe le voci variano a seconda delle Regioni. Se la media è di 50 euro al giorno a Milano nelle strutture profit può arrivare a 102 euro, perché le spese sanitarie (farmaci, visite mediche, riabilitazione) in Lombardia sono «caricate» sulla retta dell’ospite; mentre in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna ci pensa la Regione. In Lombardia puoi sceglierti la struttura, in Veneto devi essere autorizzato dall’Asl, in Emilia Romagna puoi esprimere una preferenza ma se non c’è posto t’accontenti.

Il 75% degli abusi nel privato. Poi ci sono le case famiglia, che non prendono contributi pubblici e coprono 50 mila posti letto: a loro ci si rivolge quando non trovi posto altrove. La retta mediamente è di 1.800 euro al mese e possono avere al massimo 7 ospiti. In teoria dovrebbero rappresentare la condizione migliore per un anziano, ma gli unici controlli a cui sono sottoposte è la saltuaria visita dei Nas, come i bar. Delle oltre 1.500 irregolarità riscontrate nel 2019 per abbandono di persone incapaci, maltrattamenti, omicidi colposi, esercizio abusivo della professione, troppi ospiti in una stanza, scarsa pulizia, pasti o alimenti in cattivo stato di conservazione, oltre il 75% riguardano proprio le case famiglia e i privati convenzionati.

Gli utili delle società. Balza all’occhio la grande espansione delle società private profit accreditate e i loro utili, a fronte di una gestione pubblica in via di dismissione e sempre più in perdita. Korian-Segesta (il principale azionista Crédit Agricole): fatturato 2018 di 368 milioni, utile 800 mila euro. Kos (controllato dalla famiglia De Benedetti): 595 milioni di fatturato, utile di 30 milioni. San Raffaele della famiglia Angelucci: fatturato 142 milioni, utile di 11 milioni. Sereni Orizzonti di Massimo Blasoni (indagato per truffa aggravata al Servizio Sanitario Nazionale): fatturato 147 milioni, utile di 12 milioni. Gruppo Gheron controllato al 90% dagli imprenditori Massimo e Sergio Bariani: fatturato 43,8 milioni, utili per 1,5. Alcuni di questi grandi gruppi gestiscono case di risposo anche all’estero, fanno in aggiunta attività diagnostica e riabilitativa e tengono stanze per ospiti totalmente «solventi», mentre per le società più piccole c’è qualche sofferenza. Estrapolando i dati sulla Lombardia, ma esemplificativi a livello nazionale, se guardiamo i risultati operativi della gestione della sola Rsa il privato è in perdita per il 28% dei casi, il no profit e il pubblico per il 62%. Se consideriamo anche le attività collaterali invece perde il 19% del privato, contro il 38% del pubblico. Come si spiega questa differenza?

Infermieri pagati meno. Nelle case di riposo private accreditate ci sono certamente maggiori capacità manageriali, ma anche maggior ricorso a medici e infermieri esterni pagati da cooperative (il 43%), che non pesano sui bilanci con i giorni di malattia, perché pagati dall’Inps. Gli infermieri sono anche pagati meno rispetto al pubblico: 1.200/1.300 euro al mese contro 1.600. Spesso la formazione del personale, che deve assistere anziani in condizioni cliniche sempre più complesse, non è adeguata. Le statistiche elaborate sui dati della Regione Lombardia, ma che riflettono l’andamento generale, mostrano che nelle Rsa pubbliche lo standard di assistenza medio a ciascun ospite è di un’ora e mezzo in più a settimana rispetto alle società profit.

La Commissione di Speranza. La cosa migliore che ci possa capitare è quella di diventare anziani, sapendo magari di essere assistiti con dignità se non ce la facciamo da soli. I nodi da affrontare subito: un aumento dei posti letto che non diventi conquista solo dei privati, soprattutto per i casi più gravi di fragilità; regole più severe di accreditamento (da fare rispettare pena l’espulsione dal sistema); arruolamento di figure professionali adeguatamente formate; una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari; un sistema di finanziamento al passo con la complessità dei casi ricoverati. Riorganizzazione delle strutture. Ne è consapevole il ministro Roberto Speranza che ha dichiarato: «L’epidemia ha scoperchiato il problema di una fascia di popolazione, la terza età, abbandonata a se stessa». Per questo ha incaricato Monsignor Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, di guidare il team per il cambiamento delle Rsa. Nella commissione ci sono epidemiologi, geriatri, professori, registi, poeti, scrittori. Produrranno certamente un lavoro pieno di importanti suggestioni sugli scenari futuri, ma è difficile che possa uscirne un piano operativo di ricostruzione del settore. Più probabile un bel libro.

Da Pordenone a Udine il virus entra attraverso gli operatori: la mappa del contagio nelle case di riposo.  Il Messaggero Veneto l'1 novembre 2020. Solo sabato 31 ottobre, infatti – lo si apprende dal report giornaliero della Regione – nelle Rsa del Friuli Venezia Giulia sono stati riscontrati 30 nuovi ospiti e 19 operatori positivi al Sars-Cov2. In questo momento tra le realtà più colpite è la casa di riposo “Scrosoppi” di Tolmezzo con 33 ospiti e sette operatori positivi al coronavirus. A seguire si collocano le strutture di Ampezzo e dell’Opera Pia Cojaniz di Tarcento, entrambe, con 3 ospiti contagiati. Nella mappa non mancano le case di riposo di Gemona, Magnano, Tricesimo, Cividale, Pradamano, Martignacco, Udine, Aiello del Friuli e Latisana. In tutti questi ultimi casi, però, l’infezione è stata riscontrata solo tra gli operatori. Ovviamente, trattandosi di una situazione che può cambiare di giorno in giorno, il dato di ieri oggi potrebbe già essere mutato. Più o meno analoga la situazione nelle strutture dell’Azienda Friuli occidentale con Casa Serena di Pordenone tra le più colpite assieme alle strutture di San Quirino e Cavasso Nuovo. Operatori positivi sono stati isolati pure nelle residenze per anziani di Castions di Zoppola, Spilimbergo, Morsano al Tagliamento e Cordenons. La situazione più critica resta a Trieste, mentre in provincia di Gorizia si mantiene più contenuta. «Con i numeri che abbiamo, la sorveglianza sanitaria va potenziata». Il vicegovernatore con delega alla Salute, Riccardo Riccardi, conferma la riduzione dei tempi previsti dai Protocolli di sicurezza tra un tampone e l’altro. In certi casi il personale viene sottoposto al test a un mese di distanza dal precedente, in altri due settimane: il tempo varia a seconda dei reparti dove opera. Di fronte all’aumento dei contagi e delle persone in isolamento, la Regione sta potenziando i controlli anche all’interno delle case di riposo. «È un fenomeno – insiste l’assessore –, che va analizzato con estrema attenzione». La scorsa primavera molti operatori impegnati nelle case di riposo avevano rinunciato a rientrare dalle loro famiglie proprio per evitare di trasmettere il virus. Ora non siamo a questi livelli, ma agli stessi operatori viene costantemente raccomandato di indossare sempre la mascherina, di rispettare il distanziamento sociale e di lavare le mani anche quando si trovano all’esterno dei luoghi di lavoro. L’attenzione è massima. In assenza di un lockdown generalizzato anche loro entrano in contatto con potenziali positivi. Lo stesso vale per i momenti di sosta nei reparti dove, complice la stanchezza, è facile lasciarsi andare ad atteggiamenti non più ammessi dalla pandemia. L’emergenza è tale che gli operatori sanitari anche se hanno avuto contatti a rischio non fanno la quaranta. Vengono dotati di ulteriori dispositivi di sicurezza e continuano a lavorare. Nonostante l’attenzione sia massima qualche caso sfugge al controllo soprattutto se i singoli non informano i direttori sanitari di eventuali spostamenti a rischio. Nella casa di riposo “La Quiete” di Udine, è accaduto che una operatrice si sia recata in autobus in Ucraina senza farne parola né alla partenza né al ritorno. Peccato che qualche giorno dopo sia risultata positiva. «Anche se non ha contagiato alcun ospite, abbiamo segnalato il caso dal Dipartimento di prevenzione – spiega il direttore sanitario, Salvatore Guarneri –. L’abbiamo fatto per dare un segnale anche agli altri lavoratori sottoposti, costantemente, all’attività di formazione». Alla Quiete il virus non ha ancora colpito gli anziani.

CLAUDIA GUASCO per il Messaggero il 15 ottobre 2020. Sono i pazienti più fragili, indifesi, esposti all'aggressione del virus. Vivono insieme a stretto contatto e basta un positivo per fare una strage. Come quella avvenuta durante il primo attacco del Covid: da febbraio a giugno l'Istituto superiore di sanità ha registrato tra i nove e i diecimila decessi di anziani nelle case di riposo. Numero approssimato per difetto, considerata la scarsità di tamponi. E ora che arriva la seconda ondata, le Rsa sono in emergenza. Aumentano i contagi e purtroppo anche i morti: tre decessi nella struttura di Montagnaga di Pinei, in Trentino, due in Basilicata, sei a Villa Teruzzi di Concorezzo, alle porte di Monza. «In tutti Italia ci troviamo in presenza di piccoli cluster legati al fatto che il personale, inconsapevolmente, può portare il virus. I casi di asintomatici sono in crescita e questi fanno da untori», spiega il virologo dell'Università Statale di Milano Fabrizio Pregliasco. È allarme rosso nella Rsa dell'istituto Don Orione di Avezzano, in provincia dell'Aquila: dai 13 positivi di due giorni fa, i contagiati ieri sono diventati 70 su 80 ospiti ed è scattata la chiusura, con il trasferimento dei pazienti negativi in un piano isolato. Preoccupa il focolaio esploso nella Rsa Giovanni XXIII di Alberobello, dove sono risultati positivi 59 anziani su 63 e 12 operatori su 23. L'Asl Bari ha commissariato la struttura e inviato i propri medici. A Portici, in provincia di Napoli, 41 degenti del Pio XII e 16 dipendenti sono contagiati, alla San Giuseppe di Sesto Fiorentino i malati sono 45, dato in evoluzione informa la Asl Toscana Centro in attesa dei risultati dei tamponi effettuati sui restanti 38 degenti. Alle Magnolie di Firenze i contagiati sono 35, in provincia di Modena si registrano 45 casi e 16 in due residenze del ferrarese dove le visite sono state sospese. Primo a blindarsi è stato il Pio Albergo Trivulzio, struttura milanese dove nei quattro mesi di epidemia sono morti 405 pazienti. Pregliasco, che è il supervisore scientifico, dice di aver preso la decisione a malincuore, perché è triste impedire agli anziani di incontrare i loro cari. «Ma è inevitabile. La chiusura ai parenti per ridurre le quote di contatto è fondamentale, le Rsa devono essere un punto di snodo per contenere i rischi», afferma. «L'esperienza, benché dolorosa, è servita, sono stati messi a punto protocolli e procedure, ci sono i dispositivi di protezione individuale e la possibilità di garantire la sicurezza». Poche regole ma ineludibili, elenca il virologo: «Chiusura ai parenti, grande attenzione all'esecuzione dei tamponi, monitoraggio del personale». La ferita per le migliaia di anziani morti nei luoghi in cui dovrebbero essere al sicuro è ancora aperta, i familiari chiedono che genitori e nonni non siano dimenticati e le responsabilità messe nero su bianco. Oggi il comitato Noi denunceremo depositerà alla Procura di Bergamo altre 150 denunce nell'ambito dell'inchiesta sui decessi nelle case di riposo, sulla mancata creazione della zona rossa in bassa Val Seriana, sull'ospedale di Alzano chiuso e riaperto in tre ore nonostante i contagi. Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia dell'Azienda ospedaliera di Padova, avrà tempo fino a marzo per depositare la sua consulenza, nel frattempo i magistrati hanno ascoltato testimoni e iscritto diversi indagati.

Grazia Longo per “la Stampa” il 12/10/2020. La crescita della curva dei contagi degli ultimi giorni accende i riflettori sulle persone più fragili, tra cui gli anziani. Soprattutto quelli ospiti delle Rsa, la trincea della prima ondata dell'epidemia. L'Istituto superiore di sanità ha rilevato che in quattro mesi, da febbraio a maggio, ci sono stati 9.154 morti nelle strutture di assistenza per gli anziani e il 7,4 per cento era risultato positivo al coronavirus. Ma c'è il sospetto che i decessi da coronavirus siano stati decisamente di più. E ora che cosa succederà agli anziani? Li aspetta un Natale di malattia e desolazione, soli, dietro le finestre, a scrutare l'ingresso delle cliniche interdetto ai famigliari? Al momento la situazione è, fortunatamente, sotto controllo anche se i casi stanno aumentando a macchia di leopardo in tutta Italia. Secondo il professor Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e primario di Geriatria al Campus biomedico di Roma, «c'è attualmente un livello di protezione maggiore rispetto a marzo e quindi si registrano solo casi sporadici seppur drammatici. La prevenzione messa in atto dalle varie strutture sta funzionando e non credo si verificherà un'ondata di infezioni come a primavera». Il problema deriva dai contatti con le persone più giovani. «Questa seconda ondata ha coinvolto principalmente i giovani - prosegue Incalzi - che hanno poi contagiato i familiari tant' è che oggi, rispetto all'estate, l'età media dei malati ha superato i 41 anni». Per gli anziani esiste, inoltre, un altro genere di problema «che riguarda le loro patologie croniche: tanti, per paura del Covid, non si presentano in ospedale per altre malattie e gli stessi ospedali privilegiano le cure contro il coronavirus». Per non parlare del rischio di «sviluppo di tratti ansiosi depressivi per il timore del Covid 19». Proprio per tutelare, in via cautelativa, i loro residenti, dodici residenze per anziani toscane, appartenenti all'Associazione Residenza Anziani Toscana (Arat), hanno già deciso di serrare le porte delle proprie strutture ai visitatori esterni. Una scelta di natura preventiva, messa in pratica a partire da ieri. «Il nostro unico obiettivo è quello di salvaguardare i nostri ospiti, soggetti ad altissimo rischio - dichiara Franca Conte, presidente di Arat - ed evitare che si torni ad un periodo di terrore nei confronti delle residenze per anziani». Tanto più che si sono registrati già vari focolai. A Sesto Fiorentino, nella residenza sanitaria assistita dell'Istituto San Giuseppe, sono stati individuati 34 casi positivi tra gli 85 ospiti, 3 tra i 50 operatori socio-sanitari e 3 tra le 25 infermiere suore. Altri focolai sono stati scoperti alla Rsa «Rosa Libri» di Greve in Chianti, nella provincia di Firenze, con 19 operatori positivi e 39 dei 52 ospiti, e a Villa Amelia a Prato, con 6 ospiti contagiati. Sono 14, invece, le persone colpite dal coronavirus nella Rsa San Vitale di San Salvo, in provincia Chieti, quasi il 10 per cento delle 107 totali sottoposte al test. Quattro i casi rilevati anche a Roma, nella Rsa di Villa Tuscolana, dov' è in corso l'indagine epidemiologica. Nella residenza «Villa Parco» di Modena si sono ammalati di Covid-19 5 ospiti. Mentre in Piemonte sui 499 contagiati dell'altro ieri, 43 sono ospiti di diverse Rsa.

 “SI LASCIANO MORIRE DI FAME» RSA, È ALLARME ANZIANI SOLI”. Da "ilgiornale.it" il 24 settembre 2020. Come carcerati dimenticati dal mondo. Restano così, in attesa più della fine che di una speranza gli anziani ricoverati nelle case di riposo, negli ospedali e nelle cliniche. Le visite continuano ad essere contingentate, in moltissimi casi proibite del tutto. Dipende dalla sensibilità del referente Covid di ogni struttura, dalla capacità di trovare soluzioni. E guai a chi capita quello che non ammette eccezioni. «Cadono in depressione e si lasciano morire». Silvio Ferrato è il presidente di una casa di riposo di Cuneo, Sanfront, ed è tra i pochi che ha fatto sentire la sua voce scrivendo al presidente Mattarella affinché intervenga. «Vergognoso che i nostri anziani siano trattati così. Bisognerebbe vederli come se ne vanno, per un po' ci domandano perchè sono stati dimenticati, poi scatta in loro un meccanismo per cui smettono di mangiare e si lasciano scivolare verso la morte. Non è atroce? Indegno per una società che si dice civile. Andiamo sulla Luna, abbiamo pensato al plexiglas per le spiagge, possibile che per loro non ci sia niente da fare?». Dopo i morti e le polemiche dei mesi scorsi le Rsa si sono chiuse a riccio e hanno scelto un'amministrazione difensiva, c'è la responsabilità penale. Ci sono le linee guida delle Asl da interpretare, in alcuni casi è ammesso vedere i parenti dietro a un vetro senza toccarsi, in altri neppure questo. La situazione non è semplice, c'è il virus che continua a far paura, il passato ha insegnato che i più fragili sono loro ma buttare la chiave non può neppure essere una soluzione perchè anche di abbandono si muore. «Deterioramento cognitivo atroce e drammatico da cui non è più tornata indietro» racconta in lacrime la figlia di una paziente di una Rsa dell'Emilia Romagna. E mentre l'Istituto Superiore di Sanità si prepara a diramare nuove linee guida per sbloccare l'empasse c'è chi fa appello al buon senso e attenua. Come al Cottolengo di Torino 300 posti, dove sono stati creati degli spazi di incontro ad hoc con mascherine e autocertificazioni. «Non mangiavano più e in molti mostravano disturbi», spiegano. Ferrato alza la posta. «È disinteresse, perchè a volerlo gli ostacoli si superano. Certo, noi abbiamo perso 9 persone per il Covid. Abbiamo pagato un pezzo altissimo, ma oggi abbiamo più strumenti, competenze». Lui per i suoi anziani ha studiato alternative, «abbiamo comprato il sanificatore, facciamo entrare in una saletta solo un ospite con un parente per volta che ha mascherina e camice. Non c'è mai stato un igiene così alto. Perchè allora negargli il rapporto umano? È una tortura senza motivo». Ci sono anche i disabili tra queste vittime silenziose. Ogni giorno una madre di 70 anni passava i pomeriggi con la figlia gravemente disabile ricoverata. Oggi non può più farlo e sta morendo di strazio. Ci sono strutture che concedono una videochiamata alla settimana a ospiti che in molti casi neppure ci vedono, chi può muoversi si affaccia alla finestra e saluta con la mano i parenti in strada. Ma è dura. Il rischio più alto è sì la depressione ma anche la perdita progressiva di orientamento. C'era un uomo ricoverato in una struttura di Milano a cui è successo così. Non ha più visto le sue persone. Aveva 103 anni e nessun problema in particolare ma da lì non è più uscito. «Una soluzione ci sarebbe, spiega il virologo Andrea Crisanti. Far fare un tampone molecolare ai parenti il giorno prima di entrare e se è negativo, con la mascherina e il camice il rischio è praticamente a zero». Servono nuove linee guida subito.

Chiara Rai per “il Messaggero” il 24 settembre 2020. Un anziano di 87 anni che soffriva di depressione ieri mattina ad Ariccia ha ucciso la moglie malata da tempo e poi si è suicidato. L' uomo ha sparato alla donna a bruciapelo: due colpi secchi di pistola, dopodiché solo le sirene della polizia e il brusio della folla hanno rotto il silenzio in una tranquilla zona residenziale della cittadina dei Castelli a pochi chilometri da Roma. Teatro della tragedia, originata della solitudine e della sofferenza, una villetta a due piani dove fino a ieri regnava un' apparente tranquillità. Le vittime sono Gianfranco Cerri, ex pilota in pensione, originario della Liguria, e la compagna di tantissimi anni, Giovanna Gilberto, nata in Sicilia. Per loro, una vecchiaia difficile da sopportare a causa delle condizioni di salute della donna: un grave decadimento senile e poca forza a disposizione per trascorrere serenamente gli ultimi anni. Sembra che di recente l' anziana si fosse anche fratturata un polso. Il delitto si è consumato intorno alle 9 in via Damiano Marinelli, vicino a Montegentile, al limitare dei boschi non lontani dal palazzetto dello sport. Il rumore degli spari, due, ha subito allarmato i residenti della zona che hanno chiamato i carabinieri: «I colpi di pistola - racconta un vicino - si sono sentiti molto chiaramente. Ci siamo spaventati, il rumore proveniva proprio dal civico dei coniugi Cerri. All' inizio abbiamo pensato a malviventi che si erano intrufolati nell' abitazione». I militari insieme ai medici del 118 sono entrati nella villetta e hanno fatto la macabra scoperta: i coniugi si trovavano nella loro camera distesi sul letto matrimoniale. Sul caso indagano i carabinieri della stazione di Ariccia e il Nucleo investigativo di Frascati che quasi subito hanno pensato all' ipotesi dell' omicidio suicidio.

LA RICOSTRUZIONE. L' uomo, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe preso la sua pistola regolarmente detenuta e avrebbe prima sparato alla moglie, malata e affetta da molteplici patologie da diverso tempo e poi si sarebbe sparato subito dopo. Insieme anche nel momento della morte. I due spari secchi di pistola hanno colpito gli organi vitali della coppia. Sono morti sul colpo e i loro corpi sono stati trovati vicini. Le salme sono state affidate all' Autorità Giudiziaria e trasferite a Tor Vergata. Nella villetta non è stato rilevato alcun segno di infrazione o elementi che lasciassero pensare all' intrusione di estranei. Vicino ai cadaveri è stato trovato un bigliettino scritto dall' anziano in cui preannunciava l' estremo gesto e ne spiegava i motivi, lui che era completamente dedicato ad assistere sua moglie. I militari hanno sequestrato l' arma. Sarà l' esame balistico a confermare la dinamica dei fatti, chiaramente deducibile dalla posizione dei corpi e dallo scritto lasciato dall' uomo. Gianfranco Cerri è conosciuto nella zona per essere una brava persona, incensurato, un uomo mite che da pensionato aveva anche imparato a usare i social. Era attivo e partecipe alla vita sociale e politica ariccina. Uno dei due figli è entrato in casa e ha visto la scena. Nel frattempo i residenti della zona sono increduli e ancora colpiti da quanto è accaduto: «Sapevamo delle difficoltà della signora dovute alla malattia dice una vicina ma non pensavamo che potesse consumarsi una tragedia simile. Erano due belle persone, siamo davvero dispiaciuti».

Coronavirus, un'infermiera di Pescara: "Positiva per mancanza di mascherine. Ho contagiato mio padre ed è morto". Libero Quotidiano il 22 settembre 2020. Ha preso il Covid perché non c'erano mascherine a disposizione; così ha contagiato il padre che poi è morto. E' successo a Pescara, dove un'ex infermiera di una Rsa ha denunciato la mancanza di dispositivi di protezione all'interno della struttura. La Procura di Pescara, infatti, ha aperto un'inchiesta per capire se nei mesi scorsi, durante l'emergenza coronavirus, tre cliniche private abbiano commesso delle irregolarità nella fornitura di guanti, tute e mascherine al personale sanitario. A riportarlo è il Messaggero. L'inchiesta è partita da un esposto del sindacato degli infermieri, il Nursind, che ha denunciato le strutture per non avere garantito le condizioni migliori per operare in sicurezza, favorendo così il contagio tra i dipendenti. Nell'ambito di queste indagini si inserisce la denuncia dell'ex infermiera, che ha prestato servizio in una Rsa dall'11 marzo al 3 aprile scorso. La donna sostiene di aver contratto lì il Covid, finendo poi per contagiare tutta la sua famiglia, compreso il padre, che non ce l'ha fatta. La casa di cura avrebbe smentito, accusando invece l'infermiera di essere andata a lavoro pur sapendo di essere positiva.

Coronavirus, riserbo sul numero dei morti nelle Rsa. La Regione Lombardia nasconde i dati. Finora 2755 medici e 4952 infermieri positivi al Covid. Di questi deceduti 35 medici, 6 infermieri. Michelangelo Bonessa il 19 settembre 2020 su Il Quotidiano del Sud. Riserbo sui morti nelle Rsa lombarde. La linea di Regione Lombardia è di non specificare quanti anziani siano morti in ciascuna residenza dedicata alla terza età. Vengono forniti i numeri dei decessi, ma non il dettaglio delle singole strutture: il motivo è che i consulenti legali del Pirellone non vogliono mettere a rischio la reputazione delle singole aziende mentre ci sono indagini in corso nonostante le pressioni delle opposizioni. Ma la questione della gestione dei mesi dell’emergenza tornerà presto all’ordine del giorno: lunedì infatti si insedierà la commissione d’inchiesta regionale a cui è affidato il compito di esaminare l’operato dell’Amministrazione regionale durante il lockdown. Durante la seduta – che come previsto dal regolamento si svolgerà a porte chiuse e sarà presieduta dal Presidente del Consiglio regionale, Alessandro Fermi – la commissione sarà chiamata ad eleggere il proprio presidente, che dovrà essere espressione dei gruppi di minoranza e dovrà essere votato a maggioranza dei componenti della commissione, secondo il principio del voto ponderato sulla base della consistenza numerica di ciascun gruppo consiliare. Si tratterebbe di un passo avanti politicamente rilevante perché l’insediamento della commissione era bloccato per i veti incrociati dei gruppi consiliari. Come prima presidente era stata votata Patrizia Baffi, consigliera regionale di Italia Viva, ma con i soli voti della maggioranza. Ora invece pare che si sia trovato un accordo: alla presidenza si insedierà Gian Antonio Girelli, bresciano, 58 anni, eletto col Pd e già componente della terza commissione permanente Sanità del Pirellone. Mauro Piazza di Forza Italia invece dovrebbe diventare vicepresidente. Roberto Anelli, capogruppo della Lega al Pirellone, assicura che andrà tutto come previsto. Intanto però i consiglieri Elisabetta Strada (Lombardi Civici Europeisti) e Niccolò Carretta (Azione) insistono per avere i dati effettivi sulle Rsa: “Vogliamo sapere che cosa è successo in ogni singola Rsa lombarda, ma Regione Lombardia fornisce solo i dati ‘aggregati’, ufficialmente per tutelare la reputazione professionale di ciascuna Rsa, ma il dubbio è che qualcuna di queste strutture abbia avuto più casi di altre”. Giulio Gallera, assessore regionale al Welfare, stava per renderli disponibili il 9 settembre, hanno precisato i due esponenti dell’opposizione, ma è stato fermato dai consulenti legali dell’assessorato. Alcuni numeri però ci sono e rendono l’idea dello sforzo a cui è stato sottoposto il sistema sanitario lombardo: al 7 settembre 2020, sono risultati positivi al COVID 2755 medici, 4952 infermieri, 102 ostetriche, 1917 OSS, 550 tecnici sanitari, 837 altri operatori sanitari, 1074 operatori con profilo non sanitario e 436 medici di medicina generale. Di questi risultano deceduti 35 medici, 6 infermieri, 1 ostetrica, 9 OSS, 1 tecnico sanitario, 2 altri operatori sanitari, 4 operatori con profilo non sanitario e 18 medici di medicina generale. E le Rsa hanno subito più di altri questo uragano: “Alla data del 31/5 sono risultati positivi al Covid 14.357 ospiti di Rsa” spiegano da Regione in una risposta scritta a Carretta e Strada di cui 3.139 deceduti. Mentre alla “data del 31/7 sono risultati positivi al Covid 14.703 ospiti di Rsa” di cui 3.378 scomparsi. “In entrambi i casi, il decesso è avvenuto prima della data di guarigione da Covid – precisano nel documento – Dalla lettura dei dati incrociati dell’Anagrafe Regionale e del flusso delle Dimissioni Ospedaliere (SDO) risultano 1.776 ospiti di Rsa che hanno avuto un ricovero con diagnosi Covid e dimessi entro il 31/5. Tale dato ammonta a 2.352 alla data del 31/7”. Una strage su cui stanno indagando i magistrati, quindi ci vorrà tempo per capire se ci sono state errori e colpe nella gestione delle settimane della quarantena. Nel frattempo infatti la Lombardia sta cercando di affrontare la ripartenza più difficile della sua storia.

Coronavirus, la strage nelle Rsa lombarde: 3.378 morti fino al 31 luglio. Pubblicato mercoledì, 09 settembre 2020 da La Repubblica.it. Oltre 14.700 ospiti positivi e 3.378 deceduti: è questo l'ultimo bilancio del Covid-19 nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) lombarde. Il dato è stato fornito dall'assessore al Welfare Giulio Gallera, rispondendo a un'interrogazione in commissione regionale Sanità. Alla data del 31 luglio, ha detto Gallera, "sono risultati positivi al Covid 14.703 ospiti di Rsa", mentre "gli ospiti positivi al Covid che risultano deceduti sono stati 3.378". Quanto ai trasferimenti in ospedale "dalla lettura dei dati incrociati dell'Anagrafe regionale e del flusso delle Dimissioni ospedaliere (SDO) risultano 1.776 ospiti di Rsa che hanno avuto un ricovero con diagnosi Covid e dimessi entro il 31/5. Tale dato ammonta a 2.352 alla data del 31/7".

Cronaca Coronavirus, i Nas nelle Rsa di Como: sequestrate 363 cartelle di pazienti deceduti. Limitatamente alle 18 Rsa che hanno aderito alla delibera regionale XI/2906 dell'8 marzo, che consentiva alle strutture extra ospedaliere di accogliere pazienti Covid positivi in padiglioni separati dagli altri e con personale dedicato, "alla data del 31/7 sono risultati positivi al Covid 719 ospiti", mentre "gli ospiti positivi al Covid che risultano deceduti sono 163". "I pazienti ricoverati sono stati 210 in tutto" ha specificato Gallera, sottolineando che in tutte le 18 strutture erano già presenti ospiti positivi "in una fase precedente a quella dell'accoglienza di pazienti Covid provenienti dagli ospedali".

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 5 agosto 2020. Mascherine e camici distribuiti troppo tardi agli operatori sanitari, quando l'epidemia già infuriava. Anziani contagiati dal Covid nella stessa stanza degli ospiti sani, con un'esponenziale diffusione dell'infezione. Sono i primi elementi che emergono dall'inchiesta della Procura di Como sui decessi nelle Rsa della provincia, che ora ha anche un numero di morti: 363 pazienti, le cui cartelle cliniche sono state acquisite dai militari del Nas. Omicidio ed epidemia colposi, al momento contro ignoti, sono i reati ipotizzati dalla Procura guidata da Nicola Piacente, che sulla strage silenziosa nelle strutture per anziani indaga da aprile, quando sono arrivate le prime segnalazioni di morti sospette. I Nas hanno ispezionato 17 Rsa e l'ospedale di Cantù, acquisendo la documentazione medica dei 363 deceduti nei mesi dell'epidemia ma anche il documento di valutazione dei rischi da interferenze (Duvri), che le strutture pubbliche e private devono adottare per la prevenzione delle epidemie. «Stiamo accertando da una parte la causa dei decessi, dall'altra le precauzioni per prevenire e circoscrivere il contagio», spiega il procuratore capo Piacente. Sono 26 gli esposti da cui è nata l'inchiesta, 13 depositati da parenti di anziani morti, altri di dipendenti delle strutture. Agli atti ci sono la denuncia di un medico e quella di un operatore sanitario che sostiene di essere stato testimone di procedure e scelte che avrebbero favorito la diffusione dell'epidemia. In tutti gli altri casi la contestazione da parte degli autori degli esposti riguarda la totale assenza di comunicazioni con le strutture sanitarie in cui sono ricoverati gli anziani. Mancanza di contatti diretti con i famigliari ricoverati, ma anche zero comunicazioni con gli operatori che accudiscono i pazienti. Tra le segnalazioni arrivate ai magistrati c'è quella depositata dal figlio di un paziente di 69 anni morto in una casa di riposo del comasco: «Impossibile avere informazioni sullo stato di salute di mio padre - scrive nella denuncia - Inoltre ho chiesto a lungo e invano di poter avere la cartella clinica del padre, ma non mi è mai stata consegnata». Per il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, indagini e controlli «servono a fare luce per una sanità migliore, sono essenziali alla comprensione dei fatti, della responsabilità e, soprattutto, della giustizia». L'inchiesta dei magistrati comaschi intende far luce sulle eventuali omissioni e correlazioni tra le morti e i contagi nelle strutture. Ma le attività degli investigatori si concentrano anche sull'organizzazione interna, a cominciare dall'uso della mascherina e dei camici plastificati, oltre che sulle direttive ricevute e sulla loro attuazione. «Magistratura e carabinieri del Nas stanno conducendo un lavoro straordinario in tutta Italia - sottolinea il viceministro - Sono loro il nostro riferimento per l'acquisizione di informazioni utili alla ricostruzione dei giorni più duri della pandemia». Per Sileri «indagare, seguire le tracce, significa ricercare con cura e individuare ogni indizio utile alla conoscenza dei fatti. Imparare serve a costruire il futuro, è la base per capire le debolezze da sanare, le criticità da risolvere». E vuol dire anche «formare il personale sanitario e consentire l'acquisizione di informazioni per potenziare il nostro capitale umano». Non solo in vista di una eventuale seconda ondata e nella ricerca dei responsabili, conclude il viceministro, ma più in generale «per affrontare le problematiche sanitarie». Su queste criticità si concentrano anche i rappresentanti dei lavoratori, che hanno depositato alle Procure di Como, Varese e Busto Arsizio un esposto per la verifica delle condotte seguite dall'Agenzia di tutela della salute (l'ex Asl) dell'Insubria per contenere l'infezione nelle Rsa durante l'emergenza coronavirus. I numeri dei contagi e dei decessi sono quelli di una disfatta sanitaria regionale: a Villa San Benedetto di Albese con Cassano, 122 dei 150 ospiti sono risultati positivi a metà aprile, a Le Camelie di Como tra marzo e aprile sono morti 23 anziani sui 120 ospitati. Intanto si allarga l'indagine della Procura di Napoli sulla realizzazione degli ospedali modulari anticovid in Campania, un appalto da 18 milioni di euro: almeno quattro gli indagati, l'ultimo avviso di garanzia è stato consegnato a Roberta Santaniello, dirigente dell'ufficio di gabinetto della Giunta regionale della Campania.

Coronavirus, l'Oms: metà dei morti in Europa nelle case di cura. Le Iene News il 23 aprile 2020. “Il quadro in queste strutture è profondamente preoccupante", ha detto Hans Kluge, direttore regionale dell’Oms Europa. Se fosse confermato anche per l’Italia, ci sarebbero oltre 12mila morti tra gli anziani nelle nostre case di cura. Nina Palmieri ci ha appena raccontato in onda la tragedia della rsa La Fontanella in Puglia. La strage degli anziani assume dimensioni sempre più drammatiche. Quasi metà dei morti per il coronavirus in Europa erano pazienti nelle case di cura. A dirlo è il direttore regionale dell’Oms in Europa, Hans Kluge.“ Il quadro su queste strutture è profondamente preoccupante, è una tragedia inimmaginabile”. “C’è un urgente e immediato bisogno di ripensare il modo in cui operano le case di cura oggi e nei mesi a venire", ha aggiunto Hans Kluge, che poi lancia un appello: “Le persone compassionevoli e dedicate che lavorano in quelle strutture, spesso sovraccaricate di lavoro, sottopagate e prive di protezione adeguata, sono gli eroi di questa pandemia". Una vera e propria tragedia quindi: se questo calcolo si applicasse all’Italia, dei 25mila morti registrati ne avremmo oltre 12mila nelle case di cura. Noi de Le Iene ci siamo occupati con Nina Palmieri del caso della rsa La Fontanella, in Puglia. Una tragedia che ha registrato un bilancio pesantissimo, come potete vedere nel servizio qui sopra: circa 90 ospiti quasi tutti contagiati e finora 15 morti.

Coronavirus, Oms: "Quasi la metà dei morti in Europa era nelle case di cura". La Repubblica il 23 aprile 2020. Quasi metà delle persone morte per coronavirus in Europa era residente di case di cura. Lo ha detto il direttore regionale dell'Oms Europa, Hans Kluge, in una conferenza stampa. "Il quadro su queste strutture è profondamente preoccupante", ha sottolineato Kluge. "Secondo le stime che arrivano dai Paesi europei la metà delle persone che sono morte di Covid-19 era residente in case di cura. È una tragedia inimmaginabile", ha detto il direttore dell'Oms Europa.

"C'è un urgente ed immediato bisogno di ripensare il modo in cui operano le case di cura oggi e nei mesi a venire", ha aggiunto sottolineando che "le persone compassionevoli e dedicate che lavorano in quelle strutture - spesso sovraccaricate di lavoro, sotto pagate e prive di protezione adeguata - sono gli eroi di questa pandemia". Un problema che coinvolge anche l'Italia dove sono numerosi gli anziani morti nelle case di riposo. Pochi giorni fa l'Istituto superiore di sanità (Iss) ha diffuso il terzo rapporto sui contagi nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Dal primo febbraio al 14 aprile 2020 ci sono stati 6.773 decessi tra i residenti. Nel 40,2 per cento dei casi (2.724 s 6.773) le morti sono avvenute per Covid-19 o manifestazioni simil-influenzali. Dati che iniziano a emergere anche dai tamponi che arrivano dai laboratori. Milano, colpita dallo scandalo del caso Trivulzio, può essere un esempio. Al Policlinico, dove ogni giorno analizzano 500 test, nell'ultima settimana sono stati un migliaio quelli provenienti dalle case di riposo. Al Niguarda sono il 20 per cento dei 1.200 processati ogni giorno, circa 250. Gli esperti ricordano che "i dati aumentano ogni giorno".

Nicola Borzi per il “Fatto quotidiano” il 22 aprile 2020. Gli esperti la chiamano "economia d' argento", perifrasi consolatoria che indica il business costruito sugli anziani. L' Italia, che nel 2017 era il secondo Paese più âgée del mondo dopo il Giappone con il 29,4% della popolazione oltre i 60 anni, 17,43 milioni di persone, nel 2050 ne avrà 22,2 milioni, il 40,3%. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento tra 14,4 e 23,8 miliardi. Il settore fa gola perché le Rsa sono un investimento "assicurato" e assai redditizio. Ecco perché, anche se a oggi valgono solo un quinto dell' offerta complessiva, i gruppi privati stanno investendo grandi somme sia per creare nuove strutture che per acquistare concorrenti: i principali player sono Kos del gruppo Cir (De Benedetti), Tosinvest (Angelucci), Sereni Orizzonti della famiglia friulana Blasoni, ma dalla Francia sono già arrivati i giganti quotati Korian e Orpea. Da circa 15 anni l' Europa e il Canada hanno seguito gli Usa nella privatizzazione delle case per anziani. I governi hanno incoraggiato gli operatori privati attraverso i meccanismi di accreditamento. In Italia a fine 2017 nelle Rsa e Rsd (residenze per disabili) operavano 1.271 imprese, 702 delle quali private e profit, ma i quattro quinti del settore sono gestiti da istituzioni pubbliche e Onlus. L' offerta dei privati profit però è in costante crescita, trainata da rette mensili medie molto più alte di quelle del non profit poiché contengono la quota alberghiera. La retta sanitaria a copertura pubblica, che "pesa" tra il 30 e il 50% della retta totale, varia a livello regionale e vale dai 29 ai 64 euro al giorno. Tra gli operatori italiani delle Rsa svetta Kos del gruppo Cir con il marchio "Anni Azzurri". Gestisce 77 strutture in 10 regioni italiane, in Gran Bretagna e in India per oltre 7.300 posti letto: 48 Rsa, 12 centri di riabilitazione, 11 comunità terapeutiche psichiatriche, quattro cliniche psichiatriche, due ospedali, 24 sedi centri diagnostici e terapeutici, 23 centri ambulatoriali. Kos dà lavoro a oltre 6.400 persone, fattura 550 milioni e ha acquisito da poco la tedesca Charleston (48 Rsa, 4.200 posti, 3.800 dipendenti). I dati della Tosinvest della famiglia Angelucci, che conta alcune decine di Rsa col marchio San Raffaele, non sono noti a livello consolidato perché schermati dietro una holding lussemburghesi. Sereni Orizzonti (il cui fondatore Massimo Blasoni, arrestato a ottobre e tornato libero a gennaio, è accusato di truffa aggravata al Ssn proprio un' inchiesta sulle Rsa) tra Italia, Germania e Spagna ha 80 strutture con 5.600 posti letto e fattura 200 milioni (+150% in quattro anni), sta realizzando una ventina di nuove Rsa per 2.400 posti in cinque regioni con un investimento di 180 milioni e punta 30 milioni per acquisizioni in Ue. Tra gli operatori esteri, dopo la fusione dell' agosto 2016 con la Aetas del gruppo Definancements, oggi il gruppo francese Korian in Italia conta 44 Rsa con circa 4.800 posti letto, otto centri diurni, 110 appartamenti per anziani con 200 posti letto, 12 case di cura riabilitative per 1.200 posti letto, tre servizi post acuzie, 19 centri ambulatoriali e diagnostici, tre comunità psichiatriche (65 posti), tre centri residenziali per disabili (200 posti) e due hospice. Il gruppo nel 2019 nel mondo aveva oltre 82.600 posti letto in 600 strutture, ricavi per 3,6 miliardi (+8,3% annuo), un utile netto di 136 milioni (+10,4%), con 353 milioni investiti nell' acquisto di 20 strutture e un portafoglio immobiliare di oltre 2 miliardi. Grazie alle acquisizioni, in Italia i suoi ricavi sono cresciuti del 9,3% e i clienti sono aumentati del 150% in tre anni. L' altro gigante è la francese Orpea , primo operatore mondiale con 96.577 posti letto autorizzati in 950 strutture di 14 Paesi tra Europa, Cina e Brasile. In Italia possiede 18 strutture, 1.980 posti letto e 1.422 collaboratori tra Rsa e cliniche di riabilitazione in Piemonte, Lombardia, Liguria, Veneto e Sardegna. A livello consolidato nel 2019 ha realizzato un fatturato di 3,74 miliardi (+9,4%) e un utile netto di 245,9 milioni (+11,6%). Ha da poco acquisito le olandesi September e Allerzorg e la tedesca Axion con un portafoglio immobiliare da oltre 6 miliardi. Proprio gli immobili delle Rsa, grazie agli affitti garantiti da rette sostenute dal settore pubblico, ingolosiscono la finanza che dal 2006 vi ha investito un miliardo. In Italia una ventina di Sgr e Sicaf hanno in portafoglio strutture sanitarie, tra cui 50 Rsa per circa 5.600 posti letto inserite in 21 fondi immobiliari. Secondo Il Sole 24 Ore a comprare c' è la Zaffiro del gruppo Mittel che ha preso sei immobili di Rsa già operative e punta ad acquisti per 120 milioni nei prossimi anni Il Fondo innovazione salute di Cattolica Assicurazioni , gestito da Savills Investment Management, punta a comprare 10 Rsa per 800 posti letto investendo 150 milioni. Ream Sgr (fondi Geras) sta facendo acquisizioni e ha 1.300 posti letto di Rsa in portafoglio. Il motivo è semplice: l' affitto di immobili alle Rsa genera rendimenti medi lordi annuali tra il 6 e il 7,5% l' anno.

La strage taciuta degli Anziani. Matteo Notarangelo, Sociologo e counselor professionale, il 26.04.2020 su Movimento 24 agosto. La vecchiaia non è una malattia. “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Non vogliamo che le residenze sanitarie assistite diventino i nuovi manicomi e gli anziani i nuovi internati. In questi giorni, la pandemia  narra altro. Il Covid 19 ha svelato i misteri assistenziali e sanitari delle “nuove” istituzioni totali post-manicomiali per anziani, le  Rsa e le Case di cura  di riposo. L'Istituto Superiore di Sanità ha scritto che “in circa mille RSA italiane dal 1° febbraio alla metà di aprile sono stati 2.724 decessi dovuti al Covid (364) oppure a sintomi simil-funzionali (2.360) che fanno pensare comunque al coronavirus”. Le morti degli anziani non autosufficienti  sono state  6.773, quelle provocate  dalla pandemia potrebbero essere il 40%. Sono dati che si richiamano a un campione  di 1.082 strutture per anziani, il 33% di quelle contattate, rispetto alle 4.630 operanti su tutto il territorio nazionale. A questo numero, c'è da aggiungere quello delle tantissime Case di Riposo. Nelle nuove istituzioni totali per anziani si è consumato una “strage” di  donne e uomini fragili, silenziosi, senza parola e senza diritti. Il silenzio condiviso e la subordinazione degli operatori alla logica del profitto hanno compromesso la dignità  e l'amore  per  coloro che vorrebbero concludere la vita con dignità. Si avverte tra i familiari, ma anche tra chi lavora in questi non luoghi, la voglia di svelare i giochi delle fredde pratiche di cura e di lucro che, se taciuti, rischiano di soffocare la flebile voce delle persone fragili, finite dentro il circuito, indifferente, delle RSA, nuove istituzioni totali. E sono tanti gli anziani che dal mondo segregante dell' internamento “volontario” scrivono ai propri cari. Un grido di aiuto, il loro,  che non può essere ascoltato dai figli che vivono in solitudine la loro vita quotidiana. Ma la sofferenza, scritta e denunciata dagli anziani internati, non può restare inascoltata. Qualcuno deve pure cercare di aprire la porta delle  RSA per guardare dentro  e liberare l'anziano legato, sedato, sottomesso alle logiche del profitto ingiusto dei gestori. Qualcuno deve pur avere il coraggio di leggere le lettere  dell'anziano che ha scritto:  “In questo ospizio mancano i sorrisi (…) Qui manca la cosa più importante, la vostra carezza. (...) Non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine… In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici e cattivi?”. È evidente, quindi, che in questo tempo e a questi esseri umani non servono discorsi consolatori, ma la forza di togliere legittimità alle istituzioni di riposo e di cura troppo simili ai vecchi manicomi. Prigioni dorate che segnano gli ultimi anni di vita di padri e  di nonni strappati ai loro cari da un mercato senza regole. Ci sono altre soluzioni. Ci sono pratiche umane che non considerano gli anziani "numeri", costretti a condividere quel che resta della vita con centinaia di persone sole e abbandonate come loro. Quelle soluzione sono i modelli socioassistenziali umani, leggeri, che valorizzano la persona anziana e il suo mondo di affetti e di conoscenze. Quei modelli, umani e leggeri, possono  diventare realtà, basta arginare, respingere e  annientare la violenza legislativa dei 21 consigli regionali, troppo piegata a salvaguardare il profitto ingiusto delle città dei vecchi. La logica concentrazionaria dei grandi numeri da internare in disumani strutture-prigioni, doppio volto dell'assistenza agli anziani, è stata pianificata dalle istituzioni politiche con regolamenti regionali. La fonte giuridica dei neomanicomi devastanti per l'uomo, per le persone fragili, per l'umanità sono i regolamenti regionali, che trasudano oro colato per il mercato, per  il profitto, per le clientele, per gli sprechi. Una normativa, quella regionale, voluta da politici, che non osa “inventare" le buone pratiche assistenziale, che non invita ad affrontare un viaggio aperto, libero dai mille condizionamenti, che, ogni anno, sperpera 13 miliardi di euro e scoraggia l'assistenza leggera, di qualità, delle piccole residenze protette. “Il vero viaggio di scoperta -scriveva Marcel Proust,  Alla ricerca del tempo perduto- non consiste  nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi”. E con nuovi occhi Margherita Hack scriveva: “Molti di questi vecchi passano i loro ultimi anni in case di riposo, passando dal letto a una sedia e dalla sedia al letto, lontani dalla loro casa, senza più un'attività  che li interessi. Quando le loro condizioni lo permettono sarebbe preferibile mandarli a casa, dove di solito ritrovano qualche interesse e voglia di vivere. Forse le case di riposo dovrebbero essere a voglia di vivere. Forse le case di riposo dovrebbero essere strutturate in piccole comunità di 4 o 5 anziani e un assistente, cosi da creare un ambiente familiare”. Questo monito dovrebbe far pensare ai legislatori nazionali, regionali e comunali che le case di riposo e le RSA sono istituzioni totali, un misto di segregazione e assistenza, da reinventare.  Per dirla in modo diverso,  l'esistenza stessa delle affollate strutture sociosanitarie dovrebbe costituire uno scandalo. Purtroppo, direbbe lo psichiatra Agostino Pirella, lo scandalo diventano la libertà e la solidarietà. Questa crisi pandemica ha svelato la sua verità: le RSA e le Case di riposo, cosi come sono,  si mostrano come contenitori affollati di fragilità umana ingestibili, inquietanti e focolai di contagi. E' questa strutturazione sociosanitaria la fonte della violenza istituzionale, esercitata contro  chi non è più in grado di difendersi. In nome dell'istituzione che non cura, sono gli anziani, gli ultimi, i più deboli, lo scarto a dover  accettare,  “nella prigione dorata”, una sofferenza psicologica e psichiatrica, cosi forte, invadente da spegnere gli sguardi e i sorrisi. “Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi miei figli e nipoti. Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere  una penna ricevuta  da una giovane donna … E' l'unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso ma da quanto porta la mascherina riesco solo a intravedere un po' di luce dai suoi occhi; uno sguardo  diverso da quello delle altre assistenti che neanche ti salutano”. Questo è quanto scrive un indifeso e rassegnato avvocato di 84 anni. Ma chi è disposto ad accogliere il suo messaggio? La vecchiaia, gestita male nei gradi contenitori disumanizzati totali per anziani, disabili fisici, psichici, sensoriali, rischia di diventare una condanna a morte, che conduce a una strage collettiva annunciata di innocenti. È risaputo, la perdita della propria casa uccide l'anziano. Allora, può bastare la psichiatria, una diagnosi psichiatrica per giustificare l'internamento e l'assassinio sociale di un familiare anziano? La ragione umana, continua a mostrare che le RSA  e le Case di riposo   svolgono le funzioni di controllo e di custodia del vecchio manicomio. È stato smontato il vecchio manicomio, si possono smontare le nuove istituzioni totali. Liberare l' anziano è l'unico modo per ridargli la voglia di vivere, anche con le sue fragilità. C'è un modo diverso per lasciar vivere i padri i nonni: le case protette leggere.

 Anziani s.p.a. Report Rai PUNTATA DEL 18/05/2020 di Rosamaria Aquino. Le Rsa sono state i luoghi nei quali il virus è stato più letale. Ma sono anche un business milionario fatto di costi ridotti al lumicino a fronte di rette altissime e cospicui contributi economici pubblici. Dalla Liguria alla Calabria, siamo andati a vedere da vicino che servizi offrono, come hanno risposto all'emergenza, quali legami hanno con la politica.

- La nota inviata da Villa Aurora (Roma) Ringraziamo Villa Aurora che finalmente ci da delle risposte, nonostante abbiamo provato a contattarla dal 23 marzo, addirittura andando fisicamente in sede, come si vede dalle immagini andate in onda e non ricevendo più un riscontro alle nostre domande, come invece promesso. E ringraziamo Villa Aurora per la precisazione che non fa che confermare quanto da noi sostenuto, poiché la struttura è compresa addirittura tra le 9 aree di intervento della “Rete della sanità del Lazio” per l'emergenza coronavirus, indicata come spoke. Quasi in tutte le Rsa che abbiamo trattato nell'inchiesta i posti riservati sono quelli degli acuti, essendo sospesi i ricoveri. Resta però sempre il fatto che la struttura ospitante è la medesima. Leggiamo infatti dalla vostra risposta del 30 marzo ai parenti che chiedevano rassicurazioni sulla separazione dei reparti: “L'attuale stato di emergenza nazionale e internazionale ha provocato e sta provocando riorganizzazioni momentanee e transitorie così come più volte chiesto da Governo centrale e Regione Lazio (…) La situazione regionale nelle case di riposo, nelle Rsa e negli ospedali, durante questi ultimi 15 giorni, è diventata esplosiva; così come richiesto dall'Amministrazione regionale, la Direzione di questa struttura ha deciso di rendersi disponibile, per quanto possibile, all'implementazione dei posti letto per essere di supporto agli ospedali”. E ancora il 7 aprile, in un'altra lettera ai parenti: “Come a tutti noto la situazione in tutto il Lazio, e purtroppo nella maggioranza delle Rsa della Regione, nella settimana iniziata con il 16 marzo 2020, è precipitata! L'unità di crisi della Regione ha chiesto tutto il supporto possibile a tutte le strutture che fossero in grado di darlo nella massima sicurezza”. 

- Dopo la clip del nostro servizio su Villa Torano nella quale era contenuto un audio del 118 che consigliava alla struttura di pretendere un tampone su una salma trasportata in ambulanza lo scorso 21 marzo, i legali del direttore sanitario della Struttura, hanno scritto una precisazione (qui al link) nella quale affermavano tra l'altro che:  “il Direttore Sanitario di Villa Torano nell’immediatezza contattava il centralino dell’Ospedale Annunziata tramite il quale riusciva ad interloquire con il Direttore Sanitario del detto nosocomio. Alla richiesta del Dott. Pansini di eseguire il tampone sul paziente deceduto, lo stesso Direttore Sanitario dell’ospedale rispondeva che non lo riteneva necessario e che aveva dato disposizione al medico in servizio del Pronto Soccorso di trattare il caso come un decesso da malattia infettiva soltanto per un eccesso di precauzione”.  Abbiamo sentito per verifica il direttore sanitario del presidio ospedaliero di Cosenza Salvatore De Paola il quale ci ha detto che lui, quel giorno, non era reperibile e che in sua vece era di turno la dottoressa Lea Perrone, la quale conferma di aver preso lei la telefonata della Rsa. La dottoressa smentisce che il direttore abbia fatto richiesta di un tampone sulla salma e che il direttore sanitario (lei che ne faceva le veci) abbia mai risposto che non lo riteneva necessario.

ANZIANI s.p.a. Di Rosa Maria Aquino Collaborazione di Alessia Marzi immagini di Giovanni De Faveri, Matteo Delbò e Dario D'India.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Parliamo di quello che è orribile che è accaduto nelle residenze per gli anziani, sono circa 7 mila i morti per il virus, ma è una cifra sicuramente per difetto perché tanti ne sono scappati. Ecco, questo è quello che succede a un paese che è il più vecchio al mondo dopo il Giappone. Noi contiamo circa 13,6 milioni di anziani e, secondo le stime, nel 2035 saranno 17,8 milioni. Secondo uno studio di Ubi Banca per accudirli, bisognerà investire circa 14 miliardi di euro. Si capisce che è un affare interessante. Ora se il virus ha avuto un merito è quello di squarciare il velo sulla gestione di queste residenze a lunga degenza. Chi sono i gruppi che le hanno gestite, quei gruppi di potere? Alcune Rsa, fanno riferimento addirittura a dei politici. Altre a delle onlus no profit che invece hanno fatto profit, investendo su titoli a rischio o addirittura finanziando indirettamente le campagne elettorali. In Liguria. È successo che c’è una questione rimasta aperta. Uccide più il virus o il fatto che non c’è sufficientemente personale per accudire gli anziani? La nostra Rosamaria Aquino

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Siamo in Liguria e andiamo verso Ponente in provincia di Savona, a Borghetto Santo Spirito. Cinquemila anime, due Rsa. Una di queste, la Humanitas, è satellite della galassia della Sereni Orizzonti, leader delle strutture per anziani, 90 in tutta Italia. Un patrimonio immobiliare stimato 200 milioni. L'Humanitas però conta diversi morti. Sono 17, di cui 14 in una settimana. E forse non solo per coronavirus.

GIANCARLO CANEPA - SINDACO BORGHETTO SANTO SPIRITO (SV) Si sono concentrati molti decessi presumibilmente legati al covid che in qualche maniera hanno coinciso anche con una situazione particolare legata ai dipendenti, in quanto su 18, 16 erano in malattia.

ROSAMARIA AQUINO Quanti degenti dovevano vedersi in due?

GIANCARLO CANEPA - SINDACO BORGHETTO SANTO SPIRITO (SV) In quei giorni c'erano almeno 46, 47 ospiti.

ROSAMARIA AQUINO Siamo di Report-Rai 3.

INFERMIERA Si, buongiorno.

ROSAMARIA AQUINO Gli operatori sono tornati?

INFERMIERA No. Gli operatori non sono ancora ritornati.

ROSAMARIA AQUINO Ah e quindi come state facendo?

INFERMIERA Abbiamo gli altri operatori che abbiamo assunto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La società in emergenza si è rivolta ad operatori interinali. Fin qui tutto bene, se non fosse che Sereni Orizzonti nello stesso periodo dei morti e degli operatori assenti, aveva avuto mandato da Alisa, l'Agenzia per la salute della Liguria, di aprire il Centro Covid a Genova, che ha appena avuto l'accreditamento.

ROSAMARIA AQUINO Volevamo parlare con qualcuno della direzione.

INFERMIERA No non potete entrare.

ROSAMARIA AQUINO Questo l'ho capito e infatti sto qua. Mi chiedevo se potessimo parlare con qualcuno della direzione.

INFERMIERA Ancora no, non è arrivata.

ROSAMARIA AQUINO Vabbè l'aspettiamo.

INFERMIERA Libera scelta.

INFERMIERA Signora per favore può fare un passo indietro?

ROSAMARIA AQUINO Si.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nelle Rsa liguri dal 20 febbraio al 5 aprile ci sono stati 801 decessi. Il commissario dell'Azienda sanitaria Ligure ha assunto i pieni poteri sulla gestione del Covid, ha creato dei centri dedicati, senza pericolo di commistioni con ospiti già residenti.

ROSAMARIA AQUINO Sulla base di che cosa è stata scelta la Sereni orizzonti di Sestri Ponente?

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA Sulla base di strutture disponibili sul territorio.

ROSAMARIA AQUINO A Savona, sempre una Rsa dello stesso gruppo ha avuto diversi problemi. No? Fino ad adesso accertati dovrebbero essere 17 morti di cui 14 in una settimana.

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA Nelle strutture per anziani io credo che non ci siano ricoverati se non sotto i settant'anni, quindi questo maledetto virus colpisce lì.

ROSAMARIA AQUINO Quanto può aiutare questo maledetto virus il fatto che 16 operatori su 18, si mettono in malattia e non vanno a lavorare?

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA … eh non glielo so dire.

ROSAMARIA AQUINO Una gestione potrebbe prendere altri operatori, no? O chiamare voi e dire siamo in difficoltà.

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA Ma sicuramente, ma sicuramente.

ROSAMARIA AQUINO Questa Sereni Orizzonti è stata investita da un'inchiesta giudiziaria di una portata…

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA E poi abbiamo sospeso l'accreditamento di una struttura.

ROSAMARIA AQUINO Per truffa ai danni del sistema sanitario nazionale. Lei guarda il telefonino, però... poi a questa struttura avete affidato una missione strategica e queste sono persone che avrebbero secondo la procura di Udine truffato per 10 milioni di euro lo Stato cercando di ridurre proprio i costi del personale.

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA Lei ha altre strutture nuove e libere su Genova?

ROSAMARIA AQUINO Io non ce l'ho.

ROSAMARIA AQUINO Anche in questo caso, in Liguria come Lombardia si è scelto in emergenza.

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA Non ho capito cosa voleva farmi dire ma è simpatica lo stesso.

ROSAMARIA AQUINO Grazie, me lo dicono tutti.

WALTER LOCATELLI – COMMISSARIO STRAORDINARIO ALISA No, c'ha anche gli occhi belli, però dopo un po'.... che cosa voleva farmi dire? Boh?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Boh, sarà stato distratto dallo sguardo mediterraneo di Rosamaria. O forse più dal suo telefonino. Fatto sta che una domanda che era semplicissima: “Uccide più il virus o la mancanza di personale è rimasta senza risposta. La storia è questa. La Sereni Orizzonti, nel 2019 rimane invischiata in un’indagine della magistratura. È accusata di truffa e vengono arrestate 8 persone. Tra cui il fondatore del gruppo Massimo Blasoni, ex consigliere in quota Forza Italia per tanti anni della regione Friuli Venezia Giulia. Ecco, lui viene intercettato nella sua sala di Sereni Orizzonti mentre dice “Io sono l'imperatore, perché io sono Dio, quella mente specialissima geniale che ha costruito da zero la più grande azienda di prima generazione nel campo delle residenze di lunga degenza, l'ho fatta crescere, diventare milionaria con la mia fantastica intelligenza” questo diceva Blasoni ai suoi dipendenti. Ora il suo delirio di onnipotenza ha dovuto fare i conti con 3 patteggiamenti uno per bancarotta, evasione fiscale e corruzione aggravata. Ora per l’inchiesta invece in corso per truffa, la Sereni Orizzonti ci scrive che è tranquilla, ha fiducia nell’operato dei magistrati ed è certa che la cosa si concluderà positivamente per lei. Ma la Sereni Orizzonti è solamente la terza delle top player nel campo delle Rsa. Al primo posto c’è la francese Korian, leader europeo nei servizi di assistenza e cura e gestisce 44 case di riposo, 8 centri diurni, 110 appartamenti per anziani. Poi c'è Carlo De Benedetti con il gruppo Kos. Complessivamente leggendo i bilanci di tutte le rsa emerge però una cosa, che sono molto brave a fare incassi milionari, qualcuno ha anche l’aiutino del contributo pubblico delle regioni. Ma sono anche molto brave a risparmiare sui costi. C’è invece quella pubblica. Il Pio Albergo Trivulzio, che è invece di manica larga per quello che riguarda i suoi operatori per i dipendenti. Perché? La questione poi delle inchieste in Lombardia sulle rsa ha scatenato una guerra fra magistrati.

ALESSANDRO AZZONI – PORTAVOCE COMITATO VITTIME DEL TRIVULZIO Dal 25 di marzo mia mamma comincia ad avere la febbre alta. Il giorno di Pasquetta ho la fortuna di prendere la linea con un infermiere che mi riconosce, mi dice che lì dentro il reparto è un inferno, che sono già morte 6 persone che mia mamma è nel letto che non mangia e non beve da una settimana e che la situazione è molto grave. Che ha una saturazione di ossigeno del 90% e che non avrebbe dormito quella notte se non mi avesse detto la verità.

ROSAMARIA AQUINO Posso chiederle che retta paga per sua madre?

ALESSANDRO AZZONI – PORTAVOCE COMITATO VITTIME DEL TRIVULZIO 2600 euro al mese. Sinceramente quando è scoppiata l'epidemia, ho pensato che fosse il posto più sicuro dove potesse essere.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E invece da gennaio ad aprile al Trivulzio sono morte 300 persone. Il 61% in più rispetto all'anno precedente. Gli operatori del Trivulzio e parenti degli anziani hanno denunciato la carenza di mascherine, e addirittura il divieto di indossarle per non spaventare gli ospiti. Hanno denunciato anche che alcuni pazienti sarebbero arrivati dagli altri ospedali per essere smistati nei vari reparti provocando l'epidemia. I responsabili del Trivulzio dopo mesi di silenzio, negano e affermano di aver rispettato le regole. Per la strage al pio Albergo Trivulzio, azienda pubblica i cui organi sono nominati dal Comune di Milano e regione Lombardia, è indagato il direttore generale Giuseppe Calicchio, detto il filosofo, per la sua laurea in filosofia, vicino all'assessore alle politiche sociali regionale Stefano Bolognini a sua volta legato a Matteo Salvini. Le accuse, come del resto per altre decine di rsa sono di epidemia e omicidio colposi. Da una lettura dei bilanci emerge intanto che a fronte di 68 milioni di incassi il Trivulzio ha speso nel 2019 appena 300mila euro in dispositivi di protezione.

FABIO PAVESI – GIORNALISTA Allora uno si chiede come vengono spesi questi quattrini e lì sono rimasto basito perché il vitto costerà due euro al giorno al Trivulzio. Poi sono andato a vedere i costi di assistenza sanitaria, quelli per il quale paga tutto la Regione, ebbene la Regione contribuisce al 50% però in realtà il Trivulzio ha speso sempre nel 2019 solo 4 milioni per l'assistenza sanitaria, su 68 di ricavi. Quindi in realtà quel contributo che diamo noi col denaro pubblico il Trivulzio è molto abile a spendere il meno possibile.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Uno che fa utili milionari è di certo Carlo De Benedetti che con la sua Anni Azzurri del gruppo Kos, ha intuito l'affare già 18 anni fa. Oggi è il primo gruppo italiano, ha 53 residenze per anziani, fattura quasi mezzo miliardo e fa utili per 35 milioni. I morti nelle Rsa li ha avuti pure lui. Per esempio qui a Lambrate, nel Polo geriatrico riabilitativo di via San Faustino, si contano 27 decessi, il 60% in più dell'anno scorso. La Procura indaga.

ROSAMARIA AQUINO Ma che è successo con tutti 'sti morti?

ADDETTO PULIZIA E CUCINA RSA SAN FAUSTINO Penso che è il virus.

ROSAMARIA AQUINO C'erano i dispositivi, le mascherine? Questi li avevate?

ADDETTO PULIZIA E CUCINA RSA SAN FAUSTINO Qua, è una ditta grossa, qua no: abbiamo una marea di tutto.

ROSAMARIA AQUINO Tutti questi morti come mai?

ADDETTO Morti?

ROSAMARIA AQUINO Quelli che ci sono stati.

ADDETTO Noi facciamo nostro lavoro…

ROSAMARIA AQUINO Non vedete niente.

ADDETTO No no.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Con una delibera, l'8 marzo, la Regione Lombardia chiede alle Rsa, dove risiede la popolazione più fragile rispetto al virus, di ospitare pazienti Covid.

EMILIO DIDONÈ – SEGRETARIO GENERALE FNP CISL LOMBARDIA Se un assessore o una Regione dice ai pensionati “State a casa, state a casa, state a casa, che siete a rischio e avevano ragione, la coerenza vuole che cerchi di risparmiare, almeno in quelli ricoverati in Rsa.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Decine le inchieste aperte solo in Lombardia, dove però le perquisizioni non si fermano alle case di riposo, ma arrivano in Regione. Nel Consiglio superiore della magistratura si grida all'attacco politico.

ROSAMARIA AQUINO Lei ha chiesto l'apertura di una pratica a tutela dei suoi colleghi pm di Milano che stanno indagando sulle Rsa, come mai?

GIUSEPPE CASCINI – CONSIGLIERE TOGATO CSM Perché sui giornali abbiamo letto l'intervista di un componente del Consiglio che accusava esplicitamente la Procura di Milano di muoversi per ragioni politiche. È un'accusa estremamente grave che rischia di delegittimare il ruolo della giurisdizione.

ALESSIO LANZI – CONSIGLIERE LAICO CSM Io non ho delegittimato nessuno ho semplicemente esposto lo sconcerto di un utente qualsiasi, di un fruitore delle informazioni che vede un processo alla Regione Lombardia a scapito di altre. Si è enfatizzata l'indagine di Milano, sembrava che solo a Milano le Rsa non fossero state accuratamente gestite.

ROSAMARIA AQUINO Lei ha sostenuto che ci sia un attacco strumentale al Modello politico di centrodestra della Regione Lombardia alimentato però da un'inchiesta giudiziaria spettacolarizzata, non tanto da noi che la spettacolarizziamo

ALESSIO LANZI – CONSIGLIERE LAICO CSM No, cioè lo spunto è quello grazie all'inchiesta giudiziaria che viene fatta se vogliamo ecco forza senza calmierare l'opportunità di un certo modus procedendi, però poi la strumentalizzazione certo non la fa la procura di Milano.

GIUSEPPE CASCINI – CONSIGLIERE TOGATO CSM Se si vuole che queste indagini vengano fatte senza spettacolarizzazione e quindi senza l’interesse della stampa, in realtà si sta dicendo che non si vuole si facciano.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma perché una Rsa accetta di accollarsi l'onere di pazienti covid che vanno assistiti con percorsi, strutture e personale dedicati?

ROSAMARIA AQUINO Se prima del Covid rimborsare un posto letto costava 42 euro alla Regione, quanto oggi viene invece destinato oggi alle Rsa che acquisiscono pazienti Covid?

EMILIO DIDONÈ – SEGRETARIO GENERALE FNP CISL LOMBARDIA Hanno individuato una cifra massima di 150 euro. Siamo più tre volte quello che la Regione dava stabilmente. Se ha il blocco di ospiti nuovi che non possono entrare, qualche conto qualcuno lo avrà fatto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dopo la delibera, lo stesso assessore Gallera farà marcia indietro. Ammette che forse non era la soluzione giusta. Con già 1100 morti nelle Rsa della bergamasca, la Fondazione Honegger apre il reparto Covid l'8 aprile. Anche lei conta i suoi morti: 48. Un quarto degli anziani che ospita.

INFERMIERA RSA HONEGGER Stamattina la direzione no... non c'è.

ROSAMARIA AQUINO Allora mi può fornire un numero al quale posso rivolgere delle domande sul centro covid che avete appena istituto? INFERMIERA RSA HONEGGER Attenda lì attenda un attimo.

ROSAMARIA AQUINO Grazie.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Passano le ore, ma del direttore sanitario nessuna notizia.

EMILIO DIDONÈ – SEGRETARIO GENERALE FNP CISL LOMBARDIA Il 22% dei letti in Lombardia è in mano a società profit, società Korian, Anni Azzurri, Segesta, che lo fanno per business e invece il 70% è in mano alle fondazioni no profit.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ce n’è una a Varese, il cui manager era stato indicato dall’allora sindaco Attilio Fontana diventato poi governatore in quota Lega solo che poi non si sa bene come ha finito con il finanziare una campagna elettorale del sindaco del Pd. E questo ha fatto infuriare la lega che ha messo in campo i suoi uomini pesanti oltre che Fontana, Maroni e Giorgetti.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A Varese c'è una Fondazione che è una città nella città: 400 ospiti, 500 addetti. Quest'anno ha contato pure lei i suoi morti, da febbraio sono 104 di cui 15 accertati di coronavirus, e la Guardia di finanza ha acquisito le cartelle cliniche. Ma la sua storia di piccolo istituto finanziario parte da lontano, dalle elezioni comunali del 2016, o forse anche da prima.

MARCO GIOVANNELLI – DIRETTORE VARESE NEWS L'allora sindaco Fontana nomina Christian Campiotti presidente del Molina. Sennonché succede che ci sono le elezioni a Varese, per la prima volta nella storia la Lega perde la città capoluogo. Insomma teniamo presente l'espressione della Lega varesina è Maroni, è Giorgetti è Fontana.

ROSAMARIA AQUINO Sono tutti di qua.

MARCO GIOVANNELLI – DIRETTORE VARESE NEWS Sono tutti di qua. E quando il centrosinistra di fatto vince le elezioni è chiaro che è una novità pressoché assoluta e in quel momento qualcuno si toglie dei sassolini dalle scarpe.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Chi si toglie i sassolini dalle scarpe è Attilio Fontana, sindaco di Varese per un decennio, dal 2006 al 2016. Campiotti, il suo uomo al Molina, aveva concesso un prestito obbligazionario del valore di 500mila euro a Lorenzo Airoldi, proprietario di una tv locale, Rete55, ma soprattutto regista di una campagna elettorale contro la Lega, che aveva portato poi al successo del PD. Sulla legittimità di quel prestito concesso dalla Fondazione Molina, Fontana chiede la consulenza di Armando Siri. È vero, scrive, che il Molina è una fondazione di diritto privato ma è vero pure che prende cospicui finanziamenti dalla Regione e i membri del CDA vengono nominati dal sindaco. Fatto sta che poco dopo sul Molina scatterà il commissariamento per mano di Roberto Maroni.

MARCO GIOVANNELLI – DIRETTORE VARESE NEWS Io credo che se avesse vinto il centrodestra è molto probabile che questa cosa non sarebbe mai uscita.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il grande regista politico Lorenzo Airoldi, rinviato a giudizio insieme a Campiotti per la vicenda del prestito, nella sua televisione Rete 55 non c'è. L'uomo che è riuscito a farsi prestare 500.000 euro da una Rsa, però, ci chiama poco dopo.

AL TELEFONO LORENZO AIROLDI – AMMINISTRATORE UNICO RETE 55 LORENZO AIROLDI – AMMINISTRATORE UNICO RETE 55 Noi abbiamo subito un attacco che è una cosa, non so ancora come facciamo a essere in piedi. Tenga conto questi erano potenti, non è che erano due che camminavano, era la Lega.

ROSAMARIA AQUINO Non è che una Rsa si può comportare come una banca voglio dire....

LORENZO AIROLDI – AMMINISTRATORE UNICO RETE 55 L'Rsa può farlo, l'Rsa è un ente privato, può farlo.

ROSAMARIA AQUINO FUORICAMPO Sembra paradossale ma ha ragione, lo conferma anche chi gli ha prestato i soldi, l’allora manager della Fondazione Molina, l’uomo che ha fatto infuriare la Lega Varesina.

AL TELEFONO CHRISTIAN CAMPIOTTI – PRESIDENTE FONDAZIONE MOLINA 2015 - 2018 Nello statuto c'è che è presente questo tema che è possibile fare operazioni finanziarie per mantenere e incrementare il patrimonio. Cosa che i miei predecessori fecero per tipo 23 milioni di euro.

PIERO ROMANO – AVVOCATO CHRISTIAN CAMPIOTTI Dal 2005 fino alla nomina del dottor Campiotti, quindi in 10 anni, sono stati fatti investimenti su titoli non quotati e soprattutto su titoli tossici. Uno dei titoli tossici è la JP Morgan e sono stati fatti nel corso degli anni circa 5 milioni di euro di investimenti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche il Molina ha avuto i suoi morti per il Coronavirus. Ufficialmente 15 ma a fronte di 104 decessi avvenuti tra febbraio e aprile. L’anno scorso erano stati 77. Molti di meno, forse qualcuno è scappato da questa analisi, è scappato dall’essere collegato al virus, su questo la Guardia di finanza sta indagando, ha acquisito le cartelle cliniche. Poi alla guida della struttura oggi c'è un medico, il dott. Guido Bonoldi, e la Fondazione, che sta già rientrando da quel prestito obbligazionario, da cui era scappata la campagna di finanziamento per il Pd, e comunque si è costituita parte civile nel processo. In merito agli investimenti sui titoli a rischio l’ex manager della Molina Andrea Segrini ci scrive che erano a basso rischio invece, e che la decisione di investire era stata una decisione presa collegialmente e sotto la guida di esperti. La Fondazione Honegger invece, in Val Seriana, ci scrive che la scelta di aprire il reparto Covid anche questa è avvenuta sotto la guida di esperti e che era stata presa per dare una mano al territorio, alla sanità lombarda. Invece forse una mano alla sanità, quella della Regione Lazio volevano darla alcune Rsa, però forse l’hanno fatto all’insaputa dell’assessore alla Sanità.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A Roma l'emergenza Covid è stata contenuta, solo le Rsa ne hanno davvero risentito. L'ultima è a Rocca di Papa, 138 contagiati e un'indagine su 30 morti sospette. La proprietà è del gruppo San Raffaele che fa capo alla famiglia Angelucci, editori di Libero e il Tempo. La Regione ha avviato l'iter di revoca dell'accreditamento. Ma il primo bubbone era scoppiato a Nerola, poi diventata zona rossa, da lì 49 anziani della casa di riposo Maria Immacolata sono stati trasferiti in piena notte a Fonte Nuova, al Nomentana Hospital, che però aveva già i suoi di contagiati. Alcuni cittadini chiedono spiegazione al sindaco.

ROSAMARIA AQUINO Quindi con quest'ingresso dei pazienti positivi provenienti da Nerola i contagi schizzano nella Rsa?

DONATELLA IBBA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE CITTADINI PER FONTE NUOVA È NOSTRA Oltre al focolaio iniziale dei 22 nostri tra virgolette, si sono aggiunti quelli di Nerola. A Nerola che sono andati via hanno fatto la zona rossa noi che alla fine della fiera c'abbiamo 120 positivi più 33 operatori, rimane tutto così?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I contagiati saranno alla fine 129. La struttura, stremata, il 31 marzo scrive un appello alla Regione: spostate immediatamente tutti i pazienti positivi, visto che non ci avete aiutato come promesso. E così gli anziani appena arrivati, vengono trasferiti un'altra volta...

MEDICO Dovete uscire dal cancello signori.

ROSAMARIA AQUINO Perché? MEDICO Perché questa è una struttura privata.

ROSAMARIA AQUINO Posso chiederle come mai non siete un centro covid però vi hanno portato dei pazienti covid?

MEDICO Perché questa è una cosa che dovete chiedere alla direzione, noi ci occupiamo soltanto della parte di gestione dei pazienti, quindi voi dovete uscire in questo momento.

ROSAMARIA AQUINO Ci può soltanto dire perché poi li avete mandati via? Perché li avete fatti ritrasferire?

MEDICO Si accomodi fuori.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La struttura chiama i vigili per mandarci via.... Ma perché ha accettato 49 ospiti, persone anziane, fragili e positive, per poi chiedere alla Regione di trasferirli di nuovo? E poi perché la Regione ha scelto una casa di cura dove c’è un Rsa? A pochi giorni da questo tour forzato di degenti da una struttura all'altra, scoppia la polemica tra Zingaretti e Fontana. Il presidente della Lombardia afferma: “Anche Roma ha adottato la nostra stessa delibera, però nessuno ne parla!”. Zingaretti nega... “Nessuna richiesta alle Rsa di ospitare pazienti covid”. Noi però, oltre al Nomentana hospital, ne abbiamo trovato un'altra....

ALESSIA PAPANTUONO - NIPOTE OSPITE DI VILLA AURORA Perché non siamo stati avvisati noi parenti: guardate da tot giorno insieme alla Regione o alla Asl, faremo un reparto Covid?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Regione Lazio chiedeva la disponibilità delle Case di riposo ad ospitare pazienti affetti dal virus. E Villa Aurora ha detto sì, dedicando loro un intero piano, senza però avvisare i parenti.

ALESSIA PAPANTUONO - NIPOTE OSPITE DI VILLA AURORA Perché è stato scelto di mettere dei malati Covid in una Rsa dove ci sono persone già con tante patologie, che tutti i virologi dicono che devono essere protette.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I parenti scrivono e Villa Aurora risponde: le aree sono distinte, il personale pure, i percorsi sono divisi, a tutti viene misurata la febbre. Ma del perché non avvisarli prima, su quello nessuna risposta. E gli operatori?

OPERATRICE Eh un po' di ansia c'è però... dobbiamo lavorare.

ROSAMARIA AQUINO Ma a voi della Rsa ve l'avevano detto che ci sarebbe stata la possibilità di questo reparto Covid?

OPERATRICE No, a me l'hanno detto a sorpresa, l'ho scoperto lo stesso giorno...

MEMBRO DIREZIONE VILLA AURORA Allora il capo è in videoconference call...

ROSAMARIA AQUINO Ma state tutti in videoconferenza, ma come dobbiamo fare? Allora il reparto covid no, che evidentemente è in questo plesso, credo, questo plesso qua. Molti parenti so che sono arrivati a sapere di questa cosa tramite una chat.

MEMBRO DIREZIONE VILLA AURORA Non abbiamo nulla da nascondere.

ROSAMARIA AQUINO Gli oss, delle Rsa non lo sapevano. Dicono che è stata una sorpresa per loro.

MEMBRO DIREZIONE VILLA AURORA Lei calcoli che noi abbiamo aperto il reparto in 72 ore.

ROSAMARIA AQUINO Mi hanno dato questa lettera qua, vostra del 30 marzo...

MEMBRO DIREZIONE VILLA AURORA Ma chi cazzarola ve le ha date ste cose?

ROSAMARIA AQUINO Vede poi c'è quest'altra, poi loro vi riscrivono, poi c'è quest'altra ancora...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La preoccupazione dei parenti è ancora alta, ma forse ecco qualcuno che può darci risposte.

ALESSIO D’AMATO – ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO Assessore D’Amato?

ROSAMARIA AQUINO Come mai avete messo i pazienti Covid al Nomentana Hospital? E a Villa Aurora, avevate detto a Fontana che invece voi non avreste fatto commistione tra i pazienti…

ALESSIO D’AMATO – ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO E infatti non l’abbiamo fatta.

ROSAMARIA AQUINO Eh come no al Nomentana? Ci dice per favore perché avete messo questi anziani…

ALESSIO D’AMATO – ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO Non li abbiamo messi ha delle informazioni sbagliate

ROSAMARIA AQUINO Come no, me lo ha detto la stessa struttura, pensi che a Villa Aurora non l’hanno detto neanche ai parenti!

ALESSIO D’AMATO – ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO Le hanno dato delle informazioni sbagliate ROSAMARIA AQUINO Ha capito? Non glielo hanno detto ai parenti! Io la seguo!

ALESSIO D’AMATO – ASSESSORE ALLA SANITÀ REGIONE LAZIO Va bene la saluto!

ROSAMARIA AQUINO Con la mascherina non è facile, assessore!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però che scatto da centometrista la nostra Rosamaria. Ecco insomma se l’assessore D’Amato guida la sanità regionale come guida l’auto, siamo in una botte di ferro. Non dice la verità sul fatto delle residenze Nomentana Hospital e su Villa Aurora. Abbiamo visto il documento della regione dove si chiede di dare una mano nell’accogliere anziani malati Covid e abbiamo visto che le rsa poi lo hanno anche fatto. A meno che quel documento non si stato scritto a sua insaputa lo proverebbe A meno che non l’abbiano scritto a sua insaputa. Mentre in vece in Calabria c’è un Rsa che raggiunge il record di contagiati. Ben 78. La proprietà farebbe riferimento ad un politico, un ex consigliere regionale che ha contributo in modo determinante alla vittoria del governatore Jole Santelli. Tuttavia le ordinanze della sua Regione sui tamponi non le rispetterebbe. Ed emerge anche un audio imbarazzante registrato lungo il percorso di un’autoambulanza che trasportava un paziente che poi è deceduto.

LUCIO FRANCO RAIMONDO – SINDACO DI TORANO CASTELLO (CS) Qui l'avete visto, siete venuti poco fa... con una cosa stranissima Villa Torano... la zona è libera e salire in paese non si può.

ROSAMARIA AQUINO Quindi il luogo del focolaio è fuori dalla zona rossa.

LUCIO FRANCO RAIMONDO – SINDACO DI TORANO CASTELLO (CS) Sì è libero sostanzialmente perché è presidiato dalle unità mobili, invece qui il paese è blindato

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Torano Castello, alle porte di Cosenza. Il risveglio all’alba di Pasquetta è brutto. Si contano oltre settanta contagiati, che tra parenti e connessi diventeranno 100. Il link è Villa Torano. Quasi tutti asintomatici. Un'ordinanza della Regione del 27 marzo imponeva a tutte le strutture di fare preventivamente i tamponi, pena la revoca dell'autorizzazione. Villa Torano non li fa.

LUCIO FRANCO RAIMONDO – SINDACO DI TORANO CASTELLO (CS) Il problema poi è capire perché non si hanno i tamponi per tempo, per fare le cose ordinate dalla presidente della Regione Calabria, e poi si fanno, escono improvvisamente la sera di Pasquetta sarebbero usciti questi 200 tamponi presi, poi abbiamo appreso, alla Protezione civile a Catanzaro dallo stesso proprietario della struttura.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma chi è così potente da andare in Regione e fare la spesa di tamponi?

ANTONELLO FABIANO – AVVOCATO CODACONS Le strutture di Poggi e Parente sono 12 in tutta la regione. Parente in realtà non esiste sulla carta, ma non esiste perché nel momento in cui è sceso in politica ha dovuto lasciare le quote, ma le ha cedute alla moglie. Quindi diciamo che la situazione è anche migliorata perché si ha un uomo nella stanza dei bottoni, una stanza dei bottoni fondamentale, che è la Regione Calabria.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Claudio Parente. Consigliere regionale di centrodestra per due legislature, ha coordinato nella scorsa campagna elettorale la lista della Casa della libertà.

ROSAMARIA AQUINO Quanto apporto elettorale Claudio Parente ha portato alla sua elezione?

JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Mah un buon apporto soprattutto in provincia di Catanzaro. ROSAMARIA AQUINO Una persona che diciamo ha contribuito alla sua elezione, potrebbe chiedere su una vicenda, per esempio, un favore o un silenzio?

JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA No, a me no. Io non sapevo neanche che fosse proprietario di Villa Torano.

ROSAMARIA AQUINO La presidente sapeva che lei era riconducibile a Villa Torano?

CLAUDIO PARENTE – COORDINATORE LISTA CASA DELLA LIBERTÀ Il fatto che questo è un gruppo che io abbia creato lo sanno un po’ tutti in Calabria, chi sta in sanità, e chi sta in politica, quindi…

ROSAMARIA AQUINO FUORICAMPO Ma oltre alla moglie di Parente, proprietario di Villa Torano è un altro socio, Massimo Poggi, catanzarese.

ANTONELLO FABIANO – AVVOCATO CODACONS Nella notte Poggi può recarsi in Protezione civile e andare quasi come se fosse un supermercato

ROSAMARIA AQUINO Tutto questo è stato autorizzato.

ANTONELLO FABIANO – AVVOCATO CODACONS E tutto questo è stato autorizzato da Belcastro.

ROSAMARIA AQUINO FUORICAMPO Dunque Poggi, il socio della moglie dell’ex consigliere regionale, è andato a prendersi i tamponi autorizzato dal dirigente del dipartimento della salute e se li è portati nella rsa.

ROSAMARIA AQUINO Io sto dicendo che una persona è venuta qui, ha fatto finta che questo fosse il suo supermarket, ha preso quello che voleva ed è andata via, e sa come mi risponde? Mi hanno autorizzato.

JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Dirà chi l'ha autorizzato, non l'ho autorizzato io. Se l’accusa è che Belcastro abbia fatto dei favoritismi, o abbia fatto degli abusi allora è un’accusa che andrà verificata. Io ho trovato il dottor Belcastro qui, non l'ho nominato io.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Antonio Belcastro, che rivendica con orgoglio di aver aiutato Villa Torano in emergenza, è stato fino a pochi giorni fa dirigente del dipartimento salute della Regione. Poi l’incarico non è stato rinnovato. I suoi rapporti con Parente sono venticinquennali, ma su questa vicinanza le carte parlano chiaro dal 2011.

ANTONELLO FABIANO – AVVOCATO CODACONS In questa determina si legge che Belcastro Donato, fratello minore di Antonio Belcastro, già dipendente della Regione Calabria, viene ad essere inglobato nella struttura politica dell'onorevole Parente.

ROSAMARIA AQUINO Il coordinatore delle liste Casa della libertà, 12 strutture, una struttura che al contrario di come è stato fatto con altre, rimane in vita nonostante sia considerata una bomba epidemiologica, i rapporti con Belcastro.

CLAUDIO PARENTE – COORDINATORE LISTA CASA DELLA LIBERTÀ Non c’è un solo atto che possono dire che io abbia potuto influenzare. Qualcuno si dovrà pure fare una ragione che si può fare politica e imprenditoria in modo corretto.

ROSAMARIA AQUINO Secondo lei è una procedura normale che qualsiasi Rsa della Calabria avrebbe potuto fare o hanno contato le amicizie che sono documentate tra una parte della proprietà e una parte sia della dirigenza regionale che addirittura della presidenza regionale?

GIANMARIO POGGI – DIRETTORE AMMINISTRATIVO VILLA TORANO Mah guardi... la caccia alle streghe è terminata quando abbiamo smesso di credere alle streghe. Ci conosciamo tutti tra di noi. E ci sono rapporti chi con un consigliere, chi con un altro, chi con un presidente, chi con un altro.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Un amico in regione non si nega a nessuno. Tamponi a parte, è pacifico ormai che i contagi a villa Torano erano iniziati prima di Pasqua. Alcuni dimessi e alcuni dipendenti in malattia sono poi risultati positivi al Covid. Nessuno si era accorto di nulla? Lo chiediamo ai dipendenti messi in quarantena in un hotel.

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE No... in questo momento non ricordo. Però se è capitato qualche decesso non per certo era di coronavirus.

ROSAMARIA AQUINO Ricorda che c'è stata una morte il 3 marzo?

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE E in questo momento precisamente non lo ricordo...

ROSAMARIA AQUINO Ricorda che c'è stata una morte il giorno dopo, il 4 marzo?

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE No.

ROSAMARIA AQUINO Ricorda che c'è stata una morte l'11 marzo?

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE No.

ROSAMARIA AQUINO Una successiva morte il 13 marzo?

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE No.

ROSAMARIA AQUINO E l'ultima il 28 marzo, sono cinque persone.

NANCY CARNEVALE – OPERATRICE Può capitare... parliamo di persone.... nonnine dai.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Di questi morti, dice la struttura, solo uno aveva sintomi sospetti e il tampone, fatto poi anche a un altro decesso del 1° aprile, è risultato negativo. Ma c'è questa conversazione, avvenuta il 21 marzo, tra un medico del 118 e quello di turno nella rsa Villa Torano che getta un'ombra su questa ricostruzione. MEDICO 118 Con chi parlo sono il medico del 118.

MEDICO STRUTTURA Sono il medico di turno di Villa Torano. MEDICO 118 Allora, siccome il paziente aveva 38 e 6 di febbre ed è deceduto appena siamo partiti.

MEDICO STRUTTURA Sì MEDICO 118 Dovete chiamare la Direzione sanitaria e pretendere che vi facciano il tampone, perché sennò, se fosse positivo, tutta la struttura va attenzionata.

MEDICO STRUTTURA Ok sì. Devo riferire alla direzione sanitaria…

MEDICO 118 Di chiamare la direzione sanitaria di Cosenza.

MEDICO STRUTTURA Si MEDICO 118 E pretendere che vi facciano il tampone al paziente che è appena deceduto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma hanno avvisato la direzione sanitaria per fare il tampone? Quello che è accaduto nelle ore successive ce lo racconta la moglie della vittima.

MIRELLA BELMONTE Chiamo al pronto soccorso mi risponde una dottoressa. Dico scusate io sono la moglie di Ragusa, non so se è arrivato, deve arrivare da villa Torano. “Signora purtroppo mi dispiace dare per telefono queste notizie, ma suo marito è deceduto nell'ambulanza, ha avuto un arresto cardiaco”.

ROSAMARIA AQUINO Lei ha potuto vedere...

MIRELLA BELMONTE No io non ho visto niente, quando sono passati qua l’ho fatti fermare un pochino nel viale giusto per l’ultimo saluto a casa sua voglio dire, hanno detto signò non toccate la bara. Io mi stavo avvicinando per fare così e mi hanno no no non toccate.

ROSAMARIA AQUINO Chi gliel'ha detto di non toccarla?

MIRELLA BELMONTE Quelli delle pompe funebri.

ROSAMARIA AQUINO L'ultima volta che lei ha sentito la struttura, la struttura le dice suo marito sta male, suo marito è stato intubato? MIRELLA BELMONTE Sì sì, era intubato.

ROSAMARIA AQUINO E lei fa la domanda precisa.

MIRELLA BELMONTE Sì sì, ho detto: ma non è che ha il coronavirus? Proprio questo ho chiesto, la prima cosa che ho chiesto. No no, signora non ce ne sono casi. Ho detto: ma il tampone almeno l'avete fatto? No non ne facciamo qua. Secondo me è il primo caso mio marito, e hanno voluto chiuderla lì. Per non allarmare.

ROSAMARIA AQUINO Dalle notizie che noi abbiamo il 118 nel trasportare questo paziente....

GIANMARIO POGGI – DIRETTORE AMMINISTRATIVO VILLA TORANO È morto durante il trasporto.

ROSAMARIA AQUINO E su questo ci siamo. La dottoressa dice siccome ha la febbre, 38 e non so quanto e siccome ha dei sintomi respiratori che voi stessi avete gestito qui con l'ossigeno, dice attenzione perché essendo un sospetto covid, voi struttura rischiate la bomba sanitaria.

GIANMARIO POGGI – DIRETTORE AMMINISTRATIVO VILLA TORANO Io non ne so niente, questo lo posso dire con franchezza.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Sarebbe grave se così fosse perché è stata messa a rischio tutta la struttura. Ma la regione la sua ordinanza dove imponeva lo screening delle rsa, l’ha fatta rispettare?

ROSAMARIA AQUINO Perché ha taciuto fino ad adesso sulla vicenda di villa Torano?

JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Molto è stato affidato all’Asp, quindi mi è sembrata anche un momento di rispetto per il lavoro altrui rimanere in silenzio, non parlarne. D’altronde poi nessuno mi ha chiesto niente quindi non ho risposto.

ROSAMARIA AQUINO Allora io non ho capito, chi è che decide…chi è la massima autorità sulla sanità in Regione. A chi è che il Consiglio dei ministri ha dato questo potere, chi è?

JOLE SANTELLI – PRESIDENTE REGIONE CALABRIA Non devo difendere niente e nessuno. Se io ho il commissario dell’Asp che mi dice che quella clinica, quella Rsa è in condizioni ottimali per ospitare le persone per tenerle chiuse. Abbia pazienza, ma su quali basi io devo assumere la decisione di revocare?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Forse potrebbe prendere una decisione dopo aver fatto indagini su quell’audio, quello registrato nel percorso di un’autoambulanza del 118 dove si consigliava dopo la morte del paziente di farli un tampone per evitare la diffusione di un contagio all’interno della rsa. Poi Parente ci ha anche scritto che a distanza di un mese tutti i contagiati risultano negativi. Insomma, intanto la procura di Cosenza ha aperto un’indagine sui manager di Villa Torano, l’accusa è epidemia e omicidio colposi.

 “Le Rsa sono prigioni dorate, qui la mia dignità è stata uccisa”. Il Dubbio il 22 aprile 2020. La lettera postuma di un nonno ed ex avvocato scritta ai nipoti prima di morire a causa del coronavirus è un addio e una denuncia al sistema. La lettera è stata pubblicata dal quotidiano digitale In Terris e sono le parole postume di un nonno ucciso a 85 anni dal coronavirus. Le sue parole di commiato ai nipoti e ai figli sono piene di affetto, l’uomo ripercorre la sua vita dall’infanzia a quando è diventato avvocato, ma sono anche una riflessione cruda sulle Rsa e su come può essere trascorrere gli ultimi giorni in una struttura che non è casa.

La lettera. Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi cari miei figli e nipoti. (L’ho consegnata di nascosto a Suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla). Comprendo di non avere più tanti giorni, dal mio respiro sento che mi resta solo questa esile mano a stringere una penna ricevuta per grazia da una giovane donna che ha la tua età Elisa mia cara. E’ l’unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po’ di luce dai suoi occhi; uno sguardo diverso da quello delle altre assistenti che neanche ti salutano. Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi dentro questa bella “prigione”. Si, così l’ho pensata ricordando un testo scritto da quel prete romagnolo, don Oreste Benzi che parlava di questi posti come di “prigioni dorate”. Allora mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto. Sembra infatti che non manchi niente ma non è così…manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno “come stai nonno?”, gli abbracci e i tanti baci, le urla della mamma che fate dannare e poi quel mio finto dolore per spostare l’attenzione e far dimenticare tutto. In questi mesi mi è mancato l’odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme. In 85 anni ne ho viste così tante e come dimenticare la miseria dell’infanzia, le lotte di mio padre per farsi valere, mamma sempre attenta ad ogni respiro e poi il fascino di quella scuola che era come un sogno poterci andare, una gioia, un onore. La maestra era una seconda mamma e conquistare un bel voto era festa per tutta la casa. E poi, il giorno della laurea e della mia prima arringa in tribunale. Quanti “grazie” dovrei dire, un’infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato. Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano come dice la Bibbia e che dire, anche il parroco, lo devo ringraziare per avermi dato l’assoluzione dei miei peccati e per le belle parole espresse al funerale di mia moglie. Ora non ce la faccio più a scrivere e quindi devo almeno dire una cosa ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo. Non è stata vostra madre a portarmi qui ma sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno. Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, forse sarà stato anche per orgoglio e quando ho visto di non essere più autonomo non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione. Certo, non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera. In questi mesi mi sono anche chiesto più volte: ma quelli perché hanno scelto questo lavoro se poi sono sempre nervosi, scorbutici, cattivi? Una volta quell’uomo delle pulizie mi disse all’orecchio: “sai perché quella quando parla ti urla? Perché racconta sempre di quanto era violento suo padre, una così con quali occhi può guardare un uomo?”. Che Dio abbia pietà di lei. Ma allora perché fa questo lavoro? Tutta questa grande psicologia, che ho visto tanto esaltare in questi ultimi decenni, è servita solo a fare del male ai più deboli? A manipolare le coscienze e i tribunali? Non voglio aggiungere altro perché non cerco vendetta. Ma vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le rsa, le “prigioni” dorate e quindi, si, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all’ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito e quindi anche pericoloso. Questo coronavirus ci porterà al patibolo ma io già mi ci sentivo dalle grida e modi sgarbati che ormai dovrò sopportare ancora per poco…l’altro giorno l’infermiera mi ha già preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no. La mia dignità di uomo, di persona perbene e sempre gentile ed educata è stata già uccisa.

Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio. Ma non fate nulla vi prego…non cerco la giustizia terrena, spesso anche questa è stata così deludente e infelice. Fate sapere però ai miei nipoti (e ai tanti figli e nipoti) che prima del coronavirus c’è un’altra cosa ancora più grave che uccide: l’assenza del più minimo rispetto per l’altro, l’incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare dal cielo a quelle coscienze che ci hanno gravemente offeso affinchè si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi.

Mattia Feltri per la Stampa. Dunque? Far finta di niente? Migliaia di morti nelle case di riposo e girarsi dall' altra parte? Così reagisce un buon numero di lettori alla rubrica di ieri, nella quale disapprovavo la profusione d' inchieste in tutta Italia, e l' appoggio entusiastico di alcuni partiti e giornali. La risposta è no. Non ci si gira dall' altra parte. Si cerca di capire la ragione del disastro e la magistratura indaga, se ha notizie di reato. Ma non se ne fa la solita corrida. La Francia ha diciottomila morti, il quaranta per cento nelle case di riposo, ma non ho letto su "Le Monde" o sul "Figaro" di quattrocento inchieste avviate da quattrocento procure e, se ne hanno avviate quattro, se n' è data notizia in un trafiletto. In Spagna secondo le stime gli anziani morti in ricovero sono almeno diecimila, la metà a Madrid, ma non ho letto sul "País" reportage su sequestri di documenti e sulle risultanze di colpevolezza appurate un quarto d' ora dopo. La nostra capacità di emettere sentenze in pagina nel tempo dell' istante a me fa orrore. Vederle emesse da gente di governo che dovrebbe starsene bella zitta, col casino che c' è e che, come tutti, ha contribuito ad alimentare, mi fa orrore e mi fa pena. Vedere i microfoni tesi fra le labbra dei parenti delle vittime mi disgusta, perché i parenti delle vittime hanno il diritto di essere fuori di sé, ma la Giustizia (perdonate la maiuscola) ha il dovere di non esserlo mai. Che qualcuno abbia voglia di raccattare consenso con la caccia alla volpe sul dolore e sulla rabbia e sulla sete di vendetta nel mezzo della grande tragedia collettiva, mi conferma che il virus non ci migliora né ci peggiora: esalta quello che siamo.

Luca Fazzo per il Giornale il 19 aprile 2020. Dentro il dramma delle Rsa, nelle angosce degli anziani confinati in microcosmi divenuti focolai di virus, c' è a pieno titolo il business di uno dei più noti gruppi imprenditoriali italiani. E' la Cir, la holding attraverso la quale Carlo De Benedetti è stato per lunghi anni editore di Repubblica, fino a quando i suoi figli, preso il timone dell' azienda di famiglia, hanno venduto il giornale agli Agnelli. Così la Cir si è potuta concentrare su affari magari meno politicamente vistosi, ma sicuramente più redditizi. Ovvero le case di riposo private. Un affare tranquillo, fino a tre mesi fa. Ora la gestione delle Rsa per la famiglia De Benedetti sta diventando una grana colossale. Perché anche nelle sue strutture, come in tutte quelle pubbliche e private, gli anziani si ammalano e muoiono in continuazione. E anche di una delle residenze di proprietà dei De Benedetti si sta occupando la Procura della Repubblica di Milano, con uno dei fascicoli di indagine aperti con minor clamore accanto alle indagini finite sulle prime pagine dei giornali, come quella sul Pio Albergo Trivulzio. La casa di riposo finita nel mirino del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano è la «Anni Azzurri» di via a San Faustino a Milano, zona Lambrate. Secondo quanto riferito da il Giorno, nell' ultimo periodo sono morti ventitrè ospiti della casa, e di questi 14 erano sicuramente affetti da coronavirus, mentre per gli altri non è stato possibile effettuare il tampone. E i decessi sono solo la parte più tragica del focolaio che si è sviluppato all' interno della residenza, dove ben 44 anziani sarebbero in questo momento positivi ai test. Di questi, quarantadue sono in isolamento nelle loro stanze mentre due hanno dovuto essere ricoverati in ospedale. É un bollettino pesante. E nel conto che i manager dei De Benedetti stano stilando giorno per giorno non c' è solo la situazione di via San Faustino. Quello delle Rsa e delle strutture sanitarie sotto il controllo della Cir infatti è un vasto e ramificato impero, con propaggini sia in Gran Bretagna che in Germania. Il braccio operativo della Cir su questo versante è la Kos, che opera con due marchi. Uno è il gruppo «Anni Azzurri» che gestisce le Rsa propriamente dette: in Italia controlla 55 strutture sparse in otto regioni; l' altro è il Santo Stefano, che coordina le strutture a carattere ospedaliero. Ebbene, anche le case «Anni Azzurri» sono state investite in pieno. Secondo i dati forniti ieri dalla stessa Kos, nel febbraio scorso, al momento esplosivo della pandemia, il totale degli ospiti si aggirava intorno ai cinquemila. A tutt' oggi, risultano avere contratto il virus 305 di essi: una percentuale complessiva non particolarmente alta, soprattutto considerando che una parte delle case si trovano in zone come la Lombardia o il Veneto fortemente colpite dal virus. A impressionare è però il tasso di mortalità: a ieri, in tutta Italia, nelle residenze «Anni Azzurri» erano morti 67 dei 350 anziani che avevano contratto il virus. A venire sopraffatto è stato quasi il venti per cento dei contagiati. E sono tutte vittime di focolai sprigionatisi direttamente all' interno delle residenze. Nessun malato è arrivato da fuori. Il gruppo dei De Benedetti infatti non ha accolto la sollecitazione della Lombardia e di altre regioni a ospitare nelle sue Rsa pazienti positivi al Covid provenienti da strutture ospedaliere. Diversa la situazione nel ramo ospedaliero del gruppo (a marchio Santo Stefano) dove due intere strutture nelle Marche sono divenuti ospedali Covid-19. Sono la Villa dei Pini di Civitanova e la Villa Fastiggi di Pesaro, che era stata completata ma mai aperta ed è ora entrata in funzione per fronteggiare l' epidemia.

Rsa sotto inchiesta in tutta Italia, numerosi sopralluoghi da Catanzaro a Pescara passando da Cagliari alla Sicilia. Il Quotidiano del Sud il 29 aprile 2020.  I numerosi decessi che si continuano a registrare in tutta Italia nelle Rsa ha spinto numerose procure ad aprire inchieste ma al tempo stesso ha fatto sorgere la necessità di verificare, oltre ai casi noti, anche la situazione delle numerose case di riposo sparse sul territorio nazionale è passata all’attenzione degli inquirenti e così è scattata una serie di controlli. Da Catanzaro a Pescara a Cagliari, i carabinieri del Nas (Nucleo antisofisticazioni e Sanità) hanno effettuato sopralluoghi in numerose strutture riscontrando irregolarità e, in vari casi, «gravi non conformità» relative alle misure necessarie per la prevenzione del COVID-19. Tra le ispezioni, si rende noto sul sito del ministero della Salute, il Nas di Catanzaro ha eseguito un sopralluogo presso una casa di riposo nella Provincia di Vibo Valentia, «rilevando gravi non conformità relative alle misure necessarie per la prevenzione del COVID-19. Sanzionato il rappresentante legale e imposte diverse prescrizioni per eliminare le criticità». Il Nas di Catania, invece, in un’attività di verifica presso una casa di riposo del messinese ha scoperto che la stessa, «già oggetto di una precedente ordinanza di sospensione con trasferimento degli ospiti in altre strutture, aveva disatteso i provvedimenti imposti. Inoltre i militari hanno accertato che la struttura non si era adeguata alle misure preventive del potenziale rischio di diffusione del COVID-19». Anche in questo caso i responsabili sono stati deferiti all’Autorità giudiziaria ed è stata informata anche l’Autorità Sanitaria. Il Nas di Palermo, nella Provincia di Trapani, ha accertato che «una comunità alloggio per anziani era priva di idonei requisiti igienico-strutturali. Il sindaco ha immediatamente emesso il provvedimento di chiusura e gli ospiti presenti sono stati accompagnati presso i propri familiari. Il valore della struttura ammonta a circa 250mila euro». I Carabinieri a Pescara, invece, «hanno scoperto due strutture per anziani sprovviste di autorizzazione e prive dei requisiti strutturali minimi ed è stata informata l’Autorità sanitaria per i provvedimenti da adottare anche in riferimento ai 12 ospiti anziani attualmente presenti». Sempre il reparto Nas in Abruzzo «sta collaborando con l’ASL Lanciano-Vasto-Chieti in un’indagine epidemiologica finalizzata a verificare e circoscrivere la presenza del virus. In tale ambito, i militari hanno segnalato all’autorità amministrativa la titolare di una casa di riposo dove oltre 40 persone, tra ospiti e operatori sanitari, sono risultati positivi al COVID-19». In provincia di Cagliari è stata chiusa e disposto lo sgombero da una comunità per anziani perché «i Nas hanno accertato la reiterata mancanza di requisiti organizzativi e strutturali tra i quali, per esempio, l’uso di acqua proveniente da un pozzo non potabile». In Basilicata, a seguito di una segnalazione effettuata da parte del Nas di Potenza, è stata disposta la chiusura di una casa di riposo «in quanto priva dei requisiti organizzativi e delle figure professionali previste dalla legge». Ispezioni dei militari anche a Ragusa, dove i carabinieri hanno denunciato una persona in stato di libertà all’Autorità giudiziaria. L’indagata è la titolare di una casa albergo, accusata «di aver disatteso alle prescrizioni sul distanziamento sociale impartite nell’ambito dell’emergenza epidemiologica». Inoltre, «nella circostanza, il Direttore Generale dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Ragusa ha disposto l’invio di personale qualificato presso la struttura per affiancare gli operatori presenti ed assumere la direzione delle operazioni sanitarie necessarie».

La strage disumana delle residenze per anziani. Dalla Lombardia al Piemonte, dall'Emilia-Romagna al Lazio. Negligenza, superficialità, incompetenza: una Rsa su tre presentava irregolarità già prima dell’epidemia. E il virus ha fatto il resto. Sotto inchiesta anche una struttura della famiglia Angelucci. Giovanni Tizian il 24 aprile 2020 su L'Espresso. Delle migliaia di vittime nelle case di riposo, per ora, possiamo solo dire con certezza che è stata una strage. Migliaia di morti dalla Lombardia al Piemonte, fino in Emilia e al Veneto. E ora tocca a Roma, dove nelle cliniche di Antonio Angelucci, politico e ras della sanità laziale, i morti aumentano e gli ispettori dell’Asl hanno segnalato numerose anomalie nella gestione dell’emergenza. Di questa strage il nome del colpevole è noto: Sars-Cov2, più comunemente detto Coronavirus o Covid19. Resta da capire se il killer invisibile abbia trovato una sponda inattesa in chi doveva gestire l’emergenza (dirigenti e proprietari delle residenze per anziani, assessori regionali alla Sanità, presidenti di Regione). Quei controllori, cioè, che avrebbero dovuto fermarlo piuttosto che porre le condizioni ideali perché si propagasse con rapidità in lughi ad alta fragilità sociale e sanitaria. Non con dolo. Piuttosto per incompetenza, per imperizia o negligenza nella gestione dell’emergenza. A definire i contorni penali saranno le indagini in corso: oltre 40 fascicoli, in tutta Italia, dal Sud al Nord. Impressionano i numeri di Milano: quasi 300 anziani morti tra il Pio Albergo Trivulzio e l’istituto Palazzolo Don Gnocchi . Ma le Rsa tramutate in focolai indomabili sono centinaia. Con una differenza: in Lombardia e in Piemonte nel pieno della pandemia, per liberare posti di terapia intensiva negli ospedali, gli anziani ricoverati (in via di guarigione ma non ancora negativizzati) sono stati trasferiti in Rsa impreparate e per nulla attrezzate. Una scelta politica netta, un assist per il Covid che ha mostrato così il suo grado massimo di letalità. I virologi hanno sottolineato fin da principio quanto questo virus fosse letale per gli over 75. I nostri nonni, target sensibile, lasciati senza barriera da chi invece avrebbe dovuto costruire attorno a loro una trincea invalicabile per difendere dallo sterminio la memoria storica delle nostre comunità, del nostro passato. Una tragedia che non riguarda solo l’Italia, ma tutta l’Europa colpita dalla pandemia.

INDAGINI A TAPPETO. Decine le inchieste giudiziarie in corso. La procura di Milano con la guardia di finanza indaga sul Trivulzio e sul Don Gnocchi. Le altre, in tutta Italia, sono state affidate ai carabinieri del Nas guidati dal generale Adelmo Lusi. I detective dell’Arma sono impegnati in un lavoro di monitoraggio sulle Rsa iniziato da prima della pandemia. Tra il 2019 e i primi due mesi del 2020 sono state controllate oltre 3.500 strutture: più del 30 per cento sono state denunciate per irregolarità varie: inadeguatezze strutturali, mancanza di figure professionali, la presenza di un numero superiore di anziani rispetto al limite previsto. Da gennaio a oggi, infine, 25 strutture sono state chiuse o sospese perché non a norma. La “baggina” di Milano è da sempre un luogo di affari e politica. Per questo è investito da un nuovo caso giudiziario, dopo Tangentopoli. E riguarda la salute di tutti. La geografia delle Rsa rivelava, perciò, criticità non trascurabili ben prima che irrompesse il coronavirus. I segnali che il sistema non avrebbe retto una mega pandemia erano sotto gli occhi di tutti. E invece di blindarle e renderle inaccessibili, in Lombardia e Piemonte hanno ordinato il trasferimento dei malati dagli ospedali agli ospizi. Cosa che non è avvenuta nel resto d’Italia, dove, spesso, però le proprietà non hanno adottato le giuste precauzioni per arginare i focolai interni. I Nas, dall’inizio dell’emergenza, hanno controllato 601 strutture (104 non erano in regola) e denunciato alle procure oltre 157 persone: in queste Rsa, hanno riscontrato i carabinieri, gli operatori giravano senza mascherina, non erano formati per affrontare una crisi sanitaria e presentavano gravi carenze strutturali, per questo 15 sono state chiuse e gli ospiti trasferiti d’urgenza.

TROPPE OMBRE SULLA ROCCA. È sfinita, Veronica Cimino. La vicesindaca di Rocca di Papa, vicino a Roma, da giorni combatte contro le opacità sui dati forniti dal San Raffaele, una residenza per anziani di proprieta della Tosinvest, la finanziaria della famiglia Angelucci, ras della sanità privata, con a capo Antonio Angelucci deputato di Forza Italia (nel 2016 il più ricco del Parlamento) ed editore. Angelucci senior è stato assolto in primo grado dall’accusa di aver truffato il sistema sanitario regionale. Al San Raffaele di Rocca di Papa degli Angelucci il contagio è esploso a marzo: a oggi risultano 143 contagiati e 8 morti. Tra i malati 24 sono infermieri e operatori socio-sanitari. Numeri che preoccupano. E che hanno portato a un’ispezione dell’Asl Roma 6 il 18 aprile scorso. Secondo gli ispettori la prima anomalia riguarda la collocazione dei malati: «Nel reparto lungodegenza medica, il primo piano con 11 posti letto risulta vuoto, mentre al piano terra sono così occupati: 13 posti letto con pazienti no-covid e 29 con pazienti covid». Una promiscuità tra positivi e sani che poteva essere evitata. «Nella residenza sanitaria assistita (Rsa) al primo piano sono presenti 72 ospiti, 44 positivi e 28 negativi». E ancora: «Nell’Hospice, su 7 sette pazienti uno è positivo», ma quest’ultimo fino all’ispezione era insieme agli altri. Per questo i numeri non sono definitvi, probabilmente aumenteranno. Così come i decessi, a oggi 8, secondo stime ufficiali. Su altre morti sono in corso verifiche. Anche se, secondo la vicesindaca, potrebbero essere già almeno 12. La clinica degli Angelucci, scrivono gli ispettori della Asl, è sprovvista di «percorsi assistenziali e di servizio» differenti per i pazienti positivi e negativi. Non solo: il personale sanitario passa dai malati di covid a quelli non covid; gli spogliatoi per il personale non sono adeguati; manca «la separazione all’interno dei reparti tra percorsi “pulito” e “sporco”»; troppa commistione tra pazienti covid e quelli sani; è impossibile riconoscere i rifiuti provenienti dai Covid, né c’è la data di confenzionamento e la compilazione del registro dei rifiuti è incompleta o errata. Un report denso di contestazioni mosse a uno dei gruppi leader della sanità privata, che nel Lazio sotto la sigla San Raffaele conta altre due Rsa: a Monte Compatri, risulta all’Espreso, i positivi sono 14 e c’è stato un decesso; a Cassino 57 positivi e 6 morti. In totale, dunque, nelle strutture degli Angelucci troviamo 214 malati di covid e 15 deceduti. La relazione e altri documenti che riguardano i presidi del San Raffaele sono in mano al Noe dei carabinieri, che indagano su questa e su altre due strutture romane su delega della procura capitolina. La magistratura indaga su oltre 150 morti di Covid nelle sessanta strutture del gruppo in Italia. Ecco chi c'è dietro la fondazione fondata nel dopoguerra da un prete lodigiano e diventata un gigante con 27 sedi e 32 ambulatori. La Regione, prima dell’ispezione dell’Asl, aveva sospeso il direttore sanitario della clinica di Rocca di Papa perché «sprovvisto di specializzazione». Tosinvest si difende, accusa la giunta e l’assessore di strumentalizzare politicamente l’emergenza. Non è d’accordo il vicesindaco Cimino: «Ho chiesto il commissariamento sanitario della struttura, credo sia necessario inviare medici, infermieri e operatori socio sanitari all’interno finché non termina l’emergenza. I familiari piangono disperati, ho parlato con i sanitari che denunciano turni massacranti ora che sono rimasti in pochi. Io avevo chiesto l’isolamento della struttura il 10 aprile, sono trascorsi 4 giorni prima che avvenisse». Cimino chiede anche che sia fatta chiarezza sui numeri, i dati ufficiali, sostiene, sono incompleti. E chiosa: «Il vero dramma è che adesso ci sono pochissimi operatori rimasti, che faticano ad assistere tutti gli anziani».

DAI DOMICILIARI ALL’EMERGENZA. Contagio fuori controllo anche in un struttura targata Sereni Orizzonti. Di proprietà di un imprenditore, che come gli Angelucci, si divide tra business della sanità e politica. Il gruppo Sereni Orizzonti fa capo all’ex consigliere regionale del Friuli, Pdl, Massimo Blasoni. Il “Berlusca del Friuli”, lo ha definito un articolo sulla stampa locale. Di sicuro il politico più ricco della regione. Ma neppure il tempo di festeggiare la revoca degli arresti domiciliari (Blasoni è indagato per truffa), che l’azionista di Sereni Orizzonti si è ritrovato a fronteggiare l’emergenza Covid nelle case per anziani accreditate con il pubblico. In alcuni casi è andata bene, zero positivi. In altre decisamente peggio: per esempio a San Mauro torinese, nella Rsa del gruppo si contano 27 decessi dal primo marzo. Ufficialmente 12 positivi al Covid. Gli altri erano fortemente sintomatici. Alto anche il numero di personale contagiato: 20. Agostino Valenti, dell’associazione a difesa degli operatori sanitari Alsapp, racconta all’Espresso di aver chiesto il 23 marzo un intervento all’unità di crisi regionale, segnalando i decessi e le pressioni del direttore sui lavoratori per mantenere il silenzio e non creare panico nelle famiglie. All’Espresso, Valenti, dice che le «strutture residenziali sono allo sbando». E non si riferisce soltanto a Sereni Orizzonti, ma anche a molte altre strutture del Torinese: «Ho molti associati che mi chiamano piangendo, perché si sentono ricattati, minacciati, vessati e non tutelati, mandati allo sbaraglio. Ma la cosa che lega tutte queste vicende è l’omertà di chi gestisce le residenze».

COME LA LOMBARDIA. Il Piemonte ha seguito il modello lombardo nella gestione dei pazienti anziani malati di Covid: per liberare posti in terapia intensiva, ha sollecitato il trasferimento degli anziani nelle Rsa seppure ancora positivi. «Ho convinto alcuni familiari a rifiutare il trasferimento dei loro cari dagli ospedali alle Rsa, è un loro diritto», spiega Valenti. Ma il cortocircuito nelle Rsa è generalizzato. Lo ha sperimentato sulla propria pelle Massimiliano Colucci. Suo nonno è morto di covid, lo ha contratto nella residenza Carlo Alberto. «Il direttore della stuttura ci ha contatto tra il 18 e il 19 marzo», racconta Colucci, «per comunicarci che mio nonno aveva po’ di febbre e che aveva bisogno di ossigeno. Il venerdì mattina sembrava stesse meglio è perciò gli hanno tolto l’ossigeno. Ma poco dopo lo hanno ricoverato, la struttura sosteneva che non avesse febbre, l’ospedale invece mi ha confermato che la temperatura era alta. Era Covid. Così ho chiamato in Rsa e ho allertato che si trattava del virus, di fare i tamponi agli altri ospiti (circa 200) per tutelarli. Dopo mio nonno, ne sono morti altri 27». «Andrebbero fatti tamponi a tappeto nelle Rsa, e non random come stanno facendo. Perché è necessario conoscere effettivamente il numero dei positivi, se isolo solo una parte non serve a nulla», spiega Elena Palumbo della Cgil Piemonte. Il trasferimento dei pazienti positivi dagli ospedali alle residenze ha reso tutto più problematico. «Da altri ospedali sono arrivati al civico di Settimo Torinese. La Cgil insieme a Cisl e Uil ha presentato un esposto ai Nas con cui denunciamo, tra le altre cose, l’assenza di dispositivi di protezione e di tamponi in entrata e in uscita». Nel documento indirizzato ai carabinieri si legge: «Ci risulta inoltre, che nella struttura, la biancheria personale dei degenti venga ritirata dai parenti, che quindi porterebbero materiale infetto fuori dal reparto». Tra le Rsa di Kos, della famiglia De Benedetti (55 residenze per anziani con 5.500 posti letto), la più colpita è la Anni Azzurri San Faustino a Milano: nell’ultimo periodo sono morti ventitrè ospiti, di questi 14 erano sicuramente affetti da coronavirus, «mentre per gli altri non è stato possibile effettuare il tampone», si legge sul quotidiano Avvenire. A questi si aggiungono i positivi al covid: 44. Intanto la procura di Milano indaga anche sulla San Faustino che, come confermano all’Espresso, si è rifiutata di ricevere pazienti covid provenienti dagli ospedali, e questo fa capire che anche le altre strutture sanitarie non erano obbligate a ricoverare anziani con il virus. «Il gruppo dei De Benedetti, infatti, non ha accolto la sollecitazione della Lombardia e di altre regioni a ospitare nelle sue Rsa pazienti positivi provenienti dagli ospedali», scrive Il Giornale.

IL SINDACATO AL FIANCO DELLE VITTIME. Seconda in classifica per mortalità nelle case di riposo. Dopo la Lombardia e prima del Veneto. In Emilia-Romagna tuttavia i focolai si sono propagati dall’interno. Perché qui una volta in vigore il divieto di visite non è entrato più nessuno dall’esterno. Nessun paziente proveniente dagli ospedali, come in Lombardia o Piemonte. Di certo le responsabilità vanno ricercate nella gestione delle case di riposo. La provincia di Bologna, al 15 aprile, contava 143 decessi, circa la metà di tutta la regione, su 292 strutture residenziali per un totale di 7.760 posti. Un contagio che però si è concentrato in solo 70 Rsa. Tra queste c’è Villa Teresa, gestita dalla fondazione cardinale Giacomo Lercaro. Il bollettino di guerra: 14 morti, 38 positivi, su 98 ospiti totali. Intanto la figlia di una paziente deceduta ha presentanto una denuncia. Al suo fianco il sindacato dei pensionati (Spi) della Cgil, 100 mila iscritti in tutta la città metropolitana di Bologna. «Noi rappresentiamo gli interessi dei pensionati e delle loro famiglie», spiega all’Espresso Antonella Raspadori, segretaria provinciale Spi, «perciò nei casi in cui c’è da fare luce noi li sosterremo. Non sappiamo se c’è stata negligenza o altro, noi chiediamo chiarezza». Più di 40 morti, invece, li piangono in altre due Rsa: 21 nella Santa Caterina gestita dalla cooperativa Kedos e 22 in quella del consorzio Il Sorriso. E poi c’è Budrio, nella residenza San Domenico, 9 decessi. Corpi e memoria che se ne vanno. Nella terra della Resistenza non sarà un 25 aprile come gli altri.

L’altra faccia del disastro Rsa: la decimazione del personale (42% di malati in Lombardia). Il caso emblematico del Don Gnocchi di Salice Terme. Andrea Sparaciari il 25 aprile 2020 su Businessinsider.com. L’emergenza nelle Rsa è tutt’altro che finita. E ora si chiama carenza di personale. Se infatti ormai il coperchio sullo scandalo degli anziani deceduti nelle residenze assistenziali è saltato e la strage inizia a prendere forma in tutta la sua drammaticità – un decesso su due, secondo l’Oms, è avvenuto nelle Rsa; secondo la Ats di Milano, solo nel capoluogo lombardo tra il  20 febbraio e il 15 aprile nelle 57 residenze milanesi sono morte 1.199 persone per sospetto Covid -, l’allarme nelle residenze è tutt’altro che passato. Sì, perché ad ammalarsi non sono stati solo gli anziani degenti, ma anche il personale, vittima di errori di giudizio e disposizioni scellerate. Lavoratori che oggi sono in malattia, alcuni hanno fatto i tamponi, altri ancora no, la cui assenza sta creando giganteschi problemi di gestione dei turni di lavoro in tutte le residenze lombarde. Bastano i dati diffusi dal dg di Ats Milano, Walter Bergamaschi, sul personale assente perché in malattia nel capoluogo lombardo: sugli oltre 3.334 operatori delle residenze, “abbiamo 634 in isolamento a domicilio per sospetto Covid – ha detto – 286 tamponati, 500 che sono a domicilio per malattie non specificate”. Ovvero il 42% (1.420 persone) del personale non è presente sul posto di lavoro. È come se una squadra di calcio scendesse in campo con sette giocatori. Secondo il dottor Bergamaschi, però, questa situazione non rappresenterebbe un problema, visto che “le assenze sono compensate dalle sostituzioni”. Un’affermazione assai ardua da sostenere. Perché sul mercato del lavoro quelle professionalità di riserva mancano: infermieri professionisti, Oss (operatore socio-assistenziale) e Asa (Ausiliario Socio Assistenziale) non ci sono. Basta un rapido giro su Google e si trovano decine di offerte di lavoro lanciate da fondazioni e Rsa disperate. In realtà lo tsunami Covid si è abbattuto su un sistema che già era già minato alle fondamenta, come confermato da Elisabetta Notarnicola, docente del Cergas Bocconi, al Corriere della Sera: “In Lombardia è stato chiesto alle Rsa di ospitare i malati dimessi dagli ospedali nonostante i rischi a cui si andava incontro. In queste strutture, inoltre, erano assenti presidi fondamentali come le mascherine, così come non era prevista attività di screening come i tamponi. I finanziamenti sono insufficienti e il personale difficile da reperire: su questo si è abbattuta l’epidemia”. Sebbene una foto univoca non sia mai stata fornita dalle istituzioni lombarde, che in base alla legge regionale 23 del 2015, hanno frazionato i dati sulle singole Ats, il fattore comune di tutte le Rsa lombarde è che i lavoratori sono oggi chiamati a turni massacranti per coprire i buchi negli organici e, avendo a che fare con pazienti positivi e reparti che ospitano malati di covid, questa iper-turnazione non fa altro che aumentare il rischio di errori, e quindi di perpetuare i contagi. «Inoltre i lavoratori sono sottoposti a tampone solo al loro ritorno sul posto di lavoro e non prima della malattia, quindi ad oggi nessuna struttura ha un’idea chiara di quanti dipendenti si sono ammalati», spiega Pietro Cusimano dell’Usb Milano, «con la beffa che così facendo non si possono aprire le pratiche con l’Inail per l’eventuale infortunio sul lavoro. E se un sanitario ha avuto una polmonite bilaterale, che potrebbe minarlo per la vita, che fa? Non potrà mai chiedere la causa di servizio».

E anche sui pochi dati ufficiali che circolano i sindacati hanno più di un dubbio: «Prendiamo quelli diffusi da Bergamaschi», continua Cusimano, «ci risulta che il numero totale di posti letto nelle RSA milanesi sia di 8.334, il che indica – in considerazione degli standard regionali per l’accreditamento – come sia sensibilmente basso il numero di 3.334 lavoratori in servizio all’interno delle RSA riportato dall’Ats. In base a questo numero, i lavoratori dovrebbero essere di poco inferiore ai 4.500! Sarebbe opportuno chiarire con maggior precisione i dati forniti, a maggior ragione in virtù del numero dei tantissimi operatori assenti per malattia e/o quarantena. Al Golgi-Redaelli, ad esempio, ci sono 1.400 dipendenti, secondo i dati diffusi dalla Direzione sanitaria risultano 400 persone in malattia. Numeri più o meno uguali al Pio Albergo Trivulzio. Insieme fanno già 800 lavoratori ko… per l’Ats ci sarebbero 1.400 sanitari malati in tutta Milano, ma è possibile che nelle restanti 55 Rsa, tolti Golgi e Trivulzio, ci possano essere solo 600 malati…? Ma andiamo…!». Dubbi che trovano più di una sponda nelle evidenze raccolte dai magistrati che hanno già aperto oltre 20 fascicoli (indagati vertici, dirigenti ed enti) e che hanno spedito Gdf e Nas ad acquisire migliaia di documenti nelle residenze per anziani e in Regione Lombardia. L’ultimo big in ordine di tempo è stato il Golgi Redaelli, ma il 24 aprile i Carabinieri del Nucleo investigativo hanno bussato alla porta della Monsignor Bicchierai, Rsa che fa parte dell’Istituto Auxologico. Il sospetto (ma è molto di più) della Procura di Milano è che fino a metà marzo almeno, e dunque per oltre tre settimane dallo scoppio dell’epidemia, il Coronavirus abbia potuto diffondersi nelle Rsa anche per l’assenza di indicazioni che raccomandassero a tutti gli operatori, e di conseguenza alle strutture, di usare le mascherine. E questo perché nelle disposizioni sia regionali che nazionali, ma anche internazionali, si parlava di utilizzo dei dispositivi nell’assistenza di pazienti Covid o casi sospetti, ma non nel rapporto con tutti gli ospiti e malati. È uno dei molti elementi che andranno vagliati e che emerge da documenti, in particolare dell’Istituto superiore di sanità e della Regione, depositati nelle indagini. Il 14 marzo nelle “indicazioni” aggiornate dell’Iss, anche sulla base delle linee guida dell’Oms, si raccomandava di usare le mascherine chirurgiche agli operatori in contatto con malati Covid e quelle Ffpp2-3 per l’assistenza ai positivi in procedure con “aerosol”. Mascherine che, invece, non erano raccomandate per il “contatto diretto con pazienti non sospetti Covid”. Il tutto mentre mancavano i tamponi, che erano dirottati verso gli ospedali in via prioritaria, come le mascherine. Leggi anche: Disastro mascherine per medici e infermieri: l’ultima giravolta dell’Iss certifica il caos: "meglio le Ffp, ma se non ci sono, fate come potete". Se a tutto ciò, aggiungiamo che gran parte delle residenze sono risultate fuori dai parametri previsti dai protocolli di sicurezza in termini di compartimentazione, separazione degli spazi e procedure per evitare la diffusione del virus, è comprensibile come la crisi sia potuta esplodere e come questa sia tutt’altro che superata. Per esempio, tutte le 27 Rsa ispezionate dall’Ats di Pavia, hanno presentato delle irregolarità. La più grave e diffusa è risultata essere “legata all’utilizzo del personale nella gestione dell’emergenza: gli operatori socio-sanitari e gli infermieri messi al lavoro nei reparti Covid, tra gli anziani positivi o con sintomi sospetti, sono gli stessi che lavorano nei reparti “puliti”, non interessati dalla diffusione del virus”, scriveva la Provincia Pavese. E questo accade perché tra gli operatori ammalati di covid (quelli sotto posti a tampone) e quelli “semplicemente” in malattia (perché ancora senza tampone), le strutture si ritrovano senza personale e, non riuscendo a cooptare i sostituti, utilizzano gli stessi dipendenti per gestire pazienti covid e degenti storici. Morale? I turni si dilatano, la separazione viene spesso meno, la possibilità di errore cresce esponenzialmente e così il contagio continua a diffondersi. In un diabolico circolo vizioso. La vicenda del Centro Santa Maria alle Fonti Don Gnocchi di Salice Terme – dove oggi, secondo il sindacato Fesica Confsal, si contano ben otto infermieri malati su 14 e 25 positivi tra pazienti e personale, con almeno 15 ospiti e 4 lavoratori contagiatisi all’interno della struttura –  è perfetta per capire la dinamica. La storia è raccontata con dovizia di particolari nella lettera/denuncia sottoscritta da 33 lavoratori dell’istituto inviata il 9 aprile 2020 alla Ats di Pavia. Nella missiva i dipendenti riportavano come per tutto febbraio la Direzione sanitaria si sia rifiutata di fornire loro i Dispositivi di protezione personale (Dpi), cioè mascherine e camici, “per non spaventare i pazienti”. Tanto che avrebbero utilizzato “sacchi della spazzatura” al posto dei camici idrorepellenti. Di come a un certo punto la direzione abbia concesso “un utilizzo limitato della mascherina FFP2 (per di più veniva utilizzata la medesima per giorni) nell’assistenza a pazienti Covid e non a tutti gli operatori (nello specifico gli OSS adottavano la semplice mascherina chirurgica)”. E ancora, di come la stessa mascherina, “per razionalizzare le forniture”, fosse “utilizzata per più giorni senza che fosse oggetto di qualche tipo di sanificazione”. Una situazione grave che degenera definitivamente dopo il 23 marzo, data nella quale la Rsa decide di accogliere pazienti sub-covid dirottati dagli ospedali di Voghera, Cernusco sul Naviglio e Maugeri. Apre così un reparto di malattie infettive, limitandosi a dividere a metà il secondo piano dell’edificio: da una parte i degenti, dall’altra i covid. A separare le due aree “strisce di plastica fissate perpendicolarmente al soffitto”. E come zona-filtro per la “vestizione-svestizione del personale” che era stato a contatto col virus – si legge sempre nella lettera dei lavoratori – è stato usato “il pianerottolo del piano secondo, della scalinata che collega tutti e tre i piani, fronte ascensore”.  Secondo fonti interne, il percorso dedicato per il settore covid è arrivato solo ad aprile inoltrato.

Ecco alcuni stralci della lettera: Non sorprende quindi se oggi il personale è quasi tutto a casa. Un dipendente, raggiunto da Business Insider Italia, alla domanda: “Ma come fate se avete 8 infermieri malati su 14?”, ha risposto tristemente: “Chi c’è, tira la cinghia…”. La direzione della struttura, invece, non ha rilasciato dichiarazioni. Anche perché tutti i numeri di telefono del Centro Santa Maria alle Fonti Don Gnocchi, venerdì 24 aprile suonavano a vuoto. Reception compresa. E mentre a Salice Terme accadeva tutto ciò, la casa madre, la residenza per anziani Don Gnocchi-Fondazione Palazzolo di Milano, tagliava il triste primato di essere stata la prima casa di riposo d’Italia dove sono state segnalate irregolarità nel trattamento dei malati e nel contenimento del contagio da Covid-19. E a finire sotto inchiesta. Anche qui, a far partire le indagini, erano stati 18 lavoratori dell’Istituto quasi tutti positivi al coronavirus, i quali il 21 marzo scorso hanno denunciato alla Procura di Milano il Direttore generale, il Direttore sanitario e il Direttore dei servizi socio sanitari per i reati di diffusione colposa dell’epidemia e altri reati in materia di sicurezza del lavoro. Nel loro esposto i lavoratori sostenevano che i responsabili della struttura avrebbero “tenuto nascosti moltissimi casi di lavoratori contagiati, benché ne fossero a conoscenza dal 10 marzo e avrebbero impedito l’uso delle mascherine per non spaventare l’utenza, invece di fornire i dispositivi di protezione individuale”. L’inchiesta è scatta ufficialmente il 27 marzo e nel registro degli indagati sono finiti il direttore Antonio Dennis Troisi, la direttrice sanitaria Federica Tartarone e l’amministratore della coop Ampast, Papa Waly Ndiaye. Sarà proprio quest’ultimo, in qualità di legale rappresentante, il 20 aprile, a firmare la lettera di sospensione per alcuni dei 18 lavoratori che avevano denunciato le carenze. Intanto però era esploso anche lo scandalo Trivulzio e la tragedia avvenuta nelle Rsa iniziava a venire a galla.

Tamponi per medici e malati. E Zingaretti disse: "No grazie". La Regione rispose picche alla "richiesta urgente" delle cliniche private. Anche se i test erano a disposizione. Alberto Giannoni, Lunedì 20/04/2020 su Il Giornale. Una gestione lenta e incerta. Le carenze che vengono rimproverate al Lazio non sono molto diverse da quelle addebitate alle Regioni più colpite dall'epidemia, con un'aggravante: l'amministrazione guidata da Nicola Zingaretti ha avuto quasi un mese di tempo in più per organizzare una risposta rapida. Ma ancora l'8 aprile la Regione rispondeva glaciale alla «richiesta urgente» arrivata dalle strutture sanitarie private. Unindustria il 2 aprile aveva spiegato che i laboratori privati accreditati erano «pronti a mettere a disposizione le loro strutture per eseguire i tamponi i test sierologici ai cittadini». Nella risposta arrivata dalla direzione Salute, con sei firme dei dirigenti d'area e ampie citazioni delle indicazioni fornite da ministero e Oms, si fornivano «chiarimenti» sulle «disponibilità ad effettuare a domicilio di eventuali casi sospetti» e sulle «segnalazioni» a proposito di strutture private proponenti «a prezzi esorbitanti test per l'identificazione di anticorpi diretti verso il virus». La risposta negativa della Regione Lazio viene citata da Antonello Aurigemma, consigliere regionale di Fdi, che ricostruisce la vicenda ricordando come le Rsa locali fossero già allora in allarme per la carenza di diagnosi sugli ospiti e sugli operatori: «Ci sono stati errori, ma qui abbiamo almeno due settimane in più per raccogliere gli alert. La Regione ha risposto alle strutture private che il costo era esorbitante, ma se vogliamo parlare solo dei costi figuriamoci quello di un giorno di terapia intensiva, si tratta di 1.200 euro al giorno, per non parlare delle persone che non ce l'hanno fatta». «Non sono stati fatti tamponi sufficienti al personale sanitario che entrava nelle strutture, molti si sono infettati, e non sono stai fatti agli operatori delle attività di riabilitazione». «Qui siamo ancora su una polveriera - prosegue il consigliere - ci sono Rsa in cui i contagiati arrivano all'80%. E anche le mascherine sono un problema. Le altre Regioni si sono organizzate, hanno magazzini sufficienti, qui la dotazione è molto ridotta. Inoltre non si è tenuto conto affatto del territorio. Le unità territoriali non fanno abbastanza tamponi o si fanno in ritardo, magari per tenere basso il numero dei positivi». Sul portale della Regione è ancora visibile un avviso in cui, nell'ambito di una ricollocazione di ospiti di case di riposo-focolai, si invitano le Rsa ad accogliere i «positivi» in «strutture o nuclei dedicati». Dalla Lombardia ieri hanno sottolineato come si tratti di un meccanismo molto simile a quello deliberato dalla giunta Fontana, l'unica di cui si è parlato. La giunta laziale ieri ha enfatizzato il requisito della separazione, ma secondo Aurigemma è più teoria che pratica. «A me - dice - risultano strutture promiscue, parlo di ospedali ma parlo anche come di Rsa, come il Nomentana Hospital, in cui sono stati condotti ospiti della casa di riposo di Nerola». E sul Nomentana Hospital il 29 marzo si è registrata una accorata denuncia congiunta dei segretari generali di Fp-Cgil Roma e Lazio, Cisl-Fp Lazio e Uil-Fpl Roma e Lazio - Giancarlo Cenciarelli, Roberto Chierchia e Sandro Bernardini, che parlavano a due giorni di distanza dal «ricovero urgente dei 52 ospiti della casa di riposo di Nerola, risultati tutti positivi al coronavirus. «Non c'è un minuto da perdere - dicevano - Regione Lazio e Asl Roma 5 intervengano subito o sarà una vera catastrofe per gli operatori e i pazienti ricoverati». E fra i vari casi critici, Cisl Fp Lazio ha denunciato anche il caso di una Rsa romana in cui i lavoratori dovevano utilizzare mascherine monouso per una settimana intera, mentre Cisl e Uil del Reatino cinque giorni fa hanno dichiarato che «la pandemia ha trovato impreparato il Servizio sanitario regionale e l'azienda reatina». 

"Tra i cadaveri degli anziani infetti senza protezioni: così ci siamo presi il Covid". La denuncia degli operatori della casa di riposo di Contigliano, comune del Reatino dichiarato zona rossa a fine marzo: "Le prime morti sospette già a metà marzo, ma ci dissero di stare zitti per non creare allarmismo". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Venerdì 24/04/2020 su Il Giornale. "Già da metà marzo c’erano delle persone con la febbre e ci sono state delle morti anomale, ma ci hanno detto di non dire nulla perché altrimenti avremmo creato allarmismo e scalpore". Inizia così il tremendo racconto di uno degli operatori della casa di riposo Alcim di Contigliano. In questo paese del Reatino, poi diventato "zona rossa", il virus è arrivato all’inizio di marzo, e il 26 dello stesso mese è esploso anche tra gli anziani ricoverati nell’ospizio di via Campo Boario. Uno di loro, ricoverato in ospedale, risulta positivo al Covid-19. La struttura viene subito isolata, e il giorno dopo gli ospiti sono sottoposti ai tamponi assieme ai sanitari. Il sindaco Paolo Lancia spedisce subito nel centro duecento dispositivi di protezione individuale, per "migliorare", si legge sulla pagina Facebook del Comune, "le condizioni di protezione e sicurezza" degli operatori. E prima di allora? Abbiamo provato a contattare, senza successo, la direzione della struttura per chiedere spiegazioni. Sono loro che, spiegano dalla Asl di Rieti, avevano "il compito di dotare, in qualità di datore di lavoro, i propri dipendenti di Dpi". E invece la nostra fonte all'interno dell'Alcim, che chiede di rimanere anonima, ci descrive uno scenario da brividi: "Siamo stati costretti a recuperare mascherine qua e là, alcune le ha cucite la moglie di un collega, altre ce le ha portate un amico infermiere, è in quelle condizioni che caricavamo i morti dai letti alle lettighe per portarli in camera mortuaria". In pochi giorni, ci assicura, ci sono stati almeno otto decessi. "La maggior parte aveva più di 80 anni, una signora è deceduta dopo aver vomitato tutta la notte, gli altri per insufficienza respiratoria", continua il racconto. Tutti sono poi risultati positivi al coronavirus. "All’epoca non sapevamo che lo fossero, e abbiamo trasportato i cadaveri senza precauzioni, respirando i gas emanati dalle salme dei contagiati, probabilmente è così che ci siamo ammalati", ricorda l’operatore. "La sicurezza – va avanti - l’ho avuta quando, trasportando l’ultimo corpo, quello di una vecchina, non riuscivo a tenere gli occhi aperti per il dolore alle palpebre". Il 29 marzo arrivano i risultati dei tamponi. Il bilancio è drammatico: su 53 ospiti, 42 sono positivi, mentre su 30 operatori hanno contratto il Covid in 23. Dieci di loro decidono di rimanere isolati nella struttura per assistere gli ospiti. "Ci hanno detto che potevamo farlo – ci spiega uno di loro - tanto ormai eravamo contagiati anche noi". Nel frattempo la casa di riposo viene posta sotto il controllo sanitario della Asl, che il 30 di marzo la trasforma in centro Covid e fa trasferire lì anche 13 anziani positivi della residenza per anziani Arcobaleno di Greccio, comune poco distante da Contigliano. Sul posto, fa sapere via Facebook l'amministrazione comunale, vengono inviati un medico, il primario del reparto di Geriatria dell’Ospedale De Lellis, e quattro operatori, due OSS e due infermieri. Troppo pochi, secondo i lavoratori dell’Alcim, per assistere gli anziani che, dopo la trasformazione in Covid center, erano diventati più di sessanta. "Per due o tre giorni è stato il caos, nessuno ovviamente voleva venire a lavorare tra i malati di coronavirus, e alcuni anziani sono rimasti abbandonati a loro stessi, con il personale decimato e i pochi infermieri che giustamente davano priorità a chi stava veramente male, molti di loro sono rimasti con il pannolone sporco per ore". "Perché hanno creato il centro Covid se non c’era abbastanza personale?", è la domanda di chi in quei giorni ha scelto di restare in prima linea. I rinforzi, infatti, sembra siano arrivati solo qualche giorno più tardi. Una versione, questa, smentita dalla Asl di Rieti, che assicura: "Quando è scoppiato il contagio all'interno della casa di riposo, in collaborazione con il Comune di Contigliano, abbiamo predisposto immediatamente tutte le misure necessarie a contenere il virus". "Nel giro di 48 ore - proseguono - sono stati allestiti percorsi protetti e la casa di riposo ha potuto contare su un numero adeguato di medici, infermieri e operatori socio sanitari". Per tutta la prima fase dell’emergenza, però, gli operatori rimasti nella struttura denunciano di essere stati costretti a dormire per terra, ammassati in dieci all’interno della stessa stanza."Soltanto dopo l’ispezione della Asl, arrivata su richiesta del sindaco dopo le nostre proteste – spiega uno dei dipendenti – ci hanno detto che continuando ad operare in quelle condizioni non saremmo mai guariti". Proprio per questo motivo, il 4 di aprile, per i dieci dipendenti dell’Alcim scatta l’isolamento all’Hotel Marriott di Roma. Sulla grave situazione igienico sanitaria in cui si sono trovati i dipendenti, dalla Asl alzano le mani: "I locali e le modalità di isolamento sono state decise ed individuate dagli stessi dipendenti, quando siamo subentrati nella casa di risposo ne abbiamo preso atto". Era una scelta obbligata, secondo il personale Alcim, chi si sarebbe preso cura degli anziani altrimenti? "Non lo abbiamo fatto per i soldi, si figuri che non ci hanno pagato neppure gli straordinari", chiarisce uno degli operatori. La telefonata è interrotta di tanto in tanto da forti colpi di tosse. "Non ho paura di questa malattia, provo solo tanta rabbia perché le cose sarebbero potute andare diversamente", è l’amara conclusione. E in molti, nel paesino trasformato in zona rossa, si chiedono perché ancora non sia stata fatta luce sui fatti.

Caos prima della strage in Rsa "Così sono morti gli anziani". Il racconto choc di un'operatrice sanitaria che ha contratto il virus in una delle rsa toscane più colpite dal Covid19. Costanza Tosi, Domenica 17/05/2020 su Il Giornale. “Ci davano mascherine che non avevano niente a che fare con la sicurezza. Erano fazzoletti praticamente…” Inizia con la denuncia di uno degli errori più commessi negli ultimi mesi dalle strutture sociosanitarie che si sono trovate a dover affrontare una delle battaglie più difficili degli ultimi mesi, quella contro il Coronavirus, la nostra chiacchierata con Sara (nome di fantasia ndr). Una delle tante operatrici sanitarie che ha assistito all’ecatombe di anziani in una delle rsa toscane più colpite dal Covid19. Si è ammalata e ha vissuto il dramma sulla sua pelle, dopo che i suoi occhi avevano assistito al caos causato dalla malagestione dell’emergenza all’interno della casa di cura in cui lavora. A inizio marzo, quando già si iniziava a parlare di epidemia, dopo che i primi casi accertati iniziavano a comporre il puzzle di quello che si è rivelato un’incubo impensabile, la rsa Villa Gisella di Firenze, non dotava i propri dipendenti di mascherine chirurgiche e, nonostante gli operatori sanitari avessero contatti con l’esterno le precauzioni da utilizzare con gli anziani ospiti nella struttura erano ridotte all’osso. “Quando abbiamo iniziato a chiedere i dispositivi di protezione individuale la direzione quasi ci urlava dietro, come se fossimo dei matti e pretendessimo cose assurde”, ci spiega Sara. I primi casi accertati di Covid19 in Italia, secondo le cronache, furono individuati a fine gennaio a Roma, ma dopo neanche un mese si parlava già di focolaio, in Lombardia, con 16 casi di coronavirus accertati. Il primo campanello d’allarme è stato lanciato per gli anziani. Sono loro i più a rischio, non tanto di contrarre il Covid, che colpisce tutti indistintamente, quanto di essere attaccati da forme più gravi. Le residenze per anziani in un battito di ciglia sarebbero dovute diventare un sorta di “gabbia sterilizzata” e invece, in troppi hanno sottovalutato il problema e la strage di un’intera generazione, a poco a poco, si è consumata in molte, troppe regioni d’Italia. “Il via vai di parenti è continuato fino a tutta la prima settimana di marzo”, ammette con sofferenza Sara. Nella struttura fiorentina i parenti degli ospiti continuavano ad entrare, “stavano a debita distanza e si disinfettavano le mani”, racconta ancora la OSS. Troppe poche le precauzioni, troppa l’incoscienza nel continuare a consentire le visite, lasciando la possibilità che il virus potesse varcare la porta delle stanze degli anziani e colpire quelle persone che poi, avrebbero creato, loro malgrado, una catena di contagi inarrestabile. “Il giorno della chiusura totale è entrata una nuova paziente nella struttura”, ci racconta ancora Sara, che così conferma ciò che, pochi giorni, fa aveva confessato a IlGiornale.it la figlia di un’ospite della stessa casa di cura, deceduta dopo aver contratto il virus. A seguito della chiusura totale di tutte le residenze per anziani della Toscana, nuovi anziani venivano accolti a Villa Gisella. Persone a cui nessuno aveva fatto alcun test per verificare se fossero positive al coronavirus. Persone che, sarebbero potute essere asintomatiche e che sono state accolte nello stesso reparto in cui si trovavano gli altri ospiti della rsa. “Abbiamo subito chiesto lo screening sia per i pazienti che per il personale - ci dice Sara - gli anziani si iniziavano ad ammalare uno dopo l’altro, crollavano come birilli”. Lo screening che non è mai stato fatto. I primi test sierologici sono stati effettuati il 9 di aprile. Test dopo i quali solo una delle operatrici sanitarie era risultata positiva al virus. Dopo questo primo caso gli OSS hanno iniziato a richiedere i tamponi, per accertarsi di non aver intercettato il virus dopo essere stati a contatto con la ragazza positiva, una loro collega. “I pazienti che stavano male iniziavano ad essere sempre di più, ma prima di arrivare ad effettuare i primi tamponi a tutti gli operatori si è dovuto aspettare fino al 30 di aprile…io già da due settimane ero a casa, in quarantena, dopo essermi sentita male e aver effettuato il tampone prescritto dal medico di famiglia”. Il danno ormai era fatto e il virus correva tra le corsie inarrestabile. Eppure gli anziani non sono mai stati sottoposti a tampone almeno che l’ospite non manifestasse sintomi evidenti. Nei primi giorni di aprile la direzione decise di fare qualcosa. “Al piano terra è stata portata la macchina del vapore, quella che viene utilizzata per fare le pulizie e tutti gli operatori che cambiavano reparto, perché non eravamo divisi si passava da un reparto all’altro ogni giorno, doveva passarsi addosso il vapore”. Dentro quel macchinario però, non vi era nessun disinfettante e il vapore dopo essere stato spruzzato sugli indumenti infetti creava le goccioline, i famosi “droplets”, che accompagnavano il virus. “Sono convinta che abbia inciso, da lì a poco nel personale siamo arrivati ad una trentina di contagiati”, ammette Sara. Tra gli anziani oggi si contano circa 15 decessi, secondo quanto racconta la ragazza, mentre i contagi nella rsa sono arrivati a quota 60. Nonostante i casi di Covid19 che si moltiplicavano giorno dopo giorno nessuno ha iniziato ad adottare nuove misure più restrittive. Tutto continuava ad andare avanti, per inerzia, accompagnato dalla disperazione di chi, ogni giorno, si trovava a trasportare malati in ambulanza e ad avvertire i parenti degli anziani che qualcosa era andato storto. “Portavamo fuori le persone infette con i semplici camici verdi…con mascherine che riutilizzavamo per tutto il giorno. Alcune volte ci dicevano di trasportare le persone decedute in cappella con i camici dei medici girati al contrario”, spiega con voce colma di rabbia Sara. Lei così si è ammalata, per fortuna in una forma lieve e in via di guarigione. Eppure i tamponi alle persone che lavoravano con lei non sono mai stati fatti. Senza sintomi equivaleva a dire senza virus. Era questa la filosofia adottata dall’azienda. “E’ mancata professionalità, ma sopratutto lato umano, questo è quello che mi sento di dire”, si sfoga Sara.

Medici con il virus nelle rsa toscane: "Così hanno ucciso mia madre". In una Rsa di Firenze, un'infermiera ha scoperto di avere il Covid-19 da una chat interna. Nessuno le aveva detto che era positiva e lei ha continuato a lavorare. A raccontarlo è la madre di un'anziana, che nella stessa Rsa ha contratto il virus e pochi giorni dopo è morta all'ospedale di Careggi. Costanza Tosi, Domenica 19/04/2020 su Il Giornale. "É come se mia mamma fosse nell’etere. Non lo ho vista neanche prima che chiudessero la bara”. Ha la voce rotta dal dolore e un senso di impotenza che si percepisce ad ogni parola. Così la donna, al telefono, ci racconta il dramma che è stata costretta a vivere. Da quando il Covid-19 ha colpito sua madre che, da anni, viveva in una Rsa a Firenze. Francesca, è così che la chiameremo per assecondare la sua richiesta di anonimato, oggi si chiede come sia potuto succedere che, in quella struttura dove lei non è più potuta entrare dai primi di marzo, il virus abbia ucciso sua madre. L’ennesima vittima di questo dramma nel dramma. L’ennesimo corpo che si è spento nella più totale solitudine. Circondato da uomini vestiti di bianco e il cui ricordo dei propri cari risale a quando ancora tutto andava bene. La madre di Francesca da cinque anni viveva nella stessa casa di cura. “Era una donna in gamba, che stava bene, era in carrozzina ma aveva una forza incredibile”, spiega la figlia. Le due donne si sentivano tutti giorni e lei la andava a trovare più volte a settimana. “Fino a quando a marzo non ci hanno detto che avrebbero chiuso la struttura per gli ospiti esterni”, ci spiega Francesca. Un obbligo che, con dolore, tutti hanno rispettato, sicuri che quella loro diligenza avrebbe salvato le vite di molti anziani. Eppure, la distanza dalle persone che amano non è bastata a tenere al sicuro gli ospiti della Rsa del capoluogo Toscano. Giorno dopo giorno, si sono moltiplicati i contagi e la struttura dove viveva la mamma di Francesca è diventata terreno fertile per il virus che si è portato via almeno 4 vite. “Lì sono morte delle persone e nessuno lo dice. Ho provato a chiedere spiegazioni anche alla casa di cura e mi è stato risposto 'qui va tutto bene', mentre mia mamma era stata trasferita all’ospedale di Careggi per essere ricoverata. Tutto viene nascosto perché le realtà è che qualcuno ha sbagliato qualcosa. Io ho saputo da altri parenti che mia madre non era l’unica e questo è scandaloso”, si arrabbia Francesca che non smette di lottare per abbattere questo muro di omertà che oscura quella verità che servirebbe per fare giustizia. D’improvviso, un passo avanti verso la verità è stato fatto. Qualche giorno fa, un’infermiera che lavorava all’interno della struttura ha fatto sapere, in via anonima, che mentre la residenza era stata blindata ai visitatori, medici e operatori sanitari venivano messi di turno anche se risultati positivi al coronavirus. “Una ragazza, infermiera che lavorava nella Rsa dove viveva mia madre, ha scoperto di essere positiva al tampone da una chat interna. Ha continuato a lavorare anche se era infetta, perché nessuna l'aveva avvertita”, ci racconta disperata Francesca. Inconsapevole di essere infetta, la ragazza ha proseguito le cure dei propri pazienti, mentre dall’alto qualcuno, pur di non rischiare di rimanere senza personale, ha deciso di mettere una bomba ad orologeria in un castello di carta. “L’infermiera ha ammesso che la stessa mascherina l’ha dovuta riutilizzare per 15 giorni consecutivi perché non avevano abbastanza dispositivi di protezione individuale e quindi quella era meglio che niente", ci spiega. Ora chi ha vissuto la beffa sulla propria pelle ha paura di ritorsioni e evita di uscire allo scoperto, così risalire al vero colpevole della questione diventa sempre più difficile. Intanto la Regione se ne lava le mani e nonostante le mascherine siano esaurite ovunque le istituzioni abbiano fatto arrivare dispositivi non idonei all’utilizzo sanitario, il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi ha dichiarato: “Abbiamo fatto anche più di quello dovuto dall’inizio di marzo. L’allerta doveva partire dall’interno delle Rsa”. Uno schiaffo a quelle 150 famiglie che hanno perso i propri cari nelle case di cura. Un’offesa verso le centinaia di morti le cui vite non sono state protette abbastanza. Perché nessuno ha “fatto più del dovuto”. Con il primo caso di coronavirus nella struttura fiorentina sono iniziati i tamponi a tappeto. La madre di Francesca era stata, come gli altri pazienti, spostata in una stanza singola. Neanche il tempo di ricevere la risposta dei test che la donna è stata trasferita in ospedale perché le sue condizioni si erano aggravate: “Le è stato fatto il tampone il 25 di marzo, dopo tre giorni, ancora non erano arrivati i risultati, ma lei stava male e l’hanno dovuta portare via in ambulanza.” Dopo pochi giorni la donna è morta, senza che Francesca potesse darle l’ultima carezza della sua vita.

Coronavirus, tutti gli errori nelle direttive alle Rsa: zero tamponi, zero mascherine. «E i parenti potevano entrare». Le Rsa sono diventate un’autostrada del coronavirus già due settimane prima della delibera della Lombardia che chiedeva di ospitare i pazienti usciti dagli ospedali. Tutti gli errori, dalle mascherine assenti agli ambulatori aperti. Armando Di Landro, Simona Ravizza, Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2020. Venti giorni di visite dei parenti mentre l’epidemia dilaga. Incontri senza mascherine: moltiplicatori del contagio. E poi, ambulatori aperti, sempre senza protezioni. Infine, i tamponi sospesi dal 10 marzo, quando febbri e polmoniti ormai devastano gli anziani. Il Covid-19 dilaga nelle case di riposo mentre le autorità ragionano sul rafforzamento delle terapie intensive degli ospedali e sulle chiusure di scuole, bar, negozi: senza occuparsi di blindare i luoghi più a rischio. L’obiettivo torna sulle Rsa solo quando diventano dei cimiteri. A due mesi dalla scoperta del primo caso di coronavirus in Italia, incrociando decine di documenti pubblici e riservati, e centinaia di testimonianze, il Corriere può dare chiara evidenza del fatto che per proteggere gli anziani andava alzato un muro di protezione intorno alle case di riposo. Andava fatto subito. Perché (quasi) tutto è accaduto nelle prime due settimane: dopo, c’è stato solo da contare le salme. «Nei giorni più neri, è passata l’idea che gli anziani fossero la parte della popolazione da sacrificare. C’è stata una passiva accettazione che dovesse andare così. È stato un disastro umano e sociale di proporzioni abnormi, che ci segnerà per sempre», riflette un primario. Abnormi sono i numeri, quasi 7 mila anziani deceduti nelle case di riposo in Italia dall’inizio dell’epidemia. Il 40% contagiati dal Covid (il 53 in Lombardia). Questa è la cronaca del disastro e delle decisioni che lo hanno determinato.

Il «blocco» delle visite. Gli anziani ricoverati nelle Rsa possono ricevere il contagio solo dall’esterno. Dunque, o i parenti non entrano, o entrano con le protezioni. Non accadrà nessuna delle due cose. La Regione Lombardia reagisce subito. In una mail del 23 febbraio (tre giorni dopo Codogno) alle Rsa viene spiegato: può entrare un solo parente per ogni anziano. Ma è una limitazione efficace? Per mega strutture milanesi come «Trivulzio» e «Don Gnocchi», con quasi mille anziani ricoverati, significa che ogni giorno almeno mille parenti entrano nella struttura. Aiutano gli anziani a mangiare, cambiarsi, muoversi. Contatti ultra ravvicinati. Se un parente è positivo, l’infezione è quasi certa. Il 27 febbraio, altra direttiva: «Prima dell’accesso del visitatore, gli operatori dovranno chiedere conferma dell’assenza di febbre e/o sintomi respiratori». Nella maggior parte delle strutture, secondo decine di testimonianze, il filtro non avviene. Dal 2 marzo i parenti che entrano devono compilare un modulo in cui autocertificano l’assenza di sintomi. Si dice anche che i responsabili potranno applicare misure più restrittive. Dunque, responsabilità girata ai gestori, che però, in quel momento, come spiegano in un duro documento, si ritrovano con una capacità di reazione all’epidemia molto empirica. Le limitazioni vengono estese a tutta Italia con il blocco delle visite stabilito dal Dpcm dell’8 marzo: ma con deroga per i «casi indicati dalla direzione sanitaria della struttura». Molte Rsa hanno bisogno dei familiari per imboccare gli anziani. Disposizioni del Pio Albergo Trivulzio: «Possono riprendere le celebrazioni religiose presso la chiesa interna» (con la distanza di un metro). Nella Rsa del Comune di Milano «Virgilio Ferrari» non vengono chiusi mensa, bar e sale comuni: fatto che avviene quasi ovunque. Dall’alto non arrivano indicazioni contrarie. Risultato: migliaia di parenti che entrano ed escono ogni giorno. Basta un contagiato, e parte l’epidemia. Testimonianza della figlia del signor Anacleto Baglio, 87 anni, poi deceduto nella Rsa dell’Istituto Auxologico di Milano: «Sono entrata fino al 16 marzo. Quasi nessuno aveva le mascherine».

«No alle protezioni». Il decreto legislativo 81 del 2008 assegna ai gestori delle Rsa l’approvvigionamento dei dispositivi di sicurezza. Ma nessuno li allerta sulla necessità di fare scorte per il rischio Covid-19. Quando le mascherine iniziano a mancare negli ospedali, le case di riposo non sono una priorità nei rifornimenti. L’Unità di crisi di Regione Lombardia dà un’indicazione di sorveglianza sanitaria già dal 23 febbraio. La Protezione civile il 29 stabilisce la prioritaria destinazione degli acquisti al personale sanitario. Non arriva niente, e le Rsa non riescono ad acquistare nulla. Il 9 marzo, in una mail alla Regione Lombardia, implorano «un’azione di acquisto centralizzato». Il 16 insistono: «Persiste una assoluta carenza», che pone le strutture «in una situazione di indifferibile necessità». Le mascherine mancano. Ma le direzioni scoraggiano di usare quelle che ci sono «per non allarmare e spaventare i pazienti». Al Trivulzio il geriatra dell’Università Statale Luigi Bergamaschini viene cacciato (poi reintegrato) perché chiede l’uso delle protezioni. Al Don Gnocchi si tiene una maxi riunione a inizio marzo (sempre smentita dalla Fondazione) in cui viene di fatto «vietato» l’uso a medici e infermieri. Dai documenti interni dell’Ats (ex Asl) di Milano, emerge che le prime 10 mila mascherine destinate alle Rsa arrivano il 19 marzo; la prima fornitura decente (122 mila) è del primo aprile. Tra 20 febbraio e 10 marzo, nella più completa sottovalutazione dei rischi, tra parenti che entrano, carenza e «divieti» di usare le protezioni, medici, infermieri e pazienti che circolano tra reparti e spazi comuni, le case di riposo sono un silenzioso frullatore di virus in espansione. Il danno avviene tutto in quei venti giorni. E subito dopo inizia a manifestarsi: al «Girola», casa di riposo del Don Gnocchi dove muoiono oltre 40 anziani su 103, le prime febbri si scoprono il 10 marzo, mentre nella sede centrale del «Palazzolo» il primo positivo viene certificato l’11 marzo; alla «Virgilio Ferrari» (un decesso ogni quattro ospiti), a metà marzo l’intero sesto piano è in quarantena e quattro anziani sono già morti di Covid. A Mediglia si contano già oltre 40 decessi.

Ambulatori aperti. L’altra autostrada di ingresso del virus nelle Rsa sono gli ambulatori e i centri diurni. I pazienti arrivano ogni giorno dall’esterno accompagnati dai parenti, fanno riabilitazione motorie e logopedia, tutto senza o con minime protezioni. Nessuno controlla se siano positivi o no. I terapisti sono quasi sempre gli stessi che poi assistono gli anziani «residenti». Le attività di ambulatorio vengono sospese tra l’8 e il 15 marzo, ma all’Auxologico di Milano, ad esempio, gli ambulatori rimangono aperti fino al 26, quando un intero piano della Rsa (dove moriranno 50 anziani su 150) è già praticamente tutto Covid. I terapisti sono quasi tutti infettati. A Bergamo (dove nelle case di riposo è morto quasi un anziano su cinque), i direttori sanitari delle Rsa si scontrano col «dettato normativo degli organismi superiori»: fin da subito, oltre a fermare le visite dei parenti, sembra ragionevole chiudere i Centri diurni annessi alle Rsa, in cui gli anziani fanno attività fisiche e ricreative in giornata, per poi tornare a casa, ma la nota dell’Ats è categorica: «Riaprite o perderete l’accreditamento». A Vertova, pochi chilometri da Alzano e Nembro, la direttrice Melania Cappuccio concorda con le famiglie di far restare a casa gli utenti: una chiusura di fatto, ma il 28 febbraio arrivano gli ispettori per verificare che il Centro diurno sia aperto. «Il 29 febbraio — ricorda al Corriere di Bergamo Cesare Maffeis, medico e presidente dell’Associazione case di riposo bergamasche — abbiamo scritto all’Ats chiedendo di nuovo la chiusura. Richiesta respinta. Siamo stati tutti molto ligi, ma non so quanto intelligenti».

«Stop ai tamponi». Nelle prime settimane, i tamponi sugli ospiti si fanno anche nelle Rsa. Sono esami necessari per identificare i positivi, tentare di isolarli e provare a contenere il contagio. Ma quando l’epidemia esplode, e la gestione dei tamponi inizia a intasarsi, nelle Rsa vengono sospesi, come scritto in un documento regionale del 10 marzo che prevede gli esami solo quando un anziano va in ospedale. Le Rsa chiedono di rifare i tamponi il 24 marzo. Il via libera arriva soltanto con la delibera regionale del 30 marzo (il Trivulzio ritira i suoi primi mille tamponi il 16 aprile). I dati acquisiti dal Corriere rivelano però un aspetto chiave: sulle Rsa di Milano e Lodi, nel solo mese di marzo (quindi fino al 10) vengono fatti 2.490 tamponi, e 1.338 sono «positivi» (se ne «scopriranno» altri 4.276 in aprile). Il dato dimostra che il Covid nelle Rsa ha già «sfondato» in quei primi 20 giorni, quelli delle visite aperte e delle poche mascherine.

«Accogliete i Covid». Ecco perché la tanto discussa delibera regionale dell’8 marzo, che chiede alle Rsa di ospitare pazienti dagli ospedali, tra cui anche i «positivi», non può essere identificata come ragione primaria di diffusione del virus nelle case di riposo. La delibera è un «boccone» politico per chi attacca la giunta della Regione Lombardia, ma può aver al massimo creato qualche incentivo per un contagio già dilagato per altre vie. Anche perché in tutta la Lombardia i positivi trasferiti in Rsa sono stati solo 158, di cui appena 18 in una sola struttura di Milano. Al Trivulzio ad esempio, il 15 marzo, entrano 20 pazienti negativi dall’ospedale di Sesto San Giovanni. Alcuni di questi poi si riveleranno infetti: ma in quel momento, all’interno del Pat, ci sono già 51 pazienti in osservazione con sintomi del coronavirus.

Dove erano le istituzioni quando si chiedevano i tamponi? Un gruppo di geriatri ha deciso di raccontare quando e perché è scoppiata la pandemia nelle Rsa. Claudio Marincola il 22 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Le case di riposo lanciavano un grido d’aiuto, chiedevano dispositivi, istruzioni, infermieri, personale specializzato, tamponi,  e per tutta risposta dalla Regione Lombardia arrivavano solo indicazioni generiche e in allegato le linee guida per la dolce morte, la sedazione terminale. È successo anche questo. Nelle Rsa si entrava vivi, in certi casi camminando sulle proprie gambe, e si usciva dentro una bara. Il libretto di istruzioni diffuso dall’Ats lombarde si concludeva con l’ultima procedura. Il passaggio da malato Codiv-19 a caro estinto. Un gruppo di geriatri in servizio presso la Fondazione Castellini di Melegnano, una grande residenza sanitaria che ospita 365 persone fragili, ha deciso di raccontare tutto. A differenza di tante serie televisive di successo non è frutto di fantasia. Persone realmente esistenti, ogni riferimento è voluto, certificato con nome e cognome: Irene Pelliccioli, Giulia Maria Antonietti, Lorenzo Chiesta, Chiara Nodari, Benedetta Panni Serena Sarra, Rosaria Torchetti e Barbara Vitaloni, gli 8 firmatari. Si ricostruisce per filo e per segno come, quando e perché, è scoppiata la pandemia da Coronavirus. E in che modo le Rsa sono diventate scialuppe alla deriva tra i marosi.

LA  DELIBERA ASSASSINA. L’atto d’accusa più pesante riguarda la delibera XI/3018 varata della giunta regionale lombarda lo scorso 30 marzo. Si stabiliva che per i pazienti di età superiore ai 75 anni e in presenza di situazioni di precedente fragilità, nonché presenza di più comorbilità, era opportuno che le cure venissero effettuate presso la stessa struttura per evitare ulteriori rischi di peggioramento dovuti al trasporto e all’attesa al Pronto soccorso e che a tali ospiti nel caso di bassa saturazione si sarebbe dovuto somministrare ossigeno terapia. «Ma di cosa stiamo parlando – scrivono gli 8 medici – non solo ci dicono che è opportuno non mandare i nostri pazienti in ospedale, cosa eticamente discutibile ma addirittura ci suggeriscono ovvietà come quella di somministrare ossigenoterapia e ci allega le procedure per la sedazione palliativa e terminale? Come se queste procedure non le conoscessimo già, siamo geriatri, da anni gestiamo un Hospice interno alla Fondazione».

Le Ras sono un concentrato di popolazione a rischio.

«Tutti si sono dimenticati di noi tranne accorgersene adesso che, chissà come mai, molti anziani sono deceduti. Dove erano le istituzioni mentre chiedevano i tamponi che non ci venivano dati se non con il contagocce? Dove erano quando i nostri impiegati degli uffici acquisti spasmodicamente cercavano di procurare per noi mascherine e dispositivi di protezione introvabili? Quando venivano bloccati per essere destinati agli ospedali?».

E ancora: «Dov’erano le istituzioni quando i nostri colleghi si sono ammalati prestando servizio ai nostri pazienti? E dov’erano quando sono scoppiati i focolai nei nostri reparti e siamo stati lasciati soli a gestire la “nostra” emergenza?».

Dinanzi a questa lunga serie di domande, alle quali un giorno si dovrà dare risposta, l’arrivo dei Nas, l’apertura di fascicoli in Procura, suonano come l’ennesima beffa.

«Perché non ci hanno fornito una formazione specifica o non ci hanno inviato degli infettivologi? Perché non vengono a vedere con quanta cura oggi affrontiamo tutti gli aspetti della malattia. Perché non ci sono solo la febbre o l’insufficienza respiratoria, quando passa la fase acuta restano la debolezza e l’inappetenza, altrettanto pericolose per un organismo anziano e malato. Perché non vengono a vedere le strategie che inventiamo per far mangiare i nostri malati?».

Le inchieste della Procura vedono coinvolte ormai una ventina di strutture. C’è chi come il Codacons, l’associazione che difende i diritti dei lavoratori, in queste ore parla di responsabilità dolose e chiede l’arresto dei responsabili. Il primo passo sarà la presentazione di un esposto contro la Fondazione Don Gnocchi dove ieri la Finanza ha condotto una perquisizione. E siamo solo all’inizio. Mentre in molte strutture si continua a lavorare senza la certezza di essere negativi.  

«Certo che tra noi medici ci potrebbero essere positivi, non lo sapremo finché non ci faranno il tampone».

Ma non era la prima cosa da fare, scusi?

«I primi ce li hanno dati dopo un mese che li avevamo richiesti, quando sono finiti ci hanno risposto…arrangiatevi voi, prendeteveli da soli se ci riuscite», spiega la dottoressa Irene Pelliccioni, la prima firmataria della lettera aperte.  Come i suoi colleghi ha deciso di metterci la faccia, aprendo quel cancello ormai chiuso da quasi due mesi.

GALLERA ASPETTA I TECNICI. I lutti hanno riguardato le case di riposo per anziani in tutta Europa. Ma in Lombardia si è toccato un tasso di mortalità elevatissimo. Come mai? «I tecnici ci diranno come sono andate le cose, quali sono state le mancanze, le difficoltà e come lavorare nel futuro – è la risposta dell’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera – Noi abbiamo voluto nominare una commissione indipendente proprio per fare chiarezza. Altre regioni hanno adottato la stessa strategia, è un problema che va affrontato in maniera strutturata, forse dovremo pensare a delle strutture con una qualità sanitaria molto più alta per autosufficienti se dovremo vivere con il Covid-19».     

Da milano.repubblica.it il 13 maggio 2020. La procura di Brescia ha  aperto un'inchiesta sui 1.600 decessi avvenuti nelle 84 Aziende di tutela della salute bresciane durante l'epidemia di coranavirus. I pm partono da 60 esposti, per la metà presentati da associazioni. Le indagini, coordinate dalla procura e condotta da Nas e Ats è  iniziata con la raccolta di documentazione. Gli stessi problemi hanno sostanzialmente riguardato anche la provincia di Bergamo. E non a caso i Nas di Brescia, competenti sulla Bergamasca, sono al lavoro anche nella provincia confinante con il Bresciano. Fino a questo momento non è stata depositata una relazione definitiva e complessiva da parte dei Nas. Il lavoro dei carabinieri ha portato a 19 relazioni preliminari mentre i fascicoli sono tutti aperti contro ignoti. I Nas hanno acquisito documentazione in diverse Rsa e vi sarebbero già stati anche degli interrogatori.

"Mettete i casi Covid nella rsa?". La scelta che imbarazza il Pd. A Cremona boom di decessi nelle case di riposo. Perquisizioni nelle Rsa, indagano le procure. Il caso dell'azienda del Comune dem: ospitati i pazienti Covid esterni. Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini, Venerdì 15/05/2020 su Il Giornale. Anche una struttura di Cremona ha accolto pazienti Covid-19 dimessi dagli ospedali lombardi. Detta così può sembrare una storia come un'altra, forse simile all'ormai noto "Pio Albergo Trivulzio", se non fosse che la Cremona Solidale è un’Azienda speciale comunale il cui Cda viene nominato dal primo cittadino sostenuto dal Pd. E se non fosse che il sindaco in questione si chiama Gianluca Galimberti, esponente di rilievo del centrosinistra regionale, tra i firmatari ad inizio aprile di una lettera di fuoco contro Attilio Fontana e la gestione lombarda dell'emergenza. La vicenda ha origine dalla deliberazione emessa dalla Regione Lombardia l'8 marzo di quest’anno, nel pieno del collasso ospedaliero da coronavirus. Per alleggerire la pressione sui nosocomi, il Pirellone chiede ad Rsa e strutture sanitarie (su base volontaria) di istituire reparti appositi in cui ospitare pazienti stabilizzati in via di guarigione. La nota passa sotto traccia finché non esplode il caso della Baggina (è il 4 aprile) e la giunta viene accusata di aver spedito infetti al fianco degli anziani, provocando l'ingresso del virus nelle strutture assistenziali. Tra i più critici c’è ovviamente il Pd locale, che cavalca la polemica e per bocca del segretario regionale, Vinicio Peluffo, afferma: "È stato come buttare un cerino in un pagliaio". In pratica una strage. In quei giorni il sindaco di Cremona va a Porta a Porta e in un faccia a faccia con Fontana lamenta la mancanza di "strategia" sulle Rsa regionali. Intanto però anche nelle strutture cittadine il contagio dilaga e miete vittime. Come in tutta Italia. Alla Cremona Solidale a metà aprile si calcolava un +165% di decessi rispetto all'anno scorso. Tanto che anche la procura sta indagando sui decessi avvenuti "in numero eccezionale". "A un certo punto", racconta Saverio Simi, consigliere di Forza Italia, "un amico mi segnala che dall'ospedale gli avevano chiesto se era d'accordo a inviare un parente nella struttura in questione". L'opposizione allora inizia a domandarsi: non è che nell'azienda comunale hanno accolto pazienti Covid esterni? Il 18 aprile Cremona Solidale pubblica un dettagliato comunicato in cui assicura che "in sintonia con l’Amministrazione comunale abbiamo deciso, dopo le necessarie verifiche ed approfondimenti, di non rispondere positivamente alla richiesta che Regione Lombardia ha fatto di accogliere nelle palazzine delle Rsa pazienti Covid dimessi da altre strutture". Poi però in un secondo fumoso passaggio precisa che occorre fare un "discorso diverso" per la l'are "deputata alla Cure Intermedie, in cui - già ora ed a seguito dei tamponi eseguiti – è stato attivato un nucleo speciale Covid". Cosa significa? Quell'area è dedicata solo agli infetti interni o hanno accolto soggetti positivi dall’esterno? La questione può apparire secondaria, ma non lo è dal punto di vista politico. Se così fosse, l'azienda su cui il Comune (a guida Pd) ha compiti di "indirizzo" e "vigilanza", avrebbe seguito la tanto criticata (dallo stesso Pd) direttiva di Gallera&Co. Un cortocircuito. I nodi arrivano al pettine pochi giorni dopo. "Il 21 aprile in Ufficio di Presidenza al sindaco chiesi se all'interno della struttura venivano ricoverate persone provenienti da strutture sanitarie della città e mi fu risposto di no, che si sarebbe valutato in futuro", racconta Carlo Malvezzi, capogruppo di Forza Italia. "Poi nove giorni dopo ad un'altra riunione il direttore generale di Cremona Solidale ci ha invece spiegato che già dal 31 marzo erano arrivate due persone dall'esterno, poi diventate 13 dopo un mese". Le date sono importanti. "La delibera di Regione Lombardia - ricostruisce Malvezzi - è uscita l'8 di marzo. Il 9 di marzo il Cda ha fatto un consiglio nella quale sostanzialmente ha aperto alla prospettiva di accogliere all'interno della struttura socio sanitaria persone Covid positive. Tanto è vero che l'11 di marzo la direzione di Cremona Solidale ha incontrato i referenti della Asst per valutare la possibilità di accogliere all'interno della struttura persone positive". Da lì la "disponibilità ad accogliere" infetti esterni. "Nessuno critica la scelta della direzione - precisa Malvezzi - Ma il sindaco si è trovato prigioniero della sua campagna contro la Regione mentre veniva smentito dall'atteggiamento degli amministratori che lui stesso ha nominato". Manco a dirlo, Galimberti e la minoranza danno una lettura diversa della questione. "I pazienti Covid provenienti dall'ospedale non sono nella Rsa - ha scritto su Fb Galimberti - Ci siamo sempre opposti a questa richiesta di Regione Lombardia e così è stato. Alcuni pazienti Covid dimessi dall'ospedale sono nella palazzina delle cure intermedie, gestita sempre da Cremona Solidale, ma struttura diversa, sia fisicamente sia come funzione". Lo specchio è scivoloso. Lo stabile in questione, infatti, è sì separato da quello dell'Rsa, ma - per dirla con le parole del capogruppo Pd Roberto Poli - si trova "nello stesso contesto". Questione di lana caprina, insomma. "Noi abbiamo condiviso la scelta di acconsentire il passaggio di pazienti che andassero lì e soltanto lì - spiega il consigliere dem - in una struttura specifica a sé stante e con protocolli specifici e preso atto che purtroppo c'erano già tantissimi pazienti positivi, quindi il reparto non era più Covid free". Anche l'azienda precisa che è esclusa "qualsiasi commistione con gli ospiti delle RSA". Ma non è questo il punto. Perché creare una sezione a parte è proprio quanto auspicato dalla Regione nella tanto criticata delibera. Il Pirellone non ha mai invitato nessuno a mescolare anziani e infetti, anzi: chiedeva alle Rsa di mettere a disposizione “strutture autonome dal punto di vista strutturale e organizzativo”. Proprio come fatto dall’azienda del Comune Pd.

Trivulzio, mare di esposti ma indagini difficili. L'ultimo sospetto: morti nascoste ai parenti. Oggi sentiti i primi testimoni. C'è chi vuole l'accusa di epidemia volontaria. Luca Fazzo, Lunedì 20/04/2020 su Il Giornale. E adesso nel giallo del Pio Albergo Trivulzio salta fuori una nuova pista: quella secondo cui alle decine e decine di decessi comunicati improvvisamente ai familiari di anziani ospiti, dopo giorni in cui erano stati lasciati senza notizie, ne andrebbero aggiunti altri. Alcune morti, nel marasma più totale in cui il più famoso ospizio milanese è precipitato sotto l'emergenza Covid-19, sarebbero state taciute per giorni ai parenti, che solo dopo insistenze e che con comprensibile incredulità hanno saputo che il loro caro era scomparso. Non saranno facili, i primi passi dell'inchiesta giudiziaria sul Pat che oggi entra nel vivo, con gli interrogatori - rigorosamente in videoconferenza - dei primi testimoni. Le indagini coordinate dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano scontano grandi difficoltà tecniche, le comunicazioni avvengono solo per telefono o per mail, il materiale acquisito spesso è così pesante da venire rimbalzato dai server. E tutto questo mentre ci si muove in un contesto come quello del Trivulzio dove il caos è tale per cui individuare i dettagli dei reati è faticoso. Sia quando si cerca di ricostruire il percorso clinico di ognuno dei 190 ospiti deceduti dall'inizio di marzo. Sia nella analisi - che è in questo momento il terreno più delicato - dei provvedimenti di smistamento al Pat e in altre strutture di pazienti Covid e ex Covid, in applicazione della delibera regionale dell'8 marzo. A chi spettasse controllare il rispetto delle norme di sicurezza nelle Rsa che accoglievano i malati è ancora oscuro, anche se la Regione ha chiamato in causa l'Ats, l'azienda sanitaria territoriale. Anche per vedere più chiaro su questo versante, la Procura è tornata nei giorni scorsi a spedire la Guardia di finanze negli uffici dell'assessorato regionale al Welfare, già oggetto di una prima visita mercoledì scorso. Districarsi per gli inquirenti non sarà facile. Come non sarà districarsi tra la massa di esposti che in questi giorni stanno piovendo sul tavolo dei pm. Dentro c'è di tutto, storie di morti inspiegabili ma anche racconti di pazienti che sono tuttora in vita, non hanno elementi per sostenere di essere affetti da coronavirus ma che comunque denunciano di essere stati lasciati privi di comunicazioni chiare. La scelta dei primi testimoni da interrogare stamattina farà capire quale scaletta di priorità si sono dati gli inquirenti. Certamente, la scelta di contestare ai vertici del Pat e delle altre case di riposo sotto inchiesta il pesante reato di epidemia colposa fa capire che la Procura è destinata a muoversi con determinazione. Ma tra i familiari di alcune vittime c'è chi ritiene che l'accusa non sia sufficientemente pesante, e che soprattutto per le omissioni dalla fine di marzo andrebbe contestata l'epidemia volontaria, un reato da ergastolo: che già in passato era stato attribuito agli imputati nel processo per il plasma infetto. Alla fine vennero tutti assolti.

Coronavirus, pazienti smistati, accuse al Trivulzio: “Non controllava se erano contagiati”. Le Rsa lombarde contro la Regione “Gestione caotica”. E puntano il dito sugli errori del Pio Albergo, Gianluca De Feo il 25 aprile 2020 su La Repubblica. No, non siamo colpevoli per la strage degli anziani: siete voi che ci avete abbandonato. E continuate a farlo da due mesi, mentre la situazione sta diventando disperata. Di fronte allo scaricabarile dei vertici della Regione, le sette associazioni principali che gestiscono le residenze per la terza età lombarde replicano con un documento durissimo. Una lettera inviata il 20 aprile al presidente Attilio Fontana e all’assessore Giulio Gallera, ma trasmessa per conoscenza pure alla Protezione Civile nazionale. Con l’appello a intervenire il prima possibile. Perché decine di migliaia di persone deboli non ricevono ancora aiuto dalle istituzioni che dovrebbero proteggerle. “Il modo di agire di Regione Lombardia ha fatto emergere le vulnerabilità di un sistema che ancora non considera in modo appropriato i bisogni delle diverse fragilità”.

Il testo - firmato dai responsabili lombardi di Agespi, Anaste, Aris, Arlea, Anffas, Aci Welfare, Uneba - contiene anche elementi rilevanti per le indagini della magistratura. Si parla infatti dei trasferimenti di pazienti dagli ospedali alle case di cura private, varati l’8 marzo dalla giunta Fontana. E viene accusata la Centrale Unica Trasferimenti, affidata al Pio Albergo Trivulzio: “Non ha mai funzionato perfettamente e tutt’ora non è a regime: non tutti gli ospedali si sono registrati e chi lo ha fatto, spesso, in fase di dimissione non effettua il tampone, necessario per l’invio in sicurezza in una Rsa”. Una circostanza gravissima, che dovrà essere valutata dai pubblici ministeri: pazienti potenzialmente contagiati sono stati mandati senza controllo tra gli anziani. Bombe batteriologiche inserite nei padiglioni che ospitano le persone più esposte al morbo. E non si tratta di eccezioni: “Segnaliamo diversi episodi in cui si sono inviati in struttura ospiti negativi al Covid (e come tali sono stati accettati dalle residenze) senonché immediatamente si sono rivelati positivi al coronavirus, senza che poi le Ats provvedessero alla necessaria ospedalizzazione”.

La risposta delle Ats, le Aziende tutela salute che governano la sanità lombarda, in due mesi sembra sempre la stessa: arrangiatevi. Assieme alla Regione, hanno gestito la crisi in modo caotico, con ordini confusi e contradditori: “Si deve purtroppo costatare che, in queste otto settimane, abbiamo assistito al moltiplicarsi di mail, note, circolari, linee guida, a volte contrastanti tra di loro e/o con le disposizioni del governo centrale o di ritorno su precedenti decisioni o ad interim”. L’effetto è stato quello di non fornire “i necessari presupposti al lavoro in sicurezza e a tutela della salute di ospiti e operatori”. E citando le stesse regole della Regione, viene ricordato che non spetta alle residenze per anziani fronteggiare le epidemie: è una prerogativa delle Ats. Che però di fronte alle esigenze concrete, non hanno fornito soccorso. E’ accaduto per le mascherine e le tute protettive: “rispondendo, a distanza di giorni, con forniture una-tantum e in quantità assolutamente insufficienti”.

Ancora più grave il caso dei tamponi: “Nei giorni scorsi le Ats hanno scritto ai gestori trasmettendo, ciascuna, le proprie procedure di approvvigionamento, effettuazione e processo dei tamponi: procedure molto diverse nei tempi e nei modi, che si sono susseguite rapidamente, spesso contraddicendo e confutando quanto comunicato poche ore prima, fino ad arrivare a comunicare la necessità di acquistare a spese proprie i tamponi necessari e prendere accordi con i singoli laboratori per le analisi”. Le strutture private devono mettersi da sole alla ricerca di soluzioni difficilissime da trovare mentre i ricoverati cadono vittima del Covid 19. Per questo i gestori minacciano di rivolgersi alla magistratura: è il servizio pubblico che deve garantire i tamponi.

L’assenza di test sta creando un altro problema: “Sono molti i lavoratori che hanno terminato il periodo di quarantena ma impossibilitati a riprendere servizio perché non chiamati ad eseguire il tampone”. Oltre a quelli costretti a casa dal morbo, altri medici e infermieri si licenziano dai centri di cura privati per accettare le assunzioni d’urgenza negli ospedali pubblici. E così gli anziani restano sempre più soli. “Tutte le strutture sociosanitarie sono in gravissima difficoltà. La proporzione di operatori in servizio, nelle sole Rsa, è ridotta al 40-50% e per altre strutture anche a meno. Complessivamente, si tratta di 25-30.000 operatori (medici, infermieri, asa/oss, e altre figure professionali) oggi assenti nella sola rete per anziani e persone con disabilità. Ciò implica che, al di là delle esigenze collegate al Coronavirus, la qualità e quantità di assistenza che può essere garantita ai residenti è ormai critica”.

C’è un provvedimento contro cui si focalizza il j’accuse. La delibera regionale del 30 marzo, che “sconsigliava” i trasferimenti in ospedale dei malati più anziani colpiti dal virus ma prometteva il supporto clinico delle strutture regionali “infettive, pneumologia, terapia del dolore e cure palliative”. Questo sostegno – scrivono i gestori delle Rsa – non c’è stato: ancora una volta, sono state costrette ad arrangiarsi. Ma l’ultima circolare del Ministero della Salute prevede che i pazienti contagiati e anche quelli che mostrano sintomi sospetti debbano venire ricoverati in ospedale. Cosa che in Lombardia non sta avvenendo. “In altre parole, le Rsa dovrebbero, ai primi sintomi di patologia acuta, provvedere all’invio negli ospedali degli ospiti attraverso corsie preferenziali e dedicate. Se si ritiene di trovarsi in un periodo di difficoltà generalizzata per cui non è possibile farlo, ne prendiamo atto, diamo la nostra disponibilità entro limiti da concordare insieme, ma certamente non è accettabile che ci vengano attribuite responsabilità a riguardo”.

Dal 20 febbraio al 15 aprile nelle 57 residenze per anziani presenti nella città di Milano sono morte 1.199 persone per sospetto Covid e 490 di Covid accertato: un bilancio terribile. Per questo bisogna mettere da parte le polemiche, finirla con le interviste scaricabarile e trovare rimedi: “Permangono ad oggi ancora troppe questioni aperte che richiedono un intervento prioritario da parte di Regione Lombardia, non più procrastinabile, che deve essere incentrato sulla reale congiuntura in atto, purché espressa da chi la vive in prima linea piuttosto che su interpretazioni a tavolino o finanche su servizi dei media. Chiediamo l’urgente costituzione di un tavolo di lavoro con Regione Lombardia e Protezione Civile al fine di delineare percorsi e soluzioni in linea con l’evoluzione dei problemi”. Già, tutta Italia pensa alla Fase 2, ma nelle Rsa si combatte ancora il dramma dell’epidemia.

(ANSA il 24 aprile 2020) - Ci sono nuovi indagati tra i vertici e responsabili del Pio Albergo Trivulzio, oltre al dg Giuseppe Calicchio, nell'inchiesta per epidemia e omicidio colposi della Procura di Milano.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 24 aprile 2020. L'ordine è arrivato mercoledì pomeriggio alle cinque: «Spostare al padiglione Grossoni un paziente del Bezzi e quattro del Ronzoni». Al Pio Albergo Trivulzio, dove da quando è esplosa l'epidemia di coronavirus sono morti più di 200 anziani e un numero imprecisato di pazienti è positivo (30 solo nei primi giorni di test effettuati da 17 aprile), continua il trasferimento degli ospiti da un reparto all'altro. Risultato: «Chi fino a questo momento è riuscito a scampare all'infezione non verrà risparmiato», denuncia un'infermiera. Nella chat degli operatori sanitari, la collega che si è occupata dello spostamento ha postato un messaggio vocale nel quale non riusciva a trattenere le lacrime: «Gli anziani del Ronzoni sono disorientati, frastornati. Una ha la nutrizione artificiale con la Peg, un'altra la cintura di sicurezza. Non capiscono dove si trovano, sono spaesati». Ma soprattutto ora sono tutti a rischio contagio. Il Grossoni, reparto di cardiologia, aveva diciassette degenti, tutti negativi. I nuovi arrivati sono stati sottoposti solo al primo tampone, nessuno sa se siano portatori del virus. «Di certo chi era al Ronzoni è stato a contatto con positivi, poiché in quel padiglione ci sono casi accertati», afferma un operatore sanitario. «Dai dati che ci forniscono i familiari dei pazienti, il numero degli anziani positivi al Covid-19 è elevato. Per fermare la diffusione del virus ed evitare altre morti chiediamo il commissariamento della struttura», annuncia Alessandro Azzoni del Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio. Proprio sul rispetto delle norme di sicurezza stanno lavorando in queste ore i magistrati, per ricostruire la catena di disposizioni e comunicazioni tra Regione Lombardia, Agenzie di tutela della salute (le ex Asl) e Trivulzio, per accertare chi abbia preso le decisioni, come sono state interpretate e applicate. Si tratta di una complessa analisi di incrocio di tutti i documenti (anche mail e messaggi) raccolti nelle perquisizioni e acquisizioni (compresi gli uffici della Regione e dell'Ats di Milano) effettuate dal Nucleo di polizia economico finanziaria della gdf. Un'attività, come è stato chiarito, che servirà alla Procura per avere un quadro preciso sull'operato di Regione, Ats e Pio Albergo sui vari fronti aperti: l'uso delle mascherine, l'esecuzione dei tamponi, la possibilità di ingresso dei parenti nelle strutture, il trasferimento dei pazienti dagli ospedali, gli spostamenti interni dei malati tra i reparti, l'uscita di malati verso gli ospedali, le disposizioni al personale. In più, il pool guidato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha disposto un monitoraggio costante con acquisizioni di dati delle morti che aumentano di giorno in giorno nelle varie residenze per anziani di Milano, con più di 20 i fascicoli aperti. Nonostante tutto, l'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera difende la direttiva dell'8 marzo con la quale il virus ha conquistato il Trivulzio: «La rifarei per il bene dei miei concittadini». Il problema, dice, è l'inadeguatezza delle strutture: «I controlli ci sono stati, le Ats avevano il compito di sorvegliare e stiamo verificando. Il requisito era avere palazzine separate per i pazienti positivi in arrivo dagli ospedali e personale dedicato. È chiaro che, forse, quello delle Rsa è un modello che, per la gestione dei pazienti Covid, non aveva le capacità di farlo».

Accuse alla Regione Lombardia dalle Rsa di Brescia. «Ci hanno obbligati a riaprire le strutture». «Siamo stati lasciati soli a gestire la nostra emergenza, per noi introvabili mascherine e dispositivi di protezione» Irene Panighetti il 22 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Piovono accuse al governo della Lombardia provenienti da operatori sanitari e dirigenti di strutture sanitarie e delle Rsa lombarde; sono accuse dure come pietre e ormai pressoché quotidiane: particolarmente amara e feroce è quella di Bruno Guarneri, direttore sanitario di tre Rsa nel bresciano, nonché neurofisiopatologo dell’Ospedale Civile di Brescia il cui j’accuse si somma alla testimonianza da noi pubblicata ieri della direttrice di una struttura lombarda che, probabilmente ammalata, deve continuare a lavorare, sentendosi totalmente abbandonata dalla Regione. Al loro fianco nel puntare il dito ci sono anche i presidenti di sei associazioni lombarde, i quali hanno dettagliato in una lettera errori e leggerezze della giunta guidata da Attilio Fontana. Guarneri aggiunge un grave tassello al drammatico mosaico della strage di ospiti dei ricoveri per anziani della Lombardia: «Dopo Codogno ho subito chiuso le tre Rsa che dirigo ma la Regione ha detto di riaprire», ha dichiarato il direttore delle realtà di Barbariga, Orzivecchi e Orzinuovi, accorpate in Fondazioni Riunite Onlus Bassa Bresciana Occidentale. E Orzinuovi non è un paese qualsiasi poiché, insieme ad Alzano e Nebro, è stato uno dei primi focolai di Covid-19 e una delle “mancate zone rosse” tempestive: il 25 febbraio in questo paese della Bassa bresciana è stato attestato il primo caso di Covid-19 e nei giorni successivi si è presentato un crescendo di contagi. La pericolosità della zona era stata certificata sin dal 2 marzo dalla nota che il Comitato tecnico-scientifico nazionale aveva inviato ai governi nazionale e regionale, e che era stata ignorata. Il 22 febbraio, subito dopo la diffusione della notizia dei casi a Codogno, Guarneri aveva deciso di chiudere le sue strutture ma, dopo tre giorni, ha dovuto tornare sui propri passi in seguito ad una delibera regionale secondo cui Rsa e centri diurni per anziani dovevano restare aperti, seppur con visite contingentate. «Chiudere ci è sembrata una decisione ovvia e scontata, visto che non facevano altro che ripetere che gli anziani erano la categoria più a rischio. Anche l’ordinanza emanata dal sindaco di Orzinuovi prevedeva, tra l’altro, la chiusura della Rsa: i parenti non potevano più accedere, se non per casi eccezionali. Chiuso anche il centro diurno, che era il più rischioso per la diffusione del contagio, visto che gli anziani, una volta svolte le attività, tornano a casa dalle rispettive famiglie – ha raccontato Guarneri a diversi media bresciani – peccato che, dopo tre giorni, la Regione ci ha obbligato a fare marcia indietro. Si ventilava che, se ci fossimo opposti alla decisione della Regione, ci sarebbe stato tolto l’accreditamento. Ats non era d’accordo con questa scelta del Pirellone, a quanto ho potuto capire, ma anche loro hanno dovuto adeguarsi, dato che le indicazioni arrivavano dai piani alti». Il direttore ha dipinto una panoramica desolante ma assai realistica della situazione di quei giorni, dalla quale emerge ancora una volta ciò che ormai è denunciato da più parti: le Rsa non erano in grado di restare aperte in sicurezza, per lo meno non tutte. «Noi ci eravamo già attrezzati in precedenza, dotandoci di mascherine e guanti per il personale medico e infermieristico, ma non per i parenti: se volevano entrare, dovevano prima procurarsi da soli i dispositivi di protezione. Dal 6 marzo abbiamo cominciato a cercare, e comprare di tasca nostra, camici, mascherine ffp2 e ffp3, occhiali, visiere e altri guanti, grazie al permesso del nostro presidente di spendere oltre 15mila euro in dispositivi di protezione individuale. Fino alla scorsa settimana i tamponi ai nostri ospiti non sono mai stati fatti, tranne ad un anziano che era ricoverato in ospedale. Mano mano che si ammalavano cercavamo di isolare i casi sospetti. Abbiamo separato i sintomatici dagli asintomatici: in buona sostanza, abbiamo creato un reparto infettivi all’interno delle nostre strutture per contenere il contagio. Abbiamo potuto farlo perché possiamo contare su degli operatori fantastici: i nostri medici e infermieri non si sono mai tirati indietro». Per medici e infermieri i tamponi sono iniziati dal 17 marzo, ma solo per chi presentava sintomi sospetti; «ora tutto il nostro personale è negativo al Covid-19 – ha garantito Guarneri – tra gli ospiti registriamo due casi a bassa intensità all’interno della casa di riposo di Orzinuovi, uno a Orzivecchi e uno a Barbariga. Non sono in condizioni critiche e aspettiamo che i loro tamponi, effettuati una quindicina di giorni fa, diventino negativi. Ma oggi ho nuovamente chiesto che tutti gli ospiti, anche quelli asintomatici, vengano sottoposti al tampone». In merito ai decessi nelle sue tre strutture dall’inizio dell’emergenza ad oggi, ha reso noto che a «Barbariga nel mese di marzo sono morti 12 ospiti, a cui se ne sono poi aggiunti altri 2. Nella Rsa di Orzivecchi si sono registrati 4 decessi e tutti per cause naturali, difficilmente riconducibili al Corona virus. Mentre ad Orzinuovi sono deceduti 24 anziani dei 111 ospitati: 8 in più rispetto all’anno passato». Nel contesto attuale il direttore ha messo a disposizione le sue strutture per accogliere pazienti che non sono stati toccati dal Coronavirus ma da altre patologie e che necessitano di una degenza per la convalescenza. La stessa offerta era arrivata dopo la delibera dell’8 marzo, la quale tuttavia chiedeva però di ospitare malati Covid-19 nelle Rsa: «mi sono rifiutato e non ne sono arrivati; però abbiamo aperto per altri malati e lo riproponiamo anche oggi: abbiamo posti liberi ma chiediamo vengano eseguiti i tamponi diagnostici su tutti i vecchi e nuovi ospiti e su chi li assiste».

"Anziani messi con i malati di Covid". La denuncia nelle rsa del Lazio. Poche mascherine e tamponi in ritardo. La strage nelle rsa del Lazio: "Nessuno parla perché è una regione del Pd". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Lunedì 20/04/2020 su Il Giornale. Un massacro silenzioso, che sta spazzando via un’intera generazione. È nelle case di riposo che il virus si diffonde di più. E così quelli che dovevano essere luoghi sicuri per migliaia di anziani si sono trasformati in gironi infernali. Secondo i dati dell'osservatorio dell'Iss sulle Rsa, dal primo febbraio al 14 aprile, nelle residenze per anziani e case di riposto italiane sono morte 6773 persone. In cima alla triste classifica ci sono Lombardia, Veneto e Piemonte. Ma il Lazio non fa eccezione. Gli anziani positivi al Covid o con sintomi influenzali finora sono 147. E i focolai nelle case di riposo si moltiplicano di giorno in giorno. L’ultimo comune ad essere blindato, nella giornata di sabato, è stato quello di Campagnano. Nel centro di riabilitazione Santa Maria Del Prato, su 105 ricoverati quasi la metà sono risultati positivi al coronavirus. Tra gli infettati ci sono anche 28 operatori, su un totale di 61 unità. Numeri che potrebbero crescere ulteriormente nelle prossime ore, visto che la struttura si trova accanto a case e palazzi. In totale, nelle case di riposo del Lazio si stima che possano essere state colpite dal virus da 450 a 500 persone. A fare da apripista sono state la Rsa Madonna del Rosario, di Civitavecchia, e la casa di cura San Raffaele di Cassino. Poi è stata la volta della casa di riposo Giovanni XIII di via di Vallerano, a Roma, e delle Rsa di Veroli, nel Frusinate, e Nerola, in provincia di Roma. In questo comune di neppure duemila abitanti a nord della Capitale il 25 marzo scorso è arrivato l’esercito. Il 22 dello stesso mese nella casa di riposo Santissima Maria Immacolata era stato scoperto il primo paziente positivo. Nel giro di qualche giorno i contagiati diventano 72 e tra gli ospiti positivi, poi trasferiti alla Nomentana Hospital di Fonte Nuova, ci saranno almeno quattro decessi. Sabina Granieri, sindaco di Nerola al suo terzo mandato, guarda indietro a quei venti giorni di isolamento: "Neppure quando siamo stati dichiarati zona rossa qui sono arrivate le mascherine". "Ce n’erano pochissime e non adatte, e anche ora che l’emergenza è passata abbiamo dovuto acquistarle di tasca nostra", ci racconta la prima cittadina. Anche l’osservatorio dell’Iss sulle Rsa classifica la mancanza di dispositivi individuali di protezione come la principale difficoltà da affrontare nel corso dell’epidemia che ha colpito il nostro Paese. "L’assenza di dpi che si è registrata nella fase iniziale dell'emergenza ha aiutato non poco queste strutture a diventare veri e propri lazzaretti", denuncia Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fratelli d’Italia. "Ci sarebbero volute molte più mascherine – osserva - possibilmente certificate". A far discutere è anche la decisione presa a fine marzo dalla Regione Lazio di "accogliere pazienti Covid positivi che non necessitano di ricovero in ambiente ospedaliero" nelle residenze per anziani del territorio. "È quello che è accaduto alla Nomentana Hospital, la Rsa che aveva già 22 ospiti positivi dove sono stati trasferiti anche i 49 anziani contagiati a Nerola", spiega un altro consigliere di Fratelli d’Italia, Giancarlo Righini. "In generale – ci dice – si tratta di una decisione folle e non priva di rischi". "Infatti – aggiunge - nei giorni successivi al trasferimento si sono infettati altri pazienti, oltre a 29 operatori". "In questo caso però – prosegue Righini - nessuno ha battuto ciglio perché non siamo in Lombardia ma nella regione governata dal leader del Pd". Dall'assessorato alla Salute del Lazio però sottolineano di aver agito sotto la supervisione del Seresmi-Istituto Spallanzani e di aver creato Rsa Covid proprio per evitare "promiscuità ed ospitare solo pazienti positivi che non necessitano di cure ospedaliere". "Ma in strutture come la Nomentana Hospital, ad esempio, dove il nucleo Covid è distribuito su un piano dell'edificio - si domanda polemico Righini- come si può garantire l'isolamento totale del reparto?". Anche a Rocca di Papa, comune dei Castelli Romani, la casa di cura San Raffele è circondata dai blindati dell’esercito. In questa clinica, una di quelle dove il virus ha trovato terreno fertile, le richieste di forniture di Dpi alla Regione risalgono all'inizio di marzo. Sono rimaste inevase, e così la struttura ha provveduto ad acquistarle di tasca propria. "Le abbiamo acquistate autonomamente a prezzi esorbitanti ed abbiamo cercato di fare più prevenzione possibile", spiega Antonio Vallone, amministratore delegato del San Raffaele e presidente di Unindustria Sanità. Dalla struttura, dove si sono ammalati 149 degenti e 30 operatori, assicurano di aver utilizzato tutte le accortezze del caso. Il 31 marzo, infatti, la casa di cura scrive alla Asl Roma 6 per chiedere di poter effettuare a proprie spese i tamponi sul personale sanitario e sui ricoverati. Proprio come indicato da una circolare del ministero della Salute datata 25 marzo. La risposta arriva otto giorni dopo ed è un "no". Una decisione "incomprensibile" secondo Vallone. Nel lasso di tempo che intercorre tra le due missive esplodono i contagi. Il 9 aprile sono due, il giorno successivo salgono già a 18, poi 86, fino ad arrivare a 149. Il Covid dilaga. "Noi - spiega - siamo un Irccs riconosciuto sia a livello regionale che nazionale, ci eravamo già dotati delle apparecchiature e delle professionalità per l'esecuzione dei test e invece ci è stata negata la possibilità di fare prevenzione e rintracciare gli asintomatici, che sono dei killer inconsapevoli". I risultati sono sotto gli occhi di tutti. "Si fa un gran parlare di prevenzione, si è detto e ridetto che gli anziani sono le categorie più a rischio, eppure ci si è ricordati delle Rsa solo adesso". In quegli stessi giorni diversi casi si registrano anche nella Rsa di Villa Giulia, nel territorio della Asl Roma 3, e nel reatino, dove è boom di contagi. Su quasi tutti i cluster scoperti all’interno delle case di riposo ora indagano le procure competenti, mentre la Regione ha istituito una commissione ad hoc “per svolgere gli audit di verifica del rispetto delle disposizioni impartite". Venerdì l’assessorato alla Sanità del Lazio ha predisposto un "giro di vite" su case di cura e strutture socio-assistenziali che disciplina il divieto per il personale di operare in più di un centro, l’obbligo del controllo di temperatura e saturazione in entrata e in uscita e una serie di controlli aggiuntivi da parte delle Asl. Misure che, però, rischiano di arrivare in ritardo. "Nessuno si è preoccupato, una volta informato della possibile epidemia, di stoccare i dpi e immaginare percorsi e procedure di salvaguardia per le fasce più fragili", attacca ancora Colosimo. “Era chiaro a chiunque che queste strutture rischiavano di essere delle bombe pronte ad esplodere, averlo sottovalutato e non averle isolate immediatamente è imperdonabile”.

Aumentano le vittime della "Domus Aurea": sono 24, morto un anziano con il coronavirus. Andrea Trapasso il 23 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Sale a 24 il numero delle vittime della casa di cura “Domus Aurea” di Chiaravalle. Nel pomeriggio di ieri al policlinico universitario “Mater Domini” di Catanzaro, si è spento un anziano di 92 anni, originario di Guardavalle, centro del Basso Jonio catanzarese. L’uomo era ricoverato nel reparto di Malattie Infettive dagli inizi di aprile, quando i pazienti infettati all’interno della Rsa furono trasferiti nelle strutture ospedaliere del capoluogo dopo alcuni giorni dalla scoperta del contagio. Nel focolaio della “Domus Aurea”, ricordiamo, erano risultati positive quasi 90 persone, tra anziani ricoverati e personale sanitario (29) proveniente da diversi comuni del comprensorio, a cui devono aggiungersi diversi altri contagi nell’ambito dei familiari degli stessi operatori.

Coronavirus, 102 casi in residenza anziani a Brindisi, tra ospiti e operatori sanitari. Si tratta di 59 ospiti della struttura e 43 operatori, mentre si attende l’esito di altri nove tamponi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2020. Un numero di 102 casi positivi al Coronavirus, quasi tutti asintomatici, è stato registrato all’interno di una residenza sanitaria per anziani di Brindisi, Il Focolare. Si tratta di 59 ospiti della struttura e 43 operatori, mentre si attende l’esito di altri nove tamponi. I numeri sono forniti dalla Asl di Brindisi. Il direttore generale, Giuseppe Pasqualone, ha spiegato che per il momento le persone contagiate, che non presentano gravi problemi di salute, si trovano all’interno della struttura dove vengono assistite da personale provvisto dei dispositivi di protezione individuale con percorsi dedicati e tutte le precauzioni previste dai protocolli. Si sta approntando, in via preventiva - ha spiegato - un piano di evacuazione per il ricovero, da attuare solo qualora la sintomaticità dell’infezione dovesse peggiorare. Sono previste nel pomeriggio comunicazioni sul caso del «Focolare» da parte del sindaco di Brindisi, Riccardo Rossi, che sta monitorando la situazione di concerto con le autorità sanitarie.

Coronavirus: “Papà è morto solo nella casa di riposo dopo 21 giorni di chiamate vietate”. Le Iene News il 13 aprile 2020. Francesca, infermiera, ci ha contattato per raccontare il dramma degli anziani in alcune case di riposo. “Noi pagavamo tremila euro al mese per assistere mio padre, malato di Alzheimer. Di assistenza ne ho vista poca: non ho potuto vederlo e sentirlo per tre settimane nemmeno al cellulare, poi venerdì scorso mi hanno comunicato la morte: sospetto Covid-19”. In Italia stanno scomparendo centinaia di anziani per coronavirus nelle case di riposo che sono diventate a volte veri focolai dell’epidemia. In alcuni casi muoiono soli come Pietro, il padre di Francesca che ci ha contattato da Trieste (entrambi i nomi sono d fantasia). Pietro, 77 anni, soffriva di Alzheimer. “Pagavamo tremila euro al mese per la sua assistenza in casa di riposo: di assistenza ne abbiamo visto poca, soprattutto all’ultimo”, dice al telefono a Iene.it. “E guardi che capisco benissimo i problemi durante la pandemia, sono un’infermiera ospedaliera”. “Non capisco però perché a mio padre hanno proibito chiamate e video chiamate nelle ultime tre settimane”, prosegue. “Dicono che è un’esigenza sanitaria: per effettuarle deve avvicinarsi un infermiere e in quella casa di riposo ci sono stati alcuni casi e morti. Non l’ho potuto vedere nemmeno dopo, hanno chiuso la bara subito. Venerdì scorso mi hanno comunicato la sua morte per sospetto Covid-19 dopo un’improvvisa crisi febbrile serale. Fino a quel momento non era stato positivo né aveva manifestato sintomi”. Francesca lancia il suo appello per tutte le famiglie e per tutti gli anziani: “Lasciateli almeno chiamare, aiutateli a farlo anche in video chiamata: è uno strazio per i parenti e soprattutto per i malati che lasciano questo mondo in solitudine senza poter vedere e sentire più una voce cara”.

Coronavirus, la strage nella rsa La Fontanella: perché così tanti morti? Le Iene News il 22 aprile 2020. Nina Palmieri ricostruisce le ultime settimane di emergenza coronavirus vissute nella residenza sanitaria assistenziale La Fontanella tra cambi di gestione, rassicurazione vane e purtroppo troppi decessi. “Non viene nessuno! Ormai sono alla fine delle mie forze”. È la richiesta di aiuto di Carla, una nonnina di 87 anni, ospite della residenza La Fontanella. Siamo in Puglia e qui vivevano anche Maria Luce, Paola, Maria Assunta, Lucia e un’altra ottantina di vecchietti travolti da una strage senza precedenti. “Il coronavirus non c’entra, qui sono accadute cose che non dovevano succedere”, sostiene un parente di questi anziani. Una tragedia dal bilancio pesantissimo circa 90 ospiti quasi tutti contagiati e finora 15 morti. Sono tante altre le residenze sanitarie assistenziali sparse sul nostro paese dove si sono consumati veri e propri drammi. Con anziani morti soli, lontano dalle loro famiglie e finiti in bare anonime in attesa di essere cremati. In questo inferno se ne sarebbero andati quasi 7mila nostri nonni. Nina Palmieri ci parla del caso della rsa La Fontanella, una struttura ritenuta d’eccellenza, dove i suoi ospiti pagano 1.500 euro al mese. Fino all’inizio di marzo va tutto bene fino al primo caso di coronavirus. “Noi lo abbiamo saputo dai giornali”, sostiene la nipote di un’ospite. Solo Lara sarebbe riuscita a parlare con la sua parente all’interno. “Ci diceva che per la colazione non passavano, probabilmente le cuoche sono state le prime ad abbandonare”. A un certo punto nonna Lucia racconta un dettaglio che la spaventa: “Mi ha detto che erano nella chiesa a mangiare tenendosi un vassoio sulle ginocchia”. A quel punto i parenti provano a mettersi in contatto con il titolare della struttura. “Nelle camere non possono stare perché stanno facendo la sanificazione della stanze”, risponde don Vittorio. E questo potrebbe essere stato l’errore fatale perché ancora nel momento in cui parla non sono noti i risultati dei tamponi. Il 21 marzo muore la prima contagiata. Quattro giorni più tardi la situazione cambia. “Tutti gli operatori si sono messi in quarantena, la struttura è stata abbandonata”, sostiene la parente di un’altra ospite. La responsabile Federica Cantore e il titolare don Vittorio Matteo dichiarano di aver dovuto lasciare la struttura perché positivi al coronavirus. A questo punto la gestione della rsa passa all’azienda sanitaria locale. “Io sono entrato venerdì 26 marzo”, spiega un operatore sanitario subentrato proprio in quelle ore. “Si aggrappavano e ti volevano parlare. Mi dicevano che non mangiavano da tre giorni. Era un lager”. Lo stesso racconto ci viene confermato da un operatore del 118: “I pazienti erano buttati a terra nel water. Erano nudi, non mangiavano da 4-5 giorni”. Il sindaco si affretta a tranquillizzare i parenti assieme all’Asl. “Sono messi in condizioni da non contagiarsi”, ma l’operatore del 118 sembra di tutt’altro avviso. “Non è vero che va tutto bene là dentro perché siamo 3 o 4 a turno forse. Un operatore con tutti questi pazienti che cosa fa? Niente puoi fare”. Una situazione che sembra confermata anche dalle parole di Carla. “Siamo riusciti a mangiare solo oggi”, sostiene al telefono il 29 marzo, il quarto giorno con la nuova gestione. “Non mi hanno mai dato nessuna medicina. Sento i brividi dal freddo. Nessuno mi ha mai misurato la temperatura”. Il giorno dopo dalle sue parole sembra ancora peggio. “Chiamo aiuto e nessuno viene. Ho sete, c’è una bottiglia sul tavolo, ma non posso muovermi”. Carla riesce a passare il telefono a un operatore: “Il nostro problema è che siamo in pochi. Dovremmo essere almeno più del doppio”. Ci dice che sono in 6 per 80 ospiti. Nel frattempo sarebbero aumentati i morti e il numero dei contagiati. “Ogni giorno chiedevo una videochiamata, ma non me la facevano”, racconta Sabrina, la figlia di nonna Paola. “Si sono visti gli anziani uscire nudi a chiedere aiuto”. Paola morirà poche ore dopo. Anche nonna Carla peggiora e viene ricoverata in ospedale.  

Morti nella Rsa di Soleto, aperta un'inchiesta: 3 indagati per la strage di nonni. Le Iene News il 26 aprile 2020. La procura di Lecce avvia un’inchiesta sulla Rsa di Soleto, dove sono morti 17 anziani su 90 ospiti. Tre persone sono indagate per diffusione colposa di epidemia e abbandono di incapaci. Con Nina Palmieri vi abbiamo raccontato il dramma dei familiari e degli operatori che hanno lavorato in quella struttura. Tre indagati per diffusione colposa di epidemia e abbandono di incapaci nella Rsa “La Fontanella” di Soleto, nel Salento. La procura di Lecce apre un’inchiesta sulla casa di riposo dove al momento si contano almeno 17 morti su 90 ospiti, quasi tutti contagiati dal coronavirus. Nel servizio che potete vedere qui sopra, Nina Palmieri ci racconta di questa strage di nonni partendo dalle testimonianze dei familiari e di alcuni operatori che hanno lavorato all’interno della struttura. Proprio gli esposti dei familiari hanno fatto scattare le indagini che dovranno accertare eventuali responsabilità. Nel registro degli indagati sono finiti i nomi dell’amministratore delegato della Rsa, don Vittorio Matteo, della direttrice Federica Cantore e del responsabile sanitario, Catello Mangione. Alcuni di loro a fine marzo sono risultati positivi al coronavirus. A questo punto la direzione della Rsa passa all’azienda sanitaria locale. Le indagini avviate nelle ultime ore dovranno stabilire se prima del 26 marzo sono stati rispettati tutti i protocolli previsti. Dovranno chiarire anche se in questa fase di passaggio tra una direzione e l’altra gli anziani sono stati abbandonati a loro stessi. “Si aggrappavano e ti volevano parlare. Mi dicevano che non mangiavano da tre giorni. Era un lager”, racconta a Nina Palmieri un operatore sanitario subentrato proprio in quelle ore. La stessa situazione sembra confermata anche nelle parole di un operatore del 118: “I pazienti erano buttati a terra nel water. Erano nudi, non mangiavano da 4-5 giorni”. Noi siamo riusciti a metterci in contatto con Carla, un’anziana di 87 anni ricoverata nella casa di cura: “Siamo riusciti a mangiare solo oggi”, sostiene al telefono il 29 marzo, il quarto giorno con la nuova gestione. “Non mi hanno mai dato nessuna medicina. Sento i brividi dal freddo. Nessuno mi ha mai misurato la temperatura”. Il giorno dopo dalle sue parole sembra che la situazione sia peggiorata. “Chiamo aiuto e nessuno viene. Ho sete, c’è una bottiglia sul tavolo, ma non posso muovermi”. Carla riesce a passare il telefono a un operatore: “Il nostro problema è che siamo in pochi. Dovremmo essere almeno più del doppio”. Ci dice che sono in 6 per 80 ospiti. Nel frattempo sarebbero aumentati i morti e il numero dei contagiati. “Ogni giorno chiedevo una videochiamata, ma non me la facevano”, racconta Sabrina, la figlia di nonna Paola. “Si sono visti gli anziani uscire nudi a chiedere aiuto”. Paola morirà poche ore dopo. L’inchiesta dovrà chiarire inoltre se all’interno della Rsa ci sono stati anche possibili scambi di pazienti con inevitabili informazioni sbagliate date ai parenti. “Mi hanno chiamato dicendo che mia mamma era morta in ospedale, poche ore dopo dal ricovero volevano passarmela per una videochiamata”, racconta una testimone a Nina Palmieri. “Quando hanno avvicinato il telefono ho visto che non era lei”. L’ultimo decesso è di poche ore fa. È morta una donna di 92 anni, due settimane prima lo stesso destino era toccato anche al marito. 

Coronavirus, in Rsa Soleto i morti salgono a 12. Responsabile struttura: «Fatto il possibile». Nella struttura sono morti 12 dei circa 90 anziani ospiti. Si difendono dalle accuse la responsabile e il legale rappresentante. La Gazzetta del Mezzogiorno l' 8 Aprile 2020. Sale a 12 il numero di decessi all’interno della Casa di Riposo La Fontanella di Soleto. Si tratta di una 95enne di Castrignano e di un 80enne di Galatina ricoverati, la prima al Dea, il secondo nel reparto di malattie infettive del Vito Fazzi di Lecce. Entrambi provenienti dalla struttura salentina. Attualmente gli anziani presenti nella struttura sono 20, tutti positivi al Covid 19.

LA RESPONSABILE: FATTO IL POSSIBILE - La responsabile della Rsa «La Fontanella» di Soleto, Federica Cantore e il legale rappresentante della struttura salentina dove sono morti 10 dei circa 90 anziani ospiti, monsignor Vittorio Matteo, affidano la loro versione a una nota dei propri legali Michele e Roberto Bonsegna, affermando di «aver agito al massimo delle loro possibilità», nella casa di riposo dove è stato scoperto a marzo un focolaio di Coronavirus, che ha contagiato anche buona parte del personale. Su quanto accaduto la Procura ha già aperto un’inchiesta e il sospetto è che alcuni ospiti possano essere morti in seguito all’allontanamento del personale dopo i primi casi di positività. «Mai si è perso il controllo della situazione o si è mancato di dare le doverose informazioni», affermano i legali della responsabile e di mons.Matteo, precisando di aver informato le autorità sanitarie e istituzionali a partire «dalla sera del 20 marzo quando una paziente sospettata di essere stata contagiata, fu trasportata dal 118 presso l’Ospedale di Lecce», e fino al 26 marzo, quando «la gestione della struttura è stata assunta direttamente dalla Asl», dopo che la sera del 25 lo stesso "proprietario e la responsabile della struttura, raggiunti in serata dalla notizia della loro positività, appena terminato il servizio, verso le ore 22, dovettero allontanarsi, rimanendo, comunque, a disposizione, per quanto possibile». In quei giorni, rilevano i legali, sono stati via via contattati Asl, Carabinieri, Prefettura, Comune e Regione.

Coronavirus Soleto, incubo scambi di persona nella Rsa, una famiglia «Non sappiamo se nonna è davvero morta». Nove vittime nella struttura a causa del Covid-19, decine di contagi. Marco Seclì il 07 Aprile 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Le sono rimasti l’orologio da polso da cui non si separava mai, consegnatole alla camera mortuaria dell’ospedale «Vito Fazzi» di Lecce. E l’atroce dubbio che sia stata uccisa dagli stenti prima che dal virus. Ma anche la speranza che nonna Germana, 81 anni, sia ancora viva. Perché nei giorni del caos vissuti dalla residenza sanitaria per anziani di Soleto è stato impossibile capire perfino se i propri cari erano morti, se erano ancora nella struttura oppure erano stati trasferiti in ospedale o in altri centri. Valentina Treglia, giovane neomamma di Melpignano, confida che l’incredibile e triste vicenda di scambi di persona, di comunicazioni con opposte versioni sulle condizioni della nonna, tumulata il 31 marzo senza che nessun familiare abbia potuto vederla, possa ancora avere un epilogo diverso da quello tragico. Quello che è accaduto nel «pasticciaccio» di Soleto lo appurerà la magistratura, che ha aperto un’ inchiesta. Di certo qualcosa non ha funzionato, ed è stata una strage. Il primo decesso, la fuga (tranne un paio di «eroi») degli operatori del centro, costretti alla quarantena. E gli anziani, molti non autosufficienti, rimasti in balia di se stessi, forse senza cibo né medicine. L’intervento e l’allarme lanciato dal sindaco Graziano Vantaggiato e il «blitz» della Asl, con il commissariamento della struttura. Dove, stando alle dichiarazioni a caldo degli operatori Asl, gli anziani erano allo stremo: disidratati, senza terapie. Risultato: nove morti, tra cui la nonna di Valentina, che dal 22 marzo alla notte del 30 ha vissuto un’odissea. «Prima ci hanno detto che stava bene - racconta - poi che era stata infettata, poi ancora che era negativa. Non potevamo comunicare con lei, l’abbiamo cercata, e abbiamo capito che c’era stato uno scambio di persona. Fino alla telefonata che ci ha avvertito che nonna era stata portata in ospedale, dove era arrivata disidradata, in gravi condizioni. La notte del 30 marzo ci hanno comunicato il decesso: sì, ho il suo orologio, ma non l’abbiamo più vista. Chi ci dice che fosse lei? E se per l’ennesimo errore l’hanno portata altrove?». Una speranza che non muore, e si confonde con la rabbia.

Coronavirus, in una Rsa di Lecce scambi di persona e abbandono. Sheila Khan il 03/04/2020 su Notizie.it. Malasanità, abbandono, scambi di persona, coronavirus: la testimonianza da una rsa di Lecce nelle parole della nipote di una vittima. Una donna anziana, ricoverata in una Rsa, viene trovata positiva al coronavirus. La struttura decide, giustamente, di interrompere le visite. I familiari da quel momento ricevono solo informazioni telefoniche. Per settimane i medici assicurano che la donna sta bene, che i parametri vitali sono sotto controllo. Nell’arco di 48 ore dall’ultima telefonata vengono richiamati dalla struttura: “Ci siamo sbagliati, preparatevi al peggio”. Da una Rsa di Lecce un caso di malasanità, scambi di persona e abbandono in tempi del coronavirus, il virus che ha ormai colpito oltre un milione di persone nel mondo. Valentina Treglia, 29 anni, racconta in un’intervista a TPI la storia che ha portato alla morte di sua nonna, Paola Germana Casasola, 81 anni, ricoverata in una Rsa. L’anziana era ricoverata da circa due anni nella struttura di Soleto, Lecce, perché affetta da demenza senile e perché allettata; la nipote comunque racconta che la nonna era sveglia, allegra, rideva alle battute dei familiari, cantava. Dal 6 marzo la struttura sospende le visite dei parenti per tutelare gli anziani dopo l’esplosione del coronavirus al Nord. Il 20 marzo la famiglia della donna apprende di un’anziana morta per coronavirus all’ospedale di Lecce e precedentemente ricoverata in quella struttura. Da quel momento la famiglia prova a contattare il personale della struttura, senza successo. Fino al 23 marzo, quando ricevono una telefonata dall’asl di Lecce, che gli comunità l’esito positivo del tampone effettuato sulla signora. A quel punto Valentina Treglia riesce finalmente a parlare con qualcuno della struttura. Un’infermiera le assicura che la nonna ha solo una febbre lieve e che è stata trasferita in una stanza con un’altra paziente positiva, per evitare altri contagi. La famiglia della signora Casasola ottengono di fare una videochiamata con lei. I parenti si accorgono subito che la nonna non sta bene; sentono l’infermiera piangere in sottofondo. La famiglia viene a scoprire successivamente che tutto il personale della rsa se ne era andato via, in piena emergenza coronavirus, abbandonando 83 anziani nella struttura. Solo un’infermiera è rimasta, a coprire tutti i turni e a occuparsi degli anziani, allo stremo delle forze. Da questo momento la famiglia si mobilita per ottenere aiuto e segnalare la vicenda: contattano il numero verde per il coronavirus, la Protezione Civile, la Croce Rossa. il presidente della Regione Puglia Emiliano; mandano una mail PEC al Presidente del Consiglio Conte; riescono a ottenere una chiamata di terzo livello con il Ministero della Salute e a denunciare la situazione alla segreteria del Ministro Speranza. Risulta invece impossibile contattare direttamente la struttura sanitaria. Il sindaco di Soleto, Graziano Vantaggiato, si mobilita e procede a commissariare la struttura, facendo subentrare il personale sanitario dell’asl di Lecce. Il 28 marzo la famiglia riceve finalmente una telefonata dall’asl responsabile della rsa: assicurano che i tre parametri vitali della donna sono sotto controllo e che gode di ottima salute. Ricevono una telefonata identica il giorno successivo. Per sicurezza però, la figlia della signora Casasola si reca all’esterno della struttura, dove un medico la rassicura ulteriormente sulle condizioni di salute della madre, e aggiunge che la donna è risultata negativa al tampone ed è stata trasferita per precauzione all’ospedale di Lecce. Il pericolo sembra essere scampato. Lo stesso giorno ricevono una telefonata dello stesso medico responsabile che comunica alla famiglia che la nonna si trovava ancora presso la struttura e c’era stato uno scambio di persona. La famiglia, basita, racconta di aver avuto conferma del trasferimento anche da un altro medico della struttura. Il medico responsabile comunica che avrebbe fatto ulteriori modifiche e richiamato la famiglia al più presto. Dopo mezz’ora il medico richiama, dicendo che la signora era stata ricoverata in un reparto del Dipartimento Emergenze e Accettazioni dell’ospedale di Lecce per problemi respiratori la sera prima, cioè il 28 sera, lo stesso giorno in cui il personale della rsa aveva comunicato alla famiglia i parametri vitali dell’anziana, definendoli sotto controllo. A questo punto la nipote chiama il Dipartimento, dove le dicono che la nonna era arrivata in gravi condizioni: disidratata, malnutrita, con una grave insufficienza renale, complicazioni respiratorie. Le dicono di prepararsi al peggio. E aggiungono: “Ma questo lo sapete già”. Ma in realtà la famiglia non sapeva niente, non era pronta. Il giorno dopo la signora Casasola muore per un’acuta insufficienza renale e viene trovata positiva la coronavirus. Di nuovo. Ma l’incubo non è finito. La nipote decide di chiamare la struttura per parlare con il personale medico subentrato dopo il commissariamento, per capire se dentro la rsa stavano capendo che delle persone anziane stavano morendo per coronavirus senza che loro facessero niente. Riesce a parlare con un operatore e chiede informazioni di sua nonna, tumulata la mattina stessa. “Nonna ha mangiato e bevuto, hanno fatto colazione e pranzo. — risponde l’operatore — Al momento non si trova ma il medico dice che si era ripresa benissimo e stava perfettamente, ma è stata trasferita in un ospedale, non sappiamo se Galatina o Lecce, perché era solo lievemente cianotica”. “Non l’ha uccisa il Covid, ma l’abbandono — racconta la nipote — Ma questa cosa deve saperla il mondo intero. Nel 2020, in piena crisi sanitaria mondiale, morire di fame, sete e abbandono, non è normale. Non mi fermerò. Ci stiamo organizzando con avvocati specializzati in Sanità. Faremo tutto quel che c’è da fare”. Conclude così Valentina Treglia, sicura di voler portare avanti questa storia affinché non si ripresenti più una situazione del genere.

Coronavirus, ecco gli orrori della rsa di Soleto. La Regione: «Chiudere». Ospiti "abbandonati a terra", almeno dieci denunce presentate dai parenti. Massimiliano Scagliarini il 27 Maggio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Nella Rssa «La Fontanella» di Soleto c’erano «ospiti riversi per terra e sporchi di propri escrementi, madidi di urine maleodoranti e stantie, visibilmente disidratati, affamati e alcuni con piaghe da decubito non trattate da diversi giorni», e «ospiti con patologie neuropsichiatriche in evidente stato di agitazione psicomotoria». Il principale focolaio di covid acceso in Puglia in una residenza per anziani era, insomma, una clinica degli orrori, una struttura che a fine marzo si presentava «totalmente priva di personale» e che ieri la Regione ha deciso di far chiudere. Dopo 23 morti e 120 contagi tra pazienti e dipendenti, e con enormi sofferenze causate ai 90 anziani ospiti e ai loro familiari. A stilare la relazione decisiva sono stati i medici inviati dalla Asl di Lecce, dopo che il sindaco di Soleto il 25 marzo aveva fatto emergere quanto stava accadendo all’interno della struttura. «Pavimenti sporchi di deiezioni e urine, piatti con alimenti ammuffiti sui tavoli e per terra, lo sporco era evidente anche nei bagni privi di asciugamani e di carta igienica». E ancora: «Lo sporco era evidente anche nei bagni privi di asciugamani e di carta igienica; indumenti sporchi, sparsi dappertutto; letti con lenzuola e materassi sporchi», e poi i farmaci abbandonati alla rinfusa e i sacchi di rifiuti lasciati nei corridoi. Da ieri, dunque, la Regione ha attivato le procedure per la revoca dell’accreditamento e la chiusura della Rsa, con la Asl che dovrà occuparsi del trasferimento degli ultimi 16 ospiti in altre residenze sanitarie della zona. La Regione parla infatti di «situazione ampiamente documentata di abbandono di soggetti non autosufficienti ed affetti da patologie croniche e degenerative», situazione del resto già verificata dagli ispettori del ministero della Salute oltre che dalla stessa Procura di Lecce: nel fascicolo a carico dei gestori e del direttore sanitario sono confluite le informative dei Nas e anche le relazioni stilate dalle varie articolazioni della Asl. Una «assenza totale di assistenza» agli ospiti della Rssa che, sempre secondo la Regione, potrebbe aver reso ancora più grave il focolaio di covid partito il 21 marzo: man mano che il contagio si espandeva il personale veniva ricoverato o messo in quarantena, lasciando i ricoverati in balia di sé stessi fino all’intervento della Asl che dal 25 marzo, non senza fatica, ha lentamente ristabilito la normalità. La Procura di Lecce ipotizza le accuse di epidemia colposa e abbandono di incapaci a carico dell’amministratore delegato della Isa srl, don Vittorio Matteo, del direttore Federica Cantone e del responsabile sanitario Catello Mangione. È possibile - su questo vertono gli approfondimenti delegati ai Nas, che hanno anche ascoltato numerosi parenti dei ricoverati - che tra l’avvio dei contagi (causato, pare, da uno degli operatori) e l’intervento della Asl gli ospiti siano stati lasciati privi di qualunque tipo di assistenza. Dalle verifiche amministrative sembrerebbe poi emersa la mancata ottemperanza alle misure di sicurezza contro l’epidemia, oltre che il mancato utilizzo dei dispositivi di prevenzione (mascherine e tute): circostanza, quest’ultima, che potrebbe aver reso ancora più facile la trasmissione del virus. La scorsa settimana la Regione aveva già attivato il procedimento di revoca per un’altra Rsa, quella di Canosa, dove a seguito di una emergenza analoga (ma meno grave di quella di Soleto) il Dipartimento di prevenzione della Asl Bat aveva verificato l’assoluta mancanza di requisiti di accreditamento della struttura. Su questo è in corso una indagine da parte della Procura di Trani, che mira ad accertare anche la responsabilità nel rilascio delle autorizzazioni.

La strage silenziosa di anziani nelle rsa della Regione "rossa". Si moltiplicano i numeri degli anziani positivi al coronavirus nelle Rsa della Toscana dove, dall'inizio dell'epidemia si contano già 159 morti nelle case di cura. Costanza Tosi, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. Non si arresta la corsa del virus nei centri per anziani. I contagi aumentano giorno dopo giorno. Si moltiplicando i decessi e sembra di assistere ad una strage che rischia di portarsi via una fetta di popolazione innocente. Quella degli over 70. Inermi davanti a tutto questo. Innocenti come tutte le vittime del Covid19. Dopo l’ecatombe milanese la minaccia arriva anche in Toscana, dove oggi sono 149 i morti nelle case di cura e più di mille i contagi. Numeri, distribuiti su tutta la Regione, che conta 332 Rsa attive su tutto il territorio. Dai primi di marzo la Regione si era aggiornata con nuove disposizioni, sulla base dei decreti nazionali. Tutto blindato. Era questa la regola numero uno. I dirigenti delle case di cura hanno dovuto sbarrare le porte anche ad amici e parenti. Lasciando gli anziani spaesati e chiusi nei loro centri comuni in attesa di rivedere le persone che amano. Persone che qualcuno non è più riuscito a vedere. Eppure, quella sembrava l’unica soluzione per proteggere la vita dei pazienti, ma qualcosa dev’essere andato storto. A metà marzo, i primi casi. Una donna muore nella casa di riposo di Comeana, a Prato, dopo giorni di isolamento e agonia. Con lei inizia la strage silenziosa della casa di cura nel pratese. Sei ospiti morti, altri 17 anziani contagiati, 15 operatori positivi al tampone. Una catena di contagi inarrestabile. Tanto da far scattare la prima indagine penale in Toscana. Gli anziani ospiti nella Rsa non superavano la trentina. Più della metà, ha contratto il virus. Adesso, sarà la procura a stabilire cosa possa aver portato al dramma, con un’inchiesta sul mancato contenimento della diffusione del contagio del coronavirus. Un caso, quello di Comeana, che sarebbe dovuto essere un capitolo su cui fare chiarezza. Una brutta storia da dimenticare. E invece si è rivelato l’apripista per altri centinaia di casi. Da nord a sud della Regione le residenze per anziani hanno iniziato a perdere i primi pazienti e collezionare contagi alla velocità della luce. Una catena che ha prodotto dati incredibili. Numeri che fanno male. In una Rsa di Bucine, nell’aretino sono 17 gli operatori contagiati, 24 i pazienti affetti da coronavirus e già si contano 10 decessi. In una struttura di Montevarchi, sempre in provincia di Arezzo, sono arrivati a 40 i positivi, 3 gli ospiti che hanno perso la vita. Preoccupante anche la situazione all’interno della casa di risposo di Sarteano, nel senese, dove in 41 sono risultati positivi al tampone e il virus ha già fatto 7 vittime. A Gambassi Terme l’apice, 32 anziani su 35 hanno contratto il coronavirus. Persone fragili, alcune anche affette da altre patologie, diventate terreno fertile per il virus che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Uomini e donne che per troppo tempo hanno dovuto subire il triste clichè che toglieva dignita alle loro vite. "Tanto muoiono solo i vecchi", pensavano in tanti. Era come diventato una sorta di scudo per chi ancora si aggirava per le strade delle città indisturbato, senza protezioni, convinto che, quella del coronavirus, fosse tutta una bufala gonfiata dai media. Eppure, nonostante gli anziani fossero già stati individuati come la preda più facile da attaccare per il virus la realtà sembra raccontare che qualcuno non li ha protetti abbastanza. È nelle zone tra Lucca, Pisa e Livorno che il dramma si fa ancora più grande. Secondo i dati dell’ASL Nord Ovest, sarebbero 63 i decessi solo in quella zona che rischiano di aumentare considerati i 411 tamponi positivi. Uomini e donne che, a loro insaputa, per giorni sono stati una minaccia per chi viveva sotto il loro stesso tetto. Tanto che, adesso, molte strutture sono state costrette a spostare i propri pazienti sani per allontanare il rischio contagio e attrezzare l’intera struttura per la cura dei malati Covid. Ma la lotta silenziosa degli anziani al virus potrebbe essere iniziata molto prima. Quando ancora il numero dei casi di Covid19 accertati era molto ridotto considerato il basso numero di tamponi effettuati. Quando ancora il coronavirus veniva scambiato per un'influenza. Confermerebbe quest’ipotesi un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità effettuato attraverso un questionario, al quale hanno risposto 60 rsa della regione su 82 prese a campione. Secondo i dati del “Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie” dall’inizio dell’emergenza nelle rsa della Toscana sono morte 331 persone. Di queste, circa un terzo (101), presentavano sintomi compatibili con il coronavirus. Sempre considerando le sole 60 strutture su 332. Dati che porterebbero la Toscana al quarto posto tra le regioni più colpite per quanto riguarda le residenze sanitarie, dietro a Lombardia (934), Emilia Romagna (176) e Veneto (125). Intanto continua la corsa al tampone. Nessuno è escluso dai test, operatori sanitari, medici, pazienti. Ma la macchina sembra andare lenta. A singhiozzi. I tamponi non bastano e i laboratori di analisi sono in sovraccarico. Le verifiche procedono, ma i risultati arrivano sempre troppo tardi. E a quel punto si può solo salvare il salvabile. Mettere una toppa qua e là.

Strage di anziani, choc in Emilia: "Lì dentro si muore, qual è il problema?". A Sasso Marconi 30 decessi nella Villa Teresa. Le accuse all'Ausl emiliana: "Ci sono stati ritardi e inefficienze". Il nodo dei tamponi. Giuseppe De Lorenzo, Sabato 25/04/2020, su Il Giornale. "Il direttore sanitario aveva verificato patologie di difficile interpretazione e alcuni decessi che iniziavano ad emergere. Ha segnalato tutto all'Ausl, chiedendo tamponi, ma ha avuto risposte incomplete e non immediate". Sasso Marconi, piccolo paese alle porte di Bologna. A parlare al Giornale.it è una fonte di alto livello vicina alla direzione di Villa Teresa, casa di cura per anziani falcidiata dal coronavirus. Su circa ottanta ospiti, il bollettino riporta trenta decessi negli ultimi due mesi, di cui almeno 15 con sintomi influenzali o infetti. Molti sono stati trasferiti, i positivi non mancano. Una strage simile a quelle registrate in Lombardia, Toscana, Veneto, Lazio e ovviamente in altre zone dell’Emilia. Ma mentre in quasi tutta Italia si punta il dito contro le direzioni delle strutture, nella città dove aveva la sua residenza Guglielmo Marconi c'è chi sposta l'attenzione più a monte. Cioè verso la gestione dell'emergenza da parte dell'Azienda ospedaliera emiliana. "Non c'è stata una solerte reazione dell'Ausl", riporta la fonte secondo cui i tamponi sarebbero arrivati tardi e non a sufficienza. "Un intervento tempestivo poteva forse arginare in parte lo sviluppo del problema". Ed evitare decine di morti. Tutto inizia un mese esatto fa, il 25 marzo, quando il direttore sanitario di Villa Teresa invia una e-mail all'Ausl per informare la presenza di "ospiti sospetti per Covid-19" all’interno della struttura. L’epidemia in Italia è già esplosa da qualche giorno, ma in pochi ancora guardano alle case per anziani come a bombe epidemiologiche pronte ad esplodere. A Villa Teresa c'è però chi teme un focolaio. In quel momento, secondo quanto risulta al Giornale.it, almeno 13 ospiti mostrano linee di febbre, di cui 4 con difficoltà respiratorie. "I tamponi sono stati fatti il 28 marzo su un cluster di pazienti segnalati", dice il dottor Vittorio Zatti, direttore sanitario della Villa. Bene, ma quanto era ampio il cluster? Sono stati inclusi tutti e 13 i sospetti? "Dopo tale data - aggiunge - ho richiesto i tamponi a tutti gli ospiti presenti in struttura compresi gli asintomatici". Ed è proprio qui che sorge il dubbio: i test sui casi dubbi sono stati fatti? "Villa Teresa - spiega la fonte - ha sempre segnalato i diversi sviluppi, richiedendo in continuazione di fare uno screening preventivo completo della situazione, ma c'è stata difficoltà di risposta da parte dell'azienda Usl". Almeno fino a Pasqua, quando si sono "palesati casi conclamati, è uscita la notizia" e allora "sono partiti gli screening a tappeto". A Sasso Marconi forse nessuno se l'aspettava, o almeno non così devastante. La struttura gode di buona fama ed è gestita dal 1972 dalla società Provvidenza Srl, il cui socio unico è la Fondazione Cardinale Giacomo Lercaro. La casa ospita anche anziani non autosufficienti e 60 posti sono in convenzione con l'Ausl. L'amministrazione comunale sostiene di aver scoperto i contagi "intorno al 10 aprile", quando la situazione era ormai "già orientata all'epidemia". In quei giorni almeno 10 ospiti sono stati trasferiti in ospedale e ora si sta lavorando per portarne altri 18 in nosocomi della provincia. La situazione è critica: gli operatori sono ridotti all'osso e tra quarantene e malattie ne sono rimasti solo una quindicina su 65. Il Comune assicura che all’interno tutte le misure preventive sono state messe in atto, dalla consegna dell'uso dei Dpi "sin dai primi giorni dell’emergenza" fino alla creazione di aree separate per sani e infetti. Anche la Cgil lo conferma: "I lavoratori ci hanno detto che le mascherine sono state date tempestivamente - ha spiegato il sindacalista Manuel Mesoraca a Repubblica - E so che nelle ultime settimane sono state anche implementate le pulizie". Ma se la struttura ha sempre rispettato "tutte le indicazioni operative per prevenire la diffusione dell’infezione", come si spiega l'ecatombe? "È evidente che ci sono stati ritardi e inefficienze da parte dell'Ausl", dice la fonte. Al netto dei trasferimenti di metà aprile, "la gran parte è stata lasciata lì" nonostante il direttore sanitario pare avesse avanzato "richieste specifiche" per i tamponi e per "lo spostamento di alcune persone dichiarate non più gestibili dalla struttura". Ci sono stati tentennamenti? "Si è cercato di rimandare il più possibile il problema, di scaricarlo sulla singola struttura che però non è stata pensata per questo tipo di interventi". Le parole ricorrenti sono "minimizzazione" e "atteggiamento remissivo". Cioè pochi tamponi e trasferimenti arrivati troppo tardi. "Hanno iniziato a rispondere 'adesso vediamo, non possiamo fare altro, tanto dovete tenerli voi'". Come se ci fosse "il tentativo di non interpretare i primi decessi come causati dal coronavirus", ma di "ridimensionarli". La fonte cita il riassunto di un discorso con l'Ausl, riferitogli da uno dei gestori, a seguito dei primi decessi: "Sicuramente ricordo una frase: 'È normale che lì dentro si muoia, quindi qual è il problema se muore qualcuno?'". Abbiamo provato più volte a contattare il direttore sanitario di Villa Teresa, senza successo. Lo stesso abbiamo fatto con l'Ausl, anche per permettere una replica alle accuse. Ma ci hanno fatto sapere che "per garbo istituzionale l'Azienda si astiene da dichiarazioni pubbliche". Bocche cucite. Sull'intera vicenda infatti ora pendono le indagini della procura bolognese, che ha aperto un fascicolo a seguito di un esposto della famiglia di una donna di 87 anni morta nella Villa. L'ipotesi di reato è omicidio colposo, per ora contro ignoti. "All'ospite in questione pochi giorni fa era stato fatto da parte del medico dell'Ausl il rituale tampone faringeo tonsillare il quale aveva dato esito negativo", fa sapere l'avvocato Patrizio Orlandi, che rappresenta la Villa. E poi aggiunge: "La struttura si è sempre attenuta ai protocolli regionali contenenti le indicazioni operative per prevenire la diffusione dell’infezione da Covid19 ed ha scrupolosamente rispettato le indicazioni impartite dall'Ausl di riferimento con cui la task force è sempre stata in costante e continuo contatto fin dai primi giorni di marzo”. Come a dire: se qualcosa è andato storto, è alle indicazioni dell'azienda sanitaria e ai protocolli regionali che bisogna guardare. Non alla gestione della struttura. In Emilia Romagna esiste un problema case di riposo. Inutile nasconderlo. A confermarlo ci sono i dati dell'Iss, dove la Regione svetta dietro la Lombardia per contagi e decessi. Non è un caso se la giunta guidata da Stefano Bonaccini ha deciso di emettere, due giorni fa, un documento per rafforzare le disposizioni operative indirizzate ai gestori. In sintesi: tamponi "nel più breve tempo possibile", sia sui casi sospetti che "ad ampio raggio laddove ci siano casi già attivi"; sorveglianza costante; isolamento sicuro dei positivi in zone rosse o "collocazioni alternative". L'assessore Raffaele Donini ha già messo le mani avanti: "Naturalmente - ha detto - i gestori hanno esclusiva responsabilità giuridica rispetto agli aspetti organizzativi delle attività". La giunta dunque se ne chiama fuori. Ma se le case di cura si attengono ai protocolli regionali ed esplode comunque il contagio, non va forse valutata anche la posizione della Regione? Villa Teresa è infatti una struttura privata, ma - per dirla con le parole del sindaco Roberto Parmeggiani - "si muove secondo le indicazioni condivise dal gestore con il Direttore sanitario per il monitoraggio della situazione clinica e la collaborazione con geriatra, infettivologo, medico di Igiene Pubblica e infermiere per il controllo qualità". Insomma: un groviglio di ruoli e obblighi sul baratro di un'inchiesta giudiziaria. Inoltre l'Ausl svolge funzione di supporto e vigilanza, oltre ad avere l'onere di realizzare i test per il Covid-19. È dunque possibile che nei prossimi giorni nasca un rimpallo di responsabilità: se in Villa è esploso il focolaio, è colpa della proprietà o di chi fa (o non fa) i tamponi? "Se il 26 marzo ci fosse stato un intervento reale", sussurra affranta la fonte, "forse avremmo salvato qualche vita". Che poi è l'unica cosa che conta.

"Per loro era solo un'influenza". Poi l'ecatombe di anziani in Emilia. L'Emilia piena di casi "Trivulzio". Poche mascherine. Ospiti Covid tra gli anziani. Pochi tamponi. E quella struttura dove il 70% degli ospiti ha contratto il virus. Giuseppe De Lorenzo e Giovanna Pavesi, Mercoledì 15/04/2020 su Il Giornale. Li abbiamo contati come numeri, almeno nelle prime settimane. Migliaia di vite perdute nella confusione e nell'avvilimento di una malattia del tutto nuova. E invece gli anziani uccisi dal virus erano (e restano) persone. Con un nome, una storia personale, dei ricordi. "L'anziano non è un oggetto, alla fine male sopportato, ma un soggetto indispensabile", ha detto nei giorni scorsi l'arcivescovo di Bologna, Matteo Maria Zuppi, provando a restituire loro quella dignità dimenticata tra centinaia di cartelle sanitarie, test mai effettuati e qualche errore di valutazione. Già, perché mentre le telecamere dell’attenzione mediatica puntavano senza sosta il Pio Albergo Trivulzio e le altre Rsa lombarde, in altre aree del Paese si ripetevano le stesse, identiche dinamiche. Soprattutto in Emilia Romagna. Centinaia di morti, vite spezzate. Storie cui è stata imposta la parola "fine". Per pesare l'entità della strage emiliana basta osservare i numeri. L'Istituto Superiore di Sanità ha avviato un report statistico dedicato al contagio da Covid-19 nelle strutture residenziali e i dati dicono che qui tra febbraio e marzo sono morte 352 persone, cioè il 6% degli ospiti. Il coronavirus ha avuto un ruolo fondamentale nella decimazione, visto che 24 di loro erano "ufficialmente" pazienti Covid-19 mentre altri 152 se ne sono andati con sintomi simil-influenzali. Le statistiche certificano che il 50% dei nonni deceduti nelle strutture socio-assistenziali emiliane mostrava stati febbrili o tosse. È la stessa percentuale registrata in Lombardia, eppure se ne parla molto meno. A questi vanno aggiunti 363 ospedalizzati e altri 150 in regime di quarantena in struttura. Fino al 7 aprile le autorità hanno realizzato appena 508 tamponi per trovare 282 casi positivi. Tradotto: ogni due sospetti, uno viene confermato infetto. Se si proietta il dato sui 3.254 posti totali regionali, l’entità dell’epidemia spaventa. Alla casa "Madonna della Bomba Scalabrini" a Piacenza, su 100 ospiti ne sono morti una trentina. "Sono tanti", racconta tra le lacrime don Andrea Campisi, presidente della fondazione. "Il numero che ha toccato noi e i nostri operatori è completamente diverso da quello che può accadere normalmente in struttura". A Villa Margherita, uno degli istituti più colpiti del Modenese, è morta anche Anna Caracciolo, operatrice sanitaria di appena 36 anni. Con lei in provincia sono spirati almeno 58 anziani. "A noi oggi risulta che in quella struttura ci siano 33 ospiti positivi e sette persone decedute per Covid-19", spiega Fabio De Santis, responsabile dell’Fp Cgil locale secondo cui "più del 50%" degli operatori sanitari "è o è stato interessato dal contagio". Il quadro che emerge è purtroppo più grave di quello fotografato dalle statistiche ufficiali. A Reggio Emilia si contano 160 persone infette sulle 660 ospitate nelle strutture residenziali. A Villa Rodriguez, in uno dei quartieri di Bologna, il 73% degli ospiti ha contratto il virus (53 su 72) e tra i dipendenti solo 21 su 60 sono stati risparmiati. Di casi simili ce ne sono a Sasso Marconi, Rimini, Budrio. All'Istituto Sant'Anna e Santa Caterina, invece, 18 persone sono morte con sintomatologia riconducibile al Sars-Cov-2. Per otto di loro Gianluigi Pirazzoli, responsabile della struttura bolognese, può solo supporre la causa del decesso perché "nessuno ci ha dato delle conferme". Il coronavirus alla alle fine è questo: colpisce, magari lascia il segno, ma non sempre si fa in tempo a verificarlo con un tampone. Uccide prima di farsi scovare. Quello che molti si domandano è se si sia fatto abbastanza per salvare la vita ad una intera generazione di emiliani. Il termine più utilizzato è "prevenzione". "Le case di riposo sono state aiutate come si doveva, proteggendo gli ospiti e gli operatori, fornendo loro tutti i mezzi necessari tempestivamente per garantire la sicurezza?", si è chiesto monsignor Zuppi in un insolito affondo contro le autorità regionali. Alla Casa residenza "Il Melograno" di Borgonovo Val Tidone, sulle colline di Piacenza, la struttura si è mossa in "autonomia" e solo così è riuscita ad evitare una strage. Il racconto lo fa una operatrice che chiede l'anonimato. La chiameremo Silvia: "Noi siamo stati abbastanza bravi, perché contrariamente a quelle che erano le prime linee guida che ci consigliavano semplicemente di lavarci spesso le mani e di mantenere le distanze, noi il 23 febbraio abbiamo blindato la struttura". Purtroppo si tratta di una mossa singola, mentre l'intero sistema nei primi giorni sembrava brancolare nel buio. "All’inizio ci veniva comunicato che si trattava poco più di una influenza pesante - conferma Pirazzoli - Questo ci ha lasciato un po' impreparati. Noi non abbiamo avuto nessuna segnalazione finché tutto non è scoppiato". Se da giorni non fate che leggere inchieste sul Trivulzio, sappiate che in Emilia la tetra canzone suona con lo stesso identico ritornello. Le mascherine vietate per non spaventare i pazienti? È successo anche qui. La scarsità di dispositivi di protezione? Pure. Gli operatori mai sottoposti a tampone? Stessa storia. E anche in terra di Bonaccini, così come in Lombardia, alcune strutture hanno accolto pazienti postivi al Covid-19 nonostante possa sembrare un po' come inviare Dracula in un centro Avis. Torniamo ai giorni più caldi dell’epidemia, quando l'8 marzo la giunta lombarda chiede alle Rsa di accogliere alcuni pazienti per alleggerire il peso sul sistema sanitario, sommerso da infetti e con le terapie intensive al collasso. Si tratta di una scelta contestata da molti e che è finita al centro di un’indagine della procura meneghina. Si può capire. Nello stesso periodo, però, anche in Emilia alcuni ospedali inviavano nelle residenze persone con sintomatologia Covid-19 nell’ultima parte della quarantena o allo stadio conclusivo della malattia. A rivelarlo al Giornale.it è don Andrea Campisi: "Nelle ultime settimane abbiamo dato questo supporto, accogliendo 5-6 persone che, una volta terminato l'isolamento, torneranno a casa". La musica non cambia neppure sui dispositivi di protezione. "Le prime indicazioni che ci sono state date - racconta Silvia - ci dicevano che la mascherina non andava messa se non in caso di contatto ravvicinato con una persona positiva al coronavirus". Di istruzioni di non indossare i Dpi "per non allarmare i familiari" ne parla anche il sindacalista della Cgil modenese. Ed è possibile sia avvenuto altrove. Mariacarla Setta, che all'interno dell'Istituto Sant’Anna a causa del Covid-19 ha perso la madre, punta il dito contro la mancanza di strumenti adeguati a salvaguardare ospiti e personale: "Questi poveri Oss, infermieri, persino una dottoressa, si sono contagiati perché non avevano nessuno strumento di protezione. Usavano gli stessi guanti e andavano da un anziano all'altro, infilando in bocca le mani per dare loro le pillole". La struttura nega, ma va detto che in Emilia le protezioni per i dipendenti, un po' come in tutta Italia, per diverse settimane sono arrivate col contagocce. "Nelle strutture si è registrato, e si registra tuttora, un problema legato ai Dpi - spiega De Santis - La situazione non è uguale in tutte le residenze, ma in alcuni centri per anziani c'è un problema evidente di approvvigionamento per via dei costi della competizione". Quando arrivano, sono poche. "Ogni due o tre giorni ci viene mandata dall'Asl la fornitura di Dpi - racconta Silvia - Noi siamo circa 75 operatori socio-sanitari e 20 altri dipendenti tra infermieri e fisioterapisti, ma riceviamo di volta in volta circa 50 mascherine, una cuffia monouso e tre flaconi di gel". Troppo poco, così per sopravvivere occorre arrangiarsi. "Se avessimo dovuto basarci sulle consegne, sarebbe stato sicuramente più difficile". Pirazzoli è tranchant: "La regione è stata latitante: abbiamo sentito tanti proclami, ma di mascherine cominciamo a vederne solo ora". Il problema è che quando le mascherine mancano, il personale rischia di ammalarsi e di diventare una fonte inestinguibile di contagio. Servirebbe realizzare tamponi preventivi o uno screening di chi entra in contatto con gli anziani, ma neppure qui è stato fatto. "Io da almeno due settimane sento dire che la regione Emilia Romagna intende fare una prova a tappeto con i tamponi", racconta Silvia, "ma finora non è andata così". Intanto come in un domino i sanitari si ammalano e rischiano di infettare i degenti. Poi quando mostrano i primi sintomi devono restare a casa lasciando le residenze senza personale. All’Istituto Santa Caterina e Sant’Anna in certi momenti si è arrivato anche ad una carenza del 35% del personale. Una ferita "che ha reso difficile questa battaglia", spiega Pirazzoli che in cuor suo sperava si potessero avviare "tamponi a tappeto". Ma nessuno finora si è mosso in questa direzione. A dire il vero la regione avrebbe annunciato test seriologici per gli operatori sanitari, "ma sono passati 20 giorni e ancora siamo al punto di partenza". Il risultato è sotto gli occhi di tutti. In fondo anche quando ci sarebbe stato il bisogno di sottoporre a tampone gli anziani febbricitanti che iniziavano a "desaturare e ad andare in apnea", la procedura si è dimostrata farraginosa. "Fino al 23 marzo non abbiamo avuto la possibilità di realizzare i tamponi - racconta Pirazzoli - Ciò che siamo riusciti a fare qui è stato grazie all’aiuto di medici validi che da noi restano 24 su 24". Altrimenti? "Temo che qui sarebbe stata un'ecatombe".

Quei 1.310 morti “di raffreddore”. Un giallo nel mirino dei magistrati. Nel report dell’Istituto superiore di sanità una realtà diversa dalle versioni ufficiali: quando arrivò davvero il virus nelle Rsa?  Claudio Marincola il 10 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Nel bilancio della più grande tragedia sanitaria del dopo guerra italiano c’è un mistero al vaglio dei magistrati: 1.310 morti “di raffreddore”, di cui 874 nella sola Lombardia. Pazienti deceduti nelle Residenze sanitarie assistenziali tra il 1° febbraio e il 6 aprile, censiti da un report dell’Istituto superiore della sanità. Le indagini dovranno chiarire alcuni punti oscuri, e uno su tutti: quanti di essi morirono prima del 21 febbraio, giorno del ricovero del “paziente 1” accusando gli stessi sintomi dall’infezione da Covid-19? E perché non si diede subito l’allarme? Reticenze, inefficienze, ritardi, impreparazione del personale. Rilanciare l’emergenza avrebbe messo in crisi le Rsa e allentato le pressioni della Confindustria locale volte a mantenere i motori accesi e a lasciare aperte le saracinesche delle imprese.

LE INDAGINI AVVIATE DAI PM. La spiegazione delle morti sommerse è forse già nelle carte che la magistratura ha iniziato a raccogliere. Decessi rimasti fuori dai conteggi ufficiali diramati dalla Protezione civile. Pazienti che presentavano sintomi come tosse, febbre, dispnea, in alcuni casi anche polmonite, deceduti senza essere stati sottoposti prima alla prova del tampone. Per le statistiche non li ha uccisi il Coronavirus, ma una “simil-influenza”. Le Procure di Milano e Bergamo, i centri più colpiti, sono state le prime ad avviare un’inchiesta per stabilire le dimensioni reali di un dramma che ha toccato in particolar modo la Lombardia, ma anche Emilia-Romagna, Veneto e Toscana, in parte il Centro e in piccolissima percentuale il Mezzogiorno. Se ai pazienti morti di Covid-19 si aggiungono i cosiddetti decessi per “simil-influenza” si arriva a un tasso di mortalità in Lombardia del 6,8%, in Emilia-Romagna del 3,1%, in Toscana del 3% e del 2,5% in Campania. E perché, la stessa simil-influenza, che al Nord ha causato una strage di anziani, al Sud e nell’isole non è mai arrivata? Una vittima in Calabria, 2 in Molise, 4 in Sardegna, 9 in Umbria, 0 in Abruzzo. Numeri nella norma, insomma. In un quadro in cui, su un totale di 3.858 decessi, circa il 37,4% potrebbe riguardare pazienti Covid-19. Le tabelle del report dell’Iss – pubblicate ieri dal Quotidiano del Sud – fotografano una realtà ben diversa dalla versione ufficiale. Numeri che alimentano domande: il virus nelle Rsa arrivò prima del 21 febbraio? E perché in Lombardia, la regione più colpita dai lutti, nonostante non vi fossero strutture adatte all’isolamento, personale specializzato e dispositivi medici idonei, si diede indicazione di trasferire i pazienti positivi nelle Rsa? Nel 28,4% delle strutture non era prevista neanche la misurazione della temperatura ai pazienti 2 volte al giorno. Tanto per dirne una. Sullo sfondo restano i misteri di un conteggio rimasto incompleto. Almeno fino a quando alle indiscrezioni non si sono aggiunti i primi numeri raccolti con criterio scientifico dall’Iss: 577 strutture che hanno compilato i questionari, un tasso di risposta del 26,7%. Parziale ma comunque molto attendibile.

«COME È MORTA MIA MADRE?» «Quello che mi fa più male è non essere riuscita neanche a salutare mia mamma, nemmeno per telefono un’ultima volta e non aver saputo di cosa è morta», si dispera Silvana, 58 anni, milanese. Una dei tanti testimoni di questa immane tragedia. La madre aveva 89 anni, era ricoverata nella residenza per anziani Virgilio Ferrari, è mancata il 15 marzo. «Prima stava fisicamente bene, abbiamo scelto di farla seguire da professionisti perché soffriva di demenza senile». Per farla sentire meno sola i familiari andavano a trovarla tutti i giorni. «La lavavo, la vestivo, la portavo dal parrucchiere, le facevo compagnia, ma a volte la trovavo in condizioni pessime». L’ultima volta che Silvana ha visto sua madre è stato il 4 marzo scorso, prima che la struttura sigillasse gli ingressi ai parenti. Due giorni dopo si registrò il primo caso di un paziente ospite della Rsa positivo al Covid-19. A tutt’oggi Silvana non sa ancora di cosa sia morta sua madre. Il dato che emerge con grande evidenza dal documento stilato dall’Istituto di viale Regina Margherita è l’assoluta inadeguatezza di alcune strutture. Alla data del primo febbraio le Rsa che hanno risposto al questionario ospitavano 44.457 residenti, una media di 78 per struttura.

LA DENUNCIA DEI MEDICI DI BASE. I medici di medicina generale denunciano che a Milano non vengono effettuati i tamponi e dunque i contagi potrebbero essere nove volte superiori, scattano le indagini dei Pm sulle presunte manomissioni di cartelle cliniche del Pio Albergo Trivulzio. Non si farebbe riferimento a denunce specifiche. I sindacalisti della Cgil parlano di 17 pazienti accolti nella struttura dopo la delibera regionale dell’ 8 marzo che dava alla Rsa la possibilità di prendere in carico malati di coronavirus. Hanno contagiato gli altri ospiti del Pio Albergo? Lo dovrà stabilire il pool guidato dall’aggiunto Tiziano Siciliano.

La strage degli anziani: in cinque paesi Ue, la metà dei morti per covid-19 è avvenuta nelle case di riposo. Marco Cimminella il 14 aprile 2020 su it.businessinsider.com. Dal Pio Albergo Trivulzio ad altre Rsa lombarde, le inchieste giudiziarie stanno provando a fare luce sulle numerosi morti avvenute nelle strutture che ospitano le persone più anziane e quindi a rischio in piena emergenza covid-19. Una bomba a orologeria, che è esplosa in diverse parti d’Italia nonostante i continui allarmi lanciati da lavoratori e sindacati. La mancanza di dispositivi protettivi, le procedure sbagliate, gli spazi inadeguati a fronteggiare la pandemia hanno contribuito a peggiorare un’emergenza sanitaria che ha avuto gioco facile a colpire gli individui più fragili e con patologie, quindi vittime ideali del coronavirus. Un dramma che non si è consumato solo in Italia: in cinque paesi europei oltre la metà delle morti associate al covid-19 sono avvenute nelle case di riposo. Nelle residenze sanitarie assistenziali di Italia, Francia, Spagna, Belgio e Irlanda il coronavirus si è mosso velocemente, approfittando della debolezza dei suoi ospiti. Lo certificano i dati di un nuovo studio pubblicato dall’International Long-Term Care Policy Network, un gruppo di ricerca accademico che fa parte della London School of Economics, che mostrano come oltre il 42 per cento dei decessi associati al coronavirus – fino a raggiungere il picco del 57 per cento per la Spagna – si sia verificato nelle case di riposo.

I dati sui decessi nelle case di riposo in Italia, Francia, Spagna, Irlanda e Belgio – International Long-Term Care Policy Network. Come mostra la tabella, secondo i calcoli e le indagini effettuate dai ricercatori, fino al 6 aprile 2020 le morti confermate per covid-19 avvenute nelle strutture residenziali e sociosanitarie in Italia sono state 9509, il 53 per cento dei decessi totali. Una tendenza simile è stata registrata in Spagna, dove fino all’8 aprile 2020 si contavano 9756 decessi legati alla pandemia nelle case di riposo, il 57 per cento del totale. Sono le percentuali più alte, insieme a quella irlandese (il 54 per cento). Le indagini in corso in Lombardia stanno cercando di chiarire alcuni aspetti della tragedia, individuando tutte le cause che vi hanno concorso. Oltre alla mancanza di dispositivi di protezione individuale e protocolli sbagliati denunciati dai sindacati, sotto i riflettori c’è anche la delibera regionale dell’8 marzo, che dava la possibilità alle strutture su base volontaria di ospitare pazienti covid dimessi dagli ospedali. Come si legge nell’allegato 2 del provvedimento, “a fronte della necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti, occorre mettere a disposizione del Sistema Regionale i posti letto delle “Cure extra ospedaliere” (subacuti, postacuti, riabilitazione specialistica sanitaria (in particolare pneumologica), cure intermedie intensive e estensive, posti letto in RSA)”. A tal fine, la delibera dispone che “l’individuazione da parte delle ATS di strutture autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e dal punto di vista organizzativo, sia di strutture non inserite nella rete dell’emergenza urgenza e POT, sia di strutture della rete sociosanitaria (ad esempio RSA) da dedicare all’assistenza a bassa intensità dei pazienti COVID positivi”. Un provvedimento che l’assessore al Welfare della regione Lombardia Giulio Gallera ha difeso, spiegando che era necessario “trasferire pazienti dagli ospedali alle rsa per ricoverare persone e salvare vite”. Secondo Gallera, il trasferimento sarebbe avvenuto solo in quelle strutture che offrivano padiglioni separati e indipendenti e con personale dedicato, in modo da evitare qualsiasi contagio. Tuttavia, la decisione è stata molto contestata. “È stata una delle criticità che sono emerse, un errore madornale. Non si può mettere nella stessa struttura pazienti covid-19 e non. La diffusione della malattia è immediata, visto che si tratta di un virus a rapida contagiosità”, spiega a Business Insider Italia Carlo Palermo, segretario nazionale Anaao – Assomed (associazione medici dirigenti), che aggiunge: “La questione però da non dimenticare è che il sistema sanitario delle zone più colpite si è trovato assalito, anche perché il metodo seguito per fronteggiare l’emergenza si basava sull’ospedalizzazione, mentre l’assistenza domiciliare è mancata”. In altre parole, il sistema ospedaliero è andato rapidamente in saturazione, con la necessità di liberare posti letto, anche perché sono stati assenti o insufficienti gli interventi sul territorio per garantire le cure e l’isolamento dei pazienti con tutte le precauzioni del caso. Altro problema è stato la mancanza di mascherine adeguate e di altri dpi. “Molte realtà in Italia, tra cui le rsa, si sono trovate impreparate e non sufficientemente equipaggiate per fronteggiare l’emergenza”, continua Palermo, sottolineando che “in generale, ci sono state difficoltà di sistema. La protezione degli operatori sanitari, una risorsa fondamentale per fronteggiare l’epidemia, non è stata garantita; i piani pandemici regionali e nazionali sono fermi al 2007, con qualche revisione nel 2010 rimasta lettera morta; non c’è stata un’allerta tempestiva, che poteva derivare dai casi strani di broncopolmonite registrati. Abbiamo poi perso un mese dalla dichiarazione dello stato di emergenza avvenuto il 31 gennaio”.

I decessi nelle case di riposo in Italia. Lo studio condotto da Adelina Comas-Herrera (CPEC, LSE) ed Joseba Zalakain (SIIS) fa notare che “i dati provengono da fonti diverse e quindi non sono comparabili”. Questo perché le statistiche ufficiali non sono disponibili in ogni stato e quindi in alcuni casi i ricercatori hanno dovuto raccogliere informazioni dalla stampa. Inoltre, “il metodo seguito per registrare i decessi associati al covid-19 nelle case di riposo (e la definizione stessa di casa di riposo) varia tra i paesi e tra le regioni di uno stesso paese”, sottolinea il team della London School of Economics. Per quanto riguarda il caso della penisola, la fonte dello studio sono i dati ufficiali contenuti in un report dell’Istituto superiore di Sanità, che ha effettuato una survey nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. Il sondaggio è stato inviato a 2166 case di riposo (su un totale di 4629) presenti sul territorio nazionale. Di queste, hanno risposto solo 577, che contano 44457 residenti: il 26 per cento di quelle invitate a prendere parte alla ricerca, circa il 10 per cento delle strutture italiane). Come scrivono i ricercatori, “tra il 26 febbraio e il 6 aprile, ci sono state in generale 3859 decessi nelle case di riposo che hanno risposto, circa l’8,6 per cento degli ospiti. C’erano anche differenze regionali, dal 13,1 per cento della Lombardia al 7 per cento del Veneto. Si stima che il 37,3 per cento di tutte queste morti erano associate al covid-19 (il 3,2 per cento del numero totale dei residenti nelle strutture)”. Gli studiosi hanno analizzato questi dati considerando il numero complessivo delle persone che vivono nelle case di riposo in Italia. E sono arrivati a stimare che 9509 decessi in queste strutture sono legate al covid-19, vale a dire “il 53 per cento del numero totale di morti pari a 18 mila registrate in Italia al 9 aprile 2020”.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 16 aprile 2020. Le premesse non erano delle migliori. I numeri di denunce e sanzioni del Nas, già nel 2019, sporte a dirigenti e personale di Rsa e case di riposo, erano il preludio alla catastrofe che si sarebbe poi abbattuta sugli anziani in piena emergenza Coronavirus. Appena un anno fa veniva fotografato dai carabinieri un sistema fragile, le cui contraddizioni sarebbero scoppiate durante la prima tempesta. Ed ecco che alla prima pioggia di contagi l'ombrello protettivo, aperto sugli anziani nelle case di riposo, ha mostrato tutti i suoi buchi. Il risultato è un numero sproporzionato di morti all'interno di queste strutture dove il virus è entrato e si è diffuso con troppa facilità. Una serie a catena di decessi, sparsi in tutta Italia, la cui drammatica conta ancora oggi non è terminata. Un pericolo che rischia di allargarsi anche alle Residenze sanitarie per disabili. Si tratta di un «nuovo fronte dimenticato di diffusione del SarsCov2», accusa il presidente della Associazione nazionale famiglie di disabili intellettivi (Anffas) Roberto Speziale: «In 17 delle Rsd che fanno capo all'Anffas (su un totale di 156) ci sono importanti focolai, con 57 soggetti disabili e 52 operatori contagiati, e 5 decessi tra gli ospiti». È «grave che ad oggi non sia stato fatto un censimento - afferma Speziale - come per le Rsa per anziani». E proprio il 31 marzo carabinieri e l'Asl, dopo aver riscontrato carenze igienico sanitarie e strutturali, hanno disposto la chiusura di una struttura Rsd a Giugliano, in provincia di Napoli. Ma è soprattutto sulle Rsa, le case di riposo, i centri ad orientamento sanitario-riabilitativo e di lungodegenza che si è concentrata l'attenzione del Nas. Si scopre dai dati presentati dall'Arma che quasi un terzo delle strutture controllate l'anno scorso, in totale 2.716, presentava irregolarità. I primi mesi del 2020 non hanno certo rappresentato una svolta. Su 918 centri per anziani controllati 183 presentavano le più disparate irregolarità: la mancanza di figure professionali adeguate alle necessità degli ospiti, la presenza di un numero superiore di anziani rispetto al limite previsto, l'uso di spazi e stanze inferiori a quelle minime da utilizzare, la mancata assistenza e custodia dei pazienti, l'esercizio abusivo della professione sanitaria, l'uso di false attestazioni di possesso di autorizzazione all'esercizio e di titoli professionali validi. Tradotto in numeri: 172 persone denunciate. Ma il dato che fa più riflettere è il numero di case di riposo per cui è stata imposta la chiusura, 25. I motivi per i quali si è deciso di apporre i sigilli sono sostanzialmente due: ambienti deficitari in materia sanitaria ed edilizia oppure strutture abusive. È il caso di una casa di riposo a Fonte Nuova, ad est della Capitale, senza uno straccio di autorizzazione. Quattordici anziani divisi in due palazzine. Una accanto all'altra. Un potenziale focolaio per il Coronavirus. Ad accertare le irregolarità gestionali delle strutture socio-assistenziali per la terza età e provvedere alla chiusura e al ricollocamento dei pazienti, lo scorso tre marzo, sono stati i carabinieri del Nas di Roma guidati dal comandante Maurizio Santori. A Reggio Calabria il 15 febbraio è stata chiusa una struttura illegale che ospitava 14 anziani. A Taranto sono stati messi i sigilli a una casa di riposo che ospitava pazienti affetti da patologie psico fisiche, ma non aveva né personale né impianti qualificati per quel tipo di assistenza. Un copione simile è andato in scena a Campobasso. In Umbria gli investigatori hanno scoperto che in 5 diverse case di riposo erano ospitati anziani invalidi. Nella documentazione medica si sosteneva il contrario. Un modo per aggirare le autorizzazioni regionali e ridurre così il personale qualificato per l'assistenza ed infine incassare più soldi. I Nas di Udine sono invece intervenuti in una struttura in cui i 21 ospiti erano tutti positivi al Covid-19. La casa di riposo presentava gravi carenze organizzative, per questo è stata chiusa. I pazienti sono stati tutti trasferiti.

Coronavirus, i Nas nelle Rsa di tutta Italia: irregolarità nel 17% delle strutture, 61 denunce e 15 residenze chiuse. Il Quotidiano del Sud il 15 aprile 2020. Centoquattro strutture per anziani non conformi alla normativa su 601 controllate (pari al 17%), 61 persone denunciate e altre 157 sanzionate per un ammontare complessivo di oltre 72mila euro. È il bilancio dei controlli dei Nas che, a partire da febbraio, dopo la dichiarazione dello stato di emergenza ed il susseguirsi delle varie misure di contenimento legate all’emergenza Covid, hanno effettuato un’attenta e mirata azione di vigilanza presso le strutture ricettive sanitarie e socio assistenziali destinate ad ospitare persone anziane e con disabilità. Dall’inizio dell’emergenza Covid-19 sono state rilevate anche specifiche violazioni riguardanti il rispetto della normativa di sicurezza dei luoghi di lavoro, sia come mancanza di dispositivi di protezione individuale che di formazione del personale al fine di prevenire la propria incolumità e, di conseguenza, quella degli ospiti. «A causa delle gravi carenze strutturali ed organizzative sono stati eseguiti provvedimenti di sospensione e di chiusura nei confronti di 15 attività ricettive, giudicate incompatibili con la permanenza degli alloggiati, determinando il trasferimento degli stessi in altri centri, nel rispetto delle procedure nazionali e regionali previste per la prevenzione di possibili contagi», fa sapere il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute.

Da leggo.it il 16 aprile 2020. «Se tu ti muovi di qua ti rompo una gamba, cosi la smetti; devi stare zitta, muta; devi morire, buttare veleno...». Era un vero e proprio regime di terrore quello instaurato nella casa di riposo «Aurora», sequestrata dalla Finanza a Palermo. Sei donne sono accusate a vario titolo di maltrattamenti ai danni di anziani, bancarotta, riciclaggio e autoriciclaggio. Si tratta della amministratrice Maria Cristina Catalano e da cinque sue dipendenti, tutte finite in carcere. Maltrattamenti e violenze inaudite nei confronti di anziani inermi picchiati con calci, schiaffi, colpi di scopa, perfino legati alle sedie per impedire loro di muoversi. Un campionario di crudeltà documentato in due mesi dalle immagini delle telecamere piazzate di nascosto dai militari della Guardia di Finanza nell'ospizio lager. Oltre alle violenze fisiche i degenti venivano anche insultati e sottoposti a continue mortificazioni psicologiche: «Sei una schifosa, devi dire che fai schifo» viene detto a una anziana che si lamenta. Insulti accompagnati dalle immancabili percosse fino a costringere la poveretta a ripetere «basta, faccio schifo..» e a schiaffeggiarsi da sola pur di fare cessare quella persecuzione insopportabile. Emblematiche anche le parole dell'amministratrice della casa di riposo in occasione del soccorso prestato inizialmente ad una degente, poi deceduta: «Ti dico che io in altri periodi avrei aspettato che moriva perché già boccheggiava... lo ripeto fosse stato un altro periodo non avrei fatto niente, l'avrei messa a letto e avrei aspettato. Perché era morta». Non è un caso dunque che il Gip, nell'ordinanza segnali «l'urgenza di interrompere un orrore quotidiano» evidenziando come «l'indole criminale e spietata degli indagati impone l'adozione della custodia cautelare in carcere ritenuta l'unica proporzionata alla gravità e alla immoralità della condotta e l'unica a contenere la disumanità degli impulsi». Gli investigatori hanno documentato, attraverso telecamere nascoste, decine di episodi con violenze fisiche e psicologiche nei confronti degli ospiti della casa di riposo: spintoni, calci e schiaffi accompagnati da insulti e ingiurie. Gli anziani ospiti della casa di riposo 'Aurorà, sottoposti a vessazioni e soprusi che hanno provocato sconcerto tra gli stessi inquirenti, saranno adesso sottoposti anche a controlli medici visto che all'interno della struttura non sono mai state adottate le procedure per il contenimento del coronavirus. Le indagini dei militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria sono state coordinate dalla procura. Contestualmente all'emissione dei provvedimenti di custodia cautelare in carcere, il gip ha disposto il sequestro preventivo della società che gestisce la casa di riposo, al centro di un complesso giro di fallimenti pilotati per un passivo di circa un milione di euro. Da qui l'accusa di bancarotta fraudolenta, riciclaggio e autoriciclaggio. Le sei donne arrestate sono Maria Cristina Catalano, 57 anni, amministratrice di fatto dalla casa di riposo, Vincenza Bruno, 35 anni che coadiuvava l'amministratrice, e le dipendenti Anna Monti di 53 anni, Valeria La Barbera di 28, Rosaria Florio di 42 e Antonina Di Liberto di 55. Quest'ultima è stata anche denunciata per truffa insieme al compagno, che percepisce il reddito di cittadinanza con false dichiarazioni. Per quanto riguarda i reati fallimentari, è stata dimostrata la continuità aziendale di tre società che, a partire dal 1992, avrebbero gestito ininterrottamente la casa di riposo. Secondo quanto hanno accertato gli investigatori, Catalano, indicata come la mente del disegno criminale, poteva contare su alcune 'teste di legnò che sarebbero stati formali amministratori e su soggetti compiacenti, tra cui un impiegato comunale, tutti indagati. La gestione della struttura è stata affidata a un amministratore giudiziario.

Anziani torturati nella casa di riposo: “Crepa, se ti muovi ti rompo una gamba”. Redazione de Il Riformista il 16 Aprile 2020. “Se tu ti muovi di qua io ti rompo una gamba cosi la smetti, o zitta, muta“. E ancora: “Per quanto mi riguarda può crepare” in riferimento a una donna successivamente deceduta. Poi calci, schiaffi, colpi di scopa, spintoni e, in alcuni casi, gli anziani ospiti legati alla sedia per non farli muovere. Un regime di terrore quello instaurato nella casa di riposo Aurora di Palermo dalla amministratrice Maria Cristina Catalano e da cinque sue dipendenti, tutte finite in carcere nell’ambito di una operazione dei finanzieri del Nucleo di polizia economico – finanziaria di Palermo, coordinate dalla Procura della Repubblica del capoluogo siciliano. Le fiamme gialle hanno dato esecuzione ad un’ordinanza emessa dal gip del Tribunale di Palermo, con la quale è stata disposta l’applicazione della custodia cautelare in carcere nei confronti dei sei soggetti, responsabili del reato di maltrattamento ai danni di anziani ospiti di una casa di riposo di Palermo. Con il medesimo provvedimento, il gip ha disposto il sequestro preventivo della società che gestisce l’attività assistenziale, quale profitto dei delitti di bancarotta fraudolenta, riciclaggio e autoriciclaggio, nonché di una carta Reddito di cittadinanza indebitamente ottenuta da uno degli indagati.

INTERCETTAZIONI ED EX DIPENDENTI – Le indagini eseguite dai finanzieri del Gruppo Tutela Mercato Capitali del Nucleo di polizia economico – finanziaria di Palermo, valorizzando anche le dichiarazioni di ex dipendenti della struttura, hanno inoltre consentito di individuare allarmanti episodi di maltrattamento, fisico e psicologico, ai danni degli anziani ospiti della casa di riposo. Su delega della Procura della Repubblica, sono state quindi avviate specifiche attività di intercettazione, che hanno consentito fin da subito di documentare la sistematica attuazione di metodi di vessazione fisica e psicologica inflitti agli anziani costretti a vivere in uno stato di costante soggezione e paura, ingenerando uno stato di totale esasperazione fino al compimento di atti di autolesionismo. In poco più di due mesi sono state, infatti, registrate decine e decine di condotte ignobili di maltrattamento poste in essere in danno di persone fragili e indifese.

ANZIANA MORTA: “BOCCHEGGIAVA, L’AVREI LASCIATA NEL LETTO” – Un vero e proprio regime di vita vessatorio, mortificante ed insostenibile, scrive il gip del tribunale di Palermo, fatto di continue ingiurie e minacce (“devi morire, devi buttare il veleno là”) e violenze fisiche. Emblematica della crudeltà è l’affermazione registrata in occasione del soccorso inizialmente prestato ad una degente, poi purtroppo deceduta, quando l’amministratrice Catalano affermava: “Ti dico che io in altri periodi avrei aspettato che moriva perché già boccheggiava… io lo ripeto fosse stato un altro periodo non avrei fatto niente l’avrei messa a letto e avrei aspettato. Perché era morta”. Lo stesso gip, nel valutare il gravissimo quadro probatorio raccolto dalle Fiamme Gialle palermitane, segnala “l’urgenza di interrompere un orrore quotidiano”, evidenziando come “l’indole criminale e spietata degli indagati impone l’adozione della misura della custodia cautelare in carcere, ritenuta l’unica proporzionata alla gravità ed all’immoralità della condotta e l’unica idonea a contenere la disumanità degli impulsi”.

L’ORGANIZZAZIONE – Al vertice del disegno criminale vi era Maria Cristina Catalano, 57 anni, già referente delle precedenti società fallite, nonché amministratrice di fatto della compagine che gestisce attualmente la casa di riposo, coadiuvata da Vincenza Bruno, 35 anni, e dalle altre dipendenti Anna Monti, 53 anni, Valeria La Barbera, 28 anni, Antonina Di Liberto, 55 anni, e Rosaria Florio, 42 anni.

LAVORO E REDDITO CITTADINANZA – La Di Liberto risulta inoltre inserita in un nucleo familiare percettore del reddito di cittadinanza (799 euro al mese dal maggio 2019) ottenuto però con dichiarazioni mendaci e per questo è stata denunciata anche per tale fattispecie illecita in concorso con il compagno 65enne, effettivo richiedente il beneficio.

BUCO DA UN MILIONE – Per quanto attiene ai reati fallimentari, è stata dimostrata la continuità aziendale tra tre società che ininterrottamente a partire dal 1992 hanno gestito la casa di riposo Aurora. Le diverse compagini sono state asservite agli interessi criminali degli indagati facendole subentrare l’una all’altra una volta portate in stato di decozione finanziaria, accumulando complessivamente un passivo fallimentare pari a circa un milione di euro. Per realizzare il disegno criminoso sono state perpetrate operazioni di distrazione patrimoniale, di riciclaggio e autoriciclaggio, potendo contare la Catalano sul contributo di soggetti "teste di legno" in qualità di formali amministratori e su soggetti compiacenti, tra i quali anche un impiegato comunale, tutti indagati.

Le residenze sanitarie. Da Nord a Sud, la strage degli anziani nelle residenze sanitarie. I corpi nelle palestre. Elisabetta Andreis, Fabrizio Caccia e Margherita De Bac il 10 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. Al Pio Albergo Trivulzio ieri altri 6 morti, in arrivo gli ispettori del ministero. A Macerata il procuratore ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Il governatore delle Marche: «Posso capire gli errori a febbraio, oggi no». Al Pio Albergo Trivulzio ieri altri sei morti, in arrivo gli ispettori del ministero. A Macerata il procuratore ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Il governatore delle Marche: «Posso capire gli errori a febbraio, oggi no. Pronti a revoca convenzioni». «La cosa che mi porterò nel cuore per sempre — racconta Nadia Storti, direttrice della sanità regionale delle Marche — è la stretta di mano che mi diede, forte forte, prima di salutarci, una vecchina di 97 anni ospite del presidio di Chiaravalle, in provincia di Ancona. Una stretta di mano colma di gratitudine per quel contatto umano appena ricevuto...». Perché il dramma nel dramma, ormai lo sappiamo, per migliaia di anziani è proprio questo: vivere l’esperienza tragica del Covid-19 da soli, lontani dai parenti, in quarantena, dentro le case di riposo di tutta Italia. Il bollettino purtroppo si aggiorna di continuo, la strage silenziosa dei nonni d’Italia non si ferma. L’Istituto superiore di sanità ha reso pubblico il secondo rapporto sul contagio nelle strutture residenziali in Italia. Il 37,4% dei decessi, equivalente a 1.443 persone su 3.859 morti dal primo febbraio ad oggi, erano positivi al Sars-CoV-2 o avevano sintomi simil-influenzali, comuni a quelli dell’epidemia. L’indagine è partita a fine marzo, per ora riporta i dati di neppure 600 strutture. Tanto lavoro c’è ancora da fare, tanto c’è da scoprire se solo si pensa che queste strutture sono 4.630. Numeri, insomma, da moltiplicare. E il rapporto Iss si limita solo alle Rsa, strutture sanitarie dove operano medici. Ma mancano ancora dei numeri precisi sull’universo infinito delle case di riposo, dove i medici spesso non arrivano e il cui elenco sfugge perfino ai Comuni che devono dare le autorizzazioni. Per non parlare del sommerso. Dalla Lombardia alla Sicilia, insomma, un’ecatombe.

Le vittime lombarde. Le vittime, nelle sole Rsa milanesi, sono arrivate a quota 700. A Milano, salme in attesa di essere incassate nelle bare iniziano ad affollare persino le palestre prima utilizzate per le sedute di riabilitazione (come al «Girola», struttura del Don Gnocchi) o le sale mensa (succede alla Rsa «Famagosta»). Non bastano più, dunque, le cappelle degli istituti. Il Pio Albergo Trivulzio conta 54 morti nei primi nove giorni di aprile (sei solo ieri), erano stati 70 in tutto a marzo: forse già domani gli ispettori del ministero andranno a visitare la struttura. Al Don Gnocchi i deceduti sono arrivati a 140: il virus ha mietuto ieri la prima vittima persino nell’area super protetta, «L’Arcobaleno», dedicata ai malati di Alzheimer; al Golgi Redaelli (120 operatori a casa in malattia e 27 decessi) finalmente i pazienti senza sintomi sono stati isolati da quelli sospetti. Ancora: nelle sedi della Sacra Famiglia (Rsd per disabili, oltre che Rsa) il Covid è entrato da poco e sono già una ventina quelli che non ce l’hanno fatta.

Le accuse nelle Marche. Luca Ceriscioli, il governatore delle Marche (62 anziani morti dall’inizio della pandemia tra case di riposo e Rsa), è esterrefatto: «Io posso anche capire gli errori di sottovalutazione quando all’inizio, parlo di febbraio, non fu facile per nessuno, noi compresi, capire l’entità del fenomeno, la pericolosità del virus, e dentro le case di riposo si organizzarono perfino delle feste di Carnevale. Ma oggi (ieri, ndr) che dovrebbe essere tutto chiaro e tutti dovrebbero conoscere i protocolli, mi chiamano per esempio dalla Rsa di Saltara (Pesaro) per dirmi: “Siamo in difficoltà, qui gli anziani ospiti hanno tutti la febbre, aiutateci con i tamponi”. Ora è chiaro che noi daremo una mano, ma alla fine di tutto bisognerà rivedere molte cose: per esempio, alle strutture che hanno dato prova di cattiva gestione potremmo decidere di revocare la convenzione». Otto morti nella Rsa di Recanati; altri 13 in tre settimane a Villa Almagià (Ancona); 8 decessi (i primi, quelli che fecero più scalpore) nella casa di riposo di Cingoli, Macerata, dove adesso però per fortuna sono arrivati i rinforzi: due medici e quattro infermieri della Marina militare. Così come in 10 strutture tra Ancona, Senigallia, Jesi e Fabriano la Regione ha chiamato in supporto un team di Medici senza Frontiere con la loro enorme esperienza su Ebola per formare il personale sanitario e i medici di famiglia a contatto con gli anziani.

Le inchieste. Sono già state aperte varie inchieste: a Milano, Prato, Padova. «È un dramma — si sfoga il procuratore di Macerata, Giovanni Giorgio, che ha aperto un fascicolo per omicidio colposo a carico di ignoti —. Sarebbe auspicabile l’introduzione di norme che chiariscano al più presto la possibilità delle audizioni da remoto. Noi, infatti, abbiamo la necessità di ascoltare il personale sanitario che ha operato in quelle case di riposo dove ci sono stati i decessi, per capire se ci sono state sottovalutazioni o peggio omissioni. Ma per ora ci possiamo limitare all’acquisizione di documenti, non possiamo interrogare a distanza i testimoni perché sarebbe un salto in avanti nel diritto: possiamo solo telefonare loro ma in questo caso la conversazione non ha valore giuridico. Eppoi perlopiù stiamo parlando di testimoni che adesso sono a casa in quarantena per il Covid-19». Secondo un report dell’Unione sindacale di base (Usb) oltre il 61% dei decessi di anziani è avvenuto in Lombardia. Seguono Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte. In Emilia-Romagna fanno spavento i 59 decessi registrati nelle case di riposo modenesi: 58 anziani oltre all’operatrice 36enne di «Villa Margherita» Anna Caracciolo, amatissima da tutti i vecchietti. E non va neppure dimenticato il terribile focolaio dell’istituto Sant’Anna e Santa Caterina di Bologna, con 18 decessi registrati fino al 6 aprile. Per fortuna da tre giorni, l’unica nota lieta, niente più lutti. Anche la Toscana piange in silenzio i suoi morti (63 in tutto): la Procura di Prato ha aperto un’inchiesta su quanto accaduto nella Rsa di Comeana (sei anziani deceduti, 18 positivi e 15 operatori contagiati). E ancora: nel Lazio emblematico il caso di Nerola, zona rossa in provincia di Rieti, con la casa «Maria Immacolata» subito evacuata dopo la seconda vittima. Altre situazioni critiche a Cassino, Veroli, Civitavecchia: «Quando saremo fuori dell’emergenza bisognerà riorganizzare le reti. Nelle case di riposo dovrebbero essere ospitati solo gli autosufficienti, qui l’80% non lo erano», denuncia l’assessore alla sanità Alessio D’Amato. Ogni regione conta i suoi morti: tre alla «Casa di Mela» di Fuorigrotta (Napoli), poi sgomberata dalla Asl; otto anziani deceduti in Sicilia nella casa di riposo di Villafrati (Palermo); 12 in Puglia a «La Fontanella» di Soleto (Lecce); 19 alla «Domus Aurea» di Chiaravalle (Catanzaro) dove il focolaio esplose 10 giorni fa. Ogni giorno ha la sua pena. Quando finirà?

La strage di anziani. Nemmeno l’Istituto Superiore di Sanità sa quanti sono i morti nelle case di cura. Irene Dominioni su L’Inkiesta il 9 Aprile 2020. Negli ospizi a pochissimi è stato fatto il tampone, nelle strutture mancano personale e dispositivi di protezione. La situazione è drammatica soprattutto in Lombardia. Proviamo a fare chiarezza. Anziani, spesso con diverse patologie e non autosufficienti, ricoverati in strutture al massimo della loro capienza, con familiari e visitatori che entrano ed escono dall’edificio tutti i giorni. Gli elementi per rendere le Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) dei moltiplicatori del contagio c’erano tutti. Ora una indagine nazionale sul contagio COVID-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie realizzata dall’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, fotografa la situazione all’interno delle strutture. Su un totale di 4629 Rsa in Italia, di cui 2166 contattate dall’Iss, 577 hanno risposto alle domande, il 24% sul totale delle strutture nel Paese. Secondo la ricerca, su 44.457 residenti (in 572 strutture, al 1° febbraio 2020) fino alla data di compilazione del questionario (tra il 26 marzo e il 6 aprile) i morti sono 3.859, l’8,4% (nel calcolo del tasso di mortalità sono stati compresi i nuovi ingressi dall’uno di marzo). La Lombardia, con 1.822 decessi calcolati da febbraio, è in assoluto la regione che ha registrato più morti nelle residenze, a grande distanza da tutte le altre regioni. Il Veneto è seconda per numero di morti (760). La Lombardia è anche la regione che in Italia presenta la maggiore concentrazione di case di cura per anziani (677), seguita sempre dal Veneto, che ne ha 521. La percentuale di decessi sugli ospiti delle strutture in Lombardia è del 47.2%, quella del Veneto del 19.7%. A livello nazionale, dei 3.859 soggetti deceduti, 133 erano risultati positivi al tampone e 1.310 presentavano sintomi simil-influenzali. Il 37.4% dei morti aveva i sintomi del Covid-19. Il tasso di mortalità fra i residenti, considerando i decessi legati al Covid-19, è del 3.1% a livello nazionale, ma sale fino al 6.8% in Lombardia. «Da un ulteriore approfondimento, risulta che in Lombardia e in Liguria circa un quarto delle strutture (rispettivamente il 23% e il 25%), presenta un tasso di mortalità maggiore o uguale al 10%», spiega il rapporto.

Il caso Lombardia. In Lombardia, il 51.3% di coloro che erano positivi al Covid-19 e che presentavano sintomi, è morto. Al 6 aprile, in Lombardia risultano ancora 163 positivi al Covid-19 (risultati da tampone) nelle strutture del territorio. Non è chiaro quanti tamponi siano stati fatti: Linkiesta ha contattato le 8 ATS (Agenzie di tutela della salute, ndr) della Lombardia senza avere risposta. Nella regione, il 49,7% dei deceduti è morto tra il 16 e il 31 marzo. L’assessore alla Sanità della Regione Lombardia, Giulio Gallera, in conferenza stampa ha dichiarato di aver diffuso un primo documento di linee guida destinate alle Rsa del territorio il 23 febbraio, indicando alle strutture di limitare fortemente gli accessi dei visitatori esterni, seguita da una seconda comunicazione l’8 marzo, per bloccare totalmente le visite dei parenti e prescrivere che tutti coloro che avevano una sindrome simil-influenzale fossero isolati, a prescindere dal tampone. In alcune strutture la chiusura però è arrivata tardi: il quotidiano di Pavia La Provincia Pavese scriveva il 21 marzo «chiuse da oggi le Rsa Pertusati e Santa Croce». A Milano sta facendo discutere il caso del Pio Albergo Trivulzio, la più grande residenza sanitaria assistenziale d’Italia, dove secondo un’inchiesta di Repubblica si è egistato un numero di morti anomale e i contagi non sono stati comunicati. Il Trivulzio in una nota si è giustificato dicendo che su un totale di 1.012 persone all’interno della struttura, a marzo si sono registrati 70 decessi, in linea con quelli dell’anno precedente. La procura di Milano ha aperto un’inchiesta mentre il viceministro alla Sanità Pierpaolo Sileri ha annunciato di avere mandato gli ispettori. Anche la direzione regionale ha voluto istituire una commissione esterna di controllo, annunciata all’inizio di questa settimana.

Tamponi e mascherine: le Rsa senza protezioni. Secondo l’Istituto superiore di sanità, le Residenze sanitarie assistenziali «sono strutture importanti e fragili nella dinamica di questa epidemia. Oltre alle misure in essere è molto importante adottare una speciale attenzione nella prevenzione e controllo». Ma i problemi sono molti, in Lombardia e non solo. Secondo la ricerca dell’Iss, a livello nazionale (547 Rsa rispondenti) l’85.9% delle strutture ha riportato la mancanza di Dispositivi di Protezione Individuale, mentre il 17.7% ha riportato una scarsità di informazioni ricevute circa le procedure da svolgere per contenere l’infezione. L’11.9% segnala una carenza di farmaci, il 35.1% l’assenza di personale sanitario e l’11.3% difficoltà nel trasferire i residenti affetti da COVID-19 in strutture ospedaliere. «Non potevano essere preparate a gestire l’emergenza, le Rsa sono luoghi dove si accolgono persone anziane non autosufficienti e pluripatologiche, non sono ospedali. Pensare che il Covid-19 non potesse entrare lì è stato l’errore più grave. Bisognava cominciare a preparare molto prima i gestori su cosa fare quando il contagio sarebbe arrivato. Ma fino a una settimana fa lo sguardo di Regione Lombardia è andato solo in direzione degli ospedali, dopo quasi un mese e mezzo che il contagio era avviato», dice a Linkiesta Valeria Negrini, presidente di Confcooperative-Federsolidarietà, l’ente che unisce 1200 cooperative che svolgono servizi nel terzo settore, tra cui l’ambito delle Rsa, nel territorio lombardo. Nelle Rsa della cerchia di Confcooperative-Federsolidarietà, i problemi ricalcano quelli sollevati dall’Istituto superiore di sanità. «Le consegne di mascherine e dispositivi di protezione stanno migliorando, ma non in maniera sufficiente. I tamponi sono ancora limitati, ci si è concentrati sui casi sintomatici e non c’è stato tracciamento dei potenziali positivi. Solo quattro giorni fa si è iniziato con le ATS che hanno iniziato a chiedere alle strutture quanti tamponi avessero bisogno per avviare un primo screening di casi sintomatici, paucisintomatici e di contatti a rischio di queste persone», spiega Negrini. Anche per il personale sanitario si riscontrano problemi simili a quelli degli ospedali. «Non è così chiaro se il test sia estendibile a tutti gli operatori», dice Negrini. «Le ATS chiedono la lista dei paucisintomatici da tamponare, ma ufficialmente solo il personale che rientra dalla quarantena va tamponato per essere sicuri che non sia più contagioso». Secondo il sondaggio Iss, su 560 strutture sul territorio nazionale, il 17,3% ha dichiarato una positività per SARS-CoV-2 del personale della struttura. In Lombardia questa percentuale sale al 34.6%. Anche l’isolamento costituisce un problema per molte strutture: se a livello nazionale il 47% delle Rsa dichiara di poter disporre di una stanza singola per i residenti con infezione confermata o sospetta, o stanze dove poter mettere più di una persona (30%), il 24.9% dichiara di avere difficoltà nell’isolamento dei residenti affetti da Covid-19. L’operazione è difficile soprattutto per le strutture più piccole (a livello nazionale, la media è di 80 posti letto a struttura). «Nelle strutture con 40 o 50 posti spesso non ci sono gli spazi per riorganizzare», spiega Negrini. Linkiesta ha cercato di mettersi in contatto con l’assessorato alla Sanità lombardo per sapere se sia stata almeno considerata la possibilità di comunicare alle famiglie che ne hanno i mezzi di portare i pazienti meno problematici in isolamento a casa, ma senza successo. Negrini denuncia inoltre come non sia stato fornito il personale medico adeguato a trattare i casi di Covid. «Pneumologi e infettivologi sono figure fondamentali. La Regione deve dire alle ASST (Aziende socio sanitarie territoriali, ndr) di fornire consulenza specialistica e personale specifico alle Rsa, e deve stabilire che vada fatta per tutto il territorio lombardo». Nell’indagine dell’Iss, su 568 strutture che hanno risposto alla domanda, il 63.9% dice di non aver ricevuto una consulenza ad hoc per la gestione clinica e/o di prevenzione e controllo per COVID 19.

Negrini: «La Regione ha sbagliato a usare le Rsa per i pazienti Covid». Negrini definisce inaccettabile la richiesta da parte di Regione Lombardia alle Rsa di accogliere pazienti Covid-19 per alleggerire la pressione sugli ospedali, una questione sollevata anche dal vicepresidente del consiglio regionale lombardo Carlo Borghetti e dal capodelegazione Pd in commissione sanità Gian Antonio Girelli. L’assessore Gallera, in conferenza stampa il 7 aprile, ha detto che il numero di pazienti Covid positivi trasferiti in Rsa è stato «limitatissimo», 150 pazienti spostati in 15 strutture, che le persone sono state collocate in palazzine e padiglioni separati, con personale dedicato e solo su disponibilità delle singole Rsa, e che questa scelta «ha salvato delle vite». Ma per Negrini «la richiesta in sé aveva una logica sbagliata. Qualche Rsa si è contagiata per aver accolto pazienti Covid». Regione Lombardia, peraltro, ha chiesto disponibilità alle Rsa ad accogliere pazienti non classificati come Covid (ma potenzialmente positivi, provenendo dall’ospedale), il che potrebbe rappresentare un’ulteriore fonte di contagio all’interno delle strutture. La situazione è ancora critica. «Il tampone viene fatto solo in alcuni casi. Le morti sono attribuite al coronavirus solo se risulta un tampone positivo. Che ci sia una sottostima nel numero di morti è indubbio», ha detto Giovanni Rezza dell’Iss. Linkiesta ha raggiunto al telefono G.V., un infermiere in una residenza privata convenzionata, parte di una catena con diverse Rsa, a Cinisello Balsamo. Racconta che un intero piano della Rsa in cui lavora è diventato un reparto Covid. Ci lavorano 6 infermieri, un medico e operatori assistenziali (OSS e ASA), per 109 ospiti. G.V. racconta che hanno cominciato a fare i tamponi ai pazienti soltanto a partire da questa settimana. Per il momento ne sono stati selezionati 8, nonostante il numero dei sospetti sia molto superiore. Tutti sono risultati positivi, e quattro di questi sono già morti. I dpi inizialmente erano «inesistenti», dice G.V. Avevano solo mascherine chirurgiche usa e getta che hanno tenuto per due giorni di fila. Ogni settimana muoiono 3-4 persone, ma nessuno è ancora stato portato in ospedale, in parte perché i familiari si sono opposti, in parte perché la direzione sanitaria ha ritenuto che intubarli fosse inutile. Lo stesso G.V. ha probabilmente contratto il Covid una decina di giorni fa. Con la febbre a 37,5, è stato mandato a casa e messo in isolamento fiduciario per 14 giorni. Nel frattempo, un’altra sua collega si è ammalata. Facevano già turni da 12 ore. Lui dovrebbe tornare al lavoro alla fine di questa settimana: sarà tra i primi a cui viene fatto il tampone. Nel frattempo, la struttura è stata segnalata all’ATS. «A questo punto, al rientro mi aspetto di tutto», dice.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 16 aprile 2020. Erano 82 persone, 29 sono morte, tutte le altre si sono ammalate tranne 7. «Mio padre è stato il primo a morire dentro la casa di riposo Trisoglio di Trofarello, il primo caso ufficiale di Covid in questa catastrofe», dice la signora Rosella Marasco. Si chiamava Cosimo Marasco, 87 anni, ex operaio alla Fiat, possedeva il 75 per cento di un piccolo appartamento nella provincia di Torino, ragion per cui era ritenuto benestante. Così il ricovero nella struttura pubblica, convenzionata con il privato, costava alla sua famiglia 2700 euro al mese. «Mi hanno chiamato la sera di domenica 22 marzo. Mi hanno detto: "Ha 38 di febbre. È saturato da 95 a 86. Lo portiamo all' ospedale di Moncalieri". La dottoressa del pronto soccorso mi ha chiamato subito, e non dimenticherò mai le sue parole, perché sono state queste: "È arrivato in condizioni tragiche. Anche senza l' esito del tampone, posso dirle con certezza che si tratta di coronavirus". Gli avevano fatto delle lastre ai polmoni. Mio padre è morto la mattina di martedì 24 marzo. Quella dottoressa è stata eccezionale: mi ha chiamato dicendomi una piccola bugia, ma io ho capito che non era soltanto peggiorato. Mi ha fatto bardare con la tuta e con i guanti, con la promessa che non avrei sfiorato neppure una parete. Così ho potuto vederlo da lontano: morto. Alle 11 di mattina la bara era già chiusa. Io avevo avvisato subito la casa di riposo. Ma non volevano credermi». Fino a quel giorno, nessuno aveva mai pronunciato la parola Covid dentro la Rsa di Trofarello. Era impossibile capire cosa stesse succedendo. Arrivavano poche informazioni, tutte rassicuranti. La struttura era stata chiusa ai parenti a partire dal 9 marzo. «Prima cercavo di andare a trovare mio padre quasi ogni sera. Tutti sappiamo che più ti fai vedere, più se ne prendono cura. L' ultima volta che ho cenato con lui ho visto che Luigi, il suo compagno di stanza, che teneva la bombola dell' ossigeno sul comodino, era morto. Per questo non saprei dire esattamente quando sia iniziata la strage. Ma so che mio padre è stato il primo a ricevere un tampone. Gliel' hanno fatto in ospedale. Quando ancora negavano tutto». Secondo la Cgil i morti all' interno della struttura di Trofarello sarebbe addirittura 40, ma quei dati vengono contestati dalla direzione, che fissa il numero a 29. La prima comunicazione ufficiale alle famiglie è stata inviata il 2 aprile, porta la firma del direttore sanitario Regine Guillevin: «Con dispiacere debbo confermare le notizie pubblicate dalla stampa e dai social media sulla presenza di infezioni Covid19 nella struttura». Erano passati 11 giorni dal primo caso. Il 10 aprile arriva la seconda comunicazione ai parenti: «In questa fase, le priorità sono tutelare la salute degli ospiti e assicurare al personale un elevato standard di sicurezza operativa. Pur comprendendo le aspettative di ricevere informazioni di maggiore dettaglio, obblighi di riservatezza gravanti su questo ente impediscono la divulgazione di ulteriori dati e informazioni a soggetti diversi da quelli deputati alla gestione dell' emergenza». Ma quello che sta succedendo è ormai fuori controllo: anche 19 operatori su 60 sono positivi al Covid. Molti altri stanno in isolamento. C' è carenza di mascherine. I ricambi sono pochi. Compaiono annunci su Facebook per arruolare volontari. Messaggi che sono preghiere: «Buongiorno a tutti, vi chiedo un enorme favore urgente. Si cerca personale, di ogni qualifica, per assistenza anziani per la casa di riposo Trisoglio di Trofarello. Per favore aiutateci». Ci sono stati momenti in cui erano soltanto 5 gli operatori in servizio. Ancora oggi 20 ospiti stanno aspettando il tampone. La direzione spiega: «A fronte della sopravvenuta defezione di personale - peraltro solo parzialmente riconducibile a situazioni di contagio da Covid19 - si è inoltre proceduto all' assunzione di 22 nuove risorse per garantire adeguati livelli di assistenza degli ospiti». Gli operatori sanitari che lavorano nelle Rsa vivono una doppia paura. Quella del contagio, e quella del licenziamento. «Mi ha chiamato un' infermiera che voleva bene a mio padre», dice ancora la signora Marasco. «È stata assunta in subappalto. È l' unica che guadagna nella sua famiglia. Si è ammalata di Covidi19, è stata malissimo. Ma ha paura di esporsi». Stanno nascendo i primi comitati, quelli dei parenti e quelli degli operatori sanitari. La solitudine nelle Rsa piemontesi è disperata. Ancora secondo la Cgil, al 13 aprile 2020 sono 450 le persone morte nelle strutture della regione. Ma adesso il numero è cresciuto ulteriormente: oltre 500. Ecco perché i dati sulla mortalità da Covid 19 sono così negativi in Piemonte. Sono i 25 morti della Rsa San Giuseppe di Grugliasco, portati allo scoperto dai vicini che vedevano dalle finestre un viavai continuo di carri funebri. Sono i 17 morti della Rsa San Matteo di Nichelino, con alcuni anziani trasportati prima a Torino e poi riportati indietro come pacchi. Sono i 7 morti della Rsa Cha Maria di Lauriano, con 31 dipendenti su 36 positivi al Covid. Sono i 50 malati su 100 della Sacra Famiglia di Mondovì, dove il direttore Diego Bottero per giorni e per settimane ha implorato perché potessero essere fatti i tamponi. Sono gli 11 morti su 37 positivi alla Rsa di Villanova di Mondovì, trasferiti a mezzanotte del 5 aprile nell' unico posto dove non dovevano essere portati. L' ospedale di Mondovì è stato chiuso per due giorni. I pazienti sono stati trasferiti altrove, a morire. L' ultima vittima, fino a questo punto del massacro, si chiamava Graziella Migliore, aveva 82 anni.

Giuseppe Legato e Elisa Sola per “la Stampa” il 10 aprile 2020. Da Torino a Vercelli, dal Canavese a Biella, da Novara a Cuneo. Si muovono le procure del Nord Ovest e accendono un faro sul "disastro" generato dal Covid19 nelle Rsa, negli hospice, nelle case di riposo. I fascicoli di indagine crescono di giorno in giorno: sono più di dieci solo per le province piemontesi. E se è pur vero che la formula utilizzata dai pm del "modello 45" - senza ipotesi di reato e senza indagati (a eccezione di Vercelli che ipotizza l' epidemia colposa a carico di ignoti) - presuppone un' indagine esplorativa e non inquisitoria, è altrettanto vero che le iniziative della magistratura sono ritenute «doverose» dai capi degli uffici giudiziari. Perché i numeri dei morti sono anomali - almeno 450 secondo la Cgil - fanno paura. Sulla metà dei deceduti si indaga. Otto fascicoli sono stati aperti in Canavese dal capo dei pm Giuseppe Ferrando che vuol capire «se è stato fatto tutto il possibile - dice - per prevenire il contagio». Riguardano strutture a Nole, San Mauro, Corio, Volpiano, Brusasco, Bosconero, San Maurizio Canavese. Morti, contagi e - forse - ritardi nelle comunicazioni e nelle scelte. A Torino la procura indaga sulle morti alla Rsa San Giuseppe di Grugliasco ma i Nas stanno eseguendo controlli a tappeto in almeno 20 strutture tra capoluogo e provincia. Ieri mattina i militari hanno bussato alle porte della Sereni Orizzonti di San Mauro (27 morti sospetti), in cima alla lista delle situazioni più critiche del Torinese con le Rsa di Grugliasco (30 decessi), Nichelino (13), Bosconero (9). Dopo quasi due mesi di lavoro - e decine di attività d' indagine avviate nella provincia di Torino, si può stimare, secondo gli inquirenti, una mortalità nelle case di riposo pari al doppio e in alcuni casi addirittura al triplo della media. I controlli proseguono anche nelle strutture da cui sono arrivate segnalazioni sull' assenza (presunta) di mascherine a norma. Come la casa di riposo di Borgaretto, dove i militari sono passati due giorni fa. Qui era ricoverata fino al 28 marzo Maria Montuori, morta pochi giorni in ospedale. La figlia Antonietta vuole chiarezza: «Nessuno mi ha scritto condoglianze, ma mi hanno chiesto 50 euro per la lavanderia». La situazione del Novarese merita attenzione. Il procuratore Marilinda Mineccia sta facendo monitorare 27 strutture. In quattro di queste i numeri dei morti sono anomale: 17 (dal 14 marzo ad oggi) all' Opera Pia Curti di Borgomanero, 15 nella casa di riposo San Francesco nel capoluogo, 8 alla residenza Riccardo Bauer di Pogno, 7 all' Hospice Villa Serena di Orta, sul lago. A Vercelli il capo dei pm Luigi Pianta ha acceso un faro sui 35 decessi registrati nella casa di riposo di piazza Mazzini: su 84 tamponi effettuati ai pazienti, 44 sono risultati positivi al virus. Il contagio si è esteso a pezzi del personale e delle cooperative esterne. In questo caso, unico in Piemonte, la procura ha ipotizzato il reato di epidemia colposa a carico di ignoti. Si ipotizza cioè che nella struttura non siano stati adottati dei comportamenti corretti dando luogo a un epidemia certo non voluta ma pur sempre tale a causa di presunte omissioni. A Cuneo un fascicolo è incentrato sulla casa di riposo di Villanova Mondovì, dove sono morti sei anziani. Dagli accertamenti fin qui effettuati dai Nas è emerso che su 37 persone, tra degenti e sanitari, 35 sono risultati positivi al Covid19.

La Procura di Genova acquisisce la lettera aperta dei gestori delle rsa. "Ci dissero di curare ospiti con covid nelle nostre residenze". La Repubblica il 04 maggio 2020. La procura di Genova ha acquisito la lettera aperta scritta dai gestori delle case di riposo della Liguria nella quale hanno affermato che venne chiesto loro di curare gli ammalati per il coronavirus nel loro ambiente. I magistrati del gruppo Salute e lavoro, coordinati dal procuratore aggiunto Francesco Pinto, hanno avviato una serie di approfondimenti per capire se vi siano responsabilità su questo aspetto. L'accertamento rientra nell'inchiesta generale per epidemia colposa, affidata ai carabinieri del Nas, guidati dal maggiore Massimo Pierini.  "Abbiamo compreso che l'invio dei nostri ospiti malati negli ospedali - era scritto nella missiva - avrebbe congestionato il sistema, abbiamo compreso le richieste di accoglienza di utenti che dovevano far spazio alle terapie intensive, abbiamo capito che i ritardi nei dispositivi di protezione o la contraddittorietà delle linee guida erano legati al dover attrezzare i reparti ospedalieri e le unità critiche". Intanto in procura continuano ad arrivare esposti anonimi, ma anche di parenti di anziani morti, di personale e sigle sindacali in cui si lamenta una errata gestione dell'emergenza. Si va dalla denuncia di bar aperti dentro le strutture, e quindi con accesso di persone esterne, alle dimissioni di pazienti senza sapere se avessero o meno il Covid, fino alle pressioni da parte delle direzioni sanitarie di non indossare i Dpi (le mascherine, in particolare) per non spaventare i degenti. In questi giorni i militari stanno sentendo i familiari degli anziani deceduti, ma anche personale medico e infermieristico per ricostruire con esattezza quanto fatto nei due mesi clou della pandemia. Silvio Invernelli, presidente dell’associazione provinciale cuneese case di riposo interviene “In merito alle notizie che si susseguono sui media in questi giorni, in riferimento alla gestione dell’emergenza covid-19 nelle case di riposo, come e a nome delle residenze per anziani, desidero fare qualche puntualizzazione in merito alla reale situazione in atto

Comunicato Stampa - 18 Aprile 2020 - 17:20. Un comunicato stampa per chiarire la gestione dell’emergenza covid-19 nelle residenze per anziani. E’ la via seguita da Silvio Invernelli, presidente dell’associazione provinciale cuneese delle case di riposo che interviene così su un tema sul quale si dibatte molto sia a livello locale che regionale.  “In merito alle notizie che si susseguono sui media in questi giorni, in riferimento alla gestione dell’emergenza covid-19 nelle case di riposo, come presidente dell’associazione provinciale cuneese case di riposo e a nome delle residenze per anziani, desidero fare qualche puntualizzazione in merito alla reale situazione in atto. Si deve sapere prima di tutto, che la maggior parte delle case di riposo aveva intrapreso azioni di prevenzione (quali chiusure delle strutture agli esterni e isolamenti di casi sospetti) ancor prima dell’emanazione dei DCPM e dei decreti della Regione Piemonte. I direttori delle strutture, poi, si erano adoperati in ogni modo – e continuano a farlo – per acquisire dispositivi di protezione individuali, purtroppo mai consegnati perché bloccati alla dogana, probabilmente per essere distribuiti alle strutture ospedaliere e alla protezione civile. Le residenze per anziani si sono così dovute ingegnare: alcune si sono procurate mascherine costruendole artigianalmente, grazie magari all’aiuto di parenti e volontari. In data 6 aprile, l’associazione stessa, a nome di 63 strutture della provincia, richiedeva ai tavoli di crisi i dispositivi di protezione individuali e i tamponi necessari per affrontare l’emergenza e in seguito continuava a sollecitarli: fino a ora, non ci sono pervenute risposte in merito. L’associazione, inoltre, insieme a molte case di riposo si è adoperata per l’acquisto e lo sdoganamento dei dispositivi di sicurezza necessari alle singole strutture: le procedure di sdoganamento continuano a rappresentare uno scoglio, in quanto le RSA, paradossalmente, non sono considerate presidi a rischio. Man mano che alcuni dispositivi si rendono finalmente disponibili, i volontari dell’associazione sono pronti a distribuirli a chi li aveva ordinati, in modo immediato e con priorità alle situazioni più critiche. Detto questo, desidero far chiarezza su alcuni numeri dell’attuale situazione: su 140 case di riposo della provincia di Cuneo, ad oggi 29 strutture dichiarano problemi di gestione dell’emergenza covid-19 e di queste solo 8 risultano in situazione di difficoltà e 3 sono cliniche riabilitative e non case di riposo. Rispetto alla media regionale dichiarata del 30% delle RSA con problemi di gestione del covid-19, nella provincia di Cuneo questo dato è del 18%, segno che il sistema di prevenzione individuato e attuato dalle RSA locali sta funzionando, nonostante il mancato supporto da parte delle istituzioni preposte alla lotta contro l’infezione, che le hanno lasciate sole. Il 90% delle criticità nelle case di riposo, sono, peraltro, da imputarsi a situazioni di ospiti provenienti dagli ospedali: non s’intende qui puntare il dito contro le aziende ospedaliere, che stanno lavorando in modo encomiabile, ma piuttosto sfatare il mito della casa di riposo come focolaio del virus. Ricordo anche che le RSA, per loro natura, non sono organizzate come presidi ospedalieri e, pertanto, non possono gestire gli aspetti sanitari derivanti dal covid (di gestione esclusivamente ospedaliera): come associazione, ci opponiamo quindi alla richiesta di ospitare e mantenere in struttura persone positive al virus. Tale evenienza metterebbe in grave pericolo la salute e la vita stessa degli altri ospiti, come si è già verificato, purtroppo, in altre regioni. Per quanto riguarda il numero dei decessi nelle RSA nella provincia di Cuneo, risultano essere, nel primo trimestre 2020, 337 contro i 344 del primo trimestre 2019 (dati forniti dalla Regione Piemonte), di questi 337, 28 sono stati dichiarati per covid-19. Mi sembra doveroso affermare quanto sopra riportato, anche a sostegno di tutte le persone che lavorano nelle RSA e che, da settimane, si spendono oltre limiti di orario e di fatica, per continuare a tutelare il benessere dei nostri anziani. A loro va, ancora una volta, il ringraziamento mio personale e di tutto il consiglio direttivo dell’Associazione”.

 “Giorno e notte nella Rsa senza mai uscire, così ho salvato 80 anziani”. Il Dubbio il 24 aprile 2020. Antonella Galluzzo racconta  la sua avventura tra le mura della Domus Patrizia, la casa di riposo di Milano che ha evitato contagi. “Giorno e notte dentro la residenza, io e un’altra infermiera a dividerci tra ottanta anziani, riposando poche ore su un materasso a terra per 15 giorni di fila. Non uscivamo nemmeno sul balcone per non dare il cattivo esempio. Se qualcuno di loro si raffreddava, manifestando sintomi sospetti, sarebbero stati guai. Una prigione? No, ora che sono tornata a casa mi sento in prigione. Quella era casa mia perche’ mi sentivo utile”. Antonella Galluzzo racconta  la sua avventura da reality tra le mura della Domus Patrizia, la casa di riposo di Milano che ha evitato contagi dall’esterno chiudendo dentro, in 5 piani, oltre a lei e alla collega, anche tredici operatori sociosanitari e un addetto alle pulizie. Fuori un medico pronto a entrare per qualsiasi esigenza “ma per fortuna non c’è mai stato bisogno”. Inevitabili discussioni e contrasti nel piccolo gruppo di naviganti rimasti a bordo, “ma di fronte ai nostri anziani siamo sempre uniti e attenti a ogni loro minima esigenza”. Un’esperienza fisicamente molto dura: “Nei primi giorni io e la mia collega abbiamo lavorato 24 ore su 24 ore. Poi ci siamo divise, una faceva dalle 7 alle 21, l’altra dalle 21 alle 7. A dormire qualche ora ho ‘imparato’ solo alla fine, prima mi concentravo su tutta la scomodità e i dolori alla schiena. C’era chi dormiva in palestra, chi nella sala medica, chi nella parruccheria, chi nel ripostiglio o nell’archivio. Avevamo anche messo un letto in chiesa, ma poi nessuno se l’è sentita di stare lì. Tutti questi locali erano rimasti vuoti. Avevamo un materasso e qualche coperta, che potevamo portare dove volevamo. Di notte faceva così caldo che stavo senza pigiama. Oltre a quello, con me avevo solo una tuta e la divisa da lavoro. Alla fine, ho usato solo la divisa”. Pasti in mensa, col cibo che entrava sui carrelli e con tutte le cautele, bagni di servizio. C’era una chat di gruppo tra chi era dentro e chi fuori, “con la dirigenza pronta ad accogliere ogni richiesta”.

Elisabetta Reguitti da Il Fatto Quotidiano il 7 aprile 2020. Qualcuno si è salvato. Erano isolati dal 10 febbraio. Ben prima che l’epidemia fosse ufficiale con la scoperta del Paziente 1 a Codogno. Nell’occhio del ciclone Covid-19 c’è una struttura per anziani che a oggi non ha registrato nessun infetto, né decessi. Erano 40 ospiti a febbraio e sono 40 oggi, dieci settimane dopo. I sopravvissuti della Residenza Guerreschi di Capralba (Cremona). Dove è stato somministrato l’unico vaccino disponibile: l’isolamento. Lo raccontano la responsabile amministrativa Daniela Dolci e il medico Carlo Del Boca, che vive a Lodi e fino all’autunno scorso, prima della pensione, ha lavorato nell’ospedale di Cremona. Entrambe le città sono state epicentri iniziali della pandemia, che però ufficialmente non c’era ancora il giorno della serrata. Solo una coincidenza? Del Boca risponde: “È possibile che sia stata una coincidenza basata su segnali di allarme considerati potenzialmente letali per pazienti fragili. Poi interviene il fattore fortuna”. Quali segnali? “Un aumento considerevole di polmoniti rispetto agli anni precedenti. In un contesto di timore internazionale per ciò che stava accadendo in Cina”. Daniela Dolci spiega: “Abbiamo deciso di attuare delle restrizioni degli accessi all’inizio settimana del 10 febbraio ben prima di ogni disposizione. I nostri medici erano spaventati da ciò che già sentivano accadere negli ospedali. Abbiamo protetto tutto il personale con acquisti di tasca nostra. Siamo una struttura in regime di solvenza, non prendiamo soldi da nessuno, ci manteniamo con le rette degli ospiti. Se avessimo atteso le mascherine dell’Ats Cremona a Asst Valpadana, staremmo freschi”. La decisione di chiudere agli esterni non è stata immediatamente compresa da tutte le famiglie degli ospiti. La scelta è pesata dal punto di vista umano sugli assistiti che da un giorno all’altro non hanno più potuto avere il conforto dei loro cari, ma alla luce di ciò che sta accadendo quella scelta per il medico è stata “l’unica terapia validante”. Non è mai stato possibile effettuare tamponi in struttura. “È infatti solo di questi ultimi giorni – aggiunge Del Boca – la delibera regionale della Lombardia che le rende possibili su pazienti con sintomi. Portare i nostri pazienti in ospedale per sottoporli al tampone avrebbe significato farli rischiare di contrarre il virus”. Solo un’ospite è morta ai primi di marzo in ospedale, ma per un arresto cardiaco slegato dal coronavirus. “In dieci settimane – spiega Del Boca – alla Guerreschi ci sono stati eventi polmonari acuti perché stiamo parlando di persone fragili, ma tutte sono progressivamente guarite. Se fossero stati Covid avremmo avuto risposte diverse”. E hanno usufruito di un servizio radiologico a domicilio di controllo per escludere la presenza di polmoniti interstiziali. “Abbiamo isolato dagli altri ospiti i pazienti con problemi anche solo influenzali”. La responsabile amministrativa fornisce i conti: “È domenica non sono in struttura vado a memoria rispetto alla spesa complessiva sostenuta finora per l’acquisto di sistemi protettivi per infermieri, operatori socio sanitari e 5 medici a turno è stata di circa 8 mila euro. Abbiamo speso altri 4 mila euro per kit di autocontrollo per tutti che arriveranno entro Pasqua. Siamo riusciti a mantenere i nostri ospiti sotto una campana di vetro”. Solo questione di risorse visto che siete una residenza privata? “La nostra retta giornaliera per ogni ospite oscilla dai 120 ai 130 euro”. Si potevano chiudere prima anche le altre Rsa? Del Boca risponde: “Tutto il sistema sanitario è stato travolto. Si è chiuso quando da un punto di vista statistico si è visto come stavano andando le cose. Chiudere subito isolando le persone fragili dall’esterno e mettere in sicurezza tutto il personale sarebbero stati suggerimenti intelligenti”.

Quelle case di riposo e di contagio. Nelle residenze per anziani l'epidemia si è diffusa con più facilità. E da Nord a Sud si registrano decessi in decine di strutture. Non c'è stata prevenzione e l'aiuto dello Stato è insufficiente o arriva quando è troppo tardi. Giorgio Sturlese Tosi l'8 aprile 2020 su Panorama. «Se intuite che una persona ha questa sensibilità, voi stessi fatevi portatori di un segno, di una benedizione, di una piccola preghiera». È l'appello del vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, agli operatori delle case di riposo. Dove la strage degli anziani prosegue silenziosa e non fa statistica. Il 30 marzo il presidente bergamasco di Uneba, l'Unione nazionale di istituzioni e iniziative di assistenza sociale, ha denunciato «la drammatica situazione delle strutture per anziani della provincia, con 600 decessi su 6.400 posti letto, duemila dei cinquemila operatori assenti per malattia, quarantena o isolamento e dispositivi di protezione individuali per il personale non sufficienti». Il giorno dopo, 600 chilometri più a sud, il presidente dell'Istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, ha annunciato il primo studio epidemiologico sulle morti connesse al coronavirus nelle case di riposo, dichiarando che: «Le residenze per anziani sono strutture importanti che devono avere la nostra attenzione per proteggere la parte più fragile della nostra popolazione». Gli ha dato man forte Mauro Palma, Garante per le persone private della libertà: «Le istituzioni sono presenti e posso inviare un messaggio di garanzia circa le cure e le attenzioni verso queste persone». Vien da pensare che Xi Jinping, insieme alle mascherine, abbia spedito in Italia anche i suoi esperti di comunicazione. Ma nemmeno il presidente della Repubblica popolare cinese avrebbe azzardato una dichiarazione così sideralmente distante dalla realtà. Contagi e decessi nelle Residenze assistenziali sanitarie si stanno allargando in tutto il Paese. All'anagrafe del comune di Mediglia, piccolo centro della cintura milanese, si sono accorti dell'emergenza quando hanno registrato 62 decessi tutti in via Michelangelo 9, l'indirizzo della casa di riposo «Residenza Borromea». I primi due casi di positività, su 150 anziani, risalivano al 4 marzo. Poi, in tre settimane, metà degli ospiti sono deceduti. Lo storico «Pio Albergo Trivulzio», a Milano, si articola in tre strutture per un totale di 1.341 ospiti. In una di queste, la «Frisia» di Merate, si registrano 17 morti in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Ma a Panorama la direzione ammette che «non abbiamo avuto alcun decesso accertato Covid-19 perché le strutture sociosanitarie non hanno possibilità di effettuare tampone». Nel Torinese, a Brusasco, ci sono stati nove morti nella residenza per anziani «Annunziata». I responsabili da giorni attendono che la Asl faccia i tamponi a loro e agli ospiti superstiti, mentre la Procura di Ivrea ha chiesto accertamenti ai carabinieri. A Monselice, Padova, su 156 ospiti 75 sono contagiati. Nel Reatino la casa di riposo «Alcin», nel comune di Contigliano, conta 70 ultraottantenni positivi al test Covid-19. «Il primo caso risale al 4 febbraio» racconta a Panorama il sindaco Paolo Lancia. «Nel frattempo, nel giro di 72 ore, gli anziani della casa di cura contagiati sono diventati 70. Più dieci operatori». Cinque ospiti sono deceduti e la Regione Lazio, d'intesa con le Asl, ha deciso di trasformare quella casa di riposo in un centro Covid-19. Dall'Istituto Spallanzani di Roma sono arrivati i tecnici con le tute bianche per fare i tamponi agli operatori delle strutture per anziani e alle loro famiglie. I test saranno poi estesi a tutti gli anziani delle case di riposo, mentre il comune di Contigiano è diventato una sorta di zona rossa, con limitazioni alla circolazione più stringenti rispetto a quelle previste a livello nazionale. La Procura di Napoli invece indaga sulle morti a «Villa delle Camelie» di Ercolano dove in pochi giorni il coronavirus si è portato via quattro ricoverati. Mentre, sempre a Napoli, nella struttura «Madonna dell'Arco», su 102 tamponi effettuati a operatori e degenti 52 erano positivi, dieci i deceduti. A Nuoro la casa di riposo «Bitti» è ormai un reparto Covid-19, con tutti i 14 ospiti positivi al test. Nelle altre strutture sarde si contano i primi decessi e le procura di Tempio e di Sassari hanno aperto fascicoli di indagine. Per arginare l'epidemia il governatore della Toscana, Enrico Rossi, a fronte di focolai scoppiati in decine di ospizi, ha disposto esami a tappeto per gli ospiti e gli operatori di Rsa, Rsd (Residenze per disabili) e strutture sociosanitarie. In Lombardia l'assessore Raffaele Cattaneo invita l'Istituto Superiore di Sanità a velocizzare le procedure di certificazione delle mascherine prodotte nella regione da industrie che, come in guerra, hanno riconvertito le produzioni. Peccato che in Italia ci siano 20 sistemi sanitari, uno per ogni Regione, e le strategie non siano armonizzate, né tanto meno comuni. A invocare uniformità è, tra tanti, l'associazione Cittadinanzattiva, il cui segretario generale, Antonio Gaudioso, in una lettera ai governatori ha chiesto «di adottare al più presto i piani straordinari regionali per il controllo del contagio da Covid-19 nelle Rsa». Perché, pare incredibile nel Paese con il record europeo di vecchiaia e con 14.465 centenari, nessuno ci ha ancora pensato. Considerando che nelle Rsa vivono circa 300 mila anziani, la stima dei possibili contagiati, secondo Roberto Bernabei, geriatra del Policlinico Gemelli di Roma e consulente del governo, potrebbe arrivare a tremila unità. Per molti addetti ai lavori i numeri sono superiori. Ma il nostro Servizio Sanitario Nazionale destina soltanto il 10 per cento delle risorse al ricovero in strutture residenziali (15 miliardi di euro annui), piazzandosi al 14esimo posto nella classifica dei Paesi europei. E infatti il 70 per cento delle case di riposo è gestito da privati. Che sono stati abbandonati. Stefano D'Errico, presidente Aira, Associazione italiana residenze per anziani, denuncia: «I nostri ospiti sono anziani di serie B. Siamo stati lasciati soli ad affrontare l'emergenza, non ci sono piani di screening e non abbiamo dispositivi di protezione. Li abbiamo chiesti a tutti, dalla Protezione civile alle Regioni, ma non ci hanno nemmeno risposto».Giulia gestisce un piccolo ricovero per anziani del Pavese, preferisce non dire quale per paura di ritorsioni: «Su cinque ospiti sono tutti positivi, più un nostro dipendente, che per giorni ha lavorato ed è tornato a casa. Io stessa in casa indosso la mascherina, per proteggere mia figlia. Se un medico è positivo, quando guarisce deve sottoporsi a due tamponi prima di riprendere servizio. Noi, no». Franco Massi, presidente di Uneba, lo conferma: «Non vengono fatti i tamponi, nonostante le ripetute richieste, e le autorità non hanno l'esatta dimensione del fenomeno dei contagi e delle morti nelle strutture per anziani. I protocolli delle Asl e delle Regioni sono contradditori e poco chiari. La Protezione civile aveva annunciato l'arrivo di milioni di mascherine e grembiuli di protezione, ma solo da qualche giorno abbiamo cominciato a vedere piccoli quantitativi assolutamente insufficienti. Intanto il nostro personale è al limite. Sta a contatto con gli anziani, torna a casa e continua la sua vita quotidiana. Senza nessun controllo sanitario». Lo stesso Istituto Superiore di Sanità ha effettuato un sondaggio tra le Rsa italiane per un totale di 18.877 residenti. Nei soli mesi di febbraio e marzo vi si sono verificati 1.845 decessi, di cui 1.130 in Lombardia, 158 in Emilia Romagna e 200 in Veneto. Peccato che senza i tamponi nessuno saprà mai quanti di questi erano affetti da coronavirus. Ma le cronache locali ne denunciano molti di più. Né d'altra parte l'Istituto Superiore di Sanità ha chiesto i dati dello stesso periodo dell'anno precedente per un confronto. L'86 per cento degli interpellati, però, non esita a riportare come prima criticità la mancanza di dispositivi di protezione, mentre il 27 per cento degli operatori nelle case di riposo ha riferito di avere difficoltà a isolare i residenti affetti da Covid-19. Il professor Bernabei non crede però che serva una massiccia campagna di tamponi per gli anziani: «Sono troppi, non ci sarebbe la possibilità. Meglio sottoporre a tampone tutto il personale delle Rsa, per isolare i possibili portatori di contagio dall'esterno». E poi servirebbero le mascherine. Il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, il 1° aprile, ha ammesso: «Abbiamo distribuito per errore ai medici di base (quelli che visitano nelle Rsa, ndr) mascherine sbagliate. Rimedieremo prontamente». Accanto a lui sedeva, in conferenza stampa, il professor Alberto Villani, componente del comitato tecnico scientifico, che ci ha tenuto a sostenere: «Io credo che ognuno di noi si senta molto contento di vivere in Italia e di essere italiano, mai come in questo periodo nessuno di noi vorrebbe stare in un altro Paese».

Lidia Catalano e Alessandro Mondo per “la Stampa” il 10 aprile 2020. Nel bollettino ufficiale della Regione Piemonte non ce n' è traccia, ma la delibera che prevede di alleggerire la pressione sui presidi ospedalieri attivando posti letto per pazienti positivi al coronavirus nelle Rsa è operativa dal 20 marzo. Impone percorsi e spazi dedicati, come è ovvio. Ma all' interno delle stesse strutture - 730 in tutta la regione - che ospitano circa 30 mila anziani fragili, non autosufficienti e spesso pluripatologici: i bersagli preferiti dal virus. «Nessuno ha trasferito o ha intenzione di trasferire pazienti positivi dagli ospedali alle Rsa. L' idea è di impiegare strutture nuove e inutilizzate», puntualizza da giorni l' assessore alla Sanità Luigi Icardi. Ma il testo del documento, che a oltre due settimane dall' approvazione non è ancora stato pubblicato sui canali ufficiali - «per motivi tecnici» spiegano dalla Regione - dice esattamente il contrario. Tant' è che i trasferimenti sono già iniziati, e solo nella città di Torino si contano almeno un' ottantina di pazienti positivi collocati in una casa di riposo. Questo nonostante soluzioni del genere fossero state osteggiate da subito da Cgil, Cisl, Uil e Fisascat, secondo cui «a livello strutturale le Rsa non sono dotate di padiglioni isolati atti a garantire la separazione fisica degli spazi, ma ancora di più non sono in grado di rispondere alla necessità di avere una doppia struttura di personale senza contatti, il che aumenta il rischio di un utilizzo promiscuo delle maestranze». Obiezioni sollevate anche dalle minoranze in Consiglio regionale (Pd, Luv e M5S), convinte che la convivenza all' interno di una stessa struttura, seppure in piani o padiglioni separati, di anziani fragili e pazienti affetti da coronavirus, potesse innescare una «bomba epidemiologica». Ieri la consigliera grillina Francesca Frediani ha chiesto l' intervento degli ispettori ministeriali per verificare l' operato delle Rsa. Sotto accusa, tra le altre cose, la carenza di dispositivi di protezione che hanno esposto al contagio non solo gli ospiti ma anche il personale delle strutture. Era difficile da escludere. Già una settimana prima della delibera regionale, il Covid 19 aveva varcato le soglie delle Rsa. Le prime segnalazioni risalgono al 13 marzo. Poco dopo è iniziata la processione dei carri funebri nei comuni dell' hinterland torinese: 25 morti a Grugliasco, 15 a Brusasco, 22 a Trofarello, 41 in una struttura di Vercelli, dove la metà degli ospiti era risultata positiva ai tamponi. Ma l' elenco è lungo. Tutti decessi che secondo un pesante atto di accusa degli Ordini dei medici provinciali all' unità di crisi «potevano essere evitati con una strategia preventiva che non è mai stata attuata ed è in cima alla lista delle falle nella gestione dell' epidemia in Piemonte». La Regione rivendica di aver distribuito mascherine e di essersi attivata per soccorrere le strutture in difficoltà, ma i dispositivi sono arrivati solo ad aprile e i tamponi sui casi sospetti vengono eseguiti in ritardo. La situazione è delicata. Un segnale è rappresentato dalla richiesta alla Protezione civile di distaccare in Piemonte parte del contingente russo già operativo in Lombardia e in Puglia per sanificare le Rsa. Il documento partito dall' unità di crisi fa riferimento alla missione «Dalla Russia con amore»: si tratta della missione di assistenza che vede impegnati specialisti russi per bonificare le strutture maggiormente colpite. Anche la corsa per potenziare gli screening nelle residenze per anziani è un altro indizio di inquietudine: a partire da oggi i test saranno intensificati grazie ad un nuovo macchinario che si muoverà su un mezzo di pronto intervento della Protezione civile. Un contributo deciso per proteggere gli anziani e per arginare la diffusione dell' epidemia, sulla quale ad oggi non si hanno certezze: l' ultimo aggiornamento sui casi positivi nelle Rsa piemontesi fornito dalla Regione risale a fine marzo: su tremila tamponi 1300 erano risultati positivi, poi scesi a 189 con una clamorosa rettifica. Ma i conti non tornano.

"Case di riposo, vergognosa ecatombe in Emilia Romagna e Lombardia". Redazione La Pressa il 31 Marzo 2020. Usb: "Centinaia di anziani muoiono di coronavirus nel silenzio generale, abbandonati dai gestori pubblici e privati delle case di riposo". "Nel silenzio più generale dei media si sta consumando un’ecatombe di persone anziane ospiti delle case di riposo gestite sia dal Pubblico sia dal Privato. Agli anziani che mostrano sintomi di contagio (febbre alta, tosse, apnea respiratoria...) non viene realizzato il tampone di verifica, non vengono isolati all’interno delle strutture e all’intervento della guardia medica o della pubblica assistenza, non consegue il necessario ricovero a causa della mancanza di posti letto nelle strutture ospedaliere preposte". Così in una nota USB Emilia Romagna. "L’insufficienza di posti letto ha generato in Emilia Romagna e in Lombardia una precisa scelta politica, da tutti negata ma evidente a chiunque, in cui l’anziano è un soggetto debole e quindi sacrificabile, al punto di lasciarlo morire a causa del contagio nelle case di riposo senza le necessarie cure ospedaliere. Alcuni dati che siamo riusciti a raccogliere in merito delineano un quadro in cui non si rilevano grandi differenze tra ciò che sta accadendo in Emilia Romagna ed in Lombardia. Per comprendere ciò di cui stiamo parlando si consideri ad esempio quello che succede in Emilia Romagna nella provincia di Parma. La CRA di Sissa nel giro di pochi giorni è passata da 10 a 21 morti cioè il 40% degli ospiti e il 50% del personale in malattia; la CRA di Soragna sempre in pochi giorni ha visto morire 8 dei 50 ospiti, cioè il 16% ed il 50% circa del personale a casa in malattia. La CRA Peracchi di Fontanellato negli ultimi giorni ha visto morire 2 ospiti, ma la struttura è stata giudicata dalla guardia medica completamente compromessa dal contagio, a tal punto che la pubblica assistenza interviene per ricovero ospedaliero solo nei casi di gravità terminale della malattia. A Villa Matilde di Bazzano (Neviano degli Arduini) si riscontrano 30 decessi pari al 43% dei 70 ospiti e anche in questo caso la struttura è stata dichiarata Covid. La situazione appare del tutto analoga in Lombardia, per la quale citiamo due episodi giunti alla ribalta delle cronache, alla casa di riposo di Monbretto di Mediglia sono deceduti 59 anziani, cioè il 40% dei 150 ospiti. Per non parlare della casa di riposo Santa Chiara di Lodi, dove sono morti 40 ospiti su 250 - continua Usb -. Rileviamo che in tutte queste situazioni, ovunque, i dispositivi di prevenzione e protezione sono stati forniti agli operatori solo successivamente alla conclamata esplosione del contagio nelle strutture e in molti casi tali presidi di sicurezza sono forniti in maniera inadeguata e parziale. Tutto questo rappresenta una logica nella quale si evidenzia una gestione della sanità piegata alle politiche di bilancio, dovuta ai tagli imposti negli ultimi trent’anni alla sanità pubblica. Una logica tale per cui il diritto alla salute degli anziani rappresenta un costo non sostenibile".

In Emilia i malati di Covid-19 inviati nelle case degli anziani. Le Rsa in aiuto degli ospedali. Il racconto di una struttura: "Mandati qui 5 o 6 pazienti con sintomi". Giovanna Pavesi e Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 16/04/2020 su Il Giornale. La casa di riposo Madonna della Bomba Scalabrini, a Piacenza, la conoscono tutti. È un'istituzione. E allo stesso modo tutti sanno che con l'arrivo dell'epidemia molto è cambiato. La struttura è risultata essere uno dei luoghi più colpiti dal coronavirus, probabilmente anche per colpa della vicinanza con Codogno, il paese in provincia di Lodi epicentro del primo focolaio. Nella struttura privata, accreditata e convenzionata, che a pieno regime accoglie circa 100 ospiti ("tutti grandi anziani, sopra i 90 anni di età", spiegano dall'istituto), dall'inizio dell'epidemia hanno perso la vita dalle 25 alle 30 persone. E a contarle, con la voce quasi rotta dal pianto, è il presidente della fondazione, don Andrea Campisi.

Troppi morti e pochi tamponi. Se si paragonano i decessi di quest'anno con quelli dello stesso periodo dell'anno scorso, nel 2020 si registra un numero sicuramente "diverso", come confermano dalla struttura. Non tutti sono "certificati" Covid-19, visto che l'Usl ha effettuato soltanto una decina di tamponi sugli ospiti, trovandone positivi otto. Ma gli altri, con l'esclusione -forse- di tre persone, sono deceduti con sintomi febbrili riconducibili al nuovo virus. Ormai è tardi per una diagnosi, ma il sospetto è che anche qui l'infezione sia arrivata come un'onda, portandosi via più persone di quelle che rientreranno nei freddi numeri delle statistiche. "Venti morti, anche senza avere la certezza assoluta del coronavirus, sono tanti - sospira il direttore, Paolo Cavallo - Il numero che ha toccato noi e i nostri operatori è completamente diverso da quello che può accadere normalmente in una struttura, dove ci può essere un mese con più morti, ma in maniera assolutamente naturale e più compatibile con la vita". Non così.

Le limitazioni all'ingresso. Come in altre rsa di tutta Italia, anche alla Madonna della Bomba Scalabrini nessuno si aspettava di dover pagare un prezzo così alto. Non le vittime, non gli operatori, né le famiglie degli anziani, che non hanno nemmeno potuto piangere da vicino i loro cari. "Abbiamo superato la fase d'emergenza iniziale e in questo momento possiamo dire di non avere casi gravi. Le persone che hanno avuto sintomi da Covid-19 sono stabili. Sono tutti isolati e la situazione è migliorata. Ma è vero -ammette Cavallo- che abbiamo avuto dei giorni con un numero di decessi importanti".

Il ruolo della Regione. La struttura è stata interdetta al pubblico nei giorni successivi alla diffusione dell'epidemia. "Noi abbiamo avviato limitazioni, chiedendo una registrazione all'ingresso e facendo entrare, all'inizio, soltanto una persona per ospite. Ma quando è uscita la nota regionale, la casa è stata chiusa al pubblico". Le disposizioni dalla Regione sono arrivate sì tempestivamente, dicono dall'istituto, ma quando ormai il coronavirus iniziava già a fare i suoi morti. "La nostra è stata una delle prime strutture a essere colpite ed è stata anche una delle prime che ha chiuso dopo che c'erano delle febbri", racconta la direzione. "Ma a quel punto non c’era più nulla di preventivo”. Se l'istituto è riuscito, in qualche modo, a contenere il già alto numero di contagi lo deve a una decisione presa in autonomia, com'è accaduto in altre realtà: “Noi abbiamo avuto certamente uno sguardo di attenzione, anche prima che si parlasse di isolamento, perché avevamo Codogno vicino”.

I contagi e gli operatori. La domanda a questo punto è: come si sono infettati gli anziani ospiti? Le ipotesi non mancano: vettori del contagio potrebbero essere stati quei pazienti che prima dell'ingresso in struttura sono passati per l'ospedale, dove potrebbero aver incontrato il virus. Oppure i familiari. O ancora chi è transitato solo dal centro diurno per poi fare rientro a casa. "Noi proviamo a ragionarci, pur sapendo che non c’è una risposta", sospira Cavallo. I sospetti più forti riguardano però il ruolo degli operatori. "Noi abbiamo circa 80 persone che lavorano qui dentro", spiega il direttore. Persone che entrano ed escono, incontrano familiari, circolano. Nessuno di loro, tuttavia, è mai stato sottoposto a tampone, a eccezione di chi è finito in malattia, al pronto soccorso chi presentava stati febbrili persistenti. Ma se la domanda è se sia stato fatto un esame sui "sani" o sugli asintomatici, magari per impedire che portassero dall'esterno il virus tra i letti degli anziani, la risposta è no. Certo, oggi chi si assenta dal lavoro per malattia deve sottoporsi a un test che accerti la negatività al virus. Ma all'inizio della crisi, in piena emergenza, questa misura preventiva non è stata presa. Don Campisi, che parla dell'istituto come di una famiglia che ha perso i suoi nonni, ci tiene però a precisare che "i tamponi non vengono decisi da noi", ma a chiederli è "l'istituto di igiene". Come a dire che le responsabilità ci sono e vanno cercate, probabilmente a livelli più alti.

I pazienti mandati dagli ospedali. C’è poi da considerare un altro fattore. Ieri la Guardia di Finanza si è presentata alle porte della Regione Lombardia per acquisire i documenti sulla gestione delle rsa, tra cui l'ormai famosa direttiva con cui il Pirellone chiedeva alle strutture per anziani se fossero disponibili ad accogliere pazienti Covid dimessi dagli ospedali. Bene, la giustizia farà il suo corso. Tuttavia la stessa strategia, a quanto pare, è stata adottata anche altrove. Alla Madonna della Bomba, per dire, sono stati inviati pazienti per terminare la quarantena o nella parte finale della convalescenza. "Ci hanno mandato degli ospiti, non con patologie importanti, ma con sintomatologia covid - spiegano dalla direzione - Nelle ultime settimane abbiamo dato questo supporto e accolto cinque o sei ospiti, persone che una volta terminata la quarantena rientreranno a casa". Certo, non sono più malati gravi, sono tutti al termine della malattia e sono gestiti in maniera che gli anziani siano in sicurezza. Ed è un bene. Ma è proprio ciò che l'assessore Giulio Gallera sostiene sia successo in Lombardia, dove i trasferimenti sono stati fatti "in minima parte nelle Rsa che avevano condizioni specifiche con padiglioni o aree separate e indipendenti, con personale dedicato". Cos'ha di diverso il caso emiliano?

"Il lavoro di anni spazzato via". "In una struttura come la nostra, l'impatto delle morti tra i nostri anziani è stato molto forte, non solo dal punto di vista sanitario, ma soprattutto delle relazioni tra di noi: in una casa come questa si stabiliscono dei rapporti tra ospiti e personale, che sono quasi familiari", spiega commosso con Campisi, che durante la conversazione interviene di rado, quasi a dosare le parole. Parla con pacatezza, utilizzando un tono desolato ma fermo. "Il nostro dolore va al di là dell’impatto sanitario. I nostri dipendenti hanno sofferto molto per la perdita di persone che sono qui da anni, per le quali abbiamo combattuto giorno per giorno perché stessero il meglio possibile e potessero avere intorno un clima di affetto e buone cure sanitarie. In pochi giorni tutto il lavoro è sembrato essere spazzato via". Il sacerdote soffre anche il peso del giudizio di chi vede le case di cura come "delle industrie che hanno cercato di fare soldi con gli anziani". "Non è così -dice-non è il modo in cui noi abbiamo sempre lavorato. Per noi questa è un'esperienza di lutto". Perché la missione della Madonna della Bomba è sempre stata quella di accudire i suoi anziani. Ma questa volta le "armi" non sono state sufficienti.

La strage delle Rsa lombarde: anziani morti per "simil-influenza". Secondo l’Iss, nel caso della Lombardia il numero dei decessi potenzialmente può essere addirittura di 14 volte superiori. Claudio Marincola il 9 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Il numero dei decessi nelle Residenze sanitarie assistenziali per Codiv-19 è potenzialmente dieci volte superiore a quello fornito dai dati ufficiali. Nel caso della Lombardia si aggira addirittura intorno al 14%. È il primo pezzo di verità: una moltiplicazione dei lutti che lascia senza parole. Emerge da un report condotto dall’Istituto superiore di sanità. Sono i primi numeri con credibilità scientifica. Un documento che diventerà parte integrante dell’inchiesta condotta dalle commissioni nominate da Palazzo Marino, affidate al magistrato Gherardo Colombo, e delle indagini avviate dalla Procura in base a molti esposti presentati. Conferma i sospetti, avanzati da più part, sulle reali dimensioni di una strage senza precedenti.

IL METODO. La ricerca ha coinvolto 2.166 Rsa distribuite in modo rappresentativo in tutto il territorio nazionale, consultate dal 25 marzo al 6 aprile. Hanno risposto 577 strutture, circa il 27%. Sufficienti a rappresentare un quadro popolato da morti sommerse, un conto delle bare e dei lutti che inizia ad assumere i contorni reali. A partire dal 1° febbraio, su un totale di 3.859 decessi, solo 133 sono stati classificati, con la conferma del tampone, sotto la voce “Covid 19 positivi”. Fuori dal conteggio, 1.310 decessi dovuti a “sintomi simil-influenzali”. Ovvero, pazienti deceduti, forse anche prima della diffusione certificata del virus o nel periodo di massima diffusione, ma non compresi nel consueto bollettino della Protezione civile. L’esempio più clamoroso rimane quello della Lombardia, dove il virus ha colpito più duro: 1.882 decessi ma, per le statistiche, solo 60 per Covid. E gli altri 874? Derubricati dalle strutture lombarde come morti per simil-influenza. Nello stesso periodo in Puglia o in Calabria, come si legge nella tabella esplicativa dell’Iss, per influenza nelle case di riposo è morto solo un paziente. Come dire che in Lombardia l’influenza avrebbe avuto un effetto 873 volte superiore e più letale. Possibile? Scorrendo la stessa tabella, si legge che i decessi per influenza, ovvero senza che un tampone ne abbia certificato la morte per Covid, sono stati 152 in Emilia-Romagna; in Veneto 109; in Toscana 86. Più si scende, più l’influenza perde carica virale. Zero decessi in Abruzzo, 4 in Sardegna, 2 in Molise, 2 a Bolzano. Ma cosa si intende per simil-influenza? Il report lo spiega; i residenti che presentano sintomi come febbre, tosse, dispnea, persino polmonite, indipendentemente dall’esecuzione del test. La percentuale maggiore di decessi si è avuta in Lombardia, (47,2%) e in Veneto (19,7%). Il tasso di mortalità sul totale dei residenti si aggira intorno all’8,4 %, compresi i nuovi pazienti entrati nelle strutture a partire dal 1° marzo. I numeri oscillano. E molte sono le variabili dipendenti. Un dato è certo: le Rsa non potevano reggere l’onda alta del virus che ha fatto strage di anziani. Eppure, in alcuni casi sono state utilizzate per ricoverare pazienti positivi al Covid-19. Il più clamoroso resta la delibera della Regione Lombardia che l’8 marzo ha disposto il ricovero dei pazienti Covid-19 a bassa intensità nelle Rsa dotate di reparti dedicati dove fosse possibile l’isolamento. Lo scenario descritto all’Istituito superiore di sanità è molto diverso. Non risponde affatto alle aspettative che quelle delibera, votata in momento così drammatico dalla giunta lombarda, quando l’emergenza e la ricerca di posti letto si era fatta disperata e affannosa, lasciava intravvedere.

IL REPORT. Survey nazionale sul contagio Covid-19 nelle strutture residenziali e sociosanitarie. È il titolo del report prodotto dall’Iss. Una sorta di autocertificazione delle proprie carenze. Mancanza di presidi sanitari, organici di medici e infermieri appena sufficienti a gestire ospiti e pazienti ospedalizzati, formazione avanzata ma non in grado di affrontare da un giorno all’altro una epidemia, scarsa informazione. Tutto questo risulta dalle risposte ai questionari inviati alle strutture dall’Iss, una ricerca condotta in collaborazione con il garante nazionale dei diritti delle persone detenute. Un lavoro avviato a partire dal 24 marzo 2020. Erano i giorni più caldi, l’impennata dei contagi, la necessità di affrontare strategie di controllo dell’infezione efficaci. Non commettere errore era quasi impossibile ma ora è giusto che la verità venga fuori.

CARENZE DELLE STRUTTURE. La maggior parte dei 577 questionari compilati – citiamo testuale il report – proviene da Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana e Lazio. Il dato è parziale, la realtà potrebbe essere anche peggiore perché nel frattempo il virus ha continuato a colpire. Ma dicevamo delle carenze. Ebbene, nonostante la grande affidabilità di alcune strutture pubbliche e private, molte appartenenti al cosiddetto Terzo Settore, con un profilo no profit, è risultato che in media ognuna ospita 78 persone, in genere anziani, spesso ospedalizzati e non autosufficienti, affetti da varie patologie. In media ogni struttura dispone di 2,6 medici, 10 infermieri e 35 operatori sanitari. Molte dispongono anche di fisioterapisti, le più attrezzate di animatori, psicologici, assistenti sociali.

MORTI ANNUNCIATE. Una delle domande poste dal gruppo di ricercatori dell’Iss riguardava le difficoltà riscontrate durante l’epidemia. La prima, che ha riguardato poco meno del 90% delle strutture, è stata la mancanza di dispositivi medici, seguita dalle assenze del personale, dalle difficoltà nell’isolamento, la scarsità di informazioni, le difficoltà nel trasferimento e persino la mancanza di farmaci. Nel 34,6 % delle strutture lombarde il personale sanitario è risultato positivo al Sars-Cov 2, seguito da Trento e Liguria (25%), Marche (16%), Toscana (15,8%), Veneto (14,8%), Friuli-Venezia Giulia (13,3%), con valori inferiori al 10% o pari a zero nelle altre regioni.

ASSENZA DI ISOLAMENTO. Per avere un quadro completo bisognerà ovviamente attendere il monitoraggio di tutte le strutture, nessuna esclusa. Resta però molto forte l’idea che vi sia stata finora una verità nascosta. Il dolore dei parenti, colpiti da lutti così violenti e impietosi, pretende risposte. Ne hanno diritto. Se questi dati per ora parziali venissero confermati saremmo dinanzi a una tragedia infinita. Alla domanda se fosse possibile isolare i residenti in caso di sospetta infezione la risposta per l’8,9% delle strutture è stata: “no”. Secco. Per un altro 30,1% sarebbe stato possibile attuare misure di contenimento solo raggruppando i pazienti in un solo locale. Solo il 47% avrebbe potuto offrire stanze singole. E in media sono state effettuate 13 convenzioni per struttura, per un totale di 7.190 contenzioni complessive. Uno spaccato incompleto ma sufficiente per descrivere come le Rsa sono e saranno in grado in futuro di contrastare un nemico feroce e invisibile. Teniamolo bene in mente se non vogliamo aggiungere a un bilancio già devastante centinaia e centinaia di altre morti annunciate.

“LE CASE DI RIPOSO COME FRULLATORI: SANITARI E PAZIENTI MISCHIATI E IL VIRUS È ESPLOSO”. Elisabetta Andreis e Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. «L' epidemia può essere un cecchino, che uccide a intervalli costanti; uno, due morti al giorno per settimane - racconta un medico, cercando di darsi una spiegazione che non trova -. Oppure può entrare in una casa per anziani come un terrorista, e falcidiare quasi a raffica. Qui le abbiamo viste entrambe». Quartiere Corvetto, via dei Cinquecento e via dei Panigarola, 200 metri di distanza, pochi passi che separano gli ingressi di due antiche residenze per anziani del Comune di Milano, strutture «gemelle»: la prima ad andare in sofferenza col contagio è stata la «Virgilio Ferrari», la «"Casa per coniugi" invece sembrava al riparo, meno colpita, chissà perché; poi però la strage è iniziata, è stata veloce e devastante», 53 decessi su meno di 200 anziani ospiti, più di uno su quattro, più dei 49 della residenza vicina. I morti al Corvetto sono solo una parte della catastrofe che le cronache milanesi del Corriere raccontano da giorni: dal 10 marzo a ieri, l' ondata del Covid-19 su Milano ha lasciato oltre 600 morti nelle residenze per anziani. Testimonianza del signor Salvatore Nigretti, figlio di una donna ricoverata al Pio Albergo Trivulzio, la storica «baggina» dei milanesi: «Mia madre era ricoverata. Appena prima che chiudessero le visite, nella prima settimana di marzo, siamo andati a trovarla. Avevamo mascherine e guanti. Il caporeparto ci ha detto bruscamente di "togliere tutto per non allarmare i parenti, altrimenti non entrate". Siamo entrati senza protezioni». Inizia tutto da lì, i primi 10 giorni di marzo: quello è il momento in cui il virus dilaga a Milano. In ritardo rispetto a Bergamo e Brescia, dunque con una maggiore possibilità di contenimento. Il Covid-19 s' insinua nelle Rsa perché si diffonde una generale e comune avversione all' uso delle protezioni (ne esistono testimonianze al Trivulzio, al «Don Gnocchi» - altro pezzo di storia dell' assistenza agli anziani -, alla «San Giuseppe» di via delle Ande, collegata al «San Raffaele», e in decine di residenze più piccole). Le dirigenze smentiscono; i lavoratori denunciano (sono quasi una decina i fascicoli aperti in Procura), e servirebbe forse uno studio di psicologia della rimozione per spiegare perché i responsabili di strutture da «sigillare», per proteggere gli anziani, ingaggiano invece una sorta di «guerra» contro dipendenti e parenti che invocano responsabilità. Succede al Trivulzio (oltre 110 decessi da inizio marzo), al «Don Gnocchi» (oltre 140 anziani morti), a Mediglia (64 morti), alla «Rsa San Giuseppe» (almeno 25 decessi), nella Rsa e nei laboratori di riabilitazione dell'«Auxologico», altra eccellenza della sanità privata lombarda. Un filo comune di incoscienza e sottovalutazione. Nessuno alza dunque i primi argini, anche perché mascherine e camici mancano negli ospedali, «figuriamoci cosa potevano dare a noi», riflette un infermiere. Coglie un punto decisivo: le Rsa se le sono dimenticate tutti. Sono rientrate a fatica nel dibattito pubblico quando si sono trasformate in universi concentrazionari, focolai di contagio, infine cimiteri. A inizio marzo la Regione decide che le Rsa possono ospitare pazienti dagli ospedali, dove serve liberare posti: non è un obbligo, ma la compiacenza di molte dirigenze scatena la corsa ad accogliere. «Al Trivulzio sono arrivati 20 pazienti da Sesto - racconta un medico -, per accettarli si sono fatti spostamenti, sono stati chiamati medici e infermieri, poi tornati ognuno nel proprio reparto. Questo è avvenuto in moltissime Rsa. Mescolare così tanti sanitari e pazienti provenienti da strutture e reparti diversi, ad epidemia già scoppiata, è come mettere il virus in un frullatore, poi aprire il coperchio e farlo schizzare ovunque». Francesco Maisto, garante dei «diritti delle persone fragili», riflette: «Da un primo esame si rilevano maggiori criticità nelle strutture di grandi dimensioni, mentre sembra che le strutture piccole, pur non ottemperando completamente alle ordinanze, si sono procurate i dispositivi di protezione per i pazienti ed il personale». Ieri la Regione ha incaricato l' Ats di Milano di istituire una commissione di inchiesta sulle Rsa, il Comune ha nominato l' ex magistrato Gherardo Colombo.

A metà marzo, dopo giorni di mascherine assenti o scoraggiate, iniziano le febbri. Degli anziani e del personale. Al «Golgi-Redaelli», altro pezzo di storia dell' assistenza a Milano, da metà marzo si contano oltre 120 pazienti «positivi», 25 decessi confermati Covid-19 su circa 60, una dozzina di medici e infermieri ammalati: ma anche due morti proprio tra il personale, due donne, 45 e 55 anni, una operatrice di una cooperativa. Su questo punto la Cisl attacca fin dall' inizio una battaglia durissima: «Abbiamo sempre chiesto mascherine e protezioni - spiega Rossella Del Curatolo - pretendiamo i tamponi. Proteggere i lavoratori vuol dire proteggere i pazienti». Alcuni infermieri dormono «in struttura per paura di tornare a casa». Per settimane non succede nulla: il personale che si ammala costringe quello che resta a moltiplicare le ore di lavoro, e il rischio di portare il virus in giro (testimonianza dalla Fondazione «Martinelli» di Cinisello: «Hanno cominciato a isolare un' ala del reparto e istituito turni di 12 ore al giorno, anche di notte»). A Cormano, dopo 20 decessi, le diffide dei sindacati portano sanificazione, tamponi, protezioni. Non esistevano protocolli, nessuno in Regione aveva considerato e ripassato il «piano pandemico» che prevedeva un' allerta immediata e un cordone di protezione per le case di riposo. Ultima voce dal Corvetto: «Qui prima quando un parente scriveva in Comune per uno scarafaggio arrivava l' Ats dopo due ore. Quando chiamavamo perché ci morivano uno-due anziani a notte, per settimane, non ci hanno neppure risposto».

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Il 25 marzo il figlio della signora Vanda Oriani, 97 anni, riceve una telefonata dall' Istituto Auxologico. Una dottoressa dice: «Sua mamma è positiva al coronavirus». La stessa propone: «Potremmo trattarla con la clorochina (il farmaco antimalarico che si sta rivelando efficace contro il Covid-19, ndr ), è una cura un po' pesante a quell' età. Vogliamo provare?». Il figlio Ennio approva il trattamento. Passano circa due settimane. Il 10 aprile, venerdì scorso, in una video-chiamata dall' ospedale la signora Oriani parla col figlio: sta bene, è lucida, chiede della pronipote, la piccola Matilde. La signora, alla sua età, è guarita. La brava dottoressa che l' ha curata dice che è una sorta di «medaglia». Una speranza in mezzo alla catastrofe che sta decimando gli anziani nelle case di riposo di Milano. Ma dentro strutture che non hanno saputo impedire l' ingresso del virus, e che sono andate in sofferenza perché la malattia ha poi colpito anche medici e infermieri, possono accadere anche disastri come quello che al figlio della signora Oriani viene annunciato, con una nuova telefonata, alle 16 dell' 11 aprile: «Sua madre è caduta dalla sedia a rotelle, è stata in ospedale». Non gli dicono neppure dove. È lui a dover capire che si trova al «Policlinico». Diagnosi: frattura scomposta del femore. Ad oggi, la situazione è questa: «I medici del Policlinico, con grandissima professionalità, mi hanno spiegato che le conseguenze di una frattura del genere, senza un' operazione, potrebbero portare alla morte in pochi giorni - spiega il figlio al Corriere -. Dunque mia madre, guarita dal coronavirus, verrà operata, con tutti i rischi per una persona di quell' età. Dall' Auxologico mi hanno detto che si sarebbe sfilata la cintura di contenimento della carrozzina e sarebbe caduta nel tentativo di alzarsi. Spiegazioni vaghe e imprecise». Ecco cosa sta accadendo, dentro una delle strutture che dovrebbe rappresentare l' eccellenza della sanità privata in Lombardia (quella a cui il bilancio regionale assicura mastodontici flussi di denaro). Nella residenza per anziani dell' Auxologico a Milano, in via Mosè Bianchi, 150 ospiti e retta da 3 mila euro al mese, il virus è entrato e gli anziani sono stati decimati. Medici e dipendenti ripetono che gli ambulatori sono rimasti aperti per settimane dopo l' inizio dell' epidemia e che s' è continuato a lavorare senza protezioni. Per quanto ricostruito dal Corriere , sono morti almeno 50 anziani. Vuol dire uno su tre. Una strage, con proporzioni ancor più devastanti rispetto alle Rsa più «famose», come il Trivulzio o la «Don Gnocchi». La signora Carla Mangiacavalli, 92 anni, si è spenta il 30 marzo. La figlia Enrica racconta: «Quando le cose sono iniziate a precipitare, è stato sempre più difficile avere informazioni. Nessuno rispondeva al telefono, abbiamo passato giorni di angoscia. A un certo punto mi hanno detto: "Trattiamo tutti come Covid, stiamo facendo spostamenti, isolamenti". Poi abbiamo saputo che avevano iniziato a fare i tamponi, e quando mi ha chiamato una dottoressa, le ho chiesto: "Mia madre è positiva?". "No, è morta". Ho insistito: "Ma era positiva?". A quel punto mi è stato riferito che "si era positivizzata". Là dentro sta avvenendo una mattanza. Siamo riusciti a far passare la bara sotto casa, per un saluto e una benedizione. Quello è stato il funerale». Il signor Anacleto Baglio, 87 anni, è morto alle 8.45 di domenica 5 aprile. Dal 16 marzo al venerdì prima del decesso, «ho ricevuto cinque video chiamate - racconta la figlia - e quelle sono state importanti per mia madre, che voleva vederlo; erano sposati da 60 anni. Io ero sempre più preoccupata per l' aspetto medico, ma le informazioni erano poche. Ha fatto due tamponi, entrambi negativi. Il venerdì mi hanno solo detto che mangiava un po' meno. Attraverso il telefono si sono dati un bacio con la mamma. Domenica mattina ricevo una telefonata e chiedo: "È diventato positivo?". "No, è morto". Perché nessuno mi ha avvertito che si era aggravato? Era cardiopatico. È stato assistito in maniera adeguata?». Domande che hanno un senso, perché nelle Rsa devastate dal coronavirus i rischi aumentano anche per i pochi non «positivi». Alcuni anziani non vedono più i parenti e si stanno lasciando andare. La figlia del signor Baglio dice: «Non voleva morire solo. Invece è morto solo. E non si sa in che modo». Mercoledì 8 aprile la signora è andata a dare l' ultimo saluto al padre, a distanza. Quella mattina, dall' Auxologico, ha visto uscire otto bare.

Coronavirus e residenze anziani, tra la verità di Gori e quella di Fontana c’è il divieto di chiudere i centri diurni integrati con le Rsa. Le strutture bergamasche a fine febbraio si erano mosse per chiudere gli spazi per gli ospiti diurni, ma l'Ats gliel'aveva impedito precisando che "ad oggi non vi sono indicazioni che prevedono la chiusura dei servizi". Gaia Scacciavillani il 13 aprile 2020 su Il Fatto Quotidiano. “Regione Lombardia ha ridotto gli accessi nelle Rsa il 23 febbraio, imponendo criteri severi e consentendo poi ai gestori di adottare precauzioni più rigide“. Così da Palazzo Lombardia replicano al rinnovato attacco del sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, che domenica 12 aprile alle telecamere di Che tempo che fa ha rinnovato le accuse di una ritardata chiusura alle visite degli ospiti nelle Residenze sanitarie assistenziali per anziani che avrebbe causato un alto numero di decessi per covid nelle strutture. Il botta e risposta va avanti da diversi giorni ormai e le carte sono talmente mescolate che si fatica a capire chi dice la verità. Se lo faccia il governatore Attilio Fontana, quando, il 2 aprile, scrive che la Regione si è attivata “sin dalle prime avvisaglie” per chiudere le porte delle Rsa. O se lo faccia Gori quando sostiene che i gestori delle strutture bergamasche fin da fine febbraio avevano chiesto all’Agenzia di tutela della salute (Ats) locale di sospendere gli accessi dei parenti e si sono visti negare il permesso in virtù di disposizioni opposte della Regione. La verità, seppure con un piccolo margine di imprecisione, nella sostanza la dice Gori. La discussione tra le strutture e l’Ats bergamasca, c’è stata eccome. E ha avuto come effetto che le strutture che volevano diminuire le possibilità di contagio non hanno potuto farlo per imposizione dell’autorità. Ma questo non per la chiusura delle porte ai parenti degli ospiti delle Rsa, bensì per la mancata chiusura dei Centri diurni integrati. Ovvero di quegli spazi integrati con le Rsa, ma dedicati a persone anziane che li frequentano solo di giorno per alcune ore, da cui il nome. A denunciarlo sulla stampa nei giorni scorsi è stato tra gli altri Marco Ferraro, presidente della Casa Aresi di Brignano. “Appena sono stati segnalati i primi casi a Codogno, avevamo individuato il centro diurno come il pericolo maggiore. Così dal 23 febbraio abbiamo chiuso il servizio. Poi ci è arrivata la nota dell’Ats che diceva di tenere aperto, altrimenti avremmo rischiato di perdere la contrattualizzazione per interruzione di pubblico servizio – ha raccontato tra gli altri al Corriere di Bergamo il 4 aprile scorso —. Abbiamo tenuto fermo il servizio due giorni, poi abbiamo riaperto. Nei giorni seguenti abbiamo ricevuto un’ispezione dell’Ats, due funzionari accompagnati dalla nostra caposala hanno voluto accertarsi che il centro diurno fosse operativo e ci hanno rilasciato un verbale. È passata un’altra settimana prima che una nuova ordinanza ci permettesse di chiuderlo”. Un caso isolato? Non si direbbe. Il Corriere riferisce infatti che una sorte analoga è toccata alla Fondazione Vaglietti di Cologno al Serio il cui presidente, Maurizio Cansone, racconta che avrebbe voluto sospendere il servizio per i diurni fin da fine febbraio ma che l’Ats non prevedeva questa possibilità “a meno di una giusta causa e il Covid non era tra queste. Noi ci siamo riusciti l’11 marzo perché hanno riconosciuto che, causa assenze, il personale che rimaneva doveva essere concentrato sulla Rsa”. D’altro canto, l’Ats di Bergamo alle richieste del 23 febbraio rispondeva con una circolare in cui, riferendosi alle disposizioni di Ministero della Salute e presidente della Regione, precisava che “ad oggi non vi sono indicazioni che prevedono la chiusura dei servizi” residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari. Segue raccomandazione a condizionare l’accesso all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale, per altro difficilmente reperibili. Spazio anche per i parenti degli ospiti delle Rsa, che, in base alla “regola di accesso“, andavano ammessi in struttura “in numero non superiore ad uno per ospite”. Caso a parte i centri diurni per disabili, sui quali l’incertezza è andata avanti almeno fino al 13 marzo, data in cui la Fp Cgil, nella persona del segretario Roberto Rossi, ha chiesto un chiarimento e una linea omogenea al Prefetto di Bergamo, manifestando la necessità che i centri venissero chiusi per tutelare al meglio pazienti e personale.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 14 aprile 2020. Acquisizioni di registri, cartelle cliniche, raccolta di testimonianze di medici, infermieri, operatori sanitari e di parenti delle vittime. Le indagini sulle morti sospette degli anziani nelle Rsa non riguardano più il solo Pio Albergo Trivulzio. Sebbene l'inchiesta sul Pat sia la principale, sia per il numero dei deceduti che per il ruolo di regista affidato alla Baggina. Struttura che ha fatto da centro di smistamento verso altre case di cura per i malati di Coronavirus a bassa intensità che venivano dimessi da ospedali in difficoltà. Gli inquirenti hanno bussato alle porte della Sacra Famiglia di Cesano Boscone e di una residenza di Settimo Milanese. Sono solo i primi blitz, visto che i pm del pool Salute della procura di Milano, guidato dall'aggiunto Tiziana Siciliano, stanno procedendo in queste ore alle iscrizioni nel registro degli indagati dei vertici di altre residenze in cui si sono verificati contagi e morti, tra cui quelle dei quartieri milanesi di Affori, Corvetto e Lambrate. Le iscrizioni servono per procedere, eventualmente, alle perquisizioni, come è avvenuto per il Pio Albergo Trivulzio. Inoltre, ieri mattina, i carabinieri del Nas hanno ispezionato le Rsa di quattro province lombarde Milano, Monza, Como e Varese. Sono stati una quindicina, invece, i controlli, sempre del nucleo antisofisticazione di Brescia, nelle case di riposo della Bergamasca, dove secondo i dati della Cgil sono deceduti «il 25 per cento degli ospiti» dall'inizio dell'emergenza. «Già da qualche tempo, alcune strutture hanno ricevuto la visita dei carabinieri del Nas dopo diverse segnalazioni», spiega Roberto Rossi, responsabile del sindacato, sottolineando che i dati raccolti hanno portato a stimare nelle 65 Rsa della provincia almeno 1.500 decessi fino alla settimana scorsa. Il record ufficiale di decessi in una singola casa di cura spetta al Trivulzio, che è anche la più grande: alla Baggina, come la chiamano i milanesi, dai primi giorni di marzo ci sono stati quasi 150 morti su un totale di circa 1200 persone, tra ospiti e pazienti. Un numero simile di decessi si sarebbe registrato, sempre a Milano, alla Fondazione don Gnocchi. Sia in questo fascicolo, che negli altri sulle Rsa milanesi, gli inquirenti, con gli investigatori del Nas dei carabinieri e della Guardia di finanza, dovranno lavorare su più fronti: dalle analisi sulle centinaia di morti per sospetto Covid-19 fino all'assenza di tamponi e di mascherine e alle presunte minacce agli infermieri che le utilizzavano. E ancora sulle eventuali omissioni nei referti e nelle cure fornite e sulla presunta commistione tra anziani e pazienti dimessi dagli ospedali. Infine sul ruolo giocato dell'amministrazione regionale nella predisposizione di linee guida e piani pandemici. La domanda a cui dovranno fornire una risposta gli inquirenti è: gli standard di sicurezza, previsti per legge, sono stati adottati al fine di evitare i contagi e quindi i morti? La procura di Como ha aperto un procedimento per interruzione di pubblico servizio. Questa nuova inchiesta è nata dopo il deposito di due denunce presentate da alcuni parenti di degenti in Rsa. I familiari lamentano di non avere da tempo notizie sulle condizioni di salute dei propri congiunti da parte delle strutture. Uno dei due querelanti ha scritto che nei giorni scorsi aveva ricevuto una telefonata in cui veniva informato che le condizioni di suo padre si erano aggravate. Poi non sarebbe più riuscito ad avere novità. Da qui l'esposto che ha comportato l'apertura di un fascicolo. Sul fronte Alzano Lombardo, nella Bergamasca, invece, si indaga sulla mancata zona rossa e sul no alla chiusura del pronto soccorso che diventò focolaio. Sono stati già sentiti alcuni infermieri e dirigenti medici dell'ospedale di Alzano e della stessa Asst nelle indagini per epidemia colposa condotte dai carabinieri del Nas di Brescia.

Trivulzio, chiusa l'ispezione del Ministero. Zampa: "Violate le disposizioni di non far entrare contagiati". Il sottosegretario alla Salute Sandra Zampa alla trasmissione Circo Massimo: "Il virus non vola nell'aria, qualcuno deve averlo portato". Oggi pomeriggio interrogazione parlamentare su quello che l'Oms definisce "il massacro delle Rsa". La Repubblica il 16 aprile 2020. Si è conclusa l'ispezione del Ministero della Salute sul Pio Albergo Trivulzio. Oggi pomeriggio, giovedì 16 aprile, il sottosegretario Sandra Zampa risponderà a un'interrogazione parlamentare in proposito. "Erano state date disposizioni a tutti di non far entrare possibili contagiati. Invece così è avvenuto. Il virus non vola nell'aria, qualcuno deve averlo portato. Bisogna verificare se sono stati fatti tutti i controlli possibili" ha detto Zampa ai microfoni di Circo Massimo, intervistata da Massimo Giannini. "Le disposizioni erano valide per tutti, non solo per la Lombardia. Sia l'Istituto Superiore di Sanità che una circolare del Ministero imponevano di controllare l'ingresso di possibili casi positivi. Invece lì c'è stato un numero di decessi anomalo, molto alto. Si tratta di una materia molto delicata". Zampa non è stata tenera con la gestione della Regione da parte del governatore della Lega Attilio Fontana. "Dal primo giorno la loro politica è stata quella di disattendere le indicazioni del governo, di andare in direzione contraria, prendere le distanze. Questo è avvenuto per ragioni politiche. Ma dovremmo chiederci come mai la Lombardia abbia un numero di contagiati sproporzionatamente alto rispetto alle altre regioni" ha proseguito il sottosegretario Pd. Sul Pio Albergo Trivulzio e le altre Rsa di Milano, intanto, la Guardia di finanza ha sequestri degli atti nella sede della Regione. Si vuole fare chiarezza sulle direttive che l'amministrazione regionale e l'assessorato al welfare hanno dato al Trivulzio e alle altre Rsa sulla gestione degli anziani e dei pazienti. Ispezioni dei Nas sono in corso anche in altre 600 strutture in tutta Italia: il 17% è irregolare. E arrivano le annotazioni dell'Oms: "Il massacro nelle Rsa deve essere un'occasione da non disperdere per ripensare l'assistenza e la cura dei più deboli". L'Oms chiede al governo cosa è successo e come maì, dice il vicedirettore Ranieri Guerra.

C. Gu. per “il Messaggero” il 14 aprile 2020. Un avviso di garanzia al direttore generale del Pio Albergo Trivulzio Giuseppe Calicchio per epidemia colposa e omicidio colposo plurimo, la casa di riposo indagata per la legge 231 sulla responsabilità amministrativa degli enti. L'inchiesta sulla Baggina assume contorni molto più corposi di un fascicolo dopo le perquisizioni della guardia di finanza di Milano che ieri mattina si è presentata negli uffici della storica Rsa, quasi trent'anni dopo il blitz che ha aperto la stagione di Tangentopoli. Obiettivo degli investigatori sono le cartelle cliniche dei pazienti morti da gennaio a oggi, ma anche le «direttive» inviate dalla Regione Lombardia per la gestione di ospiti anziani e pazienti. E soprattutto per l'accoglimento dei malati di Covid-19 dimessi dagli ospedali, operazione assegnata dalla Giunta alla Baggina con il compito di smistare i degenti nelle strutture della regione. Nell'imputazione del decreto a carico del direttore generale Giuseppe Calicchio viene contestato all'indagato di non aver rispettato i protocolli sanitari di sicurezza e di aver così «messo in pericolo» la salute degli operatori e degli ospiti, nonché di aver causato con «negligenza, imprudenza ed imperizia» le morti degli anziani. Il Trivulzio è solo un tassello della maxi inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, composta da più filoni sulle presunte carenze e omissioni che avrebbero causato centinaia di decessi nelle case di riposo milanesi. La Baggina è quella con il maggior numero di vittime, 78 solo nei primi dodici giorni di aprile, ed è una «ingente mole di documenti» quella acquisita tra cartelle cliniche, documenti cartacei e informatici. Sono stati sequestrati pc, tra cui quello del direttore generale Calicchio, e altri dispositivi informatici alla ricerca di email e documenti. L'analisi del materiale allargherà il perimetro degli indagati, coinvolti nell'inchiesta su due fronti: la mancata protezione dall'infezione del personale e dei pazienti, le direttive arrivate dalla Regione Lombardia. Per questo secondo ambito investigativo, la finanza ha acquisito anche la delibera regionale dell'8 marzo che dava la possibilità alle Rsa, su base volontaria, di ospitare pazienti Covid dimessi dagli ospedali, per «liberare rapidamente i posti letto degli ospedali per acuti (terapie intensive, sub intensive, malattie infettive, pneumologia, degenze ordinare)». E la Baggina aveva un ruolo centrale, ovvero distribuire i pazienti in altre case di riposo, a condizione che fossero in reparti separati dagli ospiti sani. I pm stanno iscrivendo nel registro degli indagati tutti i vertici delle residenze nel mirino, almeno una dozzina da Lambrate, Affori e Corvetto. Oltre che sul sequestro dei referti, utili per accertare eventuali omissioni e correlazioni tra le morti e i contagi nella struttura, al Trivulzio le attività degli investigatori si concentrano sulla gestione organizzativa interna della struttura e sulle direttive date dall'amministrazione regionale, così come ad altre Rsa, in questa fase di emergenza. E, in particolare, su quei «nuovi arrivi» di pazienti alla Baggina, circa venti, quando era già scoppiata l'epidemia, anche se ufficialmente la struttura dichiara di non aver ricoverato malati Covid nonostante il via libera del Pirellone. Proprio i «rapporti» tra Trivulzio e Regione saranno approfonditi: il Pat ha fatto da centro di smistamento verso altre strutture dei malati di Coronavirus a bassa intensità, che venivano dimessi da ospedali ormai al collasso. Una «commistione» che potrebbe aver creato dei focolai. Sequestrata anche la documentazione sui tamponi, pochissimi quelli effettuati nelle Rsa prima per mancanza dei test ora per carenza dei reagenti, e poi le disposizioni interne sull'uso delle mascherine, perché alcuni operatori hanno denunciato di essere stati «minacciati» quando le usavano tra fine febbraio e inizio marzo. Agli atti anche carteggi e mail su disposizioni interne e regionali, che il direttore generale Calicchio ha affermato di aver seguito di fronte agli ispettori del ministero della Sanità. La mole di materiale acquisito richiederà settimane di lavoro, mentre tra i vertici delle Rsa indagati figurano anche quelli del Don Gnocchi (che respinge le accuse) e della a Sacra Famiglia di Cesano Boscone.

Caso Trivulzio, i conti che non tornano: si indaga sui pazienti spostati prima di morire. Tra i degenti trasferiti negli ospedali ci sono le vittime sfuggite alle statistiche: ora i pm vogliono vederci chiaro. Sandro De Riccardis e Luca De Vito il 22 aprile 2020 su La Repubblica. Ci sono i tanti anziani, oltre 200 solo a Milano dall’inizio dell’epidemia, deceduti nei reparti del Pio Albergo Trivulzio. E poi ci sono i pazienti che sono stati trasferiti e sono morti negli ospedali della città, finora sfuggiti a ogni statistica sulle vittime nel polo geriatrico. Ma tra le denunce che continuano ad arrivare in procura, ci sono anche quelle di parenti di ospiti che hanno visto i propri cari contagiarsi al Pat, con i classici sintomi del Covid ma senza una diagnosi di positività, e poi morire nelle strutture esterne. L’ultimo caso la scorsa notte: una signora di 74 anni, ricoverata al Pat l’11 febbraio, trasferita al pronto soccorso dell’ospedale San Giuseppe il giorno dopo Pasquetta, e morta nella notte tra ieri e mercoledì. Un altro caso era stato documentato da Repubblica lo scorso 6 aprile, quando la figlia di un’anziana 87enne aveva raccontato del trasferimento di sua madre all’ospedale di Garbagnate, dov’era in fin di vita dopo essere risultata positiva al Covid. Altri sono di questi giorni: un signore che era al Pat con la moglie è stato trasferito al Fatebenefratelli, e lì è morto. Un paziente del reparto di fisioterapia finisce al San Carlo, viene trovato positivo al Covid, e anche lui muore.

I pazienti trasferiti. I casi di degenti trasferiti — quasi tutti in una situazione di insufficienza respiratoria — e morti in ospedale sono una decina. E anche su questi decessi, la procura vuole vederci chiaro. Acquisendo le testimonianze delle famiglie e recuperando le cartelle cliniche negli ospedali di destinazione e i referti medici, comprendenti i verbali di dimissioni, custoditi al Pat. Materiale da aggiungere a quello già raccolto dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano, che lavora all’inchiesta del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dei pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi. In tutti i casi, la diagnosi di positività è arrivata solo in ospedale, dove poi il decesso è stato rubricato come causato dal coronavirus. La Guardia di Finanza sta continuando a raccogliere le tante testimonianze di chi ha perso un proprio caro, al Trivulzio e nelle altre rsa milanesi. In un periodo in cui il rischio contagio è ancora alto, gli investigatori invitano i denuncianti a inviare un file audio con la propria storia, che poi verrà formalizzata in un esposto alla fine dell’emergenza, ma che permetterà da subito di far partire le indagini.

Il comitato. Intanto il comitato “Verità è giustizia per le vittime del Trivulzio” chiede che venga realizzata un’indagine epidemiologica all’interno della Baggina. «Serve per acquisire le prove scientifiche dei reali tassi di mortalità e di malattia dei pazienti, medici e infermieri, causati dall’epidemia del Covid-19 — dice Alessandro Azzoni, figlio di un’ospite del Pat e portavoce del comitato — . L’indagine dovrebbe essere estesa a tutti gli ospedali e alle Rsa della Lombardia in cui sono emerse criticità. Chiediamo aiuto alla scienza proprio perché non vogliamo vendetta ma solo giustizia». Uno strumento che servirebbe a capire meglio come il virus sia entrato all’interno della struttura, se a causa dei trasferimenti dagli ospedali o per altri motivi. Anche su questo sta lavorando attivamente la procura, che ha allargato gli accertamenti anche ai movimenti di pazienti arrivati a marzo al Trivulzio e nelle altre case di riposo, dove sono stati accolti anche malati non positivi per alleggerire gli ospedali. Malati che, in assenza di tampone, hanno avuto una semplice diagnosi di polmonite. Intanto, la lettera sottoscritta dai medici, infermieri e tecnici del Trivulzio contro i vertici è stata inviata alle istituzioni, tra cui il ministero della Salute e il sindaco di Milano Giuseppe Sala, per ribadire come «la triste verità è che a fronte della situazione della diffusione del virus all’interno del Pat siamo stati lasciati completamente soli, e senza direttive univoche sul trattamento dell’epidemia».

 “Epidemia colposa”, in tutta Italia aperti fascicoli per la messa in scena politico-spettacolare. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 22 Aprile 2020. Solo in Italia. L’Italia è l’unico Paese al mondo a trasformare un’epidemia sanitaria in epidemia giudiziaria. Con la preparazione del processo impossibile. Con l’apertura di fascicoli e la contestazione di reati che potrebbero portare, qualora si arrivasse a condanne, fino a pene per dodici anni di carcere. In Francia il 45% dei decessi per Covid-19 è avvenuto nelle case di riposo. L’opinione pubblica ha fatto pressione perché tutti sapessero che il contagio aveva sterminato la popolazione più anziana, ma a nessuno è venuto in mente di presentare esposti né alcun Pubblico ministero ha aperto un fascicolo. Lo stesso è accaduto in Belgio, paese che, come l’Italia, vanta una buona reputazione per il suo sistema sanitario e che pure ha visto spazzato via un buon 42% degli ospiti delle Rsa. Cifre analoghe riguardano la situazione in Irlanda, nel Regno Unito e in Usa. Ma il vertice per numero di decessi è stato raggiunto dalla Spagna con il suo 59% nelle case di riposo. Anche lì nessuno ha fatto esposti, e se la magistratura è dovuta intervenire è stato solo perché la Guardia Civile aveva scoperto per caso una serie di anziani abbandonati a se stessi in una casa di riposo di Madrid. Qui da noi invece abbiamo Pubblici ministeri scatenati in pool che aprono fascicoli e indagano per “epidemia colposa” e “omicidio colposo”, e incriminano un’intera struttura come il Pio Albergo Trivulzio di Milano (e il suo direttore generale), la cui principale “responsabilità” non è penale ma storica, perché ormai trent’anni fa un suo presidente fu sorpreso mentre riscuoteva una piccola tangente. Ma non solo per quello. Il Pat, quello che una volta i milanesi chiamavano Baggina, è un’enormità con 1.500 dipendenti e spesso altrettanti ospiti. La competenza è al 70%, cioè per la quota assistenziale, del Comune di Milano che ne nomina il Presidente, e al 30%, la parte sanitaria, che spetta alla Regione Lombardia. È luogo d’eccellenza ma anche molto problematico, con sindacati molto corporativi e annose difficoltà a causa di un alto tasso di assenteismo e molti lavoratori “demansionati”. Così spesso tocca ai parenti o a badanti mandate dalle famiglie, accudire l’anziano, sollevarlo e imboccarlo. L’arrivo del virus non poteva che far esplodere la situazione. Anche se non è chiaro, se non per motivi scandalistici, perché si debba parlare solo di questo Istituto, né solo di Milano, visto che i magistrati si sono mossi un po’ in tutta l’Italia del nord, dal Piemonte all’Emilia Romagna, al Veneto e alla Toscana. A Milano la Guardia di finanza è stata inviata subito a fare perquisizioni a tappeto e a sequestrare decine di faldoni che contengono documenti, cioè pezzi di carta difficili da consultare, perché in tempi di virus processi e inchieste si sviluppano solo per via telematica. Poi ci sono due quotidiani militanti dell’emergenza, Il Fatto e La Repubblica (ma non sono i soli), che appiccano incendi parlando di stragi e di cadaveri fantasma. E poi ci sono parenti incattiviti che vengono portati per mano a denunciare alla magistratura tutti e per qualunque cosa. Perché un congiunto è morto o anche perché non è morto, ma vogliono sapere se è stato ben assistito. E aspettano che glielo dica un Pm. Così tutto finisce in un imbuto, nel palazzo di giustizia, dove tutto è più complicato del solito. Perché c’è stato un incendio che ne ha distrutto due piani, perché si lavora da remoto e anche gli interrogatori dei testimoni, che sono iniziati già ieri con rara e sospetta velocità, avvengono per via telematica. E anche perché il lavoro del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dei due sostituti che la affiancano è una scommessa difficile, se non impossibile. Magistrati esperti non possono ignorare la difficoltà di dimostrare la commissione di reati come l’epidemia colposa e l’omicidio colposo. Per quel che riguarda le case di riposo si contestano ai dirigenti degli istituti sostanzialmente comportamenti omissivi. Perché non si sarebbero procurati per tempo le mascherine, i guanti e altre forme di presidio sanitario per i dipendenti. In poche parole sarebbero arrivati in ritardo (al Pat per esempio solo in questi giorni si stanno facendo i tamponi) nel proteggere gli anziani e il personale sanitario dalla diffusione del contagio. Ma nessun pubblico ministero può ignorare la giurisprudenza costante sull’interpretazione dell’articolo 438 del codice penale, che esclude il comportamento omissivo. Cioè, per aver favorito, o anche non aver contenuto, il contagio, occorre un comportamento “commissivo”, attivo, insomma. È il concetto dell’untore: so di esser malato e contagioso, ma mi avvicino a te, ti abbraccio ugualmente. Non lo faccio apposta per contagiarti (nulla di doloso) ma mantengo un comportamento imprudente e ti faccio ammalare. C’è poi anche una sentenza della Cassazione a sezioni riunite che dà un’interpretazione della nozione di epidemia penalmente rilevante molto più restrittiva di quella prevista in ambito sanitario. E anche i reati di lesioni colpose o di omicidio colposo sono difficilmente dimostrabili, in questo caso, perché occorre sempre dimostrare il nesso di causalità tra un comportamento, anche omissivo, e il risultato. Perché bisognerebbe sapere per ogni paziente quando è stato contagiato e come. Tutto ciò può esser ignorato dal sindacalista o da un figlio disperato per la perdita di un genitore, ma non dai Pubblici Ministeri di Milano e delle altre città dove sono state aperte inchieste. E allora perché stanno avviando una serie di processi impossibili? È il solito circo italico da trent’anni a questa parte, proprio dal giorno dell’arresto di Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio. Con i Pm che si credono padroni delle sorti del mondo, con i quotidiani e i Tg che alzano le forche e le tricoteuses che sferruzzano digrignando i denti e qualche cretinetto che cerca il risultato politico chiedendo di commissariare un Istituto e anche un’intera Regione. Benvenuti al processo impossibile.

Pio Albergo Trivulzio, inaccettabile si proceda per epidemia volontaria. Frank Cimini de Il Riformista il 26 Aprile 2020. I giornaloni sognano una nuova Mani pulite e il sogno va al di là della presenza tra gli istituti sotto indagine del Pio Albergo Trivulzio, dove ormai quasi trent’anni fa prese il via l’operazione politico-giudiziaria, più politica che giudiziaria per la verità, che sconvolse la vita del paese e di cui stiamo pagando ancora le conseguenze. Il sogno affonda le sue ragioni in un terreno che trova fertile perché da oltre quarant’anni, ogni volta che si presenta un problema, c’è la tentazione di affidarsi alla magistratura in via quasi o del tutto esclusiva, con i media che sono pronti in curva sud e in curva nord a fare il tifo per tale soluzione. La politica è debole e insieme alla pubblica amministrazione e, in questo caso, al sistema sanitario non possiede gli anticorpi per reagire, sanare quello che c’è da rimettere a posto nella società. La cosiddetta opinione pubblica influenzata dai giornali (una sorta di circolo vizioso: un cane che si mangia la coda) non ha fiducia in chi amministra ed è portata a rassegnarsi al fatto che il processo penale sia l’unica risposta possibile. I parenti delle vittime sollecitano sanzioni esemplari. Con tutto il rispetto per il dolore di chi ha perso i propri cari, non è accettabile in uno stato di diritto che alcuni ipotizzino di chiedere addirittura che la procura di Milano proceda nel caso del Pio Albergo Trivulzio per epidemia volontaria e non epidemia colposa. Cioè per un reato che comporta la condanna all’ergastolo. E ci troviamo in un quadro in cui già l’epidemia colposa appare non facile da supportare e chi indaga non può non saperlo. Non siamo in una repubblica islamica dove le vittime e i loro parenti hanno la possibilità di decidere le condanne e pure le pene degli imputati. Ma purtroppo siamo in un paese dove va ricordato ai tempi della madre di tutte le emergenze la scarcerazione dei condannati per fatti di lotta armata veniva subordinata al “perdono” da parte degli eredi delle vittime. I giornali tutte le volte che un mafioso o un ex terrorista ottiene non dico la scarcerazione ma solo un permesso di pochi giorni vanno a intervistare i parenti delle vittime per fare il solito stucchevole titolo: “Me l’hanno ammazzato per la seconda volta”. Il coronavirus ennesima tappa dell’infinita emergenza italiana ripropone i problemi di sempre senza che emerga da parte di chi racconta i fatti un minimo di spirito critico. Anzi le immagini delle fiamme gialle che entrano al Pio Albergo Trivulzio vengono proposte e riproposte più volte dai telegiornali, come se la battaglia contro il virus dipendesse dal sequestro di quelle carte di cui non si conosce il valore processuale. Pensano ai vertici dei giornaloni che una nuova Mani pulite faccia vendere più copie in modo da risolvere una crisi che dura ormai da anni? All’assenza di onestà intellettuale aggiungerebbero la stupidità.

La Guardia di Finanza al Trivulzio riporta alla mente Tangentopoli. Nel mirino del pool 180 decessi avvenuti nell’ultimo periodo. Il ricordo del “mariuolo” Chiesa.  Francesco Specchia il 16 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Oggi che è tornato à la page, frequentatissimo dalle gazzelle della Polizia e dai presidi della Guardia di Finanza, il Pio Albergo Trivulzio, con quella sua maestosità finto gotica, mi richiama antichi ricordi. Ogni volta che ci passo – e ci passo spesso – mi compare innanzi lo spettro padanissimo dell’ingegner Mario Chiesa. Gran collettore di tangenti, “mariuolo isolato” come lo chiamava Craxi (ma era tutt’altro che isolato), infaticabile portatore d’acqua (e non solo d’acqua) di almeno tre generazioni di leader socialisti da De Martino a Tognoli a Pillitteri, Chiesa era il presidente della lussuosa residenza per anziani milanese. Venne arrestato in flagranza di reato il 17 febbraio 1992, mentre intascava la sua ennesima tangente. Da lì s’accese il rogo di Tangentopoli, che si dimostrò tutt’altro che purificatore. Leggenda vuole che, colpito dal tradimento della moglie scopertasi a sua volta becca, Chiesa, paonazzo, in preda ad un affanno che oggi richiederebbe terapia intensiva, si rintanò nel cesso, cercando si affogare la mazzetta nello sciacquone. Oggi questa straordinaria metafora della politica italiana si ripropone in modo quasi romanzesco. Al Trivulzio è riapparsa la Finanza di Milano che sta effettuando delle acquisizioni di documenti negli uffici della Regione Lombardia nell’inchiesta in più filoni – pare siano 12, in evoluzione –; si stanno acquisendo «atti e altro materiale sulle direttive che l’amministrazione regionale e l’assessorato al Welfare hanno dato al Pio Albergo Trivulzio e alle Rsa sulla gestione degli anziani e dei pazienti». L’inchiesta avviata dal pool guidato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, coi pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, sta analizzando circa 180 decessi avvenuti nell’ultimo periodo per capire quanti possano essere collegati all’infezione da coronavirus e se vi siano state eventuali negligenze. Le ipotesi di reato sono quelle di omicidio colposo ed epidemia colposa. Le cronache di queste ore raccontano, inoltre che  «lo stesso è stato fatto anche alla  Sacra Famiglia di Cesano Boscone (quella dove ha scontato la sua pena il Berlusca, ndr)». Tra gli indagati, oltre al Direttore generale Giuseppe Calicchio, lo stesso “Trivulzio”, come ente. Risponde per la presunta violazione della legge 231 del 2001 sulla  responsabilità amministrativa  i reati commessi dai propri dipendenti. La qual cosa sottende una girandola incredibile di  Morti sospette, medici allontanati perché volevano usare le mascherine, personale contagiato  che mai avresti detto. Una serie di sfortunati eventi che, per inciso, stanno conducendo i pm verso i lidi immensi delle inchieste sulle Rsa di molte altre strutture della Lombardia: da Cremona a Sondrio a Brescia. In quest’ultima provincia in particolare, una delle più colpite dal coronavirus, i Nas «stanno requisendo documenti che riguardano le 86 Rsa  e le 8 Rsd (residenze per disabili) della zona». Vista così, sembra quasi peggio di Mani pulite, direi. Anche se, allora, la deflagrazione di un sistema divenne di portata storica. Nei mitici anni 90, Tangentopoli produsse 4500 indagati, 3200 richieste di rinvio a giudizio, 3500 miliardi di lire in stecche e fondi neri. E lo stesso Chiesa, uscito di galera e avvicinatosi alla Compagnia delle Opere – il braccio armato di Comunione e Liberazione –, come in un romanzo di Victor Hugo, ricascò nel gorgo del vizio. Il 31 marzo 2009 fu arrestato di nuovo con la accusa non inedita di essere stato il collettore di tangenti nella gestione del traffico illecito di rifiuti della Regione Lombardia (era chiamato, romanticamente, “l’uomo del 10%”). D’altronde, sarebbe stato un peccato sprecare tutta l’esperienza tangentara accumulata con gli anni. Oggi, nella commissione che giudica gli atti del Trivulzio in tempi di Coronavirus, spicca il nome di un tutore integerrimo: Gherardo Colombo, anima e core del vecchio pool Mani Pulite. Quando si dice il destino…

Guai criticare i pm milanesi. Chiedetelo al consigliere Csm Lanzi…Davide Varì su Il Dubbio il 22 aprile 2020. Riecco lo scontro toghe e politica: dopo la Fase2 del ritorno alla normalità, ci sarà la Fase3 della resa dei conti dei magistrati. «Quello contro la sanità lombarda è un attacco politico al centrodestra e alla Regione alimentato da un’inchiesta giudiziaria spettacolarizzata». Di più: a Milano si stanno celebrando veri e propri «processi di piazza». Alessio Lanzi, avvocato, professore di diritto penale e, soprattutto, membro laico del Csm designato da Forza Italia, torna all’attacco e, dopo aver sollevato il caso dell’inchiesta milanese sul Pio Albergo Trivulzio dalle pagine del Dubbio, replica le sue accuse sulla Stampa. Solo che questa volta lo fa alla vigilia del plenum del Csm e così le toghe di piazza dei Marescialli rispolverano la cara, vecchia unità di categoria – per non dire di casta – si ricompattano e censurano aspramente le sue parole, addirittura invocando il silenzio: «I membri del Consiglio non dovrebbero mai esprimere giudizi sul merito di una iniziativa giudiziaria in corso e certamente mai dovrebbero farlo con quei toni e quelle espressioni, che delegittimano il ruolo dell’autorità giudiziaria e dell’ufficio procedente», ha tuonato il consigliere togato del Csm, Giuseppe Cascini il quale ha parlato a nome dei magistrati di Area. Insomma, chi in questi giorni temeva un nuovo scontro tra politica e magistratura, vede materializzare quella premonizione. Del resto gli ingredienti ci sono tutti. C’è il luogo simbolo di Mani Pulite – quel Pio Albergo Trivulzio dal quale partì la valanga Tangentopoli – c’è un procuratore capo, Francesco Greco, che fu un pezzo da novanta del pool guidato dall’allora procuratore Borrelli e c’è la stampa che a quanto pare ha già in tasca le sentenze. Sentenze di colpevolezza, naturalmente.E chi invoca garanzie e riservatezza delle inchieste, rischia la pubblica riprovazione. Proprio come è accaduto al consigliere Lanzi, il quale ha solo fatto presente che il problema delle case di riposo non riguarda solo la Lombardia ma tutta l’Italia. Anzi, tutto il mondo: addirittura la civilissima Svezia, dove un terzo dei morti di Covid provengono dagli “ospizi”.«Ma qui in Italia si parla solo della Lombardia – ha ribadito Lanzi -. La magistratura interviene con grande rimbalzo mediatico, la politica sguazza ma episodi analoghi si sono verificati in altre regioni». E Lanzi fa l’esempio di Roma e del Lazio dove «ci sono stati fatti gravi come la diffusione anticipata delle bozze dei decreti, con pericolosi esodi di massa, eppure non risulta alcun indagini per il mancato impedimento dei contagi». Quindi rimarca: «Indagare è doveroso. Ma quando e come è una valutazione discrezionale dei pm, che in questi giorni comporta una smaccata sovraesposizione mediatica. Non mi è piaciuta la perquisizione della Finanza in Regione trasmessa in tv, mentre lì dentro si lavora in trincea per evitare altri morti». Apriti cielo. Evidentemente nell’era della giustizia spettacolo, la “perquisizione live” è considerata del tutto legittima. E di fronte a queste critiche Cascini ha sfoderato il dolore dei familiari che – giustamente ma senza per questo dover essere trascinati nella polemica – invocano «verità e giustizia».Ma il Consigliere Lanzi non è uomo da tirarsi indietro e non solo ha confermato ogni singola parola dell’intervista, ma ha anche rivendicato il suo diritto di critica: «Non c’è stato nessun attacco alla magistratura, nessuna delegittimazione», ha replicato.E poi: «Non c’è nessun attacco ai pm, ma opinioni espresse nell’ambito della libera manifestazione del pensiero. La dichiarazione del consigliere Cascini – ha sottolineato – è un atto politico; la critica dovrebbe intervenire unicamente sul merito delle mie dichiarazioni e sui relativi contenuti giuridici».Insomma, l’impressione è che dopo l’agognata e temuta “Fase2”, quella del lento ritorno alla normalità, seguirà una “Fase3”: la resa dei conti tra toghe e politica.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 23 aprile 2020. Un numero abnorme di polmoniti già da gennaio, quando il Covid-19 sembrava un problema remoto. Invece comincia da qui la triste catena di morti al Pio Albergo Trivulzio, da un'emergenza sanitaria mal gestita fin dall'inizio, ed è ciò su cui stanno lavorando i magistrati della procura di Milano. Nelle acquisizioni di documenti alle Agenzie di tutela della salute, le ex Asl che rappresentano il braccio operativo della Regione Lombardia in materia di sanità, la guardia di finanza ha raccolto tutte le direttive inviate alla Baggina da febbraio in poi. E che, alla luce della gestione dei pazienti, non sarebbero state rispettate dalla storica Rsa milanese. Il disastro del Trivulzio, con 200 anziani deceduti e 221 operatori sanitari con sintomi del virus, non sarebbe stato determinato solo dalla delibera dell'8 marzo con cui il Pirellone chiedeva alle Rsa di accogliere pazienti Covid positivi usciti dalle terapie intensive, ma anche dai malati con polmonite provenienti dai vari ospedali. Negativi solo perché non sono mai stati sottoposti ad alcun tampone e accolti da strutture sanitarie con cui il Trivulzio ha firmato convenzioni in atto da tempo. Nel piano triennale approvato lo scorso giugno si legge che, «nell'ottica della valorizzazione delle funzioni che vengono svolte dal Trivulzio per conto di Regione Lombardia, attraverso bandi specifici attivati dalle Ats, si chiede il riconoscimento di un totale di 215 posti letto già attivi, per la presa in carico di pazienti affetti da Alzheimer». Ciò «deriverebbe un incremento del budget Ats di 870 mila euro annui». Il Pio Albergo ha stretto convenzioni con l'Auxologico, con il Policlinico per il trasferimento dei pazienti dalla geriatria, con la Asst Santi Paolo e Carlo. Gli investigatori stanno verificando quanti e quali trasferimenti sarebbero avvenuti prima e dopo l'esplosione dell'epidemia, poiché dalle testimonianze di medici e infermieri alla Baggina sarebbero stati portati malati con polmoniti interstiziali, mai entrati nella lista dei malati Covid. Nei decreti delle perquisizioni la Procura, nel lungo elenco dei documenti da acquisire, ha indicato anche quelli sulle convenzioni stipulate «con Regione Lombardia» e su numeri e dati dei «pazienti ricevuti da altre strutture sanitarie» dal Pio Albergo negli ultimi tre mesi. Nel reparto pringe ad esempio, il pronto intervento geriatrico, sono arrivati diversi pazienti con polmoniti. Gli investigatori hanno sequestrato centinaia di cartelle cliniche di morti, malati, positivi e «nuovi ingressi», ovvero pazienti arrivati dagli ospedali. Diciassette solo da quello di Sesto San Giovanni. «C'erano molti casi di polmonite tra gli ospiti, più della media stagionale. E giravano tanti antibiotici in corsia», afferma un'operatrice sanitaria. Intanto uno dei componenti laici del Csm, Alessio Lanzi, critica il lavoro della Procura. «C'è un attacco strumentale al modello politico di centro destra della Regione, alimentato da un'inchiesta giudiziaria spettacolarizzata», è la tesi di Lanzi. Parole di cui chiede conto il consigliere togato Giuseppe Cascini: «I componenti del Csm non dovrebbero mai esprimere giudizi su una indagine in corso», soprattutto con espressioni «che delegittimano il ruolo dell'autorità giudiziaria».

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 17 aprile 2020. Nessun Covid positivo né pazienti con sintomi simili avrebbero mai dovuto essere accolti al Trivulzio. «Le disposizioni che erano state date a tutti, in particolare dall'Istituto superiore di sanità e dal Ministero, prevedevano non soltanto per la Lombardia, ma per tutte le Rsa, che non entrassero dall'esterno possibili soggetti contagiati», afferma la sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa. Che annuncia: «Sul Trivulzio noi abbiamo fatto quello che era doveroso fare e cioè una ispezione che ci consenta di comprendere come mai siamo arrivati a un numero di decessi così grande. L'ispezione è già conclusa». Con una prima evidenza: il Trivulzio ha accettato ospiti con sintomi del virus da altri ospedali e non avrebbe potuto farlo. Non solo. Al vaglio degli ispettori del ministero c'è anche il ruolo della Regione Lombardia, che ha spostato i pazienti positivi al Trivulzio e in altre strutture di lungodegenza per creare posti letto negli ospedali al collasso. Lo si evince dall'interpellanza urgente del Pd alla quale ha risposto ieri alla camera la sottosegretaria Zampa. Sui morti alla Baggina, si legge nel documento, «il ministero della Salute ha immediatamente avviato un'attività di verifica ispettiva in ordine alla congruità delle indicazioni fornite alle Rsa da parte della Regione Lombardia e dalle rispettive Ats, e alla adeguatezza delle attività di prevenzione, vigilanza e di indirizzo poste in essere nell'esercizio dei poteri di programmazione, indirizzo e coordinamento di competenza regionale, rispetto alle indicazioni fornite dal Ministero della salute con apposite circolari». Oggetto di controllo ispettivo è anche appurare se «la Regione Lombardia abbia chiesto alle Rsa di ampliare la loro ricettività in modo da ospitare, in funzione deflattiva sugli ospedali, i casi meno gravi di pazienti contagiati da coronavirus». La task force degli ispettori ha chiesto alla Baggina «la documentazione attestante l'attivazione delle misure di sicurezza poste in essere a tutela dei pazienti e degli operatori con la relativa cronologia. Inoltre, è stata richiesta al direttore generale dell'Ats una descrizione temporale delle attività svolte nel rispetto alle disposizioni emanate dal ministero della Salute e dalla Regione Lombardia in merito all'emergenza Covid-19». Dal primo febbraio al 6 aprile il numero dei morti nelle Rsa lombarde, informa la sottosegretaria Zampa, «è pari a 1.822 su un totale di 13.287 residenti, i deceduti accertati positivi al Covid-19 sono 934, cioè il 51,3% del totale dei decessi» nelle strutture per anziani, «ovviamente di quelle che hanno risposto al questionario», rileva Sandra Zampa. Già il 22 gennaio, riferisce in Aula la sottosegretaria, «con una circolare della direzione della prevenzione si allertava sulla particolare predisposizione della popolazione anziana al virus, e sin dall'adozione del decreto del primo marzo, anche per la Lombardia, è stata prescritta la rigorosa limitazione all'accesso dei visitatori agli ospiti nelle residenze sanitarie assistenziali quale fondamentale misura di prevenzione del contagio». Ma al Trivulzio, è ciò che emerge dall'inchiesta dei magistrati di Milano, il virus aveva già invaso le corsie: da gennaio sono stati ricoverati molti pazienti con polmoniti o con sintomi da insufficienza respiratoria, e «criticità» di questo tipo le accusavano anche alcuni degenti (una ventina e ufficialmente non Covid) trasferiti alla Baggina dopo l'esplosione dell'emergenza coronavirus. Il direttore generale Giuseppe Calicchio, indagato per epidemia colposa e omicidio colposo così come i vertici delle altre Rsa, si è difeso davanti agli ispettori del Ministero spiegando di aver rispettato i protocolli interni oltre che le disposizioni regionali. Il 19 marzo, si legge in un documento, il Pio Albergo lamentava di non aver ricevuto «riscontro» a una richiesta di mascherine avanzata alla «centrale regionale di committenza». Ieri i finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria sono tornati negli uffici della Regione acquisendo una gran mole di documenti. Il sospetto è che da un lato possano esserci state irregolarità nella delibera di Giunta dell'8 marzo che ha fatto sì che pazienti Covid venissero ammessi nelle case di riposo e che la stessa amministrazione regionale non abbia dato comunicazioni corrette alle Rsa sui rischi epidemiologici. Dall'altro, la possibilità che le stesse residenze per anziani non abbiano adottato le misure idonee per prevenire il contagio, come l'uso delle mascherine, e abbiano accolto i malati di Coronavirus senza separarli dagli ospiti. Oppure usando strutture diverse ma lo stesso personale.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 17 aprile 2020. «Siamo stati lasciati completamente soli. Senza direttive che prevedessero protocolli aziendali diagnostico terapeutici, univoche indicazioni sul trattamento dell'epidemia e delle norme di isolamento. Senza la possibilità di fare tamponi, senza dispositivi di protezione individuali fino a marzo inoltrato». E' una lettera di denuncia, quella alla quale appongono le loro firme medici, infermieri e personale amministrativo del Pio Albergo Trivulzio. Qui sono morti 178 anziani, numero purtroppo sempre in aggiornamento, dottori e operatori sanitari si sono trovati a combattere a mani nude contro un virus che, ufficialmente, non è mai entrato alla Baggina. «Abbiamo ricevuto direttive che impedivano l'invio in urgenza tramite 112 dei pazienti più gravi in pronto soccorso, sostenendo che le cure prestate presso il nostro istituto fossero migliori, oltre che maggiormente dignitose rispetto a quelle prestate in pronto soccorso», scrivono i medici. Inoltre, «nonostante numerose sollecitazioni alla direzione dell'istituto, non sono stati costituiti reparti Covid dove isolare i pazienti sospetti, tutelati esclusivamente da personale dedicato. A tutt'oggi il personale viene spostato da un reparto all'altro, senza verificare la negatività al tampone, esponendo quindi al contagio ulteriore personale sanitario e pazienti». Eppure medici e operatori non si sono tirati indietro. «Abbiamo profuso tutta la nostra energia e professionalità senza alcun risparmio, spesso osservando turni di lavoro massacranti, ma continuando a fornire tutta l'assistenza necessaria ai pazienti attraverso le terapie di supporto disponibili e isolando ogni caso clinico sospetto nei limiti del possibile (in assenza dei tamponi), per offrire la miglior cura. Abbiamo inoltre continuato a intrattenere le relazioni con le famiglie di tutti i pazienti, in particolare quelli critici e quelli isolati in osservazione, cercando di fornire loro la comunicazione più chiara e trasparente possibile, nonostante il clima aziendale interno non fosse dei più favorevoli». Il maggior rammarico, dicono i medici, «è legato al fatto che nonostante la nostra abnegazione e dedizione, pur in condizioni così difficili, non siamo riusciti ad arginare la diffusione del virus e a evitare le infauste conseguenze». E si muovono anche i familiari degli anziani della Baggina, che hanno creato il Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio. Nella Rsa c'è «un agghiacciante quadro di malasanità», afferma Alessandro Azzoni, con una mamma di 76 anni malata di Alzheimer ricoverata da due anni nel reparto Fornari. «Qui si sta assistendo alla cronaca di una serie di morti annunciate». La pandemia è arrivata da un mese e mezzo, dice, «e quindi non può più essere considerata un'emergenza: i dirigenti lo sanno quello che sta succedendo. A una signora ieri hanno detto che l'ospite di fianco a sua nonna ha i sintomi del Covid ma non la spostano, la lasciano lì e così la condannano a morte. Ho dovuto litigare per far fare una flebo a mia madre, era nel letto senza parlare, non sapevano da quanto non mangia, probabilmente da almeno una settimana, ha una saturazione che richiederebbe una maschera d'ossigeno ma non gliela mettono». Di fatto, sostiene Azzoni, «il Trivulzio non ha più dirigenza, ci sono mille e più ospiti che riescono ad andare avanti solo e semplicemente grazie al lavoro del personale medico e infermieristico che sta dando tutto. Ma non vengono fatte scelte e nel reparto di mia madre dove ci sono venti persone, ne sono morte già sei la settimana scorsa».

Giuseppe Guastella per corriere.it il 18 aprile 2020. I primi a testimoniare saranno i lavoratori delle Rsa milanesi. La Guardia di Finanza di Milano comincerà a sentirli in videoconferenza la settimana prossima, quando le indagini della Procura di Milano faranno un nuovo passo decisivo per accertare perché l' epidemia da coronavirus ha fatto strage di anziani e ha infettato così tanti medici, infermieri e operatori nelle Residenze sanitarie assistenziali. Sono salite a 16 le Rsa sulle quali indaga il pool di magistrati diretto dal Procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, ed aumentano di ora in ora anche i fascicoli aperti dalle Procure di tutta la Lombardia per omicidio colposo plurimo e epidemia colposa dopo le denunce presentate dai familiari delle vittime e dagli operatori sanitari, che accusano le Rsa di non aver preso tutte le precauzione necessarie, a partire dalle mascherine e dai tamponi, per evitare il rischio che il Covid-19 si diffondesse senza controllo. A contribuire al contagio è stato anche l' arrivo nelle strutture nel pieno della pandemia dei malati non più acuti dimessi dagli ospedali per fare spazio ai casi più gravi, come deciso dalla Regione Lombardia con la delibera dell' 8 marzo in cui, però, si precisava che i nuovi pazienti dovevano essere separati da quelli non contagiati. È l' atto principale al quale puntano al momento i pm, che lo hanno acquisto in Regione dopo aver perquisito il Pio Albergo Trivulzio, la struttura principale tra quelle sotto indagine. «Io aspetto con estrema serenità l' esito» dell' inchiesta e «credo proprio che non abbiamo assolutamente sbagliato niente», commenta il governatore Lombardo Attilio Fontana. «Abbiamo fatto una delibera che è stata proposta dai nostri tecnici», aggiunge, sostenendo che «la scelta è stata fatta perché non avevamo più posti negli ospedali per ricoverare la gente che non poteva più essere curata a casa» mentre era compito delle Ats controllare che ci fossero «l' isolamento in singoli reparti e dipendenti dedicati esclusivamente a quei pazienti». Per Maurizio Martina (Pd) «scaricare le responsabilità dopo aver fatto delibere di Giunta è un grave errore». Massimo Galli, primario di Malattie infettive del Sacco di Milano: «Trasferire nelle Rsa i pazienti Covid positivi non mi è sembrata mai un' idea brillante».

Estratto dell'articolo di Floriana Bulfon per la Repubblica il 18 aprile 2020. «Non si può sottacere una certa inerzia sia dei vertici dell' Agenzia di tutela della salute sia del Pio Albergo Trivulzio che, pur consapevoli della fragilità dei pazienti e della necessità di proteggere loro e gli operatori sanitari, si sono attivati con considerevole ritardo». Eccolo, il primo colpo al muro di gomma costruito per nascondere la verità sulla strage di anziani nel Pio Albergo Trivulzio. Lo mettono nero su bianco gli ispettori del ministero della Salute: una relazione preliminare, ancora incompleta, ma che si trasforma in un atto d' accusa sulla gestione della crisi da parte di tutta la Regione Lombardia. Responsabile di non avere «applicato in maniera tempestiva le misure» per difendere gli anziani ospiti nelle case di cura. Il doppio binario Gli ispettori evidenziano i pericolosi limiti della strategia adottata dalla giunta presieduta da Attilio Fontana. Di fronte all' emergenza è stato creato un «doppio binario», che sin dall' inizio ha privilegiato gli ospedali a scapito delle residenze per anziani. E lo ha fatto disobbedendo alle direttive del governo. «Le azioni di contenimento indicate dal ministero della Salute non sono state applicate in maniera tempestiva e hanno seguito un doppio binario a due velocità», recita il rapporto. Mentre si concentravano le energie sugli ospedali lombardi, nelle Rsa «non sembra si sia creato un raccordo rapido e il massimo sforzo che sarebbe dovuto avvenire anche per le caratteristiche di fragilità dei pazienti ricoverati». Laddove proprio la realtà della Lombardia - sottolineano - con una presenza di moltissime case di cura per la terza età avrebbe imposto una reazione immediata.(...)

Alessandro Da Rold per “la Verità” l'8 aprile 2020. C' è un' inchiesta della procura sulle carenze organizzative del Pio Albergo Trivulzio, storica casa di cura per gli anziani di Milano. Da giorni sul tavolo dei magistrati milanesi piovono denunce dei familiari delle vittime di Covid-19. Sono le storie di madri, padri, nonne e nonni che erano lì ricoverati o che sono stati dimessi in fretta e furia dopo l' ordinanza del 8 marzo, quando Regione Lombardia decise di chiedere alle Rsa di fare spazio anche ai malati di Covid-19. Il Trivulzio si è difeso: «Ad aprile 27 decessi per il coronavirus, a marzo nessuna "strage nascosta", il Pat si è sempre attenuto rigorosamente alle disposizioni delle autorità sanitarie». Ieri sulle pagine della Verità, il direttore Pierluigi Rossi ha detto «di non avere niente da nascondere. Spiegheremo con trasparenza l' attività svolta». Proprio ieri Regione Lombardia ha istituito una commissione d' urgenza su quanto accaduto. Vi parteciperà anche il Comune di Milano (che nomina il presidente del Pat), che ha indicato l' ex magistrato Gherardo Colombo (ora presidente del Comitato per la legalità di Palazzo Marino), come proprio componente di fiducia. A lato del dibattito politico resta però soprattutto il dolore delle persone che hanno perso i propri cari in queste settimane, come Manuela, la cui mamma di 83 anni è morta il 26 marzo. Sua madre D.G. era ricoverata al Trivulzio dal 26 febbraio. «In precedenza era in un altro ospedale. I medici le avevano consigliato una degenza al Pio Albergo Trivulzio dopo uno scompenso cardiaco. Stava bene. Si era ripresa. Il fisiatra del San Paolo ci aveva consigliato di spostarla lì per almeno 3 mesi». Sono i giorni in cui la Lombardia è già nel vortice dell' emergenza. Il 21 c' è stato il caso del paziente 1 di Codogno. «Ai primi di marzo ci avevano già detto che le visite erano vietate», continua Manuela. «Il 12 però ci chiamano e ci dicono che devono dimetterla. Non ci dicono i motivi, solo che serve spazio. Di fronte alle mie proteste rispondono in modo brusco: non c' è niente da fare. Nel frattempo mia mamma aveva iniziato a stare poco bene, tra dolore agli occhi e un po' di affaticamento. Mi viene detto da medici e infermieri di non preoccuparsi». Cosa succede in quei giorni? Dopo l' ordinanza della Lombardia il Trivulzio si attrezza per ospitare malati Covid-19. A quanto apprende La Verità la decisione è di dimettere i pazienti che non arrivano da zone o strutture a rischio. D.G è probabilmente una di quelle. Eppure il Trivulzio non ha ancora una struttura adeguata per affrontare la situazione. «È arrivata a casa il 18 e già non stava benissimo. Il personale dell' autoambulanza che l' ha portata era senza mascherine e guanti. Le ho chiesto se i medici e gli infermieri portavano le mascherine al Trivulzio, mi ha risposto che hanno iniziato solo il 16 marzo». Manuela prosegue: «Ero convinta come mi avevano detto che si trattasse solo di un po' di stress dopo questi mesi difficili». Poi però il 21 mattina la situazione precipita. «Mia madre è caduta, non riusciva a respirare. Le ho provato con il saturimetro l' ossigenazione del sangue, era troppo bassa. Ho chiamato l' ambulanza. Stavolta sono arrivati con le tute di protezione. L' hanno portata all' Humanitas». Nel pomeriggio la Tac conferma una polmonite da Covid-19, poi il tampone confermerà il quadro clinico. «In quei giorni iniziano a stare male anche mio figlio e mio marito. Segnaliamo la situazione al numero verde. Veniamo messi in quarantena. Quindi chiamo il Trivulzio, per spiegare quello che è successo. La risposta di uno degli infermieri è questa: "Qui al Trivulzio la situazione è disperata"». Nel frattempo all' Humanitas la situazione peggiora e il 26 arriva la conferma del decesso. «Quella sera ho chiamato il medico che l' aveva in cura al Trivulzio. All' inizio ha iniziato ad attaccarmi, dicendomi che mia madre poteva aver contratto il Covid-19 dopo essere stata dimessa dal Trivulzio. Poi quando gli ho spiegato che non era possibile si è scusato e mi ha raccontato di essersi autosospeso, che erano stati obbligati a non portare le mascherine. Ha riconosciuto di aver messo a rischio la salute dei pazienti».

Gianni Santucci e Giuseppe Guastella per il ''Correre della Sera'' l'11 aprile 2020. C' è il primo indagato nell'inchiesta della Procura della Repubblica di Milano sulle infezioni da coronavirus e sulle morti tra gli anziani ricoverati al Pio Albergo Trivulzio. Si tratta del direttore generale della «Baggina», Giuseppe Calicchio, che è iscritto nel registro degli indagati con le ipotesi di reato di epidemia colposa e omicidio colposo. È anche il primo passo formale delle indagini guidate dai sostituti procuratori Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, che fanno parte del pool diretto dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, che si occupa dei reati legati alle colpe mediche e ai soggetti deboli. Qualche ora prima della notizia del provvedimento della Procura, il direttore generale dell' istituzione di assistenza aveva partecipato a una lunga videoconferenza con gli ispettori del ministero della Salute, incaricati di approfondire la gestione dell' emergenza Covid-19 all' interno del Pat (a partire, come denunciato da medici e infermieri, dal «divieto» di indossare le mascherine nella prima fase dell' epidemia).  L'incontro tra la dirigenza del Trivulzio e gli ispettori è cominciato in un clima molto teso, perché il dg era accompagnato dal suo legale. Il dialogo che ne è seguito può essere ricostruito così: «Dottor Calicchio, perché si presenta in questa occasione con il suo avvocato? Guardi che non è un processo». È il legale a rispondere: «Posso allontanarmi, se ritenete». Gli ispettori si sono limitati a specificare che poteva assistere, ma senza intervenire. Gli incaricati del ministero hanno chiesto alla dirigenza del Pat una mole di documenti, ben più corposa rispetto alle prime relazioni. I Nas dei carabinieri sarebbero già al lavoro da un paio di giorni. All' incontro con gli ispettori ha partecipato anche il professor Luigi Bergamaschini, geriatra dell' università Statale di Milano che collabora con il Trivulzio e che, come anticipato dal Corriere della Sera , è stato allontanato (e poi reintegrato) proprio perché chiedeva, come cautela, l' uso delle mascherine per cercare di arginare il contagio tra gli anziani. La direzione sanitaria del Pat è di nomina regionale, il Consiglio di amministrazione con poteri di controllo è «governato» invece dal Comune di Milano. Fino a ieri pomeriggio si sono susseguite incessantemente le riunioni operative tra i magistrati della task force istituita dal Procuratore capo Francesco Greco per indagare su tutto ciò che sta accadendo di penalmente rilevante intorno alla pandemia. I risultati di queste riunioni, tutte in videoconferenza, si concretizzeranno nei prossimi giorni, probabilmente subito dopo le festività pasquali, nell' esame degli atti. L'iscrizione di Calicchio rappresenta un passaggio tecnico, un atto dovuto che, spiega chi lavora alle indagini, è indispensabile per eseguire i primi atti nella fase iniziale. Le inchieste sono però molte e si muovono tutte in un quadro più generale, anche se il Trivulzio ha un valore «politico» di maggior peso per l' opinione pubblica, perché sono molte le Rsa milanesi nelle quali il virus si è insinuato e gli anziani sono stati decimati. Sono decine infatti le denunce arrivate in Procura da parte dei lavoratori di molte case di riposo, dai loro rappresentanti sindacali e dai parenti delle vittime. Il pool dell' aggiunto Siciliano ha avviato una dozzina di inchieste, la maggior parte contro ignoti. Oltre a quella sulla Baggina, sono stati aperti fascicoli su quello che è accaduto all' interno delle residenze per anziani del Comune al Corvetto, nella «Anni azzurri» a Lambrate e alla «Don Gnocchi». Ultimi in ordine di tempo, i fascicoli sulla Sacra Famiglia di Cesano Boscone, avviato dal pm Mauro Clerici, in cui sono indagati i vertici dell' istituto, e quello contro ignoti sulla «Monsignor Bicchierai», Rsa dell' Istituto Auxologico italiano.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 20 aprile 2020. «Appena ci saremo fatti un quadro della situazione, cominciamo con gli interrogatori», spiegavano i magistrati qualche giorno fa. Ora, dopo una doppia spedizione per l'acquisizione di documenti negli uffici della Regione Lombardia e la perquisizione al Pio Albergo Trivulzio, l'inchiesta accelera e cominciano le audizioni in videoconferenza dei dipendenti della Baggina. Medici, infermieri e operatori sanitari che hanno denunciato la completa mancanza di dispositivi di protezione a norma e di tamponi, che hanno raccontato di essere stati minacciati perché mettevano la mascherina «spaventando i pazienti» e hanno riferito dell'inadeguatezza della Baggina nella tutela degli anziani ospiti in piena epidemia Covid-19. Dopo la massiccia raccolta di carte i magistrati lavorano alla definizione di ruoli e responsabilità. Una catena che parte della Regione, ha il suo braccio operativo nelle Agenzie di tutela della salute e si chiude con le Rsa, nelle quali secondo un rapporto i contagiati sono 7.252. Solo in provincia di Milano, considerando quindi anche il Trivulzio, gli anziani positivi sono 2.273, significa che un malato su sette è in casa di riposto. Da qui il numero anomalo di decessi, quasi 200 al Pio Albergo in un mese e mezzo. Gli investigatori si muovono su due piani: l'adeguatezza delle direttive della Regione per contenere le infezioni nelle case di riposo e la decisione di spostare qui i malati Covid in uscita dalle terapie intensive e sub intensive; il rispetto delle regole da parte della Baggina. In mezzo c'è il ruolo delle Ats, le Agenzia di tutela della salute: sono otto in tutta la regione, hanno ventisette diramazioni locali e rappresentano la rete territoriale con cui il Pirellone gestisce la sanità. Una rete piena di buchi, hanno accusato i medici degli ospedali in piena emergenza, che si sono ritrovati le terapie intensive al collasso poiché l'infezione non è stata gestita sul territorio. L'Ats ha un ruolo fondamentale nelle indagini per epidemia colposa e omicidio colposo al Trivulzio, con il direttore generale Giuseppe Calicchio destinatario di un avviso di garanzia. Nella delibera dell'8 marzo la Giunta lombarda, aprendo le porte delle Rsa ai Covid «a bassa intensità», incarica le Ats di individuare «strutture autonome dal punto di vista strutturale (padiglione separato dagli altri o struttura fisicamente indipendente) e dal punto di vista organizzativo». Ma secondo le denunce degli operatori sanitari, i pazienti con sintomi sospetti e quelli sani sono tutt'ora negli stessi reparti e un vero e proprio padiglione per ospiti Covid non c'è mai stato. Primo perché il Trivulzio ha sempre sostenuto di non avere accolto pazienti positivi da altri ospedali, e poi per il fatto che i tamponi sui pazienti alla Baggina vengono fatti da pochi giorni. E le referenti delle Rsa per i test sono le Agenzie di tutela della salute. La Regione Lombardia ha annunciato chiarezza su ciò che è avvenuto al Trivulzio, ha creato una commissione di verifica e ha affidato il mandato alla Ats Città metropolitana di Milano, proprio l'ente che avrebbe dovuto verificare i requisiti strutturali della Baggina ed effettuare i tamponi. Adesso i test sono arrivati anche al Pio Albergo, come fa sapere Gianfranco Privitera, la cui mamma è ricoverata alla Baggina. Ha lanciato una petizione che ha già raggiunto le 50 mila firme: «Quello che più conta è che stiamo salvando vite umane: finalmente è stata abbattuta la sciagurata direttiva che non consentiva l'utilizzo dei tamponi nelle Rsa e da qualche giorno vengono eseguiti ( 100 al giorno al Trivulzio, ma devono aumentare)», scrive. Intanto al Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio continuano ad arrivare decine di testimonianze di familiari che hanno perso un loro caro o preoccupati per i loro anziani ricoverati. Il promotore Alessandro Azzoni ieri è riuscito a parlare con la mamma in una videochiamata, l'angoscia attanaglia i familiari dei degenti che non sanno cosa stia succedendo tra i reparti della Baggina. Il personale medico si spende senza risparmiarsi, spiega il Comitato, ma ormai è un problema di sopravvivenza dei tanti nonni ricoverati: su mille pazienti, 280 degenti sono in osservazione, il 40% del personale socio sanitario è in malattia e la gestione dirigenziale preoccupa.

Positivi nascosti e senza protezioni. La Finanza perquisisce il Don Gnocchi. Circa 140 gli ospiti uccisi dal virus nella struttura sanitaria. L'accusa dei dipendenti: "Dicevano di non usare le mascherine". Paola Fucilieri, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Non solo le disposizioni sul contagio partite dall'Azienda sanitaria territoriale (Ats) e da Regione Lombardia e la corrispondenza (compresa quella informale) con i medesimi enti. Ma anche registri, fascicoli personali, cartelle cliniche, bozze, agende, carte di lavoro e tutta la documentazione online, con relativo sequestro di pc, per un periodo che va da gennaio in poi, sia in relazione alla delibera dell'8 marzo sul trasferimento di pazienti Covid-19 nelle case di riposo che sulle indicazioni fornite alle strutture sui rischi dell'epidemia. Materiale a cui si aggiunge l'elenco dei tamponi effettuati su ospiti e personale e le esatte disposizioni impartite dalla cooperativa di lavoratori socio sanitari Ampast. Erano attese da un po' le perquisizioni effettuate ieri dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano nelle sedi cittadine e dell'hinterland dell'«Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi», la struttura sanitaria che accoglie anziani, malati di Alzheimer e pazienti in hospice coinvolta nell'inchiesta del dipartimento Ambiente e salute della Procura di Milano guidato dall'aggiunto Tiziana Siciliano sui numerosi decessi avvenuti nelle residenze sanitarie assistenziali lombarde. Del resto a inizio aprile il Don Gnocchi contava un numero di ospiti deceduti da marzo simile a quello del più noto Pio Albergo Trivulzio (la «Baggina»), circa 140. Ad accusare il direttore generale del Palazzolo, Antonio Dennis Troisi, il direttore sanitario Federica Tartarone e il direttore dei servizi medici socio-sanitari Fabrizio Giunco, indagati per epidemia e omicidio colposo, non ci sono solo le denunce dei familiari dei degenti. Contro di loro avevano puntato il dito già un mese fa anche una ventina di dipendenti, assistiti dall'avvocato Romolo Reboa. Gli operatori, quasi tutti positivi al coronavirus, il 23 marzo avevano denunciato infatti con un esposto il Palazzolo Don Gnocchi per aver «tenuto nascosti casi di lavoratori contagiati, benché ne fossero a conoscenza dal 10 marzo e aver impedito l'uso di dispositivi di protezione individuale», trascinando così nell'inchiesta anche Papa Wall Ndiaye, presidente del consiglio di amministrazione della coop Ampast, anch'essa perquisita ieri. A questo primo gruppo se n'erano aggiunti altri, come l'operatore sanitario assistito dal legale Luca Aliprandi che in un esposto depositato in Procura il 14 aprile spiegava dettagliatamente come una responsabile della cooperativa Ampast, dal 24 febbraio, durante le riunioni organizzative, invitava il personale a non utilizzare le mascherine «per non spaventare i pazienti». Ora le denunce sarebbero una sessantina. Ampast ha inviato una contestazione disciplinare con sospensione ai lavoratori che hanno denunciato il Don Gnocchi, mentre l'Istituto ha esercitato il proprio diritto contrattuale di non gradimento nei confronti della cooperativa perché quei lavoratori avrebbero espresso «giudizi calunniosi». «La ricostruzione dei fatti che la magistratura svolgerà sul materiale acquisito contribuirà a confermare la linearità e la trasparenza dei comportamenti degli indagati», ha dichiarato ieri l'avvocato del Don Gnocchi, Stefano Toniolo. Intanto il sindaco di Milano Beppe Sala chiede alla Regione e ai vertici del Trivulzio «un piano che permetta di dire alle famiglie a queste condizioni o con questi finanziamenti, in una settimana, la situazione è tornata sotto controllo». E conclude: «Ci sono ancora 700 degenti lì e sono in una sicurezza che non è ideale».

"Diffamato il Don Gnocchi". Sospeso chi ha denunciato. La clinica allontana i 18 dipendenti della coop esterna che hanno presentato esposto in procura. Luca Fazzo, Martedì 21/04/2020 su Il Giornale. Mentre inizia la prima tornata di interrogatori di testimoni da parte della Guardia di finanza al Pio Albergo Trivulzio, scoppia un caso che porta in primo piano uno degli aspetti meno raccontati del dramma degli ospizi investiti dal coronavirus: lo scontro sindacale. A denunciare all'esterno le presunte mancanze di sicurezza all'interno delle Rsa sono stati quasi sempre esponenti di organizzazioni soprattutto legate al sindacalismo di base. É successo al Trivulzio, è accaduto al Don Gnocchi e in altre strutture. E ieri proprio il Don Gnocchi, la Rsa ecclesiastica dove si sono contati 150 morti, parte al contrattacco con una mossa ad alto impatto mediatico: i 18 lavoratori che avevano firmato la denuncia inviata alla Procura vengono dichiarati «persone non gradite» e sospesi dal servizio con effetto immediato. Non si tratta di dipendenti della Fondazione ma di una cooperativa, composta in buona parte di lavoratori stranieri, che nella casa di riposo, la Ampast. Ora anche il presidente di Ampast, Ndiaie Papa Waly, è indagato per epidemia e omicidio colposo sulla base della denuncia presentata dai dipendente della coop. E ieri, in contemporanea con il provvedimento emesso dalla Fondazione, Ampast fa partire 18 provvedimenti disciplinari contro gli autori dell'esposto. Ai dipendenti non viene contestato tanto l'aver firmato la denuncia, che era un loro diritto, quanto averla divulgata ai media e avere rilasciato interviste, spesso corredate da video registrati nei reparti, che sia Don Gnocchi che Ampast considerano diffamatori. Ma i dissapori sindacali erano iniziati da ben prima dell'epidemia, l'anno scorso una parte dei dipendenti di Ampast aveva fatto causa alla cooperativa e di rimbalzo alla Fondazione per un problema di inquadramenti salariali. Il clima era già pesante. Il Don Gnocchi è una struttura privata, e ha potuto imboccare la strada dello scontro frontale. Al Trivulzio, che è un ente pubblico, è molto difficile che si possa andare nella stessa direzione. Ma da settimane anche al Pat è palpabile l'insofferenza dei vertici contro le denunce a ripetizione che vengono da ambienti sindacali in rotta di collisione con l'azienda, regolarmente seguite da interviste anonime. Le ultime ieri, di alcune operatrice sanitarie che descrivono una situazione fuori controllo, con il «trasferimento da un reparto all'altro di pazienti che dovrebbero restare isolati, senza che vengano effettuati i tamponi», mentre il personale è sottoposto a uno stress intollerabile, «i colleghi sono psicologicamente distrutti». E il Comitato Giustizia e Verità per le vittime del Pat denuncia che «da informazioni non ufficiali che abbiamo raccolto da inizio marzo sono circa 200 gli anziani deceduti su mille degenti, circa 200 sono quelli positivi al Covid-19». Da ieri, con l'inizio dei primi interrogatori la fase dell'anonimato è destinata ad esaurirsi. La Guardia di finanza ha sentito a verbale, in videoconferenza, i primi testimoni di quanto accaduto al Trivulzio a partire dalla fine di febbraio. Nei prossimi giorni toccherà a dirigenti sanitari, medici, infermieri, parenti di degenti. E sindacalisti.

Il colosso Don Gnocchi travolto dal coronavirus: storia della onlus che vale centinaia di milioni. La magistratura indaga su oltre 150 morti di Covid nelle sessanta strutture del gruppo in Italia. Ecco chi c'è dietro la fondazione fondata nel dopoguerra da un prete lodigiano e diventata un gigante con 27 sedi e 32 ambulatori. Gianfranco Turano il 22 aprile 2020 su L'Espresso. Con 27 sedi e 32 ambulatori in nove regioni italiane la Fondazione Don Carlo Gnocchi è un colosso discreto e silenzioso del quale si parla solo da pochi giorni, quando alcuni reparti delle sue strutture in Lombardia, e non solo, sono stati investiti dall'epidemia di Coronavirus. Esempio tipico della sanità lombarda privata cresciuta a dismisura con gli accrediti regionali, la Fondazione affonda le radici in uno spirito cristiano che sembra in crisi di identità. Chi ha denunciato le carenze di dispositivi che hanno portato a 140 morti da gennaio soltanto in tre strutture milanesi (Palazzolo, Girola, Santa Maria al Castello) è stato minacciato di processo e messo alla porta. Nei decenni la Fondazione si è sempre più legata a un modello finanziario-manageriale tradizionale nonostante sia una onlus (organizzazione non lucrativa di carattere sociale). L'ultimo bilancio disponibile (2018) segnala ricavi per 277 milioni di euro. Il patrimonio si aggira intorno ai 220 milioni di euro. Sono in gran parte fabbricati e terreni elencati in una visura catastale lunga 188 pagine. La Fondazione gestisce oltre 3.700 posti letto, ha seimila dipendenti e collaboratori e assiste duemila anziani. Proprio dall'assistenza agli anziani è scattato l'allarme sulle strutture del Don Gnocchi. La perquisizione della Guardia di finanza di martedì 21 aprile a tre strutture, due a Milano città e una in provincia (Pessano con Bornago), è partita dalla denuncia di un gruppo di dipendenti. Già il 23 marzo una parte del personale, per anni impegnato in un contenzioso sindacale con il don Gnocchi al Palazzolo ma anche nelle strutture di Fivizzano (Massa) e Sant'Angelo dei Lombardi (Avellino), aveva accusato i manager della struttura di diffusione colposa dell'epidemia “e altri reati in materia di sicurezza del lavoro”. Fra la varia casistica la denuncia si riferiva al divieto dell'uso di mascherine da parte della dirigenza per non spaventare i pazienti ricoverati. La reazione del management è stata durissima. Gli avvocati hanno parlato di calunnie e falsità annunciando querele e sospendendo i lavoratori per avere divulgato alla stampa i presunti illeciti con lo stesso ufficio legale (Martinez & Novebaci) che oggi deve difendere la fondazione dalle accuse della Procura. La squadra del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha ordinato anche la perquisizione dell'Ampast, la cooperativa sociale che forniva al Don Gnocchi infermieri e operatori sanitari. Il vertice della Fondazione è indagato per epidemia colposa e omicidio colposo. I manager pagano il rapporto molto stretto con la giunta regionale in carica, e con le precedenti. La convenzione con la Regione Lombardia è in assoluto la prima voce di ricavi della galassia Don Gnocchi. Così quando il governatore Attilio Fontana e l'assessore al Welfare Giulio Gallera hanno firmato la delibera XI/2906 dell'8 marzo, quella che chiedeva alle Rsa di aprire le porte ai malati di Covid-19 su base volontaria, il Don Gnocchi ha risposto presente. Otto giorni dopo, il 16 marzo, l'istituto Palazzolo di piazzale Accursio, nella zona nord di Milano, iniziava ad accogliere i contagiati da Corona virus in una situazione, secondo dipendenti e sindacati, di scarsa tutela della salute di pazienti e lavoratori. Il 20 marzo faceva lo stesso il centro Spalenza a Rovato (Brescia). I problemi delle strutture Don Gnocchi non si fermano a Milano. La Rsa di Santa Maria al Monte di Malnate (Varese) è stata colpita duramente: almeno nove morti e 85 positivi tra ospiti e operatori. Il focolaio della Rsa è superiore ai contagi nel resto del paese dove i positivi sono circa quaranta e i morti sette. Villa Ronzoni a Seregno, in Brianza, ha un bilancio di oltre cinquanta contagiati. Andando verso sud, ci sono stati almeno due morti e una quindicina di positivi nella struttura Santa Maria della Pace in zona Ponte Milvio a Roma. Oltre quaranta sono stati i contagiati al centro di riabilitazione di Tricarico (Matera). I sindacati, Usb in testa, sono all'offensiva un po' dovunque e, in particolare, a Santa Maria della Pineta di Marina di Massa dopo l'attivazione dell'ala Covid il primo aprile. Le pressioni dei lavoratori e le prime inchieste giudiziarie hanno probabilmente contribuito a dissuadere la dirigenza ad attivare un reparto Corona virus nel centro del Levante Ligure (La Spezia) dove è stato a lungo dirigente l'attuale dg del Don Gnocchi, Francesco Converti.

La baracca diventata colosso. Da quando don Gnocchi la chiamava ironicamente “la baracca”, la sua fondazione Pro Juventute si è ingrandita di molto. L'atto di nascita ufficiale è nel 1957 a Roma dove la fondazione ha mantenuto la sede sociale per trentadue anni, fino al trasferimento a Milano. Ma la vicenda della fondazione è principalmente lombarda quanto il suo fondatore, il lodigiano don Carlo Gnocchi, che dalla fine della Seconda guerra mondiale si è dedicato alla riabilitazione dei mutilati e dei poliomielitici. Nel 1955 è iniziata la costruzione della prima struttura in zona San Siro a Milano, con la partecipazione del presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, ma il sacerdote è morto l'anno successivo a 54 anni, poco prima dell'inaugurazione del 1957. Don Gnocchi è stato beatificato nell'ottobre 2009 in piazza Duomo a Milano alla presenza di 50 mila “amis” (amici in dialetto), come si chiamano i suoi devoti e la rivista ufficiale della fondazione. Il consiglio di amministrazione del Don Gnocchi è sempre stato presieduto da un religioso. Nel 2016 ha assunto l'incarico don Vincenzo Barbante, 61 anni da Alzano Lombardo, la cittadina della bergamasca duramente colpita dal virus, passato per decine di incarichi in strutture socio-assistenziali. Il vicepresidente, Luigi Macchi, è stato per cinque anni (2010-2015) il direttore generale dell'Ospedale Maggiore Ca' Granda di Milano. Il direttore generale è da due anni Francesco Converti, grossetano di 52 anni, medico laureato con una tesi sull'accreditamento dei servizi sanitari e passato da vari incarichi amministrativi in strutture riabilitative del gruppo fra Toscana e Liguria a partire dal 2001. Il consiglio di amministrazione è composto dal consigliere delegato Marco Campari (presidente esecutivo del gruppo Farmacrimi e senior advisor di Pricewaterhousecoopers), da Rosario Bifulco, Giovanna Brebbia, Mario Romeri e Rocco Mangia. Bifulco è forse il manager più noto. Ex ad di Mittel, la merchant bank di area cattolica a lungo presieduta da Giovanni Bazoli, ha lavorato per Lottomatica, Fiat, DeA capital, Sirti, Techint e, nella sanità, per Sorin, Pierrel e per il gruppo Humanitas della famiglia Rocca. Dal gennaio del 2019 è vicepresidente esecutivo di Clessidra sgr (gruppo Pesenti-Italmobiliare), il più grande fondo di private equity a capitali italiani dopo avere presieduto l'istituto Itb (pagamenti online), la cosiddetta banca dei tabaccai comprata nel 2016 da Intesa. Mangia è l'avvocato di area Comunione e liberazione che ha difeso gli Spedali civili di Brescia nel caso Stamina insieme al figlio Matteo dello studio Alleva, che a sua volta ha difeso Roberto Formigoni nel processo sulla fondazione Maugeri concluso con la condanna definitiva dell'ex governatore lombardo. Un altro scandalo, finora il più clamoroso, legato alla sanità privata in Lombardia.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2020. Il coronavirus continua a fare strage di anziani e nelle Rsa milanesi: sono almeno 160 quelli morti solo negli ultimi otto giorni nelle Residenze sanitarie assistenziali sulle quali indaga la Procura della Repubblica di Milano. Il dato, che è parziale perché non comprende tutte le 22 strutture sotto inchiesta, è all' esame dei magistrati mentre perquisizioni e acquisizioni di atti al «Palazzolo-Don Gnocchi» segnano l' ultimo sviluppo delle inchieste. La Guardia di Finanza di Milano si è presentata al Don Gnocchi con un decreto dei pm Letizia Mocciaro e Michela Bordieri, che indagano per omicidio ed epidemia colposi e violazione delle norme antinfortunistiche, prelevando le cartelle cliniche dei deceduti e dei ricoverati e la documentazione sulle forniture di mascherine e degli altri dispostivi di protezione e sui rapporti con Regione Lombardia e Ats. Dirigenti amministrativi e sanitari e il presidente della cooperativa Ampast (che ha inviato una contestazione disciplinare ai lavoratori che avevano denunciato ai pm la situazione) sono accusati di non aver adottato misure di sicurezza per ridurre il rischio di contagio per medici, infermieri e per i ricoverati del Don Gnocchi dove, dall' inizio di marzo a metà aprile, sono morti per coronavirus circa 200 persone. La Fondazione ha fornito «massima collaborazione» agli investigatori, dichiara il legale del Don Gnocchi, l' avvocato Stefano Toniolo, «certo» che l' esame della documentazione in Procura confermerà «la linearità e la trasparenza dei comportamenti degli indagati e della Fondazione e chiarirà anche le ricostruzioni frammentarie e incomplete che si sono susseguite in questi giorni». I pm del dipartimento guidato dall' aggiunto Tiziana Siciliano indagano per stabilire se i contagi siano stati favoriti dalla delibera con cui l' 8 marzo la Regione trasferì nelle Rsa i malati Covid-19 meno gravi per liberare letti negli ospedali. Secondo l' assessore lombardo al Lavoro Melania Rizzoli, che è medico, questo non sarebbe possibile perché, calcolando che trascorrono «dalle due alle cinque settimane per il manifestarsi complessivo della malattia virale e del suo eventuale esito letale», è «facile dedurre che tutti gli anziani ospiti delle case di cura lombarde, che sono deceduti per coronavirus nel mese di marzo e nei primi 15 giorni di aprile, erano venuti in contatto ben prima dell' 8 marzo con il Covid-19». Rizzoli afferma anche che sono stati solo 141 i pazienti trasferiti in appena 15 delle 708 Rsa lombarde. Al Don Gnocchi erano stati approntati 36 posti in una struttura «separata e protetta» che ha impedito ogni contatto con gli altri ospiti, assicurano dalla Fondazione.

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2020. Uno scambio di mail drammatico testimonia quanto sia stata disperata all'inizio della pandemia la ricerca di mascherine da parte delle Rsa della Lombardia costrette a combattere disarmate contro il virus che fa strage di anziani. «Si rende improcrastinabile un intervento immediato della Protezione civile e del Governo» perché le strutture «stanno lavorando in condizioni difficilissime», scrivono le Rsa al capo del Dipartimento Angelo Borrelli. «Stiamo facendo di tutto», è la sconsolata risposta. Il 5 marzo l' Italia non è ancora zona rossa, lo sarà quattro giorni dopo, quando Roberto Costantini, commissario dell' Associazione delle Rsa private scrive al direttore welfare della Regione Luigi Cajazzo denunciando una situazione «insostenibile». Le mail sono nella memoria depositata ai pm di Milano dall' avvocato Stefano Toniolo, legale dei tre manager della Fondazione Don Gnocchi indagati per omicidio colposo, epidemia colposa e violazione delle norme antinfortunistiche con il presidente della coop dei lavoratori per le morti da covid-19. «Ci sono numerose realtà che hanno pazienti positivi o in attesa di tamponi che hanno quasi terminato le scorte e non hanno ricevuto nulla», dice Costantini chiedendo «aiuto» per le Rsa che di lì a poco accoglieranno pazienti covid-19 e no, come stabilirà la famosa delibera dell' 8 marzo per liberare letti negli ospedali. «Tutti contavano su forniture gestite a livello regionale ma oggi apprendiamo che, con assoluta sorpresa, Aria (Azienda regionale innovazione e acquisti, ndr .) non è in grado di fornire alcunché». Analoga richiesta viene fatta a Borrelli, cui viene segnalato il rischio per la «tenuta, sicurezza e qualità delle cure». Il 7 marzo la risposta: «Stiamo facendo di tutto (...) per acquistare le mascherine e gli altri dpi». Tre giorni dopo, Aris torna a implorare aiuto perché «diversi medici, operatori sanitari (...) si sono ammalati e si stanno ammalando per la scarsità di dpi. Stiamo tenendo duro, ma in alcune strutture che stanno nelle zone più contagiate, i dpi si esauriranno in 24 ore. Chiaramente sapete benissimo quali sarebbero le ulteriori conseguenze se questa eventualità si verificasse, poiché il virus purtroppo non guarda al solo prodigarsi delle persone, alle buone opere in corso, a quanto si sta facendo, ma si ferma solo se trova una barriera che gli impedisce di propagarsi o una distanza che non riesce a colmare». Anche stavolta la risposta è laconica: «Stiamo provvedendo a reperire le mascherine e altri dispositivi. Appena avremo contezza ve la faremo avere. Comprendo la vostra esigenza e situazione e risolveremo». Il Don Gnocchi si muove anche autonomamente, ma i primi 900 pezzi arriveranno solo il 16 marzo, spiega la difesa affermando che gli indagati sono «impegnati in prima linea nella lotta al virus e oramai sono allo stremo» con la serenità «gravemente turbata dall' incessante campagna mediatica che ha accompagnato la denuncia» dei lavoratori, alla quale si sono aggiunte quelle di parenti di vittime secondo i quali inizialmente la presenza del virus sarebbe stata nascosta. L' avvocato Toniolo scrive nella memoria (è anche un esposto per calunnia) che nel Don Gnocchi il primo contagio viene individuato il 14 marzo e che ai lavoratori non sarebbe stato vietato di mettere le mascherine, ma chiesto di farne un uso «razionale» in base alle «linee guida dell' Oms» del momento, dato che erano introvabili perché la «Protezione civile le aveva rastrellate sul mercato» per destinarle agli ospedali che curavano i casi covid-19. La Fondazione afferma di sentirsi parte «di un sistema sanitario da sostenere con tutte le proprie forze in questo momento di estrema difficoltà» e i suoi vertici indagati sono in «prima linea» contro la diffusione del virus che, però «è stato purtroppo materialmente impossibile» tener fuori dall' istituto, com' è accaduto per tutte le altre Rsa lombarde che non potevano essere chiuse, come avvenuto per bar e ristoranti, perché «hanno dovuto continuare a operare nell' interesse della collettività e dei pazienti». Dopo il Pio Albergo Trivulzio (non confermate notizie su nuovi indagati), i pm milanesi hanno iscritto anche l' ente Istituto Auxologico per la legge 231/2001 e la Procura di Lodi ha perquisito la Rsa di Mediglia dove sono morti 65 ospiti su 150. In tutto sono salite a 26 le Rsa su cui indaga la Procura milanese.

I medici non ci stanno. "Falsità sul Trivulzio: fatto tutto il possibile". L'inchiesta per le numerose morti. "Qui i pazienti hanno ricevuto le migliori terapie". Cristina Bassi, Martedì 14/04/2020 su Il Giornale. «Lavoro al Trivulzio dal 1987, siamo abituati alle ondate... Ma posso testimoniare che è stato fatto il possibile per contenere i contagi e per tutelare pazienti e operatori. Noi non facciamo politica, lasciateci lavorare». La dottoressa Maria Cristina Neri è amareggiata. Come numerosi altri lavoratori della struttura nei giorni scorsi, ribatte alle accuse piombate sulla «Baggina», oggetto di un'inchiesta della Procura e di due Commissioni, una ministeriale e una regionale. Continua il medico: «Non è vero che al personale veniva vietato di usare le mascherine. Da subito, comunque da fine febbraio, sono state date ai dipendenti immunodepressi e a quelli a contatto con pazienti con patologie respiratorie. Il problema è che all'inizio scarseggiavano (lo ha ammesso lo stesso istituto, ndr), come in molti ospedali. Poi abbiamo cominciato ad avere pazienti o interi reparti isolati e qui la cautela è massima, con tutti i dispositivi di protezione. Forse qualcuno si è sentito poco tutelato o addirittura discriminato, nel momento in cui gli è stato spiegato che le poche mascherine disponibili dovevano andare a chi ne aveva davvero bisogno». Poi i tamponi: «Un aspetto doloroso, vorremmo tutti farli, ma non è così semplice. La direzione li ha chiesti all'Ats, però non sono per ora arrivati. Tuttavia, al di là della positività accertata, i pazienti sospetti Covid sono stati subito isolati, con personale dedicato. Come i pazienti che si trovavano in camera con loro. Io mi sono offerta di sostituire un collega nella sezione Rsa e lì ci sono sei stanze isolate su circa venti». Gli altri nodi: «È falso che i parenti siamo tenuti all'oscuro, passo ore al telefono con loro, angosciati perché non possono vedere i propri cari. Ci sono mail, videochiamate, la comunicazione è costante. Le presunte cartelle manomesse? Lo escludo. E ogni radiografia è recuperabile in radiologia. Sono stata tra i medici incaricati di ritirarle dai reparti dalla direzione, proprio per sicurezza. Non è plausibile inoltre che un medico si dichiari non responsabile di una cartella che ha compilato e firmato». La dottoressa Neri smentisce anche che infermieri malati siano rimasti al lavoro: «Una grossa bugia - taglia corto -, da tre settimane misuriamo la febbre all'ingresso. E molti operatori sono stati messi in malattia o sollecitati a stare a casa se in dubbio. Comunque nel caso sarebbero loro stessi incoscienti, metterebbero a rischio prima di tutto i colleghi». Infine le cure ai pazienti, molti dei quali nelle ultime settimane sono purtroppo caduti sotto i colpi del Coronavirus: «È devastante per loro, anziani e spesso polipatologici. E una sconfitta per noi. Le prime polmoniti apparivano, secondo i parametri, di origine batterica e rispondevano all'antibiotico. Poi siamo stati investiti dall'epidemia virale. In ogni caso qui i pazienti ricevono le migliori terapie. A un certo punto ci è stato chiesto di trasferirli nei pronto soccorso già oberati con più raziocinio. Tuttavia io stessa li ho inviati al ps nei casi che lo richiedevano. Credo che il Pat non abbia commesso gravi errori. Sono fiduciosa che la magistratura confermerà questa valutazione personale». La dottoressa non è l'unica operatrice sanitaria a stare dalla parte del Pat e a difendere i vertici dagli attacchi. Nei giorni scorsi, tra l'altro, oltre una cinquantina di loro ha sottoscritto una lettera in cui medici e infermieri sottolineavano che l'istituto ha seguito le regole nel gestire l'emergenza. Lo ha ribadito ieri ai microfoni di Omnibus anche la dottoressa Nadia Antoniotti, internista alla «Baggina» da trent'anni.

Il Trivulzio, quel centro di potere travolto dagli scandali. Da Mani Pulite al coronavirus. Paolo Biondani il 9/4/2020 su L'Espresso. Al Trivulzio, almeno lì, non doveva succedere. Invece anche lo storico ospizio milanese, che fu l’epicentro di Tangentopoli, torna sotto inchiesta per ipotesi di reato gravissime, legate all’abnorme numero di anziani uccisi dall’epidemia di coronavirus, qui come in molte altre strutture per la terza età. La procura di Milano sta ricevendo decine di denunce, oltre che dalle forze di polizia, dai familiari delle vittime: esposti drammatici, spesso scritti in forma di lettere spedite per email al singolo magistrato, che riguardano le case di riposo dell’intero distretto, con pochissime eccezioni. Le cifre sui decessi all’interno degli ospizi sono spaventose in tutte le zone più colpite del nostro paese. A Bergamo, Brescia e nelle altre province martoriate della Lombardia, ma anche in Piemonte, Veneto, Liguria e altre regioni, la mappa dei peggiori focolai del morbo Covid-19 coincide con le case di riposo. Il virus Sars-Cov2 è devastante soprattutto per le fasce più anziane della popolazione. Ma certi tassi di letalità sono comunque impressionanti: negli ospizi lombardi, secondo il primo monitoraggio (parziale) avviato dall’Istituto superiore della sanità, si contano in media quasi sette morti (6,8%) ogni cento ospiti. A cui si aggiungono centinaia di medici, infermieri e operatori contagiati in massa per mancanza di mascherine, protezioni e tamponi. Un disastro che sembrava impensabile almeno in quella istituzione pubblica, il Trivulzio, che da quasi trent’anni è al centro di mille annunci e promesse di far dimenticare uno scandalo epocale come Tangentopoli. E garantire finalmente una gestione efficiente e sicura. Che ora è messa in dubbio dalle denunce di familiari e operatori, rivelate da un’inchiesta giornalistica di Repubblica, che trovano riscontro nelle indagini aperte dai magistrati, dagli ispettori del ministero e dalla stessa Regione Lombardia. Il gentiluomo del papa, l'ex segretario Udc, l'imprenditore amico: uniti dalla società che gestisce l'Auditorium del Vaticano. Il capo Borrelli si è affidato all'intermediazione di piccole aziende a responsabilità limitata. E ora dice: ditte segnalate da Confindustria. Il Pio Albergo Trivulzio è la prima e più importante istituzione milanese di sostegno agli anziani, con oltre 1200 posti letto. L’istituto ha assorbito altre fondazioni, come Martinitt e Stelline, dedicate agli orfani e minori abbandonati. L’ente amministra anche un ricco patrimonio immobiliare, frutto di decenni di donazioni dei cittadini milanesi: oltre mille fabbricati e 1.700 ettari di terreni. Proprio per questo fece scandalo, negli anni di Tangentopoli, scoprire che la corruzione dominava perfino quell’ente caritatevole. È il 17 febbraio 1992 quando i carabinieri fanno irruzione dell’ufficio del presidente, Mario Chiesa, insediato dal Psi di Bettino Craxi ai vertici del Trivulzio. L’ingegner Chiesa viene arrestato in flagrante, mentre intasca sette milioni di lire estorti a un piccolo imprenditore delle pulizie. L’allora pm Antonio Di Pietro apre così l’inchiesta Mani Pulite, che si allarga subito, con il sequestro di un manoscritto con cifre e nomi dei politici che intascavano da Chiesa le tangenti dell’ospizio. A fine marzo, Chiesa confessa. E l’effetto-domino travolge l’intero sistema: gli imprenditori accusati chiamano in causa altri politici, che a lavoro volta confessano, in un crescendo inarrestabile. Dal Trivulzio l’indagine si allarga a tutti i settori, dalla sanità alle costruzioni, dall’energia alle autostrade. Nel 1994 il bilancio finale, solo a Milano, è di 1233 condanne definitive. Tsunami, incendio, onda d'urto, bomba atomica, eroismo. Con il suo linguaggio fra il film catastrofico e il Cinegiornale Luce, l'assessore più popolare d'Italia racconta ogni sera il fronte lombardo dell'epidemia. Ecco come il forzista è arrivato a gestire un budget da 20 miliardi di euro nonostante il declino di Silvio Berlusconi. Archiviata Tangentopoli, la classe politica lombarda promette di chiudere l’era della corruzione, delle assunzioni clientelari, degli affitti d’oro. Ma il pianeta sanità resta inquinato dalla lottizzazione delle nomine, legalizzata da una riforma varata nel 1998 dall’ex governatore Roberto Formigoni. Poi condannato per altre corruzioni, sempre nella sanità. Nello stesso ventennio, la Lombardia diventa un modello per altre regioni: più soldi alle strutture private, tagli per gli ospedali pubblici. E le strutture per anziani finiscono al centro di questa politica che privilegia i centri privati o religiosi. Dopo e nonostante Tangentopoli, le indagini continuano, con arresti e condanne in ospedali e case di riposo. Anche al Trivulzio la magistratura torna più volte a indagare su vendite di immobili a prezzi sospetti, perfino su ipotesi di infiltrazioni mafiose negli appalti. Ma senza grandi scandali. E senza alcuna riforma del metodo di controllo politico della sanità. Oggi la Procura di Milano schiera nove magistrati, guidati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, che lavorano a tempo pieno, dai computer di casa, sulle denunce collegate al coronavirus. L’indagine sugli ospizi, oltre al Trivulzio, riguarda diverse altre strutture con una mortalità ancora più pesante. Il più grave dei reati ipotizzati ha pochi precedenti: diffusione colposa di epidemia. C’era una volta Tangentopoli. Ora anche Gherardo Colombo, l’altro ex pm di Mani Pulite, indaga sulla pandemia, con la commissione d’inchiesta varata dalla giunta lombarda. Proprio per scoprire le cause delle stragi di anziani negli ospizi, compreso il Trivulzio.

Michela Allegri per “il Messaggero” il 21 aprile 2020. Duecento morti su mille degenti, almeno duecento positivi. Crescono numeri del contagio e non si placa la bufera sul Pio Albergo Trivulzio, istituto finito al centro della maxi-inchiesta della Procura di Milano sulla gestione dell' emergenza sanitaria nelle case di riposo lombarde. E ai dati si aggiungono, ancora, testimonianze choc che ora sono finite al vaglio degli inquirenti. Ci sono le dichiarazioni dei parenti degli anziani e, soprattutto, quelle di infermieri e operatori: raccontano della mancanza di mascherine durata più un mese dopo lo scoppio dell' epidemia e anche delle «minacce» contro chi voleva usarle, perché il rischio era che i pazienti si spaventassero. Gli stessi pazienti che, nonostante sintomi chiari, «non venivano isolati». Una pratica che, oltretutto, sarebbe proseguita. Un' infermiera ha infatti dichiarato che ancora qualche giorno fa sarebbero stati trasferiti alcuni anziani «da un reparto all' altro, lo fanno la sera, di nascosto, senza aver fatto nemmeno i tamponi», mentre gli ospiti «continuano a morire». L' inchiesta si è allargata anche all' operato della Regione Lombardia e delle Agenzie di tutela della salute.

LE DELIBERE. Nel mirino dei pm ci sono la delibera con cui l' 8 marzo è stato dato il via libera al trasferimento di pazienti Covid nelle Rsa e presunti ritardi nelle comunicazioni. Mentre la Finanza ha già iniziato a raccogliere segnalazioni, dichiarazioni, testimonianze e denunce sia di lavoratori del Trivulzio, che dei parenti degli anziani. Il direttore generale Giuseppe Calicchio è già stato indagato per epidemia e omicidio colposi. Il timore è che i numeri continuino a crescere. Alessandro Azzoni, portavoce del Comitato Giustizia per le vittime del Trivulzio, parla di 200 morti e «circa 200» positivi. Mentre fonti interne raccontano che alla Baggina l' intero reparto di pneumologia sarebbe diventato Covid, perché i 24 pazienti sono tutti positivi. «Il personale è sotto organico - ha aggiunto Azzoni - su 1.100 operatori quasi 300 sono in malattia. C' è un silenzio assordante da parte delle Istituzioni, a partire dalla Regione».

LA SICUREZZA. L' allarme sicurezza è stato lanciato, oltre che dagli operatori, anche da molti parenti, che parlano di carenze nei protocolli che avrebbero favorito il contagio. Un altro veicolo di trasmissione del virus, a loro dire, sarebbe stato l' arrivo di pazienti dagli ospedali. Per quanto riguarda i dispositivi di protezione, un' infermiera che lavora al Frisia di Merate (Lecco), istituto che fa capo al Trivulzio, ha invece messo a verbale che mancavano i «presidi sanitari» di sicurezza, che i pazienti con sintomi «non venivano isolati» in modo corretto e che i parenti continuavano ad entrare anche dopo lo scoppio dell' epidemia. Ieri proprio al Frisia, come in altre Rsa lombarde, c' è stata un' ispezione del Nas. Un' altra operatrice ha dichiarato che «la prima mascherina si è vista il 22 marzo. Il 12 marzo chiesi di averne una, ma a me come ad altre colleghe, che le avevano portate da casa, venne intimato dalla caposala di non usarle». Anche Cgil e Cisl hanno parlato di «velate minacce» in una lettera di diffida inviata ai vertici dell' istituto. Nel frattempo i reparti «sono anche scoperti di personale - ha aggiunto una dipendente - perché più di 200 operatori sono a casa in malattia o in quarantena e due colleghi sono in terapia intensiva». C'è un aggiornamento anche su un altro fronte. Sono stati sospesi alcuni lavoratori della coop Ampast che hanno denunciato presunti illeciti nella gestione dell' emergenza da parte della Fondazione Don Gnocchi, altro istituto al centro delle indagini. Mentre la fondazione precisa «di aver legittimamente esercitato il proprio diritto contrattuale di non gradimento nei confronti della cooperativa» perché quei lavoratori «a mezzo stampa e televisione, avevano espresso giudizi gravi e calunniosi».

Inchiesta Pio Albergo Trivulzio, un audio di 12 minuti rivela cosa nasconde la Rsa. Chiara Caraboni il 12 Aprile 2020 su Urban Post. Esami nascosti, tac sparite nel nulla, infermieri che si ritrovano a lavorare con la febbre e hanno paura di comunicarlo. La situazione al Pio Albergo Trivulzio, la residenza per anziani milanese, è sconcertante. Gli infermieri si sfogano tra di loro, raccontano della manomissione di cartelle cliniche, di turni infernali, con personale ammalato che però deve continuare a lavorare. Un audio, registrato lontano dai riflettori, lo dimostra. E non a caso, infatti, il direttore generale, Giuseppe Calicchio, è indagato dalla procura di Milano nell’inchiesta sulle oltre 100 morti nella residenza per anziani Pio Albergo Trivulzio. I reati ipotizzati sono epidemia colposa e omicidio colposo.

Repubblica è entrata in possesso di un audio registrato lo scorso 30 marzo dentro la Baggina, nel pieno dell’emergenza coronavirus. Un audio di 12 minuti, nella quale gli infermieri si sfogano liberamente e raccontano la situazione nella quale sono costretti a lavorare, e vivere, ogni giorno. Una situazione che ha il destino di peggiorare. “Qui se fanno i tamponi siamo tutti positivi e devono chiudere, hai capito?”, dice un operatore sanitario. “Di là in reparto ne stanno morendo quattro, isolati, però questi bastardi mica lo dichiarano, dicono che sono tre…”, racconta un’altra mentre si prepara a entrare in servizio. Il giorno prima, sottolinea, un’infermiera “ha lavorato con la febbre, tossiva di brutto, le mancava il respiro, stava malissimo, non l’hanno mandata a casa perché dicevano che doveva avere almeno 37,5. Poi ha chiamato la guardia medica, che si è incazzata con lei perché non doveva lavorare così, oggi è a casa e le hanno detto che forse domani la ricoverano perché è grave”. Il dialogo va avanti, chi ha raccontato l’episodio però ammette: “Io lo so perché si è infettata: diceva che la mascherina non la faceva respirare, allora se la toglieva, questo è il risultato, se la mettiamo non succede”.

Interviene una terza persona: “Questa è una roba da denuncia“. Gli episodi che si sentono raccontare nell’audio sono tanti, e nessuno ha un risvolto positivo. Gli infermieri sottolineano la paura che c’è nell’ammettere di avere la febbre, di non stare bene. “Stanno nascondendo le cose– dicono- Ma tu caposala che fai venire una infermiera due giorni a lavorare con la febbre, sai cosa vuol dire? Che qui ce lo prendiamo tutti ormai. È da denuncia, però questa (nel foglio di ingresso, ndr) ha scritto 36, 35…”. Perché mentire sulla propria temperatura? La risposta sembra semplice. “Ha paura”. Altre due voci, in coro, dicono: “Anche io ho paura”. A questo punto entra nel discorso la quarta persona, che amaramente chiude la discussione: “Già, però così ce lo mette nel c… a noi”.

Ancora non è tutto. La situazione è tragica: circa 170 operatori socio-sanitari si trovano in malattia, molti con sintomi riconducibili al coronavirus. Nei reparti ci sono fino a 30/40 anziani, e spesso gli infermieri rimangono solo in due o tre per turno. “Non ci hanno nemmeno formato per questa cosa, ci hanno fatto leggere un foglio che spiegava cos’era il coronavirus, lo abbiamo firmato e basta…”, riflette un operatore, sfinito. Poi arriva un’altra infermiera, e mentre il discorso continua alternato alle informazioni sui pazienti, le parole si concentrano su un anziano in particolare. Una persona che, ancora, non si capisce bene che cos’abbia. “A me hanno detto in consegna che comunque è stato un allarme e che lui sta bene”, spiega la persona entrata da poco. “No no no, aveva la polmonite bilaterale e addensamento parenchimale, hanno nascosto pure la tac di lui. Le lastre e le tac hanno confermato che aveva un focolaio in atto”, è la risposta. “Sulla cartella clinica non posso andare a vederla?”, domanda ancora la sua interlocutrice. E qui arriva una risposta sconvolgente: “Sono nascosti i fogli, hanno nascosto i fogli da dentro agli archivi, dentro i cosi della radiografia che c’è di là dove stiamo noi, e nelle cartelle li hanno nascosti questi fogli, non vedrai né la tac né le radiografie che ne ha fatte tre consecutivamente”. Allora si intromette un’altro, si chiede “quando censiranno i decessi di questi mesi come faranno?”. Quello che impressiona, però, è che nessuno sembra stupito dalla situazione. Sembra che stiamo parlando di normale amministrazione.

Non è un caso che il direttore generale della Rsa Pio Albergo Trivulzio, Giuseppe Calicchio, ora è indagato per epidemia colposa e omicidio colposo. Si dovranno verificare le eventuali carenze nei protocolli interni e dei dispositivi di sicurezza, come le mascherine. A proposito, alcuni dipendenti avevano infatti raccontato di come veniva impedito loro di usarle nei primi giorni dell’epidemia. Il motivo? Non diffondere il panico. Sarà indagata poi anche la gestione di pazienti trasferiti dagli ospedali nelle residenze. Il caso è stato affidato ai pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, sotto l’occhio vigile del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano. Si dovrà comprendere se e quante delle oltre 100 morti siano collegabili all’epidemia e a eventuali negligenze della struttura. 

Coronavirus, l’epidemia insabbiata: al Trivulzio di Milano si indaga su settanta morti. Il sindacalista: "Gli ospiti morivano e dicevano che erano solo bronchiti”. Sospeso geriatra della Statale che voleva far usare le mascherine. “Quando sono tornato c’era il terrore”. Gad Lerner il 4 aprile 2020 su la Repubblica. La direzione del Pio Albergo Trivulzio, oltre milletrecento anziani ricoverati, il polo geriatrico più importante d’Italia, per tutto il mese di marzo ha occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, intanto che il morbo contagiava numerosi pazienti e operatori sanitari. Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l’uso delle mascherine.

Estratto dell’articolo di Gad Lerner per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. La direzione del Pio Albergo Trivulzio, oltre milletrecento anziani ricoverati, il polo geriatrico più importante d' Italia, per tutto il mese di marzo ha occultato la diffusione del Covid-19 nei suoi reparti, intanto che il morbo contagiava numerosi pazienti e operatori sanitari. Il professor Luigi Bergamaschini, geriatra fra i più qualificati di Milano, ha subìto il 3 marzo un provvedimento di esonero perché colpevole di autorizzare l'uso delle mascherine chirurgiche al personale alle sue dipendenze. Il giorno stesso del suo allontanamento forzato è stato fatto esplicito divieto a medici e paramedici di indossarle. Le ripetute diffide sindacali che parlano apertamente di "gestione sconsiderata dell' emergenza" hanno indotto la Procura di Milano ad aprire un' inchiesta "Modello 44" a carico di ignoti. Ma il delegato Cgil della Rsu, Pietro La Grassa, non esita a indicare il nome e il cognome del direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, prescelto dalla Regione Lombardia, in carica dal primo gennaio 2019. "Il filosofo", lo chiama, perché in effetti quello è l' unico titolo universitario che Calicchio indica nel curriculum. Di lui è noto semmai il legame con l' assessore regionale alle Politiche sociali, Stefano Bolognini, cerchia ristretta di Salvini, al cui fianco Bolognini si trovava anche l' estate scorsa al Papeete di Milano Marittima. «Gli anziani morivano e a noi, nonostante l' evidenza dei sintomi, dicevano che si trattava solo di bronchiti e polmoniti stagionali», denuncia La Grassa. «Il risultato è che ora al Trivulzio abbiamo sette reparti isolati completamente e due vuoti perché non accettiamo più nuovi pazienti. Nella struttura di Merate novanta sono sotto osservazione. Al Principessa Jolanda di via Sassi due reparti sono in isolamento». Non basta. «Quando l'epidemia non si poteva più nascondere, ci è arrivato l' ordine di non trasferire più i pazienti nel pronto soccorso dove di solito ricevono le cure necessarie», prosegue La Grassa, «il che di fatto significa: lasciateli morire nei loro letti. Niente tamponi, ci mandano allo sbaraglio». […] Per salvaguardare l' apparenza di struttura immune dal coronavirus, è stata sacrificata l' incolumità di milletrecento persone. A marzo sono stati settanta i morti solo nel grande edificio di via Trivulzio. Decisamente sopra la media. Senza contare le altre due sedi. Nei bollettini ufficiali si sosteneva che solo in nove decessi fosse riscontrabile il Covid-19 come concausa. Una cifra palesemente inferiore al vero. Intanto un fisioterapista è finito intubato in rianimazione, un medico risulta positivo con polmonite e altri due operatori sono infettati. Ma, in assenza di tamponi, è impossibile stabilire quanti siano davvero i portatori di coronavirus. […]

Il Trivulzio reagisce: Noi diffamati. Dati falsi, non c'è una strage nascosta. Da affaritaliani.it il 6 aprile 2020. Ieri l'articolo, assai violento, di Gad Lerner. Dove si accusava la gestione del Pio Albergo Trivulzio, mettendo in mezzo anche Salvini e l'assessore Bolognini. Ora il Trivulzio risponde. Per ora, con un comunicato stampa, e poi anche con i legali. "Il Presidente Maurizio Carrara e il Direttore generale Giuseppe Calicchio, dell’ASP IMMS Pio Albergo Trivulzio hanno incaricato  i propri legali di procedere alla diffida nei confronti del quotidiano laRepubblica, a seguito dell’articolo in prima pagina, firmato da Gad Lerner, dal titolo “ La strage nascosta del Trivulzio” - recita il comunicato - Al legali è stato altresì dato mandato di tutelare, nelle sedi opportune, l’immagine del Trivulzio e l’onorabilità professionale dei responsabili sanitari. Nell’articolo infatti si sostiene che la “strage nascosta’ nel mese di marzo riguarderebbe 70 pazienti. Tale dato, presente sul sito dell’Istituto e ripreso da altri organi di stampa, si riferisce al numero complessivo dei decessi nel mese di marzo, in parte probabilmente riconducibili a Covid 19 senza però che sia stato possibile effettuare i tamponi per accertare la presenza del virus". Insomma, il Trivulzio contesta i dati: "Il dato del primo trimestre 2020, che tiene conto anche dei decessi di ospiti trasferiti ai Pronto Soccorsi, è in linea con i decessi avvenuti al PAT nel corrispondente trimestre 2019 (170 contro 165), mentre nello stesso periodo sono risultati 15 contro 13 alla RSA Principessa Jolanda. Nel mese di marzo 2020 al PAT sono risultati 18 decessi in più rispetto al corrispondente mese del 2019. Una situazione che non si configura come strage nascosta ma conferma che al PAT non vi sia una situazione fuori controllo - spiega l'istituto, i cui vertici sono nominati di comune accordo tra Comune e Regione - Operativamente il Pio Albergo Trivulzio si è sempre attenuto rigorosamente alle disposizioni delle Autorità sanitarie (OMS, Istituto Superiore di Sanità e Regione Lombardia) per quanto riguarda l’uso dei dispositivi di protezione individuale, così come sui tamponi oro-faringei si è e si attiene alle disposizioni di Regione Lombardia e dell’Agenzia di Tutela della Salute". Poi, la polemica con la "gola profonda" di Gad Lerner, ovvero Bergamaschini. "Disposizioni che riteneva di poter ignorare il prof. Bergamaschini, sospeso anche a tutela della sua salute connessa all’età, e rientrato solo a seguito della sua autocertificazione a proseguire nella collaborazione. E’ grave, inoltre, che il giornalista si sia affidato alle sole dichiarazioni di un rappresentate sindacale interno, senza avvertire la necessità di verificarne l’attendibilità con la dirigenza dell’Istituto e con i responsabili dell’ufficio stampa in contatto quotidianamente con le redazioni dei media non solo cittadini".

Coronavirus, Gallera: Pio Albergo Trivulzio ha agito in maniera oculata. (LaPresse il 6 aprile 2020) - Al Pio Albergo Trivulzio sono morti 70 anziani ospiti, di cui "18 positive e decedute per il covid, una media molto ridotta rispetto ad altri luoghi" e ad altre Rsa proprio perchè "il Pat ha agito in maniera oculata". Lo ha detto l'assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera nella consueta conferenza stampa per fare il punto sull'emergenza. Sul Pat "ci sono stati titoloni dei giornali e articoli con effetti pirotecnici - ha proseguito Gallera - ma dalla verifica puntuale del comportamento delle direzioni generali e dei dipendenti poi alle volte si scopre che la realtà è diversa e ridimensiona molto quanto raccontato in modo roboante sui giornali".

Coronavirus, Fontana: Su Pio Albergo Trivulzio verificheremo. (LaPresse il 6 aprile 2020) - "Il Trivulzio ha una gestione congiunta con il Comune di Milano. Tanto è vero che nominiamo insieme i consiglieri di amministrazione. Ho letto l’articolo di Gad Lerner, ma finora mi risultava che non fosse successo nulla. Chiederò un rapporto e se ci saranno decisioni da prendere o responsabilità da accertare vedremo". Lo ha detto il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, in un'intervista a Repubblica sul caso del Pio Albergo Trivulzio di Milano. 

Coronavirus, Trivulzio: il ministero della Salute invia gli ispettori. Annalisa Cuzzocrea per repubblica.it il 6 aprile 2020. Il ministro della Salute Roberto Speranza e il viceministro Pierpaolo Sileri lo hanno deciso in una riunione subito dopo pranzo: manderanno gli ispettori al Pio Albergo Trivulzio, il polo geriatrico più importante di Italia, finito al centro di un'inchiesta della procura di Milano con l'accusa di aver nascosto casi di Covid-19 mettendo a rischio ospiti e i sanitari. Speranza ha espresso grande preoccupazione per la vicenda raccontata su Repubblica da Gad Lerner e per le storie come quella raccolta da Zita Dazzi su un'anziana riportata a casa dal Trivulzio positiva al Coronavirus e in fin di vita. "Le ispezioni stanno partendo - dice Sileri - gli inviati del ministero chiederanno informazioni dettagliate e verificheranno tutti gli atti, avvalendosi anche dell'aiuto dei Nas". Non vale solo per il Trivulzio: "Abbiamo deciso di mandare gli ispettori - dice ancora Sileri - all'Oasi di Troina, dove ci sono stati problemi con pazienti disabili. Alla Fontanella di Soleto, in provincia di Lecce. E a Chiaravalle, vicino a Catanzaro, dove ci sono stati dieci morti e c'è un'indagine aperta dalla procura". In Calabria le ispezioni saranno estese a tutte le rsa.

Pio Albergo Trivulzio, 30 morti da inizio aprile. Bare anche in chiesa. E arriva l'ispezione del governo. Nella casa di cura milanese solo a marzo, in piena emergenza coronavirus, sono deceduti 70 anziani. E ne continuano a morire. Ilaria Carra il 7 aprile 2020 su La Repubblica. Il governo invia una squadra di ispettori al Pio Albergo Trivulzio. Il ministro della Salute Roberto Speranza e il suo vice Pierpaolo Sileri hanno deciso di approfondire la situazione di emergenza nel polo geriatrico più importante del Paese, sulla cui condotta la procura di Milano ha già aperto un'inchiesta con l'ipotesi di diffusione colposa di epidemie e omicidio colposo. Il sospetto sul quale anche Roma, ora, vuole vederci chiaro riguarda l'ipotesi che alla "Baggina", come da sempre i milanesi chiamano la storica struttura cui tutta la città è affezionata, siano stati nascosti casi di Covid-19 mettendo a rischio ospiti e operatori. Nella struttura, compresa sia la Rsa sia la riabilitazione, sono morti solo a marzo, in piena emergenza coronavirus, 70 anziani. Ma gli ospiti qui continuano a morire: solo nella prima settimana di aprile se ne sono aggiunti altri 30, 26 nella casa di riposo e 4 temporaneamente nella struttura riabilitativa. Dove però i ricoveri sono stati bloccati a metà marzo, per via del rischio contagio, quindi i pazienti presenti sono "solo" 242 rispetto ai 350 di capienza normale. Se si considera solo l'ospizio, dunque, dall'inizio dell'anno a ieri in tutto il complesso (via Trivulzio, Merate e Principessa Jolanda) sono mancati 147 ospiti, 44 in più rispetto ai 103 del 2019. L'obitorio del Pat è una stanza di sofferenza piena di lenzuoli bianchi arrotolati, sdraiati uno accanto all'altro. Altre sale sono state adibite a ricovero provvisorio di bare. Ognuna con un foglio di carta sopra, un nome, una storia. Nessuno, qui, ha fatto il tampone: che siano vittime del virus è, però, per la maggioranza quasi una certezza. Il direttore generale del Pat, Giuseppe Calicchio, in una mail ha chiesto "con estrema urgenza" alla sua prima linea di avere un "dettaglio puntuale" sul numero di salme "ancora da porre in cassa" e "per ciascuna data di decesso". Nella stessa comunicazione, il dg ha stabilito che sia la dottoressa Vasaturo "a occuparsi della camera mortuaria", sostituendo il signor Riganti che d'ora in poi dovrà riferire a lei. E il bilancio dei morti, purtroppo, rischia di essere ancora più ampio: i numeri non tengono conto degli anziani che in queste settimane sono stati mandati a casa o ricoverati, e che solo in un secondo momento sono stati trovati positivi e, in molti casi, deceduti. "Le ispezioni stanno partendo - dice Sileri - gli inviati del ministero chiederanno informazioni dettagliate e verificheranno tutti gli atti, avvalendosi anche dell'aiuto dei Nas". Come per altre Rsa, si dovrà dunque accertare se alla Baggina, come sostengono fonti sindacali, "gli ospiti morivano e si diceva che erano solo bronchiti", se davvero "si è voluta tenere sotto silenzio la grave situazione delle strutture". E se - come dice il professor Luigi Bergamaschini, al Pat vietavano le mascherine e quando lui le autorizza viene esonerato". Oggi il Pat accoglie 1.012 fra ospiti e pazienti e conta, di solito, su 1.600 persone tra medici, infermieri, assistenti sociali nelle tre residenze per anziani e nei due centri d'assistenza. A marzo, però, sono stati 250 i lavoratori non operativi sul campo, alcuni in telelavoro, la maggior parte in malattia. Contagiati con ogni probabilità sul posto di lavoro e con sintomi da Covid-19 anche - un tema sul quale anche la stessa procura milanese sta indagando - per via delle (presunte) tardive disposizioni all'uso dei dispositivi di protezione. La ministra delle Politiche agricole, Teresa Bellanova, definisce le morti al Pio Albergo Trivulzio "una stretta al cuore". E aggiunge: "Nelle case di riposo c'è la memoria di questo Paese. E dopo questa stretta al cuore avvertiamo il bisogno di chiarezza: serve una commissione d'inchiesta, come ha chiesto Renzi". Il suo collega agli Affari regionali, Francesco Boccia, chiede invece "alle Regioni di comunicare tempestivamente alla Protezione civile, attraverso il monitoraggio delle Ats, quali siano le Rsa in condizioni di maggior criticità". Anche Leu, con Nicola Fratoianni, in un'interrogazione chiede "tutte le necessarie attività ispettive per fare chiarezza e individuare eventuali responsabilità sui decessi".

Caso Trivulzio, i numeri del Pat: "300 anziani morti da gennaio ad aprile, media degli altri anni 186 decessi". Il virologo Pregliasco, nominato dal Pat, e l'avvocato Nardo in videoconferenza difendono l'operato della Baggina ma i parenti delle vittime contestano il numero ufficiale dei morti. La Repubblica il 6 maggio 2020. Al Pio Albergo Trivulzio di Milano ci sono stati "300 morti" tra gennaio ed aprile, rispetto ai "186 decessi medi dello stesso periodo tra il 2015 e il 2019". Lo ha spiegato il supervisore del Pat Fabrizio Pregliasco in una videoconferenza stampa. In particolare, ci sono stati oltre 200 morti tra marzo e aprile, "133 ad aprile e 70 a marzo". Pregliasco - che è stato nominato dal Trivulzio coordinatore scientifico dopo le prime notizie sull'inchiesta della procura di Milano per epidemia colposa e omicidio colposo nella Rsa milanese - ha spiegato che tra febbraio e marzo c'è stato un "incremento del 29%" delle morti rispetto agli stessi periodi, si è passati "da 89 decessi medi a 115". Tuttavia, se si considera tutto il periodo gennaio-aprile, rispetto al "quadriennio precedente", l'incremento è stato molto maggiore, "da 186 a 300 decessi". In particolare, al Trivulzio (ora ci sono "700 ospiti" in totale) solo ad aprile sono morti 133 anziani, a marzo 70. Il virologo ha fornito anche dati sulle altre strutture del Trivulzio: ad aprile alla Principessa Jolanda ci sono stati "10  morti su 71 pazienti", 23 al 'Frisia' su 200 ospiti attuali". Pregliasco ha spiegato anche che il tasso di incremento della mortalità a marzo ed aprile al Pat è stato inferiore a quello della città di Milano, "ad aprile a Milano del 135%, al Trivulzio del 61%". La videoconferenza stampa del Trivulzio è servita alla struttura per dare la sua versione di quanto sta accadendo, visto che oltre alla procura di Milano anche la Regione ha avviato una commissione di inchiesta e, ancor prima, il ministero della Salute aveva inviato gli ispettori. Da settimane si è formato anche un comitato di parenti delle vittime del Trivulzio, che chiede verità sulla gestione dell'emergenza alla Baggina e su come e perché sono morti tanti anziani. Quindi Pregliasco ha detto che al Pat c'è stato un "adeguamento a disposizioni nazionali e regionali, con tutti i limiti che qua e a livello nazionale c'erano" in una situazione di emergenza ed è stata garantita "l'assistenza".

Inchiesta sul Trivulzio, i parenti delle vittime contestano il numero ufficiale dei morti. "Nei 300 decessi dichiarati è evidente che non sono compresi tutti gli anziani che in marzo sono stati trasferiti in ospedale oppure rimandati a casa, poi risultati positivi al Covid-19, che in molti casi hanno contagiato i familiari e sono morti". Lo dichiara Alessandro Azzoni, portavoce del 'Comitato Verità e Giustizia per le vittime del Trivulzio', il quale spiega come ci sia "ancora poca chiarezza da parte del Pio Albergo Trivulzio: dalla conferenza stampa di oggi non abbiamo avuto dati concreti e rassicuranti su quanto avvenuto finora all'interno della struttura. Purtroppo la gestione non oculata avrebbe provocato anche il contagio di molti pazienti, molto spesso anziani, che usufruivano di servizi di fisioterapia, in decorso post operatorio o con patologie multiple aggravate - dice Azzoni in una nota -. La struttura si è dimostrata molto fragile nel bloccare l'accesso di pazienti esterni e nell'uso dei dispositivi di sicurezza grazie ai quali si sarebbe potuta arrestare la diffusione del virus, come avvenuto in molte altre Rsa in Italia". Secondo l'avvocato Vinicio Nardo, legale del Pat e del direttore generale Giuseppe Calicchio, indagato, al Trivulzio "nessuno ha mai detto o messo per iscritto che non si dovevano usare le mascherine per non diffondere il panico". Nardo lo ha affermato, parlando anche della "penuria" delle mascherine nella prima fase dell'emergenza e del fatto che pure "le forniture ordinarie del Trivulzio sono state dirottate" verso gli ospedali in quel periodo. Nardo ha parlato anche di una "ondata mediatica che si è abbattuta come uno tsunami per primo e soprattutto sul Trivulzio".

Negligenze e irregolarità durante il contagio. Trivulzio sotto inchiesta. Dopo il Don Gnocchi finisce nel mirino dei pm anche la gestione dell' emergenza al Pat. Cristina Bassi, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Un altro caso Rsa finisce sul tavolo della Procura. Dopo l'inchiesta sull'Istituto Palazzolo della Fondazione Don Gnocchi per presunte negligenze e irregolarità da parte dei dirigenti nel contenimento del contagio da Coronavirus all'interno della struttura, ora tocca al Pio Albergo Trivulzio. La Procura indaga sulla gestione dell'emergenza sanitaria al Pat, storico istituto dell'assistenza agli anziani. Anche in questo caso l'inchiesta è stata aperta sulla base di una denuncia. È a «modello 44», cioè a carico di ignoti. Nei giorni scorsi la vicenda era emersa, dopo che sindacati e operatori sanitari avevano denunciato la «gestione sconsiderata dell'emergenza» da parte del Trivulzio, in particolare per una sottovalutazione dell'importanza dell'uso delle mascherine. Tesi respinta dalla dirigenza che sostiene di avere fatto tutto il necessario per proteggere l'incolumità di ospiti e operatori. La Cisl e la Cgil avevano mandato una lettera di diffida alla direzione del Pat, chiedendo che tutti i lavoratori venissero dotati di adeguate protezioni. Nei giorni scorsi il dipartimento Ambiente e salute guidato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano aveva avviato un'indagine per una vicenda simile sulla Fondazione Don Gnocchi. Erano stati i lavoratori dell'Istituto Palazzolo, una ventina, a presentare un esposto in cui si accusa tra l'altro la direzione di aver tenuto nascosti casi di contagio tra gli operatori e di aver chiesto loro di non usare le mascherine. I reati ipotizzati sono di diffusione colposa di epidemia e altri in materia di sicurezza sul lavoro. L'alto numero di contagi e di morti per Covid-19 nelle residenze per anziani, in tutta la Lombardia, ha sollevato allarme. Per quanto riguarda Milano, le denunce per mancata prevenzione del contagio non si limitano a quelle del Don Gnocchi e del Trivulzio. È plausibile quindi che siano stati aperti altri fascicoli. Le indagini per ora si svolgono su base documentale, visto che non è possibile intervenire nelle sedi delle strutture. Proprio Siciliano alcuni giorni fa in un'intervista a Radio 24 aveva dichiarato che «sono già una decina le denunce ricevute, ma ci aspettiamo che aumentino. E per questo ci stiamo già preparando». Il riferimento era appunto agli esposti degli operatori sanitari. Continuava l'aggiunto: «Il punto in comune tra tutte le denunce, presentate soprattutto da lavoratori, sono le omissioni. Le mancanze cioè di cautele per prevenire il rischio infezioni. La prima contestazione è la non tempestività nell'informazione, ma si denunciano anche carenze dei presidi sanitari messi a disposizione». Il trend di denunce sarebbe «destinato ad aumentare nel tempo. Il mio dipartimento si sta già attrezzando, mettendo a punto protocolli di valutazione di indagine, per essere più efficienti e celeri. Anche dando per scontato - sottolineava però - che molte richieste non abbiano fondamento. È molto umano cercare un responsabile, ma la responsabilità penale è altro». 

«Così la Regione Lombardia ha vietato di chiudere i centri anziani a Bergamo». NeXt quotidiano il 5 Aprile 2020. Un articolo del Fatto Quotidiano a firma di Natascia Ronchetti oggi punta il dito sulla Regione Lombardia per la mancata serrata delle case di riposo di Bergamo: per il Pirellone i centri diurni per gli anziani dovevano restare aperti, pena la perdita dell’accreditamento. Dopo 7 giorni, il dietrofront. Ma intanto i decessi salivano. Alla fine di febbraio, l’Associazione delle case di riposo del Bergamasco (Acrb) chiese all’azienda sanitaria di Bergamo, l’Ats, di chiudere le residenze sanitarie assistenziali di città e provincia. Alcune – come la Casa Ospitale Aresi, a Brignano GeraD’Adda –ave vano già chiuso il centro diurno: le aveva guidate la prudenza, la paura di fronte all’avan zata dei contagi. Eppure, alla richiesta dell’associazione la Regione Lombardia oppose un netto rifiuto: le case di riposo dovevano restare aperte. Un ordine impartito all’azien da sanitaria, che si era fatta da tramite dopo aver raccolto l’appello di Acrb. Solo dopo più di un settimana, e a contagio ormai sfuggito, sarebbe arrivato il dietrofront, con una circolare che invitava i vertici delle Rsa a valutare la necessità di sbarrare gli accessi a chiunque provenisse d al l ’esterno. Intanto, però, il virus si era già insinuato tra gli anziani delle case di riposo. In assenza del tampone, non è dato sapere quanti ne abbia effettivamente uccisi. Ma è un fatto che nei primi venti giorni di marzo si siano contati oltre 600 decessi tra gli ospiti delle residenze nella sola provincia di Bergamo. Il 23 febbraio, due giorni dopo lo scoppio del “caso Mattia”a Codogno, la casa di riposo Aresi aveva deciso di sbarrare il proprio centro diurno su disposizione del direttore sanitario, preoccupato dall’evolversi dell’epidemia. “Ma l’Ats ha mandato una lettera a tutte le strutture –ricorda Marco Ferraro, presidente della Aresi –disponendo che rimanessimo aperti fino a nuove disposizioni della Regione”. È così che il centro viene riaperto. Ed è proprio qui, a Brignano Gera D’Adda, che arriva anche una ispezione dell’azienda sanitaria. “Ci hanno detto che potevamo anche essere accusati di interruzione di servizio pubblico, con conseguente revoca dell’accreditamento –dice Ferraro – ci hanno fatto un verbale. Così siamo rimasti aperti fino alla fine della prima settimana di marzo, quando ci è stato detto che avevamo la possibilità di chiudere. Una disposizione tardiva…”.

Natascia Ronchetti per il “Fatto quotidiano” il 6 aprile 2020. L'8 marzo scorso, mentre l' epidemia si diffondeva facendo vittime prima di tutto tra gli anziani, la Regione Lombardia dava il via libera al ricovero di pazienti Covid nelle case di riposo, per liberare posti letto negli ospedali, soprattutto nei reparti di terapia intensiva e sub intensiva. Disposizione decisa con la delibera XI-2906 - ne ha scritto ieri Il Quotidiano del Sud - che ordinava alle Ats, le aziende sanitarie, di fare una ricognizione dei posti letto disponibili per le cure extra-ospedaliere e di individuare le Rsa dotate di "strutture autonome dal punto di vista strutturale e dal punto di vista organizzativo" per l' assistenza a bassa intensità dei contagiati. "Incredibile", dice Luca Degani, presidente regionale di Uneba, l' associazione alla quale in Lombardia fanno capo 400 case di riposo. "In Regione - prosegue Degani -, nessuno si è reso conto del fatto che non si poteva scaricare un simile peso in luogo dove vivono anziani con patologie croniche. Un luogo che dovrebbe essere quello più tutelato e che non può essere utilizzato in modo strumentale per supportare gli ospedali". Fu proprio Degani, il 9 marzo, a scrivere all' assessore regionale al Welfare Giulio Gallera e al suo direttore generale Luigi Cajazzo. Lettera di due pagine con la quale alzava un muro. Troppo pericoloso accogliere pazienti Covid "in complessi, strutture, reparti, nuclei che abbiano una vicinanza ad ospiti delle Rsa Non si può pensare di rischiare, nei confronti di pazienti mediamente ultraottantenni. Questo perché la bassa intensità assistenziale di tali pazienti non si manifesterebbe certamente negli stessi termini se fosse trasmessa a soggetti immunodepressi quali sono mediamente gli ospiti delle case di riposo". Quella delibera avrebbe dovuto essere subito riscritta, secondo Degani: "E invece è ancora lì, risultato di una mancanza di programmazione regionale che continuiamo a vedere anche ora". Una mezza retromarcia del direttore Cajazzo non ha cambiato le cose. In teoria, di fronte al no di Uneba, non dovrebbero essere state molte le case di riposo che hanno accettato di accogliere pazienti Covid. Ma le eccezioni ci sono. Lo hanno fatto, per esempio, le Fondazione Don Gnocchi (Milano), Sacra Famiglia (Cesano Buscone), Uboldi (Paderno Dugnano). Questo proprio mentre il personale delle Rsa diminuiva, drenato dal reclutamento di medici e infermieri da impiegare negli ospedali varato dalla stessa Regione. Resta l' interrogativo su quanti anziani ricoverati nelle case di riposo siano stati stroncati dal virus. I decessi nelle Rsa, nel mese di marzo, in tutta la Lombardia sono notevolmente aumentati. Ma in assenza del tampone non è possibile avere un dato certo. "Sappiamo solo - spiega Degani - che negli ultimi giorni le aziende sanitarie hanno iniziato a chiedere alle strutture quanti ospiti sono deceduti". La delibera regionale, nel dare indicazioni alle Ats, ha disposto anche, per le Rsa, il blocco delle accettazioni di nuovi pazienti, oltre allo stop del 50 per cento del turn over delle strutture che abbiano alcune caratteristiche come la presenza medica e infermieristica 24 ore su 24, la possibilità di garantire ossigenoterapia e indagini di laboratorio. "Ma anche se mi mandano un paziente clinicamente guarito - spiega Degani -, in assenza di un tampone che attesti la negatività al virus, rischio di portare il contagio tra i nostri ricoverati. E adesso non basta che ci arrivino dotazioni di mascherine e di tamponi, le Rsa devono essere ospedalizzate. Gli anziani hanno diritto a un percorso di cura".

La denuncia di Uneba, così in Lombardia si è acceso il fuoco nelle Rsa. Redazione Vita.it il 4 aprile 2020. La delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità. Come mettere un cerino in un pagliaio. «Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle». Luca Degani è il presidente di Uneba Lombardia, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo lombarde. La sua è un’accusa precisa di cui dà conto in un'intervista a Il Quotidiano del Sud. Tira in ballo le responsabilità dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera e del presidente Attilio Fontana. Altri direttori e altri responsabili di Rsa hanno scelto il silenzio o si sono rifugiati nella retorica del lutto. Una forma di protezione dal dolore. Che accomuna tutti, infermieri, medici, personale. Nel tempo si erano stabiliti legami non solo professionali. C’è chi, a causa del Coronavirus, ha perso pazienti, chi amici, chi colleghi. «Dipendiamo per un buon 30% dai finanziamenti della Regione -riprende Degani – logico che molti abbiano paura di perderli. Non parlano e io li capisco, Ma noi, che facciamo parte del Terzo settore e siamo non profit, certe cose dobbiamo dirle: i nostri ospiti hanno una media di 80 anni, sono persone con pluripatologie. Come potevamo attrezzarci per prendere in carico malati spostati dagli altri ospedali per liberare posti-letto? Ci chiedevano di prendere pazienti a bassa intensità Covid e altri ai quali non era stato fatto alcun tampone. Il virus si stava già diffondendo. Stavamo per barricarci nelle nostre strutture, le visite dei parenti erano già state vietate». Il fuoco è divampato all’improvviso e l’incendio non si è ancora spento, facendo strage di anziani. Una mattanza tenuta segreta, separata dalla contabilità quotidiana della Protezione civile. La delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità. Il presidente di Uneba spiega: «Dopo la delibera abbiamo chiesto chiarimenti, maggior parte delle nostre strutture non hanno dato seguito alla richiesta della regione. Ma c’è chi l’ha fatto e poi si è pentito. Come potevamo accettare malati ai quali non era stato fatto alcun tampone né prima né dopo? Senza dire, che il nostro personale sarebbe stato comunque a rischio. Si sono infettati medici e sanitari in strutture molto più attrezzate della nostra. Non ci hanno dato i dispositivi di protezione ma volevano darci i malati… insomma». Ipotizzare la presenza di pazienti Covid è ritenuto – si legge nella lettera inviata alla Regione – «estremamente complesso, difficile e potenzialmente rischioso». Le Rsa ospitano, infatti, per lo più anziani che hanno già malattie gravi e conclamate. Che non possono essere più assistiti a domicilio. In totale dispongono di 70mila posti letto, tra privati, (80%), enti vari e strutture pubbliche. Non tutti, però, purtroppo, hanno detto di no. C’è chi li ha presi i malati. Chi ha rischiato di far entrare il l virus dalla porta principale. Tutto questo non sarebbe venuto fuori se il direttore sanitario di una Casa di riposo milanese – intervistato da Irene Benassi durante la trasmissione Agorà, su Rai3 – non avesse accennato alla “strana” richiesta della giunta lombarda. Quando il dietrofront è partito era ormai troppo tardi, «la necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti» – come si legge nella delibera, ha prevalso su tutto. Forse anche sul più comune buon senso. In molte case di riposo lombarde ancora si aspettano le mascherine. C’è chi ha provato a ordinarle senza aspettare la Regione e la Protezione civile. È riuscito a ottenerle camuffando l’ordine d’acquisto e la bolla di accompagnamento per evitare il sequestro e i controlli in dogana! Mascherine provenienti dall’Azerbaijan ma in realtà prodotte in Cina e spacciate per tessuti: cosa bisogna fare per salvarsi la vita.

Quell'assurda delibera lombarda che ha infettato le case di riposo. Claudio Marincola il 4 aprile 2020 su quotidianodelsud.it. «Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio: quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle». Luca Degani è il presidente di Uneba, l’associazione di categoria che mette insieme circa 400 case di riposo lombarde. La sua è un’accusa precisa. Tira in ballo le responsabilità dell’assessore alla Sanità Giulio Gallera e del presidente Attilio Fontana. Altri direttori e altri responsabili di Rsa hanno scelto il silenzio o si sono rifugiati nella retorica del lutto. Una forma di protezione dal dolore. Che accomuna tutti, infermieri, medici, personale. Nel tempo si erano stabiliti legami non solo professionali. C’è chi, a causa del Coronavirus, ha perso pazienti, chi amici, chi colleghi.

«MOLTI DI NOI HANNO PAURA». «Dipendiamo per un buon 30% dai finanziamenti della Regione -riprende Degani – logico che molti abbiano paura di perderli. Non parlano e io li capisco, Ma noi, che facciamo parte del Terzo settore e siamo no profit, certe cose dobbiamo dirle: i nostri ospiti hanno una media di 80 anni, sono persone con pluripatologie. Come potevamo attrezzarci per prendere in carico malati spostati dagli altri ospedali per liberare posti-letto? Ci chiedevano di prendere pazienti a bassa intensità Covid e altri ai quali non era stato fatto alcun tampone. Il virus si stava già diffondendo. Stavamo per barricarci nelle nostre strutture, le visite dei parenti erano già state vietate». Il fuoco è divampato all’improvviso e l’incendio non si è ancora spento, facendo strage di anziani. Talmente tanti che nella Bergamasca e nel Bresciano il numero dei decessi è ancora incerto. Forse duemila in più di quelli ufficiali. Una mattanza tenuta segreta, separata dalla contabilità quotidiana della Protezione civile.

LA LETTERA D’ALLARME «SIAMO A RISCHIO». La delibera della giunta Lombarda – la numero XI/2906, 8 marzo 2020 – chiedeva alle Ats, le aziende territoriali della sanità, di individuare nelle case di riposo dedicate agli anziani strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità. Il presidente di Uneba spiega: «Dopo la delibera abbiamo chiesto chiarimenti, maggior parte delle nostre strutture non hanno dato seguito alla richiesta della regione. Ma c’è chi l’ha fatto e poi si è pentito. Come potevamo accettare malati ai quali non era stato fatto alcun tampone né prima né dopo? Senza dire, che il nostro personale sarebbe stato comunque a rischio. Si sono infettati medici e sanitari in strutture molto più attrezzate della nostra. Non ci hanno dato i dispositivi di protezione ma volevano darci i malati… insomma». Ipotizzare la presenza di pazienti Covid è ritenuto – si legge nella lettera inviata alla Regione – «estremamente complesso, difficile e potenzialmente rischioso». Le Rsa ospitano, infatti, per lo più anziani che hanno già malattie gravi e conclamate. Che non possono essere più assistiti a domicilio. In totale dispongono di 70mila posti letto, tra privati, (80%), enti vari e strutture pubbliche. In quei giorni l’assessorato alla Sanità aveva avviato una ricognizione dei posti letto. Con la delibera dell’8 marzo si disponeva il blocco, da lunedì 9 marzo, dell’accettazione di pazienti provenienti dal territorio, l’anticipo delle dimissioni verso il domicilio dei pazienti ricoverati e del 50% del turn over nelle Rsa in grado di offrire assistenza medica e infermieristica H24 e presenza di medici specialisti. Tra le richieste, anche la capacità di garantire ossigenoterapia. Non tutti, però, purtroppo, hanno detto di no. C’è chi li ha presi i malati. Chi ha rischiato di far entrare il l virus dalla porta principale: Don Gnocchi e Gleno a Milano, Sacra Famiglia a Cesano Buscone, la Fondazione Uboldi a Paderno Dugnano e altre ancora.

LE MEZZE VERITA’. Tutto questo non sarebbe venuto fuori se il direttore sanitario di una Casa di riposo milanese – intervistato da Irene Benassi durante la trasmissione Agorà, su Rai3 – non avesse accennato alla “strana” richiesta della giunta lombarda. Una mezza verità venuta fuori poco alla volta. Anche se in realtà i primi a contestare la strategia della giunta lombarda, chiamando in causa l’assessore alla Sanità Gallera e il governatore Fontana, erano stati Matteo Piloni e Antonella Forattini, consiglieri regionali dem. «Le Rsa sono luoghi di persone fragili, molto spesso immunodepresse, lo stesso personale, tra l’altro decimato, non è istruito a trattare tale patologia, l’isolamento di piani Covid in una Rsa è puramente fisico e non esclude il contagio».

LA STRADE SEGRETE DELLE MASCHERINE. Quando il dietrofront è partito era ormai troppo tardi, «la necessità di liberare rapidamente posti letto di Terapia Intensiva e Sub Intensiva e in regime di ricovero ordinario degli ospedali per acuti» – come si legge nella delibera, ha prevalso su tutto. Forse anche sul più comune buon senso. In molte case di riposo lombarde ancora si aspettano le mascherine. C’è chi ha provato a ordinarle senza aspettare la Regione e la Protezione civile. È riuscito a ottenerle camuffando l’ordine d’acquisto e la bolla di accompagnamento per evitare il sequestro e i controlli in dogana. Mascherine provenienti dall’Azerbaijan ma in realtà prodotte in Cina e spacciate per tessuti: cosa bisogna fare per salvarsi la vita.

Elisabetta Reguitti per ilfattoquotidiano.it il 30 marzo 2020. Il dottor Gianbattista Guerrini, direttore sanitario della Fondazione Brescia solidale è chiaro: la situazione nelle residenze per anziani è drammatica: anche se non censiti ufficialmente molti ospiti si ammalano e muoiono di covid-19, e cresce il numero di operatori che contraggono il virus. Guerrini a Brescia è responsabile sanitario di due Residenze sanitarie assistenziali (Rsa) e tre comunità residenziali per anziani, di centri diurni, di servizi domiciliari a non autosufficienti.

Circa 200 persone fra dipendenti e collaboratori che assistono 250 persone in regime residenziale e quasi 200 a domicilio o in regime semiresidenziale. Come stanno andando le cose?

«Non bene. La gestione centralizzata dei presidi fatta dalla protezione civile, che assegna la priorità agli ospedali, ha conseguenze gravi sulle residenze per anziani. Abbiamo avuto enormi difficoltà a reperire mascherine e siamo ridotti ad utilizzare sopra camici monouso visiere confezionate in casa da un gruppo di signore con materiale “di risulta”.  D’altra parte la diffusione del virus ci obbliga ad aumentare gli interventi di prevenzione e a considerare potenzialmente contagiosi tutti gli ospiti delle Rsa. Persone che hanno una vicinanza stretta l’uno all’altro e non sempre sono in grado di comprendere l’importanza e necessità di attuare il distanziamento. Ma come faccio a garantire la sicurezza dei miei ospiti se non sono in grado prima di garantire la sicurezza dei miei operatori? Rsa chiuse all’accesso degli esterni».

All’interno come si vive?

«Se la chiusura delle strutture è stata doverosa, forse non si sono messe in conto le pesanti ricadute sul piano psicologico di chi è già fragile e a cui viene tolta una quotidianità fatta di incontri con i propri affetti e i volontari. Noi ci ingegniamo nell’organizzazione del tempo, curando i contatti degli ospiti con i loro familiari, con chiamate telefoniche e videochiamate: ma gli ospiti avvertono l’assenza dei loro cari e colgono – magari anche solo a livello emotivo – la tensione e la preoccupazione che anche noi facciamo fatica a dissimulare».

Ora regione Lombardia ha deciso di utilizzare le Rsa anche per accogliere i dimessi…

«È giusto accogliere questi pazienti solo se la Rsa può garantire loro un’adeguata assistenza e una ragionevole certezza di non contrarre la malattia proprio nella Rsa: garanzie che molte strutture, già interessate pesantemente dall’epidemia, ora non possono dare».

La nuova emergenza è già trovare letti per chi deve recuperare dall’epidemia…

«Ma tutto ciò presuppone la disponibilità di spazi adeguatamente isolabili dalla restante residenza, di un numero sufficiente di operatori sanitari e socio/sanitari e – preliminare a tutte le altre condizioni – di dispositivi di Protezione per i lavoratori, in particolare le ormai famose mascherine, adeguate per qualità e numero a garantire la tutela al tempo stesso dei lavoratori e dei pazienti che sono loro affidati».

Quindi questa decisione regionale per voi è inaccettabile?

«Rivolgo un invito alle autorità competenti che riflettano. E si rendano conto che già stiamo tamponando in uno sforzo al di sopra delle nostre possibilità. Di fatto gli ospiti delle Rsa in questa pandemia rischiano di non essere neppure accettati in ospedale. La questione va posta rispetto a chi sono gli ospiti delle strutture residenziali: persone molto anziane, con gravi limitazioni della loro autonomia personale ed un quadro clinico caratterizzato dalla presenza di più patologie e da un’elevata instabilità. In queste condizioni, ogni evento patologico (ma anche psicologico o sociale) di una certa gravità rischia di scompensare un equilibrio già instabile e di far precipitare una condizione precaria».

Secondo le stime la scorsa settimana solo a Brescia sarebbero deceduti 20 ospiti a causa di Covid-19.

«Mi limito a dire che si tratta di un dato di certo largamente sottostimato, anche perché molto raramente nelle Rsa abbiamo potuto avere una diagnosi di certezza, dato che il famoso “tampone” viene effettuato solo a chi accede al Pronto Soccorso. Noi abbiamo cercato di predisporre nelle nostre Rsa delle zone dedicate agli ospiti contagiati o con sintomi sospetti. Ma se dieci giorni fa la situazione poteva considerarsi “gestibile”, oggi siamo ben oltre l’emergenza. In questo quadro ognuno deve assumersi le sue responsabilità. Noi di certo non ci sottraiamo ma lo stesso devono fare tutte le istituzioni a cominciare dalla Regione. Alla protezione Civile chiedo di non abbandonarci».

ALESSIA CANDITO per repubblica.it il 27 marzo 2020. Un focolaio che rischia di mandare in tilt l'intero sistema sanitario regionale calabrese. Una residenza per anziani che, dopo Lodi, Palermo, Messina, Brescia, e le innumerevoli ancora sotto osservazione, si trasforma in una potenziale bomba sanitaria. Alla Domus Aurea di Chiaravalle centrale, in provincia di Catanzaro, su 60 ospiti e 41 dipendenti, in meno di 24 ore sono stati accertati 52 casi positivi al coronavirus, tra i quali 40 degenti e 12 operatori, di cui 34 già con febbre e 7 immediatamente trasferiti in ospedale. Altri ulteriori 15 casi sono da rivalutare perché dubbi. "Una catastrofe" si commenta al Dipartimento Salute della Regione, dove si inizia a ragionare sui numeri. E lo scenario è potenzialmente disastroso. A tre settimane dal primo lockdown che ha chiuso l'Italia in casa e reso concreta e urgente la necessità di prepararsi su tutto il territorio nazionale al potenziale dilagare dell'epidemia, la Calabria continua a fare i conti con l'esiguità del suo sistema sanitario. A dispetto delle promesse di rapido potenziamento, i 107 posti di terapia intensiva, già occupati per l’80% dunque con poco più di 20 letti realmente disponibili, di tre settimane fa sono aumentati solo di poche decine. Adesso sulla carta sono 139, ma la dotazione già è stata erosa dai primi 23 pazienti positivi al Covid-19 che necessitano di assistenza respiratoria. Traduzione, in tutta la regione rimarrebbero solo una quarantina di posti, meno dei 52 risultati positivi solo a Chiaravalle, mentre i contagi crescono in tutta la Calabria. "Abbiamo 73 posti di pneumologia, 53 in attivazione, e 146 posti in Malattie infettive" ha detto ieri la governatrice Jole Santelli al Consiglio regionale, che a due mesi dalle elezioni si è riunito per la prima volta. Ma dall'ultimo bollettino regionale 101 sono già stati occupati, con una percentuale di crescita dei casi che si aggira attorno ai 30 in più al giorno. Un numero destinato a schizzare verso l'altro con quello che in Calabria è già il "caso Chiaravalle". A svelare il guaio, il rapido aggravarsi delle condizioni di salute di una degente ultranovantenne. Febbre persistente, tosse senza tregua. I sintomi erano chiari e ormai fin troppo noti ed è stata subito sottoposta a tampone. Quando l'esito positivo è arrivato, subito è scattato l'allarme. Pazienti e personale sono stati tutti sottoposti a screening e il risultato - ancora parziale - è motivo di allerta per tutta la regione. E non solo perché un focolaio in una struttura in cui si concentrano i "casi sensibili" e ad alto rischio ospedalizzazione, nonché mortalità, rischia di mandare in affanno l'intero sistema, ma soprattutto perché potenzialmente infinite sono le reti sociali che si intrecciano alla Domus Aurea di Chiaravalle. Paesino di seimila anime che guarda allo Jonio dalle colline, Chiaravalle centrale fa da cerniera fra il catanzarese e il vibonese e vive in simbiosi con tutti i Comuni limitrofi. Insieme ad altri quattro è stato dichiarato zona rossa da cui non si può né entrare, né uscire, ma i virus non rispettano i check point ed è un'intera area - da cui provengono dipendenti e famiglie dei degenti, fino a qualche tempo fa autorizzate a regolari visite - a gravitare attorno alla Domus Aurea. Un'indagine epidemiologica però al momento è sostanzialmente impossibile. Secondo alcune indiscrezioni, mancano tamponi e operatori sufficienti. Mancano mascherine, tute, occhiali. Per adesso dunque, si cerca di tappare la falla. La Regione ha affidato all'assessorato alla Sicurezza l'istituzione un'unità di crisi per gestire la situazione, ma al momento ci si arrangia come si può. Tramontata per indisponibilità dei gestori o carenze strutturali l'ipotesi di spostare degenti e operatori positivi in un albergo per la quarantena, si è deciso di dividerli per piani all'interno della stessa residenza. Un drastico cambio di rotta dettato dall'unità di crisi regionale, che ribalta le prime disposizioni con cui i responsabili della residenza avevano obbligato tutti - inclusi i dipendenti negativi - a non lasciare la struttura, senza disporre alcun tipo di divisione per cluster. Nel frattempo, si tenta quanto meno di ricostruire su carta la mappa dei contatti di operatori e degenti, in modo da avere cognizione chiara dell'esercito di persone da monitorare e da mettere quarantena. Per testarli non sembrano esserci mezzi. E poi c'è il giallo su come l'epidemia sia arrivata fra gli anziani della Domus Aurea. Secondo le indiscrezioni, il "paziente zero" sarebbe un operatore, che subito avrebbe avvertito i responsabili della struttura di avere un conoscente positivo al Covid-19. Ma la sua richiesta di astensione dal lavoro per la necessaria quarantena sarebbe stata rispedita al mittente. Tutte circostanze da verificare, dicono dalla Regione. Ma dopo. Adesso la priorità è tentare di tappare la falla, nella speranza che non diventi un cratere in grado di affondare la nave.

Cesare Giuzzi per il “Corriere della Sera” l'1 aprile 2020. C' è un pezzo d' arcobaleno che guarda il mondo di fuori. Qualcuno ha appeso il disegno a una finestra del secondo piano che si affaccia su un' aiuola e su panchine dove oggi nessuno può sedersi. Il mondo fuori è immobile, sospeso tra divieti, ordinanze e gente che fuma sui balconi dei palazzi. Quello dentro alla residenza Borromea è invece un mondo dove la vita e la morte sono l' una accanto all' altra. Via Michelangelo 9, Mombretto di Mediglia, nel Milanese. Dietro queste mura di mattoni rossi si nasconde uno dei casi più terribili dell' emergenza coronavirus in Lombardia. Sessantadue morti in meno di un mese su 150 ospiti. Quasi uno su due. Il focolaio di Mediglia è stato il primo «esploso» nelle residenze sanitarie per anziani. I casi iniziali risalgono al 4 marzo, quando la direzione sanitaria della Rsa privata ha comunicato all' Ats la positività di due anziani che il giorno prima erano stati portati al Pronto soccorso. Tre giorni dopo erano già 40, tra pazienti e operatori. Ma nel frattempo i morti erano già diventati cinque, e poche ore dopo venti. Lo racconta il sindaco di Mediglia Paolo Bianchi che lo ha scoperto guardando i dati dell' anagrafe e quei decessi che crescevano di giorno in giorno. Sempre allo stesso indirizzo: «Siamo una cittadina di 12mila abitanti, abbiamo avuto 69 vittime per Covid-19, 62 tutte in via Michelangelo 9. Un dato enorme». Già il 23 febbraio, il sindaco Bianchi aveva ordinato la chiusura alle visite della Rsa come previsto dall' ordinanza del governatore lombardo Attilio Fontana. «Eppure sono continuate. La struttura non è stata chiusa del tutto. Perché?». La domanda adesso rimbalza tra i parenti di chi nella residenza Borromea ha lasciato un pezzo della propria famiglia. C' è Milva Ulturale, 55 anni, che ha perso sua mamma Gilda, 87 anni, e dodici figli cresciuti in via Sem Benelli a Milano, nel popoloso quartiere Gallaratese: «Da bambini ci chiamavano la famiglia Bradford. Alla Rsa ci dicevano che stava bene. Poi quando s' è aggravata, dicevano che si toglieva da sola l' ossigeno, per questo stava male. Ma non è vero niente. Ci hanno chiamato, siamo andati al Pronto soccorso del San Raffaele. Il medico ha detto che non aveva speranze: non l' hanno potuta neppure intubare». Milva ha curato sua madre ogni giorno, da due anni era ricoverata alla Borromea. «Abbiamo dovuto organizzare il funerale, la cremazione, al telefono. Tutti in quarantena. Ricordo che quando sono andata a trovare mia mamma, ai primi di marzo, il personale non indossava neppure le mascherine. Le portavano al collo: "altrimenti gli anziani si spaventano...". Sapete perché adesso voglio sapere la verità? Perché lei lo avrebbe fatto per i suoi figli». Claudia Bianchi, 47 anni, ha invece perso la nonna Palmira. Ottantotto anni, quattro figli: «Avete presente la classica nonna che cucina per tutta la famiglia, che non si ferma mai? Ecco. Io ero quasi gelosa, perché nel nostro palazzo a Peschiera Borromeo tutti la chiamavano "nonna" e lei ha cresciuto tutti i bambini come suoi nipoti». È morta la sera del 16 marzo. «La mattina ci hanno detto che stava bene. Alle 18 l' hanno messa sotto ossigeno, alle nove e mezza di sera ha smesso di respirare». La nipote racconta che Palmira negli ultimi tempi soffriva d' Alzheimer, ma gli esami erano a posto: «Nessuno ci ha avvisato, nessuno ci ha detto che lì dentro era esploso un focolaio. Lo abbiamo scoperto grazie a una lettera del sindaco. Perché le famiglie non sono state avvisate? Quali controlli sono stati fatti dall' Ats sulla catena dei contatti di vittime e positivi? Sui fornitori che entravano nella struttura? Non so se otterremo mai giustizia, ma lì dentro qualcosa è successo. Ed è stato davvero come una guerra». La società che gestisce la Borromea e il direttore sanitario hanno ricostruito la loro versione in una relazione datata 18 marzo. Dicono di aver applicato dal 22 febbraio - 48 ore dopo la scoperta del paziente zero a Codogno -, le procedure stabilite dall' Ats, di aver sempre informato i vertici dell' Ats Città di Milano e di aver messo in sicurezza gli asintomatici». Come la mamma di Cinzia. La incontriamo all' uscita della Rsa. Ha in mano una borsa di vestiti. Accanto a lei c' è un' altra donna alla quale sono stati consegnati abiti ed effetti personali della madre morta da poco. «Mia mamma sta bene, è cardiopatica e diabetica ma per fortuna non ha nessun sintomo - racconta Cinzia -. Non si rende conto di nulla, è affetta da demenza senile. Io vengo qui, entro nel cortile, la saluto attraverso il vetro delle finestre. Lei mi guarda, mi riconosce e sorride. Quello che sta succedendo lì dentro è terribile». Cinzia Bisoni, assieme a Leonardo La Rocca, altro parente di ricoverati, sta cercando di mettersi in contatto con tutti i familiari e dar vita a un comitato. L' idea è di arrivare a un esposto. Cinzia è in collegamento con il sindaco Bianchi e gli altri primi cittadini della zona. Perché la Rsa Borromea è un punto di riferimento per quest' area di provincia tra Milano, Lodi e Cremona. «Ho scritto due volte all' Ats - racconta Bianchi -. Ho chiesto la sanificazione come sta avvenendo a Bergamo, con l' esercito. Poi non ho saputo più nulla. Il problema è proprio questo: la comunicazione. Nessuno dice niente. C' è anche chi ha perso un familiare e ha scritto in Comune per ringraziarci: perché solo noi li avevamo avvisati».

Matteo Pucciarelli e Zita Dazzi per “la Repubblica” il 26 marzo 2020. «Mia nonna Palmira avrebbe compiuto 89 anni fra pochi giorni, non abbiamo potuto starle accanto mentre ci lasciava. Ci hanno chiamato solo dopo che era morta, il 16 marzo, alle 21.30. Ma quando ancora ci facevano entrare in casa di riposo, non ci hanno nemmeno avvertiti che c' erano stati dei casi di coronavirus. Quindi noi siamo tornati in famiglia e ci siamo probabilmente contagiati tutti, compresa mia mamma che è cardiopatica. Anche se ad oggi nessuno ci ha fatto un tampone», racconta Claudia Bianchi, 47 anni. Sua nonna era ospite della residenza di Mediglia, hinterland milanese. «Una volta che il virus entra nelle case di riposo, gli anziani muoiono come mosche», dice senza girarci troppo intorno Luca Degani, presidente dell' associazione Uneba, che rappresenta il 60 per cento delle case di riposo della Lombardia. I numeri sono impressionanti e parlano da sé: a Mediglia in pochi giorni se ne sono andati 56 ospiti e altri 100 sono ammalati, alla Santa Chiara di Lodi ne sono morti 43, a Gandino (Bergamo) 24, a Quinzano d' Oglio (Brescia) 20 e l' elenco potrebbe continuare. Anche fuori dalla Lombardia sta accadendo lo stesso: in Trentino 13 morti in un giorno nelle rsa, a Cossato (Biella) sei deceduti in quattro giorni, e poi centinaia di infettati in tutta Italia, dalla Liguria alla Sicilia, dalle Marche alla Puglia. Non solo gli anziani però, perché si stanno ammalando decine di operatori sanitari e di assistenza delle strutture, che per settimane hanno lavorato senza alcun dispositivo di protezione individuale. Entrando ed uscendo dal luogo di lavoro, ogni giorno. Dietro alla freddezza dei numeri, alla distanza che separa chi sta dentro questi ospizi e chi continua la sua vita fuori, ci sono però ragioni e sentimenti fortissimi spezzati senza neanche capire bene cosa stesse accadendo. Luoghi dove gli anziani non autosufficienti - insieme ai bambini le persone più fragili della nostra società - vanno via uno dietro l' altro e il personale scappa, perché intuisce che dentro a quei reparti l' unico destino che unisce tutti è quello del contagio. «I nostri vecchi non ce li ridarà più nessuno, ma ci stiamo organizzando in un comitato e abbiamo dato incarico a un legale di presentare una denuncia contro ignoti», spiega Leonardo La Rocca, dipendente pubblico lombardo, 43 anni, che dentro alla Borromea sempre di Mediglia ha la nonna di sua moglie, 90 anni, che lotta fra la vita e la morte; in più però ha visto infettarsi anche i suoceri settantenni, entrati nella struttura fino al 22 marzo, dopo che c' erano stati i primi morti. «Nessuno li aveva avvertiti, li hanno fatti entrare con la mascherina, ma la nonna non l' aveva, come non l' aveva il personale sanitario - aggiunge La Rocca - Quindi sono rientrati a casa e hanno infettato mezzo condominio, prima di stare male e di fare il tampone che li ha certificati anche loro come positivi». Aggiunge Laura Olivi, sindacalista della Fp Cisl lombarda, che «all' inizio dell' emergenza in molte case di riposo venne addirittura chiesto agli assistenti di non mettere le mascherine perché avrebbero spaventato gli anziani ». Non sempre poi i morti di queste strutture rientrano nel computo finale delle vittime dei coronavirus, perché non si fa neanche in tempo a fargli un tampone. Ora che il problema nelle residenze è conclamato un po' in tutto il Paese, ospiti e parenti sono terrorizzati e il registro è simile ovunque: vietate le visite, voci di nuovi ammalati che si rincorrono, direzioni delle strutture bombardate di chiamate e richieste di chiarimento, lavoratori in malattia e mancanza di ricambio in corsia. Vincenzo ha la zia di 74 anni ricoverata alla Gerosa Brichetto di Milano e si domanda semplicemente se la donna sta avendo le dovute cure a attenzioni, in mezzo a questo caos: «Come faccio a saperlo, se non posso più vederla?». È una richiesta banale, eppure ciò che prima era ovvio oggi non lo è più.

Un anziano di 90 anni, che era ospite della struttura, è morto ieri nell'ospedale di Partinico, nove sono ricoverati nello stesso nosocomio trasformato in Covid Hospital. A dare la notizia è stato il sindaco di Villafrati, Francesco Agnello, in una diretta Facebook, annunciando che il paese sta per essere dichiarata "zona rossa". Trentuno di queste persone sono i pazienti della struttura che sarebbe stata infettata dalla visita di una giovane proveniente dalla Lombardia. Villafrati diventa così “zona rossa” come Salemi e Agira, come ha deciso, con una propria ordinanza, il Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 24 marzo 2020. Le vittime ormai non si contano più. Una strage silenziosa, coperta dal rumore dei numeri enormi dei morti e dei contagi di questa emergenza: ogni giorno l'epidemia dilaga dentro le case di riposo e nelle Residenze sanitarie assistite (Rsa) di tutta Italia, falcidiando decine di anziani e seminando nuovi positivi tra gli ospiti e il personale che li assiste. A rischio sono 300mila persone, in gran parte non autosufficienti, i più fragili, quelli che più di tutti bisognerebbe proteggere. Il caso più drammatico è quello di Mediglia, comune di poco più di 12mila abitanti alle porte di Milano: 52 persone sono morte nella Rsa di Mombretto, struttura che conta 150 ospiti. È il 23 febbraio quando vengono accertati i primi 4 casi: da quel momento, l' infezione è inarrestabile. La struttura si blinda. I familiari lamentano ritardi nel comunicare il contagio in corso, con il rischio che l' infezione sia stata trasmessa a chi, ignaro, nei giorni precedenti alla scoperta era andato a visitare genitori o nonni. Lamentano le difficoltà a comunicare con i propri cari ora che sono irraggiungibili oltre i cancelli. «Tutte le strategie mediche e organizzative sono state condivise con l' Ats di Milano», fa sapere la Residenza Borromea. Ma la rabbia monta tra i parenti, pronti a presentare denuncia. «Io mi chiedo come sia possibile che, con più di 50 morti, nessuno in Regione Lombardia sia ancora intervenuto», commenta Leonardo Larocca: i genitori di sua moglie sono positivi dopo una visita alla nonna, ospite della Rsa: «Non sapevamo cosa stava accadendo, e ora mio suocero è in condizioni critiche». Ma Mediglia non è che la punta dell' iceberg. Nei giorni scorsi a lanciare l' allarme sono state Uecoop, che ha chiesto di dotare gli operatori di tutti gli strumenti di protezione e lo Spi Cgil, che ha definito le case di riposo «bombe a orologeria pronte a esplodere». I morti sono già troppi: la vita di comunità accelera il contagio, i tamponi vengono fatti col contagocce, il personale insufficiente e spesso privo di protezioni adeguate. Nella casa di riposo di Quinzano d' Oglio, in provincia di Brescia, gli anziani morti dall' inizio dell' epidemia sono 18. A Gandino, in Val Seriana (Brescia), dal 24 febbraio si contano 15 decessi, mentre una quarantina di ospiti ha la febbre. A Barbariga, nella Bassa bresciana, gli anziani ospiti morti per Covid-19 sono sette, altri otto sono risultati positivi. Merlara, provincia di Padova: dieci morti. Cingoli, provincia di Macerata: 4 vittime. Un elenco terribile, che potrebbe continuare. «Mancano mascherine e presidi, e non possiamo fare i tamponi: se il virus sfonda nelle Rsa sarà la Caporetto», è l' allarme di Paolo Pigni, direttore della Fondazione Sacra Famiglia, che guida la residenza per anziani di Cesano Boscone, tra le più grandi della Lombardia. La sede centrale è salva, ma dentro le filiali di Perledo e di Settimo Milanese il contagio è in corso. Non è solo il Nord a registrare infezioni a cascata nelle strutture per anziani: a Bucine, in provincia di Arezzo, contagiati 22 degenti su 83, positivi anche 8 operatori. A Bari un uomo è morto e 9 persone sono positive nel centro per anziani Don Guanella. Casi segnalati in Sicilia, a Palermo come a Messina, ma anche nel Lazio dove, a Civitavecchia, nella Rsa Madonna del Rosario, in 46 sono positivi. Così, per tutelare chi è indifeso, c' è chi decide di mettersi in isolamento volontario con gli ospiti. È la scelta che hanno fatto, in Liguria, i dipendenti di Villa San Fortunato: da ieri, nella sede di Rapallo e in quella di Camogli, infermieri, operatori socio-sanitari, cuoche si sono blindati con gli anziani. Per un paio di settimane tutti dentro, per proteggere i nonni.

Da "repubblica.it" il 24 marzo 2020. Salgono a 69 le persone positive al coronavirus tra gli assistiti e il personale di una casa di riposo di Villafrati, nel palermitano. Altre 53 persone sono risultate infatti contagiate dopo essere state sottoposte al tamponepresidente della Regione  Nello Musumeci, sentito il primo cittadino. Fino al 15 aprile, nel piccolo centro palermitano ci sarà il divieto di accesso e di allontanamento dal territorio comunale e la sospensione di ogni attività degli uffici pubblici, ad eccezione dei servizi essenziali e di pubblica utilità. Potranno entrare e uscire dal paese solo gli operatori sanitari e socio-sanitari, il personale impegnato nell'assistenza alle attività inerenti l’emergenza. Il sindaco si è già sentito con i vertici regionali della sanità e con l'assessore Ruggero Razza, che già domenica aveva disposto l'isolamento per tutti gli ospiti e il personale della casa di riposo dopo l'esito dei primi 16 tamponi. Nella struttura sono assistiti 60 anziani e operano 75 dipendenti. "Noi abbiamo cinque strutture per anziani nel comune, cinque eccellenze - ha aggiunto il sindaco nella sua diretta Facebook -. Dobbiamo scongiurare che ci possa essere il contagio in altre realtà. Invito tutti i cittadini a rispettare le disposizioni. Una volta che sapremo chi sono i positivi le famiglie dovranno osservare una quarantena. Saranno tutti controllati". Un commissario all'Ircss Oasi Maria Santissima di Troina per contrastare l'eventuale dilagare del Coronavirus. Con un proprio decreto, l'assessore alla Salute, Ruggero Razza, su input del presidente della Regione, Nello Musumeci, ha nominato Giuseppe Murolo quale commissario per l'emergenza sanitaria nella struttura dell'Ennese che ospita persone con fragilità e nella quale si sono verificati alcuni casi di contagio. Murolo, responsabile del servizio di "Qualità, governo clinico e Centro regionale per la gestione del rischio sanitario e la sicurezza del paziente", che fa capo al dipartimento per le Attività  sanitarie e osservatorio epidemiologico dell'assessorato alla Salute, opererà in affiancamento alla direzione sanitaria dell'Oasi per rafforzarla sotto il profilo organizzativo in un momento particolarmente delicato per l'intera comunità troinese. Il neo-commissario ha già incontrato i vertici della struttura per definire un piano straordinario di prevenzione e contenimento del contagio.

Boom di contagi da coronavirus: Villafrati diventa zona rossa. Salgono a 62 i casi di contagio all'interno della casa di riposo del piccolo comune del Palermitano. Questa notte il presidente Musumeci ha firmato l'ordinanza che rende Villafrati zona rossa. Vincenzo Ganci, Martedì 24/03/2020 su Il Giornale. É diventata il simbolo - in negativo - della fuga dal Nord. Dopo Agira, nell’ennese, e Salemi nel trapanese, in Sicilia da questa notte c’è un terzo paese considerato come zona rossa. Si tratta di Villafrati, piccolo centro di 3 mila abitanti nel palermitano, che ha fatto registrare un boom di contagi nelle ultime ore: ben 62. Dalla mezzanotte di oggi (24 marzo 2020) e fino al 15 aprile 2020, il presidente della Regione Nello Musumeci ha disposto le seguenti ulteriori misure: “divieto di accesso e di allontanamento dal territorio comunale, con mezzi pubblici e/o privati, da parte di ogni soggetto ivi presente; sospensione di ogni attività degli uffici pubblici, fatta salva la erogazione dei servizi essenziali e di pubblica utilità". Dal piccolo comune, potranno entrare e uscire esclusivamente gli operatori sanitari e socio-sanitari, il personale impegnato nella assistenza alle attività inerenti l’emergenza, nonché esclusivamente per la fornitura delle attività essenziali del territorio comunale. La mancata osservanza degli obblighi dell’ordinanza comporta le conseguenze sanzionatorie previste dall’articolo 650 del Codice penale se il fatto non costituisce reato più grave. Il provvedimento - spiegano dalla Regione - si è reso necessario, per evitare il diffondersi del contagio del Covid-19, dopo che gli uffici dell'Asp hanno segnalato all'interno di una Residenza sanitaria assistita ben 62 casi di positività al coronavirus. La Rsa era stata isolata già domenica scorsa per via di un preoccupante numero di casi di positività al coronavirus accertati. All'interno della struttura il coronavirus è circolato - come dimostrano i test - indisturbato. E proprio ieri un anziano di 91 anni, ospite della struttura, è morto dopo essere stato trasferito al Covid-Hospital di Partinico. L’uomo era ricoverato da qualche giorno all’ospedale Civico, riconvertito appena una settimana fa, in una struttura adatta al trattamento dei pazienti affetti da coronavirus. Nella residenza villa delle Palme sono assistiti 60 anziani e lavorano 75 dipendenti. "Questa comunicazione - ha detto in diretta Facebook il sindaco Francesco Agnello - era l’ultima che speravo di dover dare. Gli esami hanno dato un esito poco confortante. Ancora non abbiamo i nominativi ma abbiamo già iniziato a lavorare. Il presidente Musumeci adotterà forse già nella notte un’ordinanza di chiusura del paese, il comune diventerà zona rossa com’è accaduto ad Agira e Salemi". "Noi abbiamo cinque strutture per anziani nel comune, cinque eccellenze - ha spiegato il sindaco Agnello -. Dobbiamo scongiurare che ci possa essere il contagio in altre realtà. Invito tutti i cittadini a rispettare le disposizioni. Una volta che sapremo chi sono i positivi le famiglie dovranno osservare una quarantena. Saranno tutti controllati".

Coronavirus, 52 morti tra gli anziani di una casa di riposo a Mediglia. I parenti: "Vogliamo verità". Il primo caso conclamato il 4 marzo, poi un terzo degli anziani ospiti è morto, quasi tutti i tamponi sono risultati positivi. Le famiglie hanno formato un comitato: "Vogliamo sapere se sono state adottate tutte le procedure, abbiamo paura anche per la nostra salute". Zita Dazzi il 24 Marzo 2020 su La Repubblica. Sono morti uno dopo l'altro, in venti giorni, nel pieno dell'emergenza coronavirus. A Mediglia, in provincia di Milano, 52 anziani sono deceduti nella casa di riposo "Residenza Borromea" dove vivevano. E adesso i loro parenti vogliono giustizia e chiarezza. Hanno formato un comitato che agirà nei confronti della Regione e dell'Ats per capire come siano andate le cose. "Noi ci domandiamo come sia possibile, se abbiano preso le misure necessarie", dicono adesso i parenti. Dall'amministrazione della casa di riposo confermano il numero delle vittime e la situazione difficile. "Avevamo 150 ospiti, 52 sono mancati. Noi abbiamo adottato tutte le misure previste dalle linee guida della Regione e abbiamo agito sotto stretto controllo di Ats sia per garantire la salute dei nostri anziani, sia per tutelare la sicurezza dei nostri 70 operatori socio sanitari. Il primo caso conclamato è stato il 4 marzo, da lì abbiamo fatto quel che ci dicevano le autorità sanitarie giorno per giorno. Abbiamo chiuso la struttura ai visitatori, ai parenti, abbiamo cercato di far organizzare video chiamate fra gli anziani e le famiglie". Ma i parenti sono tutt'altro che rassicurati. "Nessuno ci ha avvertito per tempo, anche solo per dirci che la nonna era positiva al coronavirus - punta il dito Claudia Bianchi - . Siamo tutti probabilmente stati contagiati perché abbiamo visitato la residenza dove stava mia nonna Palmira fino al 23 febbraio: possibile che ci abbiano avvisato solo il 16 marzo che la nonna stava mancando?". Oltre ad aver perso i parenti senza neanche poterli salutare, le famiglie si sentono a rischio. "Ci sono stati oltre 50 morti e con tutte le famiglie il comportamento è stato uguale. Il sindaco di Mediglia ha scritto a tutti, spiegando che c'erano state dei contagi e che all'interno erano state adottate le misure di prevenzione. Ma nessuno si è curato di noi: né visita medica, né tampone". Il comitato di parenti vuole sapere quali sono state le misure prese da Ats per cercare di dividere fra gli ospiti quelli sani da quelli che purtroppo erano ammalati. L'altra domanda riguarda gli operatori: all'interno sono state adottate tutte le misure di sicurezza? Sono stati fatti i tamponi? Dalla Rsa arrivano rassicurazioni: "Sono state messe in campo in queste ultime tre settimane da parte dei medici, degli infermieri e di tutto il personale della struttura tutte le misure per fronteggiare l'emergenza. Ats ha dettato le corrette modalità e quantità di tamponi da eseguire sugli ospiti" e gli oltre 43 tamponi eseguiti sono risultati tutti positivi". Protestano anche i sindacati pensionati di Cgil, Cisl e Uil: "Chiederemo alle prefetture lombarde di essere informati sulle situazioni degli anziani nelle case di cura e di riposo", dice  Valerio Zanolla, segretario generale di Spi Cgil.

L’epidemia dilagata nelle case di riposo: 25 vittime soltanto a Mediglia, personale malato. E a Cingoli «anziani isolati». Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Galli e Gianni Santucci. Nel pomeriggio di sabato scorso, il sindaco di Mediglia Paolo Bianchi legge un comunicato della casa di riposo «Borromea». Il Covid-19 è entrato in quella costruzione di mattoni rossi prima che l’epidemia deflagrasse a Codogno. «La struttura è isolata dal 23 febbraio - spiega Bianchi, scorrendo il comunicato della direzione sanitaria -, quando quattro casi “positivi” sono stati accertati in pronto soccorso». Da allora sono stati fatti tamponi. Molti tamponi. Esito, ancora «positivo». Hanno iniziato ad ammalarsi medici, infermieri, operatori, e anziani. Si sono scambiati il virus. Hanno provato ad arginarlo. Il contagio è dilagato. Il punto di rottura è arrivato quando s’è posto il problema di come gestire le salme. I parenti non potevano entrare. Assediavano la struttura e il Comune per avere informazioni. «Ci sono stati diversi decessi» ha comunicato il sindaco. Il Corriere puoi rivelare quanti: 25 anziani morti in 23 giorni. Mediglia dista poco più di 15 chilometri da Milano; la casa di riposo è un cimitero. L’isolamento, la malattia che avanza, le morti che si susseguono. Sembra Cassandra crossing , il film del 1976, il treno degli infettati da un virus sconosciuto che viene blindato e destinato all’estinzione. Quelle delle case di riposo per anziani sono le storie finora meno raccontate della Lombardia in epoca di Covid-19. È successo a Mediglia, può succedere a Milano, forse sta già iniziando ad accadere. Domenica, il figlio di una donna ricoverata alla «Casa famiglia» di Affori è riuscito a parlare al telefono con un infermiere. Anche quella Rsa, Residenza sanitaria per anziani, è isolata. L’infermiere al telefono aveva il fiatone. Ha detto: «Sua madre ha febbre alta e tosse. Può succedere di tutto, da un momento all’altro». Tre differenti altri familiari rintracciati dal Corriere ripetono l’identico scenario: anziani genitori con febbre e tosse, qualche operatore ammalato. Il contagio del contagio. I sindacati degli operatori delle Rsa e del Pio albergo Trivulzio stanno inviando lettere drammatiche e furiose in Regione e all’Ats. «Non abbiamo mascherine. Non abbiamo protezioni. Nel nostro lavoro, per la cura di anziani non autosufficienti è impossibile rispettare le distanze. I contatti sono diretti e continui. Se entra il virus, sarà il disastro. L’arrivo nelle Rsa dei pazienti Covid-19 in convalescenza per liberare posti negli ospedali è un rischio che ci mette in estremo allarme». Nella Rsa comunale e accreditata «Virgilio Ferrari», al Corvetto, l’intero sesto piano è in quarantena. Ci sono stati quattro decessi in ospedale, di pazienti molto anziani. Il direttore sanitario è in malattia da 10 giorni. «Se non si blocca il contagio subito, le case di riposo verranno decimate», racconta un medico. Dall’interno arrivano queste voci (e nessuno, consapevole della generale emergenza, critica un servizio sanitario sotto estrema e inedita pressione, ma descrive un dramma umano di proporzioni incalcolabili pur di fronte a una resistenza «eroica»): «La situazione nella residenza sta degenerando, i pazienti sono isolati da due settimane, ma le infezioni continuano a salire con almeno 10 casi confermati da tampone nasofaringeo in ospedale e un gran numero di pazienti che non sono potuti arrivare a fare il tampone in ospedale, ma hanno sintomi di Civid-19 con febbre e necessità di ossigeno». Camici, mascherine e protezioni hanno iniziato a scarseggiare da inizio mese. Se il coronavirus entra nelle case di riposo, gli operatori si ammalano; gli infermieri che restano al lavoro devono curare un numero maggiore di pazienti; lo fanno senza le protezioni necessarie, senza potersi cambiare tra un intervento e l’altro. Ecco perché la malattia può dilagare. Altro racconto dalla «Virgilio Ferrari», stavolta della figlia di un’ospite: «Mia madre morirà sola, senza il minimo supporto; la maggior parte degli operatori è già malato oppure rimane a lavorare in modo eroico, ma nel contesto agghiacciante di totale carenza di personale». Di fronte a questa catena di drammi, un medico riflette sui segni che il Covid-19 nelle Rsa potrebbe lasciare su chi rimarrà in vita: «I danni psicologici per gli operatori sanitari, come quelli che lavorano a Mediglia, saranno indelebili e devastanti, perché avranno visto morire senza poter fare nulla decine di anziani che magari avevano curato per anni. E poi ci sono le famiglie, costrette a restare distanti, senza notizie, senza informazioni. Un certo giorno, queste figlie e questi figli verranno avvertiti della morte di un proprio caro. E tutto finirà lì». Tra i casi da monitorare, la «Sant’Erasmo» a Legnano. Quattro i decessi negli ultimi giorni, s’ignora se correlati al virus. Però ci sono alcuni dati oggettivi. Non s’era mai verificato un picco di morti in uno spazio temporale così ridotto; un anziano positivo è stato trasportato via in ambulanza ma poi riportato indietro, forse perché non è stato trovato un posto letto; infine, già due donne del personale sono state contagiate. La direzione ha rimodulato gli spazi, per isolare quell’anziano e trasferire gli altri. Ma manca tutto. A cominciare dalle mascherine. Un’azienda di Busto Arsizio ha completato la riconversione e potrebbe provvedere. Nell’attesa, si vive alla giornata. Anzi, all’ora. Il rischio di nuove Mediglia è concreto. Da mercoledì, il sacerdote che entrava per dir messa non ha più potuto accedere alla casa di riposo, dove era terminato lo spazio per le bare; come raccontano le ditte di onoranze funebri della zona, ai famigliari è stato «ordinato» di scegliere la cremazione, poi eseguita di corsa. In rapida serie.

Andrea Galli e Gianni Santucci da milano.corriere.it il 18 marzo 2020. Nel pomeriggio di sabato scorso, il sindaco di Mediglia Paolo Bianchi legge un comunicato della casa di riposo «Borromea». Il Covid-19 è entrato in quella costruzione di mattoni rossi prima che l’epidemia deflagrasse a Codogno. «La struttura è isolata dal 23 febbraio - spiega Bianchi, scorrendo il comunicato della direzione sanitaria -, quando quattro casi “positivi” sono stati accertati in pronto soccorso». Da allora sono stati fatti tamponi. Molti tamponi. Esito, ancora «positivo». Hanno iniziato ad ammalarsi medici, infermieri, operatori, e anziani. Si sono scambiati il virus. Hanno provato ad arginarlo. Il contagio è dilagato. Il punto di rottura è arrivato quando s’è posto il problema di come gestire le salme. I parenti non potevano entrare. Assediavano la struttura e il Comune per avere informazioni. «Ci sono stati diversi decessi» ha comunicato il sindaco. Il Corriere puoi rivelare quanti: 25 anziani morti in 23 giorni.

«Ha la febbre». Mediglia dista poco più di 15 chilometri da Milano; la casa di riposo è un cimitero. L’isolamento, la malattia che avanza, le morti che si susseguono. Sembra Cassandra crossing , il film del 1976, il treno degli infettati da un virus sconosciuto che viene blindato e destinato all’estinzione. Quelle delle case di riposo per anziani sono le storie finora meno raccontate della Lombardia in epoca di Covid-19. È successo a Mediglia, può succedere a Milano, forse sta già iniziando ad accadere. Domenica, il figlio di una donna ricoverata alla «Casa famiglia» di Affori è riuscito a parlare al telefono con un infermiere. Anche quella Rsa, Residenza sanitaria per anziani, è isolata. L’infermiere al telefono aveva il fiatone. Ha detto: «Sua madre ha febbre alta e tosse. Può succedere di tutto, da un momento all’altro». Tre differenti altri familiari rintracciati dal Corriere ripetono l’identico scenario: anziani genitori con febbre e tosse, qualche operatore ammalato. Il contagio del contagio. I sindacati degli operatori delle Rsa e del Pio albergo Trivulzio stanno inviando lettere drammatiche e furiose in Regione e all’Ats. «Non abbiamo mascherine. Non abbiamo protezioni. Nel nostro lavoro, per la cura di anziani non autosufficienti è impossibile rispettare le distanze. I contatti sono diretti e continui. Se entra il virus, sarà il disastro. L’arrivo nelle Rsa dei pazienti Covid-19 in convalescenza per liberare posti negli ospedali è un rischio che ci mette in estremo allarme».

«Sta degenerando». Nella Rsa comunale e accreditata «Virgilio Ferrari», al Corvetto, l’intero sesto piano è in quarantena. Ci sono stati quattro decessi in ospedale, di pazienti molto anziani. Il direttore sanitario è in malattia da 10 giorni. «Se non si blocca il contagio subito, le case di riposo verranno decimate», racconta un medico. Dall’interno arrivano queste voci (e nessuno, consapevole della generale emergenza, critica un servizio sanitario sotto estrema e inedita pressione, ma descrive un dramma umano di proporzioni incalcolabili pur di fronte a una resistenza «eroica»): «La situazione nella residenza sta degenerando, i pazienti sono isolati da due settimane, ma le infezioni continuano a salire con almeno 10 casi confermati da tampone nasofaringeo in ospedale e un gran numero di pazienti che non sono potuti arrivare a fare il tampone in ospedale, ma hanno sintomi di Civid-19 con febbre e necessità di ossigeno». Camici, mascherine e protezioni hanno iniziato a scarseggiare da inizio mese. Se il coronavirus entra nelle case di riposo, gli operatori si ammalano; gli infermieri che restano al lavoro devono curare un numero maggiore di pazienti; lo fanno senza le protezioni necessarie, senza potersi cambiare tra un intervento e l’altro. Ecco perché la malattia può dilagare. Altro racconto dalla «Virgilio Ferrari», stavolta della figlia di un’ospite: «Mia madre morirà sola, senza il minimo supporto; la maggior parte degli operatori è già malato oppure rimane a lavorare in modo eroico, ma nel contesto agghiacciante di totale carenza di personale».

Le cicatrici. Di fronte a questa catena di drammi, un medico riflette sui segni che il Covid-19 nelle Rsa potrebbe lasciare su chi rimarrà in vita: «I danni psicologici per gli operatori sanitari, come quelli che lavorano a Mediglia, saranno indelebili e devastanti, perché avranno visto morire senza poter fare nulla decine di anziani che magari avevano curato per anni. E poi ci sono le famiglie, costrette a restare distanti, senza notizie, senza informazioni. Un certo giorno, queste figlie e questi figli verranno avvertiti della morte di un proprio caro. E tutto finirà lì». Tra i casi da monitorare, la «Sant’Erasmo» a Legnano. Quattro i decessi negli ultimi giorni, s’ignora se correlati al virus. Però ci sono alcuni dati oggettivi. Non s’era mai verificato un picco di morti in uno spazio temporale così ridotto; un anziano positivo è stato trasportato via in ambulanza ma poi riportato indietro, forse perché non è stato trovato un posto letto; infine, già due donne del personale sono state contagiate. La direzione ha rimodulato gli spazi, per isolare quell’anziano e trasferire gli altri. Ma manca tutto. A cominciare dalle mascherine. Un’azienda di Busto Arsizio ha completato la riconversione e potrebbe provvedere. Nell’attesa, si vive alla giornata. Anzi, all’ora. Il rischio di nuove Mediglia è concreto. Da mercoledì, il sacerdote che entrava per dir messa non ha più potuto accedere alla casa di riposo, dove era terminato lo spazio per le bare; come raccontano le ditte di onoranze funebri della zona, ai famigliari è stato «ordinato» di scegliere la cremazione, poi eseguita di corsa. In rapida serie.

 Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2020. È come se dal balcone delle Marche si vedesse l' Italia intera. Ai funerali della signora Isolina, c' era la sua primogenita con il marito, un nipote, e altre due persone che non ricorda nessuno, neppure il prete che ha officiato una funzione durata un quarto d' ora appena. Era una donna benvoluta, che nella vita aveva allevato i figli e dispensato buon umore con il suo carattere gioviale. Un mese fa, non si era sentita bene. Per la prima volta. Il suo unico problema, fino a quel momento, era stata l' età che avanzava, e due anni fa l' aveva convinta a ritirarsi nella casa di riposo, non distante dai suoi cari e dagli amici. L' avevano portata in ambulanza alle Torrette di Ancona, l' ospedale regionale, dove era rimasta in cura per una settimana prima di ritornare nella sua stanza. Pochi giorni dopo si è sentita male di nuovo. Tampone. Positiva. Trasferimento d' urgenza al nosocomio di Camerino, che ormai i media marchigiani definiscono l' ospedale Covid-19, in quanto svuotato di quasi ogni altro paziente. La signora Isolina è mancata poche ore dopo il suo arrivo. È stata la prima ospite della casa di riposo a essere contagiata, la seconda a morire. Non ha nemmeno più troppa importanza capire come sia potuto accadere, con la sequenza sopra riportata che si è svolta quando l' epidemia di coronavirus era già scoppiata e il Paese intero stava chiudendo per paura del contagio. Quello che è successo dopo è un agile riassunto degli stati d' animo di tutti noi, una somma di paura e impotenza, forse anche di impreparazione rispetto alla velocità di questo male subdolo e carogna. Cingoli è una meraviglia di paese sulle colline della provincia di Macerata, non a caso inserito nella lista dei borghi più belli d' Italia. La sua posizione panoramica gli vale praticamente da sempre il soprannome di balcone delle Marche. La casa di riposo non ha un vero e proprio nome. Il Comune affitta i locali dalla comunità delle monache benedettine che hanno sede ad Assisi. Era un piccolo monastero attiguo alla chiesa nel centro del paese, mai più riaperta dopo il terremoto del 2016. Nel 2000 venne rimesso a nuovo per il Giubileo. L'anno dopo venne inaugurata la casa di riposo, una manna per un posto dall' età media molto elevata, oltre i sessant'anni. «Era un monastero, non un lazzaretto» impreca il sindaco Michele Vittori. Quando è arrivata la prima diagnosi, era già troppo tardi. O forse no. Ai quaranta ospiti della casa di riposo è stato fatto il tampone. Trentasei positivi. Altri quattro tra gli otto operatori che ci lavorano. Ancora prima della signora Isolina il coronavirus ha spento il signor Raffaele, l' ospite più antico, invalido grave, mai sposato, solo al mondo. Aveva appena 69 anni. Mentre il resto d' Italia entrava in un isolamento più o meno volontario, questa casa di pietra grezza che dovrebbe essere un porto sicuro per le persone più anziane e deboli, veniva sbarrato. Vittori aveva chiesto l' evacuazione delle struttura. Ma siamo nelle Marche, la regione più in difficoltà in termini di capienza ospedaliera dopo la Lombardia. «Non riusciamo a trovare infermieri per la casa di riposo» dice il sindaco, «dove la maggior parte dei pensionati, oltre che curati, devono essere anche accuditi e nutriti». La richiesta di ottenere medici militari è caduta nel vuoto, finora. Vietato uscire e vietato entrare, tranne che per pochi operatori sanitari. Non avendo riscontrato sintomi come polmonite o febbre alta, l' Asur, azienda sanitaria regionale, ha scelto di far rimanere nella struttura tutte le persone contagiate. Quando hai un focolaio così potente, il più forte finora nelle Marche, ma così delimitato, non resta che chiuderlo, con le persone che ci sono dentro. La realtà è questa. Il Comune, che ha come assessore alla Sanità l' ex deputato di Forza Italia Filippo Saltamartini, punta il dito contro la Regione. Ieri l' Asur ha replicato con durezza. «Basta mistificazioni. La gestione della struttura è del Comune. La responsabilità è di chi non ha mai controllato cosa stava succedendo là dentro». All' interno della casa di riposo, si resiste. «Mia mamma ha quasi novant' anni ma si ritiene abile e arruolata» afferma il figlio di una ospite. «Stanno cercando di aiutarsi l' un altro, che altro possono fare?». All' inizio di un corridoio ci sono gli stanzoni dei pensionati e degli infermieri positivi. In fondo si sono sistemati i pochi negativi che ancora restano tali. E si salvi chi può.

Bari, anziano positivo in casa di riposo: 100 tamponi a ospiti. Le visite dei parenti erano state sospese da giorni le visite dei parenti. La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Marzo 2020. Un ospite del centro per anziani Don Guanella di Bari è risultato positivo al coronavirus. L’anziano, ricoverato in ospedale nei giorni scorsi con i sintomi tipici del Covid-19, è stato sottoposto a tampone risultando positivo. La notizia viene confermata all’ANSA dalla struttura che, dopo aver appreso telefonicamente la notizia del contagio, ha allertato la Asl chiedendo, «di concerto con le autorità sanitarie» spiega il coordinatore sanitario del centro, il dottor Antonio Tarantino, di sottoporre a tampone tutti gli altri anziani ospiti, circa un centinaio, e gli operatori del centro. «Al momento nessuno - rassicura Tarantino - presenta sintomi sospetti». Nella casa di riposo barese, come da decreto del Governo, sono da giorni sospese le visite dei familiari a tutela degli ospiti, proprio per limitare il rischio di contagio. «Da allora - aggiunge il coordinatore sanitario - abbiamo attivato un numero dedicato attraverso il quale, su un tablet, gli anziani possono fare e ricevere videochiamate per tenersi in contatto anche visivo con i familiari». La notizia desta non poche preoccupazioni perchè, come è noto, il  virus diventa particolarmente aggressivo soprattutto con quelle categorie definite fragili, in particolare ultra 70enni (in particolar modo uomini) come peraltro è stato confermato dal capo della Protezione civile, Borrelli, durante la presentazione del bollettino giornaliero del contagio.

·        I Derubati.

Coronavirus, l’infermiere: "Effetti personali dei morti chiusi nei sacchi". Il racconto di Marcello Evangelista, che lavora al Covid Hospital di Civitanova (Macerata): ai familiari non possiamo restituire nemmeno i vestiti. Marcello Evangelista, infermiere del reparto di rianimazione di Civitanova. Chiara Gabrielli su ilrestodelcarlino.it il 31 marzo 2020. Nomi scritti su un cerotto, attaccato a un sacchetto nero: è tutto ciò che resta della vita di una persona. Al personale medico e infermieristico l’arduo compito di recuperare gli effetti personali del paziente Covid appena deceduto. È un compito che i medici e gli infermieri svolgono con delicatezza, professionalità e rispetto, "per restituire ai familiari un ricordo di chi se n’è andato a causa di un virus che ci toglie anche la dignità di morire". È quanto sta accadendo negli ospedali Covid, visto attraverso gli occhi di chi ci lavora. Lo racconta Marcello Evangelista , segretario regionale Uil Fpl e infermiere nel reparto di rianimazione di Civitanova. "L’altro giorno – spiega Evangelista –, la moglie di un paziente mi ha detto che stava cercando una testimonianza del marito, mi ha detto ‘sto cercando la carta d’identità, la patente, qualsiasi cosa mi faccia ricordare di lui’". Quando sono entrato in questa piccola stanza, alla ricerca dei documenti di quell’uomo, sono rimasto come paralizzato. Ho visto un mucchio di sacchi neri, messi in un angolo, perché quando si è in guerra non si può andare molto per il sottile, e mi sono reso conto che dentro ciascuno di quei sacchi c’è tutta la vita di una persona. Questo mi ha fatto molto male. Possiamo restituire solo alcuni oggetti, come il portafoglio e la fede, ma non i vestiti. Pantaloni, camicia, scarpe sono invece portati via, e smaltiti con i rifiuti speciali". La richiesta di quella donna, che aveva appena perso il marito, "mi ha toccato profondamente – prosegue Evangelista –. La vita di una persona si riduce a questo? A un sacchetto che non si può neanche restituire ai familiari? È qualcosa che fa accapponare la pelle. Tutti sappiamo che prima o poi dobbiamo morire, ma magari si pensa a una morte dignitosa, con un marito e una moglie o dei figli vicini, e chi è credente anche a una estrema unzione. E invece così è peggio della guerra, c’è un nemico spietato che non permette neanche di dare l’ultimo saluto ai cari". Quando c’è il decesso di un paziente Covid, si compila un modulo con un elenco degli effetti personali da restituire, come il portafoglio, l’anello e la fede. "Sono queste le cose che riconsegniamo, prima vanno disinfettate bene, lavate e messe in una busta, di tutto ciò si occupa il personale dell’ospedale". Si continua a lavorare in emergenza, con la consapevolezza da parte degli operatori sanitari di essere i più esposti al rischio del contagio. "Le mascherine sono ancora merce rara – sottolinea Evangelista – ed è stato difficile vedere una rianimazione da cinque posti letto trasformata in una da tredici, sistemando le persone un po’ ovunque. Ed è altrettanto difficile assistere, impotenti, al ricambio continuo dei letti per la perdita dei pazienti. Le difficoltà dei medici, poi, sono infinite. Basta pensare al fatto che un paio di volte al giorno devono comunicare le condizioni dei pazienti ai familiari per telefono, ed è durissima quando si deve comunicare un decesso. Dire a un familiare che quella persona non ce l’ha fatta, c he non potrà mai più rivederla, è un compito veramente arduo. La sofferenza palpabile nei reparti va a incidere sul morale di tutti. Ci dicono che i dati stanno migliorando, ma intanto il nostro reparto è sempre strapieno, arrivano di continuo pazienti da intubare". Una grande gioia per tutti è stato il risveglio dell’infermiera Silvia Mazzante, di 39 anni. Era intubata proprio a Civitanova. "Ma è dura quando uno di noi cade – sottolinea Evangelista –, e penso al nostro primario, Daniela Corsi, a casa perché contagiata. È il nostro generale, come la chiamiamo in senso buono, perché si batte per medici e infermieri fino allo sfinimento. Coraggio Daniela e ti aspettiamo". Chiara Gabrielli

CORONAVIRUS "CI HANNO SOTTRATTO I RICORDI". Tgi Rai Andato in onda il: 27/06/2020. La storia di Donatella Oriani di Cremona. "Ci hanno sottratto i ricordi". Il dolore dei familiari di alcune vittime del Coronavirus in Lombardia. Dopo la morte dei propri cari, non hanno più riavuto i loro oggetti personali. L'inviato Giuseppe La Venia

Il Caso citato nel servizio: ‎Facebook 13 giugno alle ore 16:50 Donatella Oliani‎ a Noi Denunceremo - Verità e giustizia per le vittime di Covid-19. "Buonasera a tutti. Il mio papà è mancato l'8 marzo, per colpa di questo mostro. Era entrato in ospedale per un intervento e lì ha contratto il virus. È stato dimesso con la febbre e una polmonite da corona virus in atto. Aveva la febbre ma, anziché farlo restare in ospedale, lo hanno dimesso e ce lo hanno mandato a casa, dove è restato per mezza giornata, il tempo di renderci conto che non poteva restare. La sera dello stesso giorno della dimissione, dunque, un'ambulanza lo ha riportato in ospedale. Non lo abbiamo più visto né sentito. Nemmeno dentro la bara, ovviamente. Come se questa realtà atroce non bastasse, quando siamo andati a riprendere i suoi effetti personali, la sua fede nuziale (che aveva al dito da 50 anni e non aveva MAI tolto, nemmeno un minuto) non c'era più. Sparita. Sparita! Ovviamente non serve sottolineare il valore affettivo che questo anello aveva per mia mamma. Qualcuno l'ha rubata, o forse è andata persa. A nessuno è venuto in mente che quell'oggetto potesse avere un valore inestimabile, per la nostra famiglia. Tra i medici e il personale (infermieri e inservienti) non so chi si sia comportato peggio. Se non fosse per tutto questo, ora sarebbe ancora fra noi.

Morti da Covid negli ospedali: effetti personali spariti. E' successo in vari ospedali d'Italia e purtroppo anche in Irpinia. Gianni Vigoroso su Ottopagine.it mercoledì 13 maggio 2020. Una triste storia...Ariano Irpino. E' successo in vari ospedali d'Italia e purtroppo anche in Irpinia. Alcuni familiari di persone decedute hanno denunciato la sparizione degli effetti personali tra cui persino telefonini. E' capitato alla prima delle 29 vittime arianesi, Sergio Albanese, e probabilmente anche ad altri. Caso segnalato ai carabinieri con regolare denuncia. Non è dato sapere dove siano finiti gli oggetti delle persone defunte o se esiste un punto specifico presso il quale recuperarli. Nessuno ha saputo finora fornire una spiegazione. I familiari rinnovano attraverso Ottopagine un appello ai direttori sanitari delle varie strutture ospedaliere affinchè si possa fare chiarezza su questa spiacevole e triste situazione. Dolore e indignazione per quanto accaduto, che si spera possa trovare consolazione attraverso la sensibilità umana da parte di chi si spera, possa fornire al più presto una risposta a queste famiglie già profondamente segnate. Stessa amara sorta è capitata anche a persone vive, a pazienti positivi al Covid-19 ricoverati e poi dimessi con qualche effetto personale in meno. Il racconto di Roberto Cardinale: "Mi auguro che si faccia un’indagine giornalistica approfondita perché anch’io vorrei capire dove sono andati a finire i miei effetti personali. Quando sono uscito dalla terapia intensiva, l’unico oggetto personale che mi è stato riconsegnato è stata la fede. I vestiti con cui sono arrivato, gli occhiali, il cellulare, il portafoglio con la patente, la borsa con pigiama e biancheria... tutto sparito. Ho  provveduto a presentare denuncia di smarrimento/furto alla Polizia, senza nessun risultato. In ospedale, mi è stato detto “verbalmente” che essendo oggetti infetti, sono stati depositati in un sacco sigillato che andava reclamato entro 15 giorni. Dopo tale termine il sacco sarebbe stato inviato al macero. Purtroppo, sono uscito dalla terapia intensiva dopo 23 giorni... Non credo assolutamente che siano stati rubati, ma se esiste questo protocollo, è assolutamente da modificare."

·        Loro denunciano…

Armando Di Landro per il “Corriere della Sera” il 17 dicembre 2020. Ha parlato di pressioni per correggere alcuni passaggi dello studio e di messaggi che a lui sono suonati come minaccia di perdere il posto di lavoro. Il funzionario e ricercatore dell' Oms Francesco Zambon si è presentato ai pm di Bergamo per rispondere a tutte le loro domande, senza sollevare l' immunità diplomatica, come invece la sua Organizzazione aveva scelto di fare in via preventiva, impedendogli per tre volte di andare in Procura. Cinque ore di colloquio, svelate ieri da Report via Facebook, accompagnate dal silenzio del procuratore Antonio Chiappani: «Non intendiamo dare informazioni». Perché la vicenda è delicata, il verbale è stato secretato. Le indiscrezioni dicono però che Zambon avrebbe risposto punto su punto, entrando nel dettaglio di quanto è accaduto a maggio, quando lui e altri 10 ricercatori dell' ufficio europeo di Venezia dell' Oms avevano pubblicato lo studio «Una sfida senza precedenti. La prima risposta dell' Italia al Covid». Il report era rimasto per un giorno sul sito dell' Organizzazione, per poi sparire nel nulla. E la versione di Zambon ai pm è stata chiara: dal direttore vicario dell' Oms Ranieri Guerra, sarebbero arrivate pressioni per correggere la frase sul Piano pandemico italiano del 2017, che «è una conferma», come si leggeva nello studio, di quello del 2006. L' obiettivo, secondo Zambon, era far passare il documento del 2017 come un aggiornamento e non un copia e incolla. Ed è su questo punto che il ricercatore di Venezia ha parlato di «minacce», rispetto alla sua posizione all' interno dell' Oms, da parte di Guerra: non è noto quali parole abbia utilizzato per descrivere la situazione, ma il riferimento al vicario italiano è stato chiaro. Insomma, quello studio, ha sostenuto Zambon, preoccupava l' Oms più di quanto è emerso di recente. La direzione generale ha spiegato martedì che la scelta di ritirare lo studio era stata dell' Oms Europa, la sezione con sede a Copenaghen. Guerra ha invece sottolineato che lui non si era mai opposto alla pubblicazione, aveva solo chiesto di correggere alcuni passaggi. Ma Zambon in Procura ha anche citato la mail del direttore vicario che faceva riferimento a «10 milioni di euro di contributo volontario da parte dell' Italia dopo sei anni di assenza», come condizione da tenere in considerazione prima di pubblicare uno studio critico nei confronti di Roma. Una cifra che di recente Guerra ha confermato, negando però presunte pressioni. Non è chiaro come potrà procedere ora la Procura, i pm dovranno iniziare a valutare eventuali discrepanze tra la deposizione di Guerra, cinque ore a inizio novembre, e quella di Zambon. L' unico obiettivo è capire se davvero quello studio contenesse una verità scomoda.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 17 dicembre 2020. Qualcosa si muove sul giallo Oms-Italia e sul reale aggiornamento del piano pandemico previsto per il nostro Paese. Francesco Zambon, funzionario dell'Organizzazione mondiale della sanità, di Venezia, è stato sentito martedì pomeriggio dai pm di Bergamo che indagano sulla gestione del coronavirus nella provincia italiana più colpita. Il verbale è stato secretato. Il caso è quello di un dossier, redatto da alcuni ricercatori veneti dell' Oms, coordinati da Francesco Zambon, molto critico sulla gestione della pandemia da parte delle autorità italiane. Vertici del Paese che addirittura non avrebbero aggiornato i piani per il contrasto ad eventuali diffusioni di massa di virus a partire dal 2006. Ebbene il report prima pubblicato dall' Oms il 13 maggio, sarebbe stato ritirato il giorno dopo. Il funzionario ha risposto alle domande dal procuratore Antonio Chiappani e dai sostituti del pool che indagano, nello specifico, sul caso dell' ospedale di Alzano, sulla mancata zona rossa e sulle morti nelle Rsa della Bergamasca. L' alto dirigente dell' Oms in altre occasioni in cui era stato convocato dai magistrati aveva rispettato le indicazioni dell' Organizzazione di far valere l' immunità diplomatica. Zambon, però, fin dal primo momento, si sarebbe voluto presentare di fronte ai pm. Alla fine l' attenzione mediatica sulla vicenda ha fatto cadere ogni divieto imposto dall' Oms.Così martedì su invito di Ranieri Guerra, il direttore vicario dell' Oms e membro del Cts sentito a Bergamo il 5 novembre, il funzionario ha risposto alle domande dei pubblici ministeri. La deposizione ha riguardato, appunto, il documento pubblicato lo scorso maggio sul sito dell' Organizzazione dal titolo «Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell' Italia al Covid-19», poi rimosso nel giro di 24 ore. Nella ricerca, per altro recuperata dal comitato «Noi Denunceremo», nato per chiedere «giustizia» per i morti di Coronavirus nella Bergamasca, si sosteneva che «nel 2006, dopo l' epidemia da Sars, il ministero italiano della salute e le Regioni avevano approvato un piano pandemico, riconfermato nel 2017» senza che fosse stato in realtà aggiornato. Investigatori e inquirenti stanno cercando di ricostruire anche i retroscena legati a questo capitolo. La procura vuole capire per quali motivi il report redatto dal gruppo di ricercatori dell' Oms - molti dei quali sentiti nei giorni scorsi - fu rimosso e perché il piano esistente, datato 2017, sarebbe stato in pratica un copia e incolla di quello del 2006. Inoltre non è escluso che a Zambon, al quale sarebbero state fatte domande sulla sua posizione, sia stato chiesto pure delle presunte pressioni da parte del direttore aggiunto dell' Organizzazione mondiale della Sanità, Ranieri Guerra, se non addirittura minacce di non riconfermarlo più nel suo incarico, per ritoccare, attualizzandola a 3 anni fa, la data del piano pandemico. In un' intervista Guerra spiega che nel momento in cui il rapporto che evidenziava le falle italiane nella gestione del coronavirus in Italia «venne ritirato per decisione dell' ufficio di Copenhagen, io proposi di salvarlo proponendo che due colleghi dell' Istituto Superiore di Sanità si affiancassero ai colleghi di Venezia per correggere le imperfezioni e ripubblicare il Rapporto così migliorato nel giro di un paio di giorni». Versione che cozzerebbe con le email, svelate dalla trasmissione 'Report', in cui Guerra avrebbe costretto, dietro minaccia di licenziamento, il dipendente della sede di Venezia Zambon a cambiare la data del piano pandemico per farlo sembrare aggiornato al 2017

Il procuratore capo di Bergamo: “Italia impreparata al Covid, si è improvvisato”. Il Corriere del Giorno il 10 Dicembre 2020. Il magistrato a capo della procura bergamasca, intervistato dal Corriere della Sera: “Indaghiamo su omissioni, forse una parte dell’inchiesta a Roma”. “L’Oms aveva lanciato un allarme specifico il 5 gennaio, e il 31 gennaio il governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza”. Tuttavia “l’Italia era impreparata al Covid. Questo ormai mi pare un dato acquisito. Finora abbiamo rilevato purtroppo che c’è stata tanta improvvisazione”. Sono le parole del capo della Procura di Bergamo, Antonio Chiappani, in un’intervista al Corriere della Sera in cui parla del piano pandemico: “Ne esiste uno datato 2017 che riguarda l’influenza. Effettivamente molte parti sono identiche a quello del 2006”. Nel piano “ci sono delle irregolarità, stiamo ancora verificando”, aggiunge il procuratore Chiappani. “Sicuramente il piano del 2017 non contemplava quanto accaduto con il Covid-19. Solo in seguito, dopo la comunicazione dei casi in Cina, l’Istituto Superiore di Sanità ha presentato un piano strategico che ha però deciso di secretare”. “Stiamo verificando se l’assenza di un piano pandemico rappresenta un’omissione in atti di ufficio. Se così fosse trasmetteremo questa parte dell’inchiesta per competenza ai colleghi della Procura di Roma”, spiega Chiappani. “Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto. Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma saranno quei magistrati a decidere come procedere”.

"Dentro c'erano degli scenari...". Il pm rivela il "piano segreto" anti Covid. La procura di Bergamo indaga. Il pm Chiappani rompe il silenzio: "Eravamo impreparati". Ipotesi indagini da trasferire a Roma. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Le indagini sono in corso. Per ora si conosce solo il contorno di questa inchiesta incardinata alla procura di Bergamo. Si sa che nei mesi scorsi sono stati ascoltati il governatore lombardo Attilio Fontana, il suo assessore Giulio Gallera, il premier Giuseppe Conte e altri ministri di peso del governo. Si sa che di fronte ai pm sono andati anche Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Oms e membro del Cts, e Stefano Merler, autore di uno dei primi studi sul possibile impatto del coronavirus in Italia quando ancora tutto sembrava solo un lontano problema "cinese". E' ormai chiaro che preme per andarci pure Francesco Zambon, coordinatore del gruppo di studiosi dell'Oms che ha redatto il report critico sulla gestione italiana del contagio e che un paio di cosette le avrebbe da dire. Nessuno di loro, ovviamente, per ora ha fatto emergere molto di quanto detto di fronte ai magistrati: l'inchiesta resta segreta, come giusto che sia. A sopresa, invece, in modo un po' irrituale a parlare dei lavori in corso è il procuratore che si sta occupando di questa delicata indagine: Antonio Chiappani. E le sue rivelazioni sono importanti.

"Ha nascosto i verbali all'Ue?". Ora Conte è messo alle corde. Al centro dell'attenzione in questi giorni è la grana "piano pandemico". O forse bisognerebbe dire "piani pandemici": uno, quello "che riguarda l'influenza"; e l'altro, quello ormai definito "piano segreto" anti-Covid. Per quanto riguarda il primo, il procuratore conferma quanto scritto in questi giorni e già rivelato nel Libro nero del coronavirus (clicca qui). L'Italia aveva sì un piano "datato 2017 che riguarda l'influenza", peccato fosse la copia della versione precedente, del 2006, come confermato nel rapporto dell'Oms (secondo cui il documento sarebbe stato solo "riconfermato" a fine 2016). "Effettivamente molte parti sono identiche - dice Chiappani - Ci sono delle irregolarità, stiamo ancora verificando". I pm stanno controllando se il mancato aggiornamento possa configurarsi come un’omissione in atti di ufficio. Di chi è la colpa? Chi ne deve rispondere? Certo non esponenti lombardi: l'aggiornamento spetta al ministero della Salute. Se vi fossero irregolarità, dunque, la procura di Bergamo dovrebbe alzare bandiera bianca e inviare tutte le carte ai colleghi di Roma, competenti territorialmente a indagare su viale Lungotevere Ripa 1. "Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto -spiega Chiappani - Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma saranno quei magistrati a decidere come procedere". Certo è che se le accuse dovessero ricadere su Guerra, all'epoca direttore della Prevenzione al ministero, un problema per i giudici potrebbe esserci: "Il professor Ranieri Guerra, proprio perché membro dell’Oms, gode dell’immunità diplomatica". Dunque potrebbe non essere perseguibile.

Cosa era il "piano segreto"? Il livello di segretezza era rinforzato. La rivelazione sul "Piano segreto" anti Covid. Arriviamo ora al capitolo "piano segreto", di cui ha parlato diffusamente ilGiornale.it. Per Chiappani il "piano pandemico" del 2017, aggiornato o meno, in quanto dedicato alle epidemie influenzali "non contemplava quanto accaduto con il Covid-19". Chiaro. "Solo in seguito, dopo la comunicazione dei casi in Cina, l’Istituto superiore di sanità ha presentato un piano strategico che ha però deciso di secretare". Nell'attesa che il governo risponda alla decina di interrogazioni presentate da FdI, chiarisca perché quel documento non venne fornito neppure alle Regioni e magari lo renda pure pubblico, Chiappani sostiene che non fosse un vero e proprio "piano di intervento" ma "rappresentava possibili scenari". Cosa significa? Il pm sta dando ragione al ministro Speranza&Co., che da tempo derubricano quel documento a semplice "studio"? Perché a onor del vero nel verbale della riunione del cts del 12 febbraio, il Comitato decise di dare “mandato ad un gruppo di lavoro interno al Cts di produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov". Le parole sono importanti. Certo si parlava di "deversi scenari" su un "possibile sviluppo" del morbo, ma è anche vero che ad essere richiesto era di un “Piano operativo”, dunque con azioni e misure da mettere in atto, e non una banale analisi. A leggere una delle versioni del documento trapelate ai media, infatti, quel dossier si accosta più a un "piano" che a un lavoro accademico: lo scopo infatti era quello di "garantire un’adeguata gestione dell’infezione in ambito territoriale e ospedaliero senza compromettere la continuità assistenziale, razionalizzando l’accesso alle cure, per garantire l’uso ottimale delle risorse". Tant'è che, come rivelato dal Giornale.it, su quel plico il livello di segretezza imposto ai membri del Cts era "doppio" e "rinforzato". Vedremo come procederanno le indagini. Quel che appare chiaro anche a Chiappani è che "eravamo impreparati". "Finora abbiamo rilevato purtroppo che c’è stata tanta improvvisazione", sentenzia. Questo significa che ci sono i presupposti per formalizzare accuse di rilievo penale? La mancata esistenza di un piano di intervento specifico per il Covid potrebbe "assolvere" dirigenti, manager e soprattutto decisori politici? "I piani per combattere una normale influenza già prevedono la sanificazione dei reparti, l’evacuazione di alcune sale, percorsi differenziati per i malati - è il ragionamento del pm - Noi stiamo verificando se queste misure siano state prese, dobbiamo scoprire come sia stato possibile che in questa zona ci sia stato il numero più alto di contagiati, malati, vittime". A lavorare sul dossier è Andrea Crisanti, padre del Metodo Vo' e microbiologo ormai di fama. Il suo scopo è quello di capire se effettivamente le decisioni prese (o non prese) in Lombardia e in tutta Italia abbiano "inciso in maniera determinante sulla diffusione del virus", così da "accertare eventuali responsabilità rispetto ai reati di epidemia colposa, omicidio colposo e falso". Nel mirino c'è ovviamente la chisura e riapertura immediata dell'ospedale di Alzano Lombardo. Ma anche la mancata zona rossa in Val Seriana. Non resta che attendere gli sviluppi.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 10 dicembre 2020. Ha acquisito relazioni, interrogato testimoni, letto denunce, fatto sopralluoghi. Ha parlato con i consulenti, concesso altro tempo ai periti per capire che cosa sia davvero accaduto in Val Seriana all’inizio della pandemia da Sars-CoV-2. E soprattutto se l’Italia fosse preparata ad affrontare una simile emergenza. Se il piano pandemico di cui tanto si parla fosse adeguato ad affrontare quel che è accaduto a partire da gennaio. Le indagini sono in corso, ma il capo della Procura di Bergamo Antonio Chiappani fa ben comprendere quale potrà essere la loro evoluzione, seguendo il filo di quanto è stato scoperto. Il reato ipotizzato è l’epidemia colposa, ma altre contestazioni potrebbero essere mosse contro i responsabili degli ospedali, delle aziende sanitarie e soprattutto della Regione se fosse accertato che non hanno seguito i protocolli stabiliti. E dunque che le loro scelte, sbagliate o inopportune, hanno contribuito alla diffusione dei contagi e alla morte di migliaia di persone.

Procuratore, l’Italia aveva un piano pandemico?

«Ne esiste uno datato 2017 che riguarda l’influenza».

A leggerlo sembra copiato da quello del 2006.

«Effettivamente molte parti sono identiche».

Sembra che in alcuni capitoli siano addirittura rimaste le date sbagliate. È così?

«Ci sono delle irregolarità, stiamo ancora verificando. Sicuramente il piano del 2017 non contemplava quanto accaduto con il Covid-19. Solo in seguito, dopo la comunicazione dei casi in Cina, l’Istituto superiore di sanità ha presentato un piano strategico che ha però deciso di secretare».

È il famoso «piano segreto» preparato dal ministero della Salute che disegnava diversi scenari. Si può ritenere un piano di intervento?

«In realtà rappresentava possibili scenari».

Eppure l’Oms aveva lanciato un allarme specifico sul virus proveniente dalla Cina.

«Sì, l’Organizzazione mondiale della sanità lo aveva fatto il 5 gennaio, e il 31 gennaio il governo italiano ha dichiarato lo stato di emergenza».

Lei ritiene che a quel punto il nostro Paese fosse pronto?

«Eravamo impreparati. Questo ormai mi pare un dato acquisito. Finora abbiamo rilevato purtroppo che c’è stata tanta improvvisazione».

La mancanza di un piano di intervento potrebbe diventare l’alibi di direttori sanitari, manager delle Asl e politici?

«I piani per combattere una normale influenza già prevedono la sanificazione dei reparti, l’evacuazione di alcune sale, percorsi differenziati per i malati. Noi stiamo verificando se queste misure siano state prese, dobbiamo scoprire come sia stato possibile che in questa zona ci sia stato il numero più alto di contagiati, malati, vittime».

Vi siete affidati al professor Andrea Crisanti, a che punto è il suo lavoro?

«Ci ha chiesto una proroga, l’attività da svolgere è ancora lunga, tante le verifiche da effettuare. Si deve scoprire che cosa ha inciso in maniera determinante sulla diffusione del virus. Accertare eventuali responsabilità rispetto ai reati di epidemia colposa, omicidio colposo e falso».

L’assenza di un piano pandemico rappresenta un’omissione in atti di ufficio?

«Lo stiamo verificando. Se così fosse trasmetteremo questa parte dell’inchiesta per competenza ai colleghi della Procura di Roma».

Per indagare sul ministero della Salute?

«Stabiliremo chi doveva predisporlo e perché non è stato fatto. Se riterremo che le indagini vadano svolte a Roma saranno quei magistrati a decidere come procedere».

All’epoca il direttore generale della Prevenzione era Ranieri Guerra, ora direttore aggiunto dell’Oms, componente del Comitato tecnico-scientifico. Voi l’avete già interrogato. Tutto chiarito?

«Esiste il segreto istruttorio, su questo non ho niente da dire. Vorrei comunque precisare che il professor Ranieri Guerra, proprio perché membro dell’Oms, gode dell’immunità diplomatica».

Quindi la vostra inchiesta dovrà in ogni caso fermarsi?

«Noi arriveremo fino in fondo, ricostruiremo ogni passaggio. Dobbiamo contestualizzare i ruoli, capire che cosa è accaduto. Individuare i cluster. Le valutazioni le faremo alla fine. Lo dobbiamo alle vittime e ai loro familiari».

Francesco Gentile e Francesco Malfetano per “Il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Immunità diplomatica. Questo è l' istituto di diritto internazionale che l' Organizzazione mondiale della sanità ha opposto ai pm della Procura di Bergamo, che volevano interrogare alcuni ricercatori come testimoni nell' indagine sui morti della prima ondata. Dalla sede europea di Copenaghen, come ha rivelato ieri sera Report su Rai 3, è infatti arrivata una nota ai magistrati e ai ministri degli Esteri Di Maio e della Salute Speranza in cui si rivendica lo speciale status dei propri dipendenti. «Il nostro interesse - spiega il procuratore capo Antonio Chiappani - è accertare l' esistenza o meno di un piano pandemico e quando sarebbe stato redatto. Questo è importante per le valutazioni nell' ambito dell' indagine sull' ospedale di Alzano e sulla gestione dell' epidemia nella Bergamasca. Non c' è alcun braccio di ferro o scontro in corso con chicchessia. Non c' è nessuna indagine sull' Oms o sulle strutture tecnico-scientifiche o politiche oppure su politici italiani». La Procura ha però inviato una lettera in merito al ministero degli Esteri per chiedere delucidazioni. I pm lamentano che l' audizione di alcuni testimoni, fissata per la settimana scorsa, sarebbe saltata all' ultimo. In particolare, mancherebbe all' appello Francesco Zambon, capo dell' ufficio europeo per i piccoli stati dell' Oms. Ora sarà la Farnesina a doversi esprimere in merito, chiarendo se questo tipo di funzionari sia o meno protetto da immunità. La versione dei tecnici dell' Oms - seguito della testimonianza già raccolta il 5 novembre scorso da Ranieri Guerra, vicedirettore generale per le iniziative speciali dell' Oms e membro del Cts - sarebbe fondamentale per capire la storia del rapporto intitolato Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell' Italia al Covid-19 pubblicato e poi eliminato dal sito dell' organizzazione. Secondo l' inchiesta di Report, lo studio, finanziato con circa 100mila dollari da un grant del Kuwait, descriveva luci e ombre della preparazione e gestione italiana della crisi da Covid-19. Doveva servire ad altri Paesi e più in generale agli stakeholders del mondo della sanità per trarre lezioni utili dalle buone prassi e dagli errori del primo grande Paese occidentale che si è confrontato con il virus. Ma il 14 maggio, appena un giorno dopo la pubblicazione, viene ritirato. «Dal leak in nostro possesso deduciamo - hanno spiegato da Report dopo aver avuto accesso a delle comunicazioni interne dell' Oms - che il motivo della censura è che il rapporto metteva in imbarazzo il governo italiano e ancor più il Direttore Aggiunto dell' Oms Ranieri Guerra». Il faro della Procura di Bergamo è ora puntato sulla data del protocollo che, stando alla ricostruzione della trasmissione tv, sarebbe risalente addirittura al 2006 e quindi non sarebbe mai stato aggiornato come previsto. Un compito, questo, che rientrava nelle competenze di Guerra, tra il 2014 e il 2017 a capo della Prevenzione del ministero della Salute e, quindi, responsabile della strategia. Contattato, Guerra, al pari del ministero della Salute, non commenta. In ogni caso al momento non è chiaro se l' assenza di un piano aggiornato abbia avuto o meno un ruolo nella gestione della prima fase dell' emergenza da parte del ministero della Salute. E comunque le indagini proseguono nonostante il dribbling dell' Oms.

Articolo del “The New York Times” dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 30 novembre 2020. Un'inchiesta del  New York Times ha rilevato che una guida carente e ritardi burocratici nella provincia italiana hanno reso il bilancio dei morti molto peggiore del dovuto. Quando, a metà febbraio, Franco Orlandi, un ex camionista, è arrivato con tosse e febbre al pronto soccorso della provincia di Bergamo, i medici hanno stabilito che aveva l'influenza e l'hanno mandato a casa. Due giorni dopo, un'ambulanza ha riportato l'83enne. Non riusciva a respirare. L'Italia non aveva registrato un solo caso di coronavirus domestico, ma i sintomi del signor Orlandi lasciavano perplessi Monica Avogadri, l'anestesista cinquantacinquenne che lo aveva curato all'ospedale Pesenti Fenaroli. Non gli ha fatto il test per il virus perché i protocolli italiani, adottati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, raccomandavano di testare solo persone con un legame con la Cina, dove l'epidemia aveva avuto origine. Quando ha chiesto se il signor Orlandi aveva un legame con la Cina, sua moglie sembrava confusa. Non si sono quasi mai avventurati oltre il loro caffè locale, il Patty's Bar.  La Cina? Il dottor Avogadri ha ricordato la risposta della moglie del signor Orlandi. "Non sapeva nemmeno dove fosse." Quello che la dottoressa Avogadri non sapeva era che il Covid-19 era già arrivato nella sua regione, in Lombardia, una scoperta fatta cinque giorni dopo da un altro medico della vicina Lodi che aveva infranto il protocollo nazionale di sperimentazione. A quel punto la dottoressa Avogadri, costretta da quegli stessi protocolli, si era già ammalata dopo giorni di cura per il signor Orlandi e per altri pazienti. Il suo ospedale, invece di identificare e curare la malattia, ne accelerava la diffusione nel cuore dell'economia italiana. Bergamo divenne uno dei campi di battaglia più mortali per il virus nel mondo occidentale, un luogo segnato da una sofferenza inconcepibile e da una spaventosa colonna sonora di sirene di ambulanze mentre gli operatori sanitari strappavano i genitori ai figli, i mariti alle mogli, i nonni alle loro famiglie. Gli ospedali divennero obitori di fortuna e produssero sfilate di bare e scene di devastazione che divennero un avvertimento per i funzionari di altri paesi occidentali su come il virus potesse rapidamente travolgere i sistemi sanitari e trasformare le infermerie in incubatrici. I funzionari hanno confermato che più di 3.300 persone sono morte con il virus a Bergamo, anche se hanno detto che il pedaggio effettivo è probabilmente il doppio. La città di Orlandi, Nembro, è diventata forse la più colpita in Italia, con un aumento dell'850 per cento dei decessi a marzo. Così tanti che il prete  ha ordinato di fermare l'incessante rintocco delle campane per i morti. La questione di come si sia potuta verificare una simile tragedia a Bergamo, una provincia ricca e ben istruita di poco più di un milione di abitanti, con ospedali di altissimo livello, è rimasta un inquietante mistero, una macchia di sangue che il governo preferisce evitare perché indica con orgoglio il successo dell'Italia nell'appiattimento della prima ondata di infezioni. Le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità sui test hanno generato un senso di sicurezza fuori luogo e hanno aiutato i medici ciechi a diffondere il virus. Ma i passi falsi e l'inazione dopo l'esplosione di Covid-19 hanno aggravato la situazione e sono costati a Bergamo - e all'Italia - tempo prezioso quando i minuti erano più importanti. Il direttore dell'ospedale Pesenti Fenaroli ha chiuso i battenti quasi appena si è reso conto di avere un'epidemia. Ma i funzionari regionali hanno ordinato l'apertura ore dopo. Gli operai dell'ospedale, i visitatori e i pazienti dimessi sono stati esposti al virus e poi trasferiti in provincia. Per giorni, c'era l'aspettativa che il governo nazionale chiudesse le città di Bergamo, come aveva già fatto subito e con decisione a Lodi. Alcuni sindaci di Bergamo hanno aspettato con ansia che le forze dell'ordine sigillassero le frontiere, anche se molti imprenditori e dirigenti locali si sono mostrati riluttanti. Il primo ministro italiano, Giuseppe Conte, si rivolse pubblicamente a un comitato di consulenti scientifici, che gli propose formalmente di seguire l'esempio di Lodi e di chiudere le città di Bergamo appena contagiate. Privatamente, però, le lobby economiche nazionali lo esortarono a non chiudere gli stabilimenti della zona. Alla fine, dopo giorni critici pieni di reticenze burocratiche e di battibecchi tra Roma e le autorità regionali, il governo ha deciso che il tempo di salvare Bergamo era passato. Con il virus fuori controllo nella provincia e i grappoli che si sono formati intorno ad essa, il governo ha aspettato più a lungo ma poi si è ingrandito. Due settimane dopo che il signor Orlandi era risultato positivo, l'Italia ha bloccato l'intera regione. Poi il Paese. Ma Bergamo era perduta. Ora che il coronavirus, nel profondo della sua seconda ondata, si è diffuso in tutto il mondo e non ha lasciato praticamente nessuna nazione intatta, è facile dimenticare quanto l'Italia fosse sola tra le democrazie occidentali nel mese di febbraio, di fronte a una minaccia per la quale non disponeva di un piano. Durante la stagione dell'influenza, alcuni medici di famiglia lombardi avevano notato strani casi di polmonite e prescrivevano più ecografie del solito. La regione ha legami commerciali con la Cina e i medici locali che si occupano di malattie infettive hanno tenuto d'occhio l'epidemia di coronavirus nella città di Wuhan. Si sono anche fidati dei nuovi e più stretti protocolli italiani, adottati dall'OMS alla fine di gennaio, che sostanzialmente limitavano i test alle persone legate alla Cina. Ma quasi nessuno dei pazienti affetti da polmonite aveva un tale legame, il che significava che le poche persone sottoposte ai test erano per lo più viaggiatori aerei. Tutti i risultati erano negativi. Poi, il 20 febbraio, Annalisa Malara, medico del comune di Codogno, in provincia di Lodi, ha deciso di rompere il protocollo e di sottoporre al test un uomo di 38 anni affetto da polmonite grave che non rispondeva ai trattamenti standard. Il test dell'uomo è risultato positivo la sera stessa ed è diventato il primo caso di Covid-19 trasmesso localmente in Italia. Due giorni dopo, a Roma, si è tenuta una riunione d'emergenza presso l'Agenzia della Protezione Civile italiana, l'organismo nazionale di soccorso in caso di calamità. Conte, stipato in una piccola sala conferenze, si è seduto a capo di un tavolo ovale, circondato dai suoi ministri, mentre il ministro della Salute italiano, Roberto Speranza, propose un drammatico blocco delle città della zona di Lodi. I ministri, scambiandosi sguardi nervosi, si sono trovati d'accordo all'unanimità e il governo ha inviato la polizia e l'esercito italiano a sigillare le frontiere il 23 febbraio - decisione che cita ancora oggi come metrica della sua audacia e della sua volontà di mettere la salute pubblica italiana al di sopra dell'economia. Speranza ha soppesato attentamente la decisione epocale, decidendo che era meglio sbagliare dalla parte della prudenza. “Stavo giocando con la vita delle persone", ha detto, aggiungendo che nella storia della pandemia, "è stata la prima volta nella storia dei Paesi occidentali che abbiamo chiuso e portato via la libertà della gente". La scoperta del virus a Lodi, a soli 60 miglia da Bergamo, ha colpito il dottor Avogadri, malato a letto a casa, con la forza di una rivelazione. Ha preso il telefono il 21 febbraio e ha chiamato i colleghi di Pesenti Fenaroli, nel comune di Alzano Lombardo, nella valle industriale e densamente popolata del fiume Serio di Bergamo. Li esortò a fare il test al suo paziente, il signor Orlandi. All'inizio la ridicolizzarono, notando che non era mai stato in Cina. Ma altri pazienti dello stesso piano stavano peggiorando, e un altro uomo con sintomi sospetti arrivò presto al pronto soccorso. I funzionari dell'ospedale decisero di fare un tampone a lui e a uno dei compagni di stanza del signor Orlandi. A mezzogiorno del 23 febbraio, i risultati furono portati al dottor Giuseppe Marzulli, il direttore dell'ospedale. Entrambi gli esami sono risultati positivi. Il dottor Marzulli interrogò il medico referente per sapere se il personale aveva indagato adeguatamente sui collegamenti con la Cina. L'hanno fatto. Non ce n'erano. Il virus era già in circolazione tra di loro. "Fu in quel momento che capii che eravamo fregati", disse il dottor Marzulli. "Avevamo cercato chi era stato in Cina, e questo è stato il tragico errore". Quel giorno hanno prelevato un tampone al signor Orlandi, mentre i membri della sua famiglia si muovevano attraverso i corridoi affollati del terzo piano. Alcuni visitatori notarono che i membri del personale tossivano. Data la rapida azione del governo a Lodi, il dottor Marzulli cominciò a prepararsi per un isolamento. Annullava i cambi di turno per non far entrare nuovo personale e chiudeva il pronto soccorso, ricordando che l'ospedale aveva solo una dozzina di tamponi per eseguire i test del coronavirus. "Non avevamo tamponi. Era il problema più grande che avevamo", ha detto. Ore dopo, la regione e la rete ospedaliera bergamasca di Pesenti Fenaroli hanno deciso insieme di riaprire il pronto soccorso, con le obiezioni del dottor Marzulli. Aida Andreassi, alto funzionario della sanità lombarda, ha detto che il pronto soccorso era stato igienizzato e che l'ospedale rappresentava un "presidio indispensabile" per una regione che aveva bisogno di tutte le sue strutture sanitarie. Ma senza tamponi sufficienti, ha detto la dott.ssa Marzulli, l'ospedale era indifeso. Il 24 febbraio sono arrivati i risultati degli esami del signor Orlandi. Anche lui era positivo. A quel punto, circa altri 50 pazienti erano arrivati al pronto soccorso con i sintomi, bruciando rapidamente le scorte di tamponi dell'ospedale, ha detto il dottor Marzulli. Un medico, che ha testato il dottor Avogadri con uno dei tamponi disponibili, ha fatto pressione sui funzionari dell'ospedale per ulteriori esami, ricordando loro in una frenetica e-mail che avevano "colleghi sintomatici che non sono stati sottoposti a tamponi". I suoi superiori hanno supplicato un altro ospedale della regione per avere 100 tamponi, secondo la corrispondenza via e-mail vista dal New York Times. Ma il dottor Marzulli ha detto che solo la metà di loro è arrivata a Pesenti Fenaroli, il 26 febbraio. Ha forzato, separando i pazienti con sintomi da quelli senza, e mandando a casa personale visibilmente malato. Ma molti pazienti che sono venuti a contatto con il virus sono rimasti fermi, mentre i loro infermieri e medici continuavano a circolare. Il 27 febbraio, come dimostrano i documenti forniti dalla Lombardia, la regione ha inviato altre centinaia di tamponi agli ospedali bergamaschi. Ma non sono arrivati subito a Pesenti Fenaroli, ha detto il dottor Marzulli. Fu costretto a razionare un paio di dozzine di tamponi al giorno fino al 1° marzo, quando lui stesso svenne per la stanchezza per il virus. "Se dobbiamo identificare una scintilla - ha detto il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, quando le infezioni hanno devastato la sua città - è stato l'ospedale".

DIECI GIORNI DI INDECISIONE. Le piccole città intorno all'ospedale diventano sempre più protagoniste di un dramma che si svolge tra Bergamo e Roma. Il 25 febbraio la provincia di Bergamo ha registrato solo 18 casi contro i 125 di Lodi. Il massimo responsabile sanitario lombardo ha espresso preoccupazione per il contagio all'ospedale Pesenti Fenaroli, ma ha detto: "È presto per dire se si tratta di un altro cluster". A Roma, Conte ha scoraggiato l'espansione dei test, argomentando che i funzionari sanitari dovevano seguire i protocolli internazionali, "altrimenti avremmo finito per drammatizzare" l'emergenza. Il 26 febbraio, con 20 casi segnalati a Bergamo, il comitato scientifico di Roma ha dichiarato di non aver visto alcuno scoppio che richiedesse un blocco. Il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, ha detto che i funzionari sanitari di Bergamo hanno minacciato di tagliare i fondi ai 18 sindaci della zona se chiudessero i centri per anziani o disabili. Il giorno dopo, ha detto, hanno assicurato i sindaci: "Non preoccupatevi. Non è prevista una zona rossa". Ma il 28 febbraio, il carico di lavoro di Bergamo era salito a 103, contro i 182 di Lodi. In una conferenza stampa regionale lombarda, i medici di punta hanno identificato l'ospedale Pesenti Fenaroli come la fonte dell'epidemia. Confindustria Bergamo, l'associazione industriale della provincia, ha risposto lo stesso giorno pubblicando un video dal titolo "Bergamo corre". "Gli attuali avvertimenti sanitari da parte dei funzionari del governo italiano sono che il rischio di infezione è basso", ha dichiarato il narratore. Le immagini mostravano le fabbriche che lavoravano. Il messaggio risuonava in Simona Ghilardi, che gestiva un'azienda nazionale di trasporti e logistica a Nembro, a circa un chilometro e mezzo dall'ospedale Pesenti Fenaroli. I colleghi di Lodi, in isolamento, le avevano raccontato di aver perso clienti. Per lei era impensabile fermare l'industria a Bergamo. "Quando nasci qui la prima cosa che ti dicono è che devi lavorare", diceva. Mentre si continuava a parlare di chiusura, si è affacciata al suo vasto magazzino pieno di pile di circolari di alimentari, sacchetti di prodotti chimici e casse di detersivi da spedire in Cina. "Anche la fabbrica deve sopravvivere", ha detto. I dirigenti d'azienda, e anche il sindaco di Alzano Lombardo, hanno resistito alla chiusura, dicendo al giornale locale che sarebbe stata una tragedia per l'economia e contattando le loro associazioni commerciali con influenza a Roma. Nella capitale, Conte ha sottolineato che si sarebbe fatto guidare dalla sola scienza. Ha rifiutato le richieste di intervista per questo articolo, ma ha negato di aver mai ricevuto richieste da Confindustria, visto che il suo governo ha valutato cosa fare a Bergamo. I rappresentanti del potente gruppo industriale hanno detto di aver chiarito le loro richieste. "C'era una linea diretta tra Confindustria e il governo di allora", ha detto Licia Mattioli, allora vicepresidente del gruppo. La dirigenza ha sostenuto direttamente a Conte che la rapida chiusura delle fabbriche di Lodi costava inutilmente posti di lavoro e che nelle fabbriche bergamasche sarebbero stati sufficienti passi come l'allontanamento sociale. "Quello che dicevano era che fermare tutta l'industria, anche locale, è davvero molto, molto pericoloso", ricordava. "Non so se hanno capito", ha detto di Conte e dei suoi ministri. "Ma almeno hanno ascoltato". Le fabbriche sono rimaste aperte fino a fine marzo, e molte non hanno mai chiuso. "Posso assicurarvi che non abbiamo mai, mai, mai, mai fatto considerazioni su questo", disse il ministro della Salute Speranza. "Abbiamo deciso fin dall'inizio che il primo punto è la salute, tutto il resto viene dopo". Il 3 marzo il comitato scientifico del governo ha proposto una zona rossa intorno a Nembro e Alzano Lombardo. Le autorità lombarde l'hanno considerata un affare fatto. Così come il sindaco di Nembro, il signor Cancelli, che era infetto e lavorava in isolamento. "Questo posto avrebbe dovuto essere chiuso a febbraio, quando fu chiaro che c'erano casi ufficialmente dichiarati nell'ospedale, che sicuramente erano in contatto con gli operatori sanitari, i parenti, gli altri pazienti", ha detto il signor Cancelli. Il 3 marzo abbiamo pensato: "Ora chiuderanno stasera". Ma Conte, che doveva approvare la decisione, ha detto di non aver sentito parlare del piano per altri due giorni. Nel frattempo, ha detto l'onorevole Speranza, ha fatto pressione sul comitato scientifico per una relazione sulla loro logica per la chiusura delle città. "Hanno detto solo Chiudere", ha detto il signor Speranza. Non si può dire: "Io tolgo la libertà alle persone", per due parole. Il Ministero dell'Interno ha comunicato alla polizia  di Bergamo di iniziare i preparativi per la chiusura, secondo il colonnello Paolo Storoni, allora capo dei carabinieri della zona. Carmen Arzuffi, proprietaria dell'Hotel Continental, ha detto che il prefetto della polizia locale ha chiamato il 4 marzo per prenotare 50 camere per 100 agenti in arrivo. Il 5 marzo il comitato scientifico ha nuovamente sollecitato il governo a chiudere le città. Speranza ha detto di aver inviato a Conte il rapporto quella notte. Un parlamentare bergamasco ha fatto pressione sull'ufficio di Conte in privato, sostenendo che si stava verificando una catastrofe umana. L'ufficio di Conte ha risposto, secondo la corrispondenza vista dal Times, che ci sarebbe stata una riunione a livello ministeriale il sabato, due giorni dopo, e che nessuna decisione sarebbe arrivata prima di allora. Entro il 6 marzo, le forze dell'ordine avevano iniziato ad insediarsi nell'albergo. La polizia riempì le ore ispezionando i percorsi che avrebbero dovuto chiudere e tenendo briefing nei sotterranei, con i comandanti che disegnavano le mappe delle città e delle loro strade su un cavalletto. "Sapevano tutto a memoria", ha detto la signora Arzuffi, la proprietaria dell'albergo. Mentre facevano le esercitazioni, il 6 marzo Conte si è incontrato ancora una volta a Roma con il comitato scientifico. Secondo Speranza, il comitato ha detto a Conte che la chiusura di Bergamo non era più un problema. Tutta la Lombardia, Milano compresa, doveva essere chiusa. Due giorni dopo, l'8 marzo, Conte ha fatto proprio questo. Più tardi, quel giorno, gli agenti di polizia dell'Hotel Continental hanno fatto le valigie e se ne sono andati. "Non è successo niente", disse il signor Cancelli. Mentre le autorità decidevano cosa fare, il virus sembrava diffondersi ovunque e toccare tutti. Le infezioni hanno devastato case e appartamenti. La gente ha iniziato a morire. Il signor Orlandi, il corpulento camionista che una volta aveva deliziato i bambini della sua famiglia lottando con le sue mani spalancate, è morto il giorno dopo che la sua famiglia ha saputo di aver contratto il virus. Alcuni dei suoi familiari si infettarono e morirono. Giuseppa Nembrini, 82 anni, e Giovanni Morotti, 85 anni, una coppia di coniugi in due stanze separate in fondo al corridoio dal signor Orlandi, sono morti entrambi. Anche Angiolina Cavalli, 84 anni, paziente dell'altro lato del corridoio, è morta. Anche il marito, Gianfranco Zambonelli, 85 anni, che aveva visitato l'ospedale, è morto a causa del virus. "Non ci hanno mai detto niente", diceva dell'ospedale Francesco Zambonelli, il figlio, che aveva contratto il virus. "Credo che senza saperlo siamo diventati un veicolo di contagio per gli altri". Tra i malati c'erano anche i tifosi del calcio bergamasco, 40.000 dei quali erano andati a Milano il 19 febbraio a fare il tifo per la loro squadra locale, l'Atalanta, in una partita di Champions League contro la spagnola Valencia. "Siamo rimasti bloccati uno accanto all'altro", ricorda Matteo Doneda, 49 anni, tifoso rabbioso dell'Atalanta, che cantava alla partita: "Lo saprete quando faremo danni! Siamo Bergamaschi e non conosciamo limiti". Il 26 febbraio, il signor Doneda ha detto che i biscotti hanno iniziato a "sapere di sabbia" e la moglie lo ha portato in ospedale. Riusciva a malapena a camminare e ben presto si ritrovò a respirare dall'interno di un casco ad ossigeno, circondato da persone anziane che ansimavano per l'aria. Disse che alcuni di loro avevano le mascelle rotte sotto la maschera, per svenimento e caduta in reparto. La dott.ssa Avogadri è declinata e ha perso conoscenza, finendo alla deriva in uno stato semicomatoso in un reparto di terapia intensiva, mentre aveva perso metà dei suoi capelli. "Volevo morire", disse. Quando finalmente fu dimessa, scoprì che il medico che era riuscito a trovarle un tampone all'ospedale Pesenti Fenaroli era morto e che la sorella maggiore, che viveva nelle vicinanze, giaceva in un reparto di terapia intensiva, con un tubo di respirazione in gola.

NESSUNO DA BIASIMARE. Tutte le autorità coinvolte riconoscono ormai la perdita di Bergamo come una tragedia. Ma invariabilmente ne danno la colpa altrove. L'Organizzazione Mondiale della Sanità dice di aver limitato le sue definizioni dei casi per ragioni pratiche, soprattutto per non sprecare risorse all'inizio di un contagio incerto. La logica, ha detto la dott.ssa Margaret Harris, portavoce dell'organizzazione, era "limitare i test a una specifica popolazione a rischio". Si tratta di una posizione che i funzionari dell'O.N.A.U. in passato consideravano ragionevole. Ma la dottoressa Harris ha anche sostenuto che quando l'agenzia ha aggiornato le linee guida alla fine di gennaio, ha chiarito "che il medico del paziente è quello che, in ultima analisi, decide chi sottoporre al test". I medici di Bergamo lo consideravano un comodo avvertimento. La guida era "la cosa che ha generato l'enorme problema della diffusione della pandemia", ha detto il dottor Avogadri. "Era un grosso limite". L'O.M.S. "ha fatto un errore", ha detto Giuseppe Ruocco, medico capo dell'Italia e alto funzionario del ministero della Sanità, aggiungendo che se l'Italia non avesse seguito automaticamente la guida dell'organizzazione "avrebbe certamente potuto evitare i casi e l'infezione del personale medico". A giugno l'Italia ha conferito il titolo di cavaliere dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana al dottor Malara, il medico che ha affrontato l'epidemia non rispettando il protocollo. I funzionari locali e le famiglie in lutto di Nembro e Alzano Lombardo sostengono che la chiusura delle città a febbraio avrebbe rallentato la diffusione. Un procuratore locale sta indagando su quello che è successo e su quello che non è successo e perché. Ma il governo preferirebbe concentrarsi sulla chiusura di Lodi e poi della regione. "Sono due piccole città che tutti ormai conoscono", ha detto il ministro della Salute Speranza, quando gli è stato chiesto come sia possibile che il primo ministro non abbia saputo per tre giorni della proposta di chiusura di Bergamo. "Ma sono due piccoli centri". E Conte ha respinto le domande sull'audacia della sua decisione. "Non ci sono stati ritardi", ha insistito.

UNA PROVINCIA SVENTRATA. Oggi Bergamo è una provincia sventrata dalla perdita. All'inizio di questo mese il reverendo Matteo Cella, che ha eseguito molti riti funebri abbreviati per le famiglie che conosceva, ha salutato vedove e vedovi, figli e figlie, nipoti e nipoti nel giorno dei morti. Indossando maschere chirurgiche blu, si appoggiavano alle lapidi dei loro cari, o accanto alle croci di legno delle tombe incompiute delle vittime del coronavirus. Padre Cella e altri prelati hanno letto i nomi delle 231 persone morte a Nembro dal novembre precedente. Almeno 188 avevano ceduto a Covid-19. Hanno letto il nome del signor Orlandi, e degli altri pazienti e dei medici e visitatori con cui ha condiviso il terzo piano dell'ospedale durante i suoi ultimi giorni. Mentre i piangenti seguivano i sacerdoti in preghiera, alcuni si aggiravano verso il muro del mausoleo sul retro del cimitero. Nomi familiari riempivano il muro.

"Franco Orlandi", “1-3-1936 – 25-2-2020.” "È ancora sorprendente", diceva Luigia Provese, 81 anni, che beveva il caffè nello stesso bar del signor Orlandi e diceva che tre delle quattro persone con cui giocava a carte erano morte a causa del virus. "Sono tutte persone che conosco". Mentre il virus è esploso di nuovo in tutta Italia, il massiccio tasso di infezione di Bergamo durante la prima ondata, dicono i medici, gli ha dato una misura di immunità. I suoi ospedali, un tempo esportatori di infezioni e di malati, stanno accogliendo i pazienti dalle zone circostanti. Il 2 novembre il quartiere fieristico di Bergamo ha debuttato come reparto di terapia intensiva appena convertito. Decine di letti sono stati irradiati con fili elettrici. I ventilatori erano in stand-by. Un'equipe di infermieri in equipaggiamento protettivo si è radunata per un briefing sulle bombole di ossigeno di riserva. La loro coordinatrice, Lauretta Rota, 56 anni, guardava con incredulità. "Ci è voluto un po' di tempo per credere che stesse succedendo di nuovo", ha detto. "C'è un esaurimento emotivo e fisico che deriva da quella conoscenza di ciò che dobbiamo affrontare". Il suo cellulare squilla. "OK", disse, scusandosi. "Il primo paziente sta arrivando".

Da bergamo.corriere.it il 4 dicembre 2020. Nell’inchiesta bergamasca sulle morti per Covid entrano la partita di Champions League Atalanta-Valencia, del 19 febbraio a San Siro, e quella di eccellenza Albino-Codogno del 9 febbraio. La Procura, come spiegato al Tg3 dal procuratore Antonio Chiappani e dall’aggiunto Maria Cristina Rota, ha acquisito l’elenco dei tifosi per ricostruire chi era allo stadio, a bordo di quali mezzi sono arrivati e da dove provenivano mettendo a confronto i dati con quanti casi ci sono stati nelle località da cui venivano i tifosi. Questo per valutare l’esistenza di altri focolai oltre a quello dell’ospedale di Alzano Lombardo. Durante gli accertamenti, hanno spiegato i pm bergamaschi, l’Atalanta ha dimostrato «grande collaborazione», fornendo informazioni sulla composizione di circa 40 pullman che hanno raggiunto lo stadio milanese da varie zone della provincia orobica. Altri accertamenti riguardano il flusso di persone in arrivo all’aeroporto di Orio al Serio che giungevano da numerosi Paesi esteri prima del lockdown. Il fascicolo aperto è per epidemia colposa e si concentra, in particolare, su quanto avvenuto all’ospedale di Alzano, dove furono scopeti i primi casi di coronavirus domenica 23 febbraio, quando il pronto soccorso fu chiuso e poi riaperto. La situazione, in quel momento, era già grave con diversi pazienti contagiati ricoverati da giorni. Da quel momento, è scoppiata l’emergenza più terribile, concentrata proprio in Val Seriana, tra Nembro, Alzano, Albino. Per acquisire informazioni, i pm hanno anche convocato vertici e ricercatori dell’Oms. La prossima settimana sarebbe previsto un colloquio con l’epidemiologo Stefano Merler, della fondazione Bruno Kessler di Trento che aveva realizzato la prima proiezione italiana dei dati cinesi sul Covid-19. «Scenari di diffusione di 2019-Ncov in Italia e impatto sul sistema sanitario nazionale» era il titolo della sua ricerca. Con la sua testimonianza si vuole capire se sia stato aggiornato o meno il piano anti pandemico italiano mentre gli inquirenti bergamaschi sono in attesa di una risposta del Ministero degli Esteri riguardo la posizione di alcuni esperti dell’Oms, convocati nei giorni scorsi ma che non si sono presentati, opponendo l’immunità diplomatica.

Elisabetta Reguitti per sanfrancescopatronoditalia.it il 19 novembre 2020. Anziani, donne e minori. L’anello fragile della società, come riuscire a rimanere distaccati di fronte a denunce di maltrattamenti e violenze? “L’importante è scoprire la verità delle situazioni davanti alle quali ci troviamo e risalire a come sono accaduti i fatti” esordisce Letizia Mannella, che da quasi tre anni coordina il V dipartimento, Tutela della famiglia, dei minori e di altri soggetti deboli della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano. “Dal punto di vista umano questo dipartimento richiede certamente un impegno emotivo diverso rispetto ad altri settori di criminalità. Se in una rapina i reati si esauriscono nell’istante in cui viene commesso il delitto - spiega il Procuratore aggiunto Mannella - nei casi di maltrattamento ai danni di soggetti fragili ogni magistrato sa che, mentre ha sotto mano il fascicolo, la vittima con ogni probabilità sta continuando a subire quelle stesse angherie”. Il dipartimento coordinato da Mannella è composto da 12 sostituti procuratori, un aggiunto oltre alla polizia giudiziaria (polizia locale, carabinieri, polizia di stato e guardia di finanza). Dati alla mano, la prima considerazione in questa conversazione è che il post lockdown è sempre più violento: dal primo gennaio al 15 settembre 2020 le denunce per maltrattamenti su soggetti deboli sono state 1153, quelle per minacce e lesioni (Mannella li definisce “reati spia” dei maltrattamenti familiari) 800, mentre quelli per stalking 460. “È evidente che il lockdown ha messo la sordina a tutte quelle persone che non hanno potuto denunciare anche se questo dipartimento non ha mai smesso di funzionare - spiega -. Sia pur a ranghi ridotti, non abbiamo mai smesso di occuparci dei fatti urgenti”. Milano certo può contare su una buona rete sociale di strutture come i centri antiviolenza, case famiglia che aiutano le madri e i bambini, strutture sanitarie e Rsa per anziani “di norma confortevoli e ben strutturate, ma a volte capita che vi siano soggetti che approfittano dei più deboli - ammette Mannella -. Per malvagità, cattiveria, per negligenza gravissima. Operatori che cagionano veri maltrattamenti nei confronti delle persone anziane. Anche casi di badanti che incattiviscono nei confronti delle persone che assistono”. L’ambiente chiuso diventa il luogo in cui si consumano i peggiori comportamenti contro chi non è in grado di difendersi. Una società che si sta “incattivendo”; questa è la fase post lockdown che per una Procura è rappresentata da casi come la violenza da parte di figli con problemi psichiatrici o di dipendenze da sostanze stupefacenti contro i genitori, a volte anziani. “Il fatto che durante l’emergenza siano stati chiusi i centri di cura e di assistenza ha di fatto lasciato le famiglie sole”. È una Milano specchio dell’Italia che arranca anche sul fronte del disagio economico: crescono le denunce per abbandono di minorenni. Situazioni in cui i genitori si assentano per rispondere a lavori precari e a chiamata di qualche giorno, lasciando i figli a vicini di casa, magari affidandoli a ragazze giovani incapaci di occuparsi di bambini che talvolta senza controllo, si affacciano dai balconi o dalle finestre, con i vicini che se ne accorgono e chiamano le forze dell’ordine allarmati dal timore che il bambino si stia lanciando dalla finestra. Cosa accade in questi casi? “È evidente che noi dobbiamo per prima cosa verificare i motivi dell’allontanamento dei genitori perché un bambino piccolo non va lasciato da solo in casa, tanto meno affidato a persone che non sono in grado di accudirlo. Certo che quando ci si trova davanti a situazioni in cui una madre o un padre, magari soli, escono per procurare il sostentamento non possiamo infierire e si chiede l’archiviazione. Ricordo il caso in cui una madre si era assentata da casa lasciando uno dei due figli per andare in farmacia a prendere la medicina per l’altra bambina. I bambini, lo ribadisco, non vanno lasciati soli in casa; ma quel caso è stato archiviato”. La chiusura delle scuole è stata devastante per molti bambini che subiscono violenza in famiglia, a volte dai compagni di vita di genitori separati. Il fatto che non ci fossero gli insegnanti ha comportato che il minore subisse senza che nessuno potesse cogliere i sintomi o le reazioni del grave disagio che i bambini si portano dentro e che a volte a volte esprimono nella loro vita e nelle attività in classe. Da un punto di vista giudiziario l’unica ancora di salvezza rispetto ai casi di violenza e maltrattamento è stata l’introduzione del “codice rosso” (Legge 19 luglio 2019, n. 69) che ha apportato modifiche al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere. Ne è sicura Letizia Mannella: “Puntare sulla necessità di intervenire con urgenza ha sicuramente aiutato i soggetti deboli. Inoltre - aggiunge - questa legge ha di fatto generato una mentalità diversa, di maggiore attenzione per questo tipo di situazione” anche nelle strutture giudiziarie e tra le forze dell’ordine.

"Non ha i valori per il ricovero, la condannano a morire a casa". 94enne positiva al Covid sta molto male. Il medico di base si rifiuta di visitarla e l'ospedale non la ricovera. La denuncia della figlia. Martina Piumatti, Lunedì 16/11/2020 su Il Giornale. Il calvario di Rosa, 94 anni di Rho, inizia sabato 31 ottobre. La mattina si sveglia, ma qualcosa non va. Si sente debole, la testa gira. Chiama la figlia Linda che, da Bollate, la raggiunge. "Nel frattempo - racconta Linda a IlGiornale.it - contatto il 112 perché, essendo sabato il medico di base non è in servizio. I paramedici, però, mi dicono di indossare i dispositivi di protezione e verificare di persona le reali condizioni di mia madre". Quando entra in casa la signora Rosa è in terra, svenuta. "L'abbiamo trovata in bagno sporca di bisogni e a fatica, io e il mio compagno, siamo riusciti a metterla sul letto. Le proviamo la febbre e ne ha 37,7, mentre la saturazione è scesa a 95. Ho richiamato immediatamente il 112 confermando la gravità della situazione". I paramedici arrivano nel giro di poco, ma il problema è trovare un posto al pronto soccorso. Dalle 11 Rosa riuscirà ad accedere come caso di sospetto Covid al triage dell'ospedale di Tradate solo alle 15.50. "A noi dicono di andare a casa, disinfettare i vestiti e aspettare la loro telefonata senza uscire di casa", aggiunge la figlia.

Aspettano ore, ma nessuno chiama. Poi, alle 19.30 il telefono squilla. È un medico del pronto soccorso di Tradate. "Il medico, russo, in un italiano stentato, difficile da decifrare, ci dice che la mamma sta benissimo e di andare a prenderla". Da caso sospetto Covid viene dimessa con la diagnosi di sindrome influenzale. E del tampone neppure l'ombra. I parametri di saturazione dell'ossigeno non sono sufficientemente compromessi da giustificare un test. "Noi non sappiamo se mia mamma ha il Covid, ma ci rendiamo conto che non può stare da sola. Quindi anche con il rischio di contagiarci decidiamo di portarla a casa nostra a Bollate. Ho dovuto chiamare mio fratello che, da Como, è arrivato per stare con nostra madre mentre noi organizzavamo la casa per ospitarla con la certezza che, se positiva, ci saremmo contagiati tutti". Ma la situazione non cambia. "La mamma è sempre più debole e in più non le avevano nemmeno dato da mangiare perché, non dovendo essere ricoverata, di fatto, non le spettava". Il medico di famiglia non è in servizio e la guardia medica liquida il caso, consigliando di prendere il paracetamolo per abbassare la febbre. Lunedì 2 novembre Rosa peggiora. La figlia chiama il medico di base. Non c'è, risponde la sostituta. "Ci dice - aggiunge Linda - che non può fare nulla e che se la situazione precipita l'unica resta chiamare il 112. Cosa che avviene venerdì 13 novembre, quando mia madre sviene in bagno". E il copione si ripete. Fatica a trovare un posto, sosta di più di un'ora in barella e poi triage come caso di sospetto Covid alla clinica San Carlo di Paderno. Linda e il compagno disinfettano i vestiti, si chiudono in casa e aspettano. Ma nessuno chiama. Sono passate più di sette ore. Linda prova a chiamre il pronto soccorso, ma il telefono squilla a vuoto. Poi decide di chiamare al cellulare della madre. Risponde una dottoressa che, dopo aver prescritto il tampone, mette i familiari di Rosa davanti a una scelta. "Ci ha detto - racconta Linda - che se la ricoveravano nel reparto Covid rischiava di venire a contatto con pazienti con cariche virali superiori alla sua. Mentre se l'avessimo portata a casa con noi avrebbe avuto più possibilità di farcela. Noi non ci abbiamo pensato nemmeno un attimo e l'abbiamo riportata a casa". Il giorno dopo arriva l'esito: Rosa ha il Covid. Dopo tre giorni il quadro clinico si aggrava. Rosa è sempre più assente, debole, non riesce ad alzarsi, alimentarsi e bere come dovrebbe. Ha dolori ovunque e si lamenta giorno e notte. Linda decide di richiamare il medico di base. "Ho chiesto che cosa fare. Mi ha risposto che non può uscire a visitare mia madre perché è immunodepressa e sarebbe un rischio. Mi ha detto di tenerla idratata, di darle un antibiotico generico e di procurarmi una bombola di ossigeno. Ma come è possibile somministrare una cura senza sapere nemmeno quali sintomi ha mia madre? Poi lo dicono tutti che l'antibiotico non va dato a caso". Linda non può uscire di casa perché è in isolamento fiduciario, ma non si arrende. "Me l'hanno detto anche dall'ospedale che il medico è obbligato a venire a visitarla. E se non può deve attivare il servizio Usca predisposto da Regione Lombardia. Cosa che siamo riusciti ad ottenere, ma per ora, nessuno si è fatto vivo e mia madre ogni giorno è sempre più assente. Noi non riusciamo quasi a darle da bere perché fa fatica a reggersi. Le Rsa non la accettano perché ha il Covid, gli ospedali non la ricoverano perché i parametri non sono abbastanza gravi. Siamo completamente abbandonati. Ormai sappiamo che è solo questione di tempo: non ce la farà. Ma, poi, farò di tutto perché chi è responsabile paghi".

Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 13 novembre 2020. «Pazienti accatastati uno sull' altro e barelle attaccate. Così non riusciamo neanche a visitarli». È lo sfogo che arriva dalla prima linea dell' ospedale Annunziata di Cosenza. «Il pronto soccorso è allo stremo- dice la dottoressa Federica Messineo- e si è trasformato in reparto Covid. Qui c' è gente che ha perso la dignità. I malati non possono essere curati come meritano e noi non possiamo lavorare in queste condizioni». La voce di medici, infermieri e operatori socio sanitari arriva dal presidio all' ingresso della direzione dell' azienda ospedaliera. Chiedono di spostare i pazienti positivi che, da giorni, stazionano al pronto soccorso. Al momento 44 in attesa di collocazione. «Sono in condizioni pessime dal punto di vista assistenziale e sanitario. Al limite dell' indecenza». Dovrebbero esserci 19 medici, ma sono la metà. E così per infermieri e personale: ne servirebbero una ventina. «Siamo molto provati. Il Covid fa danni e fa morti e, da soli, non siamo in grado di far fronte a tutto questo». La situazione è peggiorata nelle ultime 48 ore. A separare positivi e non, c' è solo una porta. Si teme un focolaio: alcuni sanitari si sono già infettati. Nel frattempo, la direzione sanitaria ha annunciato l' arrivo di 8 nuovi medici. Ma la rabbia è tanta. «Chirurgia generale ha 18 unità in esubero- dice ancora la dottoressa Messineo- e non capisco perché non vengano spostati, mentre personale di altri reparti è in ferie. Siamo in guerra, nelle guerre bisogna richiamare al fronte». Allo stremo anche anestesia e rianimazione. Con turni di 38 ore settimanali che invece stanno superando le 50. Senza riposi. Gli stessi virologi sono in affanno. «Ore e ore rinchiusi nelle stanze a processare i tamponi e caricare anche le schede dei pazienti, togliendo tempo al resto. In queste condizioni l' errore è dietro l' angolo». La protesta nel giorno in cui l' Asp di Cosenza finisce al centro di un' indagine conoscitiva della Procura sui tempi dei tamponi e l' adozione dei piani Covid con un' ispezione dei Nas. E arriva la sorpresa: la Cisl Medici denuncia un guasto all' unico apparecchio che ha il compito di processare i tamponi di tutta la provincia. Qui si riversano 700mila abitanti, il 36% dell' intera Calabria. «Siamo serviti da un solo laboratorio di virologia- commenta per il sindacato Rodolfo Gualtieri - che è andato in blocco, con tutti gli accumuli di esami. Si è fermato tutto. Questo vorrà dire che nei prossimi giorni a Cosenza non ci sarà nessun positivo. Perché non lo sapremo». Da circa un mese e mezzo si attende l' apertura di un altro laboratorio a Rossano, ma resta un miraggio. «Come al solito, continuiamo ad inseguire le emergenze, in Calabria non si riesce a programmare nulla». Anche quando si prova a pianificare, la situazione non cambia. «Prima di questa nuova ondata, hanno smantellato i posti letto attivati in primavera anziché acquisire personale». Gualtieri è anche il direttore della Terapia intensiva pediatrica. In scadenza, perché sabato quel reparto- l' unico di tutta la Calabria - verrà chiuso. «I bambini verranno curati con gli adulti o trasferiti nei posti più vicini. Napoli e Messina». Poi guarda alle percentuali di ricoverati in gravi condizioni, inferiori ad altre regioni. «Il paradosso è che la struttura sta collassando su numeri neanche così disastrosi. Questo fa capire quanto la situazione sia drammatica. Ormai ci sono rimasti solo i santi e tra poco neanche loro ce la faranno più».

A bordo di un’ambulanza Covid: una notte in prima linea con i volontari della Croce Bianca. Notizie.it il 14 novembre 2020. Una notte a bordo di un'ambulanza Covid, nel cuore della zona rossa, accanto ai volontari da mesi in prima linea per combattere la pandemia. Ore 18, via Vettabbia, nel cuore della città che è diventata l’epicentro della seconda ondata. È qui che i volontari della Croce Bianca, sezione di Milano Centro, si preparano per il turno. Sono loro, ogni sera e per tutto il fine settimana, a salire sulle ambulanze e rispondere alle richieste di soccorso, in gran parte casi Covid accertati o sospetti. Anche loro fanno parte di quell’esercito di eroi per cui la scorsa primavera abbiamo cantato dai balconi. “Un giorno stavo tornando a casa e mentre attraversavo il cortile ho sentito qualcuno battere le mani per me. Mi sono sentita in colpa, avrei voluto spiegare che non me lo merito: quel giorno ero stata solo al centralino” ci spiega Silvia, una delle volontarie che ci fa strada verso l’ambulanza che accompagneremo in questa notte in prima linea. Era il 2016 quando è entrata in Croce Bianca, il che fa di Silvia “una delle più ‘giovani’ qui dentro, anche se non anagraficamente”. Insieme a lei ci sono Elena e Giuseppe, rispettivamente capo servizio e autista. Entrambi indossano la tuta arancione da decenni e, assicurano, in questo lungo arco di tempo hanno visto di tutto, ma niente può prepararti davvero a quello che stiamo vivendo. “Mi sono reso conto abbastanza presto che la situazione stava sfuggendo di mano, ma come tutti ho vissuto quel periodo in una dimensione quasi onirica, surreale” racconta Giuseppe. Insieme alla sensazione di oppressione e smarrimento – non tanto a bordo delle ambulanze quanto fuori, nella quotidianità resa irriconoscibile dal lockdown, man mano che le città si svuotavano e la vita rallentava, fino quasi a fermarsi – c’era però anche “quasi un’esaltazione, il desiderio di lottare” contro un nemico sconosciuto. Ci si abitua a tutto, anche a una tragedia che da febbraio ha causato oltre 43mila morti solo in Italia. Non siamo fatti per vivere in uno stato di emergenza costante, così una situazione che inizialmente sembrava un’anomalia si è cronicizzata. Ma nessuna routine può cancellare dalla memoria il primo caso Covid con cui si è venuti a contatto, né la paura negli occhi di alcuni pazienti che continuano a tormentarti anche mesi dopo. Nel caso di Elena, è “un signore anziano con grosse difficoltà respiratorie ma che non voleva andare via da casa sua. Era disperato perché la figlia non poteva venire con noi, così come la famiglia era disperata perché doveva restare fuori dall’ambulanza”. “Sono gli anziani a colpirti di più – concorda Silvia – perché davanti a un virus sconosciuto traspare tutta la loro fragilità. Improvvisamente si sono trovati ad affrontare, spesso in solitudine, una malattia di cui si sa poco”. Ma non c’è tempo per scavare troppo a fondo nei ricordi, il silenzio della notte è interrotto dal suono della chiamata in arrivo, subito accompagnata alla conferma: “Tampone positivo“. Inizia allora (con una combinazione di rapidità e precisione, perché bisogna partire il prima possibile ma niente deve essere lasciato al caso) il rituale della vestizione che trasforma i volontari in figure irriconoscibili. La tuta bianca, la mascherina, i guanti, il nastro adesivo intorno a polsi e caviglie che sigilla ogni fessura in cui il virus potrebbe infilarsi, gli occhiali che si appannano subito, si ricoprono di uno strato di umidità che rende quasi impossibile vedere e farsi vedere, ostacolando anche il contatto attraverso lo sguardo, l’unico concesso. “È cambiato tutto, in un contesto normale il contatto col paziente è la prima cosa. Spesso gli anziani ci chiamano solo per parlare, per raccontare a qualcuno i propri problemi. Da quando è iniziata l’emergenza, possiamo mostrare a malapena gli occhi e quello che vediamo, ogni volta, è la paura sul viso dei pazienti” ci raccontano. L’ambulanza sfreccia per le vie di Milano e raggiunge la destinazione. Il capo equipaggio scende e va a prendere la paziente, accompagnato – a distanza – da un secondo soccorritore, mentre restiamo in attesa con l’autista e una ragazza che finora si è tenuta in disparte. È giovane, osserva tutto con uno sguardo curioso e leggermente spaurito: è un’allieva della Croce Bianca alla sua seconda uscita (entrambe casi Covid), spiega, una delle poche rimaste dopo le numerose disdette dall’inizio della pandemia, proprio ora che c’è più bisogno di aiuto. Per mesi abbiamo sentito parlare dell’infezione e delle sue conseguenze a breve e lungo termine, ma niente prepara davvero a vedere con i tuoi occhi lo smarrimento e il terrore sul volto di un positivo (una donna giovane, uno schiaffo a chi ancora la ritiene una malattia che colpisce solo gli anziani) mentre i soccorritori lo aiutano a salire sull’ambulanza. Ripartiamo, destinazione ospedale San Carlo. L’ambulanza arriva all’ingresso, si ferma, affida la paziente al personale sanitario e si allontana. Il pensiero corre a negazionisti e complottisti: dove sono, allora, le file di ambulanze, gli ospedali intasati, gli scenari di guerra? “È una calma apparente – ci spiegano i volontari – se all’esterno non c’è nessuno è solo perché manca quella pletora di parenti e amici che prima dell’emergenza seguiva il malato in pronto soccorso. Ora ci sono solo medici e pazienti, ma all’interno la situazione è critica. Sabato scorso siamo arrivati a 12-13 ore di attesa”. Mentre parliamo, il capo equipaggio comincia la svestizione. Il rituale si ripete, capovolto, con – se possibile – ancora più attenzione perché è questo il momento più delicato: “Se staccando il nastro adesivo strappi la tuta è finita, è il passaggio a cui bisogna stare più attenti. Insieme ai guanti: ne indossiamo diversi, uno sopra l’altro, e ogni volta che tocchiamo qualcosa dobbiamo togliere uno strato per non rischiare di contaminarci”. Al termine del processo, una semplice scatola di cartone contiene l’armatura, ormai dismessa, su cui si annida il virus, vicino e tangibile come non mai. Con la paura del contagio devi imparare a convivere. “Un po’ di nervosismo c’è sempre – ammette Giuseppe – ma a mente fredda mi rendo conto che rischio di prenderlo più dai miei figli o facendo la spesa al supermercato che in un’ambulanza che viene continuamente disinfettata e dove ho accesso a tutte le protezioni”. “Non ho mai avuto paura per me stessa, non per incoscienza ma perché so di essere molto attenta – concorda Elena – però per la mia famiglia sì, sono preoccupata, perchè in casa con me ci sono i miei genitori che soffrono di altre patologie”. A fare paura davvero però, spiega Silvia, non è l’infezione o dover indossare una tuta e soccorrere un paziente ma “è la disgregazione“, è chi crede che le ambulanze girino a vuoto e negli ospedali ci sia calma piatta, chi nega l’esistenza della malattia persino quando finisce lui stesso in pronto soccorso e ha bisogno di essere curato. Proprio ora che dovremmo fare fronte comune non riusciamo più a ritrovare lo spirito di marzo, abbiamo dimenticato gli arcobaleni e gli andrà tutto bene. Un abisso separa il fronte dei negazionisti e dei no mask da chi rinuncia a una serata in famiglia, accantona impegni e interessi e mette a rischio la propria salute per salvaguardare quella del prossimo. Anche quando il prossimo si rifiuta di indossare la mascherina e di rispettare il distanziamento, anche trovando dentro di sé la capacità (tutt’altro che scontata) di non condannare ma cercare di comprendere, di empatizzare persino con chi ti chiama untore. “Capita che la gente ci eviti se ci incontra sul pianerottolo, ma capisco che la paura possa spingere a far finta che il problema non esista” sospira Silvia. “In un certo senso, mi sento vicina a queste persone. Quello che vorrei è che riuscissero ad avere una reazione più razionale a una paura che, in fondo, abbiamo tutti, anche noi”.

La lunga Odissea tra telefonate a vuoto e rifiuti. “Sei ambulanze e 4 ospedali, così il Coronavirus ha ucciso mio padre”, Vincenzo morto mentre cercava un posto letto. Rossella Grasso su Il Riformista il 13 Novembre 2020. “Mio padre, affetto da Covid, ci ha messo 5 giorni per avere un posto letto dopo una baraonda di telefonate a operatori sanitari senza umanità. La sua morte è una vergogna”. Michele Diana, ha rabbia e dolore per la morte del suo papà Vincenzo. Era un imprenditore di 57 anni di Casal di Principe. Aveva scoperto di aver contratto il Covid e nel giro di una settimana la sua situazione è precipitata, nell’inerzia di un sistema sanitario ormai paralizzato dall’aumento dei contagi. In una prima fase Vincenzo è stato a casa in isolamento come prevedono le procedure. Ma è subito iniziata un’Odissea tra telefonate a vuoto e giri per gli ospedali in cerca di un posto letto disponibile. “Quando abbiamo avuto l’esito positivo del tampone, fatto privatamente, abbiamo informato il nostro medico di base come vuole il protocollo – racconta Michele – Ma l’Asl non ci ha mai contattati perché il nostro medico di famiglia si era dimenticato di avvisarla. A quel punto abbiamo provato a contattare noi l’Asl ma non ci ha mai risposto”. A quel punto la famiglia decide di contattare il cardiologo che aveva Vincenzo in cura: l’imprenditore era cardiopatico, diabetico e con un pregresso enfisema polmonare. “Dopo 4 giorni di febbre riusciamo a contattare il team covid che si dedica in maniera tecnica alla questione – continua il doloroso racconto Michele – mio padre continua ad avere febbre e piano piano inizia a desaturare sempre più, giungendo a saturazione 94 (minimo fattibile), gli raddoppiano le cure, aggiungono farmaci. Si giunge dopo una settimana ad un’unica soluzione: il team covid decreta che mio padre debba essere ricoverato dopo aver fatto a casa emogas e prelievo ematico”. Il 30 ottobre la famiglia chiama la prima ambulanza. “I medici guardano mio padre da lontano e confermano la terapia dicendo: la saturazione fino a 94 è giusta, se scende sotto i 90, ricoveriamo, ci hanno detto – continua il racconto Michele – Nel mentre la saturazione scende e il team covid è sempre piu convinto del ricovero”. Il 31 ottobre richiamano l’ambulanza ma i medici continuano a dire che può non essere ricoverato sebbene il team Covid ne sostenga la necessità. Finalmente il 2 novembre il team Covid contatta la famiglia Diana per avvisarli che si è liberato un poso letto all’ospedale di Aversa in alternativa a quello di Santa Maria Capua Vetere dove in un primo momento si era ipotizzato il ricovero. “L’ambulanza del 118, allertata dal team covid, arriva alle 3:30 di notte e dice che non è mai stato vero che c’erano i posti letto e loro non sanno dove portare mio padre – continua a raccontare Michele – Il centralino risulta fuori posto. Mio padre intanto continuava a desaturare, mantenendo a stento i limiti, non quelli consentiti del 94 , ma giungendo a limiti improbabili (15unità di ossigeno per 80 di saturazione)”. Poi il 3 novembre i Diana richiamano l’ambulanza alle 08:30. “Alle 10:35 mi richiamano per avere conferma del fatto che io ne avessi ancora bisogno, alle ore 12:45 (quando io ormai esausto stavo recandomi al pronto soccorso, nella confusione più totale di pareri discordanti sulla possibilità o meno di presentarsi in pronto soccorso con un covid positivo) arriva l’ambulanza, da cui ne scende un medico vestito come a Milano si va a passeggiare in Sempione , con una semplice mascherina chirurgica privo di qualsiasi mezzo esistente atto a prevenire contagi e ci dice che mio padre non ha nemmeno la bronchite e non va ricoverato”. “Dopo le nostre insistenze riusciamo ad ottenere un "passaggio in ambulanza" alla clinica di Castel Volturno che Vincenzo De Luca aveva detto di aver attivato in funzione covid durante la diretta del venerdì precedente. Ma lì non c’era nulla di aperto. Per cui ci spostiamo all’ospedale Moscati di Aversa, ma anche lì posto non ce n’era. La dottoressa del pronto soccorso vieta la somministrazione da parte degli operatori del 118 di ossigeno e di farmaci di fruizione dell’ospedale. Per cui ci organizziamo in famiglia recuperando bombole d ‘ossigeno trovate nelle farmacie della zona e con farmaci che avevamo a disposizione. Ancora una volta la sanità ha negato a mio padre il diritto inviolabile e fondamentale della costituzione”. “Il medico del 118 durante tutto il periodo d’attesa continua nell’arte di convincere mio padre a tornare a casa continuando a dire che non aveva nemmeno la bronchite e invece in ospedale avrebbe rischiato maggiormente di prendersela. Ma lui ce l’aveva già da una settimana ormai”. Finalmente Michele trova posto nell’ospedale di Caserta. “Dopo due giorni in ventilazione c-pap , mio padre inizia a lamentare un dolore alla gamba e da lì viene avvertito il cardiovascolare che diagnostica un trombo alla vena femorale, lo operano d’urgenza ma non si è mai svegliato”. La famiglia Diana è affranta dal dolore per la perdita di Vincenzo e non si dà pace: vuole sapere bene il perché di quella morte. “È stato tutto quel ritardo ad uccidere mio padre? Se è così chi ha sbagliato deve pagare per tutto quella inumanità”.

"Abbandonato in bagno Così l'ho visto morire". Il video testimonia come si può morire abbandonati nel bagno di un pronto soccorso-immondezzaio, dove i "rifiuti" sono esseri umani contagiati dal Covid. Nino Materi, Venerdì 13/11/2020 su Il Giornale. Il video testimonia come si può morire abbandonati nel bagno di un pronto soccorso-immondezzaio, dove i «rifiuti» sono esseri umani contagiati dal Covid. A 24 ore da quelle immagini-choc che dovrebbero far vergognare l'intero governo, l'unico che non doveva scusarsi di nulla (cioè l'autore del video) ha chiesto scusa; mentre tutti quelli che avrebbero dovuto chiedere scusa (cioè chi ha trasformato in discarica il pronto soccorso del nosocomio più importante del Sud), restano tranquillamente al proprio posto. Facendo, per giunta, la morale a chi ha documentato lo scempio. Breve riassunto del dramma: da giorni, a causa dell'emergenza Covid, il pronto soccorso dell'ospedale Cardarelli di Napoli è intasato di malati gettati a terra su brandine di fortuna. La colpa - va precisato - non è dei medici o degli infermieri che anzi sopperiscono alle carenze facendo più del loro dovere. Però, nonostante gli sforzi, la realtà è da incubo: decine di pazienti infetti ammassati in pochi metri in un ambiente sporco e promiscuo che qualche separé malconcio rende ancor più avvilente. In tale contesto un anziano va in bagno e lì muore nell'indifferenza generale, il suo cadavere verrà scoperto solo parecchio tempo dopo con modalità su cui le versioni divergono. Fatto sta che la porta del bagno si apre e un altro ricoverato filma quel corpo senza vita con attorno tanti altri «ricoverati» in quello che tutto sembra meno che un pronto soccorso. Impossibile non essere d'accordo con lo scrittore Gianluca Nicoletti che sulla Stampa ha usato parole dure, vere: «Nulla giustifica un obbrobrio simile dopo piani, decreti, conferenze stampa, ore interminabili di talk televisivi. Intanto chi non ha voce per dire la sua muore, da solo e nella merda». Intanto contro l'autore del video (che ieri è stato visto in rete da migliaia e miglia di utenti) si è scatenato un assurdo linciaggio che ha confuso strumentalmente la causa con l'effetto; come se, in un omicidio, a essere denunciato fosse non l'assassino ma chi ha smascherato il delitto. Ed è proprio questa la condanna toccata in sorte a Rosario L., il 30enne di Napoli, autore del video dello scandalo (benché il vero «scandalo» non sia il video in sé, ma ciò che esso descrive), che ieri si è sentito in obbligo di discolparsi: «Quel video l'ho girato e messo su Fb per far capire che lì ci trattano come appestati, anziani abbandonati e lasciati soli, come è successo a quel vecchio morto in bagno, che era vivo quando sono entrato. Era in stanza con me, non usciva dal bagno e quindi sono entrato. Non riusciva a respirare perché aveva il Covid. Gli ho buttato dell'acqua in faccia, volevo salvarlo. È morto tra le mie braccia. Ho chiesto aiuto, ma nessuno mi dava retta. Sono arrivati dopo mezz'ora. Non riesco a sopportarlo. Volevo far vedere quello schifo: quando ho chiesto aiuto nessuno mi dava ascolto, c'è stato pure chi mi ha detto fatti i fatti tuoi». Rosario è positivo a Covid: «Ero da due giorni in ospedale per problemi di respirazione. Dopo quel video mi hanno rispedito a casa». Intanto la Procura di Napoli ha acquisito la documentazione clinica del pronto soccorso e aperto un fascicolo contro ignoti in attesa dell'esito dell'autopsia sulla salma posta sotto sequestro. Anche ieri, nonostante l'eco di questa bruttissima storia, il sindaco di Napoli De Magistris e il presidente della Regione, De Luca (che ha rifiutato gli «ospedali da campo» e per questo è stato attaccato dal ministro Boccia), non hanno perso occasione per insultarsi. E oggi la Campania diventerà, quasi sicuramente, «zona rossa»: rossa, di vergogna, lo è già da un pezzo.

Da anteprima24.it il 12 novembre 2020. Il video, diventato virale, che ritrae un uomo senza vita in un bagno del pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli, continua a far discutere. “Quel video e anche altri li ho girati e anche messi su Fb per far capire che lì ci trattano come appestati, anziani abbandonati e lasciati soli, come è successo a quel vecchio morto in bagno, che era vivo quando sono entrato”. A parlare con l’Ansa è Rosario La Monica, un 30enne di Marianella, autore del filmato: “Era in stanza con me, – dice ancora Rosario – non usciva dal bagno e quindi sono entrato. Non riusciva a respirare perchè aveva il covid. Gli ho buttato dell’acqua in faccia e poi ho chiesto aiuto, ma nessuno mi dava retta. Sono arrivati dopo mezz’ora ed era già morto. Non riesco a sopportarlo”. “Ho girato quelle immagini perchè volevo far vedere quello schifo: quando ho chiesto aiuto nessuno mi dava ascolto, c’è stato pure chi mi ha detto ‘fatti i fatti tuoi'”, continua all’Ansa, il 30enne autore del video. “Ero da due giorni in ospedale, – conclude Rosario, che è positivo al coronavirus – per problemi di respirazione. Quella persona era con me in stanza, insieme con altri vecchietti che io, che stavo meglio, aiutavo”. “Io ero ricoverato per positività al Covid – spiega Rosario in un lungo posto sui social – per tampone rapido sono stato un giorno senza ricevere ne medicine ne altro solo ossigeno preso da me nel corridoio il giorno dopo, dopo una lunga nottata essendo che i pazienti si lamentavano io mi alzavo per controllare le bombole tutte esaurite e le cambiavo perché non cera un infermiere e ho dovuto aiutare tante persone. La mattina erano le 10 e non abbiamo ricevuto nessuna terapia. La prima terapia era alle 9 noi l’abbiamo ricevuta alle 2″.

"Vergognoso sciacallaggio". “La vera storia del decesso al Cardarelli”, la ricostruzione di De Luca: vittima un uomo di 84 anni. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2020. Con un lungo post sui social il governatore della Campania Vincenzo De Luca interviene sul video, diventato virale, del paziente trovato morto nel bagno del pronto soccorso del Cardarelli e annuncia di aver dato mandato agli uffici regionali di procedere legalmente contro il consulente del Ministro della Salute, il napoletano Walter Ricciardi.

“LA VERA STORIA DEL DECESSO AL CARDARELLI” – “Ieri è giunto al Pronto Soccorso del Cardarelli, già con l’ossigeno da casa, il signor Giuseppe C., di 84 anni. Il paziente, come risulta dalla cartella clinica, era affetto da diabete, ipertensione, aneurisma all’aorta addominale, e già sottoposto in precedenza a intervento di laringectomia. Il paziente, trasferito in OBI, si è alzato dalla barella ed è andato in bagno. Dopo dieci minuti, l’infermiere, preoccupato del ritardo, è andato a verificare e ha trovato l’uomo riverso a terra privo di vita. Quindi si è allontanato per prendere la lettiga. In questi minuti, un altro signore, Rosario R., 30 anni, giunto con mezzi propri al Pronto Soccorso del Cardarelli, ha avuto il coraggio di girare un video e di postarlo poi sui social. In serata, lo stesso giovane, contro il parere dei medici, è andato via dall’ospedale. Oltre a inviare la mia doverosa solidarietà alla famiglia del deceduto, ho invitato il Direttore Generale del Cardarelli a esprimere il mio apprezzamento, per il lavoro straordinario che fanno da sempre, a medici e infermieri di quel Pronto Soccorso. Ho invitato inoltre il Dg a denunciare l’esecutore dell’ignobile video e con lui quanti, su un episodio che poteva capitare in ogni ospedale del mondo, si sono abbandonati all’ennesima campagna di vergognoso sciacallaggio contro il Cardarelli e la sanità campana. Infine, ho dato mandato agli uffici regionali di procedere legalmente contro il consulente del Ministro della Salute, il sig. Ricciardi”.

LA PRIMARIA: “OSSESSIVO E DISTURBATO” – “È difficile e doloroso commentare le dichiarazioni di Rosario La Monica, più volte le nostre infermerie hanno dovuto chiedere a quell’uomo di allontanarsi dalla strumentazione medica e dai monitor di sorveglianza di altri pazienti”. Queste le parole di Fiorella Paladino, primario del Pronto Soccorso Obi del Cardarelli di Napoli, in merito alle accuse lanciate su Facebook da La Monica. “Un uomo disturbato – aggiunge Paladino – che nel breve tempo nel quale è stato ricoverato ha tenuto un comportamento ossessivo”. Il primario del pronto soccorso del Cardarelli definisce “del tutto false le accuse mosse sui social. Tutto il personale del pronto soccorso si sottopone a turni massacranti per fronteggiare il continuo arrivo di pazienti. È molto triste che quest’uomo abbia approfittato di ogni istante nel quale aveva modo di essere solo per portare avanti la sua ossessione, usando la sofferenza di altri pazienti e il nostro ospedale quasi come un set per girare video che ha poi postato sui social”.

Mario Ajello per ''Il Messaggero'' il 12 novembre 2020. Prendersela con il video invece di prendersela con il fatto. Surreale la reazione del dg dell' ospedale napoletano alla diffusione del filmato sull' uomo morto e abbandonato nel bagno del Cardarelli, tra il lavandino e il muro, come se fosse uno scarto buttato lì per terra. E nessuno del personale interviene per prendersene cura. Ci si dovrebbe dimettere, se si avesse rispetto della propria funzione, di fronte a uno sconcio di questo tipo. Bisognerebbe ammettere che lo choc provocato trasuda vergogna. E invece, no. Scatta lo scaricabarile (la colpa è del video) e l'autoperdonismo: deve esserci stato un complotto - o meglio «una strumentalizzazione» - che ha provocato questo sconcio. Ma è mai possibile mascherare così uno scandalo di inciviltà sanitaria che mai sarebbe dovuto accadere? E dunque parte l' indagine interna che «dovrà accertare chi e in che modo abbia girato e diffuso il video. È bene sottolineare che a tutti i pazienti dell' area sospetti, al pari di tutte le altre aree, viene garantita continua assistenza da parte del personale sanitario in servizio». Ma stavolta, no. E la colpa viene rovesciata su un filmino e su chi, probabilmente un paziente munito di smartphone, lo ha girato. Timoroso di poter fare la stessa fine di quel pover'uomo defunto nel wc.

Pierluigi Frattasi per fanpage.it il 13 novembre 2020. "Ecco la vera storia del decesso al Cardarelli". A parlare è il governatore Vincenzo De Luca, a 24 ore dalla diffusione del video choc sull'uomo morto nel bagno del Pronto Soccorso dell'ospedale Cardarelli di Napoli. L'84enne con diverse patologie, secondo quanto ricostruito dal presidente della Regione, sarebbe stato subito soccorso dall'infermiere di turno, mentre il video sarebbe stato registrato nei minuti trascorsi durante i quali l'operatore sanitario si sarebbe allontanato per andare a prendere la lettiga.

"Il Cardarelli denunci l'autore del video". "Ieri – racconta il presidente della Regione – è giunto al Pronto Soccorso del Cardarelli, già con l’ossigeno da casa, il signor Giuseppe C., di 84 anni. Il paziente, come risulta dalla cartella clinica, era affetto da diabete, ipertensione, aneurisma all’aorta addominale, e già sottoposto in precedenza a intervento di laringectomia. Il paziente, trasferito in OBI, si è alzato dalla barella ed è andato in bagno. Dopo dieci minuti, l’infermiere, preoccupato del ritardo, è andato a verificare e ha trovato l’uomo riverso a terra privo di vita. Quindi si è allontanato per prendere la lettiga. In questi minuti, un altro signore, Rosario R., 30 anni, giunto con mezzi propri al Pronto Soccorso del Cardarelli, ha avuto il coraggio di girare un video e di postarlo poi sui social. In serata, lo stesso giovane, contro il parere dei medici, è andato via dall’ospedale". "Oltre a inviare la mia doverosa solidarietà alla famiglia del deceduto – prosegue De Luca – ho invitato il Direttore Generale del Cardarelli a esprimere il mio apprezzamento, per il lavoro straordinario che fanno da sempre, a medici e infermieri di quel Pronto Soccorso. Ho invitato inoltre il Dg a denunciare l’esecutore dell’ignobile video e con lui quanti, su un episodio che poteva capitare in ogni ospedale del mondo, si sono abbandonati all’ennesima campagna di vergognoso sciacallaggio contro il Cardarelli e la sanità campana".

Il caso nell'ospedale napoletano. Paziente morto al Cardarelli, parla l’autore del video: “Abbandonati e trattati come appestati”. Redazione su Il Riformista il 12 Novembre 2020. L’autore del video del paziente morto nel bagno dell’ospedale Cardarelli di Napoli parla per la prima volta. E racconta perché ha girato quel filmato: dice di averlo fatto per la vittima, per quel paziente accasciato senza vita nel bagno dell’ex sala d’attesa del pronto soccorso. “Quel video e anche altri li ho girati e anche messi su Fb per far capire che lì ci trattano come appestati, anziani abbandonati e lasciati soli, come è successo a quel vecchio morto in bagno, che era vivo quando sono entrato”, ha detto all’Ansa Rosario La Monica, un 30enne di Marianella, autore del video diventato virale che ha scatenato numerose e forti polemiche. “Era in stanza con me – ha continuato Rosario – non usciva dal bagno e quindi sono entrato. Non riusciva a respirare perché aveva il covid. Gli ho buttato dell’acqua in faccia e poi ho chiesto aiuto, ma nessuno mi dava retta. Sono arrivati dopo mezz’ora ed era già morto. Non riesco a sopportarlo”. Questa la testimonianza dell’uomo che ha girato e quindi cominciato a diffondere il video diventato virale in poche ore. Il caso è esploso ieri pomeriggio. Il Cardarelli è tra i nosocomi più colpiti dall’emergenza covid. I medici e gli infermieri lavorano sotto organico per far fronte all’afflusso continuo di pazienti. L’uomo ritrovato senza vita e al centro del video in questione era ricoverato nell’area dei sospetti Covid. Aveva saturazione bassa ed era stato adagiato su una lettiga. La diffusione del video ha esacerbato l’odio nei confronti del personale sanitario, già oggetto di attacchi nelle ultime settimane e costretto a lavorare in condizioni di assoluta emergenza.

LA NOTA – La direzione generale del Cardarelli, dopo che il video ha cominciato a diffondersi, ha condannato la strumentalizzazione: “Nella giornata di oggi, mercoledì 11 novembre 2020, un paziente ricoverato nell’area di Area Sospetti del pronto soccorso del Cardarelli, con probabile infezione da Covid-19 e per questo già in terapia, è stato trovato privo di vita nel bagno dell’area di pronto soccorso. A ritrovare il corpo è stato il personale dell’ospedale che ha notato l’eccessiva permanenza dell’uomo nella toilette. A pochi minuti dal decesso ha iniziato a circolare in rete un video che mostra il corpo dell’uomo, girato approfittando dell’allontanamento dei soccorritori andati a prendere una lettiga sulla quale adagiare il corpo. Non è al momento possibile stabilire quale sia stata la causa del malore che ha portato al decesso, tuttavia la direzione sanitaria ha doverosamente avviato ogni indagine necessaria”.

Ciro Pellegrino per fanpage.it il 13 novembre 2020. Rosario La Monica, di Marigliano è l'uomo che ha materialmente girato il video choc del paziente morto nel bagno all'interno dell'area Sospetti dell'ospedale Cardarelli di Napoli. Lo ammette egli  stesso con un lungo post su Facebook, corredato di altre immagini girate all'interno dell'ospedale partenopeo. Qual è la verità? Cosa è successo al Cardarelli?  Rosario ha documentato la tragedia durante il suo breve ricovero da infetto Covid, poi ha inviato il video via Whatsapp ad altre persone e uno di loro, Agostino Romano, un consigliere della IX municipalità Soccavo-Pianura di Napoli, lo ha pubblicato sui social rendendolo virale e oggetto di una discussione nazionale circa il reale stato del sistema ospedaliero della Campania, in particolare della città capoluogo...

Racconta l'uomo (il testo preso dal suo lungo post Facebook è stato editato solo dagli errori di grammatica): Sono l'autore del video del Cardarelli e vi spiego come è andata. Io ero ricoverato per positività al Covid per tampone rapido, sono stato un giorno senza ricevere né medicine né altro, solo ossigeno preso da me nel corridoio il giorno dopo. Dopo una lunga nottata, siccome gli altri pazienti si lamentavano, io mi alzavo per controllare le bombole tutte esaurite e le cambiavo perché non c'era un infermiere. Ho dovuto aiutare tante persone. La mattina, erano le 10, non abbiamo ricevuto nessuna terapia. La prima terapia era alle 9 noi l'abbiamo ricevuta alle 2 (del pomeriggio ndr.) . C'era gente che aveva bisogno di insulina, pillole per la pressione, eccetera.  Un vecchietto all'ultimo letto che si era alzato senza forze, doveva andare in bagno… io con un po di chiasso sono riuscito a prendere un infermiere col braccio e a portarmelo dentro e lo abbiamo messo sul letto in attesa del catetere. Il catetere non è mai arrivato e mai stato messo.

Il racconto è quello degli attimi precedenti alla tragica scoperta della morte dell'uomo: Il povero vecchietto si è alzato ed è andato in bagno. Sono passati 10 minuti e io ho aperto. Gli ho chiesto se era tutto ok e lui con la testa ha annuito. Possono confermare anche gli altri ricoverati:  ho aiutato tutti, ho misurato la saturazione, il  battito e la pressione a tutti, ho salvato una vecchietta con saturazione  a 65 e l'ho fatta rianimare. Comunque...riapro la porta e c'era il vecchietto a terra. Prendo l'acqua e gliela butto in faccia per veder se si muove… chiedo aiuto ma mi trattano come un malato di  Ebola. Mi dicono "fatti i fatti tuoi" [ …] io torno dentro prendo il cellulare, mi metto io guanti e registro poi ho fatto chiamare il 112. Gli infermieri arrivano dopo mezz'ora e dichiarano la morte e lo mettono la vicino a noi come se niente fosse. Dopo un altra mezz'ora viene il medico e dice arresto cardiaco ma se il vecchietto non riusciva a respirare e aveva bisogno di ossigeno? Non c'erano le barelle per soccorrerlo, non c'era niente …c'ero io contro tutti. Oggi mi trovo a casa, mi hanno dimesso perché non ho polmonite ma ho il virus e me lo devo curare a casa.

Sul fatto di aver pubblicato un video così duro, in palese violazione della privacy dei malati, Rosario La Monica si difende: Chiedo scusa ai famigliari ma non sapevo cosa fare e come fare non era mia intenzione fargli vedere la morte del padre ma soltanto che chi è vecchietto e destinato a morire… perché se vai in ospedale e hai un infarto pensano prima a quello del Covid e se non hai il Covid lo prenderai sicuro. L'uomo ha pubblicato anche altri video in cui si vede che effettuava in effetti misurazioni di saturazione dell'ossigeno nel sangue e battiti usando un apparecchio elettromedicale in dotazione al Cardarelli. «Siete una vergogna  – è la sua chiusura di post  – ribellatevi». Sulla vicenda del defunto è stata aperta una inchiesta della Procura di Napoli e c'è una denuncia dei familiari del morto la cui salma è sotto sequestro. La direzione sanitaria Cardarelli aveva annunciato un'inchiesta interna per capire chi avesse girato un video. Ora lo hanno scoperto: è stato uno di coloro che erano lì per farsi curare.

Il Cardarelli attacca il suo ex paziente. Nel pomeriggio una nota dell'ufficio stampa dell'Ospedale Cardarelli stigmatizza duramente le parole di La Monica, definendolo «un uomo disturbato, con un comportamento ossessivo». A rendere pubblica quella che assomiglia in tutto ad una diagnosi medica, è Fiorella Paladino,  primario del Pronto Soccorso Obi del Cardarelli: Un uomo disturbato che nel breve tempo nel quale è stato ricoverato ha tenuto un comportamento ossessivo». Il primario del pronto soccorso del Cardarelli definisce «del tutto false le accuse mosse sui social. Tutto il personale del pronto soccorso si sottopone a turni massacranti per fronteggiare il continuo arrivo di pazienti. È molto triste che quest’uomo abbia approfittato di ogni istante nel quale aveva modo di essere solo per portare avanti la sua ossessione, usando la sofferenza di altri pazienti e il nostro ospedale quasi come un set per girare video che ha poi postato sui social.

Dagospia il 12 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Mio padre [nome censurato] non vuole morire. Mi chiede aiuto dall’“Osservazione breve e intensiva” dell’Ospedale Cardarelli di Napoli. Veniva condotto lì, con ambulanza 118, la sera del 02/11/2020, in quanto affetto dal Coronavirus, con difficoltà respiratorie e saturazione al di sotto della norma. Da tale data, non abbiamo più notizie di nostro padre:  non ci hanno fornito un numero di telefono al quale chiedere informazioni sul  suo stato di salute. Ha riferito all’entrata di avere patologie concomitanti, di aver subito un intervento per la riduzione del pancreas nel 2015, di essere attualmente affetto da mieloma multiplo in trattamento chemioterapico e di essere  in cura presso il Cardarelli dal 2015. Non risulta che i sanitari, peraltro, tra di loro, quelli dell’Obi del Cardarelli e gli ematologi della stessa struttura, abbiano concordato per lui un piano terapeutico, pur essendo a conoscenza delle sue condizioni precarie e di costringerlo in un luogo in cui circolano ammalati privi di dispositivi di protezione. In  quanto immunodepresso, può aggravarsi da un momento all’altro. Sappiamo che  indossa casco dalle sporadiche e laconiche comunicazioni whatsapp con lui. Non può parlare, apre la comunicazione per farci sentire il rumore dell’ossigeno, per dirci che è ancora vivo. E scrive qualcosa: “non mi hanno trasferito in un reparto per affetti da Coronavirus, non mangio dalla sera del ricovero, non dormo, non mi fanno terapie…non mi hanno fatto Tac ai polmoni… due persone che sono arrivate dopo di me nell’ Obi sono già state trasferite in reparti specifici, questo è un lazzaretto, vogliono eliminare i più deboli…”. Riferisce che nella giornata di ieri, è riuscito a farsi fare l’eparina insistendo molto fino alle 12.07 della sera, dopo sollecito telefonico di un medico conoscente di famiglia che è riuscito a mettersi in contatto, quando invece, in cartella clinica, questa terapia è predisposta per le ore 9.00. Se ci sono falsità nelle cartelle cliniche, andremo a fondo, così come per tutte le inadempienze e i danni fisici e morali cui sta andando incontro. A tutt’oggi indossa ancora le scarpe che aveva dal momento del ricovero, non ha terapia antivirale, né nutrimento,  né ancora, a tutt’oggi, risulta essere stato trasportato in alcun reparto specifico per la cura del Coronavirus da cui è affetto. La cosa più grave è che questa è una malattia subdola, che non mostra i suoi effetti se non quando è troppo tardi per intervenire, pertanto, da studi effettuati sui pazienti fino a questo momento, è importante effettuare la TAC e l’Emogas per una corretta valutazione di malattia e conseguente terapia. I pazienti affetti da COVID sopportano molto bene l’ipossia, per cui non è possibile rendersi conto delle reali condizioni del paziente solo dalla vista o dalle parole del paziente. La stessa sorte era toccata a mia madre […], insegnante in pensione, fratturata ad un braccio ed affetta da Coronavirus con polmonite interstiziale, la prima ad essere portata al Cardarelli la sera del 28/10/2020.  Anche lei digiuna e priva di assistenza, immobile e senza terapia impostata, veniva trasportata in reparto soltanto dopo giorni di privazioni. Nel suo caso, durante la notte, un uomo nudo girava nel OBi del Cardarelli e le si avvicinava, è stata lasciata per molte ore nei suoi escrementi, perché come si sa, questa malattia porta anche dei forti attacchi di diarrea. Ho chiesto, a mezzo di posta elettronica certificata, indirizzata alla direzione sanitaria, nonché alla Regione e Tribunale dei diritti del Malato, l’immediata valutazione delle condizioni psicofisiche di papà da parte dei sanitari del Azienda Ospedaliera e con lo spostamento urgente in un reparto attrezzato per soggetti immunodepressi. Ho chiesto per entrambi i miei genitori la somministrazione di Remdesivir per la cura del Coronavirus che utilizzano in tutti gli ospedali italiani, ma sembra che tutto sia addormentato, mentre la polmonite avanza. I miei genitori vogliono vivere. Napoli, 04/11/2020

Massimo Rebotti per il ''Corriere della Sera'' il 10 novembre 2020. Arrivarono a rompere i vetri delle cassette degli estintori, i medici e gli infermieri dell'ospedale di Alzano lombardo, per prendere le mascherine che c'erano all'interno e usarle in reparto. Era accaduto anche questo, nel presidio della Val Seriana, dopo i primi pazienti risultati positivi, il 23 febbraio, e la coda in pronto soccorso che iniziava ad allungarsi a dismisura, piena di persone che non riuscivano più a respirare. I pochi dispositivi di protezione che c'erano già in ospedale andarono esauriti nel giro di 24 ore e il personale si ritrovò spiazzato. E il racconto sulle cassette rotte, un gesto disperato, è emerso dalle testimonianze degli operatori sanitari, ascoltati in Procura a Bergamo: si trattava davvero di spegnere un «incendio», quello del contagio, che in ospedale stava covando da giorni (almeno dalla metà del mese) e rischiava di travolgere pazienti e personale. Un passaggio drammatico, che si aggiunge a una serie di dubbi, sollevati ieri da Report , sulla distribuzione di dispositivi di protezione da parte della Regione Lombardia alle Aziende socio sanitarie territoriali. Tra il 27 e il 29 febbraio la centrale acquisti di Palazzo Lombardia, Aria spa, avrebbe spedito, per esempio, 35.700 mascherine ffp2 a Lecco, altrettante a Como, Monza e Varese, quattro province dove i dati del contagio non erano assolutamente paragonabili, allora, a quelli della Val Seriana. Alla Asst di Seriate (che coordina anche Alzano), ne erano arrivate la metà. E ancora, l'11 marzo, 4 tute protettive alla stessa Asst bergamasca, contro le 17 andate alle altre quattro province. In una mail ai colleghi il direttore amministrativo di Seriate, Luca Vecchi, aveva previsto amaramente: «Ci daranno gli stessi camici della Valtellina, che al momento ha 8 positivi». L'allarme era suonato anche sui tamponi, da parte del responsabile della Medicina del Lavoro, che via mail scriveva alla sua direzione di non poter fare «sorveglianza sanitaria sul personale», non avendo i test a disposizione. Si chiamava Marino Signori: è morto a causa del Covid. Era accaduto anche altro, tra Seriate e Alzano. Il 14 marzo la direzione ospedaliera aveva chiesto una fornitura di caschi c-pap, che aiutano la respirazione di chi non riesce a inalare ossigeno a sufficienza. Bergamo e la Val Seriana erano travolte dal Covid. Ma il 16 non era ancora arrivato nulla, e via mail, l'ospedale, aveva chiesto ad Aria cosa stesse accadendo, perché quel ritardo. Una risposta disarmante: «L'unità di crisi regionale si è dimenticata di inviare l'ordine». Per questo motivo la ditta appaltatrice non ne sapeva nulla. È una vicenda che la Procura di Bergamo vuole approfondire: agli atti ci sono anche testimonianze di parenti delle vittime. Qualcuno ha riferito che sulla cartella della madre, deceduta, il c-pap veniva indicato come fondamentale, ma non era mai stato usato perché non disponibile. Uno scenario complessivo di impreparazione ad affrontare l'emergenza, una corsa contro il tempo quando l'epidemia era già esplosa. Un fronte su cui i pm procedono a ogni livello, a partire dall'ultimo Piano pandemico nazionale, approvato dal ministero della Salute nel 2017: in quel documento, acquisito dalla magistratura, si notano passaggi identici al Piano del 2006. Anche nelle date. Quando si parla per esempio di stock di farmaci antivirali che «sarà completato entro il 2006». Fu un copia e incolla? In Procura è stato sentito per cinque ore Ranieri Guerra, che allora era direttore del Ministero, e oggi è vicario dell'Oms. Il verbale è stato secretato. Il medico veronese, con una lunga esperienza internazionale e un curriculum di primissimo livello, avrebbe spiegato che i contenuti del Piano erano comunque validi, non essendoci stati grandi stravolgimenti tra il 2006 e il 2017. Giorgio Gori ha attraversato l'esperienza di essere il sindaco di Bergamo nei mesi in cui la città è stata stravolta dall'epidemia: «Per me è stato un incontro con la sofferenza e con la morte a cui, in una dimensione così vasta, non ero preparato. Ma ho visto anche la forza e la coesione di una comunità». Ora, nel pieno di una seconda ondata, che fortunatamente a Bergamo finora è stata meno dura, con un libro Gori chiama al «riscatto». «È quasi un incitamento, e vale sia per Bergamo che per l'Italia. Per la mia città rappresenta l'urgenza di rimettersi in piedi. Per il nostro Paese quella di superare problemi che si porta dietro da molto tempo. È durante la crisi che dobbiamo riuscire a progettare il futuro». Chi lo dovrebbe fare? «Troppi sono stati alla finestra. C'è un'ampia parte della classe dirigente che ha ritenuto che la politica non la riguardasse. Le élite sono state sotto accusa perché autoreferenziali e conservatrici: giustamente. Ma per governare la complessità serve la cultura delle élite, purché empatiche e generose. È il momento di spendersi». A lei qualche giorno fa hanno fatto una manifestazione sotto casa. Il vento può cambiare in fretta. «I bergamaschi hanno conosciuto la faccia più drammatica dell'epidemia. Oggi, visti i numeri, fanno forse più fatica di altri a capire le limitazioni, ad essere accomunati ad altre zone dove il contagio è più allarmante. Io capisco il malessere: chi è andato in piazza teme di non aprire più. Dopodiché nell'"assedio" a casa mia si sommano due cose: il fatto che molti vedano il sindaco come lo Stato, ben oltre le sue reali competenze; e la strumentalizzazione da parte di gruppi di destra». In «Riscatto» parla del suo passato - dalla passione per la politica alla tv con Berlusconi - ma soprattutto di futuro, giovani, scuola. Questioni che l'epidemia ha ricacciato in secondo piano «Il Covid è un ulteriore ostacolo che rischia di inchiodarci al presente. Ma per la politica è vitale avere un orizzonte più lungo, che non sia determinato dall'ultimo sondaggio. Per questo ci vogliono strumenti che restituiscano alla politica la capacità di decidere e partiti più forti, radicati nella società». Parliamo del suo. È adatto il Pd alle sfide che individua nel libro? «Continuo a credere nel Pd. Ma la combinazione di stagnazione, crisi demografica e debito pubblico che caratterizza il "caso italiano" ci impedisce di far affidamento sulle ricette socialdemocratiche del '900». Infatti lei auspica un partito in cui riformisti e «liberal» abbiano più peso. E che non faccia patti politici col M5S. «Populismo, statalismo, giustizialismo e cultura antiparlamentare - l'essenza del M5S - sono lontanissimi dalla mia concezione della politica. Tuttavia la scorsa estate anch' io ho incoraggiato l'avvio di una collaborazione: per "stato di necessità". Ben altro è però prefigurare un matrimonio, o che da lì nasca il nuovo centrosinistra, che è ciò che pare auspicare una parte del mio partito, quella che nel libro indico come "statal-socialista"». Ma il Pd è al 20%. Se vuole vincere con qualcuno si dovrà pur alleare. «Si sostiene la necessità di fare argine al populismo della destra. Io vedo piuttosto il rischio di una deriva statalista, accompagnata da sfiducia verso il mercato. Non si può poi non notare che nel frattempo i 5 Stelle da Roma in su non esistono quasi più, e infatti nei Comuni abbiamo vinto quasi ovunque senza di loro. A maggior ragione è importante che al governo il Pd riesca ad imporre la sua agenda». Oltre all'attuale, dedica pagine anche al Pd di Renzi. «Ho condiviso molte delle sue idee, gli sono amico. Ma non sono mai stato un follower».

Myrta Merlino pubblica la foto choc dell'ospedale: "È la sanità che meritiamo?" La conduttrice di La7 su Facebook ha rilanciato lo scatto dell'ospedale di Rivoli, con i pazienti Covid per terra, che sta facendo il giro del web. Francesca Galici, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. Secondo le indicazioni dell'ultimo Dpcm, il Piemonte è zona rossa, ossia un'area in cui la gravità del contagio da coronavirus è molto elevata. Insieme al Piemonte sono zona rossa anche la Lombardia e la Valle d'Aosta, che vanno a creare un unico blocco per l'Italia occidentale (Liguria esclusa) e la Calabria, unica regione del sud a essere inclusa tra quelle in maggior pericolo. Sono 21 i parametri che hanno portato gli esperti a definire le aree del Paese, che non sono stagne ma possono essere modificate di volta in volta con le nuove analisi dei nuovi dati. In base a quei criteri è più facile che una regione passi da un'area di minor rischio a una di maggior rischio, anche in 24 ore, ma è più difficile il contrario per il quale servono, comunque, almeno 14 giorni. È proprio dal Piemonte che arriva una delle foto simbolo della seconda ondata, uno scatto diventato virale che è stato realizzato all'interno dell'ospedale di Rivoli, in provincia di Torino. "Ospedale di Rivoli, Torino. Mesi di preparazione per la seconda ondata, soldi stanziati a pioggia. Questa è la sanità che ci meritiamo?", ha scritto in mattinata Myrta Merlino, conduttrice di La7 ricondividendo la fotografia. L'immagine è molto chiara: i corridoi del pronto soccorso dell'ospedale alle porte di Torino sono finiti i posti letto. I pazienti, positivi al Covid, vengono posti sul pavimento, su barelle da campo e attaccati a bombole di ossigeno, mentre in reparto si cerca di trovare un letto per tutti. Un'impresa sempre più difficile, come evidenzia il sindacato degli infermieri. "Pazienti Covid per terra, percorsi sporchi puliti riadattati dal personale, lavori mai fatti, territorio inesistente e assunzioni che dovevano arrivare prima. Ecco le drammatiche condizioni della sanità Piemontese. Non abbiamo più parole", denunciano. Nella struttura del torinese nei giorni scorsi sono state montate anche alcune tensostrutture per snellire le operazioni di triage Covid, lasciando il pronto soccorso libero di lavorare anche su altre patologie. Il sovraccarico dell'ospedale di Rivoli pare arrivi dalla chiusura dei pronto soccorso dell'ospedale Martini di Torino, di Venaria e di Giaveno. Tuttavia, a La Stampa l'ospedale fa sapere che "da noi le ambulanze non attendono con i pazienti a bordo e soprattutto non vengono rimandate indietro: è ovvio che possa capitare qualche situazione di disagio, giusto per il tempo di trovare una soluzione. In ogni caso speriamo che non debba più capitare". Intanto, ieri sera l'ospedale di Novara ha chiuso l'accesso al pronto soccorso per tre ore a causa dell'eccesso di pazienti, quasi tutti presunti Covid, in ingresso. Fino alle 22, i nuovi arrivi venivano dirottati su Vercelli, finché l'ospedale non ha smaltito le 50 persone in attesa di una visita, smistandole nei vari reparti.

Muore per Coronavirus senza ricevere cure, la rabbia del sindaco: “Inaccettabile, ospedali strapieni”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Novembre 2020. Una denuncia grave che segna quasi il punto di non ritorno per un territorio ‘piccolo’ ma provato da 193 casi accertati di Coronavirus. E’ quella che arriva dal sindaco Nicola Esposito, primo cittadino di Lusciano, nel casertano, dove ieri si è registrato un altro decesso per Coronavirus. Un decesso però ancor più tragico per i familiari della vittima, perché quel quadro clinico che col passare del tempo diventava sempre più grave emergeva anche l’impossibilità di un ricovero per gli ospedali pieni, finendo con la morte del paziente. Come rivela infatti Esposito, “da ieri, insieme con la famiglia, visto che le sue condizioni erano peggiorate improvvisamente, stavamo lottando per trovare un posto in ospedale per provare a curarlo, ma l’ASL e gli ospedali sono oramai strapieni di lavoro e di ammalati anche gravi ed ogni tentativo oggi purtroppo è andato vano”. Esposito spiega quindi che “da sindaco, cittadino, marito e padre di due figli ed allo stesso tempo anche io figlio, non tollero che una persona possa morire così, in un niente e senza avere la possibilità di essere curato. È inaccettabile!”. Dal sindaco di Lusciano quindi è arrivato un nuovo appello alla popolazione, perché “contro questo perfido virus non si può più scherzare né tantomeno ignorarlo; dobbiamo combatterlo con tutta la civiltà possibile e rispettando tutti i divieti, i limiti e le chiusure che lo Stato, la Regione Campania e noi come amministrazione del Comune di Lusciano decidiamo di ordinare per il bene di tutta la comunità”.

"Non si può far morire un neonato per un tampone che non arriva". Sta per partorire, aspetta 6 ore per un tampone e perde il bambino: “È una tragedia ma non chiamateci violenti”. Rossella Grasso su Il Riformista il 6 Novembre 2020. “Nessuno può ridare questo piccolo indietro, nessuno ci starà vicini, voglio che il mio grido di dolore lo sentano tutti perché non si può far morire un neonato per un tampone che non arriva”. Valentina Polverino è disperata per la prematura morte di suo nipote. Il suo cuore ha cessato di battere prima di vedere la luce. Secondo una prima ricostruzione dei medici e dei familiari di Maria, una 20enne di Napoli,  residente nel quartiere di Pianura, la ragazza sarebbe arrivata alla clinica privata Sanatrix, nel quartiere Vomero, intorno alle 12 in preda a forti dolori. Ma per poter accedere alla sala operatoria e partorire bisognava aspettare l’esito del tampone per verificare che la donna fosse negativa al coronavirus. “Dalle 12 che aspettavamo il risultato è arrivato solo alle 18, ma ormai era troppo tardi e il bambino è morto”, ha detto Valentina. Adesso la famiglia chiede a gran voce di fare chiarezza e giustizia, ma soprattutto dignità e rispetto per il loro grande dolore. Quando si è sparsa la notizia della morte del bambino, è circolata anche la voce che i familiari avessero distrutto la clinica. “Tante testate giornalistiche dicono che abbiamo sfasciato tutto e aggredito le forze dell’ordine. Sfido chiunque ad avere questa notizia in un giorno che doveva essere di gioia. Posso assicurare che nonostante la drammatica notizia, non abbiamo sfasciato e aggredito nessuno e ci sono video che lo testimoniano”. Sulla vicenda, dopo la denuncia dei familiari, sono in corso gli accertamenti della polizia. Gli agenti del commissariato Vomero hanno sequestrato le cartelle cliniche mentre la polizia scientifica ha eseguito i rilievi. L’informativa passerà adesso nelle mani della Procura partenopea. Valentina ricostruisce le concitate ore che hanno portato alla tragedia. “Maria e mio fratello hanno 20 e 22 anni, quello che sarebbe dovuto nascere era il loro primogenito. Il 5 novembre alle 11 e 45, ci arriva la telefonata della suocera di Maria che avverte tutta la famiglia di andare in clinica perché mia cognata aveva i dolori pre parto. Siamo andati tutti alla clinica e come da prassi non ci hanno fatto entrare a causa del coronavirus. L’unico modo per accedere e stare un solo giorno vicino mia cognata era pagare 280 euro, più 100 il tampone per tre giorni consecutivi”. “Abbiamo aspettato fuori alla clinica in ansia perché mia cognata ha dei problemi cardiaci – continua il racconto Valentina – Ogni ora chiamavamo il nostro ginecologo, il dottor Festa, che ha seguito Maria per tutta la gravidanza. Verso ora di pranzo ci ha detto che a Maria era salita la febbre a 40, aveva delle coliche e c’erano delle complicazioni per cui bisognava operarla subito. Ma il risultato del tampone non arrivava per cui bisognava aspettare. Intanto mia cognata era monitorata”. “A questo punto l’unica cosa da attendere era la risposta del tampone – continua il racconto –  se era negativo si procedeva al cesareo, se fosse stato positivo bisognava trasferire Maria in un ospedale. Intanto mia cognata soffriva, ma fino a un’ora prima del parto era monitorata e il battito del piccolo c’era. Il ginecologo ha insistito che doveva operare subito perché la ragazza stava male. Ma il direttore della clinica ha detto di no perché bisognava per forza aspettare l’esito del tampone”. È a questo punto che il racconto si fa drammatico: “Alle 18 e 15 ci dicono che Maria era negativa al coronavirus, la preparano per andare in sala parto, le staccano i monitoraggi, scendono giù, la fanno un’anestesia generale visto che era diventato urgente il cesareo. Ma mio nipote nasce morto. Il ginecologo è uscito piangendo e ci ha spiegato tutto, con un dolore al petto, si è messo dalla nostra parte. Ci ha detto chiaramente che se la operavano un’ora prima, mia cognata aveva il mio piccolo batuffolo tra le sue braccia!”.

LA VERSIONE DELLA SANATRIX: “QUALSIASI EMERGENZA POTEVA ESSERE GESTITA” – “Nessun primario, medico, né tantomeno il direttore sanitario della clinica Sanatrix, ha mai dato nessuna disposizione per fermare o ritardare alcun parto se non urgente. Siamo profondamente dispiaciuti per quanto accaduto ma occorre ristabilire la verità dei fatti per non aggiungere dolore ad altro dolore”. E’ quanto si legge in una nota della direzione della clinica Sanatrix di Napoli. “Rispetto a quanto accaduto la notte scorsa è doveroso precisare che la partoriente è stata sottoposta non solo a tampone per SARV-COV2 ma all’ingresso in pronto soccorso anche a test sierologico che in circa 10 minuti ha dato un risultato negativo. Tale protocollo è previsto proprio per poter gestire l’emergenze in attesa degli esiti del tampone molecolare che richiedono più tempo”. “Con l’esito negativo del test sierologico sulla Signora, qualsiasi emergenza poteva essere gestita dai medici curanti- spiega la direzione della Sanatrix – senza alcuna limitazione da parte del Primario o del Direttore Sanitario, non potendo mai immaginare di ritardare una urgenza medica o chirurgica. Sia il Primario del reparto di Ginecologia, sia il Direttore Sanitario, vista l’ora in cui si sono svolti i fatti, non erano presenti nella struttura né tantomeno hanno impartito ordini ostativi al parto, visto che sono stati informati solo dopo l’evento, come è facilmente ricostruibile dal magistrato prontamente intervenuto”. “Il personale medico, paramedico, infermieristico e di sicurezza della Clinica Sanatrix – viene evidenziato nel comunicato della nota clinica partenopea – sono ben consci dell’accaduto e pronti a ricostruire la verità dei fatti, smentendo l’inverosimile e fuorviante ricostruzione dei fatti apparse sui social. Ogni altra ricostruzione dei fatti è pura speculazione su una tragedia che non merita ulteriore dolore, se non altro per rispetto ad una famiglia la cui sofferenza non è neanche lontanamente immaginabile”. “La direzione della Clinica Sanatrix – conclude la nota – dichiara la piena fiducia nell’operato della magistratura, auspicando una rapida ricerca della verità che possa ristabilire la dignità professionale del Primario, delle ostetriche e degli altri operatori ingiustamente coinvolti”. In alcune dirette del giornalista Pino Grazioli fuori dalla clinica, si vedono i familiari molto agitati dopo aver avuto la notizia della morte del bambino, ma non si notano episodi di violenza. Sul posto intanto sono accorsi gli agenti della polizia che hanno raccolto anche la denuncia dei familiari. “Non abbiamo devastato la clinica come hanno detto in tanti – sottolinea Valentina – abbiamo addirittura allontanato mio fratello per evitare che per la rabbia potesse dire e fare cose sbagliate”.

IL GINECOLOGO – Nei video si vede anche il ginecologo, Giovanni Festa, che esce dalla clinica per parlare con la famiglia di Maria. È costernato dall’accaduto, “queste cose non devono capitare”, dice. Parla con la famiglia e spiega loro che pur avendo seguito per 9 mesi la gravidanza della ragazza al momento del travaglio e delle complicazioni non ha potuto fare nulla perché doveva attendere il risultato del tampone che non arrivava, prima di poter portare la donna in sala operatoria. “Purtroppo esistono delle linee guide interne per la gestione del coronavirus e ho potuto solo aspettare”, ha detto con le lacrime agli occhi. “Esiste la casualità ma bisogna capire bene cosa è successo perché queste persone devono avere giustizia – continua il medico – Dobbiamo aspettare l’autopsia per avere certezze sulla causa della morte del bambino. Certo è che la mamma era negativa al Covid. Se l’autopsia chiarirà che la morte del bambino è dovuta all’attesa parliamo di una morte che si poteva evitare”. Adesso Maria è in terapia intensiva all’Ospedale Pineta Grande di Castel Volturno e la famiglia attende di sapere come sta. “È una tragedia nella tragedia, ma non chiamateci persone violente”.

Neonato morto in clinica, il ginecologo: “Avrei operato subito ma il protocollo covid lo impediva”. Redazione su Il Riformista il 7 Novembre 2020. Maria, la 22enne Napoletana del quartiere Pianura, ha tragicamente perso il bambino appena partorito il 5 novembre scorso. I suoi familiari hanno denunciato che il piccolo è morto nella nota clinica napoletana per la lunga attesa per conoscere l’esito del tampone, senza il quale la ragazza non poteva essere operata. Il suo ginecologo Giovanni Festa, le è rimasto accanto fino all’ultimo. È lui che l’ha operata, ed è lui che ha dovuto costatare il decesso del neonato. Poi è uscito dalla clinica per dare la tragica notizia a tutta la sua famiglia. Aveva le lacrime agli occhi quando ha dovuto dire “il piccolo non ce l’ha fatta” a quel gruppo di persone in trepidante attesa di avere una bella notizia. È rimasto al loro fianco anche quando il dolore e la rabbia hanno preso il sopravvento, consigliando alla famiglia di denunciare alle forze dell’ordine l’inspiegabile decesso del bambino. Intervistato dal Mattino ha raccontato cosa è successo in quelle drammatiche ore che hanno portato alla tragedia. Ha detto che la mamma era sotto monitoraggio nella propria stanza e dopo le 18, una volta arrivato l’esito negativo del tampone Covid, è stata trasportata in sala operatoria. Come previsto in questi casi, è avvenuta la consulenza per l’anestesia e il tracciato che era buono, è stato interrotto affinché si potesse preparare la donna al taglio cesareo. “Quando ho estratto il neonato – ha detto – mi sono reso conto che sembrava come addormentato ma questo può accadere con l’anestesia generale, perciò ho subito tagliato il cordone e l’ho affidato all’equipe dei neonatologi. Mentre proseguivo l’operazione ho chiesto come stava il bimbo e mi hanno comunicato che era privo di vita”. Il dottore che ha seguito Maria durante tutta la sua gravidanza, aveva notato che durante tutta quell’attesa per sapere l’esito del tampone c’era qualcosa che non andava. La ragazza è arrivata intorno alle 13 ed è stata monitorata per tutto il tempo. “Anche la sintomatologia intervenuta dopo alcune ore, con febbre e vomito per cui è stato eseguito il tampone naso faringeo Covid, stava rientrando con la somministrazione di flebo – ha continuato il medico – Nonostante ciò, avevo notato un profilo coagulativo strano con i valori delle piastrine e del D-dimero anomali, quindi ho espresso il mio pensiero di operarla subito”. Ma prima dell’operazione sono passate molte ore. “Sono un medico all’interno di un sistema sanitario dove ci sono regole e protocolli, li ho dovuti rispettare”, ha detto. Non sa dire con certezza se il bambino si sarebbe potuto salvare e per questo aspetta l’esito dell’autopsia e delle indagini. “Forse il bimbo poteva salvarsi ma, è altrettanto possibile, che le cose potessero andare ugualmente così perché non siamo a conoscenza della causa del decesso e neanche dei tempi e modi in cui è avvenuto. La mamma soffre di una cardiopatia congenita ma emodinamicamente ben compensata e l’intera gravidanza, giunta a 9 mesi, è stata portata avanti regolarmente senza alcun tipo di problema”. Intanto bisogna aspettare l’esito dell’autopsia per sapere com’è andata e perché il piccolo non ha mai potuto conoscere le gioie della vita.

Giulio Golia: "Per il Covid ho perso l'udito. Ma il sistema non aiuta i pazienti". L'inviato de Le Iene è tornato a parlare del contagio da coronavirus sottolineando le falle dei sistemi di informazione, tracciamento e sostegno ai malati. Novella Toloni, Mercoledì 04/11/2020 su Il Giornale. Giulio Golia ha vinto la sua battaglia contro il coronavirus. Dopo un mese di malattia l'inviato de Le Iene è risultato negativo al tampone, ma Golia non è ancora definitivamente guarito. Lo ha confessato lui stesso a Libero Quotidiano, che lo ha intervistato al termine del lungo periodo di isolamento: "Di tutto quello che è successo ho perso l'udito all'orecchio sinistro, ancora oggi non è recuperato totalmente". Il Covid ha colpito duramente Giulio Golia che, dopo quattro settimane di contagio, è riuscito a raccontare la sua esperienza. L'inviato ha contratto il virus durante un pranzo di lavoro con una persona che non sapeva di essere contagiata: "Dopo due giorni ho iniziato ad avere dolori, tosse, peso ai bronchi, fortissima emicrania, non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Non ho mai avuto febbre, l'olfatto è rimasto, ma ho perso l'udito all'orecchio sinistro. Vedevo le ombre". Anche la moglie, Claudia, è stata a sua volta contagiata e ha rischiato il ricovero in ospedale per continui collassi dovuti all'altalenarsi della febbre. Nonostante il virus se ne sia andato, e gli strascichi rimangano, Giulio Golia oggi è arrabbiato: con il sistema "che non supporta i pazienti" e con chi ha gestito malamente l'app Immuni, uno strumento utile ma che di fatto non funziona. Quello che ha colpito maggiormente Giulio Golia è stato non riuscire a districarsi nella miriade di numeri e contatti per ottenere informazioni e aiuto. Lui che di lavoro fa questo: "Sei chiuso in casa e cerchi aiuto. Ho avuto difficoltà io a sentire l'Asl o Immuni, figuriamoci le persone normali. Dicono di non assalire i pronto soccorso ma se non ti danno risposte, consigli, alla fine sei ridotto a farlo". Troppe le informazioni mancanti, come comportarsi ad esempio con l'immondizia: "Quella dei malati Covid va gestita in modo particolare, ma se non puoi uscire come fai? Dopo 4 giorni in casa puzza, devi chiedere l'elemosina agli amici per venire a buttarla. Mancano linee guida generali. La gente è esasperata perché non ha risposte, sono lì ad aspettare una ipotetica telefonata. Io ho un fratello medico e le persone mi chiamano per i consigli. Ma non dovrei essere io a darli". La questione più scottante, secondo l'inviato de Le Iene, riguarda però l'app Immuni. Uno strumento utile e importante sulla carta ma che non ha mai funzionato a dovere: "Ci ho messo dieci-dodici giorni per registrare il mio caso. Mi sono impuntato perché sono capoccione. Dall'altra parte trovi operatori sanitari che hanno altri problemi, dovrebbero prendere altro personale. Lavoro a stretto contatto con tante persone, e loro hanno saputo che avevo il Covid dopo 12 giorni: con il lavoro che faccio, poteva essere una strage. Immuni ha senso, ma deve essere un servizio immediato".

Da lavocediasti.it il 3 novembre 2020. Questa seconda e peraltro attesa ondata di Covid, sta mettendo nuovamente a dura prova il sistema sanitario, le famiglie, le aziende, le scuole. È notizia delle ultime ore che la Regione Piemonte e l'Ordine dei Medici, si stanno attivando per potenziare i Medici di famiglia e, in Regione è nato un nuovo settore per l'emergenza Covid. Evidentemente ci si è resi conto che ci sono enormi difficoltà nel sistema di comunicazione una volta che si viene a conoscenza di casi di positività.

La storia di Martina e la sua famiglia. Martina che vive nell'Astigiano, ci racconta l'odissea della sua famiglia composta da lei, dal marito e due bambini. "Tutto comincia giovedì 8 ottobre, mio marito si sveglia lamentandosi di non sentire né più gusti né più odori. Chiudiamo subito l'attività e teniamo i due bimbi a casa da scuola". Procedura senza dubbio corretta, ma iniziano i problemi. Il marito di Martina prenota un tampone presso una struttura privata effettuato il giorno stesso, ma il giorno dopo sviene e Martina lo porta in pronto soccorso e racconta quanto successo. Viene nuovamente fatto il tampone che dà esito positivo e la famiglia viene presa in carico dal Sisp. Le scuole dei bambini rimangono fuori da questo "giro" perché vengono tracciati i contatti delle ultime 48 ore e i bimbi non sono andati a scuola da giovedì. Lunedì 12 il resto della famiglia fa il tampone, Martina e il bimbo più grande sono negativi, la piccola invece è positiva.

Le procedure sono cambiate tre volte. "Vengo nuovamente contattata dal Sisp - spiega Martina - che mi dice che io e il bimbo dovremmo fare nuovamente il tampone in quanto stati a contatto con la piccola.  Per fortuna riesco ad evitare la tortura al bambino anche perché in ogni caso vivendo tutti insieme nonostante avessimo adottato tutte le misure precauzionali sarei nuovamente rientrata in un caso di contatto diretto". Si arriva così al decimo giorno e il Sisp richiama per dire che Martina e il suo bimbo (negativi), avrebbero dovuto fare un altro tampone e poi un altro alla fine della quarantena dei positivi. "In  tutto questo tempo - dice ancora Martina - vengono cambiate le procedure tre volte. La prima ci hanno detto che il tampone lo facevano solo i positivi a fine quarantena e i negativi erano a posto. La seconda volta ci dicono che al decimo giorno lo avremmo fatto tutti insieme. La terza volta ci dicono che noi negativi lo dovevamo fare il decimo giorno e i postivi al 14, e poi al massimo un altro noi negativi dopo l'esito dei positivi". Indubbiamente non semplicissimo per una famiglia trovarsi alle prese con questi "cambiamenti" discordanti, intanto lunedì saranno quasi 20 giorni che la famiglia è a casa. Lavorano in proprio e la situazione rischia di diventare gravissima dal punto di vista economico. Che fare? Non ci hanno risposto, cosa facciamo? "Per la piccola scadono i 14 giorni, vorremmo capire  quale sia la procedura corretta. Questa mattina abbiamo effettuato ben 270 chiamate al sisp senza ricevere risposta".

Da lospiffero.com il 3 novembre 2020. Nel marasma di informazioni, richieste e procedure sui tamponi, ma anche sulle regole da tenere per evitare il contagio e, non da ultimo, gli eventuali sintomi sospetti, l’appena rieletto presidente dell’Ordine dei medici di Torino, Guido Giustetto insieme all’epidemiologo Paolo Vineis professore all’Imperial College di Londra e tra i consulenti della Regione, ha predisposto un breve vademecum per i colleghi che operano sul territorio. Con la premessa che “occorre sottolineare con i propri assistiti quanto sia cruciale che vengano rispettate rigorosamente tutte le norme di distanziamento, ribadendo ai pazienti più giovani, verosimilmente oggi il gruppo più critico nel guidare l’epidemia,  l’invito ad astenersi da comportamenti a rischio e ai pazienti più anziani a mantenere le precauzioni al massimo livello”, le indicazioni fornite ai medici di medicina generale vertono in particolare sulle modalità di richiesta dei temponi e dei test rapidi da oggi disponibili, anche se non presso i medici di famiglia in attesa di una accordo con la Regione. “Per la diagnostica dei casi con sintomi è irrinunciabile il tampone molecolare, per gli altri casi è sufficiente il test antigenico”, ricordano Giustetto e Vineis. Nel dettaglio, “tamponi e test vanno richiesti solo in pazienti sintomatici sospetti per Covid-19 e nei contatti stretti di un caso positivo, il tampone molecolare è necessario per i pazienti chiaramente sintomatici, mentre il il test rapido antigenico va effettuato per i pazienti con sintomatologia non chiaramente Covid e per i contatti di pazienti Covid. Una novità contenuta nel vademecum riguarda le richieste da parte dei medici di famiglia: “Secondo la raccomandazione della task force Regionale e del Dirmei, - si legge - l’esecuzione del tampone molecolare o del test rapido può essere richiesta direttamente dai medici di medicina generale e dai pediatri di libera scelta sulla piattaforma regionale, senza che sia più necessaria la validazione del Sisp”. Raccomandazione certamente ben accolta dai camici bianchi che chiedevano da tempo di superare il collo di bottiglia dei Servizi di igiene pubblica e sanità. Resta da capire se la procedura è già stata comunicata a tutti i medici che fino all’altro giorno, come sottolineato dal segretario regionale della Fimmg, Roberto Venesia, aspettavano indicazioni tecniche su questo punto. Ovviamente su tutto il territorio regionale. E questo ad oggi non risulta. Di questo (e altro) parlerà domani il presidente dell'Ordine Giustetto in un colloquio programmato con il governatore Alberto Cirio.

Selvaggia Lucarelli per tpi.it il 30 ottobre 2020. “Mio padre è stato 6 giorni a casa con la polmonite da Covid, siamo stati abbandonati dall’Ats”. G. parla con una rabbia lucida, nonostante gli ultimi 10 giorni abbia vissuto momenti di paura per la salute di entrambi i genitori quasi settantenni. I suoi, infatti, hanno preso il Covid-19 a Milano, mentre lui, figlio unico, si trovava a Roma per lavoro. Il “come” se lo siano presi resta un mistero.

Davvero non siete riusciti a capire dove possa essere avvenuto il contagio?

«I miei genitori fanno un vita molto tranquilla, spesa, farmacia, banca. Non hanno parenti stretti, non vanno a pranzo o cena fuori, sono giorni che ci chiediamo come sia potuto succedere».

Prendono mezzi pubblici?

«No. Hanno la macchina, non li utilizzano.

Nei giorni precedenti l’esordio dei primi sintomi dove erano stati?

«L’unico posto in cui andavano regolarmente e rimanevano un po’ di tempo era Eataly a Milano, a fare la spesa. Ci sono stato anche io in un weekend, c’era dentro una quantità spaventosa di persone, mi era venuta l’ansia».

Tuo padre aveva patologie pregresse?

«No, non ha mai avuto nulla, nemmeno mia mamma».

Si è sentito male quando?

«Mercoledì 14 ottobre ha iniziato ad avere la tosse con una strana febbre. Mi è sembrato strano perché lui non ha mai febbre».

Hanno pensato al Covid?

«No, nel modo più assoluto. Io in quei giorni ero a Roma per lavoro, mi dicevano che era impossibile. Pensavano a un po’ di bronchite. Io invece non so, sarà che sono figlio unico, ho pensato subito al Covid, dal primo minuto. Erano mesi che li torturavo con la mia apprensione, abbiamo litigato tantissimo al telefono perché volevo convincerli che fosse Covid».

Poi cosa è successo?

«Che il venerdì ha iniziato a star male anche mia mamma, ad avere un po’ di tosse. Escludevano ancora il Covid. Finché nel weekend la situazione è degenerata».

Cioè?

«La febbre di papà non scendeva, hanno chiamato il medico di base che ha avvisato Ats. Ats ha detto che sarebbero andati loro perché papà poteva essere positivo e dunque non doveva uscire».

Quindi gli hanno fatto il tampone?

«No. Eravamo già al mercoledì, fino al martedì successivo da Ats nessuno si è palesato. Due anziani in casa con sintomi di Covid abbandonati completamente senza sapere cosa fare per sei giorni, rendiamoci conto».

Alla fine Ats si è palesata?

«Mai. Io a quel punto, con papà che aveva 39 di febbre, con il medico di base che gli aveva prescritto un antibiotico senza vederlo, chiamo un amico dottore del Sacco che lavora nel reparto Covid. Il martedì all’alba mi dice: ‘Vado io a casa loro perché la febbre così alta non mi piace’. E comunque aveva i sintomi da sei giorni, non pochi».

Gli ha fatto il tampone?

«Sierologico a entrambi i miei genitori, risultato positivo. Poi tamponi, entrambi positivi. Mio padre la notte prima era svenuto in bagno. A quel punto il medico gli prescrive eparina e cortisonico invitandoli a non andare in pronto soccorso, per evitare di sovraccaricare l’ospedale».

Va meglio?

«Papà un’ora dopo si sente male, sviene di nuovo, mia mamma chiama il 112 e lo portano in ospedale».

Dove?

«Al San Raffaele. Resta al pronto soccorso per tre giorni. Lì non abbiamo contatti con nessuno, lui ci scrive un primo messaggio in cui dice che gli avevano fatto tutti gli esami. Aveva una polmonite bilaterale interstiziale, 40 di febbre».

Perché resta in pronto soccorso per tre giorni?

«Non lo so, c’era molta gente, molto caos secondo il suo racconto. Mio papà, un omone di 85 chili, resta su una brandina, gli mettono il catetere per non farlo andare in bagno. Sta lì con un lenzuolino, chiede che gli venga messo il cappotto addosso per il freddo. Aveva 39,7 di febbre. In seguito ci ha mandato messaggi sconclusionati, la febbre così alta lo confondeva».

Non riuscivate a parlare con nessuno in ospedale?

«No, ho scritto perfino sui social del San Raffaele, di Zangrillo, ero disperato. Papà diceva che era in uno stanzone con 30/40 persone, mangiava poco».

Tua mamma?

«Ha una bronchite, Ats continua a non contattarla nonostante sia stata segnalata la sua positività. Io vorrei farle fare una lastra anche privatamente per vedere se ha la polmonite ma come faccio, è positiva, non sappiamo cosa fare».

Psicologicamente lei come sta?

«A pezzi. Si fa le punture di Eparina sulla pancia da sola. L’ho vista dalla finestra, io non so come faccia ad avere questa forza a 70 anni, non si era mai fatta una puntura in vita sua».

Poi, dopo tre giorni, tuo padre è stato trasferito in reparto?

«Sì. Ora gli mettono il caschetto qualche ora al giorno. La situazione è stabile, ha sempre la polmonite bilaterale».

Riesci a parlare con i medici del San Raffaele?

«No. Ho un numero da chiamare a cui non risponde mai nessuno. Da alcuni giorni, dopo mille segnalazioni, c’è una dottoressa che chiama mia mamma ogni due giorni, dicendo solo che papà è stabile e monitorato. Per il resto papà ci manda dei messaggi».

Che terapia fa?

«Una notte, due sere fa, si è presentato un dottore giovane che gli ha proposto di fare una terapia sperimentale a base di due aspirine. Gli ha spiegato che sono in 8 a fare questa terapia e gli hanno fatto firmare una carta».

Una terapia sostitutiva o aggiuntiva?

«Bella domanda. Boh. Lui non ha idea. Suppongo aggiuntiva. Continua a prendere il Remdesivir, Eparina e Cortisone, credo. Certo è che potevano avvisarci, proponi una terapia sperimentale a una persona ricoverata con polmonite? In più ho chiesto a tante persone se sapessero qualcosa di questa terapia, tutti rispondono “Mai sentita”».

Quindi tuo padre è ricoverato da 10 giorni.

«Sì. Stava benissimo prima del Covid, non ha fatto nulla per prenderselo, non era neppure andato in vacanza quest’estate, era rimasto a Milano. Questa è la dimostrazione che il virus circola e anche tanto».

E soprattutto che Ats Milano è già in crisi.

«Totalmente. Non è accettabile che due persone anziane che stanno male, di cui una con 39 di febbre e tutti i sintomi del Covid, vengano abbandonate a casa senza neppure un tampone. Mi chiedo cosa succederà se la situazione dei contagi dovesse peggiorare, di sicuro quello che sta succedendo ai miei non promette nulla di buono. Ora spero solo che mio padre torni a casa, che mia mamma riesce in qualche modo a fare una lastra ai polmoni e che finisca questo incubo».

RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. Buonasera, in relazione all’articolo, ripreso anche da Dagospia, l’Ospedale San Raffaele precisa che chi accede al pronto soccorso con sospetto Covid-19 segue un percorso clinico-diagnostico specifico. In attesa di essere trasferiti nei reparti Covid, i pazienti possono permanere da alcune ore a qualche giorno in Pronto Soccorso, secondo codici di gravità clinica. È allestita un’Area di Osservazione e Monitoraggio opportunamente attrezzata e dedicata, che ospita 30 postazioni per supporto respiratorio con apposite misure di separazione tra paziente e paziente. In questa Area di Osservazione i pazienti sono monitorati accuratamente, come il padre del signor G.M. di cui si scrive, che è stato valutato 2-3 volte al giorno durante la permanenza in Pronto Soccorso e ha ricevuto tre consulenze specialistiche documentate nel Verbale di Pronto Soccorso. Poiché Ospedale San Raffaele è un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) implementa protocolli di ricerca che prevedono diversi studi clinici mirati a valutare l’efficacia di differenti terapie potenzialmente utili per Sars-CoV2. I pazienti pertanto possono essere coinvolti in trial clinici specifici, sempre previa lettura e firma di un consenso informato e dopo accurata selezione e valutazione clinica. Tale arruolamento in studi clinici è da considerare un’opportunità per i pazienti che prima di altri possono beneficiare di strategie terapeutiche innovative per il trattamento di questa malattia. In questa fase di emergenza i parenti vengono contattati dal personale non appena possibile e quasi quotidianamente per gli aggiornamenti sui pazienti ricoverati. I miei migliori saluti, Vittoria Cereseto Ufficio Stampa Gruppo San Donato

Dentro il reparto Covid: la lotta in prima linea contro il coronavirus. Le Iene News il 27 ottobre 2020. Alessandro Politi entra nel reparto Covid dell’ospedale di Padova documentando giorno per giorno con medici e infermieri la battaglia contro il coronavirus. Abbiamo raccolto le testimonianze di pazienti e medici di questa struttura, dove viene usato con ottimi risultati anche il plasma iperimmune. Siamo di nuovo in piena pandemia e gli ospedali si stanno riempiendo. Come si è organizzata la trincea? Abbiamo deciso di trasferirci in un reparto Covid e raccontarvi giorno per giorno dall’interno come e con cosa si combatte concretamente il coronavirus. Ci ha aperto le porte l’azienda ospedaliera di Padova, da dove passano molte sperimentazioni contro il Covid-19. Abbiamo deciso di entrare in questa struttura perché qui usano con ottimi risultati anche il plasma iperimmune. Ma prima di entrare, il direttore generale Luciano Flor ci mette in guardia. “Sono tutti malati ad alta carica. Sappi che vai nel reparto che è il massimo concentrato di potenzialità infettiva”, dice ad Alessandro Politi. Qui negli ultimi giorni le cose stanno cambiando rapidamente: “Dieci giorni fa avevamo 25 malati, oggi ne abbiamo 55”, spiega il direttore generale. La Iena, assieme a medici, infermieri e personale sanitario ci porta nel reparto Covid dell’ospedale, dove abbiamo conosciuto anche alcuni pazienti che si sono resi disponibili. Ci prepariamo indossando tutte le protezioni necessarie e andiamo a conoscere i primi pazienti. “Adesso sto abbastanza bene”, racconta una di loro. “Dal secondo trattamento del plasma il corpo ha iniziato a reagire”. Qual è stata la cosa più pesante? "L’isolamento e la malattia. Per dieci giorni stavo male e non volevo parlare con nessuno”, racconta un’altra paziente. Dopo aver assistito a una visita di routine, conosciamo una paziente in dialisi che non potendo usare gli antivirali viene curata solo con il plasma e bassi dosaggi di cortisone. Al termine della nostra prima giornata parliamo con la dottoressa De Silvestro, capo dell’unità operativa immunotrasfusionale di Padova. “Se fosse per me o per qualche mio familiare sarei favorevole all’utilizzo del plasma. Non fa male e noi in tutta la nostra esperienza non abbiamo avuto un effetto collaterale significativo. Abbiamo avuto un aumento della richiesta del plasma da parte di clinici che all’inizio non ci credevano fino in fondo”. 

Ecco come si combatte il coronavirus in terapia intensiva e subintensiva. Le Iene News il 3 novembre 2020. Seconda puntata del reportage di Alessandro Politi e Marco Fubini dalla prima linea della lotta al Covid, all’interno dell’ospedale di Padova che ci ha accolti. Questa settimana ci concentriamo sui reparti di terapia intensiva e subintensiva, dove la lotta è più dura, per raccontare come vengono salvati i pazienti. Da più di una settimana ci troviamo nell’azienda ospedaliera di Padova, che ci ha aperto le porte per poter documentare dall’interno e giorno per giorno come e con cosa stiamo combattendo questa seconda ondata di coronavirus. In questo ospedale, con Alessandro Politi e Marco Fubini, possiamo vedere concretamente ciò che la scienza ha messo in campo in questi mesi. Come ci spiega il capo delle terapie intensive dell’ospedale, Ivo Tiberio, i posti disponibili sono sempre meno: “In questo momento abbiamo 17 posti letto occupati su 18. Siamo sempre prossimi all’occupazione completa dei posti”. La Iena ci aggiorna su come stanno i pazienti che abbiamo conosciuto la settimana scorsa, mentre questa settimana ci concentriamo sui reparti di terapia intensiva e subintensiva. E conosciamo nuovi medici e pazienti, che stanno combattendo duramente contro il coronavirus. 

Dagospia il 27 ottobre 2020. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Il sottosegretario agli Esteri Ricardo Merlo racconta per la prima volta come ha vissuto il Covid, a cui è risultato positivo il 2 ottobre. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Merlo ha prima di tutto rassicurato sulla sua condizione attuale: “sto meglio ma ho ancora le cicatrici di questo nemico che non vorrei più incontrare. Ora sono negativo, dopo 21 giorni, e posso anche uscire”. Come sono stati questi giorni col Coronavirus? “Ho avuto dieci giorni di febbre e di mancanza di energia: una notte mi sono alzato per andare al bagno e sono caduto a terra, sono rimasto lì 15 minuti perché non ce la facevo a rialzarmi”. Ha mai avuto paura? “Si, i primi sette giorni, quando non sapevo che piega avrebbe preso il virus”. Come si è curato? “Con l'ibuprofene per la febbre, perché i medici non vengono. Il medico dell'Asl è stato molto gentile, ci ho parlato due volte ma non mi ha mai visto. Io telefonavo spesso ad un mio amico medico argentino che mi dava dei suggerimenti, anche perché anche lui aveva avuto il Covid”, ha spiegato a Rai Radio1 Merlo.

Dal “Corriere della Sera” il 25 agosto 2020. Martina è una studentessa universitaria fuori sede. Ha trascorso l'estate in Italia tra spiaggia, palestra e serate con gli amici, all'aperto: «Avevamo deciso di non andare in posti chiusi». C'è stata una sola eccezione, per il compleanno del suo più caro amico. Martina ha preso il virus e ha contagiato nonni, cugina e suo papà. Che ora è in terapia intensiva. E lei scrive: spero che la mia storia serva ai coetanei. Pensavo che l'estate 2020 sarebbe stata un'estate piena di noia per via del coronavirus e invece era iniziata proprio bene. Avevo la mia routine, mi svegliavo, andavo in spiaggia, poi in palestra, pomeriggio di nuovo spiaggia con amici e la sera uscivamo a bere qualcosa. D'altronde me lo meritavo, ho studiato molto durante quest' anno scolastico. Io e i miei amici avevamo deciso di non andare in discoteche e posti chiusi per evitare i contagi, però quel sabato era il compleanno del mio più caro amico, come facevamo a non festeggiare fino a tardi? Decidemmo che per una sera non sarebbe successo niente. Fu l'inizio del film horror che sto vivendo. La settimana dopo incominciai con sintomi come raffreddore e tosse, ed ho pensato fosse per via dell'aria condizionata. Andai dal dottore e mi disse che non sembravano sintomi da Covid, la tosse era grassa (non secca) e non avevo febbre, quindi continuai a fare la mia vita normale, andavo a mangiare al ristorante con papà, giocavo a carte con i nonni e ci mettevamo a guardare la tv tutti insieme sul divano. La settimana dopo annunciarono che proprio nella discoteca dov' ero andata c'era stata una persona positiva, e tamponarono tutte le persone che erano state lì quella sera. Il risultato del mio tampone: positivo. Fecero il test a tutti i miei familiari. Solo la mamma fu negativa. Positivi i nonni, mia cugina di 12 anni, e papà. Il nonno è finito in ospedale e ora è stato dimesso e si sta riprendendo. Io, mia cugina e la nonna non abbiamo avuto problemi e dopo quattro settimane chiusi in casa siamo tornati negativi. Invece papà no. Siccome stavo bene lui mi diceva che tanto non era il virus, che non aveva voglia di starmi lontano: «Dai, Marti, che poi ritorni a Madrid e non ci vediamo per tanto tempo». E anch' io pensavo così, e gli ho dato abbracci e baci... voglio tanto bene a papà. Ora è da due settimane in terapia intensiva, intubato. Sta lottando con tutte le sue forze, e io non posso vederlo, non posso aiutarlo, non posso ritornare indietro. Non me lo potrò mai perdonare. Ormai non ho più fame, ma devo sforzarmi di mangiare sennò la mamma sta male. Non riesco più a fare niente, nemmeno alzarmi dal letto al mattino, però lo faccio, per la mamma e per la nonna. A volte provo a fingere un sorriso per alleviare la loro preoccupazione. I giorni passano veloci, e non me ne accorgo neanche. Ripenso continuamente alla felicità di quella serata, alla sua orribile conseguenza, e prego che papà riesca a superare anche questa. Credevo che l'estate 2020 sarebbe stata solo piena di noia, invece è diventata la peggiore della mia vita. Spero almeno che la mia storia possa essere utile ai miei coetanei.

Silvia Natella per "leggo.it" il 16 aprile 2020. Sono tante le storie di famiglie devastate dal coronavirus e altrettante le denunce di situazioni poco chiare. A Chi l'ha Visto? le testimonianze di figli di persone contagiate nelle strutture ospedaliere o nelle case di riposo. Una vera e propria strage di nonni. Anziani che in molti casi non sono riusciti a salutare i propri cari e a ricevere un ultimo abbraccio. Una donna ha raccontato che nella clinica San Raffaele di Rocca di Papa, ai Castelli romani, suo padre è stato ricoverato nella stessa stanza di un paziente sintomatico. La donna racconta di aver sollevato il problema e di essersi sentita dire «Non posso mettere in isolamento tutti i pazienti con febbre e tosse». Con i primi risultati lo scenario peggiore: i sanitari non entravano più per paura di contagiarsi e i pazienti erano abbandonati a loro stessi. «Quando ho saputo dei 119 tamponi al San Raffaele ho chiesto l'isolamento della struttura e sono stata diffidata», ha dichiarato il vicesindaco di Rocca di Papa. La presenza di casi positivi al Covid-19 è stata segnalata giorni dopo. I famigliari dei pazienti non sono stati avvertiti dalla struttura, ma hanno scoperto l'esplosione del contagio attraverso gli organi di stampa. «Spero ci aiutate a far sapere cosa è successo in quella clinica», è l'appello della donna. Un'altra ha raccontato di aver perso la mamma a causa del coronavirus. Non l'ha più vista dopo il ricovero e ha ricevuto soltanto una telefonata che l'avvertiva della sua scomparsa. «Abbiamo ricevuto solo la bara con il certificato di morte. Non sapere chi c’è in quella bara è peggio». Una situazione che si è verificata realmente. Un'altra donna ha raccontato di aver perso la mamma dopo che ha contratto il coronavirus nella casa di riposo in cui era ospite. «Dopo la sua morte e la consegna della bara mi hanno chiamato dicendo che c'era stato un disguido e che il corpo di mia madre era ancora in camera mortuaria. Chiediamo giustizia per queste morti che si potevano evitare. Gli anziani non sono stati tutelati».

Alessandro Mondo e Elisa Sola per “la Stampa” il 18 giugno 2020. «Di notte mi svegliano gli incubi. Sobbalzo e urlo. Sogno che sto soffocando. A volte sono in una grotta, coperta di foglie che mi pressano. Altre su una barella e non riesco a respirare». Claudia Brondolo ha 52 anni, fa l'operatrice socio sanitaria e con lo stesso coraggio con cui ha vinto la battaglia contro il coronavirus, prova a sconfiggere i demoni che la malattia lascia nell'anima. Ancora più numerose le testimonianze di pazienti che scelgono l'anonimato. «Durante la terapia intensiva credevo volessero uccidermi, anziché curarmi, e mi strappavo tutto». «Avevo la droga che mi usciva dalla bocca e c'erano dei fantocci che mi fissavano». «La caposala era come Caronte e c'era come un manichino bardato che non parlava». «Durante l'intubazione vedevo virus giganti come mostri che mi attaccavano». Allucinazioni: senso di prigionia e di persecuzione. Timori: il ritorno a casa, la paura di essere stigmatizzati o ricontagiati. Incubi. Reminiscenze. Sono i disturbi maturati dai malati di Covid quando erano in rianimazione, sedati, e poi durante il lungo decorso della malattia: disturbi con cui fanno i conti ancora oggi. È il lascito del virus, che si frappone come un ostacolo al ritorno alla normalità: anche dopo la guarigione clinica. E' il nuovo fronte sul quale negli ospedali si esercita uno sforzo particolare per rimuovere gli effetti di quello che secondo il professor Vincenzo Villari, primario di Psichiatria ospedaliera alle Molinette, è un disturbo post-traumatico da stress (condiviso dal personale sanitario): angoscia, incubi, insonnia, flash-back, isolamento, deficit di memoria, irritabilità, iper-reattività, stato di allerta. Claudia Brondolo è stata 25 giorni di terapia semi intensiva, due mesi di isolamento. Il ricovero al San Giovanni Bosco risale a metà marzo: «Mi hanno attaccata all'ossigeno. Sotto la maschera ero incosciente, con rari momenti di lucidità. Ricordo due collassi. E che ogni tanto arrivava un'infermiera perché urlavo. Come faccio oggi la notte». La grande paura «è di non tornare più quella di prima». «E di non riuscire a respirare», precisa, dopo che il medico le ha detto che i suoi polmoni sono ancora compromessi: «Mi segue uno psicologo, prendo antidepressivi». Qualche numero: 430 persone seguite dal Servizio di psicologia clinica delle Molinette tra marzo e maggio: di questi, un terzo per problemi legati al Covid. In un altro ospedale - il San Luigi di Orbassano, presso il reparto di Medicina Fisica e Neuro Riabilitazione diretto dalla dottoressa Federica Gamna - si lavora sulla riabilitazione non solo fisica ma psicologica di circa 40 persone colpite dal virus: a maggio è iniziato un progetto di storytelling per approfondire i ricordi e l'immaginario dei pazienti curati presso le terapie intensive. «Racconti, video, musiche e disegni per elaborare disturbi che se non trattati possono diventare cronici», spiega la dottoressa Gamna. C'è chi non vuole ricordare - «Ho un vuoto di un mese e mezzo ma non so se voglio recuperarlo», confessa una paziente - , e anche questo è indice di un trauma. «Parliamo delle forme più gravi - conferma Villari -. E' un vissuto che riemerge, incubi rivissuti ad occhi aperti». Da cosa derivano? «Probabilmente da uno stato di angoscia non elaborato durante la sedazione, durata settimane. Poi il trattamento farmacologico, certo. Ma a fare la differenza può essere anche il neutrofismo del Covid, che può avere conseguenze neurologiche». Da qui la necessità, frequente, di ricorrere a terapie psicologiche e farmacologiche dopo le dimissioni. Nel migliore dei casi, i tempi sono lunghi: alcuni mesi per guarire, una seconda volta.

Brusasco, la sindaca e la lotta al Covid 19: "Io, inascoltata mentre il virus uccideva i nostri nonni, una strage annunciata". Pubblicato martedì, 02 giugno 2020 da Mariachiara Giacosa su La Repubblica.it.  Due mesi dopo i contagi sono in calo anche nella Rsa: "ma non abbassiamo la guardia". Luciana Trombadore è il sindaco di un piccolo paese di 1500 abitanti nella provincia di Torino. A metà marzo, la vita dei suoi concittadini e dalla casa di riposo del paese è stata sconvolta dal coronavirus che in un poco più di una settimana si è portata via undici vite. Quelle di altrettanti ospiti della struttura Annunziata di Marcorengo gestita dalla cooperativa "Sociale uno", che ospitava 50 anziani. La sindaca, il 31 marzo, il giorno in cui in tutta Italia si sono ricordate con un minuto di silenzio le vittime del coronavirus, ha scelto di leggere i loro nomi prima di far intonare l'Inno di Mameli. "Non era sconosciuti, ma i nostri "nonni". E nessuno era pronto per un numero così alto di perdite, credevamo fossero al sicuro restando lì dentro e invece il virus ha fatto una strage". La storia della sindaca Trombadore è uguale a quella di decine di altri sindaci che si sono trovati a combattere in prima linea contro il virus, per tentare di proteggere i propri concittadini e soprattutto spegnere i focolai accesi nelle rsa, dove è stato chiaro fin da subito che il virus avrebbe fatto vittime, a dove troppo spesso le istituzioni hanno tardato a intervenire garantendo tamponi e dispositivi di sicurezza. Eppure nonostante l'evidenza, e la richiesta di aiuto, molti di questi sindaci sono stati lasciati soli e hanno atteso per giorni le risposte dal sistema sanitario. "Lo avevamo detto subito, con grande umiltà, che nessuno di noi era pronto a gestire una pandemia, che la situazione era più grande di noi - sostiene la sindaca - Abbiamo fatto appello su tutti i fronti per essere aiutati, eppure ci hanno lasciati soli, abbandonati. Il nostro urlo è stato sottovalutato, poteva andare diversamente se solo ci avessero dato ascolto e fatto i tamponi". Già dopo i primi due sospetti con febbre a 37,5 dal piccolo comune del torinese che ha supportato i gestori della casa di riposo sono partite mail, pec, chiamate ai numeri di emergenza come previsto dal protocollo. Protocollo che in Piemonte per molti giorni è rimasto solo sulla carta, con l'Unità di crisi e i servizi territoriali travolti dalle chiamate, incapaci di gestire le richieste di tamponi che all'inizio non si potevano fare in numero adeguato per mancanza di reagenti e di laboratori in grado di esaminarli. "Come amministrazione comunale - ribadisce la sindaca - abbiamo fatto di tutto: bisognava misurare la febbre anche quattro volte al giorno a ogni ospite e abbiamo avviato una raccolta di termometri, servivano mascherine perché ci sono stati ritardi per quelle ordinate e i comuni limitrofi se ne sono privati, abbiamo anche chiesto l'intervento dei carabinieri per farci consegnare l'ossigeno dalle aziende che davano priorità agli ospedali. Ma noi potevamo arrivare fino a un certo punto, per questo abbiamo continuato a urlare le nostre richieste di aiuto". Oggi che l'uragano ha perso forza e la morsa dei contagi sembra allentarsi, secondo l'Unità di crisi a Brusasco risultano ancora 11 positivi. "Stiamo andando bene non abbiamo nuovi contagi, o nuove famiglie in quarantena, tutto questo però non deve farci pensare di essere diventati immuni, continuiamo con le indicazioni date sul mantenere le distanze ed indossare le mascherine nei luoghi indicati" dice la sindaca che rivolge il suo appello ai giovani "che sono stati miracolati da questa pandemia, il cielo azzurro di questi giorni ci invita ad uscire. Fatelo ma in piccoli numeri: incontratevi, fate sport, ma ricordatevi di mantenere la distanza".

 “Mi avete fatto ammalare”. L'ultima lettera del detenuto morto a Voghera. Le Iene News il 23 maggio 2020. “Una mattina mi sono alzato con un occhio pieno di sangue, nessuno mi ha visitato”. Sono le parole che Antonio Ribecco, morto di coronavirus nel carcere di Voghera, ha lasciato scritte dentro il suo bloc notes. Giulia Innocenzi ha intervistato suo figlio Domenico. “È da 15 giorni che sto male e nessuno mi vuole visitare”. Antonio Ribecco è morto il 9 aprile, si ammalato di coronavirus mentre era detenuto nel carcere di Voghera e il virus gli è stato fatale. Qualche giorno fa Giulia Innocenzi a Iene.it ha intervistato il figlio Domenico (qui sopra potete rivedere l’intervista), in questi ci ha contattato perché quando ha ritirato tutti gli indumenti di suo padre rimasti in carcere, ha trovato anche il suo bloc notes. “Una mattina mi sono alzato con un occhio pieno di sangue, ho chiamato il dottore ma non mi ha voluto visitare. A distanza di tre giorni sto nuovamente male con febbre alta e mal di testa”. Le parole ritrovate dentro quel taccuino dal figlio, datate 16 marzo, farebbero pensare che Ribecco avesse già dei sintomi allora. “Mi hanno fatto una puntura, era antibiotico per la bronchite. Mi dicevano che non avevo niente e adesso esce la bronchite. Il dottore mi ha detto che è meglio prevenire, io gli ho detto prima mi fai ammalare e adesso mi dici che è meglio prevenire?”. Antonio era arrabbiato, pensava che non si stesse facendo abbastanza per la sua salute: “Gli ho detto che se mi succede qualcosa io vi denuncio tutti. Gli ho detto che chiamavo la mia famiglia e gli avvocati perché io ero sano e non ho mai avuto neanche la febbre in vita mia e voi mi avete fatto ammalare”. Antonio Ribecco nel carcere di Voghera era in attesa di giudizio con un’accusa molto grave, quella di essere il boss della ‘ndrangheta in Umbria. Domenico però puntualizza: “Mio padre poteva anche essere accusato di cento anni carcere, però il diritto alla salute non doveva toglierlo nessuno”. La ricostruzione dei suoi ultimi giorni è stata fatta attraverso le lettere che è riuscito a far arrivare alla famiglia e alle testimonianze dei compagni di cella. “Quando hanno scoperto che stava male l’hanno messo in isolamento e lì non gli davano né da mangiare né da bere. Mentre l’ambulanza lo portava in ospedale gli è stato negato di telefonare a noi, la sua famiglia, oltre che un bicchiere d'acqua che aveva chiesto”. Noi abbiamo contattato il carcere di Voghera per avere conferma della storia raccontata da Domenico e il direttore ci ha fatto sapere che “hanno fatto tutti gli interventi di competenza prontamente, nel rispetto dei tempi e modalità giudiziarie e amministrative e che l'istituzione non ha trascurato nulla”. 

Così è morta mia mamma. Nell'incuria e nell'indifferenza del Palazzolo. Il ricovero al Niguarda a gennaio per un'altra malattia. L'emergenza virus. Il trasferimento alla casa di cura. I tamponi sbagliati, le condizioni di degenza assurde, i silenzi della direzione sanitaria. Una lettrice racconta e denuncia. Daniela Conte, testo raccolto da Giuseppe Catozzella il 18 maggio 2020 su L'Espresso.

29 gennaio 2020. “Ciao scusami non esco sono stata malissimo e tuttora addominali e spalle”. Dovevo accompagnare mia madre al mercato, con la quotidiana colazione al bar, a Bresso. Io sempre impaziente perché lei, con la sua stampella, camminava lentissima. Ed io ritardavo l'inizio della mia giornata lavorativa in studio. Quel mercoledì però sono arrivati dolori improvvisi, sembravano tipici dell'influenza del momento. Il vomito alle 5 di mattina e quei dolori addominali e il suo lamentarsi muto. Il medico di famiglia, lungimirante, ci ha mandate al pronto soccorso: meglio approfondire. Al Niguarda, perché da sempre, garanzia di miglior cura. Garanzia di salvezza. Un pronto soccorso meno affollato del solito. Impossibile non intercettare intorno a me la diffidenza delle persone verso malcapitati di nazionalità cinese che ingannavano tempo e ansia camminando avanti e indietro. La mia preoccupazione era tutta nelle cinque ore di attesa senza avere notizie di mia madre. Il Coronavirus per me non sarebbe mai stato il tema. Pancreas edematoso, disomogeneo con raccolta in prossimità della coda di 2 cm a densità sovrafluida ematica... Ricoverata per pancreatite acuta, infine. Una pancreatite necrotica emorragica, sarebbe stato specificato qualche giorno più tardi.

30 gennaio 2020 (Pronto soccorso). “E chi l'ammazza quel mastino! Piena di morfina, almeno combatte l'ansia... Ogni tanto scrive nell'aria o pensa di dipingere uno dei suoi strofinacci. Poi ha sognato alberi sui trulli e roseti.” Per me mia madre era un'entità immortale. La osservavo dormire (e sognare) nel letto del Pronto soccorso, con una mano ancorata alla barra laterale e il cellulare stretto nell'altra. Da sempre, ha tenuto vite sotto controllo. Vigile. Organizzatrice. Sana. Tecnologica. 78 anni da poco compiuti, nessuna patologia. La prima TAC. La pancreatite diventa “molto seria”. Mi chiedevo cosa fosse una pancreatite seria. Ancora oggi resta per me una nemica semisconosciuta. Imprevedibile. Pericolosa. Anche quando "riposa". 16.30: Terapia Sub Intensiva. Troppo “liquido già libero.” “Bisogna vedere giorno per giorno” è stata la frase che non avrei più smesso di sentirmi ripetere da quel momento. Mia madre era improvvisamente diventata vulnerabile. Ed io ho iniziato ad avere paura.

1 febbraio 2020 (Terapia sub intensiva). “Un'altra giornatina. Ha tanto male e non sopporta la maschera dell'ossigeno. La dottoressa dice che ci sono due complicazioni (previste). Il blocco intestinale e il liquido nei polmoni. La pancreatite è partita acuta, è un nemico tosto”. Mia madre quel sabato mi faceva notare come io avessi iniziato a darle teneramente baci solo perché fosse in “punto di vita”. Forse era vero, al di là dell'ironia. Ero con lei, avevo paura, e le mie inutili sovrastrutture stavano crollando. E quel punto di vita sarebbe diventato il limite da non oltrepassare mai.

4 febbraio 2020. “Sono arrivata e mi hanno parlato. Tutto andava bene, all'improvviso si è aggravata. Il pancreas ha deciso. L'hanno addormentata, le bucano lo stomaco per tirare via una formazione di liquido. Poi la intubano. Poi terapia intensiva. Mi hanno parlato dolcemente con tutta la solita verità.” Mia madre teneramente chiedeva al dottore: “Poi andrà tutto bene?” Quando il claim Andrà tutto bene era ancora lontano. La malattia si stava aggravando. Pancreatite acuta di grado severo complicata dallo sviluppo di pseudocisti pancreatica infetta. Posizionamento di una protesi trans gastrica per drenaggio endoscopico della pseudocisti e posizionamento di un sondino naso cistico. Intervento d'avanguardia. Che fortuna essere al Niguarda. Garanzia di salvezza. La pancreatite può uccidere in 24 ore. Eravamo al sesto giorno. Mi dicevano che in una forma così grave la malattia avrebbe potuto piegare mortalmente un quarantenne. Il pancreas va in necrosi, decide di morire e basta. Mia madre invece aveva già dato prova della resistenza del suo corpo, della forza che l'aveva sempre contraddistinta. Sarebbe morta al 70esimo giorno.

8 febbraio 2020 (Terapia intensiva). “Voglio lamentarmi ancora, voglio sentire la sua ingombrante presenza... la sua premura ossessiva”. Intubazione e ventilazione meccanica per cinque giorni. Prendevo piccole pause. Perché crollavo davanti alla deformazione del volto di mia madre attraverso il dolore, davanti ad ogni emissione del suo corpo sofferente. Le aspiravo frequentemente i muchi. Mi era concesso di bagnarle la bocca. Batteva i piedi, il suo labiale ripeteva ossessivamente “Acqua”. Acqua, era diventato il suo più grande piacere vitale. Quello che la pancreatite le aveva tolto per primo. L'acqua era diventata pericolosa. Che esperienza la Terapia intensiva. Al Niguarda. Una cura amorevole che mi sembrava prossima al Paradiso. Il ricordo prezioso più vicino al cuore che abbia avuto in tutta la storia di ospedalizzazione di mia madre. La sensazione di delicata premura andava oltre i tubi, oltre la sacca color bile, oltre le carezze bagnate ad un corpo gonfio che perdeva liquidi. L'appuntamento delle ore 14, seppur fosse un continuo “non poter prevedere cosa accadrà domani perché la situazione è complessa”, era la meta rassicurante quotidiana di questa imprevedibile battaglia. La febbre, gli antibiotici, la morfina, l'ossigeno. Gli equilibri delicati ma tempestivi. Le prospettive lunghissime di ricovero (mesi), 50% di possibilità. “La Terapia intensiva è il limite tra vita e morte, la sfida continua è intervenire su questo limite sottile. Statele vicino il più possibile”. All'Inferno si morirà scrupolosamente soli.

9 febbraio 2020 (Luna piena). “Ennesima giornata di dolore nonostante i sedativi e gli antidolorifici. Mi hanno detto che oggi faremo un punto dell'intera situazione. Aspettano diversi risultati. Ieri sera mia madre ha voluto baciarmi in fronte anche se non ci riusciva con le labbra tutte fasciate dal nastro. Ha voluto vedere anche Andrea per dirgli grazie, piangendo con gli occhi pieni di paura”. Credevo stesse morendo. Perché si dice che una persona la sente, quando è accanto, la morte. E c'era la Luna piena. Ma sarebbe stato il plenilunio di aprile a portarla via, due mesi dopo. In una notte in cui non avrei avvertito la sua paura, solo la mia.

12 febbraio 2020 (Terapia sub intensiva). “Maria Felicia parla, le hanno tolto il tubo in bocca”. Estubazione. Sveglia, lucida. Miglioramenti notevoli, ripresa della funzionalità degli organi. Via i sedativi, attenuazione del dolore, respirazione più regolare. Profilo settico persistente, stabile senza fasi di shock. Riscontro microbiologico di positività per Streptococco gallolyticus + MRSA in liquido di pseudocisti. Ma lei aveva superato il rischio di morte. Ed era tornata in Terapia subintensiva. Un viaggio di ritorno alla vita, passando per i successivi reparti, pensavo. Se fosse stata davvero invincibile come avevo sempre creduto? E mio padre, un cardiopatico di 83 anni che non aveva mai avuto il coraggio di vederla in quelle condizioni per più di qualche minuto, aveva deciso di portarle una rosa per San Valentino, forse la prima in cinquantadue anni di matrimonio. Un gesto che mi aveva quasi imbarazzata. Forse perché, passata la paura, stavo riconquistando una zona di comfort in cui non smettere di essere "figlia adolescente" dei miei genitori.

17 febbraio 2020 (Medicina alta intensità). Spostamenti progressivi, sempre in “alte intensità di cura”. Da questo reparto in avanti, mia madre sarebbe stata messa in “isolamento tecnico” perché positiva al cosiddetto Acinetobacter da tampone rettale e faringeo. Legato all'ospedalizzazione del paziente, il batterio richiedeva protezioni (mascherina, camice, calzari, guanti) per ciascun visitatore, per ciascun operatore sanitario. Non ci eravamo mai 'protetti' sino ad allora. Nessuno in ospedale ci aveva parlato di questo batterio contratto e dei suoi rischi. Non si parlava ancora di distanze di sicurezza, ma ero già costretta a tenermi distante da mia madre per proteggermi da un'infezione da contatto. Da qui, non avrebbe più sentito il calore della mia mano accarezzarla, le mie labbra baciarla. Solo Pvc, tessuto non tessuto. Non era ancora tempo di carenza di mascherine, non era ancora tempo di psicosi da contagio. Potevo essere ancora lì ad assisterla otto, dieci e più ore al giorno. Per un sorso di acqua dalle sue mezze bottiglie fresche con cannucce colorate, per cambiarle le vaschette in cartone pressato in cui vomitare. Per tirarle su e giù lo schienale del letto in cui era immobilizzata. Per brevi massaggi. Per farle fare le prime videochiamate con l'esterno, nonostante la voce inesistente. Nonostante la stanchezza. Per raccontarle più e più volte le sue conquiste fino a quel momento. Per raccontarle quello contro cui aveva combattuto e continuava a combattere. Per evitare che suonasse più volte il campanello di allarme che teneva stretto tra le mani col terrore di essere “dimenticata” lì in stanza da sola. Nessuno si dimenticava di lei, qui. La situazione sembrava procedere stabilmente fino ai nuovi episodi di nausea, vomito biliare, vomito ematico. Nessuna tregua. Nuova emergenza. Tac, ostruzione della protesi transgastrica da materiale necrotico. Nuovo intervento d'urgenza. Prima rischiosa pulizia endoscopica. Trasfusioni. Nuovamente sopravvissuta.

Sabato 22 febbraio 2020. Indossavano tutti maschere protettive per trasferire mia madre al Pronto soccorso dal reparto, anche lei. Era la prima volta che sentivo parlare di disposizioni protettive precauzionali in ospedale per allarme COVID.

28 febbraio 2020 (Chirurgia alta intensità/Chirurgia generale oncologica e mininvasiva). “La situazione di sua madre è molto grave. La sua patologia ha una durata media di 70/90 giorni. Se fino a qualche giorno fa eravamo positivi per la sua resistenza, per i miglioramenti in corso, ora non lo siamo più. Poteva succedere di tutto durante il primo intervento di disostruzione. Temiamo che possa cedere durante una seconda fase d'intervento. Per sua madre il baratro potrebbe aprirsi da un momento all'altro, ci dispiace”. Queste le ultime parole ascoltate in Medicina Alta Intensità. Eppure avevo passato un'altra notte con mia madre. E l'avevo vista per la prima volta col volto sereno, seduta nel letto, senza dolore, leggere sms dal suo cellulare. Con una telefonata mi veniva comunicato un nuovo spostamento, prima in Chirurgia Alta Intensità poi in Chirurgia Generale, l'ultimo reparto del Niguarda che avrebbe curato mia madre. Un nuovo intervento. A cui resistere con la forza di sempre. 4 marzo 2020 Io continuavo ad esserci, accanto a mia madre. Allettata da quaranta giorni, l'aiutavo coi pasti, laddove con le sue mani troppo deboli e tremanti non ce la faceva ancora a mangiare in autonomia. Da programma per lei un graduale “svezzamento respiratorio”. E una lenta e graduale riabilitazione con fisiatra (non poteva in ogni caso ancora muoversi da sola). “Graduale”. Una parola chiave. Perché la sua patologia richiedeva questo: cure e monitoraggi per una ripresa graduale. Intanto, però, cambiava lo scenario, anche al Niguarda. L'agitazione del personale, le misure più restrittive. Domande di infermiere che mi chiedevano se avessi informazioni su successivi spostamenti di mia madre una volta ultimata la “procedura chirurgica”. Cresceva progressivamente anche la mia preoccupazione. Ricevevo brusche comunicazioni dalla caposala che mi mandava a seguire un corso di addestramento per alimentazione enterale, parlandomi concitatamente di “possibile dimissione, bisogno di liberare letti, suggerimento di provvedere al più presto ad una badante”. Nel frattempo, l'arrivo a casa del materiale necessario all' alimentazione domiciliare: “signora, lei deve stare calma, sono misure precauzionali che vengono attivate anticipatamente visti i tempi solitamente troppo lunghi...” Rassicurazioni su rassicurazioni da parte di una giovanissima dottoressa che mi riportava alla calma ribadendo che mia madre necessitasse di tempo per nuovi controlli, nuovi prelievi. Con l'obiettivo di sospendere la cura antibiotica e verificare che, senza quest'ultima, i valori della pancreatite sarebbero riusciti a mantenersi stabili. Intanto, in Chirurgia generale venivano trasferiti pazienti di Urologia. Mia madre, per un paio di giorni avrebbe condiviso la stanza, per essere poi nuovamente spostata in isolamento.

12 marzo 2020. “Mi hanno chiamata. La caposala e il fisiatra, pronto a firmare le dimissioni di mia madre. Non potrà andare in nessun'altra struttura di cura e riabilitazione perché nessuno in questo momento la prenderebbe. Dicono che è più sicura a casa che in ospedale. Avranno avuto nuove direttive, per forza”. E la pancreatite? Lo ripeteva ossessivamente la mia testa. Ma come sempre la dottoressa mi rassicurava. Dopo un' ulteriore tac, come “minimo” sarebbero state previste ulteriori due o tre settimane in ospedale, mi diceva. Veniva inoltrata la richiesta di assistenza domiciliare per un'infermiera ed un fisioterapista. Data indicativa di dimissioni trasmessa nella richiesta dalla caposala: 28 marzo. Confermatomi personalmente dall'infermiera in questione: fino al 28 marzo mia madre sarebbe poi risultata regolarmente ricoverata al Niguarda. Mia madre aveva fatto i suoi primi passi assistiti lungo il corridoio. Era riuscita faticosamente a mangiare da sola. Ero orgogliosa di lei che iniziava a sentire un nuovo incoraggiamento, una nuova spinta interiore. Seppur costretta a non farle visita come da nuove disposizioni, io provavo ad essere fiduciosa, credevo in una possibile nuova fase della malattia. Speravo che lei continuasse a resistere perché la sensazione era che ci dovessimo proteggere da qualcosa che si stava muovendo più grande di noi e che avrebbe deciso per noi.

17 marzo 2020. “Entro venerdì mandano mia madre in una struttura a Milano, il Palazzolo... non ti dico che voci negative. So solo che mia madre ha ancora piccole secrezioni infette. La dottoressa dice che quelle passeranno nei mesi. E che tra sei mesi leverà la protesi. E con questo penso che non saprò più nulla. La tac abbastanza bene”.

18 marzo 2020 Istituto Palazzolo Don Gnocchi. “Signora buongiorno sono la caposala, volevo avvisarla che sua madre sta per essere trasferita all'Istituto Palazzolo. Riesce a venire qui entro le prossime due ore per prepararle la valigia e salutarla?” Non era venerdì. Era mercoledì. Nessun preavviso. Tutto molto veloce. Il Palazzolo, nessuna alternativa. Nessun interlocutore. Le parole della dottoressa nel darmi copia delle dimissioni. “Le ultime analisi di sua madre andavano abbastanza bene. Lei non ha più motivo di stare in una Chirurgia, necessita di una Medicina che qui, da noi, ora non è purtroppo disponibile. Tra un mese dovrà fare una Tac... solitamente la prenotiamo internamente noi, ma ora è impossibile perché qui è tutto bloccato.” Il Niguarda. Garanzia di salvezza. La sensazione di abbandono. Come un macigno. “Dottoressa, sinceramente: ma in cosa devo sperare adesso? Che mia madre sopravviva al Palazzolo?”. La sua fama lo precedeva. L'avevo scoperta nelle ultime ore. “La capisco, la capisco... ma non so cosa dire. Siamo tutti in una situazione drammatica” “Allora preghiamo per tutti noi visto che non sembra esserci alternativa” Mia madre non era neppure stata avvertita. Quando mi aveva vista comparire sulla porta della sua stanza aveva istintivamente sorriso di gioia, solo in un primo momento. Poi aveva capito, ed era scoppiata a piangere per la paura che tutto fosse destinato a finire male. Le avevo promesso che avremmo fatto il massimo per arrivare all'unica meta immaginabile: la guarigione. Tutto è finito nel modo peggiore. “Eccoci. Visti così sembrano gentili. Almeno qui all'ingresso del reparto sembrano gentili...Cominciamo bene. Non trovano la cartella clinica. Il Primario ora ci ha detto che non hanno ricevuto neanche la cura per mia madre dal Niguarda”. Ero seduta sulla panchina esterna della cosiddetta “Sezione Generosa” sperando che quel nome potesse essere letto in chiave profetica per la nostra storia futura lì dentro. Pericolosa. Mia madre sembrava abbastanza tranquilla, con la sua liseuse di cotone azzurra e un sacchettino di plastica al polso perché “Mamma, non separarti mai dal tuo telefono. Deve essere sempre carico e sempre nella tua mano. Devo sapere tutto di te qui dentro”. Mia madre, 78 anni e nessuna patologia pregressa prima di questa maledetta pancreatite. Aveva una passione compulsiva per tutto ciò che fosse minimamente tecnologico. Aveva un Ipad e un Iphone 8 che le avevo portato da poco tempo in ospedale prevedendo la chiusura alle visite esterne. Dal Niguarda negli ultimi giorni mi fotografava i piatti aperti di cibo per rassicurarmi sul fatto che stesse riuscendo a mangiare da sola. Una dieta finalmente “varia”, nonostante la sua celiachia: pasta al sugo, arrosto, verdure a parte. Senza vomitare. Di certo non avrebbe avuto più bisogno dell'alimentazione via sondino. Il Primario ci accoglieva con gentilezza, commentando la “situazione clinica estremamente complessa” di mia madre. “Ma faremo il possibile. E noi qui adesso ci organizziamo per fare una videochiamata a settimana”. La videochiamata? A me importava solo sapere con certezza che avrei potuto ricevere aggiornamenti medici sull'andamento della pancreatite. Che doveva continuare ad essere monitorata. La stanza mi faceva salire i brividi. Quel vecchio arredo di legno. Come gestiranno qui dentro la malattia? (I monitor neppure esisteranno. Ma che Medicina è?) Sul davanzale sporco della finestra accanto a quella di mia madre osservavo diverse arance posizionate fuori dai vetri chiusi. Sembrava l'immagine simbolica di un tentativo di fuga. Perché delle arance, lì? Perché mia madre, lì? Perché il Niguarda aveva tradito il patto di fiducia con quel trasferimento? Salutavo mia madre rassicurandola. La realtà è che la paura mi stava divorando. La visione del buio. La lucidità di tenere sotto controllo la situazione. Il bisogno di un'alternativa. Inesistente.

19 marzo 2020. “Dio come sto male Daniela, continuo con questo vomito, non ce la faccio più, non ce la faccio più” “Io però domani mattina Daniela chiedo bene al dottore se sono qui per curarmi o è un deposito e basta perché non posso andare avanti così credimi” “Comunque non mi stanno facendo niente, niente di niente. Io non vedo nessuno. Sono qui a fare numero” “Non ho nessuna speranza, sono al termine, non ce la faccio più, non so fino a quando potrò durare”. Eravamo al secondo giorno. Al terzo giorno una schermografia, tamponi per i suoi batteri da ospedalizzazione. I numeri interni dell'Istituto Palazzolo non rispondevano. Silenzio. Perenne. Una prigione. Ero riuscita a risalire al Primario di Medicina, unico referente in carne ed ossa incontrato in quel posto. Con la gentile richiesta di mettersi in contatto con me o ancora meglio col nostro Medico di famiglia che, in mezzo alle difficoltà del momento, ha sempre chiesto (e ricevuto) costantemente informazioni cliniche di mia madre ai dottori del Niguarda, da gennaio in avanti. Senza abbandonarla mai. Non da eroe. Da medico che crede nel suo lavoro. Ricevere informazioni dovrebbe essere un diritto. Diritto. Ma il cattivo Covid sembra aver cancellato i diritti, le responsabilità. Ha investito impropriamente di eroismo anche divise sporche. Ha nutrito Alibi. Il gentile Primario una telefonata al medico di famiglia la faceva, sabato 21 marzo. Comunicando la sua unica preoccupazione relativa alla possibile positività di mia madre al Coronavirus. Il Medico di famiglia incalzava su febbre e vomito. Lo sapeva bene lui che entrambi i sintomi erano stati nel ricovero pregresso al Niguarda spie di allarme dell'infezione al pancreas. Ma il gentile Primario era “praticamente certo”. Coronavirus. Lui, che sarebbe stato impegnatissimo da quel giorno in avanti, dopo l' ulteriore incarico ricevuto come Primario del nuovo reparto dedicato Covid, aperto il 17 marzo, un giorno prima dell'arrivo di mia madre al Palazzolo. Medicina, la Zona Generosa, però, era ancora ufficialmente dichiarata “zona pulita”. In una telefonata il 23 marzo mi veniva richiesta l'autorizzazione a procedere con il tampone. Poi silenzio. Fino al 26 marzo quando mi veniva comunicato l'esito: Negativo. Mia madre negativa al Covid. Nessuna risposta ai telefoni dell'Istituto Palazzolo. Nessuna. Nessuna risposta neppure dal Primario. Le uniche notizie dall'interno della struttura arrivavano dalle videochiamate con mia madre. Le avevo comprato un nuovo lungo cavo per tenere sempre carico il suo telefono. Per tenerlo tra le mani, nel letto da cui non poteva muoversi. Nessuna riabilitazione motoria qui. Un giorno le avevano fatto indossare una mascherina per tre ore (sopra al suo sondino per l'ossigeno) in attesa di due fisioterapiste mai arrivate. Inesistenti, immagino. Perché il Covid ferma tutto. Lei non ha neppure avuto più la possibilità di mettersi seduta. “Come vuoi che vada? Sono esausta, prego la morte sono al limite...” “Ti prego mamma, continua a pregare la vita, hai ancora tante cose da fare fuori da lì. Non arrenderti, tira fuori tutta la giusta rabbia che hai ma continua ad essere forte”.”Ma ti visita qualcuno?” “Ogni tanto si affaccia un dottore di turno sulla porta e mi fa delle domande”. Domande. Antibiotico. Una puntura nella pancia. Sospensione di alimentazione da sondino. Mi diceva, Lei. Continuava il silenzio. L'impossibilità di parlare al telefono con i medici. Nel frattempo mia madre, con la febbre, mi chiedeva di acquistarle tre camicie ospedaliere perché al Palazzolo ne erano sprovvisti. L'avevano 'coperta' con una maglia di pigiama da uomo, taglia piccola, (di chi sarà stato quel pigiama?) che le arrivava sopra il punto vita. Nei giorni in cui aveva la febbre, nei giorni in cui aveva chiesto di chiudere una finestra aperta da qualche parte per cui era rimasta in mezzo alla corrente fredda.

30 marzo 2020. Continui fallimentari tentativi telefonici. Nessuna risposta dal Palazzolo. Insistenti messaggi (senza risposta) al gentile Primario. Sollecitazioni alla Direzione Sanitaria. Arrivava così la chiamata, la prima dopo giorni e giorni, di un giovanissimo Dottore. Mia madre mi aveva parlato teneramente di lui e di un secondo altrettanto giovane dottore per il loro premuroso comportamento con lei. Le facevano “spontaneamente delle carezze” mi diceva. Le uniche ultime carezze. Ma la pancreatite? Le infermiere avevano riferito a mia madre che le “urine non erano belle”. E “dobbiamo spostarla in una zona pulita”. Non è stata spostata. Non esistevano più “zone pulite” nel Palazzolo infernale. Il Dottore aspettava i risultati di nuovi esami. I prelievi precedenti per lui “andavano bene”.

6 aprile 2020 “. Saluta la mamma e dille che le rocce non si rompono” Il messaggio del Medico di famiglia. Un custode prezioso della nostra storia. Il mio riferimento. I messaggi vocali di mia madre erano un continuo “non farcela più”. Un costante “chissà come andrà a finire, mi manchi, ti voglio bene. Ora aspetto che mi vengano a girare sull'altro fianco”. Provavo molta tenerezza nel rumore affaticato delle labbra nel mandarmi il bacio con la mano rigida a fine videochiamata. Il giovane Dottore mi chiamava per dirmi che avrebbero fatto nuovi prelievi. Un'emocoltura per verificare una possibile infezione attraverso il catetere al collo. “I valori della pancreatite vanno bene, sono negativizzati” “Davvero?? Bene! Questo mi tranquillizza. Quindi la febbre...” Da giorni episodi di elevata temperatura. Un po' di tosse. Fino ad arrivare, il 6 aprile, a 39,3. Ma se i valori della pancreatite sono negativi...

7 aprile 2020. “Signora aspettiamo nuovi risultati. Vorrei fare a sua madre un nuovo tampone perché i sintomi potrebbero essere sospetti... stamattina ha avuto un abbassamento di ossigenazione nel sangue. Ad un primo sguardo della schermografia fatta, di cui avremo i risultati domani, mi sembra di intravedere un piccolo impegno dei polmoni. Signora, parliamoci chiaro, in questo reparto su 40 pazienti, 39 sono positivi al Covid  tranne sua madre, unica negativa. E questo inizio a pensare sia impossibile... E se risultasse ancora negativa, sarebbe meglio saperla a casa che qui dentro. Ma andiamo per gradi, poi procederei confrontandomi col suo Medico di famiglia. Anticipare una Tac...”. Casa? Ancora “a casa sarebbe più sicura che in ospedale?” Ma il Palazzolo non è mai stato concretamente un ospedale. Una condanna a morte preannunciata, così l'ho vissuta io. Non si cura una pancreatite di quella gravità a casa. Sarebbe solo uno scarico di responsabilità di morte. Doveva essere fatta una Tac. Certo. Dopo aver monitorato l'andamento dell'infezione con la sospensione degli antibiotici, dicevano al Niguarda. Quella verifica che innanzitutto Il Niguarda aveva la responsabilità di fare, penso, mentre invece decideva di dimetterla anticipatamente destinandola alla sua fine. Ore 22.30: “Ciao, buonanotte, scusa mi è partita per sbaglio la chiamata. Se dopo ti squilla ancora il telefono non rispondere. Sto cancellando dei messaggi e con la mano tremante sbaglio ...” Ore 01:32: “Vi mi hr”. Ormai interpreto la sua scrittura. Mi diceva “Vomitato ora”. Poi un audio in cui sento solo la voce di un uomo straniero dire: “Volevo parlare con lei” Poi un tentativo di videochiamarmi. Che agitazione, ogni volta, le notti di Luna piena. Non le stavano partendo per sbaglio le chiamate. “Ho vomitato ancora sangue sto malissimo”. Messaggio scritto. “Mamma ma come sangue?” “Ho vomitato per la quarta volta sangue. Il dottore di turno mi ha dato un protettore gastrico. Domani riferisce al Dottore, dovranno fare altre analisi, anticipare forse la tac, forse portarmi in ospedale...” “ Mamma, l'obiettivo più importante di domani sarà riuscire a tornare in ospedale, a Niguarda. Ad ogni costo. È l'unica cosa davvero importante. Ora cerca di riposare. Sarai esausta. Ci riusciremo”. Addio mamma.

8 aprile 2020 (Settantesimo giorno. La morte). Alle ore 9 ricevevo la chiamata di una Dottoressa. Mi riferiva che un'ora prima aveva trovato, ad inizio turno, mia madre in condizioni drammatiche, in un gravissimo stato emorragico. Aveva vomitato sangue e aveva perso sangue dalle feci. “Ma sua madre stanotte ha rifiutato per due volte il ricovero, all'una e mezza e alle sei”. “Cosa? Cosa sta dicendo, cosa?” “Ora proverò a stabilizzarla perché in queste condizioni é impossibile trasportarla in ambulanza, morirebbe subito” Siamo corsi all'Istituto. Dovevamo in ogni modo ottenere il trasferimento al Niguarda, disperazione. Capire cosa stesse succedendo lì. La dottoressa mi richiama: “Vedrete passare sua madre in ambulanza, diretta al Niguarda, sono riuscita a stabilizzarla. Ma perché siete venuti qui?” Cedimento emotivo. Mio, suo. Concitazione. “Non immaginate neanche cosa ho dovuto fare per stabilizzarla, io sono solo la dottoressa di turno. Ho fatto di tutto per convincere il 112 che non voleva venire a prenderla...” Lei, sì. Avrà fatto di tutto. Ma ha dovuto convincere il Pronto soccorso a ricevere mia madre. Allora con quale coraggio e quali bugie accusare una donna con un'emorragia in corso di aver “rifiutato il ricovero?”. “Me. Allora dovevate chiamare me”. Com'è possibile che ci sia stata una notte a disposizione per “chiedere autorizzazione al ricovero” e non il tempo di evitare quell'emorragia interna? Perché non chiamare me? Mi avevano contattata per chiedermi l'autorizzazione a procedere con un Tampone di Covid. Non per intervenire d'urgenza per salvare mia madre. Un caso in cui non si dovrebbe chiedere alcun permesso. Solo intervenire tempestivamente. Dopo circa un'ora il Pronto soccorso del Niguarda ci diceva che mia madre era arrivata gravissima con valore 5,3 di Emoglobina. Non era cosciente. La stavano trasportando dagli Endoscopisti mentre moriva, in arresto cardiaco e respiratorio. Morte certa per emorragia interna, causa sanguinamento della cisti pancreatica e riversamento di sangue nello stomaco e nell'intestino. Ecco che fine aveva fatto la pancreatite. Il Palazzolo aveva specificato al Niguarda che la paziente aveva rifiutato il ricovero. Non aveva effetti personali con lei. Quando ho visto l'ambulanza passare con la sirena accesa non ho pensato alla morte in quell'istante. Ho pensato alla promessa di salvezza. Di tornare al Niguarda. Alla libertà di avercela fatta ad uscire da lì. “Al Niguarda la salveranno anche questa volta. Lei resisterà anche questa volta”. Era troppo tardi stavolta. I sintomi, i giorni precedenti, nessuna possibilità di una Tac. Di un tempestivo intervento. Di lungimiranza. Di esperienza (?).

10 aprile 2020 (Effetti personali) Dopo due giorni di insistenza chiamando i soliti maledetti numeri del Palazzolo, arrivava la telefonata della Caposala del Reparto di morte comunicando che avremmo potuto ritirare dalle ore 15 in avanti gli effetti personali di mia madre: “La cosa che più ci preme recuperare è il suo cellulare”. Dichiarandolo in questa telefonata come in quella effettuata il giorno precedente. All'ingresso, un'addetta della lavanderia ci invitava ad indossare doppi guanti e ci consegnava due doppi sacchi. “Pinto Maria Felicia / Decesso”. “Controllate bene se c'è tutto e se manca qualcosa”. “Per noi è importante verificare innanzitutto che ci sia il telefono cellulare della paziente”. Non c'era. Non c'era. L'Iphone 8 di mia madre. Non c'era. Il nostro contatto. Quello strumento diventato tanto potente per poter comunicare. Sempre stretto nella sua mano. Attaccato al suo lungo cavo come una fune a cui rimanere appesa per non precipitare nel vuoto. Sparito il cellulare. Sparito il cavo. Spariti due alimentatori. Spariti gli occhiali da vista. Sparito il quaderno nero e la penna con cui voleva esercitarsi a scrivere dopo tanto tempo. Spariti indumenti ed altri oggetti personali. La caposala chiamata a rispondere di tutto questo, rimaneva immobile davanti a me. Ripetendo come un disco rotto: “Io volevo sapere a che ora avesse sentito sua madre per l'ultima volta”. “Io sto gentilmente chiedendo infatti a che ora ha sentito sua madre per l'ultima volta”. “Io mi sento aggredita mentre invece sto con gentilezza chiedendo a che ora avesse sentito sua madre per l'ultima volta”. Le rispondevo, ogni volta. Le rispondevo che mia madre l'avevo sentita la stessa notte maledetta, vista in videochiamata alle ore 02. Doveva dirmi dove fosse quel telefono. Doveva solo tornare nel suo reparto infetto a cercare quel telefono. Lei non si spostava di un centimetro. Continuando a prendere tempo senza volermi dire o voler fare nulla di diverso. “Ricordo bene sua madre quella mattina... Appena trasportata in ospedale ho chiesto immediatamente ai miei collaboratori dove fosse il telefono. Ho cercato personalmente nel letto dove fosse ma non c'era”. Nessuna diversa posizione. Rientrata 'a cercarlo' per la pressione esercitata. Risucchiata nuovamente dall'ombra, da cui era emersa. Tentativi imbarazzati di mediazione di due impiegate amministrative, della Direttrice sanitaria già indagata. La mia denuncia in Questura. Dall'app del Servizio clienti del gestore telefonico, quel telefono è risultato attivo per altre 24 ore. Suonava, la sera del giorno del decesso. (Chi ruba, non attende che un telefono si scarichi. Penso).

16 aprile 2020 (LA PREMUROSA TELEFONATA). Chiamata alle ore 20 circa della Caposala (sostituta caposala ha specificato) che con tono estremamente conciliante rinnovava il dispiacere per la sparizione del telefono ed altri effetti personali mettendosi a disposizione. Aggiungendo particolari non emersi la settimana precedente. Una borsa che una OS era quasi certa di aver visto andare via con l'ambulanza che aveva soccorso mia madre. Nuovi particolari, nuove contraddizioni. Alle 6 di mattina, mi riportava che gli infermieri avevano girato mia madre nel letto, cambiandole le traverse. Precedentemente, alle sei di mattina, mia madre avrebbe invece rifiutato il ricovero, per loro. “Di sicuro il Primario vi chiamerà per darvi informazioni cliniche di sua madre”. Informazioni che sarebbero state utili in vita, non a morte avvenuta. Ho ribadito di non sapere nulla della notte di emergenza, dalle ore 02 in cui ho parlato con mia madre, alle 09 quando ho ricevuto la chiamata della dottoressa di turno. Ad oggi, un mistero. L'emergenza di quella notte. Non gestita? Come e da chi? Domande su come mia madre possa essere arrivata alla mattina dell'8 aprile in quello stato irrecuperabile. Anche infetta? Aveva ragione, la OS. Una borsa è stata ritrovata, poi, al Niguarda. Era rimasta in deposito. Un bagaglio intatto, al suo interno, come appena preparato. Sacchetti ben sigillati. Nessuna traccia, però, del telefono e del caricabatteria a cui era sempre attaccato. In quella borsa, è evidente, non ci sono mai entrati. Tante domande, su una morte forse evitabile.

Coronavirus: “Mio marito contagiato: noi, positivi, lo abbiamo scoperto solo privatamente”. Le Iene News il 16 maggio 2020. “Mio marito ha avuto il COVID-19, noi abbiamo scoperto di esserci ammalati solo perché abbiamo fatto il sierologico privatamente. Nessuno ci ha contattati dall’Asl”. Michela (nome di fantasia) racconta a Iene.it la vicenda della sua famiglia, con qualche ombra sulla nostra capacità di contenere i nuovi casi nella fase 2. Tra poche ore la tanto agognata riapertura delle attività economiche sarà realtà. Due mesi dopo l’inizio del lockdown, la nostra vita tornerà a riassaporare un po’ di libertà dal 18 maggio. Se n’è parlato a lungo di questo momento, e tutti sono sempre stati concordi su una cosa: per ripartire è necessario essere pronti a tracciare e contenere con rapidità i nuovi casi e focolai.  E ci sorge una domanda: siamo sicuri di essere davvero pronti a farlo? Perché non solo la famosa app Immuni non è ancora disponibile come vi abbiamo raccontato qui, ma anche le Regioni potrebbero non essere pronte a isolare i nuovi casi. Almeno, è questo che sembra emergere da una storia che è stata raccontata a noi di Iene.it. Una storia di persone che a marzo hanno avuto sintomi e come tante non hanno potuto all’epoca fare il tampone. Michela (il nome è di fantasia), vive in Emilia Romagna. Il marito è un agente di polizia e “la scorsa settimana è stato convocato in ospedale per fare il test sierologico per il COVID-19, un test pungidito. Da quello risulta positivo agli anticorpi Igm - quelli che indicano una infezione in corso, ndr - e a quel punto si attiva il protocollo: prelievo del sangue e tampone”, ci racconta Michela. “Lui viene mandato a casa in quarantena in attesa degli esiti degli esami”. Fin qui, normale procedura per il contenimento della pandemia. I problemi però, secondo il racconto di Michela, iniziano proprio da questo momento: “Gli dicono che sarebbe stato contattato il giorno dopo per l’esito degli accertamenti, e fino a quel momento sarebbe dovuto rimanere in quarantena”. Però “il giorno dopo nessuno si fa sentire”, ci dice Michela. “Mio marito allora si attiva in autonomia, scarica il suo fascicolo sanitario e scopre che sia il tampone che l’analisi del sangue sono negativi. Era invece positivo agli Igg, quindi aveva avuto il COVID-19 ma era guarito”. A questo punto lui potrebbe uscire dalla quarantena, però “l’assurdo è che nessuno si è fatto sentire” dall’Asl. “A questo punto mio marito contatta il comandante, che gli dice che può rientrare a lavoro”, racconta Michela. “Ma si è dovuto attivare lui con il medico del lavoro per capire se era possibile: se non si fosse mosso da solo, sarebbe ancora in quarantena perché nessuno l’ha mai contattato”. Una storia che già così sembrerebbe mostrare qualche lacuna nell’organizzazione sanitaria. Ma la sua vicenda non è finita qui. “Nessuno ha contattato me e le altre persone che viviamo con lui per sapere se avessimo avuto il coronavirus anche noi”, ci dice Michela. “Io e i miei suoceri siamo andati a fare il test sierologico venoso in autonomia, privatamente e a pagamento. Se lui era stato malato, magari anche noi potevamo esserlo o essere ancora contagiosi”. E l’esito non è confortante: “Anche io ho avuto il coronavirus ma senza gli anticorpi che segnalano l’infezione in corso. Mio suocero invece ha ancora il COVID-19”, ci racconta Michela. “Lui così viene messo in quarantena in attesa di fare il tampone”. E per Michela? “La sera il mio medico mi ha detto che non dovevo fare la quarantena. Il mattino dopo mi richiama per dirmi che il protocollo è cambiato e devo mettermi in isolamento anche io e fare il tampone”. Così anche Michela entra in quarantena: “Non hanno voluto nemmeno sapere se avevo avuto sintomi o no. Eravamo cinque individui in casa e in tre siamo risultati positivi, lo abbiamo scoperto solo perché ci siamo mossi autonomamente. Dall’Asl non ci ha chiamato nessuno”. Questa cosa non va giù a Michela: “Noi abbiamo pagato per fare questi accertamenti, privatamente”. Lei adesso è in quarantena in attesa degli esiti degli esami del sangue e del tampone: “Ho fatto ieri il test. Lunedì dovrei iniziare il nuovo lavoro, sono in attesa dell’esito del tampone. Non so se potrò partire, spero che mi aspettino”. Ma il punto è un altro: “Se non ci fossimo mossi da soli, non avremmo mai saputo del contagio. Nonostante mio marito avesse fatto il coronavirus e avesse comunicato di essere convivente con altre persone, non abbiamo avuto nessun accertamento dall’Asl”, racconta Michela. “Ma come fanno a sapere che noi non ci siamo contagiati, o peggio ancora positivi? Si legge di persone che sono positive anche dopo mesi!”. Una cosa di cui anche noi de Le Iene ci siamo occupati, nei servizi di Alessandro Politi che potete rivedere qui. “Mia zia ha avuto il COVID-19 a metà marzo, è ancora in quarantena e positiva al tampone da 60 giorni”, ci racconta Michela. “Se non era per noi, rischiavamo di andare in giro a fare gli untori”. E tutto questo a poche ore dalla riapertura dei locali. Siamo sicuri di essere davvero pronti e organizzati per ricominciare? “E’ tutto confuso, un macello”. Speriamo bene.

Morto detenuto di Voghera. Il figlio: “Il medico si è rifiutato di visitarlo”. Le Iene News il 12 maggio 2020. Antonio Ribecco è morto di coronavirus nel carcere di Voghera. A Iene.it Giulia Innocenzi intervista il figlio Domenico che parla di una morte evitabile. Questa pandemia sta causando gravi disagi al sistema carcerario italiano, detenuti e agenti di polizia penitenziaria non si sentono al sicuro. “Il 9 aprile mi chiama la dottoressa e mi dice che mio padre probabilmente non sarebbe arrivato oltre quella giornata. Quando ho richiamato per chiedere come stava era morto”. A parlare è Domenico, il figlio di Antonio Ribecco, detenuto nel carcere di Voghera quando si è ammalato di coronavirus. Il virus gli è stato fatale. Antonio di trovava in carcere in attesa di giudizio con un’accusa molto grave, quella di essere il boss della ‘ndrangheta in Umbria. Il figlio Domenico con Giulia Innocenzi a Iene.it puntualizza: “Mio padre poteva anche essere accusato di cento anni carcere, però il diritto alla salute non doveva toglierlo nessuno”. Quando Ribecco avverte i primi sintomi di coronavirus chiede al medico di essere visitato, ma questo si sarebbe rifiutato, come racconta il figlio. Tant'è che un agente gli avrebbe fatto un richiamo. Il detenuto era talmente preoccupato per le sue condizioni di salute che nell'ultima lettera che scrive ai familiari dice testuale: “Sappiate che qualsiasi cosa succede vi voglio bene”. E una seconda lettera, invece, arriva dal compagno di cella di Ribecco, per informare il figlio Domenico sulle condizioni del padre. Molto di quello che Domenico sa degli ultimi giorni di vita di suo padre, l’ha appreso da quella lettera. “Non gli era stato dato nulla per sanificare la cella. Quando hanno scoperto che stava male l’hanno messo in isolamento e lì non gli davano né da mangiare né da bere. Mentre l’ambulanza lo portava in ospedale gli è stato negato di telefonare a noi, la sua famiglia, oltre che un bicchiere d'acqua che aveva chiesto”. Alcuni suoi compagni di cella si sono poi ammalati di coronavirus. Domenico ha detto di aver denunciato il carcere: “Non è mi stata data immediata comunicazione delle condizioni di mio padre. Prima di scoprire che era entrato in terapia intensiva sono passati quattro giorni, e l’ho scoperto per via non ufficiale”. Persino la notizia della morte sarebbe arrivata in ritardo dal carcere: “quando mi hanno chiamato gli ho detto che già lo sapevo”. Abbiamo chiesto conferma di quanto detto da Domenico al carcere di Voghera, il direttore ci fa sapere che “hanno fatto tutti gli interventi di competenza prontamente, nel rispetto dei tempi e modalità giudiziarie e amministrative e che l'istituzione non ha trascurato nulla”. Il coronavirus nelle carceri non spaventa solo i detenuti e i loro familiari. Un agente della polizia penitenziaria di Bollate ci ha contattato per denunciare le condizioni in cui lavorano. “Nel carcere di Milano Bollate ci sono stati circa quindici casi tra detenuti e agenti. Ci forniscono delle mascherine monouso che dobbiamo usare più di una volta. Ma la cosa più grave è che nessuno ci ha fatto i tamponi”. La direttrice del carcere di Bollate ci conferma che “ci sono stati 9 casi positivi tra gli agenti e 5 tra i detenuti, ma oggi non ci sono casi”. Ci scrive anche che “per valutare i casi positivi sono stati fatti 84 tamponi, la scelta di chi testare ha seguito le indicazioni delle autorità sanitarie. In ultimo, le mascherine sono fornite con regolare cadenza ogni due turni di servizio”.

Madre morta e due figli malati fra tamponi mai fatti e l’avviso della quarantena in ritardo. Fabio Paravisi Pubblicato martedì, 12 maggio 2020 su Corriere.it. La chiamata ai familiari perché non uscissero di casa tre settimane dopo il ricovero dell’anziana. «C’è il tampone per suo padre». Ma era morto da un mese. Una donna morta di coronavirus e quattro figli dei quali due malati, ma (quasi) nessun tampone. Con il consiglio di mettersi in quarantena arrivato tre settimane dopo l’accertamento della positività della signora uccisa dal Covid. È la situazione in cui si trova una delle tante famiglie travolte dall’epidemia e lasciate nell’incertezza. Maria Belotti aveva 83 anni e abitava in Borgo Santa Caterina. Viveva sola: il marito è morto da trent’anni e i quattro figli sono sparsi per la provincia, anche se erano rimasti in stretto contatto. A fine febbraio, quando si comincia a parlare del virus, la pensionata si ferisce cadendo in casa, viene ricoverata per qualche giorno alle Cliniche Gavazzeni e dimessa. Ai primi di marzo comincia a stare male, ha febbre e problemi respiratori. «Le è stata diagnosticata una polmonite ma era una fase in cui non veniva immediatamente collegata al virus», racconta il figlio Roberto Pigolotti, che vivendo ad Alzano e lavorando come educatore alla casa di riposo di Vertova si è trovato per più ragioni al centro della bufera. La sera del 5 marzo la madre peggiora, il suo medico teme un’embolia, si trova posto a Zingonia e dopo una lunghissima attesa al pronto soccorso durante la quale due figli si danno il cambio per farle compagnia, viene ricoverata. La diagnosi conferma la polmonite bilaterale interstiziale e il tampone accerta la positività al Covid-19: «Ma è un dato che a noi viene comunicato otto giorni dopo — continua Pigolotti —. Nel frattempo io e uno dei mei fratelli cominciamo ad accusare dei sintomi e ci mettiamo in malattia». La signora Belotti resiste due settimane, poi il crollo: «È morta il 20 marzo, anche se l’ho saputo due giorni dopo. Una domenica ho chiamato in ospedale e mi hanno detto: sua madre è deceduta venerdì. È stata un brutto colpo, venirlo a sapere così». Dal Policlinico ricordano che la prassi è sempre stata quella di avvisare tempestivamente i familiari delle vittime. Roberto Pigolotti ha sintomi lievi e migliora rapidamente. Suo fratello no: «Da metà marzo è in quarantena in casa: chiuso in camera e separato da moglie, figlia e suocera. Ha avuto sintomi importanti, febbre alta e saturazione del sangue sotto 90. Ora sta migliorando, ha chiesto più volte il tampone all’Ats segnalando di essere stato a contatto con una persona deceduta ma niente». Una telefonata dall’Ats è arrivata: «Il 26 marzo ci hanno avvisato di metterci in quarantena per due settimane. Abbiamo risposto che dal ricovero ne erano già trascorse tre. Non hanno fatto il tampone nemmeno agli altri due fratelli che lavorano a contatto col pubblico, uno vigile e l’altro addetto in una struttura per malati di Aids e quindi immunodepressi». Il primo tampone è arrivato quattro settimane fa, quando Roberto Pigolotti è tornato al lavoro. Ad eseguirlo è stata la casa di riposo: «Sono risultato negativo, ma forse mi sono negativizzato. Pensando alla situazione di mia madre, che non usciva mai di casa, noi ci sentiamo un po’ in colpa, come se il virus glie l’avessimo portato in casa noi. E l’incertezza in cui siamo stati lasciati ha peggiorato le cose».

 “Dopo 10 giorni di ossigeno hanno detto che papà era fuori pericolo ma poi è morto”, il dramma di Elena. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2020. L’ultima volta ha visto suo padre attraverso una finestrella della porta dell’ospedale. L’uomo l’ha salutata sorridente. E poi in due giorni la situazione è precipitata. Quella che doveva essere la convalescenza si è trasformata in una tragedia. Lo racconta la figlia Elena, che ha perso il padre agli inizi di aprile a causa del Covid-19. Aveva 71 anni, scrive sui social. Ed era stato trasferito per un periodo che doveva essere di sola convalescenza al Policlinico di Monza.  “Gli ho urlato: ‘Ti amoooo papà’ . Non posso accettare. Doveva essere una convalescenza”. Entrambi i genitori di Elena erano stati ricoverati. La madre, 70 anni, avrebbe superato la sua malattia. Il padre invece, “sanissimo”, è andato incontro a un calvario più lungo. La famiglia aveva contattato il medico di base, che non aveva ritenuto fosse il caso di ricoverare i genitori. “Diceva loro di prendere Tachipirina ma la febbre non passava – racconta Elena – Mio padre oltre alla febbre aveva problemi respiratori. Di nostra iniziativa dopo una settimana di febbre e il resto abbiamo chiamato l’ambulanza perché mia madre stava malissimo e aveva febbre a 40, mio padre aveva la saturazione a 83″. I due sono stati ricoverati all’Ospedale Poliambulanza di Brescia. Sottoposti al tampone, l’esito positivo è stato fornito cinque giorni dopo. “A Brescia – spiega la figlia – stati curati con antibiotico ed eparina poiché i medici mi dicevano che erano pazienti non critici ma stabili . Mia madre è stata dimessa dopo 5 notti. Mio padre è stato 10 giorni a Brescia in reparto. Mi dicevano che la saturazione era buona e che aveva bisogno di ossigeno ma la situazione non era critica. Essendo un paziente stabile – continua – e sulla strada buona per lo svezzamento da ossigeno, dopo 10 giorni lo hanno mandato al Policlinico su Monza per la convalescenza”. Una parola – “convalescenza” – che la donna cita testualmente. Alla donna viene concesso di vedere il padre per l’ultima volta. Quando si reca in ospedale per portare all’uomo il cambio biancheria lo vede, sorridente, che la saluta con la mano, attraverso la piccola finestra di una porta. Ma al Policlinico la situazione precipita velocemente in due giorni. “I medici mi dicevano che stavano somministrandogli il protocollo francese, cioè anti malarico, e in due giorni la situazione è precipitata. Me lo hanno passato a telefono prima di tentare di intubarlo e poi mezz’ora dopo mi hanno chiamato per farmi le condoglianze“. Doveva essere solo una convalescenza, ripete la donna. La Lombardia è stata la regione più colpita dal coronavirus. Al 5 maggio 2020 i dati della Regione fanno registrare 78.605 contagiati e 14.380 decessi. La provincia bresciana è la seconda più colpita dopo quella di Milano, con 13.169 casi.

Lettera dall'aldilà: "Io mi sono fidato ma qualcosa non ha funzionato: il Covid mi ha ucciso". La denuncia della nipote di un ricoverato alla casa di riposo Denina di Moncalieri. La Repubblica il 18 aprile 2020.  "Sono Nando Caporali vengo definito "un anziano" perché ho 83 anni ma sono un uomo che ha solo vissuto più a lungo di altri svolgendo al meglio, almeno ho cercato, il mio quotidiano. Una famiglia, un' attività lavorativa come Ufficiale dei Vigili Urbani a Torino, sono ancora interessato a lavori di restauro per me e per i miei amici come anche quelli di giardinaggio.  Ho perso un figlio di 18 anni e tre anni fa anche la moglie e pur riuscendo a "sopravvivere" ho deciso a dicembre scorso di trasferirmi nella Casa di Riposo Denina di Moncalieri. Non ho certo fatto felici i miei figli e i miei nipoti; loro mi vedevano molto attivo, indipendente, pienamente autonomo, auto munito e tutto ciò per loro non giustificava questa scelta. Io però iniziavo a sentire il peso delle incombenze quotidiane e della solitudine per cui mi sono affidato al Denina perché così ho avuto accoglienza, coinquilini con i quali giocare a carte, fare bricolage in gruppo, ginnastica e pure un'assistenza sanitaria; insomma mi sono sentito protetto e ho avuto piena fiducia in tutto quello che mi offrivano! La mia coccola quasi quotidiana era quella di passeggiare nel borgo di Moncalieri e concedermi un buon caffè con la lettura di un quotidiano. Nella foto che vi ho allegato sono stato ritratto il 14 Marzo 2020 quando già non potevo più uscire dall'Istituto per l'emergenza Covid. Vedete un cartello con il quale esprimo tutta la mia solidarietà nel seguire le indicazioni dell'Istituto, ero fiducioso e l'ho inviata a chi da fuori non poteva più incontrarmi! Da questo periodo in poi ho fatto mascherine un po' per tutti con la carta da forno e ho letto molto (libri di Grazia Deledda, Giorgio Faletti, Jane Austen) mi tenevano molta compagnia e così potevo raccontare a chi mi telefonava, sì perché era l'unico mezzo di contatto con il mondo esterno. .........già, l'assistenza Sanitaria, la tutela di ognuno di noi, la prevenzione, una strutturazione di protocolli programmati da chi di competenza per evitare il contagio tra noi......qualcosa è andato storto! Circa 20 giorni fa ho iniziato con i primi sintomi di febbre, astenia, dissenteria, il tampone era negativo ma i sintomi non passavano, anzi. Dopo una settimana sono stato ricoverato al Pronto Soccorso di Moncalieri con un nuovo tampone ora positivo in quadro di polmonite e, dopo qualche trasferimento di reparto in reparto, sono giunto al reparto Covid 4 - Medicina B con sindrome respiratoria grave e l'infezione di tutti i distretti di entrambi i polmoni. Nel cartello c'era scritto:....."Nell'attesa di poterci riabbracciare, fate come noi,......perché presto......andrà tutto bene!" Qualcosa credo non abbia funzionato....sì perché ieri 17 aprile ho salutato questo mondo e mi sono riunito con mia moglie e mio figlio. Però le indicazioni io le ho seguite! Mi chiedo chi ha dato queste informazioni, sapeva veramente come stava procedendo per la miglior tutela di tutti noi? Oppure la preoccupazione era solo di ricevere una cospicua somma mensile come retta? Io mi sono fidato di chi, invece, non ha voluto provvedere in modo adeguato nel massimo delle sue conoscenze mediche e scientifiche oppure di chi doveva coordinare tali indicazioni e non ha provveduto" Questa lettera è stata scritta e spedita da Laura Abrigo, nipote di Nando. Una denuncia pacata nei toni eppure capace di sollevare nuovi dubbi su come l'emergenza Covid nelle Rsa sia stata affrontata in queste settimane. Un paio di giorni fa avevamo scritto della casa di riposo "Denina" di Moncalieri per denunciare la situazione in cui si era venuta a creare: un'infermiera e un'operatrice sanitaria per assistere tutti i 26 ospiti.

Coronavirus, prigionieri in casa da quasi due mesi: “Fateci il tampone”. Le Iene News l'1 maggio 2020. Iene.it raccoglie la video denuncia di Mirko e della sua compagna, due ragazzi della bergamasca, sospetti Covid e bloccati in casa da quasi 56 giorni, senza poter avere un tampone: “Non ci vogliono neanche a lavoro, qualcuno ci liberi”. “Siamo in galera da 56 giorni senza aver commesso un reato”: Mirko, 38 anni, e la sua compagna ci raccontano così qui sopra, nel video che ci hanno mandato, la loro situazione. Vivono insieme nel bergamasco, una delle zone d’Italia più colpite dal Covid-19. Ai primi di marzo Mirko comincia ad accusare alcuni sintomi: “Il 6 ho iniziato ad avere la febbre alta per una decina di giorni, tra 38,5 e 39,5. All’inizio la mia dottoressa mi prescrive una cura a base di tachipirina, dandomi anche le gocce per la tosse. La situazione non migliora affatto e così il 16 chiamo il numero dell’emergenza per l’ambulanza. Mi si erano aggiunti forti dolori al petto, nella parte centrale e un grande affanno. Vengono a casa e dopo avermi misurato la saturazione, mi spiegano che probabilmente è Covid-19 ma che i valori sono buoni e posso continuare a curarmi a casa”. Passa qualche giorno, la febbre scende ma i dolori al petto aumentano: “Mi sono fatto fare una lastra domiciliare al torace, dalla quale però non risultava nulla di anomalo. Mi consiglio con la mia dottoressa, sempre molto presente, e vado in ospedale per una Tac: ho la polmonite interstiziale da coronavirus”. Mirko avverte subito l’Ats, l’Azienda di tutela della salute di Bergamo, chiedendo di poter fare un tampone: “Mi rispondono che purtroppo non ce ne sono abbastanza per tutti e che deve essere la mia dottoressa di famiglia a fare la richiesta. Lei prova più volte a farlo, ma le viene risposto che la priorità viene data ai lavoratori delle aziende di prima utilità sociale”. Mirko lavora nei servizi, mentre la compagna è una psicologa, quindi, stando alle indicazioni che sarebbero state fornite, non hanno diritto ad accedere a un tampone in priorità: “Continuo a curarmi con pastiglie antimalariche e punture in pancia, oltre a farmaci cortisonici. La mia compagna sta molto meglio di me, non ha avuto gravi sintomi ma è stata strettamente a contatto con me ovviamente”. A oggi sono 56 giorni che Mirko e la compagna sono reclusi in casa, senza la possibilità di sapere se sono ancora contagiati: “Mi hanno giustamente spiegato che, essendo segnalati come sospetti Covid, se uscissimo per fare la spesa e venissimo fermati, rischieremmo una denuncia penale”. Mirko e la compagna ovviamente non possono neanche tornare a lavorare: “Ci hanno ripetuto che non possiamo tornare al lavoro fin quando non ci verrà fatto un tampone che risulti negativo. Siamo entrambi in malattia con stipendio ridotto. Ho chiamato decine di volte e continuo a chiamare tutti numeri utili, mi dicono di continuare a insistere, ma ribadendo che la mia situazione non rientra tra quelle per cui è possibile attivare un tampone in urgenza perché non lavoriamo in aziende di servizi di prima utilità né tantomeno siamo operatori sanitari. Stamattina ho provato ancora chiamare l’Ats Bergamo, mi dicono che in Lombardia fanno solo 400 tamponi al giorno e per questo la mia dottoressa non riesce a inserirmi nella lista. Intanto rimaniamo qui reclusi in casa, da 56 giorni... Per fortuna abbiamo degli amici d’oro che ci aiutano con le necessità quotidiane e di notte compilo la lista della spesa online che mi faccio portare a casa. Ma è tutto così assurdo”. Alla fine, nel video che vedete sopra, Mirko fa un appello direttamente ad Ats Bergamo: “Fateci fare un tampone. Non possiamo stare in casa a vita e sinceramente non me la sento neanche di uscire, a parte tutti i rischi di denunce. Potrei essere ancora potenzialmente infettivo, noi abbiamo bisogno di tornare a lavorare!”. 

Roberto Faben per “la Verità” il 28 aprile 2020. La mattina presto del 19 marzo 2020, giorno di San Giuseppe, festa del papà, l'ospedale di Bergamo ha telefonato. «Suo padre è deceduto». La sera prima, alle 23, furono riprese le cupe immagini che fecero il giro del mondo, una colonna di autocarri militari stipati di bare diretta a trasportarle verso cimiteri di altre località italiane, dato che quello cittadino era al limite del collasso. A ricevere la ferale comunicazione è stata Cristina Longhini, 39 anni, farmacista, che si è trasferita 12 anni fa da Bergamo a Milano dopo la laurea, per lavorare alla farmacia Ca' Granda con la madre Catia. In poco meno di venti, terribili giorni, quel papà che adorava, Claudio Alessandro Longhini - «ma tutti lo chiamano Claudio» ricorda -, 65 anni, appena andato in pensione dopo 40 anni di lavoro come rappresentante in un' azienda, è stato portato via dal Covid. Dal negletto ritardo nella diagnosi del virus alle angosciose attese di aggiornamenti da un nosocomio precipitato in uno scenario di guerra, dal pietoso momento del riconoscimento della salma alla ricerca di un servizio di pompe funebri in un territorio improvvisamente disastrato, fino alla perdita di notizie del proprio congiunto, trasportato chi sa dove dai mezzi dell' esercito. Quello che doveva essere il preludio di una normale e magari felice primavera, per Cristina Longhini, sposata e con un bimbo di due anni e mezzo, Filippo, e per la sua famiglia, si è tramutato in un' esperienza che è arduo scegliere tra il definirla una via crucis o un uragano arrivato chi sa da dove. Quasi ciò non bastasse, e in presenza di paventate notizie di imputazione anche delle spese di trasporto militare, puntuale è giunta la fattura dei costi di cremazione, 563 euro, che sommate agli oneri d' ufficio e alle marche da bollo, perché pure quelle sono richieste, portano a una somma di 777 euro. «Abbiamo già pagato» sottolinea Cristina. «Ma se lo Stato dice che siamo in guerra, noi siamo vittime di questa guerra. Un segno di vicinanza, almeno. E siamo in tanti ad aver attraversato questa situazione».

Suo padre quando ha avvertito i primi sintomi di malessere?

«Tra il 2 e il 3 marzo. Mio padre, a casa, in centro a Bergamo, ha iniziato ad accusare in questi giorni inappetenza, dissenteria, vomito. E una febbre di circa 37 e 4. Abbiamo chiamato il nostro medico di base, il quale ha prescritto per telefono un antibiotico e fermenti lattici».

Scambiando il Covid per una comune influenza, dunque. E poi?

«S' aggravava. Peggiorava sempre più. Perdeva peso. Stava un' ora e mezzo in bagno con la dissenteria che continuava, nonostante gli antibiotici. Abbiamo richiamato il nostro medico di base, chiedendogli di venire a visitarlo. Lui ha risposto che si trattava di un virus intestinale e dovevamo continuare con gli antibiotici. "Chicchy non sto bene" diceva. Mamma mi disse: "Questo è Covid". Allora abbiamo chiamato un altro medico, un nostro amico di Brescia, ed è venuto a visitarlo. Eravamo già al 13 di marzo».

Cosa riscontrò il secondo medico?

«Mio padre aveva un livello di ossigenazione del sangue di 65, e basti pensare che già con 80 si va verso l' intubazione. Rischiava di morire in casa. Il medico ha chiamato un' ambulanza. Sono arrivati, era una di quelle ambulanze di appoggio. Nemmeno sapevano dov' era l' ospedale, dato che ci hanno chiesto indicazioni».

Dopo il ricovero cos' è accaduto?

«L' ospedale non ci ha chiamato subito. Ma solo il giorno dopo. Papà era stato sottoposto al Cpap, il casco per la terapia di ventilazione. Dopo due giorni ci hanno detto che era stabile. Non sapevamo se era cosciente. Noi telefonavamo, ma c' era il caos. Ci hanno risposto: "Chiamiamo noi se ci sono miglioramenti". Dopo due giorni hanno telefonato, dicendoci che per mio padre c' era necessità di terapia intensiva, ma non c' erano posti. Ci hanno chiesto se lo potevamo trovare noi un ospedale con un posto in terapia intensiva. Ho provato a chiamare ovunque, anche in Regione Lombardia. Nulla».

Dunque suo padre sarebbe rimasto senza terapia intensiva.

«L' ospedale inizialmente non ha trovato alcun posto. Poi abbiamo notizie che hanno tentato l' intubazione. La mattina del 19 marzo, quando abbiamo telefonato alle 5 del mattino, ci hanno detto: "A suo padre non arriva più ossigeno agli organi"».

Quando la successiva telefonata?

«Alle otto meno un quarto. Hanno chiamato loro. «Suo padre è deceduto» ci hanno comunicato. In realtà è spirato alle 5 e 45, come è stato scritto nella sua cartella clinica».

Come si è evoluta la situazione da questo momento?

«Mi hanno detto che dovevo andare alla camera mortuaria per il riconoscimento. Sono arrivata alle 10. La salma non c' era. Alla camera mortuaria mi hanno suggerito di chiedere notizie al Pronto soccorso. Il corpo è arrivato alle 14. Mai avrei voluto vedere un' immagine simile, le condizioni in cui era ridotto il mio papà. Mi hanno restituito il suo borsone. E un sacchetto di quelli che si usano per i rifiuti con il suo pigiama e la sua maglietta intima, con una grande macchia di sangue nella zona della schiena che non so a cosa fosse legata. È rimasto 15 giorni nella mia auto questo sacchetto. Non avevo il coraggio di aprirlo».

E a quel punto?

«Dovevo trovare un' agenzia di pompe funebri, ma quelle di Bergamo, cui abbiamo telefonato, erano tutte indisponibili. Dopo vari tentativi, abbiamo trovato un servizio disponibile a Milano. La salma è stata trasportata dalla camera mortuaria al cimitero di Bergamo e poi è partita con i mezzi militari per essere trasportata in un luogo al momento ignoto. C' era un numero di telefono a disposizione e verso il 3 aprile mia madre è riuscita a sapere che mio padre era stato cremato a Ferrara».

Aveva dato disposizioni suo padre per la cremazione?

«Sì, aveva manifestato la volontà di essere cremato. Ma ci sono anche storie di familiari che hanno saputo della cremazione a fatto avvenuto dando per scontato il loro assenso. Queste e altre storie sono raccontate in un gruppo su Facebook che si chiama Noi denunceremo, coordinato da Stefano Fusco, e che raccoglie migliaia di iscritti che raccontano verità che nessuno conosce».

Qual è stata la successiva evoluzione dei fatti?

«L' agenzia di pompe funebri ci ha telefonato dicendoci che l' urna con le ceneri era disponibile per essere tumulata, previo un bonifico di 290 euro da versarsi ai servizi cimiteriali del Comune di Bergamo per la sistemazione in una celletta decisa dal cimitero stesso senza possibilità di scelta da parte dei congiunti. Non c' è stato un funerale ma soltanto un Requiem aeternam e una brevissima benedizione, il giorno 23 aprile, da parte di uno dei due frati che si alternano in questo compito».

In quei giorni è arrivata anche la fattura per la cremazione.

«Sì, di 563 euro, e non si capisce perché, ad esempio, a Padova il costo della cremazione sia di 240 euro. Non possono esserci tariffe uniche? Ma io dico, premesso che abbiamo regolato tutte le fatture, dopo questo calvario, non si poteva manifestare un segno di vicinanza da parte del Comune di Bergamo almeno in questo, un segno di solidarietà e di sollievo per i congiunti delle vittime? Il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha chiesto scusa per aver detto "Bergamo non si ferma mai" e spese risorse per far installare in città una ruota panoramica per 40 giorni per festeggiare la sua elezione».

«Un errore nel test del tampone. E ora vivo nel terrore». Il caso di una donna di 72 anni, dimessa dopo esito negativo al coronavirus. Ma in realtà era stata data una comunicazione errata. E ora la figlia e i nipoti minorenni temono in contagio (ma non vengono a loro volta tamponati). Paolo Biondani e Andrea Tornago su La Repubblica il 29 aprile 2020. L’ospedale le ha rimandato a casa la mamma di 72 anni, malata di Covid-19, con un referto sbagliato: tampone negativo. Invece il risultato era positivo. E ora la signora Maria M. vive nel terrore di essere stata contagiata insieme ai suoi due figli minorenni. Segregata in casa con la madre immobilizzata, aspetta da più di una settimana di poter fare il tampone con tutta la sua famiglia, ma il controllo non arriva mai. Indignata, la signora ha raccontato all’Espresso la sua vicenda, documentata dai referti sanitari e dagli audio delle telefonate con i medici. Un caso grave, perché mette i dubbio l’unico strumento di controllo del virus: probabilmente l’ospedale ha sbagliato a registrare i risultati. Un errore allarmante, anche perché riguarda un grande ospedale privato del Veneto, la regione modello per i test sul virus. «Mia madre è sempre stata autosufficiente: ha cominciato a stare male la sera del 7 marzo», spiega la signora Maria. «Ha avuto la febbre altissima per due settimane: 39,9. Ho chiamato cinque volte l’ambulanza, mi dicevano solo di darle la tachipirina, ma la febbre non scendeva sotto i 38,5. È stata ricoverata il 22 marzo, dopo una sospetta ischemia. Ed è risultata positiva al virus. Alla vigilia di Pasqua mi chiama un medico dell’ospedale: dice che mia mamma ormai respira bene, il tampone è negativo, quindi ce la rimandano a casa in ambulanza, senza mascherina perché risulta guarita. Ma il 15 aprile mi chiama un altro dottore, non dell’ospedale: dice che deve controllare come sta mia madre, perché è positiva. Io mi sento svenire: ma come, l’ospedale ce l’ha riportata a casa scrivendo che il tampone è negativo. Il dottore insiste che l’ultimo test, eseguito il 13 aprile, risulta positivo. Rispondo che è impossibile: mia mamma era già tornata a casa da due giorni. Il dottore non sa cosa dire: c’è stato un errore. Quindi chiamo l’ospedale e riesco a parlare con un medico, che non sa spiegare cosa sia successo. Dice che bisogna rifare i tamponi, ma a questo punto voglio un test anche per me e per i miei figli. Dopo una settimana, mi chiama un’altra dottoressa dell’ufficio igiene. Ma anche lei dice che mia madre è risultata positiva al tampone del 13 aprile, che sicuramente non era il suo. Stiamo ancora aspettando che ci facciano i tamponi giusti. Sono disperata».

Coronavirus, la storia di Paolo: "Mio padre è morto e io ero positivo. Ma ho dovuto lottare per fare il tampone". Francesco Giovannetti su Repubblica tv il 21 aprile 2020. Il manager romano Paolo Fuà inizia ad accusare i primi sintomi influenzali il 10 marzo, dopo essere rientrato da una settimana bianca in Trentino. Pochi giorni dopo gli stessi sintomi sono accusati anche dal padre 87enne, che poi morirà a causa di complicanze insorte in seguito all'infezione. Da lì il manager intraprende una battaglia per essere sottoposto, assieme a tutta la sua famiglia, al tampone. "Mio padre è stato ricoverato ed è stato dichiarato positivo grazie a una tac al torace - spiega Fuà - Per me, mia madre, mia moglie e mio figlio è scattata la quarantena obbligatoria. Anche a quel punto l'Asl non voleva farci il tampone e sono riuscito a convincerli solo perché devo prendere dei farmaci che mi rendono immunodepresso".

Il tampone viene quindi eseguito sul manager, che era stato a contatto con il padre prima del ricovero e del decesso, e sulla madre. Vengono invece esclusi la moglie e il figlio. "Mentre la quarantena si avviava alla conclusione sono arrivati i risultati: io e mia madre eravamo positivi - racconta - Se non avessi insistito per il tampone sarei stato libero di uscire e di infettare qualcuno. Se l'epidemia viene gestita così non la fermeremo mai". La Asl in questione è stata interpellata ma non ha voluto rispondere alle domande 

Valerio Berra per open.online il 28 marzo 2020. Le dichiarazioni sono di Paola Pedrini, segretario della Fimmg. Già negli scorsi giorni aveva spiegato che i contagi sono molti di più di quelli che vengono riportati. «Non vorremmo che la confusione sui dati servisse a nascondere la responsabilità dei generali nella Caporetto della sanità pubblica italiana». Paola Pedrini, segretario della Federazione italiana medici di medicina generale (Fimmg) lancia un attacco a tutte le istituzioni che stanno gestendo l’emergenza Coronavirus, un attacco che si concentra soprattutto sulla diffusione dei dati: «Ci chiediamo se chi gestisce i numeri è solo incompetente, se vive in un universo parallelo o se ci sta marciando». Pedrini spiega che la riduzione dei numeri dei contagiati non va letta solo come un segnale positivo: «È vero. Le richieste dei pazienti ai medici di famiglia, almeno in Lombardia, sembra si stiano riducendo, ma siamo molto preoccupati che questa notizia tragga in inganno l’opinione pubblica. Sta passando un messaggio sbagliato, veicolato anche da alcuni dirigenti delle aziende sanitarie: diminuiscono gli accessi al Pronto Soccorso quindi la gente ha paura di andarci o i medici di famiglia li mandano troppo tardi».  E quindi, perchè ci sarebbero meno pazienti ospedalizzati adesso? Per Pedrini la risposta è da cercare tra i camici bianchi, non fuori: «Prima si facevano i tamponi solo ai ricoverati, da qualche giorno si fanno ai ricoverati e agli operatori sanitari sintomatici, che sono quasi tutti ovviamente positivi anche se con pochi sintomi». Nei giorni scorsi Pedrini aveva già lanciato un allarme sui dati, spiegando che quelli che mancavano da conteggiare erano tutti i contagi sommersi, quelli che sono positivi ma non hanno un tampone a dimostrarlo: «I contagi sommersi, che non entrano nelle statistiche dei casi confermati, sono tantissimi visto che i tamponi non si fanno. Se nelle prime settimane potevamo stimare che i malati reali fossero 5 volte di più, ora sono 10 volte di più senza dubbio».

Coronavirus, all’ospedale di Codogno il test sul “paziente 1” solo dopo 36 ore. Pubblicato mercoledì, 26 febbraio 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano e Simona Ravizza. Il «paziente 1» entra in Pronto Soccorso, per la seconda volta, alle 3.12 di notte del 19 febbraio. Davanti ai dati che parlano di oltre la metà dei casi di contagio negli 11 Comuni intorno a Codogno, s’impone la domanda: qualcosa non ha funzionato in quell’ospedale? Il dubbio l’ha instillato anche il premier Giuseppe Conte facendo infuriare il governatore Attilio Fontana. Trentasei ore. È il tempo trascorso tra il ritorno di Mattia in Pronto soccorso (dov’era già stato il giorno prima) e il tampone per il coronavirus. Il test viene fatto intorno alle 16 del 20 febbraio. Dopo che il 38enne, maratoneta e calciatore per diletto, passa un giorno e mezzo nel reparto di medicina. Lo vanno a trovare parenti e amici ed entra in contatto con medici, infermieri e altri pazienti. Il test gli viene fatto solo intorno alle 16 del 20 febbraio. Il motivo: «Non è di ritorno dalla Cina». In realtà, le linee guida del ministero della Salute del 22 gennaio su chi va sottoposto al tampone, dicono che è da trattare come caso sospetto anche «una persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». E una polmonite per un 38enne sano e sportivo, in realtà, lo può essere. Ma la nuova versione delle linee guida ministeriali del 27 gennaio cancella quella frase e prevede controlli solo per chi ha legami con la Cina. Così l’assessore alla Sanità Giulio Gallera ieri può andare in Consiglio regionale a dire che l’ospedale di Codogno ha rispettato i protocolli. Vero. Eppure Mattia per 36 ore resta in ospedale infetto senza che nessuno lo sappia e quindi senza nessuna misura di contenimento. La conferma che è davvero contagiato dal virus arriva formalmente alle 21, sempre del 20. Ma per gli operatori di turno l’allerta rossa scatta che è quasi mezzanotte. È soltanto a quell’ora che all’interno dell’ospedale vengono informati tutti. E da quel momento in poi la situazione si fa complicata, per non dire caotica. Dalle chat di familiari che hanno a che fare con medici, infermieri e pazienti ricoverati, si riescono a ricostruire i passaggi di una notte nella quale, per ore, si decide tutto e il contrario di tutto. È un frenetico consultarsi fra medici, infermieri, direzione sanitaria, Regione, ministero della Salute. Il «paziente 1» viene spostato in Rianimazione e contagia i due anestesisti che si occupano di intubarlo, benché a questo punto siano protetti secondo il protocollo. La prima ipotesi è chiudere il Pronto soccorso e l’ospedale tenendo dentro chi c’è in quel momento. Poi viene presa in considerazione l’idea di trasferire i pazienti in altri ospedali. Medici e infermieri del turno di notte tornano a casa convinti di cominciare un autoisolamento. E invece no: vengono richiamati più tardi, quando ci sono anche gli altri colleghi del nuovo turno. Nel corso della giornata si decide chi di loro resta e chi torna a casa. Solo a mattina inoltrata il Pronto soccorso si svuota e le porte dell’ospedale, formalmente chiuso già da mezzanotte, vengono davvero rese inaccessibili: non si esce e non si entra più. Ad oggi ci sono lavoratori che aspettano ancora l’esito del tampone. In uno dei messaggi scambiati via WhatsApp, un uomo dall’interno dell’ospedale (che non vuole essere identificato) racconta a un amico che «è sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori».

Torino: "Io, malata di coronavirus da un mese e dimenticata dall'Asl: mi hanno solo detto aspetti che passi". L'odissea burocratica di una dipendente di call center in malattia dal 13 marzo: caos e informazioni contraddittorie, non c'è modo di fare il test. Jacopo Ricca su La Repubblica il 16 aprile 2020. Le segnalazioni perse per i sospetti casi di coronavirus non sono limitate solo alla prima fase dell'emergenza a Torino. Lo si può capire ascoltando il racconto di L, operatrice di un grande call center della città che dal 13 marzo è a casa con febbre alta, mal di gola e mal di testa. “Da oltre un mese ho i sintomi tipici del coronavirus, ma sono sola in casa, senza diagnosi, né cure. E l'Asl di Torino ha anche perso il mio caso – spiega - Non ho avuto difficoltà respiratorie e per questo non sono stata ricoverata, ma ciò che è assurdo è che mi abbiano dato tachipirina e antibiotici senza mai farmi il tampone per capire se fossi davvero positiva al Covid-19”. Fino a un mese fa lei ha continuato a lavorare: “I call center sono quelle attività che il governo nei suoi numerosi Dpcm ha ritenuto essenziali - spiega - Abbiamo continuato a lavorare anche dopo che il contagio si era diffuso in circa 460 persone su tre piani, in modalità open space: la disposizione a scacchiera è stata introdotta solo il 10 marzo, ma nemmeno il metro di distanza è stato subito rispettato. Come se fosse sufficiente, poi, a salvaguardare la nostra salute quando siamo chiusi in un unico spazio”. Per lei il contagio però c'è evidentemente stato, anche se non è mai arrivato il tampone di conferma: “Il 13 marzo mi ammalo. Mi sale la febbre, mal di gola e mal di testa oltre a spossatezza e dolori alle ossa e muscolari. I classici sintomi influenzali. Essendo venerdì sera, inizialmente chiamo il numero verde della Regione Piemonte dedicato all’emergenza Covid-19 - racconta - Dopo una breve intervista, mi viene comunicato che potrebbe trattarsi di coronavirus e vengo invitata a chiamare la guardia medica. Dopo lunghe attese riesco a parlare con la guardia medica di Torino che mi prescrive due giorni di malattia e una terapia a base di tachipirina, rimandandomi al mio medico di base. A quest’ultimo, telefonicamente comunico la mia condizione: durante il mattino la febbre rimane sui 37,4, ma dal pomeriggio in poi aumenta, arrivando a 37,8”. In una settimana però la situazione peggiora: “Il 21 marzo arrivo a 38,7 e lunedì 23 il mio medico mi segnala all’Asl come sospetto caso di Covid-19. Tuttavia, mi informa che in Piemonte non ci sono tamponi. Inizio così una terapia antibiotica, sempre su sua prescrizione, sperando in un miglioramento. Durante i successivi sei giorni della terapia antibiotica la febbre non scompare, attestandosi su una media di 37,8°. Finita la terapia, la febbre rimane su una media di 37,7”. Dal suo racconto si riesce a ricostruire come il caos delle segnalazioni via email, andate perse dall'Asl di Torino, non sia legato solo alla prima fase dell'emergenza: “Il primo aprile il mio medico di base inoltra una nuova segnalazione all’Asl, sollecitando quanto chiesto nella precedente, per far sì che qualcuno venga a farmi il tampone - ribadisce la donna - Di fronte alle chiamate ai vari numeri verdi le risposte sono varie: prima i tamponi a Torino non ci sono, poi arrivano ma mancano i reagenti, poi ancora arriva tutto ma si fanno solo in ospedale e io sono casa, non posso uscire. Alla fine mi dicono: "Aspetti che passi". Le segnalazioni del mio medico non hanno avuto alcun seguito, nessuno mi ha mai contattata dal Servizio sanitario nazionale per sapere se fossi viva, per farmi il tampone e neanche misurarmi l’ossigeno”. Non sapendo cosa fare L. arriva a contattare l’ospedale “Amedeo di Savoia”, “per provare a prenotare i tamponi e per verificare la mia positività o meno al virus”. La riposta però è di rivolgersi all’Ufficio di Igiene e Sanità: “Li chiamo e mi spiegano che nel fine settimana sono cambiati i portali delle segnalazioni in Piemonte: pertanto le mie, fatte dal mio medico, sono andate perse. L’operatore mi dice inoltre che devo far riaprire un’altra segnalazione dal mio medico, la terza, e che mi verrà aperta una procedura di quarantena, di attendere il codice che arriverà con raccomandata a/r, e che successivamente verranno a farmi il tampone”. Ancora l'8 aprile, però, il medico non trova segnalazioni di quarantena sul "portale dedicato" e nessuno ha risposto alle sue segnalazioni effettuate a nome di L.: “A lui l’Ufficio di Igiene e Sanità dice che non è stata aperta nessuna procedura di quarantena a mio nome né mai verrà aperta, in quanto non sono entrata in contatto con un positivo accertato. A me lo stesso operatore della volta prima conferma di aver aperto la procedura di quarantena, ma che non essendo stata processata, perché sono oberati di pratiche, non ha ancora una sua validità e un codice da fornirmi a garanzia di quanto dettomi e pertanto di avere fiducia e attendere”. È passata un'altra settimana, la società per cui lavora L. nel frattempo ha convertito i giorni di malattia (mai convertiti in quarantena a causa del mancato intervento dell’Asl) in cassa integrazione e la febbre continua a non scendere: “Dall'Asl hanno anche detto che, visto che lavoro per una grande azienda, avrebbero dovuto occuparsene loro tramite il medico aziendale - aggiunge la donna - A tutt’oggi ho ancora la febbre, anche se in fase discendente, e nessuno si è fatto sentire e o vedere. Ora mi chiedo anche: quando il mio medico di base dirà che sono guarita e non ho più diritto alla malattia dovrò tornare al lavoro? Non so come mi devo comportare se nessuno è venuto a farmi il tampone”.

Vicesindaco della bergamasca: “Mio padre morto di coronavirus, per 9 giorni senza tampone”. Le Iene il 30 marzo 2020. Il vicesindaco di Valbondione (Bergamo) racconta il mancato test per il papà, dimesso dopo 9 giorni, ricoverato dopo 5 ore e trovato solo allora positivo. E denuncia: “Pressioni di grandi imprenditori per evitare la zona rossa tra Alzano e Nembo: ha vinto il fattore economico su quello umano”. Parla di questo “maledetto virus” e all’inizio si dice al massimo “innervosito” in video, Walter Semperboni, mentre denuncia “un fatto grave”. Era il 21 febbraio, il giorno in cui l’epidemia di coronavirus stava esplodendo in tutta Italia: “A mio padre di 80 anni appena ricoverato per polmonite nessuno ha pensato di fare un tampone per nove lunghi giorni. Non solo, il 1° marzo è stato pure dimesso, salvo poi dover tornare d’urgenza dopo 5 ore in ospedale. Dopo 16 ore in pronto soccorso si scopre che ha il coronavirus, di cui è morto poi dopo 13 giorni di agonia”. Walter Semperboni racconta la storia di papà Antonio Luigi con la compostezza dell’uomo di montagna, aggiunta al rispetto per il suo ruolo istituzionale di vicesindaco di Valbondione, in mezzo alla Val Seriana e a quelle terre del Bergamasco devastate dalla pandemia. “Finora né a me né a mia madre è stato fatto il tampone, come a tutti i familiari delle vittime e qui nella Val Seriana purtroppo ne contiamo a centinaia”, ci dice al telefono tra commozione e rabbia. “Le nostre valli sono piene di gente operosa e rispettosa delle istituzioni che da queste si è sentita derisa e abbandonata. Si è parlato e si parla ancora di una zona rossa qui tra Alzano e Nembro: non è stata istituita per le pressioni di grandi imprenditori e di grandi marchi. Si è deciso di prediligere il fattore economico a quello umano, mandando a morte sicura i nostri anziani, la nostra storia, che qualcuno continua a definire solo vecchi”. “Chiedo con un grido rispetto per noi montanari, chiedo che i nostri ospedali vengano potenziati con strumenti adatti, qui mancano le mascherine, manca l’ossigeno”. Ora è la commozione a vincere: “Perché altri figli non debbano sentire l’ultimo appello telefonico del padre che racconta come è stato parcheggiato in un letto d’ospedale e lasciato lì a morire. Senza nemmeno poi il diritto a un ultimo abbraccio, a un ultimo saluto, a una degna sepoltura”.

Coronavirus: padre in ospedale e fratello malato, ma niente tampone. Cecilia Lidya Casadei il 26/03/2020 Notizie.it. Il padre di Manuela è in ospedale, positivo al Coronavirus. Suo fratello invece è a casa, malato: non gli fanno il tampone. Manuela vive a Brescia, suo padre è ricoverato in ospedale col Coronavirus e suo fratello è malato, ma di tampone non se ne parla. La sua famiglia si trova in quarantena domiciliare, con quello che potrebbe essere un altro caso positivo: senza test o finché la situazione non dovesse peggiorare, non lo sapranno mai. Il fratello di Manuela presenta tutti i sintomi del Coronavirus ma, alla richiesta di test per accertarlo, si è sentito rispondere che viene fatto solo agli ospedalizzati. “Ci hanno detto che se c’è un peggioramento dobbiamo contattare il medico di base o andare in ospedale”, spiega la donna, “quando probabilmente il virus ti ha già compromesso i polmoni, senza la possibilità di potersi sottoporre ad alcun accertamento”. Il padre è stato ricoverato presso la Fondazione Poliambulanza di Brescia il 15 marzo, per poi essere spostato in terapia intensiva. Manuela e la sua famiglia si trovano in quarantena presso il loro domicilio dal 29 marzo. Lei e suo fratello hanno richiesto un tampone per poter curare il Coronavirus sin dalla prima fase. “È come se ci stessero praticamente condannando a morte. Lo sapete che c’è gente che muore a casa?”, dice la donna. Una situazione similare la stanno vivendo gli anziani e il personale sanitario nelle case di riposo di tutta Italia. Ci sono strutture in cui gli ospiti muoiono ogni giorno, registrando numeri spaventosi, eppure non si parla di tamponi né avviene ospedalizzazione. Uno dei casi più conclamati è quello della Residenza Fondazione Santa Chiara di Lodi, dove in un solo mese ci sono stati 43 decessi. 

Il Fallimento della Sanità Lombarda. Gli altezzosi, arroganti e presuntuosi padani ed i loro media amici non possono nascondere la verità. Un sistema di sanità privata promossa e pubblicizzata come "Eccellenza" dalla padana Mediaset, ma toccato da scandali e finanziato dalle Regioni meridionali per pagare i servizi resi ai loro malati con la valigia. Quei meridionali illusi che al nord Italia vi sia un'eccellenza che al Sud manca. Ma oggi con l'emergenza della pandemia si notano tutti i limiti di una menzogna. E' un ecatombe addebitabile, sì, al Coronavirus, ma causata da inefficienze strutturali. Basti pensare che le prime vittime ed i primi carnefici sono stati proprio gli operatori sanitari.

Padre muore in casa, la figlia: “Non gli hanno fatto il tampone”. Veronica Caliandro il 29/03/2020 su Notizie.it. A Piazza Pulita su La 7 Asia Marchesi ha raccontato del calvario vissuto dal padre Sirio morto in casa con sintomi analoghi al Covid-19. A Piazza Pulita su La 7 Asia Marchesi ha raccontato del calvario vissuto dal padre Sirio, morto in casa con sintomi analoghi al coronavirus Covid-19. All’uomo, però, non era stato fatto il tampone. Asia Marchesi ha raccontato a Piazza Pulita gli attimi che hanno preceduto la scomparsa del padre Sirio. L’uomo si è ammalato in casa e, dopo un peggioramento repentino della situazione, è morto in seguito ad un’acuta crisi respiratoria. “Abbiamo mandato un’amica infermiera a cercare l’ossigeno – ha raccontato la figlia di Sirio – La prima bombola disponibile era a 40 km. Quando è arrivata era già andato. Aveva una sete d’aria… fino all’ultimo secondo ci ha provato”. Per poi aggiungere: “È come vedere annegare una persona. Ma se annega nell’acqua ti butti e provi a salvarla, così non puoi fare niente”. Avevano provato a chiedere soccorso, ma non è stata mai valutata l’ipotesi di fare un tampone al signor Sirio per capire se avesse contratto o meno il coronavirus. “Mi dicevano Lo lasciamo in casa perché è debole ed è rischioso per lui andare in ospedale. Aveva degli attacchi di tosse fortissimi. Solo a vederlo mi sentivo soffocare. Ho chiamato l’ambulanza, sono scesi 5 volontari, non c’era un medico. Gli hanno detto che se era 4 giorni che aveva la tosse e non l’aveva curata è normale che stesse così“. “Si vedeva che aveva una sete d’aria incredibile – ha affermato Asia -, ci ha provato fino all’ultimo, ha lottato fino all’ultimo. Io l’ho sentito, gli ho parlato. L’ho ringraziato per il grande uomo che è stato e gli ho chiesto di salutarmi i nonni. Ho capito che non ha perso conoscenza fino all’ultimo momento”. Il signor Sirio Marchesi, però, non risulta tra i decessi per Coronavirus. Ad Asia e alla madre, inoltre, non è stato fatto il tampone, in quanto asintomatiche. La paura della mamma di Asia quindi è quello di peggiorare improvvisamente come accaduto al marito. “Alla fidanzata di Rugani – conclude Asia – primo calciatore di Serie A risultato positivo, hanno fatto il tampone anche se asintomatica. Perché a noi non l’hanno fatto?“.

Coronavirus, la testimonianza di un 60enne: "Dieci giorni a chiedere invano un tampone". Così si spiegano i tanti morti in casa? Libero Quotidiano il 28 marzo 2020. “Ho rischiato di finire in rianimazione e non ci potevo credere dopo tanti giorni passati con la febbre a chiedere invano un tampone”. È la storia di un 60enne, intervistato da Repubblica direttamente dal reparto di terapia semi-intensiva dell’ospedale Umberto I di Roma. L’uomo ha raccontato i dieci giorni da paura passati da solo in casa con il virus, senza che nessuno accogliesse la sua insistente richiesta di sottoporsi al tampone. “Il 7 marzo mi è venuta la febbre - ha rivelato - e ho seguito le istruzioni. Il 9 sono stato messo in contatto con lo Spallanzani per il monitoraggio a distanza, ogni quattro ore mandavo temperatura e sintomi: febbre tra 37,5 e 38, tosse ma non avevo problemi respiratori ancora. E ritenevano che non fosse il caso di farmi il tampone”. La storia è andata avanti per una settimana, poi la febbre è salita ancora ed è arrivata la visita a casa, con conseguente diagnosi di broncopolmonite. A quel punto il 60enne ha implorato di fare il test, ma la risposta è stata ancora negativa. E si arriva così a lunedì 23 marzo, quando la situazione è precipitata: “Ho avuto un attacco di 30 minuti di tosse e sono andato nel panico. Mercoledì mi sono svegliato con la febbre a 39,7 e facevo fatica a parlare. Di pomeriggio hanno deciso di ricoverarmi”. In ospedale finalmente l’uomo è stato sottoposto al tampone, ovviamente positivo, ed è stato necessario anche l’intubazione. Adesso è fuori pericolo: “Faccio fatica a parlare ma sto meglio. Questa bestia è insidiosa, ti entra dentro e in poche ore ti devasta. Restare a casa con il virus per dieci giorni non si può. Forse è per questo che muore tanta gente”.  

Coronavirus: padre in ospedale e fratello malato, ma niente tampone. Cecilia Lidya Casadei il 26/03/2020 Notizie.it. Il padre di Manuela è in ospedale, positivo al Coronavirus. Suo fratello invece è a casa, malato: non gli fanno il tampone. Manuela vive a Brescia, suo padre è ricoverato in ospedale col Coronavirus e suo fratello è malato, ma di tampone non se ne parla. La sua famiglia si trova in quarantena domiciliare, con quello che potrebbe essere un altro caso positivo: senza test o finché la situazione non dovesse peggiorare, non lo sapranno mai. Il fratello di Manuela presenta tutti i sintomi del Coronavirus ma, alla richiesta di test per accertarlo, si è sentito rispondere che viene fatto solo agli ospedalizzati. “Ci hanno detto che se c’è un peggioramento dobbiamo contattare il medico di base o andare in ospedale”, spiega la donna, “quando probabilmente il virus ti ha già compromesso i polmoni, senza la possibilità di potersi sottoporre ad alcun accertamento”. Il padre è stato ricoverato presso la Fondazione Poliambulanza di Brescia il 15 marzo, per poi essere spostato in terapia intensiva. Manuela e la sua famiglia si trovano in quarantena presso il loro domicilio dal 29 marzo. Lei e suo fratello hanno richiesto un tampone per poter curare il Coronavirus sin dalla prima fase. “È come se ci stessero praticamente condannando a morte. Lo sapete che c’è gente che muore a casa?”, dice la donna. Una situazione similare la stanno vivendo gli anziani e il personale sanitario nelle case di riposo di tutta Italia. Ci sono strutture in cui gli ospiti muoiono ogni giorno, registrando numeri spaventosi, eppure non si parla di tamponi né avviene ospedalizzazione. Uno dei casi più conclamati è quello della Residenza Fondazione Santa Chiara di Lodi, dove in un solo mese ci sono stati 43 decessi. 

Coronavirus, la colpa del governo dietro la strage di Bergamo: la nota tecnica dell'Iss, zona rossa ignorata. Libero Quotidiano il 28 marzo 2020. In provincia di Bergamo continuano a crescere i contagi, che hanno sfondato quota 8mila, e non si placa la polemica sulla mancata creazione di una zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo. Il Giorno racconta l’ira dei sindaci, scaturita dal fatto che l’Istituto superiore di sanità, in una nota tecnica del 2 marzo scorso, aveva raccomandato al governo l’isolamento immediato e la chiusura dei due paesi della Valle Seriana, poi diventati lazzaretti d’Italia. “La decisione doveva essere di governo e Regione - ha sottolineato Claudio Cancelli, sindaco di Nembro - dovevano dare maggior peso alle valutazioni tecniche-epidemiologiche dell’Iss che dicevano che era opportuno fare anche qui una zona rossa. Dovevano prendersi la responsabilità. Invece hanno continuato a rimandare e ritardare e intanto il contagio si allargava a tutta l’area”. Quando tra il 7 e l’8 marzo è arrivato il decreto che ha comportato misure restrittive per tutta la Lombardia, ormai il danno era fatto. “A differenza di Codogno e del lodigiano, qui i paesi sono vicini, attaccati l’uno all’altro, senza soluzione di continuità: una situazione che ha facilitato e moltiplicato i contagi. Il risultato è che a Nembro - ha spiegato il primo cittadino - i numeri ufficiali dei positivi vanno moltiplicati per 12 e quelli dei morti sono 4 volte superiori”. 

Coronavirus, il medico Lucherini: "I numeri sono falsi, ecco perché chiudono tutto". Libero Quotidiano il 22 marzo 2020. "Questi dati sono falsi!". Il professor Fabrizio Lucherini, responsabile del servizio di diagnostica per immagini al Nomentana Hospital, si sfoga con un video su Facebook e si dice "incazzare nero" per le statistiche sul coronavirus: "Tu un rapporto tra chi guarisce e chi muore lo fai soltanto se hai la certezza di quanti sono i malati. Se tu non fai i tamponi a tutti non puoi sapere chi muore e chi campa esattamente". Lo stesso medico è in isolamento, "Di me non sa un cazzo nessuno. Io non rientro nei numeri, e probabilmente sono un contagiato, che, mi auguro, ce l’ha fatta. Non vi fate abbindolare. Non è così che si fanno le cose. Se fai i tamponi a tutti e ti muore il30%, puoi dire che la mortalità è il 30%, ma se fai il tampone soltanto a ‘sti cadaveri che ti arrivano che ormai c’hanno 39 di febbre, tosse pazzesca, difficoltà respiratorie e più di 80 anni e muoiono, poi in televisione ti vengono a raccontare ‘sta stronzata".

"Alla fine di tutta questa storia - assicura  - la mortalità di questo cazzo di virus arriverà all’1-1,5%. Questa è la verità, perché non abbiamo idea di quanta gente è malata. Abbiamo soltanto quelli che sono in ospedale e soltanto a questi hanno fatto il tampone". Qual è la differenza tra Italia e Corea del Sud o Germania? "In questo Stato di merda il tampone non te lo fanno non perché manca quella stecchetta che ti mettono in gola, sai cosa manca? I reagenti, i microscopi, questo manca. Il personale che li legge, e sai perché? Perché hai tagliato la sanità". "La scelta di chiudere tutta la nazione - conclude il professor Lucherini - è dettata dal fatto che non possiamo fare i tamponi, hanno chiuso una nazione, ma ti rendi conto? Una follia (…) e ancora danno la colpa ai runner, ragionate con le vostre teste".

Dagospia il 22 marzo 2020. Trascrizione del video pubblicato su Facebook da Fabrizio Lucherini, medico, responsabile del servizio di diagnostica per immagini al Nomentana Hospital. Ciao amici, credo che come me abbiate visto il telegiornale, quindi avete letto, vi siete impauriti, vi siete giustamente messi tanto per cambiare paura. Io stasera sono veramente incazzato nero e ve lo dico dal mio isolamento (…) intanto questi dati sono falsi! Sono falsi perché tu un rapporto tra chi guarisce e chi muore lo fai soltanto se hai la certezza di quanti sono i malati. Se tu non fai i tamponi a tutti non puoi sapere chi muore e chi campa esattamente. (…) La mia storia di sintomatico, di medico a contatto te lo dimostra. Di me non sa un cazzo nessuno. Io non rientro nei numeri, e probabilmente sono un contagiato, che, mi auguro, ce l’ha fatta (…) cazzarola i numeri non sono questi, non vi fate abbindolare. Non è così che si fanno le cose. Se fai i tamponi a tutti e ti muore il 30%, puoi dire che la mortalità è il 30%, ma se fai il tampone soltanto a ‘sti cadaveri che ti arrivano che ormai c’hanno 39 di febbre, tosse pazzesca, difficoltà respiratorie e più di 80 anni e muoiono, poi in televisione ti vengono a raccontare ‘sta stronzata. Noi  medici probabilmente contagiati se guariremo non rientreremo nelle statistiche. Mettetevi in testa che alla fine di tutta questa storia la mortalità di questo cazzo di virus arriverà all’1-1,5%. Questa è la verità, perché non abbiamo idea di quanta gente è malata. Abbiamo soltanto quelli che sono in ospedale e soltanto a questi hanno fatto il tampone. In Corea l’hanno fatto a tutti, e allora hanno numeri più corretti. In Cina l’hanno fatto a tutti, in Germania lo stanno facendo a tutti. In questo Stato di merda in cui il tampone, non te lo fanno non perché manca quella stecchetta che ti mettono in gola, sai cosa manca? I reagenti, i microscopi, questo manca. Il personale che li legge, e sai perché? Perché hai tagliato la sanità (…) Vi prego, anche voi, cercate di leggere i numeri. Non vi impaurite, questo virus è pericoloso, per carità, ma non come cercano di farci credere. La scelta di chiudere tutta la nazione è dettata dal fatto che non possiamo fare i tamponi, hanno chiuso una nazione, ma ti rendi conto? Una follia (…) e ancora danno la colpa ai runner, ragionate con le vostre teste. Vi prego ragazzi mi girano i coglioni ma francamente non ne posso più. Aprite gli occhi, protestate, ricordatevi di questa paura, di questo tempo (…) Ma queste cose restano, sicuramente in noi medici queste cose restano. Gli eroi di che? Ma vaffanculo! Sta retorica di merda. (…) e voi state tranquilli, che le cose che leggete sono drogate, non sono giuste.

Dagospia il 28 marzo 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Difficile raccontare l'Italia ai tempi del Coronavirus. Difficile far fronte ad una situazione che anche emotivamente è ormai complessa. Lo dimostra questa telefonata da brividi arrivata la scorsa notte ai microfoni di Rai Radio2. Renato al telefono con I Lunatici Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio racconta il suo dramma: "Ho perso mia papà e mia sorella, mi è rimasta solo mia madre che ora ha la febbre a 38. Ho chiesto di farle un tampone, ma mi hanno detto di no. Non ce la faccio, mi viene voglia di mollare, ho sofferto troppo". I due ci parlano e lo convincono a tenere duro. "Se molli ora sarà stato tutto inutile".  E alla fine...

 “Dieci giorni di richieste d'aiuto inascoltate e mio papà è morto per coronavirus”. Le Iene News il 27 marzo 2020. Kevin Attarantato, 26 anni, racconta a Iene.it il dramma che ha vissuto con il padre stroncato dal coronavirus, a 55 anni senza soffrire di altre malattie, in provincia di Pesaro. Con Giulia Innocenzi ripercorre quei 10 giorni di telefonate senza risposta, richieste di aiuto cadute nel vuoto e tanta sofferenza. Nel giorno tragico in cui si contano più morti (969) dall'inizio dell'epidemia. “Per 10 giorni non ci hanno ascoltato, e mio papà è morto poi per il coronavirus”. Kevin Attarantato, 26 anni, racconta a Iene.it il dramma che ha vissuto con il padre stroncato dal COVID-19. Kevin ripercorre con Giulia Innocenzi un lungo calvario di tre settimane fatto di telefonate senza risposta, richieste di aiuto cadute nel vuoto e tanta sofferenza. Solo 10 giorni dopo la prima richiesta di aiuto il 55enne è stato sottoposto al tampone, Giancarlo è morto poi il 19 marzo, il giorno della festa del papà. La loro storia ci porta a Borgo Santa Maria, in provincia di Pesaro e a una domanda che rimane senza risposta: se qualcuno fosse intervenuto prima si sarebbe potuto salvare quell’uomo? Tutto questo nel giorno tragico in cui sin Italia i contano più morti (969) dall'inizio dell'epidemia.

Hai perso il tuo papà per il coronavirus. Questo incubo quando è iniziato?

“Il 28 febbraio, quando mio papà è tornato a casa dal lavoro. Diceva di sentire freddo, ancora non eravamo nell’emergenza del coronavirus. Aveva la febbre che continuava ad aumentare. Ci siamo spaventati”.

Che cosa hai fatto?

“Abbiamo provato a chiamare il 112 per chiedere un tampone. Da lì ci hanno rimandato al 1500: dopo ore di tentativi mi hanno ribadito di stare a casa e lavare le mani. Nulla di più: la febbre ha raggiunto 39, mio papà non aveva patologie pregresse. Era la persona più sana del mondo. Ha chiamato il medico curante che gli ha prescritto solo della semplice tachipirina”.

Qualcuno ha ipotizzato che fosse coronavirus?

“No. Sia il medico di base che il 1500 parlavano di semplice influenza perché per loro non c’erano sintomi gravi. Noi ci siamo fidati. Attorno al 5 marzo, dopo l’ennesima telefonata, il medico di base ci ha proposto una lastra ai polmoni. E qui inizia un altro calvario. Lui era molto debilitato: tremava e cadeva. Non riusciva neppure a spostarsi dal letto al divano. Non riusciva a mangiare, diceva di sentire un sapore metallico in bocca. Per portarlo in ospedale a Pesaro ho chiesto aiuto al 118, ma mi hanno risposto che lo avrebbero potuto portare in pronto soccorso, esponendolo però ai rischi di venire in contatto con persone infette. Ancora non si pensava potesse avere il coronavirus”.

Allora cosa avete fatto?

“C’è stato un rimpallo tra 118 e medico curante, e intanto mio papà stava sempre peggio. Alla fine l’ho accompagnato in auto con tutte le precauzioni del caso. Abbiamo mandato la lastra al medico di base, ma per lui non era nulla di grave. Gli ha prescritto antibiotici a base di cortisone. Ha iniziato questa cura da subito, ma continuava a sentirsi sempre peggio. Il giorno dopo non riusciva neanche a parlare. Si è aggiunta anche la tosse, fino al tracollo qualche ora più tardi, con la febbre a 40. Ho chiamato il 118 spiegando che era da oltre 10 giorni a casa con la febbre alta. L’hanno caricato sull’ambulanza per portarlo in ospedale a Urbino. Questa è l’ultima immagine che ho di lui”.

Sei riuscito a sentirlo almeno?

“L’ultima volta che l’ho sentito era il giorno dopo. Mi ha detto che lo avrebbero trasferito a Jesi e che sarebbe stato intubato perché aveva una polmonite virale. Ancora non capiamo perché nessuno l’ha vista dalla lastra fatta due giorni prima. Non l’ho più sentito perché era sotto sedativi. Sono riuscito a parlare solo con i medici e nessuno mi ha detto che stava morendo”.

Quando hai saputo che non ce l’aveva fatta?

“Una settimana dopo il ricovero i medici dicono che non avrebbe superato la notte. Lui resiste per altri due giorni finché la sera del 19 marzo, la festa del papà, mi chiamano per dirmi che il suo cuore non aveva retto e che i reni si erano bloccati. Non credevo potesse finire così. Quel giorno avevo chiesto ai medici di avvicinare il telefono al suo orecchio per fargli gli auguri. Sapevo che non mi avrebbe potuto sentire perché sedato, ma non mi hanno dato neppure questa soddisfazione. Era una brava persona di quelle rare. E non lo dico perché era mio papà”.

Che cosa ti fa più arrabbiare di tutta questa vicenda?

“Il tempo passato da quando abbiamo chiesto aiuto la prima volta fino al ricovero. Non è come ci dicono. Se questo virus ti prende, ti può portare via. E se intervengono tardi, non c’è scampo. Voglio dire alle persone di stare a casa e se vedono un susseguirsi di patologie non aspettate a chiamare aiuto”.

Su Iene.it vi abbiamo raccontato anche il dramma di Silvia, che ha perso il papà per il coronavirus. Non l’ha potuto neppure salutare un’ultima volta e ora sta affrontando anche problemi economici per questa tragica perdita improvvisa (qui l’intervista). E l’impegno del maggiore dell’esercito Nadir Rachedi, medico anestesista, uno dei 120 operatori messi in campo dalle Forze. “Poter contribuire a fermare il contagio è quello che ci fa andare avanti ogni giorno”, ci ha detto. 

Davide Milosa per "il Fatto quotidiano” il 27 marzo 2020. Due mesi e 21 giorni fa, il governo già sapeva, ma nulla è stato fatto. Ai primi di febbraio addirittura si ha la certezza che SarsCov2 manderà al collasso le terapie intensive. Mancano tre settimane al caos, ma la macchina istituzionale non parte. Torniamo al 5 gennaio. L' Italia attende come al solito la vigilia della Befana. Il rischio di un' epidemia resta confinato a oltre 10mila chilometri di distanza. Tanto più che nemmeno dalla città di Wuhan arrivano notizie drammatiche. Eppure laggiù SarsCov2 gira dal 23 ottobre. Decine di casi di polmonite grave si trasformano in poche settimane in Covid-19 conclamati. L' Oms sta alla finestra, recupera i dati e li rigira ai governi di tutto il mondo. Anche all' Italia. Il 5 gennaio il ministero della Salute invia a vari enti tra cui l' Istituto superiore di sanità, l' ospedale Spallanzani di Roma e il Sacco di Milano una nota di tre pagine. Oggetto: "Polmonite da eziologia sconosciuta". Il ministero spiega che al 31 dicembre la Cina ha segnalato alcuni casi di questo genere. Il 3 gennaio i casi sono diventati già 44. Il mercato di Wuhan viene chiuso e da lì a poche ore inizieranno a emergere i primi Covid. La nota del ministero aggiunge dell' altro. Spiega fin da subito quali sono i sintomi precisi per riconoscere il contagio scatenato dal virus SarsCov2. Si legge: "I segni e i sintomi clinici consistono principalmente in febbre, difficoltà respiratorie, mentre le radiografie al torace mostrano lesioni invasive in entrambi i polmoni". Si tratta delle ormai note polmoniti interstiziali bilaterali. Tutto, dunque, era già scritto oltre due mesi fa. Anche perché da lì a pochi giorni quella eziologia sconosciuta si rivelerà un patogeno molto aggressivo per il quale non c' è vaccino né cura. Eppure si prosegue come nulla fosse. Gli italiani nulla immaginano. I vertici sanitari invece sì, ma queste sintomatologie non vengono trasmesse a quei medici di base che stanno sul territorio. Solo dopo il 21 febbraio, quando l' Italia ha il suo "paziente 1", si tornerà a parlare di strane polmoniti avvenute tra dicembre e gennaio. Ma ormai è troppo tardi, i buoi sono già scappati. Sempre a gennaio, il 9, in Lombardia si riunisce per la prima volta l' Unità di crisi che oggi affronta l' emergenza. Dopo quella riunione non accade nulla. Il virus è roba ancora da pagine degli esteri. Eppure il documento del ministero è chiaro: "Il verificarsi di 44 casi di polmonite che necessitano di ospedalizzazione e formano un cluster deve essere considerato con prudenza". Si arriva alla fine del mese di gennaio e la Germania, non la Cina, segnala quattro casi di Covid-19 già circoscritti. In quel momento si guarda solo alla regione dello Hubei. Si chiudono i voli e il governo afferma di essere "pronto". Peccato non si sia accorto che il virus arrivato dalla Baviera già veleggiava per le pianure del Basso Lodigiano dal 26 gennaio. Questo, grazie al lavoro del professor Massimo Galli del Sacco, lo sapremo una settimana dopo l' emergenza. Il governo si dichiara pronto, pensa ai voli ma non agli ospedali, né a inviare linee chiare ai medici di base. Il rischio prosegue a essere sottovalutato durante almeno tre riunioni che si svolgono all' Istituto superiore di sanità dai primi febbraio. A quegli incontri partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore di rianimazione al Policlinico di Milano. Il suo racconto conferma la sottovalutazione del rischio. Pesenti, come anticipato già ieri dal Fatto, spiega di "simulazioni sullo sviluppo del contagio" e rivela come "fin da subito era stato chiarito che le terapie intensive sarebbero andate in sofferenza". Siamo a tre settimane dal primo caso italiano. Eppure i dati di quelle riunioni non spingono il governo ad anticipare il rischio. E con la previsione poi rivelatasi corretta di un collasso delle rianimazioni, solo il 17 febbraio in un' ulteriore riunione si inizia a discutere su quali strumenti acquistare. Le parole, però, restano tali e tre giorni dopo, alle 21 del 20 febbraio, il tampone conferma il primo paziente Covid in Italia. La sottovalutazione prosegue. Il 2 marzo, spiega il sito Tpi, una nota dell' Iss consigliava la creazione di una zona rossa in Val Seriana (Bergamo). Cosa che non avverrà.

"Fate subito zona rossa". Ma l'appello dell'Iss in Val Seriana non venne ascoltato. Lo scorso 2 marzo l’Iss aveva detto di chiudere Alzano e Nembro e istituire una zona rossa. L’ira dei sindaci. Valentina Dardari, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. La Val Seriana continua a piangere i suoi morti e non capisce perché l’appello rivolto al governo non sia stato preso in considerazione. Lo scorso 2 marzo l’Istituto superiore di sanità aveva infatti detto al governo di mettere in isolamento e chiudere immediatamente i due comuni della Val Seriana: quello di Nembro e quello di Alzano Lombardo. Ieri in provincia di Bergamo sono tornati a crescere i contagi. I positivi erano 8.060, 602 casi in più rispetto al giorno precedente. La nota dell’Iss aveva sottolineato l’aumento sconcertante di contagi da coronavirus proprio nei due comuni, chiedendo di fare zona rossa. L'assessore al Welfare, Giulio Gallera, era d'accordo.

L'appello inascoltato. Claudio Cancelli, primo cittadino di Nembro, non ci sta e torna a chiedere spiegazioni in merito. Come riportato da il Giorno, il sindaco ha sottolineato che “La decisione doveva essere di governo e Regione. Dovevano dare maggior peso alle valutazioni tecniche-epidemiologiche dell’Iss che dicevano che era opportuno fare anche qui una zona rossa. Dovevano prendersi la responsabilità. Invece hanno continuato a rimandare e ritardare e intanto il contagio si allargava a tutta l’area". Per non fare zona rossa, alla fine il governo ha preferito allargare a tutta la Lombardia le misure restrittive. Probabile il fatto che nella decisione presa abbia inciso la preoccupazione per le molte fabbriche presenti in Val Seriana e i conseguenti danni economici.

La Val Seriana piange i suoi morti. Ma perché per Codogno è stato diverso? A cercare di trovare una spiegazione è stato Cancelli: “A differenza di Codogno e del Lodigiano, qui, se si parte da Bergamo e si risale la Valle Seriana, i paesi sono vicini, attaccati l’uno all’altro, senza soluzione di continuità: una situazione che ha facilitato e moltiplicato i contagi. Il risultato è che Nembro ha pagato un tributo altissimo al virus, anche in termini di vite umane. I numeri ufficiali dei positivi vanno moltiplicati almeno per 12 e quelli dei morti sono 4 volte superiori". Gli fa eco il sindaco dell’altro comune piegato dall’emergenza Covid-19, Alzano Lombardo. Camillo Bertocchi ha ribadito che la presidenza del Consiglio avrebbe dovuto ascoltare il parere degli esperti dell’Istituto superiore di sanità e istituire la zona rossa richiesta nella Bergamasca. Per cercare di ridurre il danno economico sarebbe stato opportuno adottare le contromisure economiche necessarie. Bertocchi ha fatto presente di aver saputo solo lo scorso giovedì delle valutazioni dell’Istituto superiore di sanità.

Il governo deve delle risposte. “Sono spaesato. Non ho ancora capito perché ci hanno tenuto per quattro giorni sospesi, con tutto pronto per la zona rossa, che poi poi si è più fatta. So ora, a distanza di 20 giorni che c’era un parere scientifico. Poi ci spiegheranno perché non l’hanno seguito” ha detto. Vuole giustamente delle risposte e il governo dovrà trovarle, a emergenza finita certo, ma dovrà trovarle. Ieri, venerdì 27 marzo, nel suo comune, dove i morti sono stati 35, sono giunti i militari russi. Si occuperanno di sanificare la Rsa del paese.

La donna aveva 44 anni. “Ho perso mia moglie e sono spariti gli effetti personali”, il dramma di Luciano. Redazione de Il Riformista il 25 Aprile 2020. Il dolore, il dramma consumato in pochi giorni, la tragedia di aver perso la propria compagna di vita. E Luciano adesso vuole almeno recuperare gli effetti personali di sua moglie. Ma un po’ com’era successo all’inizio della malattia non sa a chi rivolgersi, a chi domandare, a chi avanzare richieste. Lo racconta allora su Facebook. “Ho perso mia moglie di 44 anni per questo maledetto virus”, scrive. E in poche righe racconta un calvario straziante, troppo simile a quello degli molti altri degli oltre 26mila deceduti italiani a causa della pandemia da Covid-19. “Era andata a fare assistenza ad un anziano in un ospedale qui vicino (non era Oss, lo faceva per aiutare una famiglia), dopo la morte di questo signore abbiamo saputo che era positivo al Covid-19”, comincia Luciano. Dall’8 marzo la donna inizia così a sentirsi male. Soffre i primi sintomi, quelli tipici del coronavirus: febbre alta, tosse secca. Il medico curante non riesce a indicare loro una qualche consulenza, così il giorno dopo si recano al tendone presso l’ospedale per sottoporsi al test. “I tamponi vanno prenotati, sono contati“, si sentono rispondere. E quindi tornano a casa. Per due giorni provano a contattare la Asl per prenotare il tampone ma non ricevono alcuna risposta. “Arrivò la prima crisi respiratoria – continua l’uomo – lì decisi di metterla in macchina e portarla in un altro ospedale dove avevano allestito un triage Covid all’esterno del pronto soccorso, e lì la accettarono”. La donna entra alle 17:00, la visitano all’una e mezza di notte. La diagnosi è purtroppo quella annunciata: polmonite. Segue il ricovero. E poi il 16 marzo il trasferimento in terapia intensiva. La moglie di Luciano viene intubata. “Fino al 19 marzo. Il giorno in cui ci comunicarono il decesso”. Il calvario della donna è durato poco più di dieci giorni. Il virus si è rivelato letale come in tanti altri casi. “A più di un mese dalla sua scomparsa non siamo ancora riusciti ad avere i suoi effetti personali – lamenta Luciano – ci hanno riempiti di versioni, a mio avviso poco credibili perché se c’è una prassi va rispettata, queste cose non possono essere scomparse, dissolte nel nulla”. E quindi lancia il suo appello: “Qualcuno ha qualche consiglio? Come devo comportarmi? Cosa devo fare per riavere almeno i suoi effetti personali?“.

 “Abbiamo fatto un tampone a suo marito il 7 aprile”. Ma Giuliano era già morto da una settimana. Le Iene News il 23 aprile 2020. Dionea ci racconta da Torino una storia assurda e terribile che si è aggiunta al dolore per la morte del papà per Covid-19: “Hanno chiamato mia madre dicendole che il marito il 7 aprile aveva fatto un tampone, ma lui era morto il 31 marzo. Ma come facciamo a ripartire con la Fase 2 se siamo a questo punto?” È una storia incredibile, e terribile, quella che ci racconta una nostra segnalatrice, che ha appena perso il padre per colpa del coronavirus. Il suo nome è Dionea e vive in Piemonte .“Mio padre Giuliano aveva 75 anni e viveva con mia mamma. Soffriva di diabete e di apnee notturne, ma fino ai primi di marzo la situazione era stabile”, racconta a Iene.it. “Poi accade che un suo amico si ammala di Covid e lui viene messo in quarantena. Il 18 marzo, dopo alcuni giorni di tosse e spossatezza, peggiora a tal punto che, non riuscendo quasi più a respirare, deve essere ricoverato. Arrivano con delle tute protettive e a mia madre, che vorrebbe salutarlo, impediscono anche di dargli un abbraccio”. L’uomo, che vedete sopra in foto, viene ricoverato in un primo momento all’Ospedale Maria Vittoria di Torino, dove gli viene fatto il tampone che conferma la diagnosi di Covid-19. “Due giorni dopo lo portano al Martini, in un reparto Covid, dove resta fino al 31 marzo, il giorno della sua morte. L’operatore che attorno a mezzanotte ci chiama per dirci che papà è morto, spiega che dal giorno dopo potremo avvisare le pompe funebri e così facciamo, mettendoci in contatto con un’impresa di alcuni amici di famiglia”. “Il 3 aprile le pompe funebri lo portano alla cremazione e noi non possiamo neanche salutarlo per l’ultima volta”, prosegue Dionea. “In modo del tutto volontario, da persone responsabili, ci siamo messi tutti in quarantena. Proprio quel giorno, mentre il feretro di mio padre è in viaggio verso il crematorio, arriva una telefonata a casa della mamma”. A chiamare, racconta la donna, sarebbe il centro tamponi dell’Asl di riferimento: “Ci chiamano per chiedere come sta papà, anche se sconvolti, spieghiamo che è morto. La cosa non ci stupisce più di tanto, il momento è di grande confusione per tutti e probabilmente nessuno li ha avvertiti. Passa una settimana però e arriva una seconda chiamata. E ancora una volta l’operatrice, non la stessa di prima, ci chiede della salute del papà. Mia madre ovviamente inizia a perdere le staffe, è disperata, ma accetta nuovamente le scuse per quell’errore”. E purtroppo non sarà l’ultima volta. “È sconvolgente, ma ieri ci hanno chiamato di nuovo, facendoci sempre la stessa domanda. E quando mia madre ha detto all’operatrice che il marito era morto il 31 marzo, lei si è stupita e ha detto: ‘Ma come? A noi risulta che ha fatto un tampone il 7 aprile!’”. “Mia madre sul momento, tanto era disperata, è arrivata anche a chiedersi se il marito fosse davvero morto”, racconta Dionea. “Ci stupiamo anche del fatto che nessuno in tutto questo tempo si sia preoccupato di chiedere come stavano le oltre 10 persone della famiglia che si erano mese in auto quarantena, mentre hanno chiamato tre volte per chiederci come stesse papà che era morto da giorni...”. La famiglia di Dionea ora non ha dubbi che l’uomo cremato il 3 aprile sia Giuliano anche perché, come racconta la donna, a riconoscere il corpo del defunto sarebbe stato il titolare delle pompe funebri, amico di famiglia da 30 anni. Restano però una serie di altre domande: “A chi è stato fatto quel tampone il 7 aprile? E se l’esito di quel tampone fosse positivo, il vero contagiato sarà stato avvertito?”. La donna è preoccupata per il futuro: “Ma come si fa a ripartire con la Fase 2 se fanno tamponi intestati a persone già decedute e magari non riescono a comunicare l’esito ai pazienti a cui li hanno fatti davvero?” Iene.it ha provato più volte a mettersi in contatto con il centro tamponi che avrebbe effettuato queste chiamate, al momento senza successo.

3 tamponi negativi ma risulta morta da “paziente COVID-19”. La denuncia della famiglia. Le Iene News il 16 aprile 2020. Iene.it raccoglie la testimonianza di una donna di Bologna, che racconta una strana storia che sarebbe accaduta alla madre, poi deceduta, all’Ospedale Maggiore di Bologna: "Ha avuto tre tamponi negativi, ma è stata comunque considerata contagiata. Ci hanno messo in quarantena e non abbiamo neanche potuto darle l’ultimo saluto”.

“Mi hanno impedito di stare vicina a mia madre, di darle l’ultimo saluto e non so con quale diritto”. La denuncia arriva da Morena, una donna di Bologna, che a Iene.it racconta una vicenda che, se confermata, avrebbe dell’incredibile. Una vicenda legata a una morte per presunto COVID-19, anche se in presenza di tre tamponi negativi. Per l’Ospedale, come spiegato informalmente alla donna per telefono da un sanitario, si sarebbe trattato di un caso di un falso negativo. Ma andiamo per ordine. Morena, questo il nome della figlia dell’anziana deceduta, racconta: “Domenica mattina abbiamo chiamato l’ambulanza, perché mia madre dalla sera di sabato aveva iniziato ad avere un po' di febbre. Mia madre un anno fa aveva avuto tre infarti, era una paziente broncopatica cronica, e l’anno scorso era stata in terapia intensiva, per oltre tre mesi. Era migliorata, ma il suo era un equilibrio sempre molto fragile. Domenica mattina la febbre era salita a 38, 38,5. Chiamiamo l’ambulanza e quando gli operatori sanitari arrivano a casa e la visitano, mi dicono che tutto sommato, data la sua storia clinica, i parametri vitali erano buoni, ma che per precauzione l’avrebbero portata al Maggiore di Bologna. Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista...”. La donna poco tempo dopo chiama l’ospedale, per avere notizie della madre e quello che si sarebbe sentita rispondere le gela il sangue: ”Sua madre è in un reparto Covid-19”. “Ho spiegato che non aveva tosse, che è una paziente a rischio per il cuore, per i bronchi, e che se non erano sicuri che avesse il coronavirus, poteva essere un reparto estremamente pericoloso per lei. Mi hanno risposto che mia madre era a bassissimo rischio, in stanza con un’altra paziente anche lei a bassissimo rischio e che tutti gli operatori indossavano i dispositivi di protezione, quindi non poteva essere contaminata”. Passa un altro giorno, e verso l’ora di pranzo ecco arrivare una nuova telefonata: "Mi chiama un medico, che aveva conosciuto mia madre durante un precedente ricovero, e mi dice che compatibilmente con la situazione generale, la mamma aveva dei parametri buoni, con un po' di febbre solo durante la notte. E poi aggiunge – spiega ancora Morena - che se tutto fosse rimasto tranquillo, di lì a poco sarebbe stata trasferita in un reparto ‘pulito’, cioè non COVID-19”. E alla fine quel medico, sostiene ancora la donna, avrebbe aggiunto un dettaglio molto importante: "A sua mamma è stato fatto il primo tampone ed è negativo, non credo ci sia bisogno di un secondo, penso che la trasferiremo in un reparto pulito”. L’anziana tuttavia, su parere di un virologo, viene sottoposta a un secondo tampone, mentre dall’ospedale avrebbero confermato alla famiglia che “le condizioni stabili, abbastanza discrete”. Passa ancora un altro giorno, è il 7 aprile, quando la donna viene chiamata da un’infermiera: "Mi ha confermato che anche il secondo tampone era negativo, che mia madre non aveva la febbre e che, se tutto fosse proseguito positivamente, l’avrebbero trasferita in un altro reparto”. Le cose sembrano procedere bene ma meno di un giorno dopo, ecco arrivare un’altra terribile telefonata: "Mi chiama un'assistente sociale, quella che dirige gli OSS che vanno a curare i pazienti anziani a domicilio, e mi racconta che l’OSS che era entrato in contatto con mia madre, quasi dieci giorni prima, era positivo al COVID-19 e che lei avrebbe dovuto avvertire chi di dovere in ospedale. Ho riferito questa conversazione, poco dopo, a un altro medico del reparto e lui mi ha detto che non era una circostanza che li preoccupava più di tanto, perché mia madre aveva giù avuto due tamponi negativi, e addirittura si stava aspettando l’esito di un terzo. Lui non era preoccupato, avendo visto l’esito dei due precedenti e per il fatto che mia madre non aveva neanche la febbre”. Sono le 19.30 di mercoledì 8 aprile sera quando a casa di Morena arriva la chiamata a cui nessuna figlia vorrebbe mai rispondere: ”Sua mamma è morta”. Meno di trenta minuti dopo, la donna riceve l'email di un’infermiera dell'ospedale, dal suo account personale, che le manda una sorta di protocollo di comportamento. “Al telefono mi aveva detto che essendo mia madre deceduta in un reparto COVID, noi familiari avremmo dovuto seguire una procedura particolare. Io ho provato a spiegarle con forza che la mamma aveva avuto tamponi tutti negativi, ma lei insisteva, anche se non sapeva dirmi se avremmo dovuto iniziare anche noi una vera e propria rigorosa quarantena”. L'email ricevuta dalla donna è una “informativa per famiglie di pazienti COVID-19 deceduti presso gli ospedali dell’AUSL di Bologna” e spiega nel dettaglio, tra l’altro, le pratiche relative al trattamento della salma da parte delle pompe funebri. Una vicenda strana e drammatica, per le conseguenze concrete sulla famiglia dell’anziana deceduta: "Ci siamo dovuti mettere tutti in quarantena per 14 giorni, perché l’Ufficio di Igiene, il giorno del decesso, era stato avvertito dall’ospedale”. La donna racconta di avere registrato una chiamata con l’ospedale. "Anche il terzo tampone è negativo ma ci sono pazienti che nonostante abbiano tamponi negativi hanno un quadro cardiologico, di laboratorio e clinico, suggestivi di malattia", spiegano. "È un insieme di considerazioni che si fanno. Per noi è considerato Covid, il tampone non è infallibile, ci sono i falsi negativi. La segnalazione non potevamo non farla”. E in base a quella segnalazione all’Ufficio di Igiene, Morena è costretta in casa, con tutta la sua famiglia: "Non potevamo neanche uscire per andare a fare la spesa o comprare le medicine. E ovviamente la cosa più straziante per noi è che non abbiamo più potuto vederla, neanche da morta. In questo momento la stanno portando al cimitero e noi siamo tutti chiusi in casa, a fare una quarantena per una donna che ha avuto 3 tamponi tutti negativi, perché nel frattempo era arrivato anche l’esito del terzo...”. I fratelli della donna, che nel frattempo sono riusciti ad andare in camera mortuaria perché non erano in quarantena, le raccontano un dettaglio terribile, forse legato proprio alla procedura COVID: ”Mi hanno detto che la mamma non era stata neanche vestita, ma l’avevano infilata nella bara nuda, in un sacco con un po' di formalina. Mi si strazia il cuore...”. E conclude, tra disperazione e rabbia: “Le hanno tolto la dignità della morte, ci hanno impedito di salutarla per l’ultima volta e tutto questo senza che fosse davvero una paziente COVID. Ma questa storia non finisce qui”. Va precisato che la letteratura medica mondiale riporta almeno un 10% di casi di falsi negativi, persone che risultano non infette anche dopo essere state contagiate. Iene.it ha contattato l’Ospedale Maggiore di Bologna, attraverso l’ufficio stampa e attende che la struttura sanitaria dia la sua versione ufficiale sulla vicenda che ci è stata raccontata.

 “Il rianimatore vista l’età ha deciso di non intubarlo e papà è morto”, il dramma di Marianna Punzi. Redazione de Il Riformista il 19 Aprile 2020. “Penso che nessun medico debba essere messo di fronte a certe scelte terribili”. È il pensiero di una figlia che ha perso suo padre a causa del Covid-19. Un virus contro il quale siamo in guerra, come hanno detto da subito politici e giornalisti. E quindi le trincee sono gli ospedali, il nemico è invisibile, i soldati sono il personale sanitario. L’emergenza ha abituato a questo tipo di retorica militare e a familiarizzare anche con termini come triage, lo smistamento, la redistribuzione dei malati. “Una funzione infermieristica – scrive il ministero della Salute – volta alla identificazione delle priorità assistenziali attraverso la valutazione della condizione clinica dei pazienti e del loro rischio evolutivo, in grado di garantire la presa in carico degli utenti e definire l’ordine d’accesso al trattamento”. E che in momenti di emergenza può portare a decisioni drammatiche, come in questo racconto di una famiglia del milanese e di un uomo di 80 anni. “Domenica 8 marzo, verso sera, presenta un lieve innalzamento della temperatura, 37,5 circa. Non ha né tosse né raffreddore e nulla fa pensare a qualcosa di grave perché il virus, a Nerviano e dintorni, non è minimamente presente”, scrive sui social Marianna, figlia dell’uomo. Lunedì e martedì la febbre torna a salire, oltre i 38 gradi, quasi 39, ma passa con Paracetamolo. E l’uomo mangia e gioca a carte con la moglie. Quest’ultima decide comunque di chiamare il medico il giorno dopo. “Lo visita, polmoni a posto, saturazione ok – continua il racconto – Dato che a ottobre ha fatto il cambio della valvola aortica, operazione riuscita benissimo e senza la minima conseguenza, il medico pensa a un’infezione. Noi siamo stupiti perché il 3 marzo è stato in ospedale, a Legnano, a fare la visita post operatoria dove la cardiologa conferma la perfetta riuscita e rimanda i controlli fra un anno. Mio papà non è iperteso e non ha nessuna patologia associata al cuore”. Dietro consiglio del medico la famiglia si reca in Pronto Soccorso per il consulto di un cardiologo. L’uomo viene visitato e ricompare dopo più di mezz’ora in un’altra zona del pronto soccorso: quella del Covid-19. Gli è stata diagnosticata una polmonite. “Al momento non siamo veramente spaventati – ricorda la figlia – lui è lì in piedi, non sembra un malato. Non ha il fiatone. Mi dicono che probabilmente gli daranno una cura e lo rimanderanno a casa”. Alle familiari viene detto di andare a casa, che solo dopo la visita verranno chiamate. Ma alle 20:30, scrive la donna, il padre è “ancora seduto su una sedia, in pronto soccorso, solo, senza cibo, senza alcuna attenzione, 80 anni. Mi metto in auto per andare lì e intanto richiamo il triage per l’ennesima volta. Mi dicono che è su una brandina, ha una flebo”. L’ultima conversazione è straziante. Avviene tra l’uomo e la moglie: “Questa flebo è lenta, scende goccia a goccia, chissà a che ora vengo a casa. Cosa mi hai preparato da mangiare?”. L’uomo muore il sabato mattina. “Due giorni in cui non sappiamo cosa sia successo ma una cosa l’hanno detta, il rianimatore ha deciso di non intubarlo, non ritenendolo abbastanza forte, abbastanza giovane”. La figlia definisce la sua “una denuncia oggettiva dei fatti”, non accusa direttamente il personale sanitario e quindi “negligenze avvenute di proposito ma, anzi, penso che nessun medico debba essere messo di fronte a certe scelte terribili. Il problema è sicuramente a monte”.

Il dramma di Antonello, morto dopo 19 giorni di terapia intensiva: “Era sano e sportivo”. Redazione de Il Riformista il 12 Aprile 2020. Il Coronavirus non guarda in faccia a nessuno, anche a chi è sempre stato uno sportivo, un atleta a 360 gradi che aveva sempre goduto di ottima salute. È la storia di Antonello Bianco, morto nei giorni scorsi all’ospedale di Pescara all’età di 58 anni, dopo 19 giorni di ricovero in terapia intensiva. A raccontare il dramma vissuto da Antonello è la figlia Erica, che non manca di denunciare in un lungo sfogo i ritardi nei tamponi e il trattamento di “poco riguardo” subito in ospedale dal padre. “Una storia come tante, troppe, ci capita di ascoltare in questo maledetto periodo – è l’inizio del racconto della figlia – Una storia che probabilmente non leggerete, ma che in quanto figlia, in quanto donna, in quanto cittadina ho il dovere di scrivere. Perché si può morire a 58 anni. Si può morire a 30, 20, persino a 10 anni. Si può morire a qualsiasi età. Ma non nel posto dove ci si dovrebbe sentire più al sicuro. Dove si dovrebbe essere curati. Mio padre si è ammalato il 10 marzo. Era stato in Trentino e nelle Marche, era un rappresentante e girava gran parte dell’Italia. Così ai primi sintomi di febbre alta e qualche colpo di tosse ci siamo subito allarmati. Ma “prendi la tachipirina e non uscire di casa”. Questa frase l’avremmo sentita ripetere un centinaio di volte, a cominciare dal medico di base, passando per la guardia medica, al 118, dopo interminabili attese al telefono, dove se ti andava bene e non trovavi occupato ti passavano un altro numero da chiamare. “Cazzo papà ma perché non ti fanno il tampone? Sono passati 7 giorni, la febbre non scende né con la tachipirina né con l’antibiotico” “Il tampone non vogliono farmelo, dicono che i sintomi non sono gravi. Stai tranquilla, sarà davvero solo influenza” Eh si perché non era né un calciatore, né un parente di un calciatore (….) quindi il tampone per lui non c’era e alla fine lo stavano convincendo che fosse davvero soltanto influenza. La centralinista del 118 ha detto che 2 persone su 5 ce l’hanno. E poi sta bene, dice lei, lo sente dalla voce, non lo sente tossire. La voce che sento io invece è affannata, affaticata, spaventata”. Si passa al 17 marzo quando Antonello “ha una crisi respiratoria”. “Arriva il 118 – continua la figlia – Ora possono venire a prenderlo per fare il tampone, ora che non respira e molto probabilmente i suoi polmoni sono già compromessi. Dopo lo spavento iniziale tiriamo un sospiro di sollievo. Era in ospedale (a Pescara) finalmente sarebbe stato curato. “Li sei al sicuro” gli scrive la mamma! Al pronto soccorso fanno tac ai polmoni e tampone. I risultati della tac parlano di polmonite interstiziale. Viene trasferito in pneumologia e trattato come paziente covid. O meglio, accantonato, come paziente covid. Respira attraverso una mascherina d’ossigeno. Accanto a lui c’è un vecchietto, tossisce di continuo e anche lui fa molta fatica a respirare. Le infermiere appoggiano sul letto di papà un indumento del vecchietto. Papà è sgomento. “Tant li ti pur tu” [tanto ce l’hai pure tu (il virus)] sentenzia l’infermiera. Si, era vero, il virus ce l’aveva anche lui, il giorno dopo arrivò l’esito del tampone, ma il tatto, l’umanità, quell’infermiera no, non ce l’aveva. Passano due giorni, non vede più né medici né infermieri”. La situazione però non migliora anzi. “La mattina del terzo giorno vengo svegliata dalla voce concitata della mamma, il mio papà le stava chiedendo di aiutarlo perché era all’abbandono e la mascherina d’ossigeno non gli bastava per respirare – denuncia Erica – “Sto morendo, non riesco a respirare”. Mamma gli dice di tenere duro, di non mollare… gli dice che ci siamo noi a casa, che non può abbandonarci. Chiude il telefono e chiama una persona importante in città…affinché qualcuno dell’ospedale provvedesse a controllare le sue condizioni. Che paradosso, lui dall’ospedale chiedeva aiuto alla mia mamma! Solo allora qualcuno va da lui. Le sue condizioni erano critiche. Viene spostato in terapia intensiva. Ci rimane per 19 giorni in terapia intensiva. Nonostante gli viene un infezione ai reni, nonostante la dialisi, nonostante due arresti cardiaci, lui non molla. “Sei una cazzo di roccia papà” mi ripetevo orgogliosa, fiduciosa. E c’ho creduto, c’ho creduto con tutta me stessa che alla fine, da quell’inferno, lui ne sarebbe uscito. Ma così non è stato, o meglio, ne è uscito, si, ma in una bara.  Vi risparmio la parte dove ti racconto dell’ulteriore strazio nell’immaginarlo morire da solo, senza poter intrecciare le mie dita nelle sue, senza poterlo salutare, senza poter celebrare il funerale”. Il lungo sfogo si conclude con la “consapevolezza” che, sottolinea la figlia di Antonello, “se i soccorsi fossero stati più tempestivi, se in ospedale gli avessero prestato sin dall’inizio le cure necessarie, molto probabilmente, si sarebbe potuto salvare. Dico questo perché ci è stato detto che le sue condizioni all’arrivo in terapia intensiva erano gravissime. Allora perché non lo hanno portato da subito li ? Ci si deve raccomandare anche per non morire?  Una storia come tante, troppe in questo periodo, ma dovevo raccontarla, dovevo dare voce al mio papà. La stessa voce che non hanno ascoltato quando chiedeva aiuto, mentre attaccato a una mascherina che emanava un tanfo terribile non riusciva a respirare. Spero che questa volta la sua voce verrà ascoltata. Lui si chiamava Antonello Bianco, aveva 58 anni, era sano, sportivo, era bello. Non aveva patologie pregresse”.

Muore per Coronavirus a 45 anni, la rabbia della sorella: “Curato con il cortisone”. Redazione de Il Riformista il 10 Aprile 2020. Aveva sofferto dei sintomi molto forti da coronavirus ma è stato curato in maniera inadeguata. Così è scomparso un uomo, di 45 anni, nel giro di due settimane. Una tragedia che ha a che fare con un virus aggressivo e subdolo, com’è stato scritto più volte, ma anche con un sistema sanitario che si è fatto cogliere troppo spesso impreparato. Come in questo caso. Continua infatti ad allungarsi la striscia delle vittime del Covid-19. In Italia l’ultimo bollettino della Protezione Civile recita 18.849 vittime, con 570 nuovi decessi nelle ultime 24 ore, nonostante, dicono molti esperti, la curva del contagio sia finalmente in discesa. Molti infetti e famiglie continuano comunque a combattere, a soffrire, e purtroppo in alcuni casi a soccombere a causa del coronavirus. Come nel caso della testimonianza di una donna che racconta il calvario del fratello, un uomo di 45 anni, vittima del Covid-19 ma anche dell’inadeguatezza delle cure ricevute fin dalle prime manifestazioni della malattia. L’uomo aveva accusato i sintomi tipici del contagio. “Febbre molto alta, vomito e diarrea”, racconta la sorella Rosalba sui social. “E il medico di base – continua – ha prescritto antibiotici e cortisone … roba da matti!”. La  cura si rivela dunque sbagliata. L’uomo affronta un vero e proprio calvario. “Dopo due settimane di agonia è morto all’ospedale di Chiari (provincia di Brescia, ndr)”, dice la sorella. La quale si è trovata a vivere il dramma che ha accomunato molti italiani, ovvero il dolore per il lutto ingrandito dal non poter dare l’ultimo saluto ai propri cari. “Ringrazio in particolare un’infermiera – chiosa la donna – che almeno lo ha rassicurato prima che lo sedassero e intubassero”. L’ultimo pensiero di Rosalba va dunque al personale sanitario che si è sacrificato, in questa emergenza, tanto da essere descritto in molte occasioni con i tratti dell’eroismo. Un eroismo purtroppo pagato troppo spesso – e anche in quel caso per l’inadeguatezza dei dispositivi di protezione e di organizzazione – con il contagio. Sono ormai 100 i medici scomparsi a causa del coronavirus in Italia, molti dei quali infettati mentre accudivano i pazienti affetti da Covid-19.

Chiara Jommi Selleri per leggo.it il 7 aprile 2020. «Ci hanno detto che potevamo solo pregare». Fabio Ferrari, 39enne di Castel Rozzone, piccolo Comune vicino Bergamo, ha la voce spezzata mentre racconta la tragedia che ha colpito la sua famiglia. Suo padre Giacomo, 62 anni, è morto lo scorso 27 marzo di coronavirus dopo un’agonia durata 14 giorni. Ore interminabili nelle quali Fabio e sua madre, entrambi ammalati, hanno cercato disperatamente aiuto, ma sono stati lasciati da soli di fronte alla malattia e alla morte.

Quando inizia il calvario di suo padre?

«Il 13 marzo, quando inizia ad avere una febbre strana e intermittente. Papà non esce da più di un mese e ha deciso di chiudere la sua azienda prima del tempo, per cui io e mia madre speriamo non si tratti di Covid-19. La febbre, però, sale e noi ci spaventiamo».

A chi vi rivolgete?

«Cerchiamo immediatamente il nostro medico di base, ma il suo telefono è staccato. Ci dicono che, forse, è malato anche lui. Al suo posto ci rimandano a un numero verde dopo l’altro. Attendiamo per ore prima di ricevere una risposta. È il caos. Ci dicono che neppure sanno dell’esistenza del nostro Comune. E poi: “Suo padre è giovane e in salute, non avrà problemi”».

I medici cosa vi consigliano di fare?

«Ognuno ci dà un parere diverso. Chi dice di somministrargli un antibiotico, chi la tachipirina. Chiamo l’ultimo numero, estenuato. Risponde l’ennesimo medico. “Potete solo pregare”, mi dice. E attacca».

Nessuno disposto a visitarlo?

«Nessuno. Tutti continuano a ripetermi che non devo rivolgermi al 112 perché papà non ha difficoltà respiratorie. Nel frattempo anche io e mia madre iniziamo a sviluppare gli stessi sintomi. Chiediamo aiuto ovunque, ma nessuno ci ascolta. Nessuno ci visita. Al telefono ci trattano come condannati a morte. Con la febbre a 39 accudisco mamma e papà giorno e notte. Da solo».

Quando precipita la situazione?

«Mio padre viene ricoverato in ospedale il 23 marzo quando, nonostante i pareri contrari, decido di chiamare il 112. I medici ci tranquillizzano, la sua situazione sembra stabile. È sotto ossigeno ma i polmoni stanno riprendendo le loro funzioni. Io e mamma ricominciamo a respirare. Il 26 ci dicono che sta benissimo. Poi arriva una chiamata. “Non respira bene, ma pensiamo sia l’ansia”, ci dicono. Mezz’ora dopo la seconda: “Suo padre non ce l’ha fatta”».

Cos’è che le fa più rabbia?

«Papà è morto da solo e noi non abbiamo potuto neanche salutarlo. Lo abbiamo fatto affacciandoci alla finestra, mentre il carro funebre passava sotto casa. Nessuno che sia venuto a visitarlo. Nessuno che abbia ascoltato il nostro grido. Non si può lasciare una famiglia da sola in balia del suo destino. E la nostra storia, purtroppo, è solo una delle tante».

Una donna ricorda il marito scomparso a 70 anni. Il calvario di Massimo, da una giornata coi nipotini alla morte da solo per Covid. Redazione de Il Riformista l'8 Aprile 2020. “È volato via come un soffio … ma quanto rumore e dolore ha lasciato la sua uscita da questo mondo terreno”. Antonella ha perso suo marito, il suo uomo, il suo compagno di vita a causa del coronavirus. Massimo aveva 70 anni e una vita attiva nonostante qualche acciacco sofferto negli ultimi tempi. La moglie, a pochi giorni dalla scomparsa dell’uomo, avvenuta mercoledì 25 marzo, condivide sui social la storia straziante che ha colpito la sua famiglia. Una storia anche di inadeguatezza e inefficienza, di un sistema sociale e sanitario colto a volte impreparato dall’emergenza Covid-19. “Aveva 70 anni e aveva ancora tanto da dare e ricevere – scrive del marito Antonella – ma, il destino o la superficialità di chi doveva prendersi cura di questo essere umano, si è scagliata inesorabilmente su di lui”.

Il calvario dell’uomo comincia il 15 marzo: “Dopo una giornata allegra con i nipotini, nonostante le giuste restrizioni, il mio Massimo verso sera si sentiva un po’ febbricitante. Misurata la temperatura risultava 37.4. Non aveva nulla che potesse ricondurre al maledetto virus, solo un po’ di costipazione e sporadicamente tosse grassa”. Il giorno dopo il medico di base diagnostica all’uomo una bronchite e prescrive un ciclo di antibiotico. La febbre continua però a salire e Massimo accusa spossatezza e inappetenza. Da una visita a domicilio emerge un focolaio di polmonite. Ma non è coronavirus, dice il medico che prescrive un altro ciclo di antibiotici. “Ovviamente questa affermazione così perentoria ci rassicurò, anche perché avevamo molta fiducia nel medico che si era sempre comportato scrupolosamente nei confronti di mio marito che quattro anni fa aveva avuto un infarto ma che con le opportune cure conduceva una vita attiva”.

Nel giro di due giorni la situazione precipita: Antonella vuole che il marito venga sottoposto al tampone ma il giorno dopo, mentre la febbre continua a salire e i sintomi (tosse secca e debolezza) a manifestarsi, il medico di guardia, dopo aver visitato Massimo, decide di chiamare il 118. “Fu l’ultimo giorno che vidi l’amore della mia vita. Riuscii a malapena a stringergli le mani e a incoraggiarlo guardandolo negli occhi disperati, forse perché la sua arguta intelligenza gli aveva già fatto capire la gravità della situazione, e gli dissi ‘Forza amore, ci rivedremo presto’”, ricorda la donna.

L’esito del tampone è positivo: polmonite bilaterale diffusa. Massimo è stato contagiato dal coronavirus. “Fu una lama che mi trafisse senza pietà il cuore. E da quel momento iniziò il terribile incubo”. L’uomo viene curato con farmaci antimalarici e con il casco C-PAP per la ventilazione polmonare. Dopo tre giorni è trasferito nel reparto Covid. “Martedì 24 marzo Massimo si aggrava – continua la donna – e necessita trasferimento in sala rianimazione per essere intubato, ma non ci sono posti! A mia richiesta di spostarlo ad altro ospedale la risposta è stata che la decisione spetta all’unità di crisi secondo alcuni parametri: età, patologia e gravità”, racconta Antonella.

Alle 11:30 di mercoledì 25 marzo la telefonata: Massimo non ha superato una crisi respiratoria. Nel giro di dieci giorni il virus ha stroncato un uomo stimato, apprezzato, come lo ricorda la moglie, che aveva ideali e credeva nella giustizia. Nel dramma di Massimo e Antonella si riflette lo stesso di oltre 17mila vittime in Italia causate dal Covid-19. La tragedia di chi se n’è andato da solo, dolorosamente, senza nemmeno le celebrazioni funebri. “Quante domande tormentose per una morte così assurda … senza il conforto dei suoi cari … senza un saluto decoroso per un grande uomo …. per un grande amore”.

·        Le ritorsioni.

Il carabiniere chiede le mascherine per i suoi colleghi: denunciato e trasferito dai superiori. Federico Marconi l'1 luglio 2020 su L'Espresso. L'assurda storia di un appuntato di Palermo che invia una lettera per segnalare la mancanza di dispositivi di sicurezza per i colleghi. E per punizione viene spedito altrove e denunciato per diffamazione. Ma alla fine la spunta. Chiede mascherine e dispositivi di protezione per i propri colleghi e si ritrova denunciato e trasferito d’ufficio. Il protagonista: un carabiniere-sindacalista di Palermo. La storia ha un "lieto" fine: è stato sì trasferito, ma in una destinazione a lui gradita. Per ottenerlo però ha dovuto fare causa ai suoi superiori. La vicenda ha inizio il 20 marzo. Siamo in piena "Fase 1", il lockdown è stato imposto da appena undici giorni. Mentre tutto il Paese è costretto a casa, le forze dell’ordine, poliziotti, carabinieri e militari sono al lavoro, in strada, a verificare che tutti rispettino gli obblighi imposti dal DPCM. E stare in strada, a contatto con la gente, significa un rischio maggiore di essere esposti al coronavirus, e di portarselo a casa contagiando i propri familiari. Per questo il 20 marzo, l’appuntato scelto Franco Sortino, di stanza nel capoluogo siciliano, scrive una lettera, che presto inizia a girare sui gruppi WhatsApp dei militari. Oggetto: "Criticità rilevate presso la Compagnia Speciale". Il testo è eloquente: «Duole constatare che i militari in forza alla Compagnia Speciale di Palermo, impegnati giornalmente nei diversi servizi d’istituto, non vengano dotati delle minime protezioni contro i pericoli da contagio del Covid-19». Il militare si dice consapevole delle «gravi difficoltà» nel reperire in tutta Italia dispositivi di protezione individuale, ma «non è tollerabile che circa 90 uomini, spesso padri di famiglia, vengano esposti a rischi elevati durante l’espletamento del proprio servizio». Per questo chiede che «ogni militare sia posto nelle condizioni di operare in sicurezza». Sortino firma la lettera non solo come appuntato scelto, ma come segretario provinciale del Sindacato Italiano Militari Carabinieri. Fondato nel gennaio del 2019, il SIM è il primo sindacato legalmente autorizzato nella storia delle Forze Armate e conta più di 3mila iscritti in tutta Italia. La risposta alla sua richiesta arriva a stretto giro, i primi giorni di aprile. E non è stata quella che il carabiniere si auspicava: non gli è stato scritto che mascherine e dpi sarebbero arrivati presto. Scopre invece di essere stato denunciato per diffamazione dal Comandante provinciale per il contenuto della lettera e di essere stato trasferito d’ufficio. Sortino e gli altri rappresentanti del sindacato, appoggiati da "Legali Lavoro", un network di giuslavoristi, decidono di ricorrere a un Tribunale del Lavoro, contestando l’atteggiamento anti-sindacale dei superiori dell’appuntato. Inizia così una disputa legale che si conclude a fine giugno. I giudici favoriscono un concordato: Sortino viene trasferito sì, ma può scegliere lui una destinazione di suo gradimento. «La decisione del tribunale è un evento storico, per noi è stata una triplice vittoria», racconta all’Espresso Antonio Serpi, segretario generale del SIM. «In primis, perché il giudice del lavoro ha accettato la giurisdizione: fare ricorso alla giustizia amministrativa avrebbe significato tempi lunghissimi. E poi perché siamo riusciti a far trasferire Sortino in una sede a cui ambiva». La terza "vittoria" riguarda invece un altro aspetto della vicenda: le "aggettivazioni caratteristiche" (la valutazione di un carabiniere, che incide sulla carriera, ndr) erano state abbassate. «Su questo aspetto è rischiato di saltare il concordato, ma dopo aver parlato con l’avvocatura dello Stato, hanno deciso di annullarle, in autotutela». «Il collega è stato perseguito senza aver fatto nulla», continua Serpi, per cui «questa vicenda non si può definire una intimidazione, ma spiega sicuramente il clima in cui vive chi svolge attività sindacali nell’Arma». Il SIM poi vuole lanciare un messaggio al Parlamento: «Speriamo che la proposta di legge sui sindacati militari presentata dall’onorevole Corda del Movimento 5 Stelle venga ritirata, e che la politica capisca i danni che ha fatto proponendo una norma antisindacale che si adegua al volere degli stati maggiori, danneggiando 450mila uomini che lavorano nelle forze armate». In seguito alla pubblicazione dell'articolo, il comando provinciale dei Carabinieri di Palermo ha inviato all'Espresso una nota con la propria replica: «La pubblicazione della nota sindacale è effettivamente all’attenzione della Procura Militare di Napoli, che non ha ancora adottato le determinazioni di competenza; il Giudice del Lavoro di Palermo, effettivamente adito con ricorso per attività antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori, non si è pronunciato sulla questione, dichiarando la “cessata materia del contendere”, su richiesta delle parti;  il militare in questione, inizialmente trasferito ad altro incarico a seguito della “nota sindacale” che contestava l’operato dei superiori gerarchici, è stato ritrasferito nella stessa precedente caserma, ma non nello stesso incarico (per il quale permanevano i motivi di incompatibilità). Questo ulteriore trasferimento, in incarico gradito all’interessato, è avvenuto su propria istanza amministrativa, secondo la procedura ordinaria usualmente adottata, ma non per disposizione del Giudice del Lavoro, che non è entrato nella vicenda; il giudizio valutativo del militare in questione è stato annullato per vizi di legittimità formale e non è stato ancora riformulato nel merito».  

Licenziato dalla Asl per un'intervista al tg. Fdi: "Metodo stalinista". Criticata la decisione della Ausl Toscana Centro, che ha licenziato un dipendente delegato sindacalista accusato di aver rilasciato un'intervista al Tg2 sulla gestione dell'emergenza Coronavirus all'interno dell'ospedale San Giovanni di Dio di Torregalli. Attacco di FdI: "La sinistra alla guida della Regione Toscana non smentisce mai la sua arroganza". Federico Garau, Domenica 21/06/2020 su Il Giornale. Forti polemiche intorno alla decisione presa dalla Ausl Toscana Centro, che giovedì scorso ha licenziato un delegato sindacale della Cisl-Fp di Firenze Pcprato, accusato di aver fornito ai giornalisti del Tg2 alcune informazioni sulla gestione dell'emergenza Coronavirus all'interno della struttura ospedaliera San Giovanni di Dio di Torregalli (Firenze). Una responsabilità, come denunciano i rappresentati della Cisl in un lungo comunicato pubblicato da "Gonews", attribuita dalla Ausl al proprio dipendente senza alcuna prova concreta. L'intervista, andata in onda il 17 aprile, era stata infatti rilasciata all'emittente televisiva in forma anonima. Non era possibile, dunque, identificare con precisione chi stesse parlando dell'ospedale. Inutile il tentativo del dipendente Ausl e delegato sindacale di difendersi, affermando di non essere lui il soggetto intervistato nel servizio del Tg2. L'uomo, che lavorava come operatore sociosanitario al San Giovanni di Dio è stato ritenuto colpevole e licenziato, dal momento che la Ausl Toscana Centro ha ritenuto le dichiarazioni a lui attribuite "lesive del decoro e del prestigio aziendale". Un gesto che la Cisl definisce "vergognoso", ed a seguito del quale la stessa associazione sindacale ha deciso di fare ricorso presso ricorso il Tribunale di Firenze. L'accusa mossa alla Ausl è quella di "comportamento antisindacale ai sensi della legge 300/70". Il caso ha naturalmente coinvolto anche il mondo della politica. Durissima la condanna del deputato di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli, originario proprio di Firenze."La sinistra alla guida della Regione Toscana non smentisce mai la sua arroganza: licenziare un sindacalista per un'intervista è semplicemente vergognoso, un atto in perfetto metodo stalinista", ha attaccato il rappresentante di FdI. "La decisione della Asl Toscana centro nei confronti del rappresentante della Cisl, reo a loro dire di essersi macchiato del grave delitto di aver rilasciato dichiarazioni al Tg2, è intollerabile. Rossi e il Pd una volta ancora si comportano come dei veri censori: come sempre non tollerano la verità". "Il Partito democratico ha affondato i suoi tentacoli in ogni angolo della macchina regionale, compresi ovviamente quelli della sanità. La sinistra predica bene quando si erge a paladina dei diritti e delle libertà, salvo poi razzolare molto male", continua Donzelli. "Durante l'emergenza coronavirus sono stati commessi disastri: per loro la soluzione è oscurare e purgare chi ne parla anziché scaricare le colpe sugli altri è ora che questi signori se ne assumano le responsabilità e vadano a casa". In merito alla vicenda il senatore Maurizio Gasparri (Forza Italia) ha deciso di richiedere un'interrogazione parlamentare. "Sovietico e intollerabile il licenziamento di un delegato sindacale della Cisl da parte della Asl Firenze Prato", ha commentato Gasparri, come riportato dal "Il Secolo d'Italia"."Si tratta di una condotta illegittima per la quale, con una interrogazione ai ministri del Lavoro e della Salute, chiedo un intervento immediato contro un atto di grave censura. Nel regno del presidente toscano Rossi, recentemente al centro di indagini, la verità dà fastidio", ha concluso.

Firenze, denuncia la mancanza di dispostivi di protezione nel suo ospedale: sindacalista Asl licenziato in tronco dopo servizio del Tg2. Secondo la Cisl, il dipendente che aveva sempre evidenziato le criticità ha perso il lavoro perché identificato nell’operatore anonimo che aveva rilasciato le dichiarazioni al telegiornale. Lui, però, ha sempre smentito. Furlan: "Si ritiri il provvedimento, immotivato". Giacomo Salvini il 21 giugno 2020 su Il Fatto Quotidiano. Negli ultimi mesi aveva denunciato a più riprese l’assenza di dispositivi individuali e l’inadeguatezza delle mascherine all’ospedale San Giovanni di Dio Torregalli di Firenze. Accuse di mala gestione rivolte alla Asl Toscana Centro, e ripetute da un dipendente anonimo della struttura al Tg2 del 17 aprile, che sono costate all’operatore sanitario e sindacalista Rsu della Cisl il licenziamento in tronco. La vicenda è stata denunciata dal segretario generale della Cisl Funzione Pubblica, Maurizio Petriccioli, che chiede il reintegro immediato del lavoratore parlando di “azione vergognosa, antisindacale ed arbitraria, fondata esclusivamente sul sospetto”. Anche la segretaria generale Cisl, Anna Maria Furlan, in un tweet è sulla stessa linea: “L’azienda ritiri questo provvedimento immotivato nei confronti di chi rappresenta e difende i propri colleghi in prima linea in queste settimane contro il Covid”. Il sindacalista, che al momento preferisce non esporsi, ha sempre negato di essere stato lui a fare quelle dichiarazioni in tv. Dalla Asl Toscana centro invece per il momento non è arrivata alcuna replica. Sulla vicenda si butta a capofitto tutto il centrodestra. Il segretario della Lega Matteo Salvini dice che “se fosse successo in una regione governata dalla Lega sarebbe scoppiato il putiferio” e poi sfrutta l’occasione per fare campagna elettorale in vista delle regionali di settembre: “Solidarietà al dipendente censurato. In Toscana è arrivato il momento di cambiare aria” twitta il leader del Carroccio. Il componente forzista della Commissione di Vigilanza Rai, Maurizio Gasparri, invece accusa la Asl di licenziamento “sovietico e inaccettabile” annunciando un’interrogazione ai ministri di Salute e Lavoro mentre di “provvedimento in perfetto metodo stalinista” parla anche il segretario toscano di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, secondo cui il governatore Rossi e il Pd “ancora una volta si comportano come dei veri censori: come sempre non tollerano la verità”. L’operatore socio sanitario lavorava all’ospedale Torregalli, tra Firenze e Scandicci, e nelle settimane dell’emergenza Covid-19, anche in ragione del suo ruolo di Rsu sindacale, aveva denunciato a più riprese l’assenza di protezioni individuali, le mascherine non adatte per lavorare in corsia – FFP2 al posto delle FFP3 – e di altro materiale come le tute e le visiere. Poi il 17 aprile, il Tg2 delle 20.30 diretto da Gennaro Sangiuliano aveva mandato in onda un servizio in cui un operatore sanitario anonimo aveva denunciato la gravità della situazione nell’ospedale: “I dirigenti non sono stati all’altezza – aveva detto – il Torregalli è composto da tre ‘ali’ e sono riusciti a mettere pazienti Covid positivi in tutte e tre le diverse zone, non creando un percorso ‘pulito-sporco’. Così tutti i pazienti passano dappertutto”. Il cronista del Tg2 aveva anche riferito che, secondo altre testimonianze, la gestione dell’ospedale era stata buona ricavando 16 posti letto in più tutti dedicati ai pazienti Covid. Dopo il servizio, accusa la Cisl, il sindacalista che aveva sempre denunciato la situazione è stato licenziato perché la Asl lo avrebbe identificato nell’operatore anonimo che aveva rilasciato le dichiarazioni al Tg2. Lui, però, ha sempre smentito. Non è la prima volta che la Asl Toscana Centro e la Regione si scontrano con il Tg diretto dal giornalista in quota Lega Sangiuliano. Proprio in quel periodo, secondo molti per fare da contralto alle inchieste e alla gestione delle Rsa in Lombardia, il Tg2 aveva mandato in onda una serie di servizi in cui veniva denunciata la malagestione delle strutture per anziani anche nelle regioni “rosse” d’Italia come la Toscana. In quel periodo il Tg2 aveva trasmesso otto servizi su altrettante Rsa toscane e il governatore Enrico Rossi il 17 aprile, lo stesso giorno del servizio su Torregalli, aveva mandato una lettera di lamentele ai vertici Rai e alla Commissione di Vigilanza in cui si lamentava della “dose di superficialità nel confezionamento dei servizi, dalla scelta degli interlocutori alle parole allusive utilizzate, alle tecniche di montaggio fino alla presentazione di dati completi o inesatti, a partire dal numero non veritiero di decessi”. Rossi poi si era lamentato anche di non essere mai stato interpellato per una replica. “Questo è un tentativo di censura bello e buono” aveva fatto sapere il direttore Sangiuliano. Nei giorni scorsi è arrivato il licenziamento del sindacalista.

Denuncia Lega contro Asl: "Censurato primario per post sui social".  Da gonews.it il 30 Giugno 2020. “In Toscana abbiamo la task force covid19 e la task force social network – dicono Elisa Montemagni, Capogruppo Lega in Consiglio Regionale, e Jacopo Alberti, Consigliere regionale e Portavoce dell'opposizione – appena un medico o un dipendente della Asl si azzarda a scrivere un post riguardante il proprio lavoro, scatta la lesa maestà: il Dottor Di Fiorino, primario di Psichiatria dell'ospedale Versilia, è solo l'ennesimo caso. Dopo il dipendente di Torregalli licenziato perché secondo la Asl reo di aver rilasciato un'intervista al Tg2 (fatto sempre negato dallo sfortunato protagonista), adesso è in corso il procedimento per Di Fiorino, che aveva, in un post, lamentato la mancanza del macchinario per esaminare i tamponi nel nosocomio, e i conseguenti tempi prolungati per avere i risultati dei test. In periodo di emergenza, abbiamo capito tutti quanto invece fosse importante avere i risultati in tempi brevi, per evitare di ingolfare i pronto soccorso e permettere la separazione dei pazienti”. “Invece di ascoltare la richiesta del medico, la Asl ha avviato un procedimento al consiglio di disciplina. Invece di comprendere lo sfogo di un medico che ogni giorno affrontava l'emergenza in ospedale, è stato punito. Insomma, per la Asl, medici, infermieri e oss, tutti bravi e eroi, ma solo finché si comportano da bravi soldatini, guai a criticare o lasciarsi andare a uno sfogo. Ormai – concludono i due consiglieri regionali, Alberti e Montemagni - sono anni che i dipendenti della Asl segnalano questa sistematica censura dittatoriale. Tutta la nostra solidarietà al primario, che speriamo di incontrare presto”. Fonte: Consiglio regionale della Toscana, gruppo Lega - ufficio stampa.

SINDACATO FIALS – Condanna alle censure: “Colpirne uno per educarne cento!”. Da verdeazzurronotizie.it il 2 luglio 2020. M.Z. Comunicato stampa. Questa Organizzazione condanna le censure a suon di provvedimenti disciplinari inflitte ai Dipendenti della Asl Toscana Nord Ovest negli ultimi giorni. La colpa ? Quella di aver esternato il loro parere in merito alla gestione COVID, alle problematiche organizzative durante un periodo difficile, dove i lavoratori hanno messo da parte le loro vite, le loro famiglie, i loro affetti per essere presenti nell’EMERGENZA COVID19. Inizia ad essere preoccupante il numero di Provvedimenti inviati a Dipendenti della ASL Toscana Nord Ovest , ricordiamo il caso dell’infermiere Marco Lenzoni di Massa, il Primario di Oculistica di Lucca, punito duramente solo per aver criticato la gestione delle liste di attesa e potremmo continuare la triste lista . Il punto è, che chi osa criticare scelte organizzative , carenze , lacune anche in un ottica migliorativa e propositiva viene censurato. Siamo oramai ad una sorta di GRANDE FRATELLO . Sembrerebbe addirittura, che alla ASL Toscana Nord Ovest vi siano figure dedicate a “ SFRUCUGLIARE “ I PROFILI FACEBOOCK DEI DIPENDENTI CERCANDO QUALCHE MAGAGNA. E’ capitato anche al Rappresentante Sindacale Fials di Massa che per un post su FB ha rischiato grosso salvo poi Ricevere le scuse della ASL . Noi ci domandiamo seriamente se l’OBIETTIVO di questi Signori è questo o quello di garantire efficacia ed efficienza ad un Servizio Sanitario . Vorremmo ricordargli che mentre qualcuno era in trincea, qualcun altro se ne stava ben assestato nelle proprie stanze e sulle proprie poltrone. Non saranno mica gli stessi che OGGI inviano lettere di Provvedimenti disciplinari a chi combatteva al fronte ?????? . SE L’AZIENDA ASL Nord Ovest PENSA CHE BASTERA’ “ COLPIRNE UNO PER EDUCARNE CENTO “ si sbaglia di grosso . Dopo che gli “ EROI “ ci hanno messo l’anima questo e’ il ringraziamento? VERAMENTE RIMANIAMO SENZA PAROLE !!! IL SINDACATO FIALS NON CI STA’ E RISPONDIAMO che..CHI COLPISCE UNO DI NOI… COLPISCE TUTTI NOI Siamo CITTADINI, prima che dipendenti ed AVREMMO il DIRITTO di esternare il nostro disappunto su cio’ che non FUNZIONA ANCHE IN CONSSESSI PUBBLICI !!!!! Ed allora SOLIDARIETA’ ai nostri COLLEGHI. Nel contempo daremo mandato ai nostri Legali di impugnare un REGOLAMENTO AZIENDALE CHE PRODUCE QUESTE STORTURE e metteremo A DISPOSIZIONE I NOSTRI STUDI LEGALI PER DIFENDERE CHIUNQUE SIA RAGGIUNTO DA PROVVEDIMENTI CHE NE LIMITANO LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE. IL SEGRETARIO FIALS VERSILIA DANIELE SODDU

Licenziamento e altri guai per i lavoratori che hanno denunciato carenze nella gestione Covid. Molti operatori sanitari che hanno segnalato le condizioni disastrose delle Rsa e delle strutture destinate ai malati di Covid-19 sono stati ricompensati con la perdita del lavoro, censure, trasferimenti, ferie forzate. Eppure una legge del 2017, ribadita da una direttiva Ue di sei mesi fa, dovrebbe proteggerli. Gianfrancesco Turano il 09 giugno 2020 su L'Espresso. I Covid-ottimisti, convinti che il virus servirà almeno a migliorare le condizioni dei lavoratori e a diminuire la pressione gerarchica, si dovranno ricredere. L'atmosfera intorno a chi denuncia i rischi delle pratiche aziendali non sembra affatto migliorata. Casomai vale il contrario. I segnalatori o, nel termine inglese, whistleblowers continuano a passare per traditori come il primo denunciatore della pandemia, l'oftalmologo di Wuhan Li Wenliang, trattato da allarmista prima di diventare un eroe nazionale da morto. Diffide, processi disciplinari e licenziamenti stanno accompagnando la pandemia nella sua versione italiana. Le vittime di questi provvedimenti seguono un percorso comune. Vengono accusate di slealtà verso l'azienda e di violazione del rapporto fiduciario. La magistratura indaga su oltre 150 morti di Covid nelle sessanta strutture del gruppo in Italia. Ecco chi c'è dietro la fondazione fondata nel dopoguerra da un prete lodigiano e diventata un gigante con 27 sedi e 32 ambulatori. L'imputazione più grave è la diffusione ai media delle segrete cose di ospedali, Rsa e cliniche, anche quando i morti e i contagiati si sono contati a centinaia per mancanza di dispositivi e per omissioni gravi nel rispetto delle linee guida dettate dalle autorità sanitarie. La legge nazionale sui segnalatori approvata il 30 novembre 2017 (numero 179) è stata spesso contraddetta al momento dell'emergenza da ordini di tono ben diverso e da sanzioni a chi ha lanciato l'allarme. Fra le vittime del Cov-Sars-2 c'è anche la direttiva Ue 1937 che imponeva agli stati membri di adottare una normativa sui segnalatori. La direttiva ha la data del 26 novembre 2019. Il racconto dell'Espresso inizia tre mesi dopo, il 26 febbraio 2020. Un infermiere con tredici anni di anzianità aziendale al San Carlo di Nancy di Roma, una struttura di sanità privata con una vita societaria recente movimentata e una cessione da congregazioni religiose al gruppo Sansavini-Gvm, sta ascoltando una diretta su Radio Globo. L'argomento è il virus che a fine gennaio ha portato al ricovero di due turisti cinesi allo Spallanzani. Il 19 febbraio è stato ricoverato a Codogno Mattia, il cosiddetto paziente uno. Quel 26 febbraio l'infermiere decide di intervenire con una telefonata in diretta e, senza dichiarare il suo nome, avverte che al San Carlo c'è un andirivieni di pazienti possibilmente contagiati dal Corona in assenza di dispositivi di protezione per il personale. Riferisce inoltre che un paziente con sintomi sospetti, che era stato di recente a Codogno, è riuscito grazie a un'amicizia a ricoverarsi al San Carlo, e non allo Spallanzani dove temeva di rimanere isolato nell'epicentro romano del virus. Il 4 marzo il dipendente viene rintracciato dall'azienda e riceve una lettera di contestazione per la sua telefonata in radio. Secondo l'ufficio legale di Gvm, l'infermiere ha dichiarato il falso e in ogni caso ha leso la reputazione del datore di lavoro. Il 12 marzo, con un minimo di tempo per le controdeduzioni, gli viene comunicato il licenziamento. L'infermiere presenta ricorso attraverso lo studio dell'avvocato Romolo Reboa, noto per avere assistito i familiari delle vittime dell'hotel di Rigopiano. «La legge», dice Reboa, «autorizza il segnalatore a lanciare un allarme se esistono fondati motivi di pericolo imminente o condizioni palesi di pubblico interesse o ancora il rischio di occultare le prove di comportamenti illeciti. Mi pare che il caso del mio cliente ricada in questo contesto». La parola adesso spetta al giudice. Lo studio legale Reboa è coinvolto in altri casi di segnalatori che hanno avuto problemi di lavoro gravi a causa del Covid-19, spesso in strutture che fanno capo alla sanità privata con controllo di ordini religiosi. Nell'area di Milano il caso più importante è la Fondazione don Gnocchi che è stata fra l'organizzazione di sanità privata più duramente investite dall'ondata del virus, con 140 decessi soprattutto nei suoi centri dell'area metropolitana, insieme al Pio Albergo Trivulzio (Pat) che però sotto il controllo della Regione e del Comune. La fondazione don Gnocchi ha licenziato, trasferito o censurato i dipendenti che hanno denunciato le condizioni di lavoro a rischio dopo essersi ammalati e dovrà affrontare anche le cause di risarcimento danni dei familiari dei pazienti. Hamala Diop è un operatore che stato lasciato senza protezioni e si è ammalato di Covid. Quando ha osato scoperchiare la tragedia che avveniva all'interno del gigante della sanità privata, è stato cacciato. Il caso più clamoroso è quello dell'operatore sanitario Hamala Diop che raccontiamo  qui . Non è dato sapere quante altre segnalazioni arriveranno a valle dell'epidemia come quella presentata ai carabinieri di Sorbolo Mezzani (Parma) il 21 maggio da una dipendente del Centro Santa Maria ai Servi che chiede l'anonimato. All'opposto dei dipendenti che segnalano mancanze da parte dei datori di lavoro c'è il caso della Domus Aurea di Chiaravalle centrale (Catanzaro) che da sola è responsabile di 28 decessi pari al 30 per cento dei morti totali da Covid-19 in Calabria con oltre ottanta positivi a partire dal 22 marzo e un indice di letalità senza uguali al mondo. A Chiaravalle è stato il proprietario della struttura, Domenico De Santis, a denunciare il personale uscito dalla struttura dopo che la Rsa e l'intero paese era stato dichiarato zona rossa a fine marzo. De Santis ha anche contestato il mancato intervento della governatrice Jole Santelli che ha ribaltato le responsabilità sul proprietario della residenza. La settimana scorsa sono state diffuse le conversazioni telefoniche fra De Santis e Francesco Conca, responsabile del 118 che accusa pesantemente il personale sanitario mandato a sostituire gli operatori messi in quarantena. «Si sono messi in malattia, che ci posso fare? Se sono dei codardi, dei disertori ancora meglio», dice Conca, «che ci possiamo fare io e lei?» Chiaravalle è stata l'ultima zona rossa della Calabria a essere normalizzata l'11 maggio e a decidere chi ha ragione fra proprietà, Regione e dipendenti sarà l'inchiesta per strage della Procura della Repubblica di Catanzaro. Per capire come mai la segnalazione di illeciti in azienda sia così difficile basta leggere il pdf, messo online dalle strutture sanitarie più serie, da inviare all'Organismo di vigilanza (odv). È un modulo standard dove bisogna leggere bene la parte scritta in piccolo. Chi sceglie l'anonimato è avvertito che non potrà essere tutelato dalla legge sul whistleblowing. E per chi ci mette la faccia i rischi sono ancora più elevati. “Resta impregiudicata la responsabilità penale e disciplinare del segnalante nell’ipotesi di segnalazione calunniosa o diffamatoria ai sensi del codice penale e dell’art. 2043 del codice civile. Sono altresì fonte di responsabilità, in sede disciplinare e nelle altre sedi competenti, eventuali forme di abuso della procedura di segnalazione, quali le segnalazioni manifestamente opportunistiche e/o effettuate al solo scopo di danneggiare il denunciato o altri soggetti, e ogni altra ipotesi di utilizzo improprio o di intenzionale strumentalizzazione dell’istituto oggetto della presente procedura”. Di fronte agli ostacoli in azienda e ai paletti fissati dalla norma rischia di cadere nel vuoto l'appello di Transparency international, con il sostegno di cinquanta organizzazioni mondiali, a tutelare i segnalatori durante l'emergenza Covid-19. E anche la direttiva Ue sul whistleblowing rischia di restare lettera morta in molti paesi.

·        Chi denuncia chi?

L'inchiesta. Inchieste e accuse incrociate sulla pandemia, tutti alla ricerca di un responsabile politico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Nelle mani della magistratura. La pandemia giudiziaria era prevedibile, l’abbiamo prevista oltre un mese fa, e ora è arrivata. Nelle mani dei pubblici ministeri di Bergamo per ora ci sono i massimi vertici del governo –Presidente del consiglio e due ministri – e della Regione Lombardia, il Presidente e un assessore. Tutti testimoni, naturalmente. “Persone informate dei fatti”, e i fatti sono i tanti morti uccisi da un virus sconosciuto e violento in Lombardia e in particolare nella bergamasca, dove si sarebbero dovuti chiudere come “zona rossa” i comuni di Nembro e Alzano, ma ci furono inspiegabili ritardi e il virus poté procedere indisturbato. La convocazione del Presidente del consiglio per oggi ha scatenato i soliti schieramenti da curva sud, o nord. Commentatori dei principali giornali ed esponenti politici non ci hanno risparmiato le proprie “verità”: chi doveva prendere l’iniziativa, in quei primi giorni di marzo, per delimitare i paesi della Val Seriana, come era stato già fatto dal governo per Codogno? Il direttore dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, interrogato due giorni fa, ha ricordato di aver firmato il 3 marzo un verbale in cui si dava atto all’assessore della Regione Lombardia Giulio Gallera di aver chiesto la chiusura dei comuni di Nembro e Alzano. E ha ricordato il dissenso del presidente Conte e del ministro alla sanità Speranza, i quali tergiversavano. E preferirono successivamente dichiarare l’intera Lombardia come “zona arancione”. Anche la pm Maria Cristina Rota si è già sbilanciata, ritenendo che fosse responsabilità del governo prendere quella decisione, come dimostrato dalla presenza in quei giorni delle forze dell’ordine già schierate a delimitare il territorio. Ma è anche vero che qualche governatore di altre Regioni aveva forzato la mano. Si sono autodenunciati, ma solo per sostenere il governo, De Luca e Bonaccini. Dimenticando che altri, come il governatore delle Marche, che aveva chiuso di propria iniziativa le scuole, aveva subito le rimostranze del ministro Boccia. Forse anche il governatore della Lombardia avrebbe potuto agire di testa propria. O forse no. Ma si tratta, eventualmente, di responsabilità politiche. È incomprensibile il fatto che se ne occupi la magistratura. Non solo quella di Bergamo, anche a Milano ci sono diverse inchieste aperte. Finiranno in niente, crediamo. Anche perché il reato di “epidemia colposa” è pressoché indimostrabile, in quanto comporterebbe una condotta attiva, più che omissiva. È una questione non solo tecnica, che ben dovrebbero conoscere, per esempio, gli avvocati che stanno mettendo insieme comitati (che ormai spopolano su Facebook) di parenti di persone decedute per il virus, e che manifestano davanti alle procure chiedendo “verità”. Ma quale verità? Qui si apre un altro capitolo, quello del dolore che si fa rabbia, quello di un’elaborazione del lutto faticosa perché legata a qualcosa di tremendo, improvviso e incomprensibile piombato nelle case e nelle vite di troppe persone. Queste persone si mettono nelle mani di chi “ne sa di più” e magari promette loro di arrivare a qualche forma di risarcimento. Ma non sarà così, ed è straziante vedere persone che mostrano la foto dei loro cari che non ci sono più, come se si trattasse di dispersi di guerra. È inutile cercare le colpe e scatenare la caccia alle streghe per errori dovuti solo all’impreparazione davanti all’ignoto. E bisogna stare anche molto attenti. Perché per ora gli opposti schieramenti hanno preso di mira il mondo politico. Gli avvocati di sinistra dei comitati si affrettano a dichiarare che la deposizione di oggi di Conte è un “atto dovuto”, ma lasciano intendere che ben diverse sono le responsabilità della regione Lombardia. Matteo Salvini ha già condannato il governo con sentenza di cassazione e il quotidiano Libero ci dice che è “fallito il golpe anti-Fontana” e già prevede che (purtroppo) sarà difficile inquisire Conte. Senza domandarsi perché mai dovrebbe essere indagato e quali reati abbia commesso. Il rischio vero, mentre si cercano gli untori (sempre nel giardino del vicino), è che la novella pandemia giudiziaria rischia di travolgere, prima o poi, il personale sanitario. Nessuno lo vuole, per ora, e tutti si sgolano a negarlo. Ma sarà inevitabile, una volta partita la macchina giudiziaria. Perché nei tanti esposti contro ignoti c’è dentro un po’ di tutto. Ci sono le lamentazioni di tante cose che non hanno funzionato. Hai chiamato il 118 a non arrivava mai? Il medico di famiglia non è mai venuto a visitare tuo padre? Un parente è deceduto in casa senza poter essere ricoverato? Oppure è andato in ospedale per patologie diverse dal Coronavirus e lì si è infettato? Eccetera eccetera. La situazione rischia di diventare gravissima, anche perché in Italia, contrariamente a quel che accade per esempio in Francia o negli Stati Uniti, è prevista ancora la responsabilità dei medici per fatti colposi. Cosa che non accade per esempio per i magistrati. In attesa di una riforma che con questi chiari di luna non è neanche ipotizzabile, bisognerebbe prima di tutto ripescare quell’emendamento al decreto Cura Italia inutilmente presentato dal senatore Marcucci, capogruppo del Pd, per la creazione di una sorta di cordone protettivo per personale e strutture sanitarie, in modo che siano al riparo da denunce civili e penali. Una norma emergenziale al contrario, di tipo garantistico. In modo analogo si erano pronunciati anche Gustavo Zagreblesky, che ha proposto una causa di non punibilità che liberasse tutto il personale sanitario dalla possibilità di esser sottoposti a processo per la propria attività nel periodo del virus. E il sostituto procuratore generale di Bologna Walter Giovannini, in un’intervista al quotidiano La verità, aveva previsto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non solo emergenziale. Ma di tutto ciò non si parla. Si preferisce trastullarsi sul “chi doveva prendere l’iniziativa” per far fare un po’ di gogna mediatica all’avversario politico. La verità è che il nostro Paese con le sue istituzioni, nazionali, regionali e locali, ha compiuto un grande sforzo di fronte a un nemico sconosciuto e aggressivo, con una classe medica e infermieristica coraggiosa e professionale come poche al mondo. Per quale motivo ora dovremmo buttare tutto in vacca, affidando la sorte del dopo-virus ai pubblici ministeri, cioè alla categoria in questo momento più squalificata? Eppure è proprio ad alcuni di loro che vogliamo rivolgerci, alla pm Tiziana Siciliano di Milano come alla pm Maria Cristina Rota di Bergamo: perché non lasciate che sia la politica a risolvere i problemi politici e a stabilire le reciproche responsabilità?

LORENZO MOTTOLA per Libero Quotidiano il 15 ottobre 2020. Ogni tragedia ha sempre i suoi sciacalli. Nonostante i veti dell'ordine forense, continuano a circolare sui social network avvisi di associazioni (dietro le quali si cela immancabilmente qualche avvocato) che invitano le famiglie delle vittime dell'epidemia di Covid a far causa ai medici che si sono occupati del loro caro. Un bell'affare per chi vuole lucrare sul dramma. Così, come ampiamente previsto dalle associazioni di categoria già la scorsa primavera, lo scaricabarile delle responsabilità per gli errori commessi durante l'epidemia sta finendo per travolgere chi ha vissuto questo periodo nel luogo peggiore, ovvero nelle corsie degli ospedali. E non parliamo di virologi da salotto televisivo, ma di chi effettivamente ha rischiato di morire. Gli studi che seguono le cause dei nostri dottori hanno già censito più di mille cause intentate da parenti dei malati, però siamo solo in una prima fase e alla fine il conto potrebbe essere molto più alto. «Ogni medico-legale nella provincia di Milano ha sul proprio tavolo dalle 3 alle 5 richieste di avvocati o privati cittadini che chiedono un parere sulla procedibilità di una causa», spiega il presidente dell'Ordine dei chirurghi e odontoiatri, Roberto Carlo Rossi. In città e provincia si parla di 300 denunce già presentate. E il dato è sottostimato perché le iniziative legali sono ancora in fase di studio. lo scudo penale Eppure, qualcuno lo ricorderà, si era parlato di uno scudo penale per difendere il sistema sanitario. Se ne era discusso anche a giugno, quando il nostro premier aveva presenziato alla cerimonia di ringraziamento dei medici che avevano affrontato il Coronavirus: «Se oggi siamo qui a parlarci», aveva detto Giuseppe Conte, «è perché ci siete stati anche voi, grandi professionisti con un grande cuore. Abbiamo capito che c'era una resilienza, un coraggio, una volontà di non lasciarsi sopraffare da un nemico invisibile». Poi i riflettori si sono spenti e non se ne è fatto nulla. Così come i bonus economici riconosciuti sono stati molto più magri di quelli auspicati: un assegno una tantum che in alcune regioni non ha raggiunto i 1000 euro per l'intero periodo di crisi. Intendiamoci: tra le tante cause qualche caso di vera malasanità c'è. Sbagliano anche i migliori del mondo: un recente studio della Johns Hopkins University ha stimato che ogni anno solo negli Stati Uniti muoiono più di 250.000 persone per errori umani. E questo è un contesto particolare: parliamo di un male per cui non c'è cura e che era totalmente sconosciuto: «I medici sono stati costretti ad operare in assenza di linee guida o di buone pratiche consolidate», continua Rossi, «nonché di riferimenti bibliografici: giusto per fare un esempio, a dicembre gli articoli scientifici validi erano pochissimi, mentre oggi sono decine di migliaia». In altre parole, era il caos. Peraltro, forse è utile ricordarlo, i primi a rischiare la pelle sono stati proprio gli esperti di medicina e infermieristica. Sono 30.000 gli operatori del settore ospedaliero che hanno contratto il virus dall'inizio dell'epidemia e 177 di loro sono morti. L'ultimo caso: oltre 20 operatori dell'ospedale Policlinico-Vittorio Emanuele di Catania sono risultati positivi. In pratica, il 12% del totale dei contagiati in Italia indossava un camice. E a peggiorare la situazione sicuramente c'è stato il problema dei dispositivi di protezione (mascherine, tute e così via), che nelle fasi acute della crisi scarseggiavano. E a parte qualche storico caso (la raffica di certificati di malattia in Campania a inizio pandemia) nessuno s' è mai tirato indietro. corsa ad assicurarsi A preoccupare gli avvocati dei nostri medici sono soprattutto le cause civili, ovvero le richieste di risarcimento presentate da parenti. Quelle penali si risolvono brevemente nell'80% dei casi, dicono le statistiche dell'ordine. In altre parole, spesso chi scatena la battaglia legale punta ai soldi. Molti specialisti sono corsi ad assicurarsi, uno studio legale, Consulcesi&Partners, ha addirittura attivato una task force ad hoc per seguire questo genere di dibattimenti. Tutto ciò, però, potrebbe non bastare: «Buona parte delle compagnie hanno esteso le polizze includendo anche la responsabilità per il periodo Covid. I medici ospedalieri, tuttavia, rischiano di trovarsi impigliati nelle maglie di procedimenti civili interminabili a carico delle proprie aziende», ha spiegato il medico legale Giuseppe Deleo consigliere uscente dell'Ordine. In questo contesto, i nostri sanitari si preparano ad affrontare una seconda ondata. Chi lavora in ospedale è avvisato: gli eroi in Italia spesso diventano imputati.

Da repubblica.it il 23 ottobre 2020. La procura di Bergamo ha iscritto nel registro degli indagati alcuni tecnici, tra i quali l'ex direttore generale della sanità della Lombardia, Luigi Cajazzo, l'allora suo vice Marco Salmoiraghi, e una dirigente dell'assessorato Aida Andreassi. L'inchiesta riguarda la gestione del coronavirus e in particolare il capitolo dell'ospedale di Alzano Lombardo. Iscritti pure Francesco Locati e Roberto Cosentina, il primo ex dg della Asst di Bergamo e il secondo direttore sanitario. La procura ha acquisito inoltre documenti nella disponibilità del direttore dell'Istituto superiore della sanità, Silvio Brusaferro, che era stato sentito come testimone nei mesi scorsi. I pm di Bergamo hanno acquisito anche le chat dell'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera relative al periodo che va da febbraio a giugno. La guardia di finanza di Bergamo, su delega della procura, ha effettuato acquisizioni di materiale informatico negli uffici della Regione Lombardia nell'ambito dell'indagine per epidemia colposa e omicidio colposo sulla gestione del coronavirus. In primo piano la mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, l'anomala riapertura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano dello scorso 23 febbraio e i molti decessi nelle Rsa della Bergamasca. Da quanto si è saputo le fiamme gialle, su delega del pool di pm guidati dalla procuratrice aggiunta Cristina Rota, e coordinati dal procuratore Antonio Chiappani, hanno acquisito supporti informatici con copia di memorie telefoniche e altro materiale negli uffici di coloro che hanno avuto a che fare con la prima ondata dell'epidemia che ha colpito Bergamo e la provincia. In una nota la procura di Bergamo afferma che "allo stato non si ritiene, per questioni di riservatezza, di diffondere informazioni in relazione a eventuali iscrizioni di persone nel registro notizie di reato". Le operazioni di oggi sono "finalizzate all'acquisizione di materiali e supporti informatici necessari per la ricostruzione dei fatti sui quali si sta indagando in relazione ai problemi di diffusione della pandemia". Le operazioni, sottolineano gli inquirenti, "si sono svolte in un clima di massima collaborazione senza necessità di procedere a perquisizioni".

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 24 ottobre 2020. Epidemia colposa aggravata «dalla morte di più persone». La Procura di Bergamo, nell' inchiesta sulla mancata creazione della zona rossa in bassa Val Seriana, rafforza l' accusa nel filone sull' ospedale di Alzano Lombardo che vede indagati l' ex dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, l' allora suo vice Marco Salmoiraghi, la dirigente Aida Andreassi, Francesco Locati, dg della Asst di Bergamo, e Roberto Cosentina, ex direttore sanitario. È il 23 febbraio, il virus dilaga nella bergamasca e l' ospedale di Alzano diventa un focolaio. Ma nel giro tre ore viene riaperto, con la garanzia di aver effettuato la sanificazione. Tutto falso, sostengono i pm nel decreto con cui acquisito telefoni e mail negli uffici della Regione Lombardia. I cinque indagati sono accusati, come si legge nell' imputazione, di aver cagionato «un' epidemia colposa, incrementando e aggravando la diffusione del contagio da coronavirus, con particolare riferimento alle modalità di gestione dell' emergenza sanitaria Sars-Cov2 presso il presidio ospedaliero di Alzano Lombardo e al propagarsi della morbilità nel territorio circostante». Locati e Cosentina, in particolare, avrebbero dichiarato «in atti pubblici» che erano state adottate «tutte le misure previste», «circostanza rivelatasi falsa, stante la incompleta sanificazione del pronto soccorso e dei reparti del presidio». Il primo in una nota del 28 febbraio «indirizzata ad Ats Bergamo» aveva attestato che sin dal 23 febbraio, «non appena avuto il sospetto e la successiva certezza della positività al tampone» di alcuni malati, «sono state immediatamente adottate le misure previste» nell' ospedale, rassicurazione secondo i magistrati non veritiera «agli esiti delle indagini sinora condotte». Locati poi nelle «relazioni» dell' 8 e 10 aprile - «redatte su richiesta verbale e scritta» di Cajazzo e trasmesse a quest' ultimo e all' assessore al Welfare Giulio Gallera - per i pm ha mentito scrivendo che nelle poche ore nelle quali il pronto soccorso è rimasto chiuso si è provveduta alla disinfezione. Ha attestato anche di «tamponi» effettuati già dal 23 febbraio, mai avvenuti, assicurando la creazione «di un percorso d' accesso separato per i pazienti sospetti Covid in pronto soccorso», inesistente. Nel frattempo il virus aveva contagiato medici, degenti e familiari in visita. È stata una strage: ad Alzano nei primi 21 giorni di marzo il numero di morti è cresciuto del 1.022%, nella vicina Nembro del 1.000%, a Bergamo le vittime sono state 5.000. E adesso l' emergenza è a Milano. Le sirene delle ambulanze sono di nuovo il sottofondo, come a marzo. Fuori dai pronto soccorso i mezzi dell' Areu si mettono in coda, ormai il bollettino quotidiano della Lombardia è la conferma che il virus è sfuggito al controllo: ieri 4.916 positivi in più e sette morti nella regione, 2.399 nuovi casi solo in provincia di Milano. «Sono preoccupato. Il lockdown ci ha aveva salvati come il gong alla fine di un round soccorre il pugile già un po' suonato. Ora non c' è più tempo da perdere, abbiamo bisogno di interventi decisi che sarebbero stati necessari almeno dieci giorni fa, se non prima», avverte Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell' ospedale Sacco. In Lombardia i malati ricoverati sono 2.013, i pazienti in terapia intensiva 184, in crescita di 28 nelle ultime ventiquattr' ore. Le rianimazioni sono in sofferenza, i pazienti vengono spostati a Bergamo, dove metà delle persone intubate arriva dal capoluogo lombardo, e a Brescia, con un' ottantina di malati accolti. E da ieri ha riaperto l' hub in Fiera: quattordici letti sono pronti, posti e personale cresceranno in base alle necessità. Che alla luce dell' aumento esponenziale dei pazienti gravi appaiono pressanti.

Guerra dai pm per cinque ore sul documento Oms che bocciava Conte. Felice Manti, Venerdì 06/11/2020 su Il Giornale. La storia del rapporto indipendente fatto sparire dal sito dell'Oms sulla gestione italiana dell'epidemia definita «caotica e creativa» e riproposta nell'ultima puntata di Report ha suscitato parecchio scalpore. In quel rapporto ci sarebbe la prova che l'Italia era arrivata ad affrontare una pandemia spacciando per aggiornato il piano pandemico obsoleto del 2006. Dubbi che, ieri pomeriggio, hanno portato la Procura di Bergamo a sentire per ben cinque ore lo stesso Ranieri Guerra, direttore generale della Prevenzione sanitaria presso il ministero della Salute dal 2014 al 2017 e che, secondo quanto riportato dal The Guardian, avrebbe fatto pressioni per far sparire quel documento che bocciava l'operato dell'esecutivo. A ritrovare quella relazione fu il responsabile comunicazione del comitato dei familiari delle vittime Noi Denunceremo, Robert Lingard, che al Giornale dice: «La notizia di quel rapporto fatto sparire mi tormentò per due settimane. Verso le due di una notte di fine agosto ebbi un'intuizione: di ciò che viene pubblicato su internet, una traccia rimane sempre. Anche se lessi e rilessi quel documento per le successive tre ore, capii sin dalla prime pagine di avere tra le mani la prova di uno scandalo sanitario senza precendenti». Prima di depositarlo presso la Procura di Bergamo, che indaga per epidemia colposa, il comitato Noi Denunceremo presentò lo studio di fronte a tutta la stampa nazionale il 10 di settembre scorso, affiancati dal generale in pensione Pier Paolo Lunelli, autore di una relazione che attribuiva proprio nella mancanza di piani pandemici almeno 10 mila delle 37 mila vittime italiane di coronavirus. «Siamo molto soddisfatti che la Procura di Bergamo abbia invitato il dottor Guerra ad essere sentito come persona informata dei fatti. Speriamo che questo serva a fare luce sul perché la pandemia sia stata gestita cosi male». L'avvocato Consuelo Locati aggiunge: «La convocazione di Ranieri Guerra è la dimostrazione che la Procura di Bergamo stia cercando di dare risposta in maniera puntigliosa a tutte le domande che noi abbiamo posto in ogni denuncia». Il verbale della deposizione di Guerra è stato secretato. Non è escluso che nei prossimi giorni i pm non ascoltino altri esponenti dell'Oms.

Il piano segreto resta nascosto. Ecco le carte negate da Conte. Da mesi le vittime di Bergamo cercano la verità. Ma da Palazzo Chigi neppure una risposta. Cosa stanno nascondendo? Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Venerdì 23/10/2020 su Il Giornale. Il Comitato delle vittime di Bergamo è “in fiduciosa attesa” ormai dal 18 agosto scorso. Due mesi di silenzio che il governo non sembra ancora intenzionato a rompere. Dopo le rivelazioni contenute nel “Libro nero del coronavirus” (clicca qui), dopo il ricorso al Tar e l’interrogazione alla Commissione Ue, emerge ora anche un altro dettaglio sul “Piano segreto” anti-Covid mai reso pubblico ufficialmente. Lo scorso agosto, infatti, il Comitato “Noi denunceremo, Verità e Giustizia per le vittime del Covid-19” ha inviato una mail di posta certificata a Conte, Speranza e Mattarella per chiedere “che venga desecretato e reso pubblico il paino sulla gestione dell’emergenza pandemica del gennaio 2020”. Una richiesta ufficiale, redatta con tutti i crismi dall’avvocato Consuelo Locati, legale del comitato. Ma rimasta fino ad oggi del tutto ignorata. Tutto nasce dall’intervista rilasciata ad aprile da Andrea Urbani, direttore al ministero della Salute e membro del Cts, in cui evoca l’esistenza di un “piano secretato” cui gli esperti si sarebbero ispirati per dare i suggerimenti nella prima fase del contagio. Un documento tenuto “riservato” perché pieno di numeri sui contagi drammatici. Troppo per non "spaventare la popolazione". Il “piano secretato”, subito dopo l’intervista esplosiva, diventa protagonista di un vero e proprio scontro istituzionale. Le Regioni, mai avvertite della sua esistenza, restano a bocca aperta. Le opposizioni altrettanto. E il Copasir convoca Roberto Speranza per avere informazioni in merito. Il ministro, invece di domandare a Urbani che è un suo stretto collaboratore, scrive al Cts per avere informazioni sul dossier. Ma dal Comitato gli rispondono che “nei verbali” e negli allegati “non è presente alcun documento di studio sulla risposta ad eventuali emergenze pandemiche”. Il “Piano” di cui tanto si sta parlando sarebbe solo “uno studio che ipotizza possibili differenti scenari nella diffusione” dell’epidemia. E così Speranza di fronte al Copasir “derubrica” il “Piano secretato” di Urbani ad una banale analisi accademica e ne deposita un paio di versioni. Poco tempo dopo però la fiction si ripete. Stavolta con i giornali. Alcuni cronisti fanno un accesso agli atti (Foia) e domandano di quel famoso documento. Dal ministero prima dicono di non averlo, poi inviano uno “studio” realizzato da Stefano Merler, studioso della Fondazione Bruno Kessler. La sua analisi è il “Piano” di Urbani? No, ma per un po’ di tempo si confondono. Come ricostruito dal “Libro nero del Coronavirus”, tuttavia, i due dossier non sono la stessa cosa. Merler infatti viene invitato a presentare il suo studio al Cts il 12 febbraio, lo stesso giorno in cui il Comitato istituisce un gruppo di lavoro per realizzare - lo chiama proprio così - un “Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19”. Il Cts lo approva nella sua “versione finale” il 2 marzo 2020 (poi aggiornato il 4 e il 9 marzo) per presentarlo, via Angelo Borrelli, al ministro Speranza. Ormai è troppo tardi, visto che il virus sta mietendo vittime. Ma il "Piano" esiste eccome, nonostante ad aprile il Cts - che per quel documento aveva chiesto più volte di "secretarlo" e che nei verbali chiama sempre "Piano" - lo trasformerà in un semplice "studio". A frittata ormai fatta, i parenti delle vittime vogliono capire come sono andate le cose. Per questo il 18 agosto hanno inviato una Pec indirizzata a ministero della Salute, presidente Conte, Quirinale e Commissione per gli accessi agli atti della Presidenza del Consiglio. L’avvocato nella mail “chiede, ad ad ogni effetto di legge ed in ottemperanza al principio di trasparenza degli atti [...], che venga desecretato e reso pubblico il piano sulla gestione dell'emergenza pandemica del gennaio 2020”. Una richiesta inviata anche a Mattarella “in virtù della carica pubblica” e del suo ruolo “nella coscienza comune”. “Confido - scrive Locati - nell’ottica della trasparenza e del rispetto dei cittadini, che tale documento venga reso pubblico nel testo che risulterebbe essere stato redatto nel gennaio 2020, prima della dichiarazione ufficiale dello Stato di emergenza”. Per Conte e Speranza la patata si sta facendo bollente. Nei giorni scorsi due deputati di FdI, Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, hanno “trascinato il governo” di fronte al Tar per costringerlo a rendere noto il “Piano” (ma il ministero si è opposto al ricorso). La leghista Silvia Sardone invece ha interrogato la Commissione Ue per sapere se Conte condivise o meno con Bruxelles quel documento. E ora emergono le richieste (e le proteste) del Comitato, che da agosto confida in una risposta mai arrivata. “Ritengo sia un fatto gravissimo non aver degnato di alcuna risposta un Comitato che rappresenta 70.000 persone - dice Locati al Giornale.it - persone che hanno subito lutti e restrizioni della propria libertà e che ora vogliono sapere dai nostri ministri cosa è successo nei mesi decisivi e più tragici di questa pandemia”. La mancata risposta, insiste, “dimostra che non c’è alcuna considerazione dei cittadini” che il governo non ha “mai considerato né rispettato”. E’ “indignato e arrabbiato” anche Luca Fusco, presidente del Comitato, “per la completa mancanza di trasparenza evidenziata dal Ministero della Salute in ordine alla richiesta di pubblicazione di documenti. Credo che un governo che continui ad evitare il rapporto con i propri cittadini non rappresenti l'idea di democrazia che i padri fondatori della Carta Costituzionale aveva pensato per il nostro paese”.

Così è nato il "piano segreto": ecco chi c'era seduto al tavolo. Il piano nasce nella task force di Speranza. Poi tutto passa al Cts. Ma qualcosa non torna: Le famiglie delle vittime di Bergamo: desecretate gli altri verbali. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Lunedì 26/10/2020 su Il Giornale. I familiari delle vittime di Bergamo non si sono accontentati della desecretazione dei verbali del Comitato tecnico scientifico. Certo, lì dentro ci sono documenti essenziali. Ma non è tutto il malloppo di atti prodotti nelle prime fasi dell’emergenza coronavirus. Perché prima di Borrelli, prima del Cts e prima ancora che il virus colpisse l’Italia, una task force già si riuniva agli ordini del ministro Speranza. E’ in quegli incontri che viene ideato il piano segreto per fronteggiare la pandemia, così come ricostruito nel Libro nero del Coronavirus.

È a quel tavolo che si iniziano a studiare le contromosse. E sono quindi i verbali di quelle riunioni che il Comitato “Noi denunceremo” chiede a gran voce. Per ora inascoltato. Di questo benedetto “Piano” conosciamo la storia di aprile, agosto e settembre, quando emerge l’esistenza di quel documento ed esplode il caso politico. Sappiamo che dal ministero per settimane hanno cercato di ridurre la portata del documento derubricandolo a banale “studio”. Ma cosa accadde tra fine gennaio e il 9 di marzo, quando cioè il “Piano” prese forma? Il 22 gennaio il ministro dell'Istruzione Roberto Speranza annuncia la nascita della task force. Sono giorni di assoluta tranquillità. L’Italia è convinta di essere fuori dal pericolo e gli incontri servono più a “prevenire” che per “curare”. A quella riunione partecipano la Direzione generale per la prevenzione, i carabinieri del Nas, l’Istituto Superiore di Sanità, gli esponenti dello Spallanzani, l’Umsaf, l’Agenzia italiana del farmaco, l’Agenas e pure il consigliere diplomatico. I presenti si vedranno spesso, anche nei giorni successivi. Nelle fotografie si riconoscono in particolare Silvio Brusaferro (presidente Iss), Giuseppe Ippolito (direttore scientifico Spallanzani) e Andrea Urbani (Direttore Generale della programmazione sanitaria). A volte partecipano Agostino Miozzo, della Protezione civile, e Ranieri Guerra, delegato dell’Oms. Un consesso di rilievo, insomma, di cui Speranza è più che orgoglioso. “Il SSN è dotato di professionalità, competenze ed esperienze adeguate ad affrontare ogni evenienza”, dice alla fine del primo incontro convinto che “tutto andrà bene”. I fatti lo smentiranno molto presto. Durante i lavori della task force, infatti, gli esperti scoprono che l’Italia non ha un Piano pandemico aggiornato. Decidono allora elaborare uno “studio su possibili scenari dell’epidemia e dell’impatto sul SSN, identificando una serie di eventuali azioni da attivare” per contenere “gli effetti” di una possibile epidemia. Non è chiaro se l’esigenza sorga durante la prima riunione o in quelle successive, quel che è certo è che al lavoro si mettono l'Iss, lo Spallanzani e la Direzione programmazione del ministero. Sono gli albori del “piano segreto” di cui Urbani rivelerà l’esistenza ad aprile in una (incauta) intervista. Il progetto a dire il vero prende corpo lentamente visto che in quelle ore il virus appare solo una remota malattia cinese. Il 5 febbraio, però, alla sede dell’Iss si presenta un certo Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, convinto - al contrario di molti altri - che il virus possa investire l’Italia e combinare disastri. Le sue previsioni (leggi qui) verranno poi riportate in un dossier dal titolo Scenari di diffusione di 2019-NCOV in Italia e impatto sul servizio sanitario, in caso il virus non possa essere contenuto localmente. Sono ipotesi drammatiche, che forse fortificano la convinzione della task force che un “Piano” serva eccome. Così i lavori continuano.

 Nel frattempo però accadono due fatti inattesi. Il 31 gennaio, a causa dei due turisti cinesi positivi, il governo proclama lo stato di emergenza e decide di nominare un Commissario straordinario. Tutti pensano che sarà il ministero della Salute a prendere l’incarico, magari nominando il viceministro Sileri o un uomo di fiducia di Speranza. In fondo è nella task force ministeriale che, sin lì, la matassa coronavirus era stata gestita. Invece a sorpresa viene indicato Angelo Borrelli, che di infezioni sa poco o niente. Perché? Mistero. L’altro evento inatteso è invece la nascita del Cts, datata 3 febbraio. Il Comitato diventerà il fulcro di tutte le decisioni politiche sull’emergenza, in grado di indirizzare le scelte del governo su ogni aspetto. La cosa curiosa è che al Comitato vengono ammesse sostanzialmente le stesse persone che fino a poco prima sedevano nella task force. Ai due tavoli ci sono sempre Brusaferro, Ippolito, Urbani e Miozzo (che ne diventa coordinatore). In più al Cts compare pure Alberto Zoli, nominato da Stefano Bonaccini per rappresentare le Regioni. Per alcuni giorni, almeno fino alla metà di febbraio, i due organi continuano a lavorare in parallelo sebbene sovrapponibili. È a questo punto che la faccenda diventa fumosa. Quel che è certo, è che il “piano segreto” passa formalmente dalla task force al Comitato. E le sue tracce iniziano a scomparire.

 Il 12 febbraio, infatti, il Comitato invita Merler a presentare i suoi “Scenari di diffusione” del Covid. Il Cts ascolta colpito e, come si legge nel verbale della riunione, decide di dare “mandato ad un gruppo di lavoro interno al Cts di produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di un’epidemia da 2019-nCov”. Le parole sono importanti. Si tratta di un “Piano operativo”, e non di una banale analisi come verrà poi derubricato. Ma soprattutto sorge una domanda: perché ri-fare un lavoro che in teoria avrebbe già dovuto iniziare la task force della Sanità venti giorni prima? Dal verbale emerge che una “verifica” dei posti letto era stata effettuata, ma che mancavano ancora “i dati relativi a tre regioni”. Dunque forse il “Piano” si era impantanato. E il Cts si è fatto carico di concluderlo. Secondo il Corriere, gli esperti del “gruppo di lavoro” si riuniscono il 19 e il 20 febbraio, quando Zoli e Merler illustrano una prima bozza del dossier a Speranza. Nei verbali del Cts, invece, il Piano viene citato nuovamente il 24 febbraio, cioè tre giorni dopo Codogno: il documento deve ancora “essere completato” ma gli esperti già si preoccupano di tenerlo riservato “onde evitare che i numeri arrivino alla stampa”. In Italia in quel momento ci sono ancora solo pochi casi, ma i calcoli prevedono la catastrofe e non c’è più tempo da perdere. Il piano torna sul tavolo il 2 marzo per essere adottato “nella sua versione finale”, sottoscritto “da tutti coloro che hanno contribuito”, validato dal Cts e presentato al ministro Speranza. Poi verrà aggiornato il 4 marzo e, visto l’andamento epidemico, di nuovo il 9 marzo. Il tutto assicurando “segretezza” assoluta per tenerlo nascosto non solo ai cittadini (comprensibile in quelle fasi concitate), ma anche alle Regioni.

 

Quel che appare strano è che, ad aprile prima e a settembre poi, Speranza negherà di aver mai avuto sotto mano un “Piano”. “Solo un semplice studio”, è la sintesi. In una nota di aprile il ministero sostiene di aver presentato la ricerca il 12 febbraio al Cts e poi di averla aggiornata fino al 4 marzo. Niente di più. Le domande però a questo punto si sprecano. I componenti della task force, infatti, in quanto membri anche del Cts, erano ben consapevoli che il Comitato stava predisponendo un vero e proprio “Piano operativo”. Perché allora quando il Copasir ne chiederà conto, Speranza dirà di avere solo uno “studio”? E perché quando i cronisti domandano il documento, fornirà loro solo lo studio di Merler? I due documenti sono simili. Forse uno ispira l’altro. Ma sono due atti distinti. E poi: se il 2 marzo il Cts dice di averglielo presentato ufficialmente, perché Speranza sostiene che non esista alcun “Piano”? Nel verbale del 4 marzo, il Comitato scrive testualmente che il “Piano” è stato “redatto dall’Iss d’intesa con il ministero della Salute e l’ospedale Spallanzani”. Possibile che Speranza non sapesse che i suoi uffici stavano realizzando un “Piano” con misure e indicazioni specifiche? Un po’ di chiarezza in più, dicono i parenti delle vittime di Bergamo, potrebbe arrivare dalla desecretazione totale dei verbali. Non solo quelli del Cts, resi ormai pubblici. Ma anche quelli della task force. O magari basetrebbe condividere ufficialmente quel maledetto “Piano”. Perché ad oggi, per quanto governo e Cts insistano che non v’è nulla di segreto, né lo studio di Merler né le bozze del “Piano” sono state rese pubbliche. Almeno non ufficialmente.

Il livello di segretezza era rinforzato. La rivelazione sul "Piano segreto" anti Covid. Dalla task force al gruppo ristretto di lavoro del Cts. Speranza sapeva tutto da 11 giorni. Tutto resta segreto finché...Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Venerdì 30/10/2020 su Il Giornale. Un “Piano pandemico” che non esiste, benché il ministro lo abbia letto 11 giorni prima della sua approvazione finale. Un documento mai secretato, sebbene avesse un livello di riservatezza elevato. Un banale “studio ipotetico”, nonostante sia il Cts che la task force del ministero della Sanità fossero a conoscenza del gruppo di lavoro che per giorni ha lavorato alla realizzazione del “Piano” anti-Covid. Sono tante le zone d'ombra emerse in questi mesi di pandemia: dalla predisposizione del documento, alla sua segretezza ancora in vigore, passando per la confusione fatta dal ministero tra il “Piano” e l'analisi di Merler. Ombre che ora ilGiornale.it può chiarire avendo avuto accesso a informazioni riservate ed accreditate. Lo studio di Stefano Merler, ricercatore della Fondazione Bruno Kessler, e il "piano pandemico" elaborato dai tecnici nominati dal premier Giuseppe Conte sono due cose distinte. Sono concatenati l'uno all'altro, ma sostanzialmente diversi. Quello che Merler presenta il 12 febbraio al Cts è, infatti, una relazione composta sostanzialmente da proiezioni e studi matematici. Si fermava lì e non dava indicazioni. Niente a che fare, quindi, con le linee guida e gli scenari che verranno poi inseriti nel piano elaborato interno al Comitato tecnico scientifico. Quello che ne esce fuori (oltre due settimane dopo l'analisi di Merler), infatti, è un lavoro molto più complesso. Perché allora, quando i cronisti domandano di vedere il “Piano”, ministero e Protezione civile inviano loro lo studio di Merler? E perché il ministero confonde i due testi? Lo “studio” del matematico è stato solo prodromico alla composizione del piano pandemico. Merler era infatti considerato il matematico di riferimento del ministero ed è in questa veste che ha presentato ai tecnici di Conte le proiezioni su un'eventuale diffusione del coronavirus in Italia. Quel che è certo è che il suo lavoro non poteva essere assolutamente presentato come piano. Che infatti è stato realizzato solo in un secondo momento.

Il 12 febbraio, come emerge dai verbali del Cts, all'interno del Comitato nasce il gruppo di lavoro ristretto per la preparazione del "Piano". A quel tavolo sono presenti sette persone. Tra questi ci sono il direttore scientifico dell'ospedale Spallanzani, Giuseppe Ippolito, i presidenti dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro e della Protezione Civile Agostino Miozzo, Claudio D'amario (segretario Generale del Ministero della salute, Giuseppe Ruocco (direttore generale della prevenzione sanitaria), Alberto Zoli (rapresentante della Conferenza delle Regioni) e un responsabile dell'Usmaf (Ufficio di sanità marittima, aerea e di frontiera). Secondo le indiscrezioni riportate nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), il 20 febbraio la bozza del piano pandemico finisce nelle mani del ministro della Salute Roberto Speranza. Il documento prevede azioni da mettere in atto nel caso in cui fosse scoppiata un'epidemia di coronavirus in Italia, quando ancora il Belpaese è certo di poter controllare il contagio. Dopo aver avuto il via libera di Speranza, il documento finisce sulle scrivanie di tutti i componenti del Cts. È il primo marzo. Subito dopo ottiene l'ok definitivo anche dal Comitato tecnico scientifico. Speranza a quella riunione partecipa all’inizio, ma poi se ne va. Secondo quanto risulta al Giornale.it, infatti, quando il Cts approva qualche documento il ministro non è mai presente. E comunque aveva già avuto modo di vederlo 10 giorni prima.

Già nei primi giorni di marzo appare chiaro che il virus, almeno nel Nord Italia, è del tutto fuori controllo. Il piano pandemico è il punto di riferimento a cui guardare per cercare di capire come gestire l'epidemia. Ne viene fatto ampio uso per orientare le scelte. Nessuno all'interno del Cts sente infatti il bisogno di produrre altri documenti simili. Le proiezioni e gli scenari strategici bastano a Conte per capire che deve correre se vuole fermare il numero dei contagi. Sono i giorni in cui la Regione Lombardia inizia a chiedere a gran voce di estendere la "zona rossa" in Val Seriana. Sono i giorni in cui i grafici che arrivano a Palazzo Chigi parlano di virus fuori controllo nelle province di Brescia e Cremona. E sono anche i giorni in cui l'epidemia valica il Po e dilaga in Emilia Romagna. I dati sono allarmanti ovunque. Eppure quel piano rimane segreto. Non viene mostrato a nessuno, neppure alle Regioni. È vero che la segretezza - apprende ilGiornale.it - era connaturata a tutti i lavori prodotti dal Comitato, ma nel caso del Piano pandemico a questo vincolo viene dato particolare risalto: non solo più volte il Cts mette a verbale l'obbligo di non portarlo all'esterno per evitare “che i numeri arrivino alla stampa”, ma in questo caso viene applicato un livello di riservatezza rinforzato. Segreto che verrà rotto non appena il gruppo verrà allargato a 26 persone. Finché si trattava di mettere a tacere sette persone, era semplice. Poi però quel cordone si è rotto. La sua esistenza oggi è nota. Ma nonostante siano passati otto mesi non è stato ancora reso ufficialmente pubblico.

"Ha nascosto i verbali all'Ue?". Ora Conte è messo alle corde. Dopo il ricorso in tribunale, la gestione della prima ondata di coronavirus e il "Piano secretato" arrivano a Bruxelles. La Sardone: "L'Europa sapeva?" Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Martedì 20/10/2020  su Il Giornale. Il “Piano segreto” anti-Covid approda a Bruxelles. Dopo le rivelazioni contenute nel “Libro nero del coronavirus” (clicca qui) e il ricorso al Tar contro il ministero della Salute, ora la Commissione Ue viene investita della questione e dovrà rispondere sull’esistenza (e sul contenuto) di quel documento “mai reso pubblico”. A presentare l’interrogazione prioritaria è Silvia Sardone, eurodeputata leghista e consigliera comunale a Milano. L’obiettivo è quello di “far luce sul documento segreto su cui il governo si è basato per guidare le sue scelte durante i mesi più difficili della pandemia”. Tutto nasce dall’intervista rilasciata in aprile da Andrea Urbani, dirigente del ministero della Salute e membro del Cts, in cui evocava l’esistenza di un “piano secretato” che avrebbe guidato le scelte degli esperti e dei politici nei drammatici giorni di febbraio e marzo. Un documento tenuto “riservato”, e mai presentato ufficialmente né ai cittadini né al Parlamento, in cui erano contenuti numeri sui contagi da far paura. Dopo le dichiarazioni di Urbani, la politica e i media si scatenano. I governatori si dicono sconcertati dal fatto che l’esecutivo abbia agito alle loro spalle. Le opposizioni chiedono al governo di spiegare. E i giornali fanno di tutto per provare a ottenere il documento. Possibile che il governo sapesse dei rischi che correva l’Italia e non lo abbia comunicato a nessuno? Roberto Speranza, chiamato dal Copasir a chiarire la questione, inizia allora a derubricarlo a “studio di previsione”. Nessun “Piano” con cui contrastare il contagio, dunque: solo una analisi. La posizione di Speranza è frutto di un carteggio col Cts. Prima di presentarsi di fronte al Copasir, infatti, il ministro invia un’istanza al Comitato per informarsi sulla “classificazione dei verbali” e del “documento relativo alla risposta ad un’eventuale emergenza pandemica”. Il Cts risponde che “nei verbali e nelle parti ad essi allegati non è presente alcun documento di studio sulla risposta ad eventuali emergenze pandemiche”, derubricando il “Piano” ad uno “studio che ipotizza possibili differenti scenari della diffusione epidemia di Sars-CoV-2”. La cosa sembra finita lì. Ma qualche settimana dopo accade qualcosa di inspiegabile. Alcuni cronisti, infatti, domandano al ministero della Salute quel famoso “Piano” citato da Urbani con un banale accesso agli atti. Da viale Lungotevere Ripa I, però, fanno trapelare solo uno “studio” firmato da Stefano Merler, matematico della Fondazione Kessler. Per alcuni giorni i due documenti si confondono, cala la nebbia più assoluta. E molti sembrano convinti dell’inesistenza del “Piano”. I due dossier però non possono essere la stessa cosa. Merler infatti, come ricostruito nel “Libro nero del Coronavirus” (clicca qui), viene invitato al Cts a presentare il suo “studio” il 12 febbraio, il giorno stesso in cui il Comitato dà mandato a un gruppo di lavoro di preparare un “Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19”. Il “Piano” verrà realizzato e approvato nella sua “versione finale” il 2 marzo dal Cts, ovvero 10 giorni dopo la presentazione del rapporto Merler. Perché allora non inviarlo ai cronisti? A dire il vero, una versione del “Piano” verrà poi pubblicata dal Corriere. Tuttavia non è mai stato consegnato a governatori, parlamentari o diffuso ufficialmente. Nonostante le numerose richieste. Ad agosto i deputati di FdI, Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, attraverso un accesso civico hanno provato ad ottenerne una copia. Senza successo. Per questo hanno “trascinato il governo” di fronte al Tar, nella speranza che i giudici costringano il ministero della Salute a rendere noto il Piano. L'udienza è stata notificata, ma l’avvocatura dello Stato si è già costituita in giudizio per “resistere al ricorso”. Si preannuncia una battaglia legale. Intanto però la vicenda vola verso Bruxelles. Nell’interrogazione, la Sardone scrive: “Nel ‘Libro nero del Coronavirus’ si parla della strana decisione del Governo di tenere nascosto il ‘piano’ ai governatori delle regioni e allo stesso tempo delle manovre per non divulgarlo alla stampa e al Parlamento italiano”. E visto che “non informare gli italiani è una scelta che alimenta dubbi sulla gestione dell'epidemia”, la leghista domanda all’Ue se Conte ha mai condiviso con Bruxelles il documento e le previsioni drammatiche che conteneva. “L'Europa sapeva? - dice Sardone al Giornale.it - Il governo Conte si è confrontato con Bruxelles? Perché non possiamo vedere i verbali del Comitato tecnico scientifico? Se ci hanno voluto nascondere qualcosa è molto grave, perché con quei documenti sono state prese decisioni fondamentali che hanno inciso sulla vita degli italiani e sull'economia del Paese. Credo che in uno Stato di diritto sia doveroso informare la popolazione dei provvedimenti adottati, specie in un contesto così particolare come quello della pandemia”.

"Governo trascinato in Tribunale". Scoppia il caso sul piano anti-Covid. Il documento venne tenuto "riservato". Presentato un ricorso contro il ministero della Salute. Fdi: "Il governo ha il dovere di informarci". Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 14/10/2020 su Il Giornale. Le uniche cose certe sono due: il gran caos generato dall’esecutivo e dai suoi esperti; e la prossima convocazione del governo, nelle vesti del ministero della Salute, in un’aula di Tribunale. La vicenda è complessa, e parte da lontano, ma in sintesi riguarda quel famoso “Piano nazionale anti-Covid” di cui si parla da aprile, che ha surriscaldato la già bollente estate mediatica e che ancora tiene banco dalle parti di palazzo Montecitorio. Breve riassunto. Ad aprile Andrea Urbani, dirigente del ministero della Salute e membro del Cts, rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui assicura che nelle prime fasi dell’emergenza tutti si sono attenuti ad un “piano secretato” ben preciso, in cui erano contenuti numeri sui contagi da far paura. L’effetto è dirompente. I governatori non ne sanno nulla e protestano. I media lo chiedono a Roberto Speranza, che subito inizia a derubricarlo a semplice “studio di previsione”. Nessun piano, insomma: solo un’analisi. La faccenda sembra finita lì. A maggio però alcuni cronisti fanno un accesso agli atti e il ministero invia loro un altro studio, quello redatto da Stefano Merler, e per un po’ i due documenti si confondono. Speranza insiste che un “Piano” di risposta vero e proprio non esiste e che in realtà si tratta solo di un’analisi previsionale o poco più. Quel documento invece c'è eccome, tanto che alla fine verrà pubblicato dal Corriere, e si intitola proprio “Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19”. Il caos però è assoluto, in alcuni punti anche misterioso, ed è ricostruito - con rivelazioni inedite - nel Libro nero del coronavirus (clicca qui) edito da Historica Edizioni. Nei verbali del Cts, infatti, il “Piano” viene citato più volte e la sua approvazione, che risale al 2 marzo, è successiva di dieci giorni alla presentazione del rapporto Merler. All’interno sono contenute indicazioni su come reagire ad un eventuale contagio: fare scorta di mascherine, aumentare le terapie intensive, incrementare i posti letto in ospedale. Il governo assicura di non averlo secretato e che la riservatezza venne richiesta dal Cts, tuttavia fece una scelta determinante: decise cioè di non condividerlo con le regioni. “Un piano di emergenza sanitaria sicuramente non lo abbiamo ricevuto”, rivela nel Libro nero Vittorio Demicheli, membro della task force lombarda. Come loro, non l’hanno mai visto neppure i parlamentari che pure lo richiedono a gran voce. Ad aprile infatti il deputato di Fdi, Galeazzo Bignami, fa un accesso agli atti per ottenere le circolari e il piano citati da Urbani nella famosa intervista. Ottiene le prime, ma sul “Piano” non riceve risposta. A agosto allora ci riprova, questa volta insieme al collega Marcello Gemmato. “Non ci hanno neppure risposto”, spiega Bignami al Giornale.it. “Già allora immaginavamo che con l’autunno saremmo arrivati a questo punto, col governo che abusa dei suoi poteri per gestire la pandemia. Se queste misure si basano su un qualche ‘piano’, noi vogliamo vederlo”. Scaduti i termini di 30 giorni entro cui la pubblica amministrazione dovrebbe rispondere ad un accesso civico, i parlamentari decidono di avviare il ricorso al Tar. “Non stiamo impugnando il rifiuto a fornirci l’atto - insiste il deputato FdI - ma il fatto che non ci abbiano neppure risposto. Se hanno qualcosa da nascondere dovranno dirlo. Se non hanno nulla da nascondere, dovranno darci il documento”. L’udienza è già stata notificata. I ricorrenti contestano “l’illegittimità del silenzio serbato” dal ministero e chiedono al giudice di condannare l’amministrazione a rendere noto il “Piano”. “Portiamo il governo in Tribunale - dice Bignami - perché non è ammissibile che nasconda dati, informazioni, notizie su cui poi impone agli italiani DPCM su DPCM con misure a dir poco discutibili. Conte vuole un atto di fede? Almeno faccia chiarezza con i parlamentari e fornisca loro i documenti”. Gemmato, per dire, è anche segretario della XII commissione Affari Sociali e Sanità alla Camera dei Deputati: non ha avuto modo di leggere alcunché e ora ritiene di avere un “interesse specifico” a farsi recapitare il “Piano.” Le opzioni alla fine sono due. O il “Piano” al ministero non lo hanno, “e allora è pure peggio”. Oppure ai due ricorrenti arriverà lo stesso atto pubblicato dal Corriere. “Se lo hanno consegnato prima ai giornalisti di area che ai deputati è grave - conclude Bignami - Perché siamo noi ad essere chiamati a votare in nome e per conto del popolo italiano”.

Ora Conte finisce in tribunale: a novembre dal gip per la pandemia. I denuncianti ritengono che il presidente del Consiglio dei ministri e il Governo non abbiano rispettato la Costituzione, già in occasione del provvedimento sullo stato di emergenza. Ignazio Riccio, Sabato 12/09/2020 su Il Giornale. Non finiscono i guai per il presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, indagato a Trento per i reati di attentato alla Costituzione (articolo 283 del codice penale), abuso d’ufficio (articolo 323) e violenza privata (articolo 610). Nonostante la richiesta di archiviazione dello scorso mese di giugno, come riporta Il Tempo, il 17 novembre il premier dovrà varcare la soglia del Palazzo di Giustizia per rispondere alle domande del giudice per le indagini preliminari Claudia Miori. In quella occasione si deciderà se mandare a processo il presidente Conte o archiviare definitivamente. Oggetto delle indagini, le decisioni del governo sul Covid-19 e il lockdown, che ha tenuto chiusi in casa gli italiani per circa tre mesi. L’importante decisione verrà assunta proprio a Trento, dove la procura della Repubblica è stata la prima a raccogliere le denunce dei tanti cittadini italiani infuriati per i Dpcm in tema di Coronavirus adottati dal premier Conte. Le accuse al presidente del Consiglio dei ministri sono precise: non è stata accettata la decisione di chiudere completamente l’Italia; quei provvedimenti, che impedivano alle persone di uscire di casa, di svolgere le normali attività quotidiane, sono considerati dai cittadini un abuso di potere. Tre mesi fa il pubblico ministero del Tribunale di Trento aveva proposto l’archiviazione, ma il giudice per le indagini preliminari Miori vuole approfondire sull’argomento e per questo ha fissato la camera di Consiglio a novembre per decidere se mandare a processo o meno il premier Conte. Ad opporsi contro la richiesta di archiviazione anche lo studio legale Polacco di Roma. I denuncianti ritengono che il presidente del Consiglio dei ministri e il governo non abbiano rispettato la Costituzione, già in occasione del provvedimento sullo stato di emergenza a partire dal mese di gennaio. Secondo l’accusa, sarebbero state violate le norme costituzionali sulla libertà personale, sulla libera circolazione, sulla fruizione della libertà religiosa. A protestare migliaia di cittadini, che vogliono vedere riconosciuti i propri diritti, anche da un’aula di un Tribunale. Ad agosto, per la Procura di Roma, che aveva esaminato gli esposti giunti da varie parti d'Italia, le notizie di reato erano evanescenti, anche se metà Governo è stato raggiunto da avvisi di garanzia, sia pure alla voce atto dovuto. Ad essere indagati, oltre al presidente Conte, sei ministri che con lui hanno condiviso la gestione dell'emergenza Covid: Luciana Lamorgese, Roberto Speranza, Roberto Gualtieri, Lorenzo Guerini, Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede.

Il governo si oppone al ricorso: "Il Piano anti-covid resta segreto". Il ministero "trascinato" in Tribunale: "Resistiamo". Via alla battaglia legale. FdI: "Il governo lavora col favore delle tenebre". Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 15/10/2020 su Il Giornale. Non intende fare passi indietro. Né sottostare alle richieste avanzate da Fratelli d’Italia. Il ministero della Salute, “trascinato in Tribunale” sulla mancata divulgazione del Piano Nazionale anti-Covid, si è costituito in giudizio “per resistere al ricorso” ed opporsi così alle contestazioni di chi vorrebbe maggior chiarezza su un tema piuttosto fumoso. Il ricorso al Tar, rivelato ieri dal Giornale.it, è l’ultimo capitolo di una vicenda che parte da lontano e che, nonostante i tentativi di chiarezza, non è ancora arrivata a soluzione. L’oggetto del contendere è il “Piano secretato” citato da Andrea Urbani, dirigente del ministero e membro del Cts, in un’intervista dello scorso aprile. Un documento su cui gli esperti assicurano di essersi basati per guidare le scelte dell’esecutivo nei mesi più neri del contagio. Ma che ad oggi non è ancora stato presentato in via ufficiale né ai cittadini né ai parlamentari che lo domandano. La genesi del “Piano” è complessa, e viene ricostruita - con particolari inediti - nel “Libro nero del coronavirus” (clicca qui), l’inchiesta pubblicata da Giubilei Regnani che ripercorre tutte le tappe e gli errori della gestione del contagio in Italia. Torniamo allora a gennaio. Quando il premier Conte firma lo stato di emergenza, infatti, l’Italia è sostanzialmente priva di un piano pandemico aggiornato. Non esiste una previsione sul numero di mascherine necessarie o scorte utili a fronteggiare una epidemia, così gli esperti si muovono per ovviare alla mancanza. Il 12 febbraio il Cts invita alla propria riunione Stefano Merler, matematico della Fondazione Kessler di Trieste, già autore di uno studio previsionale in cui ipotizza oltre 2 milioni di contagi e migliaia di morti (mentre tutti si dicono invece sicuri che nulla succederà all'Italia). Quel giorno, dopo aver letto i dati di Merler, il Cts decide di creare un gruppo di esperti per “produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di Piano operativo di preparazione e risposta a diversi scenari di possibile sviluppo di una epidemia da 2019-nCov”. Di questo “Piano” nascono alcune bozze, diventa oggetto di riunioni, e viene citato in diversi verbali delle riunioni del Cts. Fino a quella del 2 marzo, quando viene approvato nella sua “versione finale” e poi presentato, via Angelo Borrelli, al ministro Speranza. Bene. Resta però da capire il perché di tanto mistero. Quando a maggio alcuni cronisti chiedono il dossier attraverso un accesso agli atti, da viale Lungotevere Ripa I fanno spallucce. Sostengono infatti che Urbani si sia sbagliato e che il documento di cui parlava altro non era che lo studio di Merler. Così consegnano ai giornalisti solo quest'ultimo. Per qualche tempo i due dossier (il "Piano" e lo studio Merler) si confondono, gettando fumo su una vicenda già di per sé intricata. Pochi giorni prima, infatti, lo stesso Speranza era comparso di fronte al Copasir per negare l'esistenza di un “Piano”, ribadendo la tesi del semplice “studio di previsione” sui “possibili scenari dell’epidemia”. Niente di più. Eppure nella riunione del 9 marzo il Cts mette a verbale che tutte le “azioni fino ad oggi suggerite ed adottate sono coerenti con i diversi stadi di sviluppo previsti dal piano”. Un "piano", dunque. Non uno "studio". Perché allora derubricarlo? Certo a marzo il Cts aveva chiesto “riservatezza” per evitare che “i numeri arrivassero alla stampa” e scatenassero il panico. Ma perché, una volta esploso il contagio, non renderlo pubblico? È la stessa domanda che si pongono gli onorevoli Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato. Dopo un primo tentativo già ad aprile, ad agosto i due deputati hanno fatto un accesso agli atti per ottenere ufficialmente il testo del “Piano”. Senza però ottenere riscontri. Scaduti i 30 giorni entro cui la Pa deve rispondere ad un accesso civico dei cittadini, i parlamentari hanno deciso di avviare il ricorso al Tar. “Se le misure a dir poco discutibili di questi giorni si basano su un qualche ‘piano’, noi vogliamo vederlo”, dice Bignami. I ricorrenti contestano “l’illegittimità del silenzio serbato” dal ministero e chiedono al giudice di condannare l’amministrazione a rendere noto il “Piano”. L’udienza, come rivelato dal Giornale.it, è già stata notificata. E ieri il ministero della Salute, rappresentato dall’avvocatura dello Stato, ha deciso di costituirsi formalmente di fronte al Tar. L’atto parla chiaro: il ministero si “costituisce in giudizio per resistere al ricorso” presentato dai due esponenti di FdI e chiede di essere “sentito in camera di consiglio”. Si preannuncia insomma una battaglia legale. “Il Governo avrebbe dovuto chiedere scusa agli italiani e consegnarci i documenti - attacca Bignami - Invece si costituisce contro FdI per impedire che gli italiani sappiano cosa sta accadendo. Ma noi non molliamo di un centimetro. Avevamo promesso che li avremmo trascinati davanti ad un Tribunale e lo abbiamo fatto. Ora vogliamo avere giustizia perché il Governo sta agendo col favore delle tenebre senza dire le cose come stanno realmente”.

I familiari delle vittime: "Zero protocolli e troppi morti". "La Lombardia è caduta. L'Italia è caduta. Ma si poteva evitare; se non completamente ma in gran misura l'attacco del virus poteva essere in qualche modo contenuto". Redazione su Il Giornale Martedì 25/08/2020. «La Lombardia è caduta. L'Italia è caduta. Ma si poteva evitare; se non completamente ma in gran misura l'attacco del virus poteva essere in qualche modo contenuto». È la lettera firmata da Luca Fusco, presidente del comitato «Noi denunceremo» che raccoglie i familiari delle vittime del coronavirus. «Abbiamo letto ed analizzato il rapporto del Generale Lunelli - prosegue Fusco - ed emerge la convinzione che lo scandalo relativo all'impreparazione criminale, dei burocrati e non certo dei medici e degli operatori, dell'apparato sanitario abbia proporzioni e contorni ancora tutti da definire. La mancanza di programmazione, sollecitata da organismi internazionali e dall'Europa stessa anni prima dell'emergenza, ha lasciato del tutto indifferente il nostro Ministero della Salute, ed a cascata tutti gli apparati concorrenti, che non si sono minimamente preoccupati di costruire ed applicare, con esercitazioni e test, piani pandemici di difesa. Il risultato è stato più di 35.000 morti e pesanti problematiche economiche e sociali per avranno bisogno di anni, se non di decenni, per essere risolte. Sarebbe stato sufficiente attenersi ai protocolli pandemici indicati nel rapporto del Generale Lunelli, protocolli pensati per salvare vite, protocolli che prevedevano mascherine, posti di terapia intensiva, dispositivi di protezione per chi questo virus doveva combatterlo e non morirci. Sarebbe bastato leggere i protocolli pandemici applicati da paesi confinanti, la Svizzera, oltretutto redatti in lingua italiana e sostituendo la parola cantoni con la parola regioni. Neppure di copiare sono stati capaci. E abbiamo contati i morti. Abbiamo consegnato alla Procura di Bergamo il rapporto Lunelli e tutti gli allegati. Come sempre abbiamo la massima fiducia nelle autorità inquirenti che porteranno alla luce le profonde mancanze e le incapacità evidenti, porteranno alla luce la banalità del male. Noi continueremo la nostra battaglia per tutti coloro che non la possono più combattere».

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 21 agosto 2020. Legnano e Lodi sono nella stessa regione, distano 70 chilometri e le aziende sanitarie rispondono allo stesso assessorato. Eppure sembrano su pianeti diversi, quando acquistano camici per medici e infermieri. A Lodi li pagano 1,80 euro l'uno; a Legnano 7,90 euro. Una differenza del 339%. Non l'unica: dalle visiere alle mascherine, le variazioni di prezzi corrisposti da Regioni e aziende sanitarie in tutta Italia oscillano tra 300% e 800%. Con punte del 4250% sui guanti. L'indagine sulla spesa sanitaria in emergenza condotta dall'Autorità Anticorruzione, la prima di questo tipo, conferma quelle che il commissario straordinario Domenico Arcuri anche ieri ha definito «vergognose speculazioni». Dai primi di marzo, il codice degli appalti è stato di fatto congelato. Le trattative private con le imprese, senza confronto di prodotti e prezzi, da eccezione sono diventate regola in nove casi su dieci. I controlli sui fornitori si sono fatti «superficiali» quando non «assenti», salvo constatare «frequentemente», ma a cose fatte, che non erano in grado di rispettare i tempi concordati (ritardi riscontrati nel 25% dei contratti), non potevano garantire l'intera fornitura o non avevano alcun requisito di affidabilità professionale. Truffe e operazioni di sciacallaggio non sono mancate. Di fronte alla tutela della salute se non della vita, non si è badato a spese. Tra marzo e aprile sono stati spesi per l'emergenza sanitaria 5,8 miliardi di euro attraverso 61.341 contratti. Più della metà per mascherine; il 22% per gli altri dispositivi (guanti, camici, tute); il 7,3% per i ventilatori polmonari che hanno consentito di portare i posti nelle terapie intensive da 5mila a oltre 9mila. Solo il 3%, pari a 178 milioni, per i tamponi, a conferma di una risposta iniziale alla pandemia prevalentemente «ospedalocentrica», a scapito della diagnostica di massa che viceversa ha funzionato soprattutto in Veneto. Anche se diventato operativo solo nella seconda metà di marzo, il commissario Arcuri è stato il principale acquirente pubblico nell'emergenza. Ha speso oltre 2 miliardi su 5,8. La Protezione Civile, incaricata nella prima fase di provvedere per tutti, è riuscita a spendere solo 332 milioni. Anche la Consip ha avuto difficoltà con i suoi bandi. Tra le Regioni, quelle che hanno speso di più in valore assoluto sono Lombardia (6,8% del totale nazionale), Toscana, Emilia Romagna, Piemonte e Veneto. Insieme un terzo della spesa complessiva. Ma per spesa pro capite stravince la Toscana: 101 euro a residente, quasi il doppio del Piemonte mentre la Lombardia è indietro, a 39 euro. Per spesa per contagiato stravince la Campania: oltre 76mila euro, quindici volte quella della Lombardia. Lo scorporo dei dati illumina le diverse risposte dei sistemi sanitari. Toscana e Campania hanno il primato di spesa per mascherine e ventilatori. Emilia Romagna e Veneto per tamponi (insieme il 21% del totale), per l'efficace strategia basata su diagnostica territoriale precoce. La Lombardia, viceversa, ha speso poco per i tamponi (quanto la provincia di Trento, avendo una popolazione venti volte superiore) e molto per gel igienizzante (12% del totale). Le omissioni Con questionari più specifici, l'Anac ha approfondito l'analisi sui singoli acquisti. Hanno risposto 163 amministrazioni su 182 interpellate, sia pure con «omissioni di informazioni sostanziali» che impediscono comparazioni. Per esempio sugli acquisti di disinfettanti basta non indicare la capacità del flacone acquistato (un litro, mezzo o due?) per vanificare la valutazione obiettiva di congruità del prezzo. Ciononostante, l'Anac è riuscita a scorporare le differenza di prezzi su prodotti uguali. Quella sui camici colpisce sia perché il minimo e il massimo sono nella stessa regione, la Lombardia, sia perché si tratta del dispositivo di protezione su cui indaga la Procura di Milano. La vicenda è quella della fornitura concordata dalla Regione con la Dima Spa, azienda del cognato e della moglie del governatore Attilio Fontana. Secondo i dati Anac, l'Azienda sanitaria di Legnano ha pagato i camici 7,90 euro l'uno. Quella di Lodi solo 1,80, grazie a un «acquisto centralizzato», ovvero gestito a livello regionale. Dove però, contemporaneamente, si pagavano 6 euro l'uno i camici prodotti dal cognato del governatore. E addirittura 9 i set composti da camice, cappellino e calzare (ma senza specificare l'incidenza di ciascun pezzo sul prezzo finale). Anche sui copricalzare, peraltro, si possono fare ottimi affari. Il Policlinico San Martino di Genova li ha pagati 0,03 euro; gli Ospedali Riuniti di Foggia ben 1,28. Le visiere variano da 1,40 (Reggio Calabria) a 12,25 (Trapani): nove volte di più, neanche fossero Rayban. Le tute da 6,60 (Modena) a 27,90 (Bolzano). Le mascherine chirurgiche da 0,40 (Bolzano) a 1,82 (Foggia); quelle filtranti FFP2 da 1,33 (Trento) a 9 (Lecce); quelle FFP3 da 3,80 (Siracusa) a 20,28 (Foggia). Anche sui ventilatori polmonari c'è una forte differenza di prezzo pagato da Asl della stessa Regione: meno di 7mila euro a Ferrara, quasi 40mila a Bologna. Su tutti i dispositivi «il range di prezzi è abbastanza ampio», scrive l'Anac. In alcuni casi, soprattutto nella prima fase, «l'elevata variabilità» è giustificata dalla crisi dell'offerta e dallo «stravolgimento dei valori di mercato». In altri no. «Situazioni estreme» da verificare. Tanto che l'Anac ha deciso di svolgere «un supplemento di istruttoria» su 35 appalti «in cui sono state riscontrate criticità di particolare rilevanza». Alla fine l'Autorità potrà infliggere sanzioni ed eventualmente segnalare alla magistratura.

Volti e storie: il gruppo che chiede verità per le vittime del Covid-19. Giusi Fasano il 18/8/2020 su Il Corriere della Sera. Lo scatto mostra una sposa e suo padre che la tiene sotto braccio, la guarda con tenerezza. La sposa si chiama Fabiana Aprea e la fotografia — scrive lei stessa — è del 1 maggio 2019. Il 5 aprile del 2020 quell’uomo è morto di Covid, dopo 27 giorni di ospedale. Aveva 58 anni. «Per fortuna sono riuscita a dirti che saresti diventato nonno...» ricorda Fabiana. «Ci manchi, papà. Continua a guardarmi dall’alto come mi guardavi quel giorno». Anche Maria Rosa Cecere ha scelto di ricordare suo padre mentre la portava all’altare e anche lui è stato sopraffatto dal virus. «Chi non ha vissuto questo dramma non può capire», è la fine del suo breve commento. Ce ne sono altre, di spose e di padri. Ci sono uomini e donne fotografati dai loro figli in ospedale o in videochiamata, con la maschera o il casco dell’ossigeno sul viso. Qualcuno si sforza di sorridere e mi raccomando non state in pensiero, che io sto bene e presto passerà tutto... E poi ci sono centinaia di immagini ripescate dai tempi felici: pranzi di famiglia, vacanze, nipotini, abbracci, l’ultimo Ferragosto insieme.

La Spoon River del coronavirus. È la Spoon River del coronavirus. Parole e fotografie scelte e postate dalle famiglie di chi non c’è più sulla pagina facebook di un gruppo che si chiama «Noi denunceremo — verità e giustizia per le vittime del Covid-19». Nato il 22 marzo, nei giorni più drammatici del lockdown, il gruppo è cresciuto fino a contare oggi quasi 60.500 adesioni (dal 28 aprile è diventato Comitato). Regola madre: non si accettano contenuti che accusino personale medico-sanitario, per il resto si raccolgono testimonianze, racconti di azioni o di non-azioni da mettere a disposizione della magistratura per accertare eventuali responsabilità. Più che denunce, in realtà, spesso accanto alle immagini ci sono saluti, piccole storie di famiglia, memorie di giornate o momenti indimenticabili. A volte soltanto la foto e nemmeno una parola e ovunque tanti, tantissimi puntini di sospensione, spazi per pensieri non scritti e cose non dette.

Le testimonianze. «8 aprile, è stata l’ultima volta che ti ho parlato guardandoti negli occhi» dice Pier Casciavit a sua madre, accanto alla foto di quel giorno. «Credevo saresti uscita da quel maledetto ospedale... Mi manchi tantissimo». Lorena Santedicola ha perso entrambi i genitori che sorridono abbracciati da una fotografia piena di colori. «4 mesi senza voi...» scrive. «Ve ne siete andati a distanza di un giorno lasciando un vuoto enorme. Abbracciatevi sempre così forte». Oriana Scarpa parla dell’uomo di una vita: «Il 2 maggio avremmo festeggiato 50 anni di matrimonio, purtroppo se n’è andato il 20 marzo... L’ho visto salire sull’ambulanza ed è tornato nella bara». Claudia Filippi posta la foto di un uomo davanti a una montagna di caramelle. «Ciao, amore mio... sei stato il regalo più bello della mia vita».

I giorni dello sgomento. Alcuni dei racconti che accompagnano le fotografie entrano nei dettagli, riportano a quei giorni di sgomento collettivo, alle richieste di aiuto disperate, a centralini che non rispondevano mai, ad ambulanze arrivate fuori tempo massimo. Sara Piovanelli, per esempio. Racconta di Pasquale, 47 anni, «mio compagno per 20 anni e papà di Matilde, 16 anni». La febbre, la tosse, 45 giorni drammatici passati a casa, poi quel miglioramento che autorizzava a sperare, il tampone negativo. «Grande festa: io e la Mati in giardino, lui alla finestra. Da quella finestra, per giorni, con una fune ci siamo passati cibo e beni di prima necessità. Mai avrei pensato che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto affacciarsi: nove ore dopo, alle tre di notte, mi chiama, piange, mi dice: sto male, mi scoppia la testa...Non so ancora dire cosa sia successo...parlano di una infezione cerebrale».

I funerali «brevi». Claudio Barbieri condivide il ricordo e la foto di sua madre, morta a 75 anni il 21 di marzo. Parla della breve funzione al cimitero e di «mio padre ottantenne» che «con un filo di voce disse a me e mia sorella: entrate prima voi, eravate i figli. Ci sono tante storie terribili in questo gruppo... Restano solo le lacrime». Stefano Galletti sceglie una bella fotografia di sua madre Lina davanti alla torta dei 60 anni, l’ultimo compleanno che ha festeggiato. Ogni volta che ripensa a quel che è successo sente ancora la voce «straziata e stanca» di suo padre che chiama: «Stefano corri, la mamma è morta». «In questa foto l’anno scorso festeggiavo i miei 30 anni, con mio papà sempre al mio fianco» ricorda Maria Grazia Mirandola in un post caricato ieri. C’è lei in abito rosso e lui che le cinge la vita, nelle mani il bicchiere del brindisi. «Ho pianto abbracciata alla sua bara...il mio cuore è dilaniato. Se solo avesse avuto le cure di oggi...ma a marzo era ancora tutto così sbagliato...”

La poesia. Daniela Racchelli trasforma il messaggio per suo padre in poesia. Accanto al suo viso scrive: «Eri bello/un signore d’altri tempi/Raccontavi la vita (...) Per me è stato semplice amarti». «Ciao a tutti. Il 4 maggio ho perso mio papà dopo 49 giorni di pura agonia», attacca Gianluca Campo dal fianco di una fotografia sfuocata di suo padre, che aveva 64 anni. «Io e mia mamma eravamo schiavi delle telefonate dell’ospedale, di notte eravamo così terrorizzati che potessero chiamarci che non dormivamo...». Susan Randall il 25 maggio parla a suo fratello Pierpaolo, morto a 54 anni. «Si riparte...ma senza di te...Il tuo ristorante resterà chiuso...La vita non sarà mai più come prima». Gli dice «mi manchi...sarei dovuta andare via io non tu. Tu eri il piccolo della famiglia...».

I camion con le bare. La prima delle fotografie mostra i camion dell’esercito carichi di bare portate via da Bergamo. Valentina Cosmai racconta che suo papà Frank era su uno di quei camion. Fu portato a Bologna. La sua famiglia pianse, lei cercò la forza per non farlo: lo immaginò in viaggio verso la sfilata degli alpini dove sarebbe andato, a maggio, proprio in Emilia. Le emozioni emergono da quei giorni come se tutto fosse successo solo un minuto fa. E invece passano i mesi, aspettando verità e giustizia.

"Ho chiesto i danni al governo. Ha abbandonato la nostra città". Il sindaco di Treviso si è già appellato all'avvocatura dello Stato. Nell'ex caserma 300 migranti: 260 positivi. Serenella Bettin, Sabato 15/08/2020 su Il Giornale. «Abbiamo chiesto ai cittadini di fare sacrifici, di rimanere chiusi in casa, abbiamo chiuso le attività; hanno fatto chiudere i bar se per caso c'erano tre persone senza mascherina e poi scopriamo che in una struttura dello Stato fanno quello che vogliono e può succedere di tutto». È furioso il sindaco di Treviso, Mario Conte. Mentre ci sta parlando è in corso una guerriglia a sassate dei migranti dell'ex caserma Serena di Treviso contro la polizia. I richiedenti asilo se la prendono con gli uomini in divisa perché non ne vogliono sapere di fare la quarantena. In quel centro «accoglienza» sono quasi tutti positivi. Da due si è passati a 157. Ora ammontano a 260. Duecentosessanta su 300 ospiti. Il sindaco è sconcertato, oltre che preoccupato per i suoi cittadini e ha deciso di chiedere i danni allo Stato. «Ho dato mandato all'avvocatura dello Stato - spiega in un'intervista al Giornale - per studiare la pratica affinché si chiedano i danni. Per noi è un grosso danno. Per un lungo periodo abbiamo chiesto ai nostri cittadini di fare sacrifici e ora ci troviamo con una struttura gestita dallo Stato e dalla prefettura dove all'interno può succedere di tutto».

Una caserma aperta nel 2015. In questi giorni com'è la situazione lì dentro?

«Io non posso entrare, non ci lasciano fare i controlli. La situazione è molto tesa. E la cooperativa che ha in gestione il centro non riesce a tenere divisi i positivi dai negativi».

Ma il posto per dividerli c'è?

«Sì basterebbe spostarli di palazzina. Positivi da una parte e negativi dall'altra, ma gli ospiti non vogliono. Tutti noi dobbiamo sottostare ai capricci di queste persone».

Alcuni negativizzati sono stati spostati in un'altra struttura.

«Sì hanno trasferito i primi cinque negativizzati. Ma è un continuo trasportare questa gente di qua e di là con un crescendo di paura da parte della popolazione che non vuole contrarre il virus».

Non si può chiudere quella caserma?

«Io sono per lo smantellamento. Salvini aveva iniziato un processo di svuotamento. Ora siamo presi così, con queste persone che fanno ciò che vogliono. Salvini era venuto a vedere la situazione, questi giorni non ho visto una presenza che fosse una da parte del ministro Lamorgese».

Non l'ha nemmeno chiamata?

«No, se non vuole chiamare il sindaco, almeno chiami per solidarietà quei medici con cui i migranti se la sono presa questi giorni. La nostra azienda sanitaria sta facendo uno sforzo enorme per cercare di fare a tutti i tamponi in tempi record e queste persone se la prendono con la polizia, con i medici. La conclusione è che gli unici che mi chiamano e mi chiamate - sorride - sono le tv nazionali, i giornalisti. Capisci che danno possiamo avere».

Avete avuto disdette nel turismo?

«Tantissime disdette, la gente ha paura. Mi sono confrontato con associazioni di categoria e da questa ondata di contagi ne riceviamo sicuramente un danno».

Danni per l'immagine.

«E all'economia. La responsabilità non è di certo dell'amministrazione comunale, è una struttura gestita da una cooperativa che ha vinto l'appalto della prefettura. E lì la responsabilità è dello Stato».

Lei ha provato a parlare con il gestore della struttura?

«È tutto uno scaricare le responsabilità».

 (ANSA il 13 agosto 2020) - Il Presidente del Consiglio Conte e i Ministri Bonafede, Di Maio, Gualtieri, Guerini, Lamorgese e Speranza hanno ricevuto una notifica riguardante un avviso ex art. 6, comma 2, legge cost. n. 1/1989 da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma. L'avviso riguarda la trasmissione al Collegio di cui all'art. 7 della citata legge cost. n. 1/1989 degli atti di un procedimento penale iscritto per i delitti di cui agli artt. 110, 438, 452 e 589, 323, 283, 294 c.p., che origina da varie denunce da parte di soggetti terzi provenienti da varie parti d'Italia. Si tratta di denunce che riguardano la gestione dell'emergenza Covid. La trasmissione da parte della Procura al Collegio - si legge in una nota di Palazzo Chigi che ne ha dato annuncio - in base alle previsioni di legge, è un atto dovuto".

P.Chigi, per Procura denunce infondate, da archiviare. (ANSA il 13 agosto 2020) - "La trasmissione da parte della Procura al Collegio", il tribunale dei ministri, "in base alle previsioni di legge, è un atto dovuto. Nel caso specifico tale trasmissione è stata accompagnata da una relazione nella quale l'Ufficio della Procura "ritiene le notizie di testo infondate e dunque da archiviare"". Lo si legge nella nota di Palazzo Chigi con cui si rende noto che il premier Conte e sei ministri hanno ricevuto un avviso di garanzia in seguito a denunce in relazione all'emergenza Coronavirus.

(ANSA il 13 agosto 2020) - "Il presidente del Consiglio e i ministri si dichiarano sin d'ora disponibili a fornire ai Magistrati ogni elemento utile a completare l'iter procedimentale, in uno spirito di massima collaborazione". Lo si legge in una nota della presidenza del Consiglio in riferimento all'avviso di garanzia ricevuto e sembra già destinato all'archiviazione a Conte e altri sei ministri.

(ANSA il 13 agosto 2020) - L'avviso di garanzia al premier Giuseppe Conte e a sei ministri del suo governo nasce da diverse denunce presentate in tutta Italia in relazione all'emergenza Coronavirus e, a quanto si legge nella nota della presidenza del Consiglio che dà la notizia, riguarda diversi reati. Le denunce, di cui non sono ancora noti i dettagli, chiamano in causa gli articoli del codice penale sulla pena in concorso (articolo 110), epidemia (articolo 438), delitti colposi contro la salute pubblica (articolo 452) e omicidio colposo (articolo 589), abuso d'ufficio (articolo 323), attentato contro la costituzione dello Stato (articolo 283), attentati contro i diritti politici del cittadino (articolo 294).

Emergenza coronavirus, Conte e sei ministri indagati. Gli avvisi di garanzia dei pm di Roma dopo le denunce sulla gestione dell'emergenza. La procura al tribunale dei ministri: "Accuse infondate, vanno archiviate". Sergio Rame, Giovedì 13/08/2020 su Il Giornale. Mezzo governo sotto indagine. Il fascicolo è sul tavolo della procura di Roma che sta indagando sulla gestione dell'emergenza coronavirus in Italia. Nasce da una caterva di denunce depositate da diversi cittadini negli ultimi mesi. Denunce di cui non sono ancora noti i dettagli ma che chiamano in causa gli articoli del codice penale sulla pena in concorso (articolo 110), epidemia (articolo 438), delitti colposi contro la salute pubblica (articolo 452) e omicidio colposo (articolo 589), abuso d'ufficio (articolo 323), attentato contro la costituzione dello Stato (articolo 283), attentati contro i diritti politici del cittadino (articolo 294). Una raffica di accuse che, però, non hanno nulla a che vedere con l'altra indagine, quella in mano ai pm di Bergamo e che sta cercando di far luce sulla mancata "zona rossa" in Val Seriana.

La richiesta di archiviazione. "È un atto dovuto...". Da Palazzo Chigi ci tengono subito ad assicurare che l'avviso di garanzia, che i pm di Roma hanno emesso nei confronti del presidente del Consiglio Giuseppe Conte e dei ministri Alfonso Bonafede, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese e Roberto Speranza, finirà presto in niente. "La trasmissione al Collegio (il tribunale dei ministri, ndr) - spiegano - è stata accompagnata da una relazione nella quale l'ufficio della Procura ritiene le notizie di testo infondate e dunque da archiviare". Ad ogni modo sia il premier sia i ministri coinvolti nell'indagine, nata dalle denunce raccolte in tutta Italia dall'avvocato Carlo Taormina, si sono subito reso disponibili a "fornire ai magistrati ogni elemento utile a completare l'iter procedimentale, in uno spirito di massima collaborazione". "Abbiamo lavorato sempre allo stesso modo - commenta Conte - ci siamo affiancati scienziati ed esperti per disporre costantemente di una base scientifica di valutazione dei dati epidemiologici e abbiamo sempre ispirato la nostra azione ai principi di precauzione e trasparenza e ai criteri di adeguatezza e proporzionalità". Il premier rivendica di essersi sempre assunto "la responsabilità, in primis politica, delle decisioni adottate" e fa notare che si è sempre trattato di "decisioni molto impegnative, a volte sofferte", e che sono state "assunte senza disporre di un manuale, di linee guida, di protocolli di azione". "Abbiamo sempre agito in scienza e coscienza - conclude - senza la pretesa di essere infallibili ma nella consapevolezza di dover sbagliare il meno possibile per preservare al meglio gli interessi della intera comunità nazionale".

Le accuse al governo. Sono oltre duecento gli esposti e le denunce, tutte pervenute durante le settimane in cui il Paese si trovava in lockdown, che nelle scorse settimane i pm di Roma hanno inviato al tribunale dei ministri sollecitandone appunto l'archiviazione. Ma è proprio partendo dalla richiesta di archiviazione che l'avvocato Taormina accusa ora i pm capitolini di esercitare "un'interferenza" sul tribunale dei ministri. "La legge - spiega all'agenzia Agi - non prevede alcun potere delle procure per i reati ministeriali, rientrando ogni competenza nel tribunale dei ministri". "Vedremo cosa farà il tribunale che conserva massima autonomia", chiosa poi il legale ribadendo che l'atteggiamento della procura resta "grave e preoccupante". "Questa magistratura - conclude - è davvero sempre più sconcertante e non accettabile". Le denunce riguardano l'attività svolta dall'esecutivo nella gestione dell'emergenza coronavirus e possono essere sommariamente raccolte in due grandi filo. Il primo riguarda chi accusa i giallorossi di non aver fatto abbastanza nella lotta al virus. In questo caso vengono ipotizzati i reati di epidemia colposa, omicidio colposo e delitti colposi contro la salute pubblica. Nel secondo filone, invece, sono stati raccolti gli esposti in cui si afferma che il lockdown è stata una misura sproporzionata rispetto alla situazione. Da qui sono stati ipotizzati i reati di abuso d'ufficio e attentato contro i diritti politici del cittadino.

I procedimenti aperti. Nel frattempo il Comitato Noi Denunceremo, che raccoglie i parenti delle vittime dell'epidemia di Covid-19, è fermo ad andare avanti, certo che "le denunce non saranno archiviate" dai giudici. "Si basano su presupposti diversi", assicurano. "Se i dati del Comitato tecnico scientifico fossero confermati, Conte dovrebbe essere arrestato", fa eco il leader della Lega Matteo Salvini in diretta da Forte dei Marmi (guarda il video). "Il tempo dirà chi non ha chiuso dove doveva - incalza l'ex ministro - questi hanno sulla coscienza i morti della Lombardia e gli affamati nel resto d'Italia. Hanno chiuso il resto d'Italia quando non dovevano e non hanno chiuso la Lombardia quando dovevano".

Dal Codacons al comitato dei parenti. Ecco chi c'è dietro le duecento denunce. Anche l'avvocato Taormina tra gli accusatori dell'esecutivo. Massimo Malpica, Venerdì 14/08/2020 su Il Giornale. Piove (o forse è troppo secco), governo ladro. La procura di Roma indaga l'esecutivo, annunciando però, insieme alla trasmissione degli atti al tribunale dei ministri, di ritenere infondata la maggior parte degli esposti, che sarebbero dunque destinati all'archiviazione. Le denunce arrivate in procura nei mesi del contagio sono molte, circa duecento, e diversi sono anche i mittenti, alcuni più noti, altri invece semplici cittadini. Per alcuni, a leggere gli esposti, il governo Conte avrebbe fatto troppo poco per arginare l'epidemia (e i reati ipotizzati per questi sono epidemia colposa, omicidio colposo e delitti colposi contro la salute pubblica), altri invece rimproverano proprio le azioni senza precedenti, lockdown in testa, intraprese per fermare il Covid (e per queste denunce in procura si ipotizzano i reati di abuso d'ufficio e attentato contro i diritti politici del cittadino). Due filoni, insomma, speculari nell'obiettivo palazzo Chigi e opposti nel rimprovero mosso al governo. Ma chi ha firmato questi esposti? Molti, spiegano in procura, sono singoli cittadini, pronti a prendersela per la stretta alle libertà personali che ha accompagnato l'epidemia, o appunto furiosi per un approccio giudicato troppo morbido. Tra questi un comitato fondato da due parenti di vittime del Covid-19, «Noi denunceremo», nato su Facebook a fine marzo scorso, e sicuro che i propri esposti non verranno archiviati. Ma tra i denuncianti qualcuno, come detto, non è sconosciuto alle cronache. È il caso, per citarne uno, di Carlo Taormina, avvocato e già sottosegretario al Viminale, poi deputato di Forza Italia, più recentemente vicino al M5s pur restando fuori dalla politica. E Taormina non ha preso bene il distinguo della procura di Roma, che ha trasmesso le sue denunce, che vertevano intorno ai ritardi nella gestione dell'emergenza, nella creazione delle zone rosse e agli errori nelle Rsa, al tribunale dei ministri preannunciandone anche l'archiviazione. «Avevo comunicato che gli atti erano stati trasmessi al tribunale dei ministri per mia denunzia contro Conte e Speranza. La sconcertante novità è che la Procura li ha trasmessi dicendo di archiviare. Il tribunale invece è autonomo e l'unico investito di ogni potere», ha spiegato Taormina, aggiungendo che i morti si sarebbero evitati «se Governo e Regioni avessero chiuso tutto il 31 gennaio». Simile, nelle contestazioni (mancata istituzione di zone rosse in Lombardia e decessi nelle Rsa), anche l'altra serie di esposti contro il governo firmati da una sigla nota e arrivati in procura. Si tratta delle denunce del Codacons, che ieri proprio a margine delle polemiche preventive per l'archiviazione paventata degli esposti targati Taormina, ne ha approfittato per ribadire la fondatezza delle proprie obiezioni all'azione dell'esecutivo. Annunciando, inoltre, che da oggi sarà possibile scaricare un modulo dal sito del Codacons per chiunque, ritenendo di aver subito danni a causa dei reati ipotizzati dalla procura, intenda costituirsi come parte offesa e chiedere un risarcimento.

 Vittorio Feltri, avviso di garanzia a Giuseppe Conte: "Solo mezzo governo indagato? Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. “Mezzo governo indagato per le vicende della pandemia. Solo mezzo?”. È il commento tagliente di Vittorio Feltri riguardo agli avvisi di garanzia ricevuti da Giuseppe Conte e dai ministri Bonafede, Di Maio, Lamorgese, Gualtieri, Guerini e Speranza per la gestione dell’emergenza coronavirus. Centinaia di denunce non potevano essere ignorate: i pm di Roma hanno parlato di atto dovuto, ma non è affatto così scontato che questa storia finisca con un’archiviazione. I reati ipotizzati sono di epidemia, delitti colposi contro la salute, omicidio colposo, abuso d’ufficio, attentato contro la Costituzione, attentato contro i diritti politici del cittadino. A decidere il destino del premier Conte e della sua squadra di governo sarà Clementina Forleo, nota soprattutto per aver avuto tra le mani uno dei fascicoli più caldi degli ultimi dieci anni, quello sulla scalata Unipol e sui presunti complici politici dell’Opa di sinistra. 

 Augusto Minzolini e l'avviso di garanzia a Conte: "Le sue decisioni sono politiche e quelle di Salvini no?" Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. Giuseppe Conte e mezza squadra di governo hanno ricevuto gli avvisi di garanzia per la gestione dell’emergenza coronavirus. Un atto dovuto, quello dei pm di Roma, visto che sono centinaia le denunce pervenute nei confronti del premier e dei suoi ministri. La richiesta è di archiviazione, ma non è così scontato che venga accolta. Intanto si è già scatenato il solito dibattito tra garantisti e giustizialisti. A quest’ultima categoria appartengono i 5 Stelle, che però ci hanno abituato a repentini cambi di idea a seconda di chi riceve l’avviso di garanzia: se a riceverlo sono avversari politici, allora si urla immediatamente allo scandalo ed alle dimissioni, ma se invece sono il premier e i propri ministri, allora la risposta è il silenzio assoluto. “Gli avvisi di garanzia sono tutti uguali - è il commento di Minzolini - pure quelli di Conte. A parte la protezione della magistratura di Travaglio, ad oggi in rapporto alla popolazione l’Italia ha avuto più morti dei tartassati Usa. E al contrario della giustizia italiana, la matematica non è un’opinione”. C’è chi prova a fare un paragone tra la vicenda giudiziaria di Matteo Salvini e quella che potrebbe coinvolgere il premier: “A me Salvini sta sul cazzo - dice Minzolini - ma se le decisioni sull’epidemia prese da Conte erano politiche (con esiti matematici catastrofici), lo erano anche quelle di Salvini sull’immigrazioni (con esiti matematici migliori degli attuali). O no? Mi piace cogliere le contraddizioni”. Poi l’editorialista del Giornale ha spiegato meglio la definizione forte usata per parlare del segretario leghista: “Era solo un’iperbole per sottolineare che non sono un tifoso di Salvini. Poi a me non sta mai sul cazzo nessuno, ci sono sempre delle qualità magari nascoste”. 

Giuseppe Conte a processo per coronavirus: decide il giudice Clementina Forleo, fece tremare D'Alema e sinistra. Libero Quotidiano il 13 agosto 2020. Clementina Forleo deciderà il destino di Giuseppe Conte e della sua squadra di governo. Il premier ha infatti ricevuto l’avviso di garanzia insieme ai ministri Alfonso Bonafede, Luigi Di Maio, Roberto Gualtieri, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese e Roberto Speranza. I pm di Roma hanno parlato di atto dovuto e hanno chiesto l’archiviazione, che però non è così scontata: c’è la reale possibilità che mezzo esecutivo finisca sotto processo dopo varie denuncia provenienti da tutta Italia per i reati di epidemia, delitti colposi contro la salute, omicidio colposo, abuso d’ufficio, attentato contro la Costituzione, attentato contro i diritti politici del cittadino. Spetterà alla Forleo decidere se questa storia finirà con l’archiviazione o meno: proprio lei che ha avuto tra le mani uno dei fascicoli più caldi degli ultimi dieci anni, quello sulla scalata Unipol e sui presunti complici politici dell’Opa di sinistra. Fu lei a chiedere al Parlamento di poter utilizzare le telefonate tra alcuni indagati e gli esponenti di primo piano dei Ds, tra i quali Massimo D’Alema, Piero Fassino e Nicola La Torre. Un’inchiesta che procurò alla Forleo diversi problemi professionali: il Csm aprì contro di lei un procedimento disciplinare e dispose il trasferimento a Cremona. Ad anni di distanza il Tar e poi il Consiglio di Stato le diedero ragione, fino al reintegro nell’ufficio di Milano. Ora ricopre lo stesso incarico a Roma, da dove dovrà pronunciarsi sull’eventuale processo di Conte e della sua squadra di governo. 

Denunce su gestione emergenza Covid. Avvisi di garanzia a Conte e mezzo governo: decide il Tribunale dei ministri, esperto di archiviazione. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Agosto 2020. Spetterà al Tribunale dei ministri di Roma, presidente Maurizio Silvestri, a latere Marcella Trovato e Chiara Gallo, decidere se il premier e mezzo governo dovranno essere processati o meno per i reati di epidemia, omicidio colposo, attentato alla incolumità pubblica, attentato contro la Costituzione e contro i diritti politici dei cittadini, ed altri ancora. A dare la notizia è stato ieri lo stesso Giuseppe Conte con un lungo post sulla propria pagina Fb, subito dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia da parte della Procura di Roma. A fargli compagnia, i ministri Alfonso Bonafede (Giustizia), Luigi Di Maio (Affari esteri), Roberto Gualtieri (Economia e finanze), Lorenzo Guerini (Difesa), Luciana Lamorgese (Interno) e Roberto Speranza (Salute). Nei mesi scorsi erano stati presentati centinaia di esposti da parte di cittadini, avvocati, associazioni di consumatori, circa la gestione dell’emergenza Covid-19 da parte dell’esecutivo. L’avvocato Carlo Taormina era stato fra i primi a denunciare l’inerzia del governo nel disporre il lockdown in quanto “pur avendo saputo fin dal 31 gennaio che il virus era arrivato in Italia, aveva aspettato fino al successivo 8 marzo per ordinare il blocco delle attività e degli spostamenti”. Di diverso avviso, invece, il pm romano Eugenio Albamonte, a cui sono state trasmesse per competenza territoriale tutte le segnalazioni. Per l’ex presidente dell’Anm e ora segretario generale di Area, il correntone delle toghe di sinistra, si tratterebbe di denunce “infondate” e quindi da “archiviare”. Trattandosi di eventuali reati commessi da componenti del governo, l’ultima parola è ora del Tribunale dei ministri, e non del gip, che avrà 90 giorni di tempo per accogliere o meno la richiesta di archiviazione formulata da Albamonte. Il Tribunale dei ministri di Roma in passato ha sempre accolto le richieste di archiviazione della Procura capitolina. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Matteo Salvini. L’allora ministro dell’Interno era stato indagato per la vicenda della nave “Alan Kurdi”. L’imbarcazione della ong tedesca “Sea Eye”, l’anno scorso, era rimasta ferma in mare per dieci giorni con 60 migranti a bordo a seguito del divieto di attracco in Italia disposto dal leader leghista. Venne ipotizzato dai pm il reato di abuso d’ufficio. Con Salvini era stato indagato anche il capo di gabinetto del Viminale, Matteo Piantedosi, la settimana scorsa promosso dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro Lamorgese, prefetto di Roma. Di diverso avviso, per condotte sostanzialmente analoghe, il Tribunale dei ministri di Catania per la vicenda della nave “Open Arms” della ong spagnola Proactiva, bloccata sempre l’anno scorso da Salvini per 19 giorni con 164 migranti al largo delle coste siciliane. I giudici siciliani avevano accolto la tesi dei pm ritenendo Salvini responsabile di “sequestro di persona”. Il mese scorso il Senato ha dato il via libera al il processo. La prima udienza è in calendario per il prossimo 3 ottobre. “Ci siamo sempre assunti la responsabilità, in primis “politica”, delle decisioni adottate in scienza e coscienza, – ha scritto Conte – senza la pretesa di essere infallibili ma nella consapevolezza di dover sbagliare il meno possibile per preservare al meglio gli interessi dell’intera comunità nazionale”. “Io e i ministri siamo e saremo sempre disponibili a fornire qualsiasi forma di collaborazione che ci verrà richiesta, nel rispetto dei distinti ruoli istituzionali”.

 Che boomerang attaccare Conte sulla gestione del Covid. Paolo Delgado su Il Dubbio il 14 agosto 2020. La procura di Roma ha disinnescato in anticipo, con mossa forse inusuale, la bomba rappresentata dagli avvisi di garanzia a carico praticamente dell’intero governo. Ma tentare l’affondo sulla gestione dell’emergenza, come ha fatto spesso incautamente l’opposizione, significa esporsi a una sconfitta annunciata e inevitabile. La procura di Roma ha disinnescato in anticipo, con mossa forse inusuale, la bomba rappresentata dagli avvisi di garanzia a carico praticamente dell’intero governo, o almeno di tutti i ministri coinvolti nella gestione dell’emergenza Covid. Senza la precisazione della procura, che ha notificato immediatamente l’intenzione di archiviare e il giudizio di infondatezza sulle accuse, l’ordigno sarebbe state ad alto potenziale esplosivo. Per giorni e giorni il mondo politico sarebbe stato travolto da una tempesta ed è appunto inusuale accompagnare la notifica di un avviso di garanzia, atto dovuto, con l’annuncio del non luogo a procedere. Ma proprio la procedura più unica che rara conferma quanto controproducente sia per l’opposizione attaccare il governo sul fronte della gestione della pandemia. Di errori, sia chiaro, ce ne sono stati, specialmente all’inizio. Le scelte discutibili, come quella di non dichiarare subito la val Seriana zona rossa ci sono. Ma nel complesso si tratta di frecce spuntate o, peggio di boomerang. Perché tutti concedono giustamente al governo l’attenuante dell’emergenza tanto violenta quanto imprevista. Perché il paragone con gli altri Paesi occidentali depone a favore delle scelte di Conte. Perché la pandemia è stata contenuta in misura superiore se non al previsto almeno al temuto. Perché, pur con tutti i limiti del caso, il governo è uscito promosso dalla prova dura della pandemia un po’ da tutti: dalle istituzioni sanitarie internazionali, dalla Ue, dalla stampa di tutto il mondo e soprattutto dall’opinione pubblica italiana. Tentare l’affondo su quel piano, come ha fatto spesso incautamente l’opposizione, significa esporsi a una sconfitta annunciata e inevitabile. Gli avvisi di garanzia di ieri, va ricordato, riunivano in un unico mazzo tutte le accuse mosse al governo in questi mesi, destinate per ammissione della procura stessa, tutte e ciascuna, a finire nel cestino della carta straccia. Non che il tentativo dell’opposizione sia incomprensibile. L’epidemia ha regalato a Conte e a molti ministri, pur se non a tutti, una popolarità imprevista che spiazza l’opposizione e induce la tentazione di provare a capovolgere la tendenza nell’opinione pubblica. Errore comprensibile ma lo stesso un errore grave. Per l’opposizione quella è una partita persa e insistere per giocarla comunque implica solo riportare il governo e il suo capo ai picchi di popolarità raggiunti nella primavera. Il governo stesso, tuttavia, rischia di trarre dalla facilità con cui puntualmente liquida gli attacchi dell’opposizione, un messaggio sbagliato e in prospettiva controproducente. Rischia cioè di sentirsi tutto sommato al sicuro, protetto dal sempre confortante responso dei sondaggi. Nulla di più sbagliato. Se sul fronte dell’emergenza sanitaria il governo non è criticabile e attaccabile, per l’opinione pubblica, la situazione si rovescia sul fronte della gestione economica dell’emergenza. Non c’è bisogno di rivolgersi alle analisi sofisticate dei sondaggisti. Basta uscire di casa, chiacchierare con i negozianti, con i precari rimasti senza lavoro, con la massa di aziende che hanno chiesto e mai ricevuto i 25mila euro a fondo perduto promessi. Da quel punto di vista, il governo è invece debolissimo, con più fianchi esposti, a rischio di una crisi di consensi che sarebbe esiziale. Da questo punto di vista la vicenda del bonus reclamato da cinque parlamentari è indicativa. E’ vero che l’isteria diffusa si è appuntata contro “la casta”. Ma è anche vero che, tra le righe, sono emersi molteplici segnali di una insoddisfazione che si appunta proprio sulla gestione economica dell’emergenza e bersaglia per ora l’Inps di Tridico ma, senza correzioni drastiche e veloci di rotta, prenderà presto di mira il governo. Il perdurare dell’emergenza sanitaria, tutt’altro che superata nel mondo e incombente in Italia, aiuta Conte e la destra dovrebbe rassegnarsi e farsene una ragione. Ma l’allarme non durerà all’infinito e se Conte non saprà correggere per tempo i limiti già palesati nella gestione dei dl sin qui varati scoprirà a sue spese con quanta rapidità popolarità e quasi” intoccabilità” possano mutarsi nell’opposto.

 Carlo Taormina e l'avviso di garanzia per Conte sul coronavirus: "Una sconcertante novità dalla Procura di Roma". Libero Quotidiano il 14 agosto 2020. C'è del marcio, sospetta Carlo Taormina. Il Principe del Foro è tra coloro che hanno denunciato Giuseppe Conte e il governo per la gestione della prima fase dell'emergenza coronavirus. Giovedì il premier, insieme a vari ministri tra cui quelli della Salute e degli Interni Speranza e Lamorgese, è stato oggetto di un avviso di garanzia, anche se i pm hanno già fatto intendere di volere archiviare tutto. Taormina, in prima fila insieme a Codacons e l'associazione Noi denunceremo, fondata da due parenti di vittime dell'epidemia, ha preso malissimo la decisione della Procura di Roma di trasmettere le sue denunce su ritardi, zone rosse e Rsa con il distinguo della richiesta di archiviazione. "Avevo comunicato che gli atti erano stati trasmessi al Tribunale dei ministri per mia denunzia contro Conte e Speranza. La sconcertante novità - sottolinea Taormina - è che la Procura li ha trasmessi dicendo di archiviare. Il tribunale invece è autonomo e l'unico investito di ogni potere". I morti, ha concluso, si sarebbero evitati "se governo e regioni avessero chiuso tutto il 31 gennaio".

Vittorio Feltri contro Repubblica e Corriere: "Complici del governo, cosa non c'era in prima pagina". Libero Quotidiano il 14 agosto 2020. Vittorio Feltri azzera i giornali principali del Pase. La frecciatina arriva su Twitter, dove il direttore di Libero, senza fare nomi, scrive: "I cosiddetti grandi giornali non danno notizia in prima pagina che mezzo governo è indagato. La completezza dell’informazione è questa? Stampa complice dell’esecutivo". Il riferimento pare però essere chiaro. Nella giornata di oggi, 14 agosto, nè Il Corriere della Sera, né tantomeno Repubblica, lasciano spazio in prima alla notizia che Giuseppe Conte e i ministri sono stati raggiunti da un avviso di garanzia. Il motivo? L'emergenza coronavirus e la sua gestione. Il premier, dunque, assieme ad Alfonso Bonafede, Luciana Lamorgese. Roberto Speranza, Luigi Di Maio, Lorenzo Guerini e Roberto Gualtieri, è ora indagato. Una vera e propria batosta per l'esecutivo che, al di là del risultato finale, fa capire che la malagestione della pandemia ci sia stata ed eccome.

 Stefano Zurlo per “il Giornale” il 14 agosto 2020. I calcoli sono sempre difficili, ma i numeri sono impressionanti: se l'Italia avesse aggiornato i piani contro le pandemie, si sarebbero salvate diecimila persone. Diecimila morti in meno su un totale di 35 mila. «I protocolli erano inadeguati» e l'Italia non ha dato seguito alla richiesta dell'Organizzazione mondiale della sanità, formulata nel 2017, di rivedere le strategie in questa materia sensibilissima. Poi e arrivato il Covid, inatteso e fulmineo, e il Paese si e trovato impreparato. È un atto d'accusa durissimo quello firmato dal generale dell'Esercito Pier Paolo Lunelli, oggi in pensione ma in passato comandante della Scuola per la difesa nucleare, batteriologica e chimica. Il documento, anticipato dal Guardian e presto sul tavolo dei magistrati, dice una verità molto semplice: il governo poteva e doveva fare di più. Non aveva la palla di vetro, davanti a un nemico di fatto sconosciuto, ma se avesse dato retta alle linee guida dell'Oms e del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, si sarebbe trovato a gestire la drammatica emergenza in un altro modo. Il report conferma, sia pure indirettamente e su un altro versante, le carenze e le criticità già evidenziate da alcuni esperti nei mesi scorsi. L'esecutivo dichiarò alla fine di gennaio lo stato di emergenza, poi rimase un mese inerte, senza prendere le necessarie contromisure per fermare l'epidemia che stava arrivando dalla Cina. Le mascherine, per toccare un tasto dolente, erano di fatto introvabili e in ogni caso venivano considerate uno strumento di cui si poteva benissimo fare a meno o da indossare solo in certe situazioni, in una casistica grottesca, confusa e incomprensibile. Non solo, pure i tamponi venivano centellinati e utilizzati solo per certificare la malattia conclamata e non per prevenirla e tagliare la strada al virus, prima che dilagasse come il nemico. Tutti elementi da considerare nel giorno in cui arriva la notizia, diffusa dall'Eco di Bergamo, che la procura della città non ha trovato contraddizioni nel racconto del premier Conte, interrogato il 12 giugno, sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, alle porte della città. Ci furono ritardi, disguidi, estenuanti dialoghi fra Milano e Roma, ma non se ne fece nulla e la situazione precipitò. Si possono attribuire precise e gravi responsabilità politiche a Palazzo Chigi e a Palazzo Lombardia, al governo e alla Regione. Si può riflettere sul tempo perso: Conte venne a sapere che il Cts voleva blindare quei comuni solo dopo due giorni, quando anche le ore e i minuti erano decisivi. Ma è arduo imbrigliare il tutto nel perimetro del codice penale. E suscita sconcerto l'idea di leggere la storia recente come un sterminato verbale di cronaca giudiziaria. Come aveva scritto il Giornale, può essere che anche l'indagine di Bergamo, assai più delicata rispetto all'accozzaglia di denunce ora vagliate dai pm di Roma, si risolva in niente e si concluda con una raffica di archiviazioni. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, proprio l'eventuale flop del procedimento penale potrebbe confermare le mancanze e gli scricchiolii dell'azione del governo e dei governatori. Qualcuno, per esempio, potrebbe cavarsela per aver ubbidito a direttive e norme mal fatte, disegnate in modo astratto e con passo burocratico. Insomma, alla fine occorrerà leggere fra le righe dei provvedimenti che prima o poi i giudici prenderanno. Il governo - come emerge ora in modo netto dall'analisi del generale Lunelli - poteva fare di più. Molto di più. Ma il dibattimento dovrebbe svolgersi lontano dai tribunali.

 “A Bergamo e Brescia crimini contro l’umanità”. I familiari delle vittime scrivono alla Cedu. Il Dubbio il 13 luglio 2020.  Il Comitato Noi Denunceremo – verità e giustizia per le vittime di Covid-19 invia una lettera, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella quale si chiede di vigilare sulle indagini attualmente in corso in Lombardia in quanto potrebbero esserci gli estremi per prefigurare il reato di crimini contro l’umanità. Il Comitato Noi Denunceremo – verità e giustizia per le vittime di Covid-19 invierà lunedì mattina una lettera, indirizzata alla presidentessa della Commissione Europea Ursula Von der Leyen e al Presidente della Corte Europea dei diritti dell’uomo Ròbert Ragnar Spanò, nella quale si chiede di vigilare sulle indagini attualmente in corso in Lombardia in quanto potrebbero esserci gli estremi per prefigurare il reato di crimini contro l’umanità, contravvenendo agli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea oltre che all’art. 32 della Costituzione Italiana. Di seguito il testo integrale della lettera: “Gentile Presidentessa della Commissione europea, Gentile Presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, lo scorso marzo il mondo ha espresso vicinanza al dolore delle nostre comunità di Bergamo e Brescia che, da sole, contano undicimila vittime di coronavirus. Uno scenario unico e senza precedenti sull’intero pianeta. Vi scriviamo per chiedere la vostra supervisione sulle indagini in corso in Lombardia, che stanno seguendo centinaia di denunce legali presentate ai pubblici ministeri in tutta la regione. In Lombardia, sembrano esserci segni di indicibili crimini contro l’umanità”. “Il 2 marzo e il 5 marzo – ricordano i famigliari delle vittime di Bergamo – l’Istituto Nazionale della Sanità ha consigliato al governo di chiudere Alzano Lombardo, Nembro in provincia di Bergamo e Orzinuovi (Brescia). Il prudente sindaco di Orzinuovi e Senatore della Repubblica italiana ha dovuto presentare una interrogazione parlamentare dopo essere venuto a scoprire, leggendo il giornale, che c’erano istruzioni specifiche relativamente alla chiusura preventiva della sua città dopo i primi casi riportati. Sembra tuttavia che queste istruzioni non le abbia mai ricevute. Allo stesso tempo, Alzano Lombardo e Nembro non furono mai chiuse nonostante l’esercito fosse pronto a ricevere la direttiva sull’applicazione della zona rossa”. Quindi proseguono: “Se i pubblici ministeri dovessero stabilire che le mancate zone rosse appartengono alla sfera della politica piuttosto che al diritto penale, risulterà chiaro come la decisione di non contenere la diffusione del virus, in accordo con i pareri della comunità scientifica, sia stata intenzionale: una decisione deliberata di sacrificare vite umane, decine di migliaia di vite, per evitare le ripercussioni politiche derivanti dalla messa in sicurezza di tre città economicamente produttive del Nord Italia. Uno scenario ancora peggiore emergerebbe se il pool di consulenti scientifici nominati dal Tribunale di Bergamo potesse dimostrare mediante analisi epidemiologiche che l’intero paese dovette essere bloccato a causa dei ritardi delle autorità politiche nel prendere una decisione sul destino di queste tre città. Un blocco nazionale che ora sta causando ulteriori incertezze finanziarie in un’economia già stagnante”. Il virus, si legge ancora “ha decimato i nostri anziani nelle case di cura, gli stessi anziani che hanno costruito la prosperità del nostro paese dopo la seconda guerra mondiale. Lo ha fatto in parte grazie a una direttiva regionale approvata l’8 marzo che suggeriva agli ospedali di trasferire i pazienti con coronavirus a basso rischio in case di cura per liberare alcuni letti e far fronte alla incessante domanda durante tutta l’emergenza. Tale direttiva è stata approvata in totale contraddizione con i dati scientifici a disposizione delle autorità pubbliche, che mostravano chiaramente come il virus si stesse dimostrando letale, in particolar modo per i membri più anziani e più vulnerabili della nostra società. A Bergamo, il 32,7% degli ospiti nelle case di cura ha perso la vita durante i primi quattro mesi dell’anno, mentre 1600 è il numero riportato nell’intera provincia di Brescia, solo nelle case di cura per anziani”. “Il governo della Regione Lombardia – rimarca il Comitato – afferma di non poter essere ritenuto responsabile di questo massacro. Le case di cura non avrebbero dovuto accogliere i pazienti con coronavirus a basso rischio nelle loro strutture senza attuare le direttive sulla sicurezza dei loro ospiti che le autorità sanitarie locali competenti avrebbero dovuto avere il compito di stabilire. Sempre la Regione Lombardia ha emanato la delibera n° XI / 2986 del 23/03/2020, attraverso la quale è stato impedito ai medici di base di intervenire a visitare i pazienti non ospedalizzati qualora presentassero sintomi riportabili al virus covid-19, lasciando un monitoraggio esclusivamente telefonico”.

Coronavirus, i parenti delle vittime di Bergamo e Brescia alla Commissione Europea: "Qui un crimine contro l'umanità". Manifesti funebri e scritte di protesta al Alzano Lombardo. Il Comitato “Noi denunceremo - verità e giustizia per le vittime di Covid 19” invia una lettera a Ursula Von der Leyen e al presidente della Corte Europea dei diritti dell'uomo: "Vigilare su indagini, capire perché mancata chiusura del pronto soccorso di Alzano e mancata zona rossa, qui undicimila vittime". Paolo Berizzi su La Repubblica il 13 luglio 2020. "Lo scorso marzo il mondo ha espresso vicinanza al dolore delle nostre comunità di Bergamo e Brescia che, da sole, contano undicimila vittime di coronavirus. Uno scenario unico e senza precedenti sull'intero pianeta. Vi scriviamo per chiedere la vostra supervisione sulle indagini in corso in Lombardia, che stanno seguendo centinaia di denunce legali presentate ai pubblici ministeri in tutta la regione. In Lombardia, sembrano esserci segni di indicibili crimini contro l'umanità". Inizia così la lettera che il comitato 'Noi Denunceremo - verità e giustizia per le vittime di Covid-19' ha inviato alla presidentessa della Commissione Europea Ursula Von der Leyen e al presidente della Corte Europea dei diritti dell'uomo Ròbert Ragnar Spanò. Una lettera-denuncia, per chiedere alle istituzioni europee di vigilare sulle indagini in corso - l'inchiesta aperta dalla procura di Bergamo - su quanto avvenuto in questi mesi nelle terre più colpite dall'epidemia. E soprattutto su due scelte cardine: la mancata chiusura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano Lombardo e la mancata istituzione di una 'zona rossà - come quella subito operativa nel Lodigiano - tra Alzano e Nembro, ai primi segnali di quella che, poi, è diventata una strage. "Come parenti delle vittime vi sollecitiamo a supervisionare le indagini in corso sull'epidemia di coronavirus in Italia, con un occhio vigile sulle potenziali violazioni di alcuni articoli inclusi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In particolare, se deliberate decisioni politiche hanno violato il diritto alla vita di migliaia di membri delle nostre comunità (art. 2); il diritto all'integrità fisica e psicologica dei nostri anziani (art. 3); insieme al diritto alla loro dignità umana (art. 1), oltre che l'art. 32 della Costituzione Italiana". E' una cronistoria di quanto accaduto, quella che il comitato ha inviato a Von der Leyen e Spano. "Il 2 marzo e il 5 marzo l'Istituto Nazionale della Sanità ha consigliato al governo di chiudere Alzano Lombardo, Nembro in provincia di Bergamo e Orzinuovi (Brescia). Il prudente sindaco di Orzinuovi e senatore della Repubblica (Gianpietro Maffoni, eletto con il centrodestra, ndr) ha dovuto presentare una interrogazione parlamentare dopo essere venuto a scoprire, leggendo il giornale, che c'erano istruzioni specifiche relativamente alla chiusura preventiva della sua città dopo i primi casi riportati. Sembra tuttavia che queste istruzioni non le abbia mai ricevute. Allo stesso tempo, Alzano Lombardo e Nembro non furono mai chiuse nonostante l'esercito fosse pronto a ricevere la direttiva sull'applicazione della zona rossa". Le indagini della procura di Bergamo, coordinate dalla procuratrice aggiunta Maria Cristina Rota, hanno portato ad ascoltare nelle scorse settimane il premier Conte, i ministri Lamorgese e Speranza, il governatore Fontana e l'assessore regionale Gallera proprio per ricostruire chi prese quelle decisioni e perché. "Se i pubblici ministeri dovessero stabilire che le mancate zone rosse appartengono alla sfera della politica piuttosto che al diritto penale, risulterà chiaro come la decisione di non contenere la diffusione del virus, in accordo con i pareri della comunità scientifica, sia stata intenzionale: una decisione deliberata di sacrificare vite umane, decine di migliaia di vite, per evitare le ripercussioni politiche derivanti dalla messa in sicurezza di tre città economicamente produttive del Nord Italia", scrivono ancora i 34 firmatari della lettera. Che continua: "Uno scenario ancora peggiore emergerebbe se il pool di consulenti scientifici nominati dal Tribunale di Bergamo (tra loro c'è anche il virologo Andrea Crisanti, che ha avuto un ruolo importante nella gestione dell'epidemia del focolaio veneto, ndr) potesse dimostrare mediante analisi epidemiologiche che l'intero Paese dovette essere bloccato a causa dei ritardi delle autorità politiche nel prendere una decisione sul destino di queste tre città. Un blocco nazionale che ora sta causando ulteriori incertezze finanziarie in un'economia già stagnante".  Ci sono quindi decisioni multiple che si sono incrociate. Quelle del governo e quelle della Regione Lombardia: "Il virus ha decimato i nostri anziani nelle case di cura, gli stessi anziani che hanno costruito la prosperità del nostro paese dopo la seconda guerra mondiale. Lo ha fatto in parte grazie a una direttiva regionale approvata l'8 marzo che suggeriva agli ospedali di trasferire i pazienti con coronavirus a basso rischio in case di cura per liberare alcuni letti e far fronte alla incessante domanda durante tutta l'emergenza. Tale direttiva è stata approvata in totale contraddizione con i dati scientifici a disposizione delle autorità pubbliche, che mostravano chiaramente come il virus si stesse dimostrando letale, in particolar modo per i membri più anziani e più vulnerabili della nostra società. A Bergamo, il 32,7% degli ospiti nelle case di cura ha perso la vita durante i primi quattro mesi dell'anno, mentre 1.600 è il numero riportato nell'intera provincia di Brescia, solo nelle case di cura per anziani. Il governo della Regione Lombardia afferma di non poter essere ritenuto responsabile di questo massacro. Le case di cura non avrebbero dovuto accogliere i pazienti con coronavirus a basso rischio nelle loro strutture senza attuare le direttive sulla sicurezza dei loro ospiti che le autorità sanitarie locali competenti avrebbero dovuto avere il compito di stabilire. Sempre la Regione Lombardia ha emanato la delibera n° XI / 2986 del 23/03/2020,  attraverso la quale è stato impedito ai medici di base di intervenire a visitare i pazienti non ospedalizzati qualora presentassero sintomi riportabili al virus covid-19, lasciando un monitoraggio esclusivamente telefonico. Questa delibera era stata pensata utilizzando il pretesto di evitare la diffusione del virus, ma in molti hanno l'impressione che si volesse utilizzare per coprire il fatto che i medici erano stati lasciati senza dpi (i dispositivi di protezione come guanti, mascherine e camici, ndr), i quali avrebbero dovuto essere forniti proprio dalla Regione. Ci sembra che con tale delibera si sia violato l'art. 32 della Costituzione Italiana, ben sapendo che l'intervento tempestivo dei medici su pazienti che presentavano le prime avvisaglie di Covid avrebbe potuto contenere i ricoveri ospedalieri e il collasso delle terapie intensive. Alla luce di questi fatti ha anche senso presumere che l'intervento della medicina preventiva dei medici di medicina generale sul territorio avrebbe potuto contribuire ad evitare il collasso delle strutture ospedaliere deputate alla medicina di cura". Torna, a questo punto, lo scontro, il rimpallo di responsabilità tra governo centrale e locale: "Allo stesso tempo, la Regione Lombardia sostiene che spettava al governo centrale dichiarare la zona rossa ad Alzano Lombardo, Nembro e Orzinuovi. Al contrario, il governo centrale afferma che anche la regione Lombardia avrebbe potuto farlo se lo avesse voluto, addirittura avrebbero potuto intervenire direttamente i sindaci, in base alla legge 833/78, art. 32. Il rimpallo delle responsabilità a cui stiamo assistendo ci fa comprendere come sia ragionevole pensare che possano sussistere prove di illeciti per i quali nessuno vuole essere ritenuto responsabile. Lasceremo che i pubblici ministeri stabiliscano se tali illeciti rientrano nel diritto penale o si limitano alla sfera politica. Nel frattempo, i parenti delle vittime cercano giustizia. E lo fanno consapevoli del fatto che l'Italia è un paese in cui l'establishment politico è particolarmente abile nell'insabbiare inchieste e creare capri espiatori".

Spunta l'esposto contro il governo: "Uccisi malati in terapia intensiva". Il ricercatore Paquale Bacco, insieme al virologo Giulio Tarro e al magistrato Angelo Giorgianni, presenteranno un esposto contro il Governo e faranno ricorso alla Corte di Giustizia europea per le misure adottate durante la pandemia. Emanuela Carucci, Mercoledì 01/07/2020 su Il Giornale. Insieme al virologo Giulio Tarro ed al magistrato Angelo Giorgianni, il medico ricercatore Paquale Bacco presenterà una denuncia presso la procura della Repubblica di Roma ed un ricorso alla Corte di Giustizia europea contro i provvedimenti presi dal Governo di Giuseppe Conte durante l'apice della pandemia in Italia. I tre esperti lo faranno attraverso la loro associazione "L'Eretico" cui fanno parte già circa 2mila medici e giuristi. Nell'esposto, come si legge in una nota stampa, si mettono in evidenza una serie di aspetti della malagestione dell'emergenza Covid-19 in Italia, in particolare sotto il profilo medico-scientifico, epidemiologico e giuridico. "Approcci diagnostici sbagliati, cure inappropriate, misure di contenimento del contagio e di sicurezza scriteriate, in vigore ancora oggi: per gli esperti dell'Eretico sono stati calpestati i diritti dei cittadini tutelati dalla Costituzione italiana e in sede internazionale" scrivono Tarro, Bacco e Giorganni nella nota. "Noi abbiamo ucciso le persone anche se in buona fede perché si era dinanzi ad una situazione nuova, ma in terapia intensiva è stata applicata una cura sbagliata. Si diceva di non utilizzare gli antinfammatori che ora invece sono alla base della nuova terapia, non veniva utilizzata l'eparina ed è stata effettuata la ventilazione profonda. Io ho visto le basi dei polmoni di pazienti Covid, durante le autopsie, ed erano completamente ustionate perché l'ossigeno puro mandato ad una certa pressione ha creato una vera e propria ustione. Poi si creavano le tromboembolie perché l'ossigeno non circolava in quanto i polmoni erano occlusi. I medici hanno seguito le linee guida del governo utilizzando un protocollo completamente sbagliato. È stato come curare un diabetico con lo zucchero." ha dichiarato a ilGiornale.it Pasquale Bacco. Non è finita. Sotto accusa, nell'esposto, c'è anche l'uso delle mascherine, "per il quale lo stesso ministero della Salute prevede possibili controindicazioni", e la somministrazione del vaccino. Il comitato legale dell'associazione "L'Eretico" ha già predisposto il modulo che i cittadini potranno utilizzare per chiedere al proprio datore di lavoro (o al dirigente scolastico, in caso di scuole) "di assumersi la responsabilità civile e penale per gli eventuali danni alla salute derivanti dall’uso del dispositivo. Un modulo analogo è stato preparato per l’assunzione di responsabilità del medico o del pediatra di libera scelta nei confronti del paziente (e dell’Asl nei confronti del medico) laddove sia disposta la somministrazione di un vaccino obbligatorio. Il consenso informato del paziente è richiesto per legge: eventuali controindicazioni derivanti dalla cura devono essere indicate dal medico perché il paziente possa decidere se accettare o meno la cura e i suoi possibili danni" scrivono gli associati. I moduli sono stati pubblicati sul sito dell'associazione ed "è possibile scaricarli gratuitamente" come fa sapere Bacco. "La cosa più brutta - ha concluso il medico legale -è che nessuno ha chiesto scusa, ora è un dato che sono state applicate le terapie sbagliate e nessuno ha detto «Abbiamo sbagliato»".

CORONAVIRUS, IL GIORNO DELLE DENUNCE LA PROCURA DI BERGAMO PRESA D’ASSALTO. Al grido di “Verità e giustizia per le vittime di Covid-19” depositate le prime istanze a Bergamo. Irene Panighetti su Il Quotidiano del Sud il 10 giugno. Tutti in procura! Oggi è il primo Denuncia Day, ovvero la consegna da parte del comitato «Noi Denunceremo. Verità e giustizia per le vittime di Covid-19» delle prime 50 denunce raccolte dal comitato e che verranno depositate in Procura a Bergamo. «Abbiamo lavorato per molte settimane per arrivare qui, alla nostra prima tappa di questo percorso – spiega il comitato che questa mattina ha chiamato alla mobilitazione dalle 8.30 – davanti alla Procura. Tutti insieme presenteremo le prime 50 denunce; chiunque può partecipare in supporto della nostra iniziativa, denuncianti e non solo». Del resto il comitato lo aveva promesso sin dalla sua istituzione, avvenuta formalmente a fine aprile, dopo un mese di esistenza sui social, in seguito ad un «bisogno di giustizia e di verità per dare pace ai nostri morti che non hanno potuto avere nemmeno una degna sepoltura a seguito della pandemia di Coronavirus», si legge sulla pagina Facebook. L’intento è chiaro: «chi ha sbagliato dovrà rispondere alle nostre domande e assumersi le proprie responsabilità: se qualcuno poteva agire e non l’ha fatto, se qualcuno ha anteposto chissà quale interesse alla vita di migliaia di persone, egli (o essi) paghi penalmente per le sue azioni e risponda delle sue negligenze». Sono decine le storie raccolte dal sito, suddivise in tre ambiti: ciò che è accaduto negli ospedali, le morti nelle Rsa e la mancanza di accertamenti tra i malati a casa e i loro familiari (sezione dall’emblematico titolo: nessun tampone). Da alcune di queste storie si sono originate le azioni legali che, precisa il Comitato sul suo sito, non comportano costi per chi le presenta perché «tutti gli avvocati si sono messi a disposizione del Comitato in forma del tutto gratuita. Tutte le denunce saranno rivolte verso ignoti. Saranno gli organi competenti a valutare le eventuali colpe e i possibili colpevoli». Sul banco degli imputati non si vuole trascinare il personale sanitario, bensì chi ha gestito i meccanismi; è una precisazione evidenziata sin dall’inizio dal Comitato: «non sarà possibile presentare denuncia verso ospedali, medici e personale sanitario, in quanto tutte le denunce saranno presentate a carico di ignoti e non è possibile chiedere un risarcimento economico tramite il Comitato perché tutte le azioni intraprese non hanno alcun fine di lucro». Ma “Noi Denunceremo” non è l’unico soggetto con il quale le procure lombarde si stanno rapportando, anzi: tra chi punta il dito contro la cattiva gestione dell’emergenza e chi si difende, sono decine i fascicoli aperti, ai quali si è aggiunto anche quello, per ora solo conoscitivo (senza ipotesi di reato né indagati) della Procura di Milano che indaga sulla vicenda della fornitura di camici per personale sanitario da parte della Dama Spa, di proprietà di Andrea Dini e Roberta Dini, rispettivamente cognato e moglie di Attilio Fontana, governatore della Lombardia. Una fornitura senza gara d’appalto e con procedure burocratiche controverse. La storia è stata resa nota al grande pubblico dapprima da anticipazioni giornalistiche seguite, nell’illustrazione dettagliata dell’episodio, dalla trasmissione Report andata in onda lunedì. Un’inchiesta che non è stata presa bene dal governatore, che ha incaricato i suoi legali di presentare diffide e querele e, in attesa degli sviluppi della magistratura, si è difeso su Facebook, offrendo la sua versione dei fatti, negando un possibile conflitto d’interessi e attaccando i media: «comprendo che l’esigenza sia far notizia e vendere copie, ciò che non comprendo sono le strumentalizzazioni scandalistiche tese a dare un’immagine distorta della realtà per abietti fini politici», ha scritto su un post precedente alla messa in onda del servizio su Rai3. Dopo aver ricostruito dal suo punto di vista l’intera procedura della fornitura ha concluso: «nell’automatismo della burocrazia, nel rispetto delle norme fiscali e tributarie, l’azienda oggetto del servizio di Report, accompagnava il materiale erogato attraverso regolare fattura stante alla base la volontà di donare il materiale alla Lombardia, tanto che prima del pagamento della fattura, è stata emessa nota di credito bloccando di fatto qualunque incasso. Pertanto nessuna accusa può esser fatta a coloro che nel periodo di guerra al Covid-19 hanno agito con responsabilità e senso civico per il bene comune. Respingo fermamente ogni strumentalizzazione affidando alle autorità competenti la tutela della Regione Lombardia». Ma Fontana è stato chiamato a dare conto della vicenda anche in consiglio: il capogruppo del Pd in Regione Fabio Pizzul sul suo sito ha pubblicato la lettera con la quale il suo partito avanza la richiesta: «Report ha eccepito l’assegnazione attraverso procedura negoziata (affidamento diretto) anziché che con gara a evidenza pubblica, ma questo sarebbe stato permesso dai poteri assegnati nell’ambito dell’emergenza pandemica. Tutta da chiarire, invece, la dinamica dell’intera operazione. Attendiamo chiarimenti».

Il «caso camici» in Regione, i pm indagano per turbativa d’asta. Il Corriere della Sera il 3 luglio 2020. La vicenda della fornitura di camici durante l’emergenza Covid da parte della «Dama spa», società di cui la moglie del governatore lombardo, Attilio Fontana, detiene una quota e che e è gestita dal cognato: la Procura di Milano ha delegato il nucleo speciale di Polizia valutaria a effettuare le indagini. L’inchiesta per turbativa d’asta è ancora a carico di ignoti e, da quanto è trapelato, sarà coordinata dai pm Luigi Furno e Paolo Filippini e dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. Nel fascicolo, aperto lo scorso 8 giugno (allora non aveva nemmeno il titolo di reato) in base a un’inchiesta della trasmissione tv Rai, «Report», è finito anche un esposto del Codacons. La vicenda risale allo scorso 16 aprile quando «Aria spa», la centrale acquisti della Regione Lombardia, ha ordinato 513 mila euro di camici e altro materiale alla «Dama», di cui è socia al 10 per cento Roberta Dini, moglie di Fontana, e gestita da Andrea Dini, erede di una famiglia di imprenditori storici di Varese che producono il noto marchio Paul&Shark.Dopo l’interesse della stampa sulla vicenda, questa la ricostruzione, le fatture sarebbero state stornate e l’acquisito sarebbe stato trasformato in donazione. Sia «Aria» che l’ad Dini, però, hanno sempre affermato che si è trattato di una donazione e che nemmeno un euro è uscito dalla Regione mentre Fontana ha annunciato querele.

I camici forniti dalla moglie del governatore alla Regione Lombardia, ora s'indaga per turbativa d’asta. Pubblicato venerdì, 03 luglio 2020 da La Repubblica.it. Non più a "modello 45", cioè senza ipotesi di reato. Sulla fornitura da 513 mila euro di camici alla Regione Lombardia, durante i mesi dell'emergenza sanitaria, la procura di Milano indaga ora per turbativa d'asta. Anche a seguito di un esposto del Codacons. La vicenda riguarda l'affidamento diretto per la fornitura di camici a Dama spa, società di cui la moglie del presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, detiene una quota e il fratello di lei e cognato del presidente ne è amministratore. L'ordine per l'acquisto della commessa parte il 16 aprile scorso dalla Centrale acquisti della Regione, Aria spa, quando il numero dei contagi e delle vittime per coronavirus è drammaticamente al punto più alto. A beneficiarne, Dama spa, presente nel lungo elenco online dei fornitori del Pirellone, ma sul sito internet istituzionale oltre alla denominazione sociale, non ci sono altri elementi che mettano in evidenza la sua composizione societaria. In Dama - titolare del marchio di abbigliamento Paul& Shark - compare attraverso Divadue srl, con una quota del dieci per cento, Roberta Dini, moglie di Attilio Fontana. E il fratello della signora e cognato del governatore lombardo, Andrea Dini, ne è l'amministratore. Il pagamento dei 513 mila euro avviene più di un mese dopo l'affidamento, il 22 maggio. Poi - dopo una puntata di Report in cui si chiede conto ai soci del contratto - le fatture vengono stornate, e l'acquisto viene trasformato in donazione. Per Andrea Dini, si è trattato solo di un errore. "È una donazione, effettivamente i miei, quando io non ero in azienda durante il Covid, hanno male interpretato la cosa, ma poi dopo io sono tornato, me ne sono accorto e ho immediatamente rettificato tutto, perché avevo detto ai miei che doveva essere una donazione - aveva spiegato Dini in tv - . Le carte ad Aria ci sono tutte. Abbiamo fatto note di credito, abbiamo fatto tutto. Mai preso un euro e non ne avremo mai neanche uno". Ma la versione di un errore, di una donazione computata in vendita per la disattenzione di un dipendente, non convince la procura. Tra i tanti fascicoli su gare e commesse nelle settimane dell'emergenza coronavirus - come anche quello sull'affidamento diretto da parte del sistema sanitario lombardo a Diasorin per i test sierologici - anche per Dama era stato aperto un fascicolo senza ipotesi di reato. Poi per i camici è arrivato in procura anche un esposto dell'associazione dei consumatori. Ora la svolta con un'indagine per turbativa d'asta. Nelle ore successive alla trasmissione, il governatore Attilio Fontana aveva continuato a difendere la scelta del Pirellone. E respinto ogni accusa di conflitto di interessi. "Nessun equivoco - aveva detto - . Sono stati comprati tutti i camici da tutti quelli che li producevano perché noi ne avevamo bisogno".

C’è anche il cellulare della moglie di Attilio Fontana fra gli altri undici sequestrati per il caso camici. Luigi Ferrarella il 25/9/2020 su Il Corriere della Sera. Blitz della Procura di Milano che indaga sulle forniture. Sotto la lente pure le carte della «voluntary disclosure». A non sapere che le Procure di Pavia e Milano non si erano coordinate, e anzi forse nemmeno parlate, nessuno crederebbe a un caso. E invece, 24 ore dopo che i pm pavesi Venditti e Mazza (nell’inchiesta sull’accordo tra Fondazione Policlinico San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test diagnostici Covid) avevano portato via l’intero contenuto del telefono del non indagato presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, nonché dell’assessore alla sanità Giulio Gallera e di altre 7 persone, giovedì la Procura di Milano (nell’inchiesta sulla fornitura/donazione di camici alla Regione da parte della società Dama spa del cognato del governatore) manda la GdF a bussare di nuovo a casa Fontana: stavolta non per il telefono del governatore, pur indagato a Milano per l’ipotesi di concorso con il cognato nella «frode in pubbliche forniture», ma per il telefono della non indagata moglie Roberta Dini, e — contemporaneamente — di 10 persone, tra cui 2 assessori regionali (Raffaele Cattaneo all’Ambiente e Davide Caparini al Bilancio) e 5 dirigenti tutti non indagati. Per Pavia i sequestri erano motivati dal recuperare, sui telefoni di interlocutori del presidente dell’ospedale Angelo Venturi, le chat che avrebbe cancellato poco prima di essere indagato; per Milano servono a colmare i segmenti mancanti nella storia dei camici quale ricostruita sui messaggi sequestrati in estate sul telefonino dell’indagato cognato di Fontana, Andrea Dini. Diverso l’approccio dell’acquisizione milanese: parimenti aggressiva (perché non sono uno scherzo 11 telefoni di persone per lo più non indagate), ma più garantita perché selettiva: in una ottica di pertinenza e proporzionalità, infatti, i pm Furno-Scalas-Filippini hanno fissato una ricerca con 50 parole-chiave nei telefoni solo sulla vicenda-camici, e per di più in contraddittorio con i legali e i periti degli indagati. Ai professionisti che curarono la voluntary disclosure e le dichiarazioni dei redditi di Fontana è stato invece chiesto di esibire i documenti (in parte già noti all’Agenzia delle Entrate) sul suo scudo fiscale nel 2015 di 5,3 milioni illecitamente detenuti nel 2009-2013 in una banca svizzera da due trust delle Bahamas, nei quali la madre dentista (morta a 92 anni) figurava «intestataria», mentre il figlio era «soggetto delegato». Accertamenti analoghi sono stati svolti per avere certezza che, dietro un trust di controllo, la società del cognato (90%) e della moglie (10%) di Fontana sia appunto solo di fratello e sorella.

Coronavirus, esami “pungidito” e caso Diasorin: acquisita copia del traffico telefonico di Fontana. Le Iene News il 24 settembre 2020. Gaetano Pecoraro indaga in questo servizio del 12 maggio sulle scelte della Regione Lombardia, che al tempo ai più veloci ed economici test "pungidito" aveva preferito quelli a prelievo. Il 22 luglio è stata aperta un’inchiesta a Pavia su questo caso, ora la Finanza acquisisce copia del traffico telefonico del governatore Fontana e dell’assessore Gallera. Novità con un blitz della Finanza sul fronte del caso Diasorin e test sierologici in Lombardia di cui vi abbiamo parlato in onda il 12 maggio con Gaetano Pecoraro nel servizio che vedete qui sopra. Il 22 luglio si era saputo da una nota della procura di Pavia dell’esistenza di un’inchiesta nei confronti dei vertici della fondazione Irccs San Matteo e della società Diasorin per le ipotesi di peculato e turbata libertà di scelta del contraente. L’ipotesi della procura è che l’azienda farmaceutica Diasorin possa essere stata favorita nella scelta del policlinico di Pavia dei test sierologici a prelievo e non “pungidito” a discapito di altri potenziali concorrenti. Il 23 settembre i militari della Guardia di Finanza sono andati a casa del governatore della Regione Lombardia Attilio Fontana, della responsabile della sua segreteria Giulia Martinelli, ex compagna del leader leghista Matteo Salvini, e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera per acquisire una copia forense del traffico e dei messaggi dei loro cellulari. Nessuno dei tre risulta indagato. "È grave il fatto che la perquisizione sia avvenuta con modalità non pertinenti alle finalità dell'operazione con un decreto non circostanziato ma applicabile a chiunque”, ha dichiarato l’avvocato di Fontana, Jacopo Pensa, “con evidenti criticità di carattere costituzionale vista la ovvia presenza di conversazioni di carattere istituzionale nel cellulare del presidente Fontana. Sarebbe stato sufficiente un invito a fornire i dati telefonici per raggiungere il medesimo risultato investigativo. Valuteremo se impugnare il provvedimento per una verifica giurisdizionale sulla correttezza formale e sostanziale dell'atto disposto”.

Inchiesta camici in Lombardia: pm, "Diffuso coinvolgimento Fontana". Gdf acquisisce contenuto dei cellulari della moglie e di alcuni indagati. Pubblicato giovedì, 24 settembre 2020 da Sandro De Riccardis su La Repubblica.it. Il cognato a moglie governatore, "Ordine arrivato, non scrivo a lui". I militari hanno fatto una acquisizione selettiva con parole chiave sui cellulari anche degli assessori Caparini e Cattaneo e di Giulia Martinelli, dell'ex dg della centrale acquisti della Regione e di altri funzionari, ma non su quello del governatore Fontana. C'è "il diffuso coinvolgimento di Fontana in ordine alla vicenda relativa alle mascherine e ai camici accompagnato dalla parimenti evidente volontà di evitare di lasciare traccia del suo coinvolgimento mediante messaggi scritti". Lo si legge nella richiesta di consegna dei cellulari ai principali protagonisti del 'caso camici', firmata dalla Procura di Milano, e nella quale viene riportato anche un testo del 16 febbraio in cui Andrea Dini, cognato del governatore, informa la sorella Roberta Dini, moglie del presidente lombardo, in questo modo: "Ordine camici arrivato. Ho preferito non scriverlo da Atti". Lei risponde: "Giusto bene così". Le indagini. Il Nucleo speciale di polizia valutaria della Gdf di Milano sta effettuando acquisizioni di contenuti, mirate e sulla base di parole 'chiave', dei telefoni di indagati e persone coinvolte nella vicenda con al centro la fornitura a Dama spa, società di Andrea Dini, cognato del governatore Attilio Fontana, di 75 mila camici e altri dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Tra i cellulari in questione ci sono quelli di Roberta Dini, moglie di Fontana e titolare del 10% della Dama spa, degli assessori lombardi Davide Caparini, Raffaele Cattaneo e di Giulia Martinelli, capo della segreteria del presidente della Lombardia nonché ex compagna del leader della Lega Matteo Salvini. L'acquisizione è presso terzi, il che vuol dire che i quattro non sono indagati. L'operazione non riguarda il telefono del presidente della Lombardia, ma dell'ex dg di Aria Filippo Bongiovanni e della dirigente della centrale di acquisti regionale (entrambi sono indagati) e si sarebbe resa necessaria alla luce delle testimonianze messe a verbale da testi sentiti nei mesi scorsi. E poi dalle prove documentali raccolte dalle Fiamme Gialle, tra cui i messaggi e le chat scaricati dal telefono di Andrea Dini, il cognato di Fontana (anche loro due sono indagati) e titolare della Dama spa, l'azienda al centro dell'indagine per un affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura trasformata in donazione quando è venuto a galla il conflitto di interessi e quindi mai completata. La Gdf ha acquisito il contenuto anche dei telefonini di alcuni tra il personale dello staff di Fontana e di altri personaggi secondari. Oggi pomeriggio verrà dato l'incarico a un consulente della Procura  per selezionare il contenuto in base a parole chiave, conferimento a cui possono partecipare gli indagati, i difensori ed eventuali loro esperti nominati per le operazioni.  Il materiale contenuto nei telefoni verrà, poi, selezionato con le garanzie dovute. Le acquisizioni mirate e per parole chiave dei contenuti dei telefoni di alcuni 'protagonisti' e indagati del cosiddetto 'caso camici' stanno riguardando in particolare funzionari e dirigenti della Regione e di Aria spa, la centrale acquisti regionale. Nei mesi scorsi gli investigatori, coordinati nell'inchiesta dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, avevano sequestrato il telefono di Andrea Dini, patron della Dama, società di cui la sorella di quest'ultimo e moglie di Fontana, Roberta Dini, detiene il 10%. Nell'inchiesta figurano quattro indagati. Per frode in pubbliche forniture Fontana, oltre a Dini, Filippo Bongiovanni, ex dg di Aria (entrambi accusati anche di turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente) e a una funzionaria di Aria. L'inchiesta verte sul caso dell'affidamento senza gara del 16 aprile di una fornitura di 75 mila camici e altri Dpi anti Covid per oltre mezzo milione di euro. Fornitura basata su un contratto tra Aria, la centrale acquisti regionale, e Dama. Un affidamento poi trasformato in donazione quando venne a galla il conflitto di interessi della società dei familiari del governatore e quando 'Report' iniziò ad interessarsi alla vicenda.

Caso camici Lombardia, indagato il cognato di Fontana. Pubblicato mercoledì, 08 luglio 2020 da La Repubblica.it. Andrea Dini, il titolare della società Dama srl e cognato del governatore Attilio Fontana, e Filippo Bongiovanni, dg della società Aria, la centrale di acquisti di Regione Lombardia, risultano indagati dalla Procura di Milano per il reato di turbativa d'asta nell'ambito dell'inchiesta sui camici. Al centro del fascicolo la fornitura di materiale sanitario per 513 mila euro durante i mesi più duri dell'emergenza Covid. Nell'ambito dell'inchiesta i pm hanno ascoltato in questi giorni come testimoni anche l'assessore Raffaele Cattaneo e Francesco Ferri presidente della società Aria. Gli inquirenti hanno sentito funzionari regionali fino a tarda sera. I militari della Guardia di Finanza del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria oggi sono andati anche negli uffici di Regione Lombardia per acquisire la documentazione relativa ai contratti stipulati dal Pirellone con la società di cui la moglie del governatore lombardo Attilio Fontana detiene una quota e che è gestita dal cognato. Con la visita della Guardia di Finanza negli uffici regionali prende concretamente il via l'indagine per "turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente" a carico di ignoti coordinata dai pm Luigi Furno, Carlo Scalas e Paolo Filippini e dall'aggiunto Maurizio Romanelli. Fascicolo che sta cercando di far luce sull’ordine per l’acquisto della commessa del 16 aprile scorso, partita dalla Centrale acquisti della Regione, Aria spa, quando il numero dei contagi e delle vittime per coronavirus era al massimo. A beneficiarne, Dama spa, società proprietaria del marchio "Paul&Shark". Il pagamento dei 513 mila euro era avvenuto più di un mese dopo l’affidamento, il 22 maggio. Poi — dopo le domande dei giornalisti di Report a Fontana — le fatture sono state stornate e l’acquisto è stato trasformato in donazione. Per Dini e Fontana si era trattato solo di un errore e il governatore ha sempre dichiarato di non saperne nulla. Ma la versione di una donazione considerata come vendita per la disattenzione di un dipendente non convince la procura. Al vaglio degli inquirenti ci sono anche delle anomalie, come ad esempio il fatto che la fornitura non si stata portata a termine e di camici ne siano arrivati meno del previsto.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 luglio 2020. L'imprenditore Andrea Dini, cognato del presidente leghista della Regione Lombardia Attilio Fontana, e l'avvocato Filippo Bongiovanni, direttore generale di «Aria spa», società della Regione che funziona da centrale acquisti dell'amministrazione, sono indagati per l'ipotesi di «turbata libertà nel procedimento di scelta del contraente» nella fornitura/donazione di 82.000 camici, copricapi e calzari sanitari per un valore (poi mai liquidato) di 513.000 euro. Affidamento diretto all'azienda «Dama spa» (controllata dal cognato del presidente della Regione e partecipata con il 10% dalla moglie di Fontana), che poi vi rinunciò e lo tramutò in donazione benefica alla Regione a cavallo dell'interesse giornalistico della trasmissione tv Report . Mentre ieri il Nucleo di Polizia Valutaria della Guardia di Finanza acquisiva in Regione i documenti sulla vicenda, in Procura i pm Furno-Scalas-Filippini interrogavano, come persone informate sui fatti, prima due funzionarie della «task force» regionale per il reperimento di mascherine e camici; poi il responsabile di questa unità, l'assessore regionale all'Ambiente, Raffaele Cattaneo, ex presidente del Consiglio regionale; e infine il presidente di «Aria spa», Francesco Ferri, ex vicepresidente nazionale dei giovani industriali, nel 2017 tra i selezionatori del casting di Berlusconi di futuri candidati di Forza Italia. Tutte audizioni volte a chiarire se «Dama spa» dovesse sottoscrivere o meno il «Patto di integrità» nei contratti regionali (con annessa dichiarazione sui conflitti di interesse), e chi a Palazzo Lombardia fosse al corrente della parentela tra il governatore e l'imprenditore che dalla Regione aveva ricevuto l'ok alla riconversione aziendale per produrre i dispositivi sanitari venduti/donati. Alla Regione, che nel picco di emergenza Covid li cercava dappertutto, i camici all'inizio furono proposti a titolo di fornitura da «Dama spa», l'azienda del marchio Paul&Shark, gestita dal cognato e partecipata al 10% dalla moglie Roberta del presidente della Regione. Il 16 aprile la centrale acquisti regionale «Aria spa» (guidata da Bongiovanni, ex ufficiale della GdF per 26 anni) dispose un ordine di acquisto con affidamento diretto a «Dama spa», la quale emise una fattura con pagamento a 60 giorni e iniziò a consegnare una parte del materiale (7.000 set e 49.353 camici da 359.000 euro). Ma il 20 maggio con una mail la ditta «Dama spa» tramutò quella fornitura in donazione benefica alla Regione: «Come anticipato per le vie brevi, la presente per comunicare che abbiamo deciso di trasformare il contratto di fornitura in donazione. Certi che apprezzerete la nostra decisione, vi informiamo che consideriamo conclusa la nostra fornitura». E contestualmente emise note di storno con le quali rinunciò ai futuri pagamenti della fornitura. Questo cambio - da fornitura a donazione - sarebbe però arrivato dopo che un giornalista di Report , Giorgio Mottola, sulla fornitura stava iniziando a porre alcune domande sia alla Regione di Fontana sia all'azienda di cognato e moglie. Nelle scorse settimane, mentre Dini ha evocato un iniziale fraintendimento interno all'azienda all'epoca dell'iniziale proposta di vendita anziché di donazione, Fontana ha accennato all'«automatismo della burocrazia» pur nel rispetto delle norme, affermando: «Non sapevo nulla della procedura e non sono mai intervenuto in alcun modo: in quel momento venivano comprati tutti i camici da tutti quelli che li producevano. Dall'azienda di mio cognato sono stati donati, e la Regione non ha eseguito alcun pagamento».

Nove euro a camice e un intermediario per piazzarli: nuove accuse per il cognato di Fontana. Luca De Vito su La Repubblica il 12 luglio 2020. La procura di Milano sta valutando l'ipotesi di contestare il reato di frode in pubbliche forniture, attualmente il fascicolo è aperto per "turbata libertà nel procedimento di libera scelta del contraente". Un tentativo concreto e documentato di piazzare i camici rimasti fermi, i famosi 25mila pezzi (della commessa da 75mila) mai inviati alla Regione da parte di Dama, la società di Andrea Dini, cognato di Attilio Fontana: con un'offerta definita a 9 euro per ciascun camice, contro il prezzo di 6 euro che era stato fatto ad Aria, la centrale acquisti del Pirellone. Per la procura è la prova che le intenzioni dell'imprenditore erano molto lontane dal desiderio di fare una donazione, visto che la consegna della partita di camici sarebbe stata bloccata (e dichiarata regalo) solo dopo che Report ha sollevato il caso del conflitto di interessi. Una rinuncia non irrilevante e apparentemente inspiegabile in piena emergenza sanitaria, quando le terapie intensive degli ospedali erano ancora colme di pazienti e nelle case di riposo mancavano i dispositivi di protezione: in quel momento la Regione aveva un fabbisogno giornaliero di circa 50 mila camici. Non solo. Il sospetto degli investigatori è che lo stop sia arrivato come una sorta di risarcimento per la mancata compravendita: sfumato per colpa delle domande scomode l'affare da 513 mila euro (poca cosa per Aria, ma cifra non trascurabile per un'azienda come Dama in un momento di difficoltà come quello dell'emergenza Covid), una parte delle spese avrebbe dovuto essere recuperata mettendo sul mercato quei 25 mila pezzi, dando per "persi" i primi 50 mila trasformati in donazione. I magistrati sono in grado di provare che la partita residua sia stata messa in vendita tramite un intermediario attivo sul territorio di Varese. A questa figura il compito di trovare un'acquirente e piazzare i camici per cercare di rientrare delle spese e a lui anche la promessa di una provvigione: il 10 per cento dell'importo ogni mille camici venduti. Questi passaggi - che secondo quanto riscontrato dalla procura sono avvenuti dopo le domande di Report - fanno valutare ai pm Paolo Filippini, Luigi Furno e Carlo Scalas, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, l'ipotesi che ci si trovi di fronte a un altro reato, ovvero quello di frode in pubbliche forniture. Al momento il fascicolo è aperto per "turbata libertà nel procedimento di libera scelta del contraente" e gli indagati sono due: oltre ad Andrea Dini, anche Filippo Bongiovanni ex numero uno di Aria (venerdì ha chiesto di essere assegnato ad altro incarico). A fare da sfondo c'è il ruolo di Aria nei mesi dell'emergenza Covid. La centrale acquisti del Pirellone in quel periodo ha speso qualcosa come 300 milioni di euro per raccogliere sul mercato il maggior numero possibile di dispositivi di protezione: una ricerca spasmodica che è stata rivolta a tutti coloro che erano in grado di fornire materiale utile. In quei giorni l'assessore regionale Raffaele Cattaneo era a capo della task force che raccoglieva le offerte in arrivo dalle aziende. La procedura prevedeva che Bongiovanni si occupasse delle certificazioni e solo in un secondo momento i privati si sarebbero potuti interfacciare con i dipendenti di Aria. Una volta finalizzato l'accordo con Dama però, sarebbe stato lo stesso Bongiovanni a rendersi conto che tra i fornitori c'era anche la società del cognato di Fontana: così la notizia sarebbe stata riportata subito al vertice del Pirellone. Dopo sono arrivate le domande di Report e, nell'ipotesi della procura, il tentativo di metterci una toppa con la storia della donazione.

Virus, i racconti dall'inferno: "Aveva le orecchie giallastre..." Il "denuncia day" a Bergamo: i parenti delle vittime consegnano 50 esposti in procura. Il comitato "Noi denunceremo": "Vogliamo giustizia". Giuseppe De Lorenzo Mercoledì 10/06/2020 il giornale. Sono storie. Colpiscono come un dardo. Sconvolgono. Sono i nomi dei cinquanta residenti della Bergamasca che oggi si sono presentati in procura per consegnare le prime 50 denunce sulla morte di loro cari nella speranza di "cercare la verità" e "avere giustizia". Armando, Ermenegildo, Renato, Ida, Antonio, Angelo e tutti gli altri. Uccisi dal virus e chissà, ma questo dovranno stabilirlo i pm, da eventuali errori nella gestione della pandemia. Sono le vicende di chi ha visto salire una banale febbre, di chi ha subito l’aggravarsi del morbo, chi è rimasto senza fiato, chi dall’ospedale telefonava a casa e piangendo pregava i parenti "di portarlo via". Non voleva morire solo. L’incubo di Monica inizia il 23 febbraio, quando il marito Armando inizia ad mostrare una “febbre altalenante”. Il medico suggerisce la tachipirina, ma il termometro non scende. “Decido di chiamare il numero coronavirus - racconta la donna - ma mi assicurano che non avendo tosse e non avendo frequentato cinesi non era coronavirus”. In breve tempo si ammala anche lei, mentre la febbre del marito sale fino a 40,2 gradi. Qualcosa non quadra. I due vanno all’ospedale Giovanni Paolo di Bergamo senza il consenso del medico. “Mio marito aveva 66 anni era un artigiano ed era nel pieno del attività lavorativa". Un uomo “pieno di vitalità e forza”, che però sta per iniziare una vera e propria “agonia”. Prima il rapido peggioramento, poi la terapia intensiva. Armando viene intubato e i dottori provano tutte le cure ‘off label’ (“ho capito che mio marito stava facendo da cavia”). Infine, il 27 marzo, alle 10.30 arriva la chiamata: è morto. "Sono riuscita a vederlo - ricorda Monica - non era più lui. Ho cercato in viso un piccolo porro che aveva sotto un occhio per essere sicura. Era invecchiato di 20 anni dopo quasi un mese di terapia intensiva". Monica è convinta che “se non fosse stato obbligato a stare a casa per una settimana i suoi polmoni non sarebbero arrivati a quel deterioramento e poteva essere salvato”. Per questo chiede giustizia. Ci sono poi i morti nelle Rsa, altro capitolo di una storia ancora tutta da scrivere. Maria Consuelo racconta che quando a fine febbraio iniziarono a circolare le notizie sul virus e “a noi parenti ci fu imposto di indossare le mascherine”. Eppure “notai che infermieri, medici e personale delle pulizie non indossavano nessun Dpi”. “Mi ritrovai a parlare con il personale del reparto di papà - continua - e alla domanda perché io con la mascherina e loro no mi sentii rispondere che al momento non era ancora obbligatorio, che addirittura avevano avuto disposizione di non indossarle per non spaventare gli ospiti e sottovoce mi dissero che comunque le mascherine non erano disponibili per il personale”. Non solo. Un giorno, “mentre attendevo l’infermiera al cancello vidi arrivare una Croce Rossa dove scese un operatore in tuta bianca, mascherina, guanti e occhiali: si avvicinò al cancello e al citofono chiese dove portare un paziente Covid che aveva con sé”. In questo contesto, le condizioni di Ermenegildo peggiorano. Il 3 aprile, alle 2.25 di notte squilla il telefono: “Papà è deceduto”. “Non l'ho più rivisto - ricorda Maria - perché fu subito messo in una bara e portato al cimitero in attesa di cremazione". A distanza di un mese ancora non sa se la causa del decesso è stato il virus oppure no. Nessuno l'ha sottoposto a tampone. Scorrendo le denunce, emerge che molti dei racconti ruotano attorno all’ospedale di Alzano Lombardo, chiuso e poi subito riaperto. Il 24 febbraio Monia accompagna suo padre Angelo al “Pesenti Fenaroli” per una visita dall'urologo, confermata nonostante il caos. “Ci siamo accorti che in ospedale circolava moltissima gente - racconta la donna - Nessuno, a parte gli infermieri, aveva la mascherina, noi compresi. Fatta la visita tornammo a casa e il pomeriggio del giorno seguente, 25 febbraio, sia mia mamma che mio papà iniziarono a presentare sintomi riconducibili al Covid: modo mio papà aveva la febbre a più di 39°, dissenteria, difficoltà respiratorie, mal di gola e perdita di olfatto e gusto". Due giorni dopo viene “intubato e portato alla Poliambulanza di Brescia dove è morto il 13 marzo 2020”. Qualche settimana prima, quando ancora di Covid non si parlava, una infermiera di Seriate aveva informato Monia che “in questo reparto è pieno di polmoniti”. Che il virus circolasse da giorni in Lombardia sembra ormai scontato. Nessuno lo sapeva, ma intanto si insinuava nei nosocomi, in casa, nelle famiglie. Forse è per questo che Gianfranco, dopo essere stato al nosocomio di Alzano Lombardo per un altro problema, inizia a mostrare i sintomi di una influenza “alquanto strana, molto diversa dalle solite". È il 24 febbraio. Con lui si ammala anche la moglie, Annamaria. “Lasciava una stanchezza mai provata, febbre e una nausea che dava un cattivo sapore alla bocca”, racconta lei. Nessuno però ci fa caso e Annamaria continua a far visita al padre Antonio, un uomo in salute “non affatto un vecchietto malconcio”. Il 3 marzo però anche Antonio inizia a star male: febbre alta, tosse, spossatezza. “Non era più in grado di camminare”, racconta la figlia. “Ricordo di avere osservato il colorito delle sue orecchie: erano giallastre con venature bluastre”. Il 10 marzo Antonio muore. Intanto Gianfranco sta ancora lottando contro il morbo. La moglie, che non ha nemmeno fatto in tempo a piangere il decesso del padre, chiama il 112 ma si sente rispondere respingere. "Non potevano venire poiché stavano ricevendo troppe chiamate e dovevano privilegiare le più urgenti". Sono momenti drammatici, lunghissimi. Quando i due coniugi vanno all’ospedale di Seriate il quadro è angosciante: "Al pronto soccorso è stato come entrare in un girone dell'inferno - racconta Annamaria - Grandi teli erano stesi a far da divisorio con l’esterno ed oltre essi si intravedevano moltissime persone, pazienti". Il marito guarirà, ma “la sua capacità polmonare è ridotta e mal sopporta il minimo sforzo fisico”. Nemmeno Annamaria sarà più la stessa. “È la prima volta che scrivo di quanto successo, e mi accorgo di vivere nell'incubo che qualcosa ritorni e colpisca me o altri membri della mia famiglia. Il giorno 11 marzo la salma di mio padre è stata messa dal servizio di pompe funebri in un sacco nero e portata via. Nessuno è potuto andare a vedere la salma, non sappiamo se sia stato vestito o se gli siano stati messi fiori come avevamo richiesto”. Il corpo finisce ad Alessandria, cremato. Alla sepoltura metà della famiglia, che abita in un comune diverso, non può partecipare. È la legge. “A tutt'oggi non mi sono ancora resa conto che non ci sia più e non riesco nemmeno a piangerlo”.

«Lavoravo senza difese e ho preso il virus: licenziato dal Don Gnocchi dopo la denuncia». Hamala Diop è un operatore che stato lasciato senza protezioni e si è ammalato di Covid. Quando ha osato scoperchiare la tragedia che avveniva all'interno del gigante della sanità privata, è stato cacciato. Gianfrancesco Turano il 09 giugno 2020 su L'Espresso. Il 7 maggio il Don Gnocchi ha licenziato Hamala Diop, uno dei diciotto dipendenti della Ampast, una grossa cooperativa (225 addetti, 127 soci e 6 milioni di euro di ricavi) diretta dal senegalese 'Ndiaye Papa Waly. I diciotto lavoratori del Palazzolo avevano denunciato pubblicamente le condizioni di lavoro ad altissimo rischio durante la pandemia. Con un bilancio di 140 decessi da Covid-19 forse non avevano tutti i torti, anche perché tutti e diciotto si sono ammalati. Diop è l'uomo simbolo della protesta. Ha 25 anni ed è arrivato dal Mali quando ne aveva dieci. Il suo processo di integrazione è rispecchiato meglio di tutto dalla qualità impeccabile del suo italiano. È cresciuto a Milano con la passione del basket e ha giocato da ala piccola nelle squadre satellite dell'Olimpia in B silver e C silver. Un mondo di sport dilettantistico con piccoli rimborsi spese che non ha nulla a che vedere con gli ingaggi di un Mario Balotelli. «Al don Gnocchi», racconta Hamala all'Espresso, «ho iniziato esattamente tre anni fa, il primo giugno 2017 dopo un periodo in una ditta come operaio e un'esperienza in un'altra struttura sanitaria. Mi piaceva fare un lavoro che aiuta la gente e l'Ampast mi ha preso come operatore sanitario con un contratto part-time di 35 ore settimanali da mille euro mensili». Diop è stato positivo al Covid-19 per cinquanta giorni fra marzo e maggio. Era ancora malato il 17 aprile quando è stato raggiunto da una “dichiarazione di non gradimento dell'azienda nei suoi confronti”, da un sommario procedimento disciplinare e, come si è detto, dall'interruzione del rapporto di lavoro con l'Ampast. Diop e i suoi colleghi avevano reso di dominio pubblico le loro contestazioni attraverso un comunicato ripreso dalle piattaforme del sindacato Usb e per mezzo di dichiarazioni ai media che l'azienda, in una replica firmata dai legali della Fondazione diffuso il 23 marzo, contesta dicendosi perfettamente in regola con i dispositivi di sicurezza fin dal 24 febbraio. La fondazione parla di “grave e infondata accusa” in relazione all'ordine dato agli addetti di non usare le mascherine per non spaventare i pazienti. L'Espresso è però in grado di pubblicare una mail del management del don Gnocchi, i cui vertici sono sotto inchiesta per omicidio colposo e strage colposa, di tenore molto differente rispetto alle dichiarazioni precedenti. La lettera, datata 9 marzo, è spedita dal direttore del personale Enrico Mambretti a una ventina di dirigenti, alla presidenza (don Vincenzo Barbante) e alla direzione generale (Francesco Converti) e ha come oggetto le linee di comportamento per la gestione e le presenze dei collaboratori in base al Dpcm pubblicato il giorno precedente, domenica 8 marzo. Si parla di «favorire la messa in ferie del personale che attualmente, e in vista delle intuite evoluzioni, possa non essere immediatamente utile, soprattutto se poco collaborante VEDI AD ES. LA “PRETESA” DI ESSERE DOTATI DEI DPI ANCHE NEI CASI NON PREVISTI (in maiuscolo nel testo, ndr)». «Semplicemente», conclude Mambretti, «limiterei il ricorso al lavoro da casa, contenendo eventuali derive da panico, mettendo piuttosto il personale che tende a polemizzare o a volere i DPI in ferie come sopra». Insomma, i piantagrane che insistevano per lavorare con i Dpi (dispositivi di protezione individuale) venivano tenuti a casa. All'inizio i dipendenti che avevano firmato la causa erano in 22. Poi quattro non hanno retto alla pressione e si sono ritirati. Altri quattro che erano a partita Iva si sono visti cancellare il contratto e tre degli altri lavoratori in causa sono stati trasferiti in provincia di Varese dove la fondazione ha una Rsa, la Santa Maria al Monte di Malnate, anche questa colpita dal Covid-19 con nove morti e almeno 85 positivi. «Qui pensano soltanto ai soldi, sia alla fondazione sia alla cooperativa», dice Hamala. «Non è giusto che chi lavora nella sanità pensi unicamente al profitto. Va bene guadagnare ma non puoi pensare solo ai soldi. Non so come andrà la causa ma non tornerei a lavorare per chi mi ha quasi ammazzato e non parlo solo della fondazione ma anche della cooperativa che avrebbe dovuto difenderci. Un mio collega che si è ammalato vive da solo, non riusciva nemmeno a fare la spesa. I vicini di casa ogni tanto gli passavano un piatto di pasta». L'avvocato romano Romolo Reboa che segue il caso di Diop punta l'indice anche sulla sospetta interposizione della cooperativa Ampast nel rapporto di lavoro. «Abbiamo constatato», dice, «che c'erano due tipi di contratto: uno di serie A con la fondazione Don Gnocchi e uno di serie B con la cooperativa, con costi ovviamente inferiori». E qualche controllo in meno. «Spesso ho avuto problemi con le buste paga», racconta Hamala. «Un mese mi hanno tolto quasi trecento euro su mille perché non avevo compilato il foglio ferie. Anche sui turni c'erano problemi. Un mese lavoravo di più, fino a tre giorni consecutivi con diciotto ore al giorno, il mese dopo lavoravo di meno». Adesso Hamala Diop è tornato negativo al tampone. Può pensare di tornare al lavoro nel settore dove ama lavorare ma adesso è un whistleblower che per qualcuno si traduce con segnalatore, per altri significa infame.

Licenziamento e altri guai per i lavoratori che hanno denunciato carenze nella gestione Covid. Molti operatori sanitari che hanno segnalato le condizioni disastrose delle Rsa e delle strutture destinate ai malati di Covid-19 sono stati ricompensati con la perdita del lavoro, censure, trasferimenti, ferie forzate. Eppure una legge del 2017, ribadita da una direttiva Ue di sei mesi fa, dovrebbe proteggerli. Gianfrancesco Turano il 09 giugno 2020 su L'Espresso.

I Covid-ottimisti, convinti che il virus servirà almeno a migliorare le condizioni dei lavoratori e a diminuire la pressione gerarchica, si dovranno ricredere. L'atmosfera intorno a chi denuncia i rischi delle pratiche aziendali non sembra affatto migliorata. Casomai vale il contrario. I segnalatori o, nel termine inglese, whistleblowers continuano a passare per traditori come il primo denunciatore della pandemia, l'oftalmologo di Wuhan Li Wenliang, trattato da allarmista prima di diventare un eroe nazionale da morto. Diffide, processi disciplinari e licenziamenti stanno accompagnando la pandemia nella sua versione italiana. Le vittime di questi provvedimenti seguono un percorso comune. Vengono accusate di slealtà verso l'azienda e di violazione del rapporto fiduciario. La magistratura indaga su oltre 150 morti di Covid nelle sessanta strutture del gruppo in Italia. Ecco chi c'è dietro la fondazione fondata nel dopoguerra da un prete lodigiano e diventata un gigante con 27 sedi e 32 ambulatori. L'imputazione più grave è la diffusione ai media delle segrete cose di ospedali, Rsa e cliniche, anche quando i morti e i contagiati si sono contati a centinaia per mancanza di dispositivi e per omissioni gravi nel rispetto delle linee guida dettate dalle autorità sanitarie. La legge nazionale sui segnalatori approvata il 30 novembre 2017 (numero 179) è stata spesso contraddetta al momento dell'emergenza da ordini di tono ben diverso e da sanzioni a chi ha lanciato l'allarme. Fra le vittime del Cov-Sars-2 c'è anche la direttiva Ue 1937 che imponeva agli stati membri di adottare una normativa sui segnalatori. La direttiva ha la data del 26 novembre 2019. Il racconto dell'Espresso inizia tre mesi dopo, il 26 febbraio 2020. Un infermiere con tredici anni di anzianità aziendale al San Carlo di Nancy di Roma, una struttura di sanità privata con una vita societaria recente movimentata e una cessione da congregazioni religiose al gruppo Sansavini-Gvm, sta ascoltando una diretta su Radio Globo. L'argomento è il virus che a fine gennaio ha portato al ricovero di due turisti cinesi allo Spallanzani. Il 19 febbraio è stato ricoverato a Codogno Mattia, il cosiddetto paziente uno. Quel 26 febbraio l'infermiere decide di intervenire con una telefonata in diretta e, senza dichiarare il suo nome, avverte che al San Carlo c'è un andirivieni di pazienti possibilmente contagiati dal Corona in assenza di dispositivi di protezione per il personale. Riferisce inoltre che un paziente con sintomi sospetti, che era stato di recente a Codogno, è riuscito grazie a un'amicizia a ricoverarsi al San Carlo, e non allo Spallanzani dove temeva di rimanere isolato nell'epicentro romano del virus. Il 4 marzo il dipendente viene rintracciato dall'azienda e riceve una lettera di contestazione per la sua telefonata in radio. Secondo l'ufficio legale di Gvm, l'infermiere ha dichiarato il falso e in ogni caso ha leso la reputazione del datore di lavoro. Il 12 marzo, con un minimo di tempo per le controdeduzioni, gli viene comunicato il licenziamento. L'infermiere presenta ricorso attraverso lo studio dell'avvocato Romolo Reboa, noto per avere assistito i familiari delle vittime dell'hotel di Rigopiano. «La legge», dice Reboa, «autorizza il segnalatore a lanciare un allarme se esistono fondati motivi di pericolo imminente o condizioni palesi di pubblico interesse o ancora il rischio di occultare le prove di comportamenti illeciti. Mi pare che il caso del mio cliente ricada in questo contesto». La parola adesso spetta al giudice. Lo studio legale Reboa è coinvolto in altri casi di segnalatori che hanno avuto problemi di lavoro gravi a causa del Covid-19, spesso in strutture che fanno capo alla sanità privata con controllo di ordini religiosi. Nell'area di Milano il caso più importante è la Fondazione don Gnocchi che è stata fra l'organizzazione di sanità privata più duramente investite dall'ondata del virus, con 140 decessi soprattutto nei suoi centri dell'area metropolitana, insieme al Pio Albergo Trivulzio (Pat) che però sotto il controllo della Regione e del Comune. La fondazione don Gnocchi ha licenziato, trasferito o censurato i dipendenti che hanno denunciato le condizioni di lavoro a rischio dopo essersi ammalati e dovrà affrontare anche le cause di risarcimento danni dei familiari dei pazienti. Hamala Diop è un operatore che stato lasciato senza protezioni e si è ammalato di Covid. Quando ha osato scoperchiare la tragedia che avveniva all'interno del gigante della sanità privata, è stato cacciato. Il caso più clamoroso è quello dell'operatore sanitario Hamala Diop che raccontiamo  qui . Non è dato sapere quante altre segnalazioni arriveranno a valle dell'epidemia come quella presentata ai carabinieri di Sorbolo Mezzani (Parma) il 21 maggio da una dipendente del Centro Santa Maria ai Servi che chiede l'anonimato. All'opposto dei dipendenti che segnalano mancanze da parte dei datori di lavoro c'è il caso della Domus Aurea di Chiaravalle centrale (Catanzaro) che da sola è responsabile di 28 decessi pari al 30 per cento dei morti totali da Covid-19 in Calabria con oltre ottanta positivi a partire dal 22 marzo e un indice di letalità senza uguali al mondo. A Chiaravalle è stato il proprietario della struttura, Domenico De Santis, a denunciare il personale uscito dalla struttura dopo che la Rsa e l'intero paese era stato dichiarato zona rossa a fine marzo. De Santis ha anche contestato il mancato intervento della governatrice Jole Santelli che ha ribaltato le responsabilità sul proprietario della residenza. La settimana scorsa sono state diffuse le conversazioni telefoniche fra De Santis e Francesco Conca, responsabile del 118 che accusa pesantemente il personale sanitario mandato a sostituire gli operatori messi in quarantena. «Si sono messi in malattia, che ci posso fare? Se sono dei codardi, dei disertori ancora meglio», dice Conca, «che ci possiamo fare io e lei?» Chiaravalle è stata l'ultima zona rossa della Calabria a essere normalizzata l'11 maggio e a decidere chi ha ragione fra proprietà, Regione e dipendenti sarà l'inchiesta per strage della Procura della Repubblica di Catanzaro. Per capire come mai la segnalazione di illeciti in azienda sia così difficile basta leggere il pdf, messo online dalle strutture sanitarie più serie, da inviare all'Organismo di vigilanza (odv). È un modulo standard dove bisogna leggere bene la parte scritta in piccolo. Chi sceglie l'anonimato è avvertito che non potrà essere tutelato dalla legge sul whistleblowing. E per chi ci mette la faccia i rischi sono ancora più elevati. “Resta impregiudicata la responsabilità penale e disciplinare del segnalante nell’ipotesi di segnalazione calunniosa o diffamatoria ai sensi del codice penale e dell’art. 2043 del codice civile. Sono altresì fonte di responsabilità, in sede disciplinare e nelle altre sedi competenti, eventuali forme di abuso della procedura di segnalazione, quali le segnalazioni manifestamente opportunistiche e/o effettuate al solo scopo di danneggiare il denunciato o altri soggetti, e ogni altra ipotesi di utilizzo improprio o di intenzionale strumentalizzazione dell’istituto oggetto della presente procedura”. Di fronte agli ostacoli in azienda e ai paletti fissati dalla norma rischia di cadere nel vuoto l'appello di Transparency international, con il sostegno di cinquanta organizzazioni mondiali, a tutelare i segnalatori durante l'emergenza Covid-19. E anche la direttiva Ue sul whistleblowing rischia di restare lettera morta in molti paesi.

PRECISO CHE. La lettera del don Gnocchi e la nostra risposta (L'Espresso il 9 giugno 2020):

Quella mail del don Gnocchi. L’articolo “Chi fa la spia, sempre licenziato sia” pubblicato il 7 giugno 2020, pubblica una mail della direzione del personale Fondazione don Gnocchi del 9 marzo nel cui testo di legge: ‘limiterei il ricorso al lavoro da casa contenendo eventuali derive da panico mettendo piuttosto il personale che tende a polemizzare o a volere i DPI in ferie”. Insomma, si è voluto far passare questo testo come il tentativo della Direzione di scoraggiare l’utilizzo dei Dispositivi di Prevenzione Individuale a medici ed infermieri, avvallando la tesi di presunte negligenze di Fondazione don Gnocchi nella tutela della salute dei lavoratori. Tale lettura è destituita di ogni fondamento e smentita dalla semplice lettura (integrale) del documento. La mail era infatti destinata esclusivamente a personale amministrativo e non a personale sanitario. Si tratta di personale che non aveva nessun contatto con l’area di degenza e men che meno con i pazienti. Per queste persone, le linee guida ISS e OMS non prescrivevano nessuno utilizzo di DPI. Tanto è vero che nella mail si fa esplicito riferimento ad eventuali richieste di essere dotati di DPI “anche nei casi non previsti”. Pertanto, al contrario di quanto lasciato intendere, l’indicazione data dalla direzione delle Risorse Umane di Fondazione era proprio finalizzata a garantire la disponibilità delle mascherine a chi ne aveva bisogno, ossia il personale medico e sanitario, in giorni di grave penuria di quei dispositivi. Il testo della mail è inequivocabile, come lo sono i destinatari. Una semplice - e doverosa – verifica, purtroppo mai fatta, con Fondazione avrebbe potuto chiarire ogni eventuale dubbio. Per tutte queste ragioni, per ristabilire la verità dei fatti e per tutelare l’immagine di Fondazione vi chiediamo l’immediata rettifica di quanto scritto, comunque riservandoci di procedere a tutela della Fondazione in ogni competente sede giudiziaria. Ufficio stampa Fondazione don Gnocchi.

Risposta. Questa smentita che non smentisce nulla e che mette in discussione il diritto di cronaca sarebbe abbastanza grave anche se non venisse da un ente che è sotto inchiesta per strage colposa, con decine di morti nelle sue strutture per le carenze nella fornitura di dispositivi di protezione individuale. Venendo all'unico punto contestato, la mail del 9 marzo, che l'Espresso non ha pubblicato integralmente solo per tutelare la privacy di qualche decina di destinatari, non è affatto rivolta al solo personale amministrativo ma all'intero staff dirigenziale delle strutture sparse su tutto il territorio nazionale, inclusi i direttori sanitari che sono responsabili “dei fini igienico-sanitari” della struttura e sono medici. Nell'ipotesi irreale che nessuno dei destinatari abbia mai assistito a una lezione di medicina in vita sua, la volontà del don Gnocchi di disfarsi del “personale poco collaborante” risulta incontestabile e, del resto, confermata dalla campagna di censure, trasferimenti e interruzioni di rapporti di lavoro successiva alla denuncia di diciotto dipendenti, tutti positivi al Covid-19. Infine, nel ringraziare la fondazione don Gnocchi della lezione di giornalismo vorremmo ricordare che la parola “avvallando” ha una v di troppo. (g.tur.)

Rinaldo Frignani per “il Corriere della Sera” il 5 giugno 2020. Più di quattro mesi di emergenza, decine di migliaia di morti. Ma il 2020 sarà ricordato anche come l' anno delle inchieste della magistratura su cosa non ha funzionato nell' affrontare l' epidemia. «Solo noi abbiamo 302 deleghe dell' autorità giudiziaria: 157 al Nord, 91 al Centro, 54 al Sud e nelle isole». A rivelarlo è il generale di divisione Adelmo Lusi, da tre anni alla guida del Comando tutela della Salute, dal quale dipendono i 38 Nuclei territoriali del Nas dei carabinieri. L' alto ufficiale è anche membro permanente dell' Unità di crisi fin dall' inizio dell' emergenza.

Generale, si tratta soprattutto di indagini su Rsa?

«Non solo. Siamo impegnati anche nel contrasto alle frodi in commercio sulle forniture di dispositivi di protezione individuale e al traffico verso l' estero di apparecchiature mediche che tuttora servono in Italia».

Qual è lo scenario che vi siete trovati davanti nelle case di riposo?

«In soli tre mesi abbiamo effettuato 1.572 ispezioni, il 30% delle quali su incarico della magistratura. In 182 casi abbiamo riscontrato gravi irregolarità e sono state denunciate 136 persone. C' è di tutto: dalla mancanza di autorizzazioni all' igiene precaria dei locali, fino alle violazioni delle norme anti-Covid. In moltissimi casi nelle prime settimane il personale addetto all' assistenza degli ospiti non era formato, né indossava mascherine, guanti, visiere e parascarpe. Ci sono state situazioni, come a Lecce e Reggio Calabria, dove ci siamo imbattuti in anziani abbandonati a loro stessi. Erano scappati, li avevano lasciati soli. E contagiati. Una cosa terribile».

Chi ha fatto affari col coronavirus?

«All' inizio chi ha lucrato sui Dpi e sui prodotti igienizzanti. Poi chi ha provato a esportare farmaci e apparecchiature mediche in Paesi dove sapeva di poter guadagnare di più ma che invece dovevano restare qui. Qualche numero: 1.500 violazioni commerciali, 343 denunce, 700 provvedimenti amministrativi, più di 3 milioni e mezzo di mascherine sequestrate con 142 mila igienizzanti, 1.200 fra ventilatori e attrezzature per terapie intensive e sale operatorie requisiti, con quasi due milioni di confezioni di farmaci pronte per essere spedite altrove».

Siete stati impegnati sin dall' inizio?

«Sì, da fine gennaio. Nella primissima fase siamo stati noi a portare, con le staffette, 6 mila tamponi da tutta Italia ai laboratori dell' Istituto superiore di sanità per la validazione: il 99% era positivo».

Quale fenomeno vi ha sorpreso di più?

«L' impennata delle vendite online, perché riguarda spesso chi promuove prodotti, come farmaci e integratori, illudendo la gente che possano sconfiggere la malattia. Ovviamente non è così. Finora abbiamo individuato 29 siti di e-commerce , ma tutti con server all' estero. Sono gli stessi che inviano per posta, senza garanzie sulla conservazione del prodotto, sostanze dopanti».

E proprio all' estero siete molto attivi.

«I Nas sono unici, un punto di riferimento, negli Usa come in Germania. In Sudamerica e in Africa istruiamo anche i magistrati. Ma sappiamo soprattutto di essere nel cuore degli italiani».

Morti nelle Rsa, ora i parenti delle vittime vogliono giustizia. A Brescia la Procura apre 60 fascicoli di indagine su 1.600 decessi e a Bergamo il "D-Day" con le prime 50 denunce depositate, il Codacons raccoglie le testimonianze. Antonio Borrelli, Sabato 06/06/2020 su Il Giornale. “Più il tempo passa e più mi manca il respiro, non riesco a darmi pace”, scrive Nadia. “Io sono distrutta chi ha sbagliato deve pagare”, confessa Antonella. Tatiana invece si sente in colpa: “Piango ininterrottamente. Non mi perdono per non aver protetto il mio papà come avrei dovuto”. Sono migliaia le storie – spesso accompagnate da foto ricordo dei propri parenti scomparsi – contenute nel gruppo Facebook “Noi Denunceremo”, nato per chiedere verità e giustizia per le vittime del Covid. Al gruppo sono iscritte oltre 55mila persone, tantissimi parenti di vittime del virus.

La testimonianza. Come Giulia Gelmini, di Bergamo, che ha perso suo padre in circostanze sospette: “E’ stato trasferito al centro Don Orione per la riabilitazione post operazione al femore. A fine febbraio chiudono le strutture e dopo pochi giorni inizia a star male: febbre, dolori muscolari e articolari, finché è deceduto. Lui era cardiopatico ma stava bene e si controllava da 20 anni. Il quadro è esattamente quello del virus, ma non gli hanno fatto il tampone e non ne avremo mai la certezza”.

Il Denuncia Day. Molti non si sono limitati a post sui social o generiche denunce, ma si sono coalizzati in un vero e proprio comitato, che sta provando ad avviare una sorta di class action dei familiari delle vittime del coronavirus, soprattutto tra Lombardia e Piemonte. Per il 10 giugno il comitato ha istituito a Bergamo il primo “Denuncia Day”. In quella occasione saranno anche presentate le prime 50 denunce relative alla gestione dell’emergenza sanitaria. Per ora in totale le denunce inoltrate al comitato ed al vaglio degli avvocati sono circa 200. “Perché il personale medico e sanitario non indossava mascherine? Perché non sono stati fatti tamponi? Perché la situazione non è stata presa con responsabilità?”, continua Gelmini.

"Vogliamo giustizia". Chi su un altro fronte giudiziario sta chiedendo giustizia e verità è il Codacons. Da alcuni esposti dell’associazione dei consumatori la Procura di Brescia ha aperto 60 fascicoli di indagine su 1.600 morti nelle Rsa. “Assenza di protezione e carenza di personale – riferisce il presidente nazionale del Codacons Marco Maria Donzelli -: a partire da questi elementi riscontrati nelle denunce ricevute abbiamo avviato diverse iniziative processuali a carattere penale. Le testimonianze che abbiamo ricevuto arrivano da anziani e familiari, medici e personale: tutti ci riferiscono di omissioni e negligenze gravi. Parlarne in senso generale non riconduce alla giustizia di quello che è successo, per cui bisognerà analizzare caso per caso, paziente per paziente, struttura per struttura”. Giulia è consapevole che la strada giudiziaria è in salita: “Non vogliamo risarcimenti ma chi ha sbagliato deve pagare”.

La durissima denuncia dei sindaci: «Così hanno ucciso la Val Seriana». L’allarme. I primi morti. Il silenzio di regione e governo. E la mancata zona rossa. I primi cittadini Alzano e Nembro, i due paesi martiri della pandemia: «Ci hanno lasciato soli». Gigi Riva il 05 giugno 2020 su L'espresso. La durissima denuncia dei sindaci: «Così hanno ucciso la Val Seriana». Soli. Abbandonati. Ci sono le inchieste del procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota su eventuali colpe per la diffusione del coronavirus che arriveranno, prima o poi, a una conclusione giudiziaria. Ci sono state, ci sono, ci saranno le polemiche. Un dato è già certo: Alzano Lombardo e Nembro, due dei paesi-martire in Valseriana, sono stati dimenticati dalle autorità regionali e nazionali. Camillo Bertocchi, 44 anni, sindaco di Alzano, leghista e alla guida di una giunta di centrodestra, racconta di un sentimento che persiste anche tre mesi dopo i giorni fatali che potevano attenuare il destino dei lutti a catena, i 108 morti di marzo contro i 12 dell’anno precedente nello stesso periodo, in una comunità di 14 mila abitanti: «Soli, lo ribadisco, soli. Nonostante lettere, richieste di aiuti, di spiegazioni, di confronto, nessuno né da Roma né da Milano ci ha mai risposto». Non Giuseppe Conte, non il ministro Roberto Speranza, non i responsabili degli altri dicasteri. Non Giulio Gallera, l’assessore al Welfare, non Attilio Fontana, presidente della Lombardia, che pure fanno parte della sua stessa area politica: «Mai sentito nessuno di loro durante tutta l’emergenza». E Alzano non è un paese qualunque. Qui c’è l’ospedale Pesenti-Fenaroli, sospettato di essere stato veicolo di contagio e gli infiniti punti di domanda sul suo pronto soccorso, chiuso e riaperto in poche ore, a differenza di quanto avvenuto poco prima a Codogno, la domenica 23 febbraio quando si ebbe contezza del grande pericolo ed esplose la paura. Novanta giorni e 175 morti dopo, la cittadina del bergamasco ha smesso di piangere. Ma negli uffici e nei negozi, chi è stato chiamato a sostituire i defunti si muove con cautela, senza osare toccare niente Bertocchi rievoca il «clima surreale» dei primi giorni di marzo, quando dai media - e solo dai media - gli amministratori locali apprendevano che la zona rossa era lì lì per essere approvata, Fontana dichiarava di essere in contatto con il presidente del Consiglio «per arrivare a un decreto che dovrebbe dettare le regole». La protezione civile era stata allertata, quella protezione civile che proprio ad Alzano Lombardo era di fatto nata nel 1976 quando l’ingegner Pesenti delle cartiere Pigna partì con quaranta dipendenti per aiutare il Friuli devastato dal terremoto, incontrò il commissario straordinario Giuseppe Zamberletti e gli diede l’idea di creare un corpo nazionale da usare in caso di catastrofi. In quei giorni di inizio marzo l’hotel Continental di Osio Sotto era diventato la base di carabinieri e poliziotti, i soldati dell’esercito facevano le prove generali del blocco (ci sono le fotografie che lo documentano). «E io», dice il sindaco, «aspettavo tutte le sere alle 19 l’annuncio ufficiale, orario non casuale, con le persone tornate a casa per evitare un possibile fuggi-fuggi». Decisione che, come Godot, non è mai arrivata, finché il 7 marzo il governo ha optato per la “zona arancione” nell’intera Lombardia e alcune provincie limitrofe. E questo nonostante l’Istituto superiore di sanità avesse raccomandato, già dal 2 marzo, la drastica chiusura dei due centri così esposti al virus e dove i casi di infetti aumentavano in modo esponenziale. «Noi», ancora Bertocchi, «avremmo saputo soltanto quindici giorni dopo degli illustri pronunciamenti a favore di misure che non sono state adottate». Per questo prese carta e penna per scrivere all’intero esecutivo e chiedere di «avere copia della relazione del Comitato tecnico-scientifico». Come risposta, il silenzio: «A oggi sono ancora in attesa di quel documento». Leggendo il quale forse potrebbe avere almeno la soddisfazione di sapere a posteriori, anche se ormai non serve più a nulla, di come era stata concepita la zona rossa fantasma: «Allora circolavano le voci più disparate su come doveva essere attuata, la sua reale estensione. Da Bergamo verso la valle non c’è soluzione di continuità abitativa, è di fatto una città lineare e infatti si parlava del coinvolgimento di 250 mila persone, dieci volte i cittadini di Alzano e Nembro». L’assessore Gallera avrebbe confessato, più di un mese dopo e sulla scia di Giuseppe Conte, che la Regione avrebbe potuto muoversi autonomamente senza aspettare l’esecutivo, trattandosi di competenze concorrenti. E che, come tali, stanno ora scatenando lo scarica-barile nel timore di responsabilità penali. E si fosse poi trattato solo della zona rossa, Bertocchi si è sentito abbandonato anche quando «nessuno mi ha mai risposto sui dispositivi di protezione individuale perché non c’erano proprio, non c’era un piano contro le pandemie che avrebbe dovuto esserci. Ci siamo dovuti arrangiare, ci siamo inventati una centrale di acquisti, abbiamo racimolato centomila euro, ci siamo dotati di ossigeno, gorgogliatori, saturimetri. E abbiamo messo in piedi una task-force di cento persone, trenta dipendenti comunali e settanta volontari». Benché Claudio Cancelli, il primo cittadino di Nembro, guidi una giunta di centrosinistra, dunque di diverso colore, tra i sindaci dei due paesi limitrofi e accomunati nella disgrazia ci sono sempre state visione e intenti comuni. Nel marzo crudele Cancelli ha contato 144 vittime tra i suoi concittadini e su una popolazione di 11.500 persone. Una carneficina. Cancelli parte da una denuncia di carattere generale: «È mancata soprattutto la capacità di prendersi responsabilità politiche. E questo succede quando, come è purtroppo costume da noi, si collocano in ruoli decisivi uomini fedeli a chi comanda invece di uomini capaci. La mancanza di coraggio ha rallentato il processo decisionale. È chiaro che se ci fosse stata rapidità avremmo rallentato il contagio». Dunque la zona rossa avrebbe diminuito i lutti. «Il primo provvedimento a Codogno fu sostanzialmente scritto di concerto tra il ministero della Salute e la Regione Lombardia. Io mi aspettavo che per la Valle Seriana sarebbe successo altrettanto. Ma era già cominciato il conflitto tra le due istituzioni. Fossero stati della stessa “parrocchia politica” si sarebbero seduti allo stesso tavolo e avrebbero concordato una linea. La “parrocchia” avrebbe dovuto essere l’Italia». Non nega, il sindaco di Nembro, le preoccupazioni degli imprenditori in un’area ricca e produttiva dove si contano 376 aziende per 3.700 dipendenti e un fatturato dei tempi normali di 800 milioni di euro: «Temevano le disdette di contratti già firmati, di non poter rispettare i tempi di produzione. E tuttavia si stavano preparando nel caso le necessità sanitarie avessero obbligato a misure rigide. Come è il caso, ad esempio, di Pierino Persico (titolare dell’azienda che produce lo scafo di Luna Rossa, ndr) che aveva già organizzato lo smart working». Proprio le ingerenze del mondo produttivo sulla zona rossa sono tema delicato e foriero di sospetti. Il presidente di Confindustria Lombardia Marco Bonometti, in un’intervista a Francesca Nava per il sito Tpi ha confermato di aver avuto un “confronto” con Attilio Fontana nel quale aveva ribadito la sua contrarietà a fermare la produzione. Altro nodo cruciale riguarda la chiusura e riapertura lampo, dopo poche ore, del pronto soccorso di Alzano. Il direttore generale dell’Asst Bergamo Est Francesco Locati, da cui dipende il Pesenti-Fenaroli, preferisce non rispondere vista l’inchiesta della magistratura. Nelle poche interviste concesse durante il lockdown ha sempre respinto ogni accusa e affermato di aver seguito i protocolli sia sulla gestione dei pazienti sia sulla sanificazione, peraltro affidata a personale interno. Di parere diametralmente opposto il direttore sanitario di Alzano Giuseppe Marzulli che, in una lettera del 25 febbraio, ha messo nero su bianco la sua contrarietà. Ha scritto Marzulli: «Presso il pronto soccorso stazionano i pazienti sotto elencati (seguono le iniziali di tre nomi e cognomi) senza che essi vengano accolti da altre strutture sanitarie. È evidente che in queste condizioni il pronto soccorso di Alzano Lombardo non può rimanere aperto. Pare che sia stata data indicazione di non accettare i pazienti fino all’esito del tampone per coronavirus. Tale indicazione è assurda (e uso un eufemismo) in quanto, come è noto, i tempi di refertazione sono mediamente attorno alle 48 ore e questo significa far stazionare dei pazienti per 48 ore presso il pronto soccorso cosa contraria a qualunque protocollo e anche al buon senso. Quando è stato sollevato il punto dell’assurdità di tale disposizione, il problema è diventato la mancata disponibilità di posti letto». Oltre che via lettera, stando ad alcune testimonianze, parole grosse sono volate anche sulle linee telefoniche. Ma, per usare la frase famosa di uno che si intendeva di flagelli, del senno di poi sono piene le fosse.

IN LOMBARDIA DOPO I DECESSI ORA SI CONTANO LE DENUNCE. Spuntano comitati e siti Facebook con i parenti dei morti che chiedono giustizia per gli irresponsabili. Irene Panighetti il 29 maggio 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Noi Denunceremo. Verità e giustizia per le vittime di Covid-19»: è il nome di un comitato ma anche di una promessa e di azioni già in atto portate avanti per raccogliere documentazione utile a presentare esposti alle Procure lombarde. Questo per «un bisogno di giustizia e di verità, per dare pace ai nostri morti che non hanno potuto avere una degna sepoltura. Chi ha sbagliato dovrà rispondere alle nostre domande e assumersi le proprie responsabilità», spiegano i fondatori sul loro sito, una realtà che, dal 28 aprile si è formalmente costituita in un comitato dopo esser nata, il 22 marzo, come pagina Facebook per volere del bergamasco Luca Fusco. Questi non si è rassegnato alla morte per Covid-19 del padre: «una persona di 85 anni, sana per la sua età, che è entrata con le sue gambe in una clinica privata per fare della riabilitazione e ne è uscita in una cassa di legno. Una persona che, come tanti, è morta da sola, lontano dalla famiglia che amava e che ha costruito. Una persona che non ha potuto avere neanche un funerale. Una persona che è stata portata fuori regione per essere cremata in quanto i crematori di Bergamo erano ormai al collasso. Una persona che sarebbe ancora qui se non fosse stato per questa brutta storia». Una storia che, oltre al dolore e alla rabbia, ha suscitato molte domande sulla gestione della sanità e dell’emergenza in Lombardia, condivise poi sui social, dove sono arrivate decine e decine di testimonianze da Bergamo ma anche da Brescia e da tante altre province. Sono cresciuti, spiegano «a ritmo di migliaia di persone al giorno: quasi 4mila persone nelle prime 24 ore, 18mila nei primi 7 giorni, 46.500 dopo un solo mese. Oggi siamo in oltre 50mila». Cosa vogliono? Non risarcimenti economici ma «far sì che, se qualcuno ha delle responsabilità, se qualcuno poteva agire e non l’ha fatto, se qualcuno ha anteposto chissà quale interesse alla vita di migliaia di persone, egli (o essi) paghi penalmente per le sue azioni e risponda delle sue negligenze». Per questo hanno deciso di raccogliere le storie sul sito, suddividendole in tre ambiti: ciò che è accaduto negli ospedali, le morti nelle Rsa e la mancanza di accertamenti tra i malati a casa e i loro familiari (sezione dall’emblematico titolo: nessun tampone). Con loro un pool di avvocati per seguire i casi e portare avanti le «almeno 150 denunce pronte», come fanno sapere . Lo stesso intento di un’altra iniziativa nata in questi giorni: la «Banca della memoria lombarda. Un cancelletto per non cancellare». L’obiettivo è quello di costruire un «grande archivio digitale in cui raccogliere tutte le testimonianze di questi mesi, affinché il tempo, il dolore, l’oblio, la rabbia, la stanchezza non facciano dimenticare quanto è successo – si legge sulla pagina Facebook che chiede – a chiunque abbia vissuto sulla propria pelle o quella dei propri cari l’esperienza del Covid-19 di registrare un video in cui raccontare la propria storia e caricarlo su questo gruppo. Perché da Lombardi non possiamo dimenticare». La Banca è nata anche sull’onda di ciò che è accaduto lo scorso fine settimana che ha spaventato molte persone che temono l’oblio e la facilità a dimenticare che caratterizza molti italiani. «Le immagini della movida milanese e bresciana di queste ore, ne sono un triste preavviso – si legge ancora sulla pagina social – se non si coltiva la memoria, su certe vicende finisce per scendere l’oblio. Le ragioni sono tante. Quelle dei responsabili, per coprire errori e responsabilità. Quelle delle vittime, perché non ci sono più. Quelle dei sopravvissuti, perché non hanno voglia di parlarne. Quelle degli altri, perché non hanno voglia di ascoltare. Per questo è importante che, ce lo insegnano anche le cronache, raccogliere il prima possibile le testimonianze dei sopravvissuti, per evitare che il tempo, il dolore, l’indifferenza cancellino la loro voce. E con essa quanto è accaduto». Non vogliono dimenticare e neppure passare oltre senza almeno tentare un cambiamento i medici dell’Ospedale civile di Brescia, che, dopo quasi tre mesi di lavoro incessante e di basso profilo mediatico, hanno deciso di raccogliere le loro osservazioni in un documento citato dal quotidiano locale Bresciaoggi in cui vengono messe in luce le forti criticità scoppiate durante l’emergenza coronavirus. Il documento serve anche come una sorta di ordine del giorno per un confronto con i vertici sanitari cittadini che i medici si augurano al più presto, per affrontare i problemi, tra cui, cita Bresciaoggi, «assenza di efficaci strategie nella gestione delle problematiche chirurgiche in urgenza, gravate da maggiori e significative difficoltà esecutive legate all’uso dei Dpi e delle norme di sicurezza». Ma i medici vogliono anche discutere del vulnus dello smantellamento della rete di medicina di base: «l’organizzazione e le risorse del territorio si sono dimostrate un punto critico del nostro sistema sanitario regionale con ripercussioni negative anche a livello ospedaliero».

Da Pino Nicotri il 7 aprile 2020 da BLITZ quotidiano. “Se credono di coprire le loro responsabilità continuando a ripetere ‘Siamo in guerra, siamo in guerra!’ in modo da tappare la bocca ai “disfattisti”, si sbagliano. E di grosso. Per riparare al fatto di avere mandato medici e infermieri all’assalto del coronavirus a mani nude o armate solo di baionette, come i fanti italiani delle guerre mondiali contro trincee nemiche e carri armati,  dovranno come minimo assegnare la medaglia d’oro a quelli che ci hanno lasciato la pelle. E oltre alle necessarie indagini della magistratura sarà il caso che si faccia un bella commissione d’inchiesta parlamentare. I medici di base hanno già cominciato a muoversi. Quelli ospedalieri seguiranno. A migliaia, se non vengono minacciati”. Il medico che mi parla, di un ospedale milanese, è un fiume in piena. Smette di parlare solo perché scoppia a piangere per lo sdegno, la rabbia, il dolore. I medici di base di cui parla, quelli che hanno cominciato a muoversi, sono per ora quelli della Federazione Medici di Medicina Generale (FIMMG). Il loro legale, avvocato Paola Ferrari, ha inviato alle Regione Lombarda una diffida e per conoscenza ne ha inviato copia, a mo’ di esposto, a tutte le Procure della Repubblica della Lombardia.  Il succo del discorso è semplice e chiaro: “In Lombardia c’è stata una sottovalutazione della pandemia”. Sottovalutazione che ha prodotto “la mancata predisposizione di misure di sicurezza minime, sia per il personale sanitario negli ospedali che per i medici di base”. Il tutto mentre il governatore della Regione, Attilio Fontana, “si esibiva con la mascherina, la raccomandava a tutti, poi è ricomparso senza mascherina e infine l’ha indossata di nuovo in discorsi pubblici o per il pubblico o in annunci alla stampa”. Le accuse messe nero su bianco dal legale della FIMMG sono assai simili a quelle di altre istituzioni scientifiche nazionali e internazionali. Che hanno puntato anche loro il dito contro l’incapacità della Regione causa  dell’immane disastro ancora in corso. Con annessa esportazione del nuovo virus al sud con la fuga in massa alle prime voci di chiusura almeno di Milano. E quanto meno anche in Spagna con la partita di calcio Atalanta-Valencia fatta irresponsabilmente giocare, e proprio a Milano. A chi invoca come attenuante la novità imprevista del nuovo virus, che ha colto tutti di sorpresa e quindi, di conseguenza, comprensibilmente impreparati, l’avvocatessa  ribatte con fermezza: “I segnali c’erano già stati, come dimostra l’anomala crescita delle polmoniti apparsa fin da dicembre/gennaio”, e aggiunge: “le precauzioni andavano prese a tutela di medici e sanitari anche perché la regione era più esposta alla diffusione del virus con la presenza di tre aeroporti internazionali”. Infine l’accusa che non ammette repliche, a fronte della quale non ci sono né esimenti né giustificazioni: “Esisteva il piano pandemico risalente al 2009, che, seppur datato, avrebbe potuto funzionare. Ma la Regione è arrivata totalmente impreparata per l’assenza di protocolli di sicurezza negli ospedali e di presidi di tutela”.  Impreparazione che tra l’altro – checché strepiti Fontana contro il governo a Roma – ha impedito un adeguato approvvigionamento di mascherine, presidi sanitari e tamponi per verificare l’eventuale presenza del virus nel personale delle strutture sanitarie. Che oltretutto così sono diventate centri di irradiazione del contagio anziché centri di sua cura ed estinzione. Dopo i medici di base è probabile che si muovano anche i medici ospedalieri. Secondo indiscrezioni, sono in preparazione ricorsi legali a migliaia contro le dirigenze amministrative dei nosocomi per assoluta mancanza di presidi di difesa individuale. Uno di loro mi telefona urlando: “Ci hanno mandati all’assalto contro le mitragliatrici  senza neanche le divise! Stanno facendo passare noi ospedalieri per eroi in modo da tenerci buoni verso le insufficienze gravissime dell’organizzazione sanitaria, ormai tutta di pura marca legaiola”. Poi c’è la delibera numero XI/2906 dell’8 marzo con la quale la Regione Lombarda ha chiesto alle Aziende Territoriali della Sanità di individuare nelle case di riposo per anziani “strutture autonome per assistere pazienti Covid 19 a bassa intensità”. Luca Degani, presidente della parte lombarda dell’Unione Nazionale Istituzioni e Iniziative di Assistenza Sociale, che conta quasi 400 Residenze Sanitarie per Anziani (RSA), meglio note come case di riposo per anziani, sulle 900 esistenti in Italia,  con dichiarazioni alla stampa punta il dito contro l’assessore regionale alla Sanità Giulio Gallera e contro il presidente Attilio Fontana con accuse ben precise, senza peli sulla lingua: “Chiederci di ospitare pazienti con i sintomi del Covid 19 è stato come accendere un cerino in un pagliaio. Quella delibera della giunta regionale l’abbiamo riletta due volte, non volevamo credere che dalla Regione Lombardia potesse arrivarci una richiesta così folle. Certe cose dobbiamo dirle: i nostri ospiti hanno una media di 80 anni, sono persone con pluripatologie.  Come potevamo attrezzarci per prendere in carico malati spostati dagli altri ospedali per liberare posti-letto? Ci chiedevano di prendere pazienti a bassa intensità Covid e altri ai quali non era stato fatto alcun tampone. Si sono infettati medici e sanitari in strutture molto più attrezzate della nostra. Non ci hanno dato i dispositivi di protezione ma volevano darci i malati… Il virus si stava già diffondendo.  Stavamo per barricarci nelle nostre strutture, le visite dei parenti erano già state vietate”. Prudenza e misure protettive mandate all’aria dalla richiesta della Regione. Perché molti direttori di case di riposo per anziani non si fanno trovare al telefono?“Dipendiamo per un buon 30% dai finanziamenti della Regione, logico che molti abbiano paura di perderli. Non parlano e io li capisco. Ma noi facciamo parte del Terzo Settore e siamo non profit”. E la parola profit, cioè profitto, forse può spiegare alcune cose. Il sistema socio-sanitario della Lombardia comprende otto Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e ventisette Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST). Durante i molti anni di presidenza della Regione occupata da Roberto Formigoni, ciellino – cioè militante – della prima ora di Comunione e Liberazione, buona parte della sanità lombarda è stata privatizzata. Cioè rilevata dalla Compagnia delle Opere, il braccio imprenditoriale di Comunione e Liberazione (CL). Che aveva costruito un piccolo impero spesso di non cattiva anzi buona qualità, i dirigenti ciellini avevano competenze accettabili, le cooperative o ditte di CL che vincevano gli appalti fornivano servizi adeguati. Sotto la presidenza lombarda di Fontana, la dirigenza della sanità appare di tutt’altra marca. Vera o falsa che sia la versione secondo la quale la sostituzione è avvenuta con metodi spicci –  minacce, ricatti, inchieste, spesso del tutto pretestuose – sta di fatto che la mappa delle poltrone al vertice parla chiaro. E oggi come oggi non sarebbe male sapere se sono privati o pubblici i laboratori incaricati delle migliaia e migliaia di test, tamponi, ricerca di anticorpi e sapere quanto paga la Regione ai privati per tutta questa enorme serie di servizi. Insomma, c’è una miccia accesa che può fare esplodere scandali nel settore sanitario lombardo? Dopo l’ondata di retorica patriottarda a base di “siamo in guerra” e “siamo un grande Paese” potrebbe arrivare un’ondata di iniziative giudiziarie. La Lombardia, già madre di Tangentopoli e Mani Pulite, partorirà anche Sanitopoli e Tamponi Puliti? Una domanda sorge legittima e spontanea. Perché Matteo Salvini, leader della Lega, sponsor e punto di riferimento del leghista Fontana in Regione, ha presentato un emendamento al decreto Cura Italia col quale riguardo il disastro da Covid-19 avrebbe salvato da eventuali accuse penali e civili i dirigenti sanitari scaricandole sui medici? Leggiamo cosa dice l’emendamento intitolato non a caso Responsabilità datori di lavoro operatori sanitari e sociosanitari:  

1. “Le condotte dei datori di lavoro di operatori sanitari e sociosanitari operanti nell’ambito o a causa dell’emergenza Covid-19, nonché le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori o a terzi, responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile e da rivalsa, se giustificate dalla necessità di garantire, sia pure con mezzi e modalità non sempre conformi agli standard di sicurezza, la continuità dell’assistenza sanitaria indifferibile sia in regime ospedaliero che territoriale e domiciliare.

2.Dei danni accertati in relazione alle condotte di cui al comma 1, compresi quelli derivanti dall’insufficienza o inadeguatezza dei dispositivi di protezione individuale, risponde civilmente il solo ente di appartenenza del soggetto operante ferme restando, in caso di dolo, le responsabilità individuali”. Ai maligni potrebbe parere un rozzo tentativo di spegnere eventuali micce e disinnescare eventuali bombe dirompenti in tema di nomine della dirigenza sanitaria. Sempre i maligni sussurrano abbia man mano preso larga parte di quella precedente, lasciando invece il cerino acceso in mano a medici e infermieri. Maligni o no, sta di fatto che dopo le proteste dei sindacati della funzione pubblica il buon Salvini ha preferito ritirare l’emendamento. Intanto non sarebbe male se invece di assolvere in partenza i dirigenti si cominciasse intanto a insignire della medaglia d’oro al valor civile i medici e gli infermieri che per generosità, abnegazione ed errori della dirigenza di vario tipo sono, come si suol dire quando si tratta di poliziotti e carabinieri, caduti nell’adempimento del loro lavoro. Le medaglie d’oro al valor civile sono conferite con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del ministro dell’Interno. Sergio Mattarella e Luciana Lamorgese ci pensino. Sarebbe un gran bel segno non solo per le famiglie dei caduti, ma per l’Italia intera.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 28 maggio 2020. È stato convocato in procura, a Bergamo, il presidente della regione Lombardia, Attilio Fontana. I magistrati vogliono sentirlo come persone informata sui fatti nell'ambito dell'inchiesta sulla mancata chiusura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano, sui morti nelle Rsa e sulla mancata istituzione di una zona rossa nella Bergamasca. Nell'inchiesta per epidemia colposa della Procura, guidata da Maria Cristina Rota, è stato chiamato, sempre come testimone e per i prossimi giorni, anche l'assessore alla Sanità, Giulio Gallera. E prima di loro è stato sentito nelle scorse settimane, Luigi Cajazzo, direttore generale del Welfare lombardo, il quale aveva messo a verbale, tra l'altro, che la decisione di riaprire il pronto soccorso di Alzano il 23 febbraio, dopo l'accertamento dei primi due casi di Coronavirus, era stata «presa in accordo con la direzione generale della Asst di Bergamo Est», in quanto era stato assicurato che era «tutto a posto»: i locali sanificati e predisposti «percorsi separati Covid e no Covid». Qualcosa di diverso da quanto sembra accaduto. E sul quale ora dovrà riferire anche Fontana. Nel fascicolo aperto dalla procura di Bergamo, al momento, viene ipotizzato il reato di epidemia colposa. Gli accertamenti puntano a stabilire eventuali responsabilità seguendo due percorsi: il trattamento dei primi pazienti positivi ricoverati da più giorni vicino ad altri degenti, e la decisione, presa il 23 febbraio, di chiudere e poi riaprire dopo poche ore il pronto soccorso. Mentre a Codogno (Lodi), uno degli undici comuni cinturati nella zona rossa dal governo, l'ospedale veniva sigillato e sanificato. Una decisione che nelle settimane in cui i morti nella provincia di Bergamo sono aumentati esponenzialmente è sembrata decisamente incomprensibile. I carabinieri del Nas di Brescia hanno acquisito una serie di documenti all'ospedale Pesenti-Fenaroli. Sono diverse le inchieste aperte dalle procure lombarde sui ritardi e l'evoluzione del Coronavirus. Lo ha spiegato lo stesso procuratore generale di Brescia, Guido Rispoli, nel cui distretto di Corte d'Appello ricadono gli uffici giudiziari interessati. Il pg ha chiarito che si tratta di fascicoli «eterogenei», ognuno segue un suo percorso investigativo. E infatti, ci sono quelli aperti e ancora contro ignoti, quelli relativi a fatti che non costituiscono notizie di reato e quelli che fanno riferimento a esposti anonimi e questo dipende - ha specificato Rispoli - «dalle modalità di formulazione delle notizie pervenute alle procure». In alcuni fascicoli, invece, sono già stati iscritti degli indagati. Non sarebbe il caso delle inchieste aperte nella procura di Brescia, ma in altre del distretto che comprende le procure di Cremona, Bergamo e Mantova. Il procuratore aveva già anticipato che nelle denunce presentate ai pm erano stati indicati anche «rappresentanti del Governo e della Regione». Probabilmente quegli stessi amministratori ai quali ora si vuole chiedere di chiarire come si arrivò alle delibere dell'8 marzo scorso con le quali si chiedeva alle Rsa di istituire dei reparti Covid-19 e alla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e di Nembro. Il magistrato ha fatto il punto sulle indagini e sulla loro complessità, sottolineando che altre denunce riguardano «organi di gestione» di ospedali e Rsa e «personale sanitario e infermieristico a vari livelli». Ma soprattutto ha spiegato che parecchie denunce sono quelle presentate al distretto di Brescia dai parenti delle persone decedute, persone che si sono infettate fuori dagli ospedali e che lamentano «l'omissione, il ritardo oppure l'erroneità delle cure prestate», poi persone che invece si sono infettate negli ospedali e in Rsa dove si trovavano per ragioni di lavoro (personale delle pulizie) o a trovare parenti. La stessa cosa riguarda quei medici e quegli infermieri delle strutture che affermano di aver contratto l'infezione «nell'esercizio a causa delle loro funzioni e per mancanza di presidi preventivi». Nelle inchieste sono finite anche le segnalazioni dell'Inail «che riconduce l'evento lesivo derivante dall'infezione da Codiv 19 alla categoria degli infortuni sul lavoro».

Inchiesta sull'epidemia di coronavirus, Gallera per tre ore dai pm di Bergamo: "Su zona rossa aspettavamo il governo". Pubblicato venerdì, 29 maggio 2020 da La Repubblica.it. Ieri è stato il turno dell'assessore al Welfare della Regione Lombardia Giulio Gallera, sentito per oltre tre ore come persona informata dei fatti dai pm di Bergamo che indagano per epidemia colposa sulla riapertura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano Lombardo e sulle presunte irregolarità nella gestione dei pazienti Covid, sulle morti nelle Rsa e che stanno effettuando approfondimenti sulla mancata istituzione di una zona rossa nella Bergamasca. Oggi toccherà al governatore Attilio Fontana, convocato nella stessa veste dalla procura che sta cercando di chiarire tutti i punti dubbi della gestione dell'epidemia di coronavirus in uno dei territori più colpiti. E presto sarà sentito anche Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, convocato attraverso la Guardia di Finanza. Nelle prossime ore verrà fissata la data dell'audizione con i pm, che vogliono chiarire anche il ruolo dell'associazione industriale nella mancata decisione di chiudere la zona di Alzano e Nembro quando l'epidemia aveva raggiunto la Bergamasca. Varcando l'ingresso secondario della procura, nel tardo pomeriggio di ieri l'assessore ha spiegato a chi gli chiedeva se fosse preoccupato: "No,non scherziamo. Veniamo qui a fare i testimoni. E un atto dovuto. La magistratura sta approfondendo e noi siamo persone che conoscono i fatti. Veniamo qui ad informare". La deposizione di Gallera, che è avvenuta davanti al procuratore facente funzione Maria Cristina Rota e i pm Silvia Marchina e Paolo Mandurino, ha riguardato tutti i tre temi finiti sotto la lente di ingrandimento della magistratura di Bergamo. L'assessore ha lasciato la procura attorno alle 20,15. Ai pm Gallera avrebbe spiegato che sull'istituzione della zona rossa che avrebbe dovuto isolare Nembro e Alzano Lombardo, i due comuni dove ai primi di marzo era stato individuato il secondo importante focolaio di coronavirus in Lombardia, la Regione "aspettava" che si muovesse il Governo. Gallera avrebbe affermato, come d'altronde ha sempre dichiarato pubblicamente, che si aspettava che intervenisse l'esecutivo nei giorni della prima settimana di marzo, in pieno allarme. Quando già sembrava che la zona rossa stesse per essere istituita, arrivò la decisione di Roma di trasformare tutta la Lombardia e province di altre regioni in zona arancione. L'assessore sul punto avrebbe anche affermato, ribadendo in sostanza quanto già detto in alcune interviste, che la Regione non ha proceduto perché quando il 5 sono arrivate le camionette dell'esercito, era convinta procedesse il governo. Settimane dopo, disse poi Gallera in una intervista, ci si era resi conto che esisteva una legge che permetteva anche alla Regione di procedere con la creazione della zona rossa nella Bergamasca. "Lo dico all'assessore Gallera e al presidente Fontana che anche il mio papà dorme sonni tranquilli. Purtroppo per la loro incapacità e non per il virus non si sveglia piu". È  lo sfogo di Walter Semperboni, vicesindaco di centrodestra di Valbondione, paese della Val Seriana che ha atteso davanti alla procura di Bergamo con addosso la fascia tricolore l'assessore al Welfare Giulio Gallera per dirgli che "deve andarsene". Semperboni avrebbe voluto parlare con Gallera che "non ha mai risposto a una mia telefonata". Ai giornalisti, ha poi raccontato la tragica storia di suo padre paziente Covid-19 all'ospedale di Piario, nella Bergamasca: "Ho avuto la sfortuna di portare là mio papà. Tutti parlano di Alzano  ma a Piario il primo marzo nessuno tra infermieri e medici indossava la mascherina e i guanti". Il vicesindaco ha spiegato anche che in quei giorni nel presidio sanitario della Valseriana "la situazione era insostenibile. Nel pronto soccorso un giorno saremmo stati in 200. Eravamo tutti accalcati". Dal padiglione di chirurgia "dove hanno messo i pazienti Covid, mio papà mi ha chiamato dicendomi mi stanno facendo morire". Semperboni ha proseguito che "io non chiedo ai politici che mio padre dovesse guarire ma che potesse morire dignitosamente". "Da amministratore libero dico che da Nord a Sud abbiamo politici incapaci - ha concluso -. Gallera se ne dovrebbe andare e Fontana non dovrebbe permettersi di dire che dorme sonni tranquilli". Ma l'assessore è uscito da un altro ingresso della procura. La procura di Bergamo sta indagando sulla mancata chiusura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano Lombardo, sulle morti nelle Rsa e sta effettuando approfondimenti sulla mancata istituzione di una zona rossa che avrebbe dovuto interessare i comuni di Alzano e  Nembro. E sarà proprio questo il tema, si presume, dell'audizione di Bonometti. In un'intervista di qualche tempo fa, il presidente di Confindustria lombardia aveva detto: "Nelle riunioni che abbiamo avuto tra fine febbraio e i primi giorni di marzo, la Regione è sempre stata d'accordo con noi nel non ritenere utile, ma anzi dannosa, una eventuale zona rossa sul modello Codogno per chiudere i comuni di Alzano e Nembro". Nelle scorse settimane era stato ascoltato anche il direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo che aveva messo a verbale, tra l'altro, che la decisione di riaprire il pronto soccorso di Alzano il 23 febbraio, dopo l'accertamento dei primi due casi di Coronavirus, era stata "presa in accordo con la direzione generale della Asst di Bergamo Est", in quanto era stato assicurato che era "tutto a posto": i locali sanificati e predisposti "percorsi separati Covid e no Covid".

Giuseppe De Lorenzo per il Giornale il 29 maggio 2020. Non cambia la linea Maginot della Lombardia: se la Val Seriana non è diventata "zona rossa", le colpe vanno cercate a Roma e non al Pirellone. Lo ha ripetuto oggi Attilio Fontana ai pm della procura di Bergamo che indagano sui decessi nella Bergamasca. Era "pacifico", ha detto il governatore, che quella decisione "spettasse al governo". Nessun passo indietro, insomma. "Il presidente della Regione Lombardia - ha spiegato l'avvocato Jacopo Pensa - è stato convocato dai pm in qualità di persona informata sui fatti con lo spirito autentico di ascoltare una persona che ha contribuito ad accrescere il loro patrimonio conoscitivo sulle vicende relative al coronavirus". La partita inizia a metà mattina, quando il governatore arriva di fronte ai portoni della procura con la scorta assegnatagli dopo le ripetute minacce ricevute. Ad attenderlo c'è un gruppo di contestatori, tenuti a distanza dalla polizia in tenuta anti sommossa. L'audizione dura oltre due ore e nel segreto delle stanze i magistrati ripercorrono le stesse domande rivolte ieri a Giulio Gallera. "Noi aspettavamo Roma, fino all’inizio di marzo avevamo sempre proceduto d’accordo con il governo su quel tipo di provvedimenti", aveva spiegato l'assessore al Welfare al pool di magistrati, precisando di aver verificato solo tempo dopo che la Regione avrebbe potuto operare di propria iniziativa. "Ma in quella fase - è la tesi del Pirellone - ci eravamo sempre relazionati con l’esecutivo e con l'Istituto superiore di sanità". Sia Gallera che Fontana avrebbero inoltre smentito di aver ricevuto pressioni da parte del mondo economico locale per evitare il blocco delle fabbriche. Un tema che i pm intendono approfondire e per questo hanno già convocato il presidente regionale di Condindustria, Marco Bonometti. L'indagine però sembra destinata ad allargarsi. Sono diversi infatti i passaggi che devono ancora essere chiariti. I pm dovranno far luce su quella richiesta del 3 marzo inviata dalla Regione al governo attraverso il Comitato Tecnico Scientifico in cui si evocavano misure più restrittive. Una ipotesi, visto l'alto numero di contagi, sollecitata anche degli scienziati ma poi ignorata da Palazzo Chigi, che invece deciderà, diversi giorni dopo, di chiudere l'intera Lombardia. "È indegno convocare Fontana in Procura", ha detto oggi Salvini dimostrando che la ferita è ancora aperta. "A questo punto perché non convocare il presidente del Consiglio, visto che la zona rossa era di sua competenza? Viene il dubbio che ci sia un attacco alla Regione Lombardia non per motivi sanitari ma per fini politici". I magistrati, coordinati dal procuratore facente funzioni Maria Cristina Rota, indagano intanto sui vari fronti della gestione dell'emergenza coronavirus nella Bergamasca. Non solo la mancata "zona rossa", ma anche la chiusura dell'ospedale di Alzano (durata solo poche ore) e la strage nelle Rsa. Sul nosocomio Gallera ha raccontato di aver ricevuto rassicurazioni sulla sanificazione e sul fatto che potesse restare aperto per gestire le emergenze. Una ricostruzione confermata anche da una fonte della task force al Giornale.it, secondo cui la chiusura del Pronto soccorso dopo i tanti contagi già registrati "sarebbe stata inutile".

I pm danno ragione a Fontana: "Zona rossa? Spettava al governo". Il governatore ascoltato in procura a Bergamo come persona informata sui fatti, la pm gli dà ragione: "Spettava al governo chiudere di Alzano e Nembro". Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 29/05/2020 su Il Giornale. Non cambia la linea Maginot della Lombardia: se la Val Seriana non è diventata "zona rossa", le colpe vanno cercate a Roma e non al Pirellone. Lo ha ripetuto oggi Attilio Fontana ai pm della procura di Bergamo che indagano sui decessi nella Bergamasca. Era "pacifico", ha ribadito il governatore, che quella decisione "spettasse al governo". Una ricostruzione che a quanto pare ha convinto anche il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, che ai microfoni del Tg3 ha fornito un assist forse inaspettato al centrodestra. A chi gli chiedeva a chi spettasse la decisione di istituire la zona rossa, infatti, la pm ha risposto senza mezzi termini: "Da quello che ci risulta è una decisione governativa". La partita inizia a metà mattina, quando Fontana arriva di fronte ai portoni della procura con la scorta assegnatagli a causa delle ripetute minacce ricevute. Ad attenderlo c'è un gruppo di contestatori, tenuti a distanza dalla polizia in tenuta anti sommossa. L'audizione dura oltre due ore e nel segreto delle stanze i magistrati ripercorrono i primi giorni del contagio con le stesse domande rivolte ieri a Giulio Gallera. "Noi aspettavamo Roma, fino all’inizio di marzo avevamo sempre proceduto d’accordo con il governo su quel tipo di provvedimenti", aveva spiegato l'assessore al Welfare, precisando di aver verificato solo tempo dopo che la Regione avrebbe potuto operare di propria iniziativa. "Ma in quella fase - è la tesi del Pirellone - ci eravamo sempre relazionati con l’esecutivo e con l'Istituto superiore di sanità". Sia Gallera che Fontana avrebbero inoltre smentito di aver ricevuto pressioni da parte del mondo economico locale per evitare il blocco delle fabbriche. Un tema che però i pm intendono approfondire e per questo hanno già convocato il presidente regionale di Condindustria, Marco Bonometti. L'indagine intanto sembra destinata ad allargarsi. Sono diversi infatti i passaggi che devono ancora essere chiariti. La procura dovrà far luce su quella richiesta del 3 marzo inviata dalla Regione al governo attraverso il Comitato Tecnico Scientifico in cui si evocavano misure più restrittive. Una ipotesi, visto l'alto numero di contagi, sollecitata anche degli scienziati ma ignorata da Palazzo Chigi, che invece deciderà, diversi giorni dopo, di chiudere l'intera Lombardia. "È indegno convocare Fontana in Procura", ha detto oggi Salvini dimostrando che la ferita è ancora aperta. "A questo punto perché non convocare il presidente del Consiglio, visto che la zona rossa era di sua competenza?". I magistrati stanno "svolgendo indagini serrate" sui vari fronti della gestione dell'emergenza coronavirus nella Bergamasca. Non solo la mancata "zona rossa", ma anche la chiusura dell'ospedale di Alzano (durata solo poche ore) e la strage nelle Rsa. Sul nosocomio Gallera ha raccontato di aver ricevuto rassicurazioni sulla sanificazione e sul fatto che potesse restare aperto per gestire le emergenze. Una ricostruzione confermata anche da una fonte della task force al Giornale.it, secondo cui la chiusura del Pronto soccorso dopo i tanti contagi già registrati "sarebbe stata inutile". Staremo a vedere. "La seconda tappa - spiegano infatti i pm - sarà accertare se vi sia stato nesso di causalità tra i fatti come ricostruiti e gli eventi e, in caso affermativo, stabilire a chi fanno capo le responsabilità. Si tratta di indagini lunghe e complesse che richiederanno tempo. Vi è da parte della popolazione bergamasca richiesta di giustizia e vi è il dovere nostro di accertare i fatti facendo la massima chiarezza su essi, la cui valutazione sarà operata con particolare attenzione tenuto conto di tutte le particolarità della delicata situazione". I magistrati chiedono quindi "serenità" per lavorare "in pace". Ma la partita è anche politica. E lo scontro si preannuncia infuocato.

Marco Travaglio, la prima pagina del Fatto contro Fontana: "Zona rossa in Lombardia? La legge smentisce la pm di Bergamo". Libero Quotidiano il 30 maggio 2020. “Da quello che ci risulta è stata una decisione governativa”. Con queste parole il pm di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha risposto ai microfoni del Tg3 alla domanda su chi avrebbe dovuto prendere la decisione sulla zona rossa a Nembro ed Alzano Lombardo. Sostanzialmente ha confermato la versione di Attilio Fontana, che nel pomeriggio di ieri è stato ascoltato come persona informata dei fatti e ha ribadito che spettava a Roma chiudere i due comuni che hanno fatto registrare un boom di contagi a inizio marzo. La versione del pm di Bergamo è stata a dir poco indigesta per Marco Travaglio e il suo Fatto Quotidiano, che però non ha rinunciato ad una prima pagina contro il governatore della Lombardia, ritratto con la toga addosso. “La pm ha già ‘assolto’ Fontana, ma la legge smentisce tutti e due”, titola il quotidiano diretto da Travaglio, che evidenzia il fatto che anche i presidenti di Regione possono adottare il provvedimento delle zone rosse. Una giustificazione risibile, che non cancella le colpe del governo: se avesse fatto il proprio dovere, probabilmente si sarebbero evitate molte morti. 

 Travaglio, il nuovo Emilio Fede di Conte. Roba da non crederci se non fosse scritto nero su bianco. Giuro che l'ho riletto due volte e ancora adesso non me ne capacito. Alessandro Sallusti, Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. Roba da non crederci se non fosse scritto nero su bianco. Giuro che l'ho riletto due volte e ancora adesso non me ne capacito. Ha scritto ieri sul suo giornale Marco Travaglio, ex portavoce dei giustizialisti più incalliti, quelli che per intenderci sostengono che Piercamillo Davigo fa bene a scrivere che «l'errore italiano è quello di aspettare le sentenze» perché se uno è colpevole lo si vede a occhio e l'occhio dei pm è sostanzialmente infallibile: «In oltre trent'anni di indagini e processi ne abbiamo viste tante ma questa ci mancava: un pm che appena avviata una inchiesta emette già una sentenza per giunta sballata e per giunta in tv». Ve lo assicuro, questa cosa non l'ho scritta io (che lo denuncio da sempre) né lo ha detto Silvio Berlusconi (che lo sostiene da sempre). Almeno che non ci sia un refuso sulla firma Marco Travaglio è passato da questa parte, quella che sostiene che la parola e i teoremi dei magistrati valgono zero fino a sentenza definitiva (a volte anche oltre) e comunque non fanno testo se pronunciate fuori da una aula giudiziaria. Attenzione a festeggiare, ovviamente c'è il trucco. L'uomo che per anni ha condannato (mediaticamente) chiunque gli sia passato attorno, che ha inneggiato alle conferenze stampa dei magistrati e sentenziato seguendo il battito di ciglio di qualsiasi toga si è inalberato, non in quanto rinsavito, ma perché una pm di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha osato dire che a quanto risulta la strage sanitaria nel Bergamasco non è colpa di Fontana e della Lombardia, ma di Conte e del suo governo che avrebbero dovuto decretare la zona rossa in tempo utile. Un magistrato si permette di parlare (malino) di Conte? Apriti cielo, a quel paese Davigo e il giustizialismo, da buon cane da guardia che azzanna non il potente ma chi osa avvicinarsi al suo potente protetto di turno ecco che parte l'assalto contro il pm, con una partigianeria e violenza che in confronto Emilio Fede nel difendere Berlusconi era un moderato agnellino. A differenza del grande Emilio, Travaglio non dirà mai «che figura di m...» ma così vanno le cose. E gli dirò di più. Nella sua personale battaglia a difendere l'amico Conte ci avrà al suo fianco. Siamo convinti che le decisioni politiche, almeno che palesemente truffaldine e illegali, non debbano mai essere giudicate dai magistrati ma solo dagli elettori. Questo vale per Conte ma anche per Fontana, Salvini e chiunque altro. Immagino sia tutto fiato sprecato, ma mai come oggi siamo felici e orgogliosi di avere il fiato giusto.

Il commissario Pd ammette: la zona rossa la faceva il governo. L'assist a Fontana di Sergio Venturi, ex assessore in Emilia. Il "rammarico" per la mancata chiusura di Piacenza. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 05/06/2020 su Il Giornale. Sergio Venturi è l'ex assessore alla Sanità di Stefano Bonaccini, chiamato subito dopo le elezioni a coprire il ruolo di Commissario all'emergenza coronavirus in Emilia Romagna. È l'uomo delle dirette Facebook per la conta degli infetti, ma anche il coordinatore delle scelte emiliane contro il Covid. È uno, insomma, che sa bene come sono andate le cose nei primi giorni dell'epidemia, quando cioè le autorità dovevano decidere se creare le zone rosse oppure no. Molto si è detto della Lombardia, di Alzano, Nembro e della Bergamasca. Da una parte c’è chi sostiene fosse il governo a doverla istituire, soprattutto dopo le richieste avanzate dal Pirellone, bollinate dal Comitato scientifico e poi ignorate dall’esecutivo (che pochi giorni dopo trasformerà l’intera Lombardia in una zona arancione). Dall’altra ci sono invece Palazzo Chigi, il ministro Boccia e tanti altri che imputano a Attilio Fontana e Giulio Gallera il fatto di non aver forzato la mano e sbarrato in autonomia la Val Seriana. Sul caso indagano i pm, che per ora sembrano dare ragione al Pirellone. Ma non sono i soli. L’ultimo assist alla Lombardia arriva infatti da chi meno te lo aspetti, cioè da Sergio Venturi, esponente di punta della macchina piddina emiliana. Parlando con i Giovani Democratici in diretta Fb, il commissario è tornato a parlare delle scelte fatte tra fine febbraio e inizio marzo. Ha criticato la decisione di fare un "lockdown generalizzato" in tutta Italia ("Se dovessi rifarlo domani, non lo rifarei, non si può chiudere un intero Paese quando non ce n’è alcun bisogno"). Ma soprattutto ha toccato la nota dolente delle zone rosse. Piacenza, che dista solo 16 chilometri da Codogno, è stata una delle province più martoriate dal morbo. In proporzione agli abitanti, l’incidenza su questo territorio per morti è contagi è stata maggiore che nella Bergamasca. Molti, tra cui per primo ilGiornale.it, si sono chiesti per quale motivo nessuno abbia pensato di istituire la zona rossa anche nel Piacentino. Venturi ebbe già a dire che la provincia aveva scontato “conseguenze nefaste” anche a causa delle mancate “misure di distanziamento” e di “blocchi produttivi”. Un po’ come in Val Seriana. Dunque anche qui la domanda è: chi ha sbagliato? Il governo, che avrebbe dovuto includere Piacenza insieme nella zona rossa di Codogno, oppure Bonaccini, che al pari di Fontana non si sarebbe mosso in autonomia? Tertium non datur. "Perché nessuno tiene conto di questo?", si domanda il deputato di Fdi, Galeazzo Bignami. Venturi nella sua diretta sembra sposare, seppure indirettamente, la linea di Fontana&co. E cioè quella che era il governo in quei primi giorni di marzo a decidere cosa chiudere e cosa tenere aperto. “L’unico rammarico che ho - dice - è che questa cosa, quando è successa a Codogno, il governo abbia stabilito la zona rossa nell’alto lodigiano pensando che un po’ facesse da argine e che quindi i 16 chilometri che separano Piacenza da Codogno fossero sufficienti a impedire il contagio dell’Emilia Romagna". Cosa ovviamente impossibile. "Altrimenti - aggiunge - noi avremmo avuto una epidemia perfno inferiore a quella del Veneto come conseguenze, se avessimo avuto in quel momento una zona rossa che comprendeva anche gran parte della provincia di Piacenza”. È vero che qualche tempo dopo (il 16 marzo) l’Emilia Romagna deciderà in (quasi) autonomia la chiusura di Medicina e di una parte di Rimini. Ma è altrettanto vero che dalle parole di Venturi si evince come in quelle ore, cioè tra il 21 febbraio e l’8 marzo, fosse il governo a guidare la partita delle zone rosse. Non le regioni. Delle due, dunque, l’una. O quella decisione spettava a Palazzo Chigi, come sembra far intendere il commissario emiliano. Oppure Bonaccini sarebbe dovuto intervenire al pari di Fontana nella Bergamasca. E quindi, per banale par condicio, oggi dovremmo trovare il governatore Pd sul banco degli imputati tanto quanto il collega leghista. Ma chissà perché, non è così.

La legge sulle zone rosse? ​Ecco perché il governo mente. La chiusura della Val Seriana a chi spettava? La pm di Bergamo: "Decisione governativa". Palazzo Chigi prova a difendersi. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 01/06/2020 su Il Giornale. Per quanto nascoste da tutti i media (a parte lodevoli eccezioni), le dichiarazioni di due giorni fa della pm di Bergamo che indaga sulla mancata zona rossa in Val Seriana sono di una dirompenza politica incredibile. E forse inattesa. "Da quel che ci risulta era una decisione governativa”, ha detto Maria Cristina Rota. Una lettura che smonta le convinzioni di chi è convinto che se la Bergamasca non è stata chiusa come Codogno, la colpa sia tutta da addossare alla Regione. E che ha costretto il governo ad una preoccupata contro-offensiva auto assolutoria. In vista, probabilmente, di una convocazione di fronte ai magistrati. Palazzo Chigi ha fatto trapelare via Corriere la presenza di un “dossier” (?) sul tavolo di Giuseppe Conte. La linea difensiva resta quella già tracciata a suo tempo da Francesco Boccia, ministro degli Affari regionali e grande fustigatore dei governatori. Il piddino aveva riesumato una vecchia legge del 1978 secondo cui “anche la Regione poteva istituire la zona rossa” in “piena autonomia”. L’articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n.833 dice che spetta al ministro della Sanità emettere ordinanze in materia di igiene e sanità pubblica, ma anche che “nelle medesime materie sono emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale”. Insomma: Fontana poteva fare di testa sua. Ma è davvero così? I ragionamenti da fare sono due. Uno di tipo pratico-giuridico, l’altro di natura politica. Iniziamo dal principio. Sabino Cassese, giudice costituzionale emerito, ha già spiegato in tv che “l'errore è stato ritenere che questo intervento fosse un intervento normale in materia di sanità, mentre riguarda un'epidemia diventata pandemia, e le profilassi internazionali sono indicate come materie di competenza esclusiva dello Stato”. Il riferimento è agli articoli 117 e 120 della Costituzione, secondo cui in casi di “profilassi internazionale” è il governo centrale a dover sbrogliare la matassa. Non le Regioni. Se ci trovassimo di fronte ad una lotta tra fonti del diritto, a prevalere sarebbe ovviamente la Carta fondamentale e non la legge del '78. Va detto inoltre che lo stesso Boccia, pochi giorni fa, per evitare che la Sardegna bloccasse gli ingressi ai turisti lombardi, ha ricordato “l’articolo 120 della Costituzione" secondo cui "la Regione non può istituire provvedimenti che ostacolino la libera circolazione delle persone”. È l'esatto contrario di quanto sostenuto per la zona rossa nella Val Seriana, dunque la domanda sorge spontanea: se Solinas non può bloccare i turisti, perché Fontana avrebbe potuto chiudere in autonomia Nembro e Alzano Lombardo? Infine c’è da tener conto del contesto politico del momento. Primo: le “zone rosse” di Vo', Codogno e Medicina sono state istituite "di concerto con la prefettura" e comunque grazie all’impiego della forza pubblica garantita dal governo. Secondo: in quei giorni Roma chiedeva alle Regioni di non fare di testa propria e di seguire la rotta segnata da Roma. Quando Luca Ceriscioli, governatore Pd delle Marche, decise di chiudere le scuole in barba alle indicazioni di Palazzo Chigi, il governo decise addirittura di impugnare l’ordinanza. E le dichiarazioni dell’esecutivo in quei giorni seguivano la stessa identica litania. Ecco alcuni esempi. Speranza: “È indispensabile che ci sia un solo centro di coordinamento per la gestione dell’emergenza in cui siano pienamente coinvolte tutte le regioni e con la guida del nostro coordinamento scientifico. Non servono scelte unilaterali di singoli territori”. Conte: “Non è possibile che tutte le Regioni vadano in ordine sparso perché le misure rischiano di risultare dannose”. Boccia: “Ogni amministrazione territoriale, prima di emanare qualsiasi tipo di ordinanza, deve raccordarsi con l’autorità nazionale al lavoro in maniera permanente presso la sede della Protezione Civile. Agire in maniera autonoma, senza un raccordo nazionale, rischia soltanto di creare caos e disinformazione”. Davvero c’è chi pensa che Fontana avrebbe potuto agire da solo, senza subire l’ira funesta del Consiglio dei ministri?

Lombardia, coronavirus e zone rosse: perché ora i magistrati devono indagare Giuseppe Conte. Antonio Socci Libero Quotidiano il 31 maggio 2020. Dopo giorni di attacchi giornalistici e politici al governatore lombardo Fontana, venerdì è arrivata una doccia fredda per i suoi critici. Si tratta dell'importante dichiarazione del procuratore aggiunto di Bergamo, Maria Cristina Rota, la quale - a proposito della mancata chiusura dei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro (ai primi di marzo) - ha dichiarato che l'istituzione di una zona rossa «da quello che ci risulta è una decisione del governo». Curiosamente ieri, su molti giornali, una dichiarazione così importante ha avuto poco (o nessun) rilievo. Eppure sono parole molto significative perché coincidono con quanto ha sempre sostenuto il governatore lombardo Fontana («era pacifico che fosse una decisione che spettava al governo, visto che aveva già inviato l'esercito in quelle zone»). Del resto proprio dal governo era già stata presa, pochi giorni prima, la decisione di chiudere le zone rosse attorno a Codogno e Vò euganeo. Nessuna regione aveva assunto quelle misure. La dichiarazione del procuratore è arrivata al termine della giornata di venerdì quando il procuratore ha interrogato proprio Fontana nell'ambito della sua inchiesta che per ora non ha indagati. Secondo le indiscrezioni adesso potrebbero essere interrogati anche i ministri Speranza e Lamorgese e pure il premier Conte. L'unico giornale di area governativa che ha dato risalto alle parole del procuratore è stato Il Fatto quotidiano che ha titolato: «La pm ha già "assolto" Fontana, ma la legge smentisce tutti e due». Il giornale sostiene infatti che in base alla legge 883 del 1978 «gli enti locali hanno lo stesso identico potere di Palazzo Chigi» e «a dimostrazione del fatto che le Regioni possono agire senza aspettare il governo ci sono diverse misure restrittive adottate negli ultimi mesi dai governatori». Tutto questo però è avvenuto solo dopo l'8 marzo, cioè dopo il lockdown della Lombardia e poi dell'intera Italia, e - presumibilmente - sempre in accordo col governo che infatti quando non era d'accordo si è opposto, come nel caso delle Marche, quando impugnò - a fine febbraio - l'ordinanza del governatore di chiudere le scuole.

COSÌ PARLÒ BOCCIA. Del resto è stato il governo stesso a sottolineare esplicitamente certe sue prerogative nell'emergenza Covid. Sembra che tutti lo abbiano dimenticato, ma proprio il 4 marzo - esattamente nelle ore in cui si stava discutendo della chiusura dei due comuni bergamaschi - nella sede più solenne, la Camera dei deputati, il ministro per gli Affari Regionali, Francesco Boccia, espose la dottrina del governo in materia e - se si ascoltano oggi le sue parole - suonano coincidenti con la dichiaratore del procuratore di Bergamo (e con quanto ha sempre sostenuto Fontana). Il testo dell'intervento del ministro alla Camera (il video è anche nel sito del Fatto quotidiano) è riportato nel sito del governo con questo eloquente titolo: «Il ministro Boccia: "Quando c'è un'emergenza nazionale decide lo Stato"». Il ministro disse testualmente: «La nostra Costituzione non prevede una clausola di supremazia e non sancisce in alcun modo la preminenza dello Stato sulle Regioni, però il complesso delle norme vigenti ci consente di dire con chiarezza che in caso di emergenza nazionale decide lo Stato, anzi se permettete, comanda lo Stato. Le competenze esclusive statali in tema di prestazioni e di profilassi internazionale sono disciplinate dall'articolo 117, comma secondo lettera M della Costituzione». Boccia aggiunse: «Già da tempo la Corte Costituzionale ha chiarito che le ordinanze contingibili e urgenti hanno natura semplicemente di atti amministrativi, mentre la competenza si radica su livelli inferiori fino a quando questi sono considerati adeguati. Spetta allo Stato quindi quando il livello regionale per intensità o estensione non possa ritenersi tale. È evidente che nel caso di Covid 19, trattandosi di una epidemia a carattere transnazionale, il livello adeguato per le misure di contrasto non può essere che quello statale. Lo dico perché è necessario sottolineare come la Corte Costituzionale ha da tempo precisato che anche nelle materie di competenza concorrente, tra le quali è compresa la tutela della salute, lo Stato nel caso di inadeguatezza da parte delle Regioni può avocare a sé la funzione legislativa. Ricordo all'Aula - ha concluso - le sentenze 303 del 2003 e numero 6 del 2004 e la sentenza 246 del 2019».

IL GIALLO DEL 4 MARZO. Dunque, dice il ministro, «in caso di emergenza nazionale decide lo Stato, anzi se permettete, comanda lo Stato». Queste parole venivano pronunciate proprio nelle stesse ore in cui il governo stava predisponendo la zona rossa per Alzano e Nembro. E proprio Il Fatto quotidiano, ieri, ha riportato particolari inediti di quello che accadde: «Poche ore, anzi pochi minuti e due telefonate. Tanto è bastato al governo per tornare sui propri passi e decidere, dopo averla disposta, di non istituire più la zona rossa attorno ai comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro. Nessun documento scritto, solo ordini a voce». Il Fatto ricostruisce anche un «particolare inedito» in base alla «testimonianza di chi in quei primi giorni di marzo aveva il compito di approntare i check point nelle aree della zona rossa. L'interlocutore ai vertici di comando è il ministero dell'Interno». Dunque Davide Milosa, sul Fatto, riferisce che (proprio come ha sempre ripetuto il governatore Fontana) «il 4 marzo militari e forze dell'ordine sono stati inviati sul posto e alloggiati in alberghi della zona. In quel momento il piano è di procedere. La fonte interpellata dal Fatto assicura che in quelle ore erano già stati predisposti i check point. Circa cento in tutta la zona. Con l'ordine di partire - ci viene spiegato - saremmo andati a regime in pochissime ore, ma così non è stato». Secondo il Fatto, «il perché sta in una seconda telefonata di stop arrivata tra sabato 7 e domenica 8 marzo sempre dal Viminale e sempre senza atti formali. Da lì a poche ore il Dpcm avrebbe istituito la zona rossa in tutti i comuni della Lombardia». Solo che tra il 4 marzo, data in cui «militari e forze dell'ordine sono stati inviati sul posto e alloggiati in alberghi della zona», pronti ad andare «a regime in pochissime ore», e la sera dell'8 marzo sono passati alcuni giorni, non proprio pochi. Perché? È a Roma, nei palazzi governativi, che potranno spiegare il motivo di quella marcia indietro. Resta il fatto che le parole pronunciate dal ministro Boccia alla Camera e la notizia delle forze dell'ordine già mobilitate per bloccare la zona rossa, confermano quanto dichiarato dal procuratore di Bergamo (e confermano quanto aveva sempre detto il governatore Fontana).

ANSA il 10 giugno 2020. I pm di Bergamo sentiranno, come persone informate sui fatti, il premier Giuseppe Conte e i ministri della Salute Roberto Speranza e dell'Interno Luciana Lamorgese. Secondo quanto si apprende l'audizione, che potrebbe essere anche fatta a Roma, verterà sulla mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo. L'audizione di Conte, Speranza e Lamorgese, come testimoni, era già stata ipotizzata dopo la deposizione dello scorso 29 maggio davanti ai pm bergamaschi che indagano sul caso dell'ospedale di Alzano, sui morti nelle Rsa e sulla mancata istituzione della zona rossa, del presidente della Lombardia Attilio Fontana e il giorno precedente dell'assessore al Welfare Giulio Gallera. Il governatore aveva affermato che era "pacifico" che, nel pieno della pandemia, nella prima settimana di marzo, spettava a Roma decidere di isolare i Comuni di Nembro e Alzano Lombardo, cosa che poi non è avvenuta in quanto il governo ha trasformato tutta la Lombardia in zona arancione. Sulla stessa linea la testimonianza di Gallera. Il procuratore di Bergamo facente funzione. Maria Cristina Rota, aveva detto pubblicamente che l'istituzione della zona rossa nella Bergamasca avrebbe dovuto essere "una decisione governativa". Almeno per l'audizione di Conte i pm dovrebbero recarsi nella capitale.

Le toghe marciano sulla pandemia: Conte sentito dai pm sulle mancate zone rosse. Il Dubbio il 10 giugno 2020. I magistrati pronti a sentire il premier e i ministri. Oltre 50 le denunce dei familiari delle vittime del bergamasco. I pm di Bergamo sentiranno, come persone informate sui fatti, il premier Giuseppe Conte e i ministri della Salute Roberto Speranza e dell’Interno Luciana Lamorgese. Secondo quanto si apprende l’audizione, che potrebbe essere anche fatta a Roma, verterà sulla mancata istituzione della zona rossa nei comuni di Nembro e Alzano Lombardo.

Le denunce dei familiari delle vittime. Sono una cinquantina i familiari delle persone decedute a causa del coronavirus pronti a entrare in Procura a Bergamo per consegnare di persona ai magistrati le loro denunce. E’ quello che i rappresentanti del Comitato "Noi Denunceremo", l’avvocato Consuelo Locati e il presidente Luca Fusco, hanno definito il "Denuncia – day", il giorno in cui i moti di dolore e rabbia confluiti sulla pagina Facebook del movimento spontaneo nato nei giorni di picco della pandemia si traducono in richieste di giustizia. E, a significare, questa svolta, indossano una mascherina con la scritta "Noi denunciamo". Molti hanno appesi al collo i cartelli con le immagini delle persone care defunte, qualcuno mostra anche la foto dell’urna con le ceneri. “Ho già consegnato in Procura un file contenente tutte le 50 denunce – spiega Locati, che a sua volta ha perso il padre – ora uno a uno entreranno a consegnare la loro denunce in formato cartaceo. E’ giusto che lo facciano in prima persona per evitare la spersonalizzazione della denuncia depositata da un avvocato. Serve anche a sottolineare come la magistratura abbia un’investitura non solo giuridica ma anche morale nel prendersi carico queste denunce. L’ultima che depositerò sarà quella relativa alla vicenda di mio padre, ora sono impegnata a dare voce a chi non ce l’ha”.

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'11 giugno 2020. Per necessità di sintesi, useremo i numeri e non le persone. Quelli che arrivano da Alzano Lombardo e da Nembro nel periodo compreso tra domenica 23 febbraio e il 7 marzo dimostrano una progressione quasi esponenziale dei decessi. Il giorno prima della data di inizio ufficiale del focolaio nella provincia di Bergamo, che ben presto diventerà il più letale d'Europa, sono bastate poche ore per istituire la zona rossa nel Lodigiano, intorno a Codogno, dove era stato appena scoperto il cosiddetto paziente uno. Nell'Italia ormai lontana di quell'ultima settimana di febbraio, sembra quasi che il più sia stato fatto. Per quanto possa apparire incredibile oggi, all'uscita da un tunnel lungo tre mesi, all'inizio della tragedia italiana del coronavirus c'è stato un tempo nel quale la Confindustria di Bergamo pubblicava un video, rilanciato dal sindaco Giorgio Gori, nel quale la città orobica era «running», correva a dispetto delle paure. E lo stesso avveniva a Milano «che non si ferma», e altrove. Le imprese e la politica lombarda non volevano alcuna forma di interruzione delle attività e della vita sociale. Proprio durante la breve fase dell'ottimismo ad ogni costo e contro l'evidenza dei fatti, comincia il contagio. Nel «report coronavirus», inviato quotidianamente da Regione Lombardia alla Protezione civile, già il 27 febbraio emerge in modo chiaro l'esistenza di un nuovo focolaio di Covid-19. In provincia di Bergamo infatti si registrano 72 nuovi casi di positività al coronavirus. Nembro è il quarto Comune più colpito di Lombardia, al pari di Casalpusterlengo che rientra però nella zona rossa, mentre Alzano è il settimo, con 8 contagi. Il 28 febbraio Marco Rizzi, primario del reparto di Malattie infettive del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, è il primo ad andare contro la corrente. «La crescita dell'epidemia è rapidissima, a partire da un focolaio che si è sviluppato dall'ospedale di Alzano. La terapia intensiva e ogni altro reparto sono già saturi. Servono misure di contenimento». La sua denuncia cade nel vuoto. Il primo marzo, i contagi toccano quota 43 a Nembro, 19 ad Alzano. Ancora il giorno dopo, l'assessore al Welfare lombardo Giulio Gallera si dice contrario all'istituzione di una eventuale zona rossa, esprimendo «forti dubbi» sulla sua utilità. È come se per una lunga settimana fossero esistite due realtà parallele. Mentre imprenditoria e politica, compresi molti amministratori locali della zona, frenavano sull'ipotesi di provvedimenti urgenti, gli ospedali della provincia di Bergamo vivevano un dramma difficile persino da raccontare. In quei giorni il Pronto soccorso del Papa Giovanni XXIII sembra un ospedale da campo. Decine di pazienti con polmoniti gravi, che rantolano, sulle barelle, nei corridoi. Viene aperta la sala maxi-afflusso, destinata a terremoti e calamità naturali, ma non basta. Alla fine, prevalgono i fatti, come sempre. Nella provincia di Bergamo è in corso una strage. Ma da dove è partito il contagio? Lo ha già detto Rizzi, è ormai cosa nota. Al Pesenti-Fenaroli di Alzano succedono cose strane. A partire dalla seconda metà di febbraio vengono denunciati dai familiari delle vittime almeno cinque casi di decessi dovuti a polmonite interstiziale. Si tratta di pazienti ricoverati in corsia, nel reparto di medicina generale, aperto a tutti. Il 23 febbraio, dopo le prime due morti «ufficiali» per coronavirus, il direttore sanitario, pressato dai suoi medici, decide di chiudere l'ospedale. Poche ore dopo, la Regione ordina l'immediata riapertura. Da quel momento saranno i suoi funzionari a gestire direttamente l'ospedale. La Procura di Bergamo ha fatto sequestrare ai carabinieri del Nas tutte le cartelle cliniche di quel periodo, fino al 7 marzo. L'ipotesi è che in quel lasso di tempo ci siano stati ricoveri promiscui tra pazienti Covid e malati di altre patologie in almeno tre reparti. Anche dopo la chiusura temporanea del nosocomio, quando sono stati creati percorsi differenziati, la separazione non si sarebbe dimostrata impermeabile come avrebbe dovuto essere. La prima interlocuzione della Lombardia con il governo, avente per oggetto la provincia di Bergamo, risale al due marzo. Seguono alcuni giorni di discussioni durante i quali il presidente Fontana e i suoi assessori non arriveranno mai a chiedere l'istituzione di una vera e propria zona rossa. Come se il primo passo dovesse essere fatto da altri. Ci pensa il Comitato tecnico scientifico che segue l'emergenza per l'esecutivo. Gli esperti propongono «di adottare le opportune misure restrittive già in uso nei Comuni della "Zona Rossa" al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue» per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro, paesi «che hanno fatto registrare casi ascrivibili a un'unica catena di trasmissione». È il 3 marzo, non c'è ancora una decisione ufficiale. Ma la zona rossa sembra cosa fatta. La sera del 5 marzo al Palace Hotel di Verdellino arrivano cento carabinieri del Reggimento di Milano. Davanti all'albergo sono parcheggiate camionette e blindati. «Noi siamo pronti» dicono. A due chilometri di distanza, al Continental di Osio Sotto, ci sono altri cento poliziotti. Poi ottanta soldati dell'Esercito, e altri cinquanta finanzieri. Tutto è pronto per la zona rossa. L'ordine non arriverà mai. Alzano Lombardo e Nembro diventeranno zona rossa solo il 9 marzo. Insieme al resto della Lombardia e dell'Italia.

Travaglio chiama il sindaco Gori: “Giorgio Covid”. Ed è bufera. Il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, insulta il sindaco di Bergamo Gori. Il Dubbio il 7 luglio 2020. “L’attacco che oggi il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, riserva a Giorgio Gori è letteralmente vergognoso, a partire dal titolo Giorgio Covid. Solidarietà, prima che all’amico, al sindaco di una città martire”. Il primo affondo arriva dal capogruppo Pd in Senato Andrea Marcucci, che si idigna per l’articolo de direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio ha dedicato al sindaco di Bergamo un editoriale dal titolo “Giorgio Covid.” Negli ultimi giorni si è infatti acceso l’ennesimo dibattito all’interno del Partito Democratico. Le varie anime dem hanno fatto sentire la propria voce, condizionando tutto il centrosinistra. Tra i tanti che hanno rilasciato alcune dichiarazioni in merito alla situazione interna c’è stato anche Gori, a cui Travaglio ha riservato un editoriale in cui contesta al sindaco di Bergamo la sua ‘scarsa’ reazione dopo la dichiarazione in Senato di Matteo Renzi che disse: ‘I morti di Brescia e di Bergamo, se avessero potuto parlare, ci avrebbero detto di ripartire e farlo per loro'”.

Ecco perché Conte verrà sentito dai magistrati: cosa accadde nei giorni in cui si decise di non chiudere la Val Seriana. Pubblicato giovedì, 11 giugno 2020 da La Repubblica.it. Il testo qui sotto è estratto dall'inchiesta di Repubblica "L'Ora Zero". A precipizio. O dei giorni in cui tutto comincia a venire giù 3-6 Marzo. La curva del contagio si impenna, come impazzita. In quattro giorni, dal 28 febbraio al 2 marzo, si passa da 888 a 2.036 malati. I morti raddoppiano, arrivando a 52. Milano prova a non fermarsi. Lo stesso fa il resto dell'Italia. Il Quirinale chiude a ogni chiacchiera che accrediti lo scenario di un esecutivo d'emergenza. La mattina del 2 marzo, Roberto Speranza fa un giro di telefonate. Parla con Conte, con i capidelegazione della maggioranza. A tutti dice: "La mia opinione è che bisognerebbe chiudere". Tutto? Tutto, come raccomanda il Comitato tecnico scientifico, che il ministro considera l'unica voce autorevole nell'emergenza. La sera di quel 2 marzo, accade anche dell'altro. A Palazzo Chigi, arriva un'indicazione chiara dalla Lombardia: "Si sospetta un nuovo focolaio a Bergamo". La città che, ancora il 26 febbraio, il sindaco Giorgio Gori incitava a "non fermarsi". Bergamo, al contrario, dovrebbe fermarsi. E subito. Anche se nessuno avrà la forza di farlo per almeno una settimana. Neanche a dire che i segnali non manchino o non siano evidenti. Lo scrive, in una mattina di quei primi giorni di marzo, Antonio Misiani, sottosegretario all'Economia, in una chat dei parlamentari lombardi del Pd. "Ci sono più morti di quello che si dice. La gente rischia di morire in casa. Dobbiamo fare qualcosa". Nel Governo si inizia a ragionare di "zona rossa", ma nessuno si azzarda ad affacciare la proposta di chiudere le attività produttive (la decisione arriverà solo il 23 marzo). Nelle settimane successive, tutti diranno: "Le pressioni per restare aperti erano fortissime". È la verità. Nell'afasia di quei giorni, pesano ragioni economiche e industriali. La Val Seriana, il Bergamasco, il Bresciano sono uno dei motori del nostro Pil. "Se spegniamo il motore dell'Italia - è il tormento di Conte - rischiamo che non si riaccenda più". Bankitalia, intanto, prevede che l'epidemia ci costerà un calo del Pil a due cifre. Eppure, non è solo a Conte che bisogna chiedere conto di quel ritardo (interpellato, il premier non intende fornire una versione ulteriore).

C'è Confindustria. C'è il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. C'è il Pd. "Interveniamo - è la linea -, mettiamo in sicurezza le aree più colpite, ma non fermiamo la produzione industriale". La continuità produttiva è un'ossessione, in quei giorni. In una riunione del Consiglio dei ministri, è Patuanelli a spiegare che una filiera essenziale come l'agro-alimentare include fabbriche che servono per garantire la produzione: chi produce tetra pak, ad esempio, oppure i tappi delle bottiglie. "Senza - spiega - si blocca tutto".

Ci sono soprattutto il governatore lombardo Attilio Fontana e il suo assessore al Welfare Giulio Gallera. Fin dall'inizio dell'emergenza le loro voci si accavallano, si confondono, si annullano l'una con l'altra nelle rituali due conferenze stampa giornaliere e in diretta televisiva: Fontana alle 13, Gallera nel pomeriggio, ma sempre prima delle 18, così da "bruciare" quella di Angelo Borrelli della Protezione civile. Il canovaccio è sempre il solito: alludere alla mancanza di sostegno - in termini di fornitura di dispositivi di protezione individuale e tamponi - da parte del governo centrale, eludere responsabilità politiche proprie, accusare i palazzi romani di non comprendere la reale portata della catastrofe lombarda.

Come a dire, insomma, che se la Lombardia a trazione salviniana sta peggio degli altri è solo perché lì il virus ha colpito più forte e a Roma non sanno che pesci prendere. Una narrazione che potrebbe anche far presa sull'opinione pubblica, se non fosse che è sconfessata da un'altra regione leghista, il Veneto, dove invece stanno ponendo le basi per un modello di approccio al contenimento dell'epidemia efficace, basato sullo screening della popolazione con uso estensivo di tamponi e, in seguito, test sierologici. La fotografia dei dati epidemiologici del 2 marzo parla da sola: in Lombardia 1.254 positivi, 478 ricoverati, 127 pazienti in Terapia intensiva, 38 morti su 52 registrati in tutta Italia; in Veneto, nonostante il focolaio di Vò e cluster di infezione a Padova, Treviso e Venezia, 291 casi di positività, 17 ricoverati in Terapia intensiva, migliaia di tamponi effettuati.

La federazione lombarda dell'Ordine dei medici, nei giorni seguenti, fisserà in sette punti le colpe di Fontana e Gallera. "La mancanza di dati sull'esatta diffusione dell'epidemia, dovuta alla scelta di sottoporre a tampone solo i pazienti ricoverati", ad esempio. L'incertezza nella chiusura delle aree a rischio. La mancata fornitura di mascherine ai medici del territorio e al personale sanitario. "La pressoché totale assenza delle attività di igiene pubblica, come l'isolamento dei contatti dei soggetti risultati positivi". E il mancato governo del territorio che ha determinato la saturazione dei posti letto ospedalieri. Le premesse per l'ecatombe silenziosa nelle Residenze sanitarie per anziani, utilizzate come "slot" per parcheggiare pazienti Covid ultrasettantenni. Una storia non conclusa e su cui converrà tornare.

Conte, intanto, dà mandato al suo ministro di avviare una selezione delle attività essenziali. Patuanelli e la sua vice Alessia Morani lavorano giorno e notte ai "codici Ateco", quelli che serviranno il 22 marzo a chiudere l'intero sistema produttivo non essenziale. Quando nomini Bergamo, il ministro Guerini si fa oggi ancora più serio. "Se siamo stati timidi nella chiusura delle attività produttive? Abbiamo preso misure pesanti per il Paese. Misure pesanti mentre era in corso un dibattito tra chi voleva tenere tutto aperto e chi voleva chiudere tutto. Durante le prime settimane la discussione in Italia fu questa, non c'era una posizione univoca. Molti dicevano, ci dicevano: non fermate l'Italia. Sinceramente penso che abbiamo fatto quel che potevamo, con una tempestiva gradualità, contro un nemico invisibile. E in situazioni del genere la gradualità è un elemento importante perché serve anche a evitare fenomeni di esasperazione".

Il 3 marzo, dopo dieci ore di riunione a Palazzo Chigi, l'esecutivo annuncia la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado. Franceschini, Boccia e Speranza saranno determinanti per questa scelta. Lo scontro interno, però, è durissimo. Conte tentenna. E' una decisione che sembra subire: "Non sono sicuro che sia giusto - dirà al capodelegazione dem e agli altri ministri -, forse ho sbagliato a parlarne". Dice di voler aspettare il parere degli scienziati. E, quando arriva, a metà pomeriggio, la situazione si complica. L'indicazione suona infatti così: se chiudete gli istituti, dovete farlo per almeno due o tre mesi, altrimenti sarà inutile. Conte non è sicuro che il Paese possa reggere.

I ministri dem lo mettono in un angolo, guidati dal capodelegazione. "È giusto chiudere. Fermiamo le scuole, non i territori e neanche la produzione". Conte si arrende. Chiude le scuole annunciando che la misura è temporanea e sarà sottoposta a verifica dopo due settimane. Sa perfettamente, al contrario, che non riapriranno più. Il 3 marzo è anche il giorno in cui arrivano i primi dati epidemiologici dal Bergamasco. In un appunto interno della Presidenza del Consiglio, messo a disposizione di Repubblica, si legge: "Nel tardo pomeriggio al Comitato tecnico scientifico giungevano i dati relativi all'andamento del contagio nella Regione Lombardia e, in particolare, quelli riguardanti due comuni della Provincia di Bergamo (Alzano Lombardo e Nembro)".

È un alert, perché i due piccoli centri avevano "fatto registrare oltre 20 casi, ritenuti con molta probabilità ascrivibili a un'unica catena di trasmissione". Per questo, il Cts propone di estendere anche a quelle aree le misure proprie del regime di "zona rossa", "al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue". Sempre il comitato "si riservava un continuo monitoraggio della situazione epidemiologica nelle grandi città". I due comuni avevano già conosciuto alcune limitazioni con il decreto del primo marzo. Dunque, prosegue il memo di Palazzo Chigi,  "il presidente Conte, in accordo con il ministro della Salute interloquiva con il Cts al fine di approfondire le ragioni della richiesta di applicare il regime della "zona rossa" limitatamente ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro".

Per Palazzo Chigi, "il quadro epidemiologico dei giorni 3 e 4 marzo restituiva una situazione ormai critica in diverse aree della Regione Lombardia (...). Il contagio era ormai esteso nel territorio lombardo: al 3 marzo, a Bergamo risultavano 33 casi; a Lodi, 38; a Cremona, già 76; a Crema, 27; nel Comune di Zogno, 23; nel Comune di Soresina e in quello di Maleo, 19, e comunque in molti altri comuni della Lombardia si registravano numerosi casi di Covid-19".

La decisione da prendere è se limitare la zona rossa "a questi due soli comuni oppure, in presenza di un contagio ormai diffuso in buona parte della Lombardia (oltreché di altre aree limitrofe), estendere il regime della "zona rossa" all'intera regione e alle altre aree interessate".

Il Governo decide di prendere tempo chiedendo un supplemento di istruttoria al Comitato tecnico scientifico. E, soltanto nella "tarda serata di giovedì 5 marzo", si legge ancora nel memo di Palazzo Chigi, "il presidente dell'Istituto superiore di sanità, professor Brusaferro, rispondeva con una nota scritta nella quale segnalava che, pur riscontrandosi un trend simile ad altri comuni della regione, i dati in possesso (l'incidenza di nuovi casi e il loro incremento, nonché la stretta vicinanza a una città) rendevano opportuna l'adozione di un provvedimento volto a inserire i Comuni di Alzano Lombardo e di Nembro nella cosiddetta "zona rossa".

Ma non accade. Il 6 marzo, infatti, si svolge un'altra riunione per decidere la sorte dei due comuni, nella sede della Protezione civile. Sono presenti Conte, i 20 componenti del Comitato tecnico scientifico e il ministro Speranza. "In quella sede - annota ancora il memo interno di Palazzo Chigi - maturava l'orientamento di superare la distinzione tra "zona rossa", "zona arancione" e resto del territorio nazionale in favore di una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedesse la distinzione del territorio nazionale in due sole aree: da una parte, l'intero territorio lombardo, oltre alle Province di altre regioni, alle quali venivano riservate misure di massimo rigore ("zona rossa"); dall'altra, la restante parte del territorio nazionale, al quale si applicavano misure di contenimento meno rigorose".

Non serviva più definire Alzano Lombardo e Nembro "zona rossa", è la tesi di Palazzo Chigi, perché il nuovo regime doveva essere esteso all'intera Lombardia. La definizione dei dettagli, la decisione di dividere il Paese in colori che suggeriscono misure progressive  di contenimento, porta via tutto il 6 marzo e il giorno successivo. La notte del 7 marzo, arriva il dpcm che impone il lockdown in tutta la Lombardia e nelle altre 14 province.

In attesa di ordini. O di una ritirata senza combattere. 6 marzo 2020. Nella hall dell'Hotel Continental a Osio di Sotto, il tempo sembra congelato. Consumata la colazione all'alba, i militari del III Battaglione Lombardia dell'Arma dei carabinieri saliti da Milano, e quelli arrivati da Veneto, Piemonte, Toscana, attendono ordini. C'è chi compulsa lo smartphone per consultare il bollettino dei contagi (quel giorno sono a quota 623, record lombardo e italiano). Qualcuno è già al secondo caffè e la sala eventi dell'albergo sembra una caserma nei minuti che precedono il concentramento.

Quasi 400 uomini - carabinieri, polizia, guardia di finanza, esercito - sono stati mobilitati dal giorno prima - alert partito da Roma - per chiudere Alzano Lombardo e Nembro. I due paesi focolaio della Valle Seriana: l'epicentro del terremoto Covid-19 nella Bergamasca, a lungo la provincia italiana più martoriata dal virus. Il contingente interforze resterà con le braccia conserte. Per cinque interminabili giorni. "Cessata esigenza", comunicheranno gli ufficiali al momento del ripiegamento. Un rompete le righe lapidario. Perché le 120 ore che vanno da giovedì 5 marzo a lunedì 9 marzo 2020 avrebbero forse potuto deviare la corsa della peste, determinare un destino diverso per questa terra. Limitare la conta dei morti nella Wuhan italiana (Bergamo e il suo territorio, in rapporto alla popolazione, avranno il triste primato mondiale dei decessi causati dall'epidemia).

Il primo ricovero Covid all'ospedale Papa Giovanni XXIII era del 21 febbraio, lo stesso giorno della scoperta del paziente uno, Mattia. E, arrivati al 5 marzo, il time lapse delle "cinque giornate di Bergamo" - se vogliamo chiamarle così - è ora nei ricordi incrociati di due distinte fonti di polizia e di un militare di stanza a Bergamo, coinvolto in un'operazione che sarebbe stata abortita prima di cominciare.

"Alle 16.30 del 5 marzo - racconta una delle fonti - ci arriva la comunicazione di 'pronto impiego'. Era da un paio di giorni che sentivamo parlare di questa cosa: zona rossa si, zona rossa no. Anche tra di noi se ne parlava. Sui giornali, in televisione, nei social. Quel giovedì piovigginava, e Bergamo iniziava a contare i morti. Ci dicono che il concentramento è fissato alle 19 in via delle Valli (sede del Comando provinciale dei carabinieri di Bergamo, ndr)". Il servizio prevede la "cinturazione" di Alzano e Nembro. Un territorio che, con le sue 376 aziende e 3700 dipendenti, genera 680 milioni l'anno di fatturato. E che in due settimane, da snodo di industrie e commerci, si è trasformato in un lazzaretto.

Continua il militare: "Ci raduniamo in caserma. Ceniamo tutti in mensa e aspettiamo di uscire per chiudere le strade". "Tutti" vuol dire il personale di stanza in città e provincia. Che è solo una minima parte del contingente mobilitato. E che deve garantire la chiusura per la sola notte di giovedì 5 marzo. L'indomani all'alba, sarebbe entrato in servizio il grosso dei 370 uomini arrivati da fuori: 110 carabinieri, 120 poliziotti, 50 finanzieri, 90 effettivi dell'esercito. "Alzano e Nembro zona rossa come Codogno: chiuse le strade, chiuse tutte le attività commerciali e produttive, scuole e uffici postali. Così doveva essere". Così non sarà.

Alla Prefettura e Questura di Bergamo, che Roma avesse inizialmente optato per isolare, in entrata e in uscita, l'imbocco della Val Seriana (che inizia proprio da Alzano) lo sapevano da mercoledì 4. I vertici delle forze di polizia, quel giorno, si riuniscono per un vertice operativo. Ventiquattro ore prima, l'assessore regionale lombardo Giulio Gallera aveva chiesto all'Istituto Superiore di Sanità di istituire la zona rossa. L'Iss aveva "trasmesso" l'input al governo.

Ma torniamo al 5 marzo. Roma comunica a Bergamo l'alert per la zona rossa. Il piano prevede la chiusura di tutti i varchi di accesso ai due paesi, attraversati dalla strada provinciale 35. Il blocco deve essere assicurato da pattuglie e personale. Nei punti dove è rischioso chiudere con le auto, si dovrà provvede con segnaletica stradale e "jersey". Sono i blocchi di cemento armato e sono già pronti, forniti dalla Provincia di Bergamo. Di questi dettagli, le decine di militari in attesa, dalle ore 19 alle 21 di giovedì, al Comando dei carabinieri, sono a conoscenza solo in parte.

"Dovevano dividerci in piccole squadre da tre uomini - racconta la fonte 1 -. E disporci sul territorio agli ingressi di Alzano e Nembro (tra i due paesi, su un asse di 10 km, c'è anche Villa di Serio, dove abitava Ernesto Ravelli, il primo bergamasco morto per Covid, ndr). Alle 21.30, dopo una giornata di attesa, non arrivando disposizioni, ci dicono di rientrare. Ognuno nelle proprie caserme. Ma ci ordinano di restare pronti, eventualmente, per la mattina dopo".

All'hotel Continental di Osio e in altri due alberghi di Bergamo hanno intanto fatto il check-in i contingenti arrivati da fuori provincia. Sono trecento uomini. Ma da quegli alberghi non usciranno fino a lunedì. Quattro giorni. "Il venerdì ci chiedevamo: che cosa stiamo aspettando? Che cosa stiamo qui a fare? La stessa cosa ce la siamo domandata, noi e le nostre famiglie, e credo decine di migliaia di bergamaschi, il sabato e la domenica (7 e 8 marzo)". Il problema non era più solo il quando: era, o stava diventando, anche il perché.

Già, perché non hanno ancora chiuso Alzano e Nembro vista l'impressionante impennata dei contagi e dei decessi (ancora oggi sono i due Comuni della bergamasca che hanno pagato il più prezzo più alto nell'ecatombe, Nembro + 1000% di morti)? "Informalmente avevamo appreso che forse, per evitare disagi nella circolazione, e anche nelle abitudini della gente, e può darsi per via dei trasporti legati alle attività produttive, si voleva procedere con la chiusura o il sabato o la domenica. Possibilmente di notte, quando il traffico è molto ridotto. E invece, niente... Né sabato, né domenica", ricorda un'altra fonte. Lunedì 9 marzo, si esaurisce il tempo degli indugi. In questura, al comando provinciale dei carabinieri e in quello della Gdf, nella caserma "Locatelli" dell'esercito a Orio al Serio, arriva il contrordine. "Cessata esigenza". Il personale viene smobilitato.

A Bergamo e nelle valli si continuerà a morire. In Val Seriana, a lavorare a rischio della vita, come racconta S.F., 50 anni, operaio in un'importante azienda del settore tessile. (400 lavoratori). "Noi siamo andati avanti fino al 22 marzo (quando sarà decretata la chiusura di tutte le attività produttive di beni non primari ndr.). Mai smesso, nemmeno un giorno. Quando a metà marzo, assediati dalle notizie allarmanti, dal numero di contagiati e di morti, abbiamo chiesto ai dirigenti della fabbrica di poterci fermare, ci hanno detto che bisognava continuare. Ma si lavorava male, con grande preoccupazione e angoscia. Ci hanno dato solo un po' di mascherine anti-polvere in più. Per paura di contagiarsi, molti si sono messi in malattia o in ferie. L'8 marzo, l'azienda ha chiuso la mensa, dove avevano continuato a mangiare ogni giorno 300 persone. I reparti, invece, sono andati avanti ininterrottamente".

Non diversamente da quel che accade a Bergamo città, d'altronde. Racconta un impiegato della filiale di Banca Intesa San Paolo di via Camozzi. "Siamo più di 40 colleghi e serviamo diverse migliaia di clienti. La nostra filiale è fatta di open space e spazi di totale condivisione tra colleghi e clienti. Nessuna barriera, nessuno spazio 'privato'. Tutti usiamo gli stessi uffici con la stessa apparecchiatura (pc, telefoni, tablet per clienti). Già da febbraio-inizio marzo molti di noi si sono ammalati. I medici dicevano di stare a casa e di evitare di andare in ospedale. A metà marzo, su 40, 30 erano a casa malati. Qualcuno anche in modo serio. Chiaramente la filiale era infetta. Ma nonostante le richieste dei dipendenti di chiudere lo sportello al pubblico e di sanificare la banca, tutto procedeva senza precauzioni. Zero mascherine, solo una guardia all'esterno per evitare assembramenti di clienti e una parziale riduzione dell'orario per gli appuntamenti". "Credo - prosegue - che la direzione regionale e nazionale non abbiano compreso subito il nostro grido di aiuto. I dispositivi - guanti, mascherine, gel igienizzanti - sono arrivati solo il 30 marzo. Dal 6 aprile, ci hanno concesso lo smart working da casa, e la filiale è stata chiusa due settimane per essere sanificata e per concedere una sorta di quarantena a tutti".

Gli scienziati scaricano Conte: "Zona rossa? Noi abbiamo fatto le analisi...". Franco Locatelli: "Noi abbiamo sollevato l'attenzione sulle aree dove c'erano il numero maggiore di casi e sono state fatte, con una tempistica stringente e non perdendo assolutamente tempo, tutte le analisi che hanno permesso al decisore politico di fare le scelte del caso". Claudio Cartaldo, Giovedì 11/06/2020 su Il Giornale. Silvio Brusaferro è stato il primo nella lista dei colloqui programmati a Roma dalla pm di Bergamo, Maria Cristina Rota, che sta indagando sulla mancata zona rossa in Val Seriana. Dopo gli scienziati del comitato tecnico sfileranno di fronte ai magistrati Giuseppe Conte, Luciana Lamorgese e Roberto Speranza. Non sono ancora trapelate notizie sull'incontro avvenuto ieri pomeriggio nella sede dell'Iss di Viale Regina Margherita tra i magistrati e il capo dell'Istituto, sentito in qualità di persona informata sui fatti relativamente all'epidemia di Covid-19 in Lombardia. Ma uno spunto sulla posizione che sembrano tenere i tecnici sembra arrivare Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, e anche lui membro del Cts. Di fronte alle telecamere di Rai Tre, ospite ad Aforà, Locatelli sembra smarcarsi e quasi scaricare ogni responsabilità sul governo. "Noi abbiamo sollevato l'attenzione sulle aree dove c'erano il numero maggiore di casi e sono state fatte, con una tempistica stringente e non perdendo assolutamente tempo, tutte le analisi che hanno permesso al decisore politico di fare le scelte del caso", ha detto il presidente del Consiglio Superiore di Sanità. Insomma: le valutazioni tecniche sono arrivate. Poi spettava alla politica decidere. E la politica ha scelto di non istituire la zona rossa in Val Seriana ma di trasformare qualche giorno dopo l'intera Lombardia in un'area "arancione". Come emerso da diverse inchieste giornalistiche, infatti, intorno al 2 marzo il Pirellone chiede al governo di chiudere Alzano e Nembro. Non sembra esserci una nota ufficiale, ma la speranza è quella. "Stavamo aspettando il governo", dirà poi Gallera. In quelle ore l'Iss riceve dalla Lombardia i dati epidemiologici in cui si evidenzia l'alta incidenza di contagi in Val Seriana. Il governo tentenna. Chiede al Cts maggiori informazioni e riceve da Brusaferro una nota tecnica molto chiara, che non condivide la scelta governativa di non chiudere la Bergamasca. Nella nota inviata a Palazzo Chigi, il presidente dell'ISS scrive che "pur riscontrandosi un andamento della curva epidemiologica simile ad altri Comuni della Regione Lombardia, i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento per inserire Alzano Lombardo e Nembro nella “zona rossa”".

Medici e infermieri eroi, Pm e Fatto Quotidiano a caccia di responsabili politici per l’epidemia Covid. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Dovranno spiegare ai magistrati perché, un certo giorno dei primi di marzo, nei confini dei paesi del bergamasco Nembro e Alzano Lombardo fossero comparsi pattugliamenti di forze dell’ordine a delimitare i confini, secondo la procedura usata per creare la “zona rossa”. E anche per quale ragione, nella stessa serata, ai militari sia stato dato l’ordine di smobilitare. Ecco perché, insieme al Presidente del consiglio Giuseppe Conte e al ministro della salute Roberto Speranza, la Procura della repubblica di Bergamo ha convocato, come persona informata dei fatti, il ministro dell’interno Luciana Lamorgese. Nei giorni scorsi era toccato al Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e all’assessore al welfare Giulio Gallera spiegare come mai, al contrario di quel che era accaduto precedentemente nella zona di Codogno, al sud di Milano, non si fosse pensato di isolare anche nel bergamasco paesi in cui l’epidemia di Covid-19 si stava espandendo a livelli altissimi. Il magistrato ha anche voluto sapere se ci fossero state pressioni dal mondo industriale, che si era più volte preoccupato per l’eventuale chiusura di una zona ricca di imprese molto forti nell’esportazione. Gli amministratori lombardi avevano negato di aver subìto condizionamenti da parte di alcuno e avevano ricordato come l’iniziativa di isolare un territorio, bloccando il lavoro e la produzione, ma soprattutto con una delimitazione dei confini da parte delle forze dell’ordine, non può essere che una decisione governativa, con un decisivo impegno del ministro dell’interno. quanto era già successo a Codogno e nel lodigiano, con una decisione presa dal governo. Lo stesso procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota in una breve intervista a Rai 3 aveva dichiarato: «Da quello che ci risulta è una decisione governativa. Per questo, nel caso emergesse qualche responsabilità di tipo penale, l’inchiesta dovrebbe essere spostata, probabilmente a Roma. Ma siamo sicuri che qualcuno, nella gran confusione e nella tragedia che ha colpito in quei giorni in particolare la popolazione bergamasca, abbia commesso un reato? Non sembra facile dimostrarlo. E del resto la procura della repubblica di Bergamo in questi giorni è travolta da esposti e manifestazioni. Si soffia sul fuoco e sul dolore. Si formano comitati, come già a Milano, in particolare al Pio Albergo Trivulzio, che presentano esposti, inevitabilmente contro ignoti, anche perché nessuno se la sente di puntare il dito contro medici e infermieri, dopo aver detto a gran voce che sono i nostri eroi. Così si cercano le responsabilità “politiche”. Magari con l’aiutino dell’organo di famiglia delle Procure, il Fatto quotidiano, cui, chissà perché, certi magistrati come i giudici di sorveglianza o magari quelli della procura di Bergamo, non piacciono molto. Ma sarebbe invece ora di spoliticizzare tutto quel che è successo in questi tre mesi in Lombardia e nel resto d’Italia. E una volta tanto contiamo sulla saggezza della magistratura.

Salvini impari a distinguere tra indagini e sentenze. Deborah Bergamini su Il Riformista l'11 Giugno 2020. Che in Italia ci sia un problema serio nei rapporti tra politica e un pezzetto di magistratura lo ha scoperto Berlusconi e adesso lo sanno pure i muri. Un tema su cui invece non si è discusso abbastanza è il relativismo che una certa politica, a seconda dell’indagine di turno, mette in pratica. Funziona più o meno così: se si è nel partito degli indagati si diventa garantisti; se il partito degli indagati è quello del vicino di coalizione si fa finta di niente. Se invece il partito è nel campo avversario, improvvisamente il giustizialista che c’è dentro molti politici erompe. Non farò giri di parole: mi ha sorpreso il modo in cui Matteo Salvini ieri ha accolto la notizia che Procura di Bergamo intende ascoltare il premier Conte, il ministro Speranza e la ministra Lamorgese sulla gestione dell’emergenza CoVid. Le parole di Salvini («Dopo tante menzogne e attacchi vergognosi, giustizia è fatta: chi ha sbagliato deve pagare») sono l’espressione di un sentimento che umanamente comprendo ma che politicamente non giustifico. Salvini ha provato in prima persona che cosa significa la politicizzazione delle inchieste giudiziarie ai danni degli avversari politici. Capisco anche che le accuse rivolte al governatore della Lombardia Fontana siano state dolorose per la Lega, ma non si deve mai confondere le indagini con le sentenze. È una tentazione a cui ogni esponente politico dovrebbe resistere, anche perché altrimenti non si fa altro che alimentare quel pericoloso circuito mediatico-giudiziario che in questi anni ha inquinato e distorto pesantemente il dibattito politico. Quanto alla magistratura, sarebbe bene ricordare sempre che il suo ruolo non è quello di “farla pagare” a qualcuno ma semplicemente di accertare la verità dei fatti per poi applicare la legge. E sarebbe bene che in questa fase di accertamento della verità si avesse la sensibilità di non giungere a conclusioni affrettate. Di conclusioni affrettate, purtroppo, ne abbiamo viste a centinaia: spesso si sono dissolte nel nulla, ma hanno distrutto la vita e la reputazione di gente che, pur non avendo colpe, ha pagato la pena più cara: la distruzione della propria reputazione. Se la politica vuole recuperare il proprio spazio e la propria credibilità deve essere in primo luogo rigorosa: i principi costituzionali non si devono mai piegare alle convenienze o alle tesi di parte.

Simone Canettieri per ilmessaggero.it l'11 giugno 2020. Perché per Codogno e Vo' l'istituzione della zona rossa fu una pratica veloce e per i comuni di Nembro e Alzano si è esitato così tanto? Nei primi due casi il blocco scattò il 23 febbraio, per i centri della Bergamasca, invece, né il Governo né la Regione Lombardia sono riusciti a prendere una decisione ad hoc. Anzi, alla fine sono finiti nel Dpcm dell'8 marzo che annunciò l'istituzione di una zona arancione che comprendeva tutta la Lombardia più 14 province, sparse tra il Veneto e l'Emilia Romagna. L'inchiesta della procura di Bergamo si focalizza principalmente sul vuoto di legislazione e assenza di provvedimenti che c'è stato sulla chiusura totale dei due Comuni che da settimane lanciavano allarmi, con bollettini medici disastrosi, sia dal punto di vista dei contagi che sul fronte delle vittime.

IL PRIMO SOS. Il 29 febbraio il Comitato tecnico scientifico fa mettere a verbale quanto segue: «Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molta probabilità ascrivibili a un'unica catena di trasmissione. Ne risulta, pertanto, che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio». Attenzione, nel merito - come riporta un documento - «il Comitato propone di adottare le opportune misure restrittive già prese nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». La Regione Lombardia, però, aspetta e non chiede - così risulta dagli atti - provvedimenti particolarmente restrittivi sul modello di Vo', Codogno e dei Comuni della Lodigiana. Ma non finisce qui. Perché il 2 marzo l'Istituto superiore di sanità lancia un altro allarme. La strada indicata è quella del comitato tecnico scientifico, ma non accade nulla. In poche parole, gli scienziati hanno già detto al governo che occorre intervenire con le maniere forti: chiudere tutto, vietare la circolazione in entrata e in uscita nei due Comuni, bloccare i trasporti locali. Il 5 marzo il presidente dell'Istituto superiore di Sanità Silvio Brusasferro lo ripete, questa volta con una mail che è stata acquisita dai magistrati: «Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione, i dati in possesso rendono opportuna l'adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa». Conte chiede ulteriori approfondimenti e continua però a non intervenire nel merito di questi due centri. La situazione si sta facendo tragica in tutta la Lombardia, ma Bergamo e la sua provincia sono nel mirino del Covid-19, più di tutti. Nel tergiversare, le ore sono fondamentali. Ma una decisione non arriva. Fino al provvedimento dell'8 marzo che poi anticiperà quello dell'11 con l'istituzione della zona protetta in tutta Italia. Sono appunto questi cinque-sei i giorni nel mirino dei magistrati. E al centro di una disputa politica tra governo (Pd-M5S) e Regione Lombardia (a trazione Lega) sull'iniziativa per Alzano e Nembro. La decisione è politica. E da una parte fanno fede i precedenti delle settimane prima. Per Vo', Codogno e gli altri centri del Lodigiano c'è stato l'intervento di Roma, del governo, del ministro della Salute Roberto Speranza. Dall'esecutivo è partito l'input del chiudiamo tutto. Ma di chi è la reale competenza? Da Palazzo Chigi citano l'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n. 833». In poche parole, sostengono codici alla mano, che anche la Regione poteva istituire la zona rossa. Ma cosa dice questa norma in particolare? «Che «in materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria» possono essere «emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale», fatti salvi «le attività di istituto delle forze armate che, nel quadro delle suddette misure sanitarie, ricadono sotto la responsabilità delle competenti autorità» e «i poteri degli organi dello Stato preposti in base alle leggi vigenti alla tutela dell'ordine pubblico». Una pratica, quelle delle zone rosse, che poi i governatori attueranno nel pieno della Fase 1. Ma prima non era mai accaduto.

L'ora del magistrato che Palamara non voleva. Ha tramato per sbarrare alla Rota il posto a Bergamo. Ma il capo morente volle indicare lei. Luca Fazzo, Sabato 13/06/2020 su Il Giornale. Se fosse stato per Luca Palamara e la sua lobby, ieri a bussare alla porta di Palazzo Chigi per interrogare il premier Giuseppe Conte non ci sarebbe stata lei. Anzi, forse quell'interrogatorio non ci sarebbe mai stato. Perché Maria Cristina Rota, sessant'anni, bergamasca doc, nell'inchiesta sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro ha messo non solo la passione di chi nella terra flagellata dal virus è nato e vissuto, e che forse un magistrato venuto da fuori avrebbe sentito meno profondamente. Ma ha anche messo una grinta e una indisponibilità ai condizionamenti che erano proprio le doti che Palamara non gradiva. Anche per questo nel maggio di due anni fa il leader di Unicost, allora membro del Csm e grande tessitore di nomine e manovre, lavorò a lungo perché la candidatura della Rota venisse bocciata. Alla fine ci volle una alleanza inconsueta tra la corrente di sinistra, Area, e la destra di Magistratura Indipendente perché Palamara venisse messo in minoranza e la Rota venisse nominata procuratore aggiunto. Le chat rintracciate sul telefono di Palamara segnano l'inizio delle manovre all'ora di pranzo del 14 maggio 2018, quando il pm romano inizia a martellare Claudio Galoppi, consigliere Csm in quota MI e leader indiscusso della corrente conservatrice. «Pat Bergamo, Pat Brescia, ne parliamo?», scrive Palamara. «Pat» è la sigla convenzionale per a carica di procuratore aggiunto, una figura chiave di tutte le Procure, il vice del capo, spesso il suo erede. «Ok, ci vediamo nel pomeriggio», risponde Galoppi. In quel momento il trojan non è ancora installato sul telefono di Palamara, per cui il colloquio del pomeriggio trai due non viene registrato. Ma la lacuna viene colmata il 6 giugno, quando Palamara scrive a Galoppi indicandogli per la procura bergamasca un candidato della sua corrente, Unicost. «È bravissimo!!», scrive. Galoppi risponde in modo un po' criptico: «Se lo dice un abile politico come te allora è vero». In realtà Galoppi, come si vedrà, è convinto che la candidata naturale sia la Rota: anche se è di un'altra corrente, perché la pm bionda appartiene (dettaglio che in queste ore sfugge a quanti la guardano storto per non avere incriminato i vertici della Regione Lombardia e avere anzi puntato il dito contro il governo centrale) ad Area, la corrente progressista dell'Anm. Anche su questo punta Palamara per convincere Galoppi ad appoggiare il candidato di Unicost. A sua volta Palamara è sotto pressione da parte del suo capocorrente in zona, il presidente del tribunale di Brescia Vittorio Masia che lo sommerge di messaggini propugnando questa e quest'altra nomina. Fin dalla metà di marzo Masia fa pressing su Palamara perché sia a Bergamo che a Brescia vengano piazzati gli uomini di Unicost, «abbiamo due splendidi candidati, vediamo di non bruciarli». Che alla fine la spunti invece la Rota può sembrare, visto l'andazzo generale del Csm, quasi sorprendente. Ma qui entra in ballo un drammatico fattore umano. A rendere importante il posto di procuratore aggiunto a Bergamo c'è, in quei mesi, un elemento che in Csm conoscono bene: il procuratore della Repubblica, Walter Mapelli, è molto malato. Morirà un anno dopo, nell'aprile 2019. Tutti sanno che il procuratore aggiunto diventerà di fatto il capo della Procura, nel momento in cui Mapelli dovesse arrendersi. Ed è lo stesso Mapelli, un magistrato straordinario, che in quegli ultimi mesi di vita e di lavoro indica al Csm quella che per lui è l'unica soluzione in grado di mantenere la procura bergamasca all'altezza della situazione quando lui non ci sarà più: Maria Cristina Rota. È l'endorsement di Mapelli a sparigliare le manovre di Palamara e dei suoi, convincendo Galoppi a votare insieme ad Area. Il 12 settembre 2018 il plenum del Consiglio superiore della magistratura vota a maggioranza la nomina della Rota: è uno scontro frontale, finisce undici a dieci nonostante Palamara porti sul suo candidato i voti anche del presidente e del procuratore generale della Cassazione. Una volta tanto, le sue manovre non hanno raggiunto l'obiettivo.

Paolo Berizzi per repubblica.it il 12 giugno 2020. Raccontano che gli unici momenti in cui riesce davvero a staccare la spina è quando cammina sui sentieri di montagna, nell'amata Engadina, dove si rifugia nel fine settimana. Ma solo quando non si porta a casa le "carte" da studiare. Una lavoratrice instancabile, rigorosa e, soprattutto, abituata a andare fino in fondo. E non importa se ha a che fare con qualche criminale che ha mal digerito il sequestro di un'attività finanziaria o - è storia di queste ore - con dei big della politica nazionale. Maria Cristina Rota, la pm dell'inchiesta sulla mancata zona rossa in Val Seriana, da settembre 2018 è procuratore aggiunto a Bergamo. La sua città. Dopo la morte dell'ex procuratore capo Walter Mapelli, scomparso a 61 anni per un tumore, nel 2019, è toccato a lei reggere temporaneamente la procura (fino alla recente nomina del giudice Antonio Angelo Chiappani). E di quella procura lei è uno dei volti storici. Numerose le inchieste, anche di alto livello, che ha condotto in questi anni: dal 2009 tratta reati di tipo finanziario e fallimentare, e dunque corruzione. Cresciuta alla scuola di Armando Spataro - i due sono molto amici, c'è da sempre grande stima reciproca - il primo punto messo a segno dalla pm che oggi interroga il premier Giuseppe Conte (e dopo il ministro della Salute, Roberto Speranza, e dell'Interno, Luciana Lamorgese), fu un caso di cronaca nera: l'omicidio di suor Maria Laura Mainetti, massacrata a colpi di coltello il 6 giugno 2000 a Chiavenna. A incastrare le responsabili del barbaro assassinio - tre ragazzine minorenni - fu l'allora sostituto procuratore minorile di Milano Maria Cristina Rota. Come fece? Utilizzando - fu una dei primi magistrati a farlo - le intercettazioni telefoniche. "Mettere sotto i telefoni", come si dice in gergo. E ascoltare le reazioni degli indagati agli articoli di stampa. Una tecnica che gli investigatori definiscono, informalmente, con questa espressione: "alzare la sabbia", e vedere l'effetto che fa. Valdese, amante dei viaggi, in piazza Dante - la vecchia sede della procura di Bergamo - la vedono arrivare prestissimo la mattina e andarsene la sera tardi. Per gli interrogatori di Conte e dei ministri Lamorgese e Speranza, la pm Rota si è portata avanti: insieme al pool di magistrati che coordina, e agli uomini della polizia giudiziaria a cui ha affidato le indagini, è arrivata a Roma già mercoledì: due giorni prima dell'interrogatori. "Non è andata a fare vacanza o a visitare la Capitale", scherza chi la conosce da anni.

Da liberoquotidiano.it il 12 giugno 2020. Vergogna grillina. A chi indaga per capire di chi sia la colpa sulla mancata zona rossa di Nembro e Alzano, il M5s augura il peggio. Proprio così, Elio Lannutti si scaglia contro la Pm di Bergamo Maria Cristina Rota, che questa mattina (venerdì 12 giugno), a Palazzo Chigi, ha ascoltato il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: "Giuseppe Conte, i Pm di Bergamo a Palazzo Chigi per sentirlo sull'inchiesta sulle zone rosse non istituite ad Alzano e Nembro. Sbaglio, o si tratta della stessa Pm che ha già emesso sentenza assolutoria in Tv per Fontana?", cinguetta senza ritegno per poi proseguire: "Se ci fosse un Csm, sarebbe già intervenuto. In un paese normale, con una giustizia e un Csm normali, l'esatto contrario di quanto acclarato col 'Sistema Palamara', con incarichi spartiti e pilotati ai vertici delle procure, giudizi ad hoc a misura di potentati, la signora Pm, invece di indagare su Conte, sarebbe già indagata". Frasi che hanno subito visto la replica della Lega: "Il primo comandamento recita "non nominare il nome di Dio invano". Forse qualcuno come secondo comandamento vorrebbe mettere "non nominare il nome di Conte invano o peggio ancora non interrogarlo". Questi dovrebbero essere i nuovi dieci comandamenti pentastellati. È bastato che il procuratore di Bergamo, Maria Cristina Rota, per accertare la verità sulla mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana, decidesse in maniera corretta e legittima di ascoltare tutti i soggetti istituzionali informati dei fatti, e sottolineo tutti, per finire lei stessa nel mirino della furia grillina" ha tuonato Roberto Calderoli sulla pm che lo indagò per le frasi alla Kyenge.

Il delirio del grillino: "Indagate il Pm che ha assolto Fontana". Al senatore Lannutti non è andato proprio giù l'interrogatorio del presidente del Consiglio, ascoltato da Maria Cristina Rota per circa 3 ore. Dopo di lui è stato il turno di Luciana Lamorgese e Roberto Speranza, come persone informate sui fatti. Federico Garau, Venerdì 12/06/2020 su Il Giornale. Mentre si preparava ad accogliere tutti gli ospiti dei suoi "Stati generali", Giuseppe Conte è stato raggiunto stamani dalla Pm di Bergamo Maria Cristina Rota, che dopo aver già ascoltato Fontana e Gallera ha deciso di interrogarlo per avere degli ulteriori elementi in merito alla mancata istituzione della zona rossa a Nembro ed Alzano Lombardo. Una chiaccherata di circa tre ore, che non è proprio andata giù al senatore dei CinqueStelle Elio Lannutti, il quale non ha perso tempo ad esternare tutto il suo disappunto sulla pagina personale di Twitter. C'è da precisare che nelle scorse settimane i magistrati incaricati di pronunciarsi sulla triste vicenda avevano già sentito il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana e l'assessore alla sanità e il welfare Giulio Gallera. Anche dopo le audizioni, tuttavia, restava un importante nodo da sciogliere, ovvero stabilire quali decisioni erano state prese per i comuni al centro delle indagini e soprattutto se fossero rilevabili delle responsabilità da parte del governo centrale. "Da quello che ci risulta, è una decisione governativa", aveva riferito Maria Cristina Rota ai microfoni del Tg3. Ecco il perché dell'interrogatorio di stamani, prima del quale lo stesso Giuseppe Conte si era detto tranquillo, quantomeno davanti al taccuino di un giornalista di Repubblica. "Non ho paura di finire indagato, ho agito in scienza e coscienza", ha riferito il premier. "Mi sono subito messo doverosamente a disposizione dei magistrati per informarli sulle circostanze di cui sono a conoscenza". Il nodo della questione resta quello di comprendere per quale motivo non fosse stata istituita la zona rossa per i comuni di Nembro e Alzano Lombardo, nonostante la richiesta ufficialmente inoltrata da Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore della Sanità. Stando alle notizie finora filtrate e riportate da Tpi, Conte, che rischia di essere indagato per epidemia colposa, avrebbe mantenuto la stessa linea, sostenendo che proprio la Lombardia disponeva degli strumenti tecnici sufficienti per agire in totale autonomia come già altre regioni avevano fatto. Dopo il presidente del Consiglio, impegnato in un colloquio di poco più di tre ore, è stato il turno anche del ministro dell'interno Luciana Lamorgese e di quello della salute Roberto Speranza. "Giuseppe Conte, i Pm di Bergamo a Palazzo Chigi per sentirlo sull'inchiesta sulle zone rosse non istituite ad Alzano e Nembro. Sbaglio, o si tratta della stessa Pm che ha già emesso sentenza assolutoria in Tv per Fontana?", ha domandato ai suoi follower su Twitter il senatore grillino. "Se ci fosse un Csm sarebbe già intervenuto", ha aggiunto rincarando la dose, per poi esporsi ulteriormente. "In un paese normale, con una giustizia e un Csm normali, l'esatto contrario di quanto acclarato col "Sistema Palamara", con incarichi spartiti e pilotati ai vertici delle procure, giudizi ad hoc a misura di potentati, la signora Pm, invece di indagare su Conte, sarebbe già indagata". Parole che faranno sicuramente discutere nelle prossime ore. "La zona rossa ad Alzano e Nembro era una decisione del governo e ringraziamo il procuratore aggiunto di Bergamo, Maria Cristina Rota, che lo ha chiarito", ha commentato Matteo Salvini. "Una dichiarazione che fa giustizia di bugie e polemiche. Ora i cittadini bergamaschi sanno chi avrebbe dovuto fare e purtroppo non fece. Ci aspettiamo che ora Conte almeno chieda scusa ai parenti e agli amici dei troppi bergamaschi morti".

I pm entrano a palazzo Chigi. Il Dubbio il 12 giugno 2020. Mancate zone rosse di Nembro e Alzano, il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza saranno sentiti dalla procura. E’ entrata ora a Palazzo Chigi il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota insieme al pool investigativo che dovrà ascoltare il premier Giuseppe Conte, il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza nell’ambito dell’inchiesta sulla mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo. I membri del Governo saranno sentiti come persone informate sui fatti.

Intervistato da Repubblica, il premier aveva sottolineato: “Non temo di finire indagato dopo il colloquio di oggi con i pm, su Alzano lombardo e Nembro, rifarei tutto”. Quindi, con la Stampa, puntualizza: “Gli Stati generali non saranno una sfilata o una passerella”.

Quando il Cav fece uscire dalla porta di servizio Ingroia che lo aveva interrogato. Il Dubbio il 12 giugno 2020. Per trovare la notizia di un Pm a palazzo Chigi per ascoltare il premier in carica, dobbiamo attendere il 26 novembre 2002, quando Ingroia, nell’ambito del processo Dell’Utri, chiese e ottenne di ascoltare come teste assistito Silvio Berlusconi. La storia di Tangentopoli nei primi anni novanta ha cambiato nella sostanza gli equilibri tra le istituzioni. Immaginare un pubblico ministero a palazzo Chigi per ascoltare come testimone Alcide De Gasperi o Aldo Moro sarebbe stato impensabile all’epoca. Il sei volte vicepremier, Attilio Piccioni, si dimise immediatamente da ministro degli Esteri e da tutte le cariche ufficiali nel settembre 1954, solo perche’ il figlio Piero venne ingiustamente accusato e poi arrestato per il caso di Wilma Montesi. Il figlio Piero fu successivamente scagionato da ogni accusa, ma la carriera politica del padre venne rovinata. Nel marzo 1977 il deputato di Democrazia Proletaria Mimmo Pinto affermò sullo scandalo Lockheed in aula alla Camera: «Nel Paese vi sono molte opposizioni E quell’opposizione, colleghi della Democrazia Cristiana, sarà molto più intransigente, sarà molto più radicale, quando i processi non si faranno più in un’aula come questa, ma si faranno nelle piazze, e nelle piazze si faranno le condanne». A Pinto replicò Moro che mise tutti a tacere: «Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo nelle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare».Con Tangentopoli avvenne nel 1993 la revisione costituzionale dell’istituto dell’autorizzazione a procedere. Ci furono i processi e le condanne per i big dell’epoca, da Forlani a Craxi, da Bossi a La Malfa. Ma per trovare la notizia di un Pm a palazzo Chigi per ascoltare il premier in carica, dobbiamo attendere il 26 novembre 2002, quando Ingroia, nell’ambito del processo Dell’Utri, chiese e ottenne di ascoltare come teste assistito Silvio Berlusconi. L’incontro avvenne a palazzo Chigi e nel libro di Ingroia, in cui l’ex Pm racconta i fatti, si percepisce la tensione per lo scontro istituzionale in atto, anche se, alla fine, Berlusconi si avvalse della facoltà di non rispondere. Ingroia venne fatto uscire dal retro di palazzo Chigi, l’ingresso meno prestigioso che da’ su via dell’Impresa.

(ANSA il 12 giugno 2020) - La pm di Bergamo Maria Cristina Rota é arrivata a Palazzo Chigi a Roma per la deposizione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell'inchiesta sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro nel Bergamasco. Oltre al procuratore Rota, a Palazzo Chigi per l'audizione del premier Conte come persona informata sui fatti, ci sono anche i sostituti Paolo Mandurino, Silvia Marchina e Fabrizio Gaverini.

Da adnkronos.com il 12 giugno 2020. "Non temo affatto di essere indagato" perché "ho agito in scienza e coscienza. Mi sono subito messo doverosamente a disposizione dei magistrati per informarli sulle circostanze di cui sono a conoscenza". E' il premier Giuseppe Conte, in un'intervista pubblicata oggi su La Repubblica, a rispondere così alla domanda su possibili timori di finire indagato per epidemia colposa dopo il colloquio di oggi con i pm nell'ambito dell'inchiesta sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. E alla domanda se oggi farebbe zona rossa quei due comuni, "no, rifarei tutto quello che ho fatto perché come ho detto ho agito in scienza e coscienza", risponde Conte.

Da repubblica.it il 12 giugno 2020. La pm di Bergamo Maria Cristina Rota ha raccolto oggi a Palazzo Chigi a Roma - dopo tre ore di audizione - la deposizione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, come persona informata sui fatti, nell'inchiesta sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro nel Bergamasco. "Le audizioni si sono svolte in un clima di massima distensione e di massima collaborazione istituzionale", ha detto la pm al termine dell'incontro durante il quale oltre ad aver sentito il premier, ha ascoltato anche i ministri Roberto Speranza e Luciana Lamorgese, sempre come persone informate sui fatti. La magistratura ha acceso un faro per capire se istituire la zona rossa spettasse al governo o alla Regione o a entrambi, se ci siano o meno responsabilità penali e se il non aver isolato i due Comuni, dove già dalla fine di febbraio i contagi erano cresciuti i maniera esponenziale, sia stata una delle cause che ha portato all'alto numero di morti in Val Seriana e nelle sue Rsa, altro tema di indagine assieme a quello del caso dell'ospedale di Alzano. Sulla vicenda la magistrata ha dovuto precisare con i giornalisti una sua dichiarazione del 29 maggio. "Lei aveva detto che la zona rossa era responsabilità del governo?, le è stato chiesto dai giornalisti. "No. Avevo dichiarato che dalle dichiarazioni che avevamo in atto c'era quella in quel momento. Oggi non ho altro da aggiungere". Ci saranno indagati? Nessun commento, solo un "no, no" allargando le braccia. Concluse le audizioni romane i pm bergamaschi, che sulla vicenda hanno già sentito tra gli altri il presidente della Lombardia Attilio Fontana e l'assessore al Welfare Giulio Gallera, dovrebbero cominciare a tirare le fila e stabilire se si sia trattato di atti da incasellare in scelte politiche o se ci siano o meno responsabilità penali, quale sia l'ipotesi di reato di certo non facile da formulare e in capo a chi. Nell'eventualità in cui si dovessero ipotizzare responsabilità a carico di esponenti del governo durante l'esercizio della funzione, il procedimento dovrebbe essere trasmesso al Tribunale dei ministri del distretto e quindi a quello che ha sede presso la Corte d'Appello di Brescia. Quel che è certo, comunque, è che la ricostruzione sulla mancata zona rossa servirà a inquirenti e investigatori per avere un quadro di fondo per proseguire con gli altri filoni di indagine, quella sull'anomala riapertura del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano lo scorso 23 febbraio e le morti nelle Rsa bergamasche.

Le reazioni. Il primo a commentare l'audizione di Conte è il leader della Lega Matteo Salvini che, da Palermo, afferma: "La Regione Lombardia sulle zone rosse non ha alcuna responsabilità. Uso le parole del pm che ha detto che il controllo spettava al governo. A casa mia per presidiare una zona devi mandare i militari e l'Esecito che dipendono dal governo, quindi, non posso essere accusato di utilizzare i magistrati perché di solito accade il contrario. Però sto al pm di Bergamo", aggiunge.

Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini per il Giornale il 13 giugno 2020. Tre ore di faccia a faccia con la pm di Bergamo Maria Cristina Rota. Durante l'audizione a Palazzo Chigi per far luce sulla mancata zona rossa in Val Seriana, il premier ha ribadito quanto detto in questi mesi e quanto fatto trapelare sui giornali. E cioè che Regione Lombardia avrebbe potuto agire in autonomia, se solo lo avesse voluto. E che se il governo non si mosse, fu solo perché stava per chiudere l'intera regione. Ma per quanto provi a scaricare le colpe sul Pirellone, non basterà al premier trascinare con sé Attilio Fontana o Giulio Gallera negli abissi della giustizia per sottrarsi da una eventuale incriminazione per "epidemia colposa". C’è una falla nella strategia difensiva di Giuseppe Conte. E questo l'avvocato del popolo deve sicuramente saperlo. La linea del presidente del Consiglio si dipana infatti lungo due direttive: da un lato sostiene che "in caso di urgenza e necessità la Regione poteva procedere autonomamente, come effettivamente è avvenuto in seguito e come hanno fatto altre Regioni"; dall'altro mette agli atti che si decise di aspettare perché "intanto era maturata una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedeva di dichiarare "zona rossa" l'intera Lombardia e tredici Province di altre Regioni". In fondo, la sua ricostruzione dei fatti Conte l'aveva già "consegnata" il 6 aprile al Fatto Quotidiano in una intervista pubblicata pure sul sito della Presidenza del Consiglio destinata a infuocare la polemica politica. Per quanto riguarda la decisione di non intervenire, Conte disse: "La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia. Una situazione ben diversa da quella che ci aveva portato a cinturare i comuni della Bassa Lodigiana e Vo' Euganeo. Chiedo così agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l'opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto". Nella stessa occasione tentò, infine, di scaricare la colpa su Regione Lombardia che "non è mai stata esautorata dalla possibilità di adottare ordinanze proprie, anche più restrittive, secondo la legge 833/1978". Il punto è che il premier dovrà trovare argomenti più sostanziosi per convincere la Rota a non indagarlo. In una nota, infatti, la pm di Bergamo ha spiegato che la Procura in una prima fase cercherà di ricostruire quanto accaduto (per questo sono stati ascoltati come persone informate sui fatti sia i ministri sia gli amministratori locali); e poi punterà ad "accertare se vi sia stato nesso di causalità tra i fatti come ricostruiti e gli eventi e, in caso affermativo, stabilire a chi fanno capo le responsabilità". Tradotto: se dovesse emergere che la Val Seriana, sulla base dell'andamento epidemiologico, andava chiusa per evitare la strage, bisognerà capire di chi era il compito di prendere una decisione del genere. Certo, Conte tenterà (ancora una volta) di appellarsi al fatto che "anche" la Lombardia avrebbe potuto istituire la zona rossa (cosa tutta da dimostrare, visto che anche per la pm quella era "una decisione governativa"). Ma questi sono scaricabarili che valgono in politica, non in Tribunale. Perché, anche qualora i magistrati ritenessero doveroso indagare pure Fontana, alla sbarra dovrebbe comunque finire anche il governo. Se infatti oggi vi sono ancora fortissimi dubbi sul fatto che il Pirellone potesse blindare Alzano Lombardo e Nembro, è ormai appurato che quel potere il governo lo aveva eccome. Non solo perché attraverso il Viminale gestisce le forze dell’ordine. Ma anche perché governativa fu la decisione di chiudere Codogno e il basso Lodigiano. Se quindi quel fascicolo per epidemia colposa, per ora a carico di ignoti, dovesse trasformarsi in qualcosa in più, allora Conte potrebbe davvero uscirne con un avviso di garanzia. Con o senza Fontana. Se ripercorriamo a ritroso quei giorni terribili, emerge infatti come tutti quanti abbiano cercato di far capire in lungo e in largo a Conte che la Val Seriana andava chiusa. Gliel'ha messo per iscritto il 2 marzo l'Istituto superiore di sanità, consigliandogli di intervenire anche su Brescia. Glielo ha ribadito il giorno dopo, il 3 marzo, il Comitato tecnico scientifico spiegandogli che ormai, in quelle zone, "l'R0 è sicuramente superiore a 1" e che questo basta a credere abbastanza alto il "rischio di ulteriore diffusione del contagio". E glielo hanno ripetuto a non finire i vertici di Regione Lombardia che, nelle continue telefonate a Palazzo Chigi, continuavano a segnalare situazioni al limite nel Lodigiano, in Val Seriana, nel Bresciano e nella provincia di Cremona. Il 4 marzo però il premier ha ulteriormente temporeggiato, inviando al Cts una richiesta di approfondire i motivi della loro richiesta di istituire una zona rossa. Brusaferro ha risposto il giorno dopo, il 5 marzo, in una nota: "Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione - scriveva - i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa". Che il governo fosse indeciso lo dimostrano sia le richieste di Conte di "ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa" sia l'invio di trecento uomini all'imbocco delle valli bergamasche. I militari erano pronti a chiudere tutto, ma poi sono stati richiamati indietro. Dove sta, dunque, la verità su quella settimana di black out? Dove stava guardando il premier? Perché ha tentennato tanto? I numeri li aveva lì, sul suo tavolo a Palazzo Chigi, ma non si è mosso.

Lara Tomasetta per tpi.it il 12 giugno 2020. Oggi, venerdì 12 giugno, la pm di Bergamo Maria Cristina Rota ha raccolto a Palazzo Chigi a Roma la deposizione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte nell’inchiesta sulla mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, nel Bergamasco. Dopo aver ascoltato la versione del governatore della Lombardia Attilio Fontana e quella dell’assessore Giulio Gallera nelle scorse settimane, i magistrati hanno deciso di approfondire quali decisioni sono state prese per i due comuni lombardi e se esistono delle responsabilità. Il colloquio tra il premier e la pm è durato circa tre ore, durante le quali Conte ha ribadito, come ha ripetuto negli ultimi mesi, che la Regione Lombardia aveva gli strumenti tecnici per agire in autonomia come hanno fatto altre Regioni. Nel corso delle indagini, la Procura ha acquisito tutto il materiale d’inchiesta esclusivo di TPI, come la nota ufficiale di risposta che il premier ha inviato al nostro giornale per spiegare di chi era la responsabilità di istituire la zona rossa nella Val Seriana. Acquisite anche le dichiarazioni di Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia, e la lettera di Giuseppe Marzulli, il direttore dell’ospedale di Alzano che il 25 febbraio chiedeva di chiudere l’ospedale a causa del Covid-19 rimanendo però inascoltato. Tutte testimonianze, queste, raccolte da TPI e dalla giornalista Francesca Nava. Nell’eventualità in cui si dovessero ipotizzare responsabilità a carico di esponenti del governo durante l’esercizio della funzione, il procedimento dovrebbe essere trasmesso al Tribunale dei ministri del distretto e quindi a quello che ha sede presso la Corte d’Appello di Brescia. Il premier potrebbe essere indagato per ”epidemia colposa”. Ai pm lombardi, infatti, dovrà spiegare perché non erano state istituite le “zone rosse” per Alzano e Nembro, nonostante la richiesta esplicita del presidente dell’Istituto Superiore della Sanità, Silvio Brusaferro. Il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, intervistata al Tg3 è stata chiara: “Da quello che ci risulta è una decisione governativa”. E, scrive Dagospia, un membro di governo rivela qualcosa che potrebbe dare ragione alle parole dette dalla Rota: “Non è stato fatto neanche un consiglio dei ministri per Nembro e Alzano come per Codogno. erano i giorni dei Dpcm, delle scelte solitarie”, conclude. “Non ho paura di finire indagato, ho agito in scienza e coscienza. Mi sono subito messo doverosamente a disposizione dei magistrati per informarli sulle circostanze di cui sono a conoscenza”. Così parla il premier Giuseppe Conte in un’intervista a Repubblica, poche ore prima di presentarsi davanti ai pm di Bergamo. L’inchiesta della Procura di Bergamo per epidemia colposa è partita l’8 aprile 2020 grazie alle numerose denunce di operatori sanitari e cittadini raccolte anche da Francesca Nava su TPI, che ha portato avanti un’inchiesta giornalistica in più parti e sul caos presso il pronto soccorso di Alzano (e sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro), che ora si è trasformata anche in un e-Book. Lì dove tutto iniziò: quel 23 febbraio, come abbiamo denunciato lo scorso marzo, al Pesente Fenaroli succede un po’ di tutto: nonostante fossero stati accertati due casi Covid-19, il pronto soccorso chiude e riapre inspiegabilmente dopo 3 ore, senza essere sanificato.

Il retroscena su Conte: “Alzano e Nembro? Decisione mia”. Antonino Paviglianiti il 13/06/2020 su Notizie.it. Una scelta condivisa con Regione Lombardia ma presa dal Governo Conte: questo emergerebbe dall'inchiesta su Alzano e Nembro. L’inchiesta sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro prosegue: nella giornata di venerdì 12 maggio è stato ascoltato, in una lunga audizione, il Premier Giuseppe Conte. Al termine dell’interrogatorio bocce cucite, a fare il punto della situazione nel tardo pomeriggio – dopo aver ascoltato anche Lamorgese e Speranza – è stata la pm Rota che ha evidenziato come non ci siano indagati e che si sta proseguendo il lavoro di "ricostruzione". Ma secondo un retroscena svelato da Il Messaggero, nell’edizione cartacea in edicola il 13 giugno, il Premier Conte avrebbe rivelato alla procura di Bergamo di aver deciso lui di non istituire la zona rossa ad Alzano e Nembro. “Posto che la Regione avrebbe potuto agire diversamente – si legge -, l’ultima parola sulla scelta di non istituire una zona rossa Alzano e Nembro è stata mia e di nessun altro. Me ne assumo ogni responsabilità ma penso anche che sia stata la decisione più giusta in quel momento”. Nella sua ricostruzione, inoltre, il Premier Giuseppe Conte non ha accusato la Regione Lombardia, ma si è limitato a portare la documentazione utile a far luce su quanto accaduto ad Alzano e Nembro. Presenti, per esempio, le valutazioni dell’Iss e del Cts del 3 e del 5 marzo, le resistenze del sindaco di Alzano. Inoltre, si fa riferimento alla paventata chiusura tra il 6 e il 7 marzo con le forze dell’ordine – su mandato della Lamorgese – pronte a chiudere i comuni di Alzano e Nembro. Cosa che non avvenne poiché si scelse di ampliare la zona rossa: “Dalla zona arancione dell’8 marzo – spiega Conte – siamo passati il giorno dopo al blocco dell’intero Paese”. Ci sono state valutazioni di tipo geografico: “Abbiamo verificato che isolare Alzano e Nembro dai paesi circostanti sarebbe stato particolarmente difficile, quasi impossibile. In quell’area tra paese e paese non c’è soluzione di continuità”.

Lorenzo Mottola per ''Libero Quotidiano'' il 12 giugno 2020. Comunque vada, Giuseppe Conte la sua partita l'ha già persa. Negli ultimi mesi il governo ha fatto di tutto per scaricare sulle istituzioni locali (e a volte anche sui medici, come nel caso di Codogno) le responsabilità per alcuni errori commessi durante l' emergenza. E sull' onda del suo brevissimo e bizzarro momento di popolarità mediatica, il premier ci era anche riuscito, sfruttando il nostro caotico ordinamento costituzionale, che spesso non consente di individuare con chiarezza i limiti tra i poteri statali e regionali. I nodi, però, vengono sempre al pettine. Oggi l' avvocato sarà costretto a giustificarsi di fronte ai magistrati della Procura di Bergamo, calati su Roma per interrogare lui, i ministri Speranza e Lamorgese e i dirigenti dell' Istituto Superiore di Sanità. Verrà sentito questa mattina come persona "informata sui fatti" per la mancata istituzione della zona rossa nella provincia di Bergamo, ben sapendo che il magistrato a capo dell' inchiesta, Maria Teresa Rota, ha già chiarito di ritenere che fosse di Palazzo Chigi la responsabilità. D'altra parte la linea difensiva che il premier riproporrà oggi di fronte ai pm - dopo averla sbandierata a mezzo stampa per settimane - fa decisamente acqua: «Anche la Regione poteva istituire la zona rossa, come previsto dall' articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n.833». Una tesi che non regge, vediamo perché. Prima di tutto, l' interpretazione della norma non è corretta. Come spiegato dall' ex giudice dalla Consulta Sabino Cassese, l' articolo citato dall' avvocato pugliese fa riferimento a decisioni ordinarie "in materia di igiene e sanità pubblica", ma in questo caso ci troviamo sicuramente di fronte a una "profilassi internazionale", ovvero alla necessità di arginare un' epidemia. E l' articolo 117 della Costituzione (lett. "q") chiarisce che questa è competenza dello Stato al 100%, senza discussioni. D' altra parte, questa tesi fino a marzo pareva essere condivisa da chiunque anche all' interno della maggioranza. Il ministro Boccia aveva dichiarato in un' audizione alla Camera che «in caso di emergenza nazionale decide lo Stato» e «spetta allo Stato e solo allo Stato intervenire». Nessun dubbio anche per il ministro degli Interni Luciana Lamorgese, che l' 8 marzo, in un passaggio della circolare diffusa per chiarire alle prefetture i contenuti del decreto con il quale l' intera Lombardia veniva dichiarata "zona rossa", spiegava che «va rilevata l' esigenza che in ogni caso, e soprattutto in questo delicato momento, non vi siano sovrapposizioni di direttive aventi incidenza in materia di ordine e sicurezza pubblica, che rimangono di esclusiva competenza statale e che vengono adottate esclusivamente dall' autorità nazionale e provinciali di pubblica sicurezza». Di cosa si parla? Ma ovviamente delle ordinanze per «evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori in questione, nonché all' interno dei medesimi». Da notare: Attilio Fontana non ha a disposizione forze di polizia. E la prefettura, come spiega il documento, aveva l' ordine di ascoltare solo le disposizioni di Roma. Come avrebbe potuto il governatore fermare le valli bergamasche senza militari e poliziotti? In pratica si sarebbe dovuto mettere personalmente a fermare le auto per strada con Giulio Gallera. A peggiorare la situazione di Conte, poi, ci hanno pensato proprio i suoi consulenti sanitari. Il giurista foggiano nei giorni scorsi ha realizzato un dossier che verrà presentato oggi ai magistrati. La tesi di fondo: fermare Alzano e Nembro era inutile, perché ormai il contagio era troppo diffuso in Lombardia. Meglio chiudere tutta la Regione. Gli esperti di Palazzo Chigi, però, avevano dato indicazioni diverse. Il presidente dell' Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro è stato sentito dai pm e ha detto di aver ben chiarito in una serie di documenti spediti alla presidenza del Consiglio i rischi che avrebbe comportato una mancata chiusura delle valli bergamasche, consigliando di fermare tutto nei primi giorni di marzo. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, lo ha ripetuto anche ieri su Raitre ad Agorà: «Noi abbiamo sollevato l' attenzione sulle aree dove c' era il numero maggiore di casi e sono state fatte, con una tempistica stringente e non perdendo assolutamente tempo, tutte le analisi che hanno permesso al decisore politico di fare le scelte del caso». Invece sono stati persi vari giorni. Va notato, infatti, che il livello di "sicurezza" della zona rossa regionale istituita l' 8 marzo non è certo stato quello di Codogno, ovvero uno stop completo, che verrà deciso solo il 22 marzo. Ed è questo ciò che gli esperti di Palazzo Chigi avevano chiesto. Locatelli e Brusaferro, come ormai noto, avevano proposto le loro tesi già in un importante vertice il 3 marzo, chiedendo la serrata (il primo marzo il governo aveva emanato un altro DPCM per modificare lo status delle zone rosse e arancioni, mantenendo quindi il pieno controllo sulla pratica). All' incontro era presente anche un emissario lombardo: l' assessore Gallera, il quale aveva a sua volta espresso parere positivo alle chiusure. Tutti d' accordo, insomma, compreso il ministero della Salute. E tutti si aspettavano che il giorno dopo la prefettura predisponesse i posti di blocco. In effetti quest' ordine viene dato da Roma e l' esercito si prepara a fermare i collegamenti. Dopodiché nel giro di 24 ore arriva un contrordine dal governo, che continuerà a lasciare libera la circolazione. Al termine del vertice pareva chiaro che si sarebbe proceduto con un ordine governativo, esattamente come successo a Codogno. Tornare a Milano e emanare un' ordinanza identica sarebbe stato da pazzi, tanto più che la Regione ha sempre cercato di mantenere buono (o almeno, decente) il rapporto con Roma nelle prime fasi. Le cose da allora sono molto cambiate.

Marco Conti e Cristiana Mangani per il Messaggero il 12 giugno 2020. Oggi è il giorno, quello in cui i pm di Bergamo interrogheranno il premier Giuseppe Conte e a seguire i ministri Roberto Speranza e Luciana Lamorgese. È il giorno in cui il governo in carica si troverà per la prima volta a dover affrontare una inchiesta giudiziaria, con interrogatori come persone informative sui fatti. Fatti particolarmente dolorosi che hanno portato alla morte di centinaia di persone. E allora la linea che i tre rappresentanti dell'esecutivo hanno pensato di tenere è diversa tra loro, proprio perché diversi sono i ruoli che rivestono. La titolare del Viminale aveva già spiegato che, come responsabile dell'ordine pubblico, aveva inviato 250 uomini delle forze dell'ordine, oltre ai militari di Strade sicure, e che erano pronti a chiudere e a cinturare le zone di Alzano e Nembro, ma che l'ordine non è arrivato. Ai magistrati potrebbe decidere di dire che non spettava a lei definire una zona rossa e che non aveva voce in capitolo per farlo. E che quanto era di sua competenza è stato fatto. Diversa la posizione di Conte e Speranza, anche se in più occasioni è stato chiarito, da parte loro, che le regole sono state rispettate e che si è intervenuti tempestivamente. E comunque che, se la regione Lombardia, avesse voluto emanare ordinanze restrittive avrebbe potuto farlo in base alla legge 833 del 78, così come avevano fatto altre regioni. Nel frattempo, i pm hanno già ascoltato il presidente dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, e ieri Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute Roberto Speranza e ordinario di Igiene generale e applicata all'Università Cattolica. Entrambi hanno ricostruito le fasi dell'emergenza, quando il Comitato tecnico scientifico del Dipartimento della Protezione civile aveva ritenuto necessaria la chiusura della zona, focolaio già il 3 marzo. A quel punto, Conte aveva chiesto approfondimenti per capire se fosse sufficiente isolare l'area o l'intera Lombardia. E il 5 marzo Brusaferro aveva dato il suo parere, e cioè che sarebbe bastato chiudere i due comuni. Poi, invece, il decreto ha trasformato l'intera Lombardia e altre 14 province in zona rossa, e il decreto è entrato in vigore lunedì 9 marzo. Il lavoro dei magistrati è proseguito anche nella raccolta del materiale, come carteggi, verbali interni del comitato tecnico scientifico della Protezione Civile, delibere e Dcpm, per ricostruire passo a passo cosa sia accaduto esattamente dal 3 al 7 marzo. Alla ministra Lamorgese verrò anche chiesto come si è svolta l'interlocuzione con il prefetto di Bergamo, quando in quei giorni si decise il rinforzo del personale chiamato a presidiare l'area che poi non venne più chiusa. Il presidente del Consiglio verrà ascoltato in mattinata. Ieri a palazzo Chigi si faceva sfoggio di estrema tranquillità anche se la coincidenza dell'arrivo a Roma dei pm con gli Stati generali che domani iniziano a Villa Pamphilj, ha fatto storcere il naso al presidente del Consiglio che pensava di aver già spiegato come si arrivò alla scelta di chiudere tutta la Lombardia. Il problema per Conte è che il presidente della Lombardia Fontana e l'assessore Gallera, sentiti come testimoni, hanno sostenuto con i pm che ribadito che sulla questione della possibile chiusura di alcuni comune, la Regiona fece un passo indietro sapendo che il governo aveva già mobilitato i soldati. Argomento che però potrebbe non sollevare il governatore dalla responsabilità di non aver agito pur avendone il potere.

Zone rosse di Alzano e Nembro, Conte chiarisce e il pm cambia verso. Zone rosse di Alzano e Nembro, Conte chiarisce e il pm cambia verso. Tre ore a tu per tu con i magistrati di Bergamo. Sentiti anche Lamorgese e Speranza. Davide Manlio Ruffolo su lanotiziagiornale.it il 13 Giugno 2020. Tre ore a tu per tu con i magistrati di Bergamo. Sentiti anche Lamorgese e Speranza ...- Prima il premier Conte, poi i ministri Lamorgese e Speranza. Si sono svolte senza intoppi le audizioni da parte dei pubblici ministeri di Bergamo che indagano sulla mancata istituzione, nonostante l’esistenza di un focolaio di covid-19, della zona rossa nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Il primo a comparire davanti ai magistrati è stato Giuseppe Conte che, dopo tre ore di colloquio, ha assicurato di aver “chiarito tutti i passaggi nei minimi dettagli” e di aver ribadito come la competenza sulla chiusura dei due comuni non era affatto esclusiva dell’Esecutivo poiché la Regione Lombardia aveva gli strumenti tecnici per agire in autonomia. Tesi a supporto della quale avrebbe portato l’esempio delle altre Regioni che, applicando l’articolo 32 della legge numero 883 del 1978 che disciplina i poteri decisionali dello Stato e delle Regioni, hanno istituito zone rosse e arancioni di propria iniziativa. Dopo di lui sono stati sentiti il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, e quello della Salute, Roberto Speranza. Incontri che per il procuratore capo di Bergamo, Maria Cristina Rota (nella foto), “si sono svolti in un clima di massima distensione e di massima collaborazione istituzionale”. Già dalla prossima settimana, gli inquirenti intendono fare il punto della situazione e valutare se si sia trattato di un atto politico o amministrativo ed eventualmente configurare un reato e i presunti responsabili. Eppure a far parlare è più che altro quanto dichiarato dal procuratore all’uscita da palazzo Chigi. Qui, intercettata dai cronisti, ha smentito di aver attribuito la responsabilità della mancata istituzione della zona rossa al governo. A suo dire ha semplicemente “dichiarato che dalle dichiarazioni che avevamo in atto c’era quella in quel momento” e nulla più. Si tratta di una risposta a quanto accaduto due giorni fa quando la Rota, dopo aver sentito il presidente della Lombardia Attilio Fontana e l’assessore al Welfare Giulio Gallera, ha detto che la decisione sulle chiusure “da quanto ci risulta è una decisione governativa”. IL SOLITO SALVINI. Dichiarazioni che di certo non hanno fatto piacere a Matteo Salvini che, con un’invidiabile scelta dei tempi e mentre il premier parlava con i magistrati, ha dichiarato euforico: “La zona rossa ad Alzano e Nembro era una decisione del governo e ringraziamo il procuratore aggiunto di Bergamo che lo ha chiarito. Una dichiarazione che fa giustizia di bugie e polemiche. Ora i cittadini bergamaschi sanno chi avrebbe dovuto fare e purtroppo non fece”. Insomma un autogol vista la smentita, avvenuta poco dopo, del procuratore che ha scatenato l’ilarità del capo politico del M5S, Vito Crimi, secondo cui: “Sulla drammatica vicenda delle zone rosse, il capo dei leghisti si sta profondendo in una campagna di depistaggio mediatico. Speculazione senza rispetto né per i cittadini né per le istituzioni. Al peggio non c’è mai fine”.

Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini per il Giornale il 13 giugno 2020. Tre ore di faccia a faccia con la pm di Bergamo Maria Cristina Rota. Durante l'audizione a Palazzo Chigi per far luce sulla mancata zona rossa in Val Seriana, il premier ha ribadito quanto detto in questi mesi e quanto fatto trapelare sui giornali. E cioè che Regione Lombardia avrebbe potuto agire in autonomia, se solo lo avesse voluto. E che se il governo non si mosse, fu solo perché stava per chiudere l'intera regione. Ma per quanto provi a scaricare le colpe sul Pirellone, non basterà al premier trascinare con sé Attilio Fontana o Giulio Gallera negli abissi della giustizia per sottrarsi da una eventuale incriminazione per "epidemia colposa". C’è una falla nella strategia difensiva di Giuseppe Conte. E questo l'avvocato del popolo deve sicuramente saperlo. La linea del presidente del Consiglio si dipana infatti lungo due direttive: da un lato sostiene che "in caso di urgenza e necessità la Regione poteva procedere autonomamente, come effettivamente è avvenuto in seguito e come hanno fatto altre Regioni"; dall'altro mette agli atti che si decise di aspettare perché "intanto era maturata una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedeva di dichiarare 'zona rossa' l'intera Lombardia e tredici Province di altre Regioni". In fondo, la sua ricostruzione dei fatti Conte l'aveva già "consegnata" il 6 aprile al Fatto Quotidiano in una intervista pubblicata pure sul sito della Presidenza del Consiglio destinata a infuocare la polemica politica. Per quanto riguarda la decisione di non intervenire, Conte disse: "La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Ormai vi erano chiari segnali di un contagio diffuso in vari altri comuni lombardi, anche a Bergamo, a Cremona, a Brescia. Una situazione ben diversa da quella che ci aveva portato a cinturare i comuni della Bassa Lodigiana e Vo' Euganeo. Chiedo così agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l'opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto". Nella stessa occasione tentò, infine, di scaricare la colpa su Regione Lombardia che "non è mai stata esautorata dalla possibilità di adottare ordinanze proprie, anche più restrittive, secondo la legge 833/1978". Il punto è che il premier dovrà trovare argomenti più sostanziosi per convincere la Rota a non indagarlo. In una nota, infatti, la pm di Bergamo ha spiegato che la Procura in una prima fase cercherà di ricostruire quanto accaduto (per questo sono stati ascoltati come persone informate sui fatti sia i ministri sia gli amministratori locali); e poi punterà ad "accertare se vi sia stato nesso di causalità tra i fatti come ricostruiti e gli eventi e, in caso affermativo, stabilire a chi fanno capo le responsabilità". Tradotto: se dovesse emergere che la Val Seriana, sulla base dell'andamento epidemiologico, andava chiusa per evitare la strage, bisognerà capire di chi era il compito di prendere una decisione del genere. Certo, Conte tenterà (ancora una volta) di appellarsi al fatto che "anche" la Lombardia avrebbe potuto istituire la zona rossa (cosa tutta da dimostrare, visto che anche per la pm quella era "una decisione governativa"). Ma questi sono scaricabarili che valgono in politica, non in Tribunale. Perché, anche qualora i magistrati ritenessero doveroso indagare pure Fontana, alla sbarra dovrebbe comunque finire anche il governo. Se infatti oggi vi sono ancora fortissimi dubbi sul fatto che il Pirellone potesse blindare Alzano Lombardo e Nembro, è ormai appurato che quel potere il governo lo aveva eccome. Non solo perché attraverso il Viminale gestisce le forze dell’ordine. Ma anche perché governativa fu la decisione di chiudere Codogno e il basso Lodigiano. Se quindi quel fascicolo per epidemia colposa, per ora a carico di ignoti, dovesse trasformarsi in qualcosa in più, allora Conte potrebbe davvero uscirne con un avviso di garanzia. Con o senza Fontana. Se ripercorriamo a ritroso quei giorni terribili, emerge infatti come tutti quanti abbiano cercato di far capire in lungo e in largo a Conte che la Val Seriana andava chiusa. Gliel'ha messo per iscritto il 2 marzo l'Istituto superiore di sanità, consigliandogli di intervenire anche su Brescia. Glielo ha ribadito il giorno dopo, il 3 marzo, il Comitato tecnico scientifico spiegandogli che ormai, in quelle zone, "l'R0 è sicuramente superiore a 1" e che questo basta a credere abbastanza alto il "rischio di ulteriore diffusione del contagio". E glielo hanno ripetuto a non finire i vertici di Regione Lombardia che, nelle continue telefonate a Palazzo Chigi, continuavano a segnalare situazioni al limite nel Lodigiano, in Val Seriana, nel Bresciano e nella provincia di Cremona. Il 4 marzo però il premier ha ulteriormente temporeggiato, inviando al Cts una richiesta di approfondire i motivi della loro richiesta di istituire una zona rossa. Brusaferro ha risposto il giorno dopo, il 5 marzo, in una nota: "Pur riscontrandosi un trend simile ad altri Comuni della Regione - scriveva - i dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento che inserisca Alzano Lombardo e Nembro nella zona rossa". Che il governo fosse indeciso lo dimostrano sia le richieste di Conte di "ulteriori elementi per decidere se estendere la zona rossa" sia l'invio di trecento uomini all'imbocco delle valli bergamasche. I militari erano pronti a chiudere tutto, ma poi sono stati richiamati indietro. Dove sta, dunque, la verità su quella settimana di black out? Dove stava guardando il premier? Perché ha tentennato tanto? I numeri li aveva lì, sul suo tavolo a Palazzo Chigi, ma non si è mosso.

MONICA SERRA per la Stampa il 13 giugno 2020. C' è una bozza del questore di Bergamo. Ora è chiusa in un cassetto. In quelle pagine, scritte in fretta in attesa di un ordine pronto ad arrivare, si dispongono agli accessi della Val Seriana i 300 uomini che, nella notte del 5 marzo, dormono all' hotel Continental di Osio di Sotto e al Palace di Verdellino. Sono pronti, all' alba del 6 marzo, a trasformare quella manciata di chilometri tra Alzano Lombardo e Nembro, dove il virus ha fatto strage, nella seconda zona rossa della Lombardia. Dopo 48 ore concitate, di chiamate, incontri e sopralluoghi, all' alba dell' 8 marzo, alla prefettura di Bergamo arriva l' ordine di bloccare tutto. E quei 300 uomini vengono rispediti indietro. A comunicare «che l' esigenza di rinforzo di personale impiegato nell' area di Bergamo è terminata» è il Dipartimento della pubblica sicurezza del Viminale. E anche di questo ha dovuto riferire ieri ai pm, nel corso degli ascolti a Palazzo Chigi, la ministra dell' Interno Luciana Lamorgese. Quell' ordine poteva arrivare solo da Roma. Per questo il governo, più che la Regione, poteva ordinare l' istituzione della zona rossa in quel momento. Anche se le prerogative del presidente della Lombardia glielo avrebbero teoricamente consentito. Tutti erano in attesa, a Bergamo. Tanto che, agli atti dell' inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota, è finito anche un breve scambio di messaggi tra un comandante dell' Arma e l' allora dg della Sanità lombarda Luigi Cajazzo. Erano momenti complicati. Sull' asse Roma-Milano, lo scambio era continuo, non solo sul piano politico. Della possibilità di istituire la zona rossa in Val Seriana si inizia a parlare a fine febbraio. Si oppongono i sindaci del territorio, salvo poi ritrattare le loro posizioni. Sono contrari soprattutto gli industriali. Ci sono due piani da bilanciare: quello economico e la salute pubblica. La sera del 3 marzo, a Roma, il Comitato tecnico scientifico, «ricevuti i dati relativi ai comuni di Alzano Lombardo e Nembro», e «sentito per via telefonica l' assessore Gallera e il dg Cajazzo», si legge nello stralcio del verbale della riunione che si è tenuta al Dipartimento della protezione civile, «propone di adottare le opportune misure restrittive già adottate nei comuni della zona rossa (lodigiana, ndr) anche in questi due comuni, al fine di limitare la diffusione dell' infezione anche nelle aree contigue». Come Bergamo, dove il virus ha fatto centinaia di vittime. La posizione dei tecnici è chiara: la Val Seriana ha un «R0 sicuramente superiore a 1» e va chiusa. La macchina si attiva immediatamente. E mentre gli scambi e i contatti tra Palazzo Lombardia e Palazzo Chigi sono costanti, il 4 marzo, il Dipartimento della pubblica sicurezza del Viminale ordina alla prefettura di Bergamo di organizzarsi che stanno arrivando i rinforzi. Mentre i contingenti di carabinieri, polizia ed esercito sono pronti a partire, iniziano gli incontri in questura per predisporre uomini e turni a ogni varco della Val Seriana. E il questore prepara anche una bozza di ordinanza che non firmerà mai. La mattina dopo iniziano i sopralluoghi di carabinieri del comando provinciale e agenti di polizia. È tutto pronto. Quasi 300 uomini sono nei due alberghi che aspettano disposizioni. La sera del 7 marzo trapela la notizia del Dpcm che chiuderà l' intera regione. All'alba del mattino dopo «l' esigenza di rinforzo è terminata» e quei 300 uomini tornano indietro. Alle 13 il Dpcm viene pubblicato in Gazzetta Ufficiale: la Lombardia è «zona protetta». A questure e prefetture del territorio il ministro Lamorgese invia una direttiva. «Ferma restando la piena autonomia nelle materie di competenza regionale, va rilevata l' esigenza che in ogni caso, e soprattutto in questo delicato momento, non vi siano sovrapposizioni di direttive aventi incidenza in materia di ordine e sicurezza pubblica, che rimangono di esclusiva competenza statale e che vengono adottate esclusivamente dell' Autorità nazionale e provinciali di pubblica sicurezza». La decisione è presa. Non c' è più nulla da fare.

Roberto Speranza smentisce Conte sui pm di Bergamo: "Rifare tutto? Sinceramente non lo so". Libero Quotidiano il 14 giugno 2020. "Rifare tutto? Sinceramente non lo so". Roberto Speranza, intervistato dal Corriere della Sera, risponde così a chi gli chiede un commento sulle parole di Giuseppe Conte, ripetute ai pm di Bergamo che stanno indagando per "epidemia colposa" sulla mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano. "Ci sarà modo di ragionare su tutto e lo farò con la massima serietà - spiega il ministro della Salute -. Quel che è certo è che ho sempre agito avendo a cuore la salute e la vita delle persone". L'impressione è che nel governo ciascuno giochi una partita individuale e non di squadra, e che in qualche modo sia cominciato lo scaricabarile nei confronti del premier. Politicamente, però, Speranza si tiene salda la poltrona: "Questo governo a tutte le energie e le forze per poter interpretare la fase di ricostruzione a cui siamo chiamati dopo aver gestito quattro mesi durissimi. Ora la sfida vera e trasformare una crisi così profonda in opportunità di ripartenza". Sulla prospettiva di un rimpasto di governo, Speranza è categorico: "Giusto che ognuno di noi alzi sempre l'asticella per fare di più e meglio, ma questa è la squadra. Nessun rimpasto, è il momento delle grandi idee e non di discutere delle caselle. La stagione del rigore e dei tagli alla spesa pubblica si va a archiviando, dobbiamo lavorare per ridurre le diseguaglianze e far ripartire la domanda". Il governo reggerà all'autunno? "Serve un maggior afflato politico. Credo che l'alternativa alla destra si costruisca attorno all'asse tra centrosinistra e M5s". Un'alleanza strutturale, a partire già dalle prossime elezioni regionali del 20 settembre.

Zone rosse e dietrofront. Ecco cosa Conte non ha chiarito. Dalla deposizione del premier restano tre punti oscuri: perché cambiò idea sul blocco dei comuni bergamaschi? Fausto Biloslavo, Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, sostiene di avere chiarito tutto e di sentirsi assolutamente tranquillo sulla mancata zona rossa in provincia di Bergamo. In realtà i buchi neri sulla sua deposizione, che non è durata cinque minuti nel caso fosse stato tutto a posto, ma tre ore, sono tanti.

Il primo punto da chiarire è lo stesso pilastro della linea difensiva di Conte, che sostiene come fosse troppo tardi e la zona rossa di Alzano Lombardo e Nembro era stata superata con il decreto dell'8 marzo, che allargava le restrizioni a tutta l'Italia. In realtà il governo decise una «zona protetta» chiamata subito «zona arancione», che non era né carne né pesce. Restrizioni aumentate, ma non totali come era necessario in provincia di Bergamo per tamponare il contagi. E già avvenuto con successo a Codogno e Vo' Euganeo grazie a un blocco totale. E poi se le «zone arancioni» fossero bastate, come mai sono state istituite altre 115 vere zone rosse nel paese dopo il decreto dell'8 marzo? La verità è che soprattutto i rappresentanti locali non volevano le zone rosse. Per Medicina richiesta dall'Emilia Romagna ci sono voluti due tentativi prima di attuarla con l'arrivo dell'esercito. «In provincia di Alessandria non è mai stata fatta anche se necessaria - racconta una fonte del Giornale in prima linea nella pandemia - perché la politica si è opposta». Conte non ha esteso alcuna zona rossa a tutta Italia agli inizi di marzo. Al contrario, con il disastroso annuncio in tv del decreto, ha fatto fuggire migliaia di persone da Milano verso il sud.

Il secondo buco nero da esplorare è perché il governo avesse deciso di istituire la zona rossa ad Alzano e Nembro e poi ha cambiato idea. Le comunicazioni delle Difesa del 5 marzo rivelate dal Giornale confermano che «a seguito di individuazione di zona rossa nell'area di Bergamo dalle autorità governative relativa all'emergenza nazionale Covid 19, su richiesta di Mininterno Ufficio sicurezza ed ordine pubblico si dispone il rinforzo di personale impiegato nell'operazione Strade sicure con un contingente di 120 unità». Ridicola e impossibile la spiegazione trapelata, che i comandi generali di carabinieri, polizia, esercito abbiano agito in maniera autonoma all'insaputa di Conte e del ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. E ancora più dubbia l'idea che il Viminale si fosse portato avanti per prepararsi a qualsiasi evenienza muovendo 370 uomini. Carabinieri e poliziotti di Bergamo dal 4-5 marzo avevano già individuato i punti dove piazzare i posti di blocco ed erano pronti a chiudere tutto. Un altro tassello è la parte della comunicazione della Difesa sulla zona rossa che recita: «Seguirà ordinanza della Prociv», ovvero Protezione civile, che dipende dal presidente del Consiglio.

Il terzo buco nero riguarda proprio i veri motivi del contrordine, arrivato tre giorni dopo ai militari: «Mininterno ha comunicato che l'esigenza di rinforzo di personale impiegato nell'area di Bergamo è terminata». I parenti delle vittime del virus nella zona di Bergamo del comitato «Noi denunceremo» hanno allegato agli atti delle loro denunce un documento del 27 febbraio, che spiega molto sulle pressioni anti-chiusura. Imprese e pure il sindacato scrivono che «dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate». La firma è di Abi, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia, Cgil, Cisl, Uil. Il giorno dopo «Confindustria Bergamo lancia uno spot con l'hashtag #Bergamoisrunning, un video in inglese () in cui si dice che il rischio nella zona è basso». Ieri il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, stella locale del centrosinistra, ha fatto qualche ammissione con la Stampa. Il primo cittadino chiamava Roma, ma esclude operazioni di lobbyng da parte di Confindustria. Però ammette di avere parlato almeno «con un imprenditore, preoccupato per il fatto che tutto il mondo continuasse a produrre mentre solo loro dovevano fermare il lavoro». Il sindaco fa onestamente mea culpa: «Eravamo convinti tutti, che il virus potesse passare nel giro di poche settimane. È un'assoluta ammissione di errore da parte mia. Sicuramente ho sbagliato».

Gran parte dei giornali si arrampicano sugli specchi per difendere il governo sulla mancata zona rossa e forse usciranno verbali mirati per dimostrare che Conte non ha alcuna responsabilità. L'inchiesta, però, dovrà chiarire il buco nero delle pressioni che nel giro di tre giorni ha fatto cambiare idea al governo sulla zona rossa di Bergamo, che se fatta subito e bene avrebbe potuto diminuire il numero di vittime.

S. Can. Per il Messaggero il 13 giugno 2020. «In questa vicenda l'unico che ne esce bene è il Comitato tecnico scientifico: a domanda rispondemmo subito. La Valle andava chiusa, e subito. Poi però venimmo a sapere che molte aziende del Bergamasco avevano delle commesse, anche con la Cina, che non potevano perdere. E credo che abbiano continuato a lavorare anche durante il lockdown, pensi un po'». Un autorevole componente del Cts conferma a Il Messaggero quanto è già contenuto negli atti ufficiali. Il Cts, davanti al boom di contagi e morti disse immediatamente che occorreva istituire le zone rosse a Nembro ed Alzano, i due comuni al centro della pandemia. Allarmi non ascoltati. Invece la decisione si perse nel rimpallo tra governo e Regione, tra Roma e Milano. Nonostante i dati trasmessi in quei giorni dagli ospedali al Pirellone. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità, spiega che all'epoca venne sollevata «l'attenzione sulle aree dove c'erano il numero maggiore di casi e sono state fatte, con una tempistica stringente e non perdendo assolutamente tempo, tutte le analisi che hanno permesso al decisore politico di fare le scelte del caso». Ma chi era il decisore? Già il 23 febbraio la Regione di Attilio Fontana decise la riapertura dell'ospedale di Alzano, per esempio. E con una lettera firmata da Giuseppe Marzulli, il direttore dell'ospedale di Alzano, il 25 febbraio si chiedeva di chiudere l'ospedale a causa del Covid-19. Una lettera che rimase però inascoltata.

LE TAPPE «Nei giorni successivi come riportato in una lettera pubblicata dal quotidiano Avvenire si apprende che diversi operatori, sia medici che infermieri, risultano positivi ai tamponi per Covid19, molti di loro sono sintomatici». Anche l'ospedale diventa un cluster.

Attenzione il 23 febbraio non è un giorno casuale perché si decide di chiudere Vo' e Codogno. Si arriva così al consiglio del Comitato tecnico scientifico. Il Cts propone «di adottare le opportune misure restrittive già prese nei Comuni della zona rossa al fine di limitare la diffusione dell'infezione nelle aree contigue. Questo criterio oggettivo potrà, in futuro, essere applicato in contesti analoghi». Intanto, in loco, le pressioni per non arrivare alla serrata sono fortissime. Arrivano dal mondo degli industriali, dal distretto che non vuole finire dentro la zona rossa. Ma non finisce qui. Perché il 2 marzo l'Istituto superiore di sanità lancia un altro allarme. La strada indicata è quella del comitato tecnico scientifico, ma non accade nulla. In poche parole, gli scienziati hanno già detto al governo che occorre intervenire con le maniere forti. Una pratica che dall'11 marzo, quando l'Italia viene proclamata zona protetta, le Regioni adotteranno in autonomia. In Calabria, nel Lazio, in Campania. Appena l'indice R0 finisce fuori controllo, i presidenti intervengono con specifiche ordinanze. Come d'altronde gli è consentito dalla legge.  «In materia di igiene e sanità pubblica e di polizia veterinaria» possono essere «emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale». Ma ad Alzano e Nembro ciò non avvenne.

“Zona rossa” nel bergamasco, Conte a rischio dopo 3 ore con il procuratore Rota. Il Corriere del Giorno il 13 Giugno 2020. Tre ore di audizione con il procuratore aggiunto: “Ho voluto chiarire i minimi dettagli”. Il destino della posizione del premier Conte all’interno dell’indagine della Procura di Bergamo, passa nello spazio che divide l’obbligo da una valutazione legittima di una situazione in fieri . Imprevedibili le conseguenze, anche perchè il reato di “epidemia colposa” arriva a prevedere come pena massima l’ergastolo. ROMA – Ieri non è stata una giornata facile per il premier Giuseppe Conte, che ha ricevuto a Palazzo Chigi alle dieci del mattino il procuratore di Bergamo Maria Cristina Rota, che sta indagando sulle responsabilità della mancata chiusura ed attivazione della “zona rossa” di Nembro e Alzano Lombardo bel bergamasco. Tre ore di colloquio per il premier, in un “clima di massima distensione e massima collaborazione istituzionale”, ha dichiarato il procuratore, all’uscita da Palazzo Chigi, una dichiarazione che sembra affievolire il ruolo del premier il quale ha dichiarato con ostentata serenità: “Ho detto che responsabilità è del governo? Dalle dichiarazioni in atto emergeva quello in quel momento”, salvo poi trincerarsi nel silenzio spiegando che non ha nulla da aggiungere. Il presidente del Consiglio ha dato ferree istruzioni a tutto il suo staff della comunicazione, di tacere con la stampa e tenere la bocca chiusa. Conte è un avvocato e sa molto bene quali sono i rischi e le conseguenze nel divulgare anche un solo minimo particolare di un’indagine in corso. “Ho voluto chiarire tutti i passaggi nei minimi dettagli”, è l’unico commento che ha fatto, dopo aver trascorso ben tre ore davanti al procuratore di Bergamo, facendo una dettagliata ricostruzione al magistrato ed esibendo uno dopo l’altro tutti i documenti di quei giorni estratti da un dossier minuziosamente preparato . Conte avrebbe rivendicato del tutto la scelta di non chiudere Alzano Lombardo e Nembro. Ha infatti sottolineato: “Posto che la Regione avrebbe potuto agire diversamente, l’ultima parola sulla scelta di non istituire una zona rossa Alzano e Nembro è stata mia e di nessun altro. Me ne assumo ogni responsabilità ma penso anche che sia stata la decisione più giusta in quel momento”. La decisione ultima del premier Conte sarebbe stata data anche dalla conformità del territorio interessato perché “isolare Alzano e Nembro dai paesi circostanti sarebbe stato particolarmente difficile, quasi impossibile. In quell’area tra paese e paese non c’è soluzione di continuità”. Ufficialmente il Governo vuole manifestare assoluta serenità, anche per parte del ministro della salute Roberto Speranza e dell’ Interno Luciana Lamorgese, anche loro ascoltati per un paio d’ore a testa dal procuratore Rota. Lo spettro che in realtà aleggia è che le posizioni del premier e dei due ministeri da “persone informate dei fatti” possano trasformarsi in una loro un’iscrizione nel registro degli indagati per “epidemia colposa”. Il premier come ben noto da buon avvocato, seppure civilista, si sa muovere bene tra le sfumature del diritto, e lo staff di Palazzo Chigi ha preparato il proprio dossier difensivo con la massima attenzione. Il timore incombente è l’accusa prevista dal secondo comma dell’articolo 40 del codice penale, che dice: “Non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Sono trascorsi dieci giorni, dal 29 gennaio al 9 marzo , dalla prima indicazione del Comitato tecnico scientifico che consigliava la chiusura dei due comuni all’entrata in vigore della zona rossa in Lombardia , per limitare gli spostamenti degli abitanti di Nembro e Alzano nel territorio lombardo, per il quale si è aspettato tardivamente il “lockdown” nazionale, due giorni dopo. Il destino della posizione del premier Conte all’interno dell’indagine della Procura di Bergamo, passa nello spazio che divide l’obbligo da una valutazione legittima di una situazione in fieri . Imprevedibili le conseguenze, anche perchè il reato di “epidemia colposa” arriva a prevedere come pena massima l’ergastolo. Non è stata quindi la giornata che Conte si aspettava. Mentre il premier veniva ascoltato dal procuratore Rota, iniziano a circolare tra i suoi collaboratori gli echi del Consiglio dei ministri di ieri, a partire dalla vendita per 1,2 miliardi di euro di due navi della Marina Militare italiana, la “Spartaco Schergat” e l’ “Emilio Bianchi” all’Egitto . Nulla di segreto, ma le conseguenze di una commessa militare così pesante con il Governo dell’ Egitto che ancora deve fornire chiarimenti e risposte sulla moglie di Giulio Regeni ha fatto scattare l’allarme. La maggioranza parlamentare infatti è a rischio seppure non se ne voglia farne un caso. A Palazzo Chigi arrivano preoccupanti segnali dall’interno del Movimento 5 Stelle, da Leu, ed anche da una componente del Pd. La richiesta del ministro Franceschini di incardinare per la settimana prossima le modifiche ai decreti sicurezza voluti da Salvini nel precedente governo (sempre a guida Conte) ha trovato impreparato il premier. I testi contengono le osservazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella , sono da tempo custoditi sulla scrivania nel ministro dell’ Interno Luciana Lamorgese. Un’ operazione che però non è per niente semplice e tantomeno in quanto andrebbe a sconfessare uno dei “pilastri” del primo governo Conte (M5S-Lega), rischiando di far molto male al secondo governo Conte (M5S-Pd-LeU). E tutto avviene alle porte del weekend degli Stati Generali iniziati oggi con un’ impriting di un programma ancora da definire giornata che non raffigura lo scenario immaginato dal premier quando, lo scorso 3 giugno, annunciò l’iniziativa sorprendendo tutti, maggioranza compresa.

Gli Stati Generali organizzati da Conte a Villa Pamphili, a porte chiuse senza streaming e senza stampa, al punto che Mario Monti intervenendo in un programma televisivo ha commentato l’intera iniziativa così: “Si potrebbero definire la Bilderberg dei 5 Stelle”. Alla faccia della trasparenza da sempre ricercata dai grillini, e di fatto calpestata una volta arrivati alle poltrone di Governo.

Maria Cristina Rota il magistrato che la Palamara non voleva procuratore a Bergamo. Se fosse dipeso dalla volontà di Luca Palamara e la sua cricca, ieri a Palazzo Chigi per interrogare il premier Giuseppe Conte non ci sarebbe stata lei. E forse forse quell’interrogatorio non ci sarebbe mai stato…Maria Cristina Rota, sessant’anni, bergamasca doc, nell’inchiesta sulla omessa “zona rossa” di Alzano e Nembro sta lavorando non solo con la passione di chi è nato e vissuto nella terra flagellata dal virus, sentimento che probabilmente un magistrato venuto da fuori avrebbe avvertito con maggior distacco. Ma è la grinta e la indisponibilità della Rota ai condizionamenti erano le caratteristiche che Palamara non amava dalla magistrata bergamasca. Non a caso a maggio di due anni fa il leader di Unicost, ex presidente dell’ ANM ed all’epoca dei fatti membro del Csm, specializzatosi a tessere trame poco chiare sulle nomine, manovrò a lungo affichè la candidatura a procuratore della Rota venisse respinta. Alla fine affinchè Palamara venisse messo in minoranza e la Rota venisse nominata procuratore aggiunto ci fu un’alleanza imprevedibile tra Area la corrente di sinistra e Magistratura Indipendente la corrente di destra. Le chat rintracciate sul telefono di Palamara – come svela il quotidiano IL GIORNALE – segnano l’inizio delle manovre all’ora di pranzo del 14 maggio 2018, quando il pm romano inizia a martellare Claudio Galoppi, consigliere Csm in quota MI e leader indiscusso della corrente conservatrice. “Pat Bergamo, Pat Brescia, ne parliamo?” gli scrive Palamara. Ma cosa è “Pat” ? E’ la sigla convenzionale per indicare la carica di procuratore aggiunto, una figura “chiave” di tutte le Procure, molto spesso il vice del capo, spesso il suo erede come accaduto recentemente a Roma. “Ok, ci vediamo nel pomeriggio” gli risponde Galoppi. attualmente consigliere giuridico del presidente del Senato, Elisabetta Casellati. In quel momento il “trojan” della Guardia di Finanza non era ancora stato inoculato nel telefono di Palamara, motivo per cui il colloquio tra i due nel pomeriggio non viene registrato. Ma la lacuna viene successivamente colmata il 6 giugno, quando Palamara scrive a Galoppi indicandogli per la procura bergamasca un candidato della sua corrente, Unicost. “È bravissimo!!” gli scrive ma Galoppi gli risponde in maniera un po’ criptica: “Se lo dice un abile politico come te allora è vero“. Galoppi, come si vedrà successivamente è convinto che in realtà la candidata naturale sia la In realtà Galoppi, come si vedrà, è convinto che la candidata naturale sia la Rota, anche se è di un’altra corrente, perché la magistrata bergamasca appartiene (dettaglio che in queste ore sfugge a quanti la criticano per non avere incriminato i vertici della Regione Lombardia e avere anzi puntato il dito contro il governo centrale) ad Area, la corrente di sinistra dell’ Anm. Palamara era sotto pressione da parte del suo capocorrente in zona, il presidente del Tribunale di Brescia Vittorio Masia che lo riempie di messaggini propugnando questa e quest’altra nomina. Fin dalla metà di marzo 2018 Masia fa pressioni su Palamara perché vengano piazzati sia a Bergamo che a Brescia magistrati della corrente di Unicost, “abbiamo due splendidi candidati, vediamo di non bruciarli”. Alla fine ha prevalso invece la nomina della Rota che visto l’andazzo generale del Csm, può sembrare, quasi sorprendente. A rendere strategico il posto di procuratore aggiunto a Bergamo c’è, in quei mesi, un elemento ben noto al Csm, e cioè che il procuratore della Repubblica, Walter Mapelli, era molto malato ed un anno dopo, nell’aprile 2019 morirà.

Maria Cristina Rota è cresciuta alla “scuola” di Armando Spataro con cui c’è da sempre grande stima reciproca, ed i due sono molto amici. Il primo risultato importante dalla magistrata che ha interrogato il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute, Roberto Speranza, e dell’Interno, Luciana Lamorgese), fu un caso di cronaca nera: l’omicidio di suor Maria Laura Mainetti, massacrata a colpi di coltello il 6 giugno 2000 a Chiavenna. A incastrare le responsabili del barbaro assassinio – tre ragazzine minorenni – fu l’allora sostituto procuratore minorile di Milano Maria Cristina Rota. Come fece? Utilizzando le intercettazioni telefoniche (fu una dei primi magistrati a farlo n.d.r) “Mettere sotto i telefoni“, come si dice in gergo, per ascoltare le reazioni degli indagati agli articoli usciti sulla stampa. Una tecnica che gli investigatori definiscono, informalmente, con questa espressione: “alzare la sabbia“, per poi vedere l’effetto che fa. E’ lo stesso procuratore Mapelli, un magistrato straordinario, che in quegli ultimi mesi di vita e di lavoro, ad indicare al Csm quella che per lui è l’unica soluzione in grado di mantenere la procura bergamasca all’altezza della situazione quando lui non ci sarà più: Maria Cristina Rota. È stato infatti proprio l’endorsement di Mapelli a buttare all’aria tutte le manovre di Palamara e della sua cricca, convincendo Galoppi a votare insieme ad Area. Ed infatti Il 12 settembre 2018 il plenum del Consiglio superiore della magistratura con uno scontro frontale, deliberò la nomina della Rota: la votazione finì undici a dieci nonostante Palamara fosse riuscito a dirottare sul suo candidato i voti anche del presidente e e del procuratore generale della Cassazione. Una volta tanto, per fortuna le sue manovre non avevano raggiunto l’obiettivo. In procura a Bergamo la vedono arrivare prestissimo la mattina e andarsene la sera tardi. E per gli interrogatori di palazzo Chigi si era portata avanti arrivando a Roma insieme al pool di magistrati che coordina, e agli uomini della polizia giudiziaria a cui ha affidato le indagini già da mercoledì scorso: 48 ore prima dell’interrogatorio . “Non è andata a fare vacanza o a visitare la Capitale” scherza un autorevole magistrato che la conosce da anni.

Chi è Maria Cristina Rota, la pm che indaga su Conte e le mancate zone rosse in Val Seriana. Redazione su Il Riformista il 12 Giugno 2020. Cresciuta alla scuola di Armando Spataro, ex procuratore a Milano ai tempi del pool di ‘Mani pulite’, Maria Cristina Rota è la pm dell’inchiesta sulla mancata zona rossa in Val Seriana che sta facendo tremare il governo Conte. Da settembre 2018 procuratore aggiunto a Bergamo, oggi Rota è stata la protagonista indiscussa della giornata politico-giudiziaria recandosi a Palazzo Chigi per ascoltare il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e i ministri Roberto Speranza e Luciana Lamorgese sulla mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Ma il primo caso che la porta alle luci della ribalta è di cronaca nera, l’omicidio di suor Maria Laura Mainetti, avvenuto il 6 giugno del 2000 a Chiavenna. L’allora sostituto procuratore minorile di Milano incastrò le tre responsabili, tre ragazzine minorenni che avevano massacrato la suora a coltellate. Una indagine in cui la Rota fu tra i primi magistrati ad utilizzare le intercettazioni telefoniche per risolvere un caso di cronaca nera. Sue le indagini che portarono all’arresto di Antonino Porcino, per 31 anni direttore del carcere di Bergamo, così come quelle sul fallimento della Maxwork e sulla cosiddetta “banda del Ragno” dedita a usura ed estorsioni. Rota, di fede valdese e bergamasca doc, da aprile del 2019 è procuratore facente funzione a Bergamo in attesa dell’insediamento di Antonio Chiappani, dopo la morte dell’ex procuratore capo Walter Mapelli, scomparso a 61 anni per un tumore lo scorso anno.

Maria Cristina Rota nelle chat di Luca Palamara, il lavoro dell'ex presidente dell'Anm per evitare la sua nomina a pm di Bergamo. Libero Quotidiano il 13 giugno 2020. Le intercettazioni di Luca Palamara arrivano ovunque, anche a Maria Cristina Rota, il pm di Bergamo che ieri ha sentito Giuseppe Conte, Roberto Speranza e Luciana Lamorgese in merito alla mancata zona rossa di Nembro e Alzano. Due anni fa l'ex presidente dell'Anm ora indagato tentò in tutti i modi di bocciare la candidatura della Rota. Ma alla fine - come spiega Il Giornale -  ci volle un'alleanza inconsueta tra la corrente di sinistra, Area, e la destra di Magistratura Indipendente perché Palamara venisse messo in minoranza e la Rota venisse nominata procuratore aggiunto. Il tutto, stando alle chat, ha inizio il 14 maggio 2018, quando il pm romano scrive con insistenza a Claudio Galoppi, consigliere Csm in quota MI e leader della corrente conservatrice. "Pat (sigla convenzionale per la carica di procuratore aggiunto) Bergamo, Pat Brescia, ne parliamo?", "Ok, ci vediamo nel pomeriggio", replica Galoppi. Poi si prosegue al 6 giugno, quando Palamara scrive ancora a Galoppi indicandogli per la procura bergamasca un candidato della sua corrente, Unicost. "È bravissimo!!". "Se lo dice un abile politico come te allora è vero", risponde Galoppi, A sua volta Palamara è però sotto pressione da parte del suo capocorrente in zona, il presidente del tribunale di Brescia Vittorio Masia che lo sommerge di messaggini perché sia a Bergamo che a Brescia vengano piazzati gli uomini di Unicost, "abbiamo due splendidi candidati, vediamo di non bruciarli". Ma alla fine a spuntarla ci fu la Rota. che il 12 settembre 2018 convinse il plenum del Consiglio superiore della magistratura.

Giuseppe Conte, premier alla sbarra con l'interrogatorio dei pm di Bergamo: un disastro per Davigo e M5S. Libero Quotidiano il 13 giugno 2020. Le immagini dei pm di Bergamo, che indagano per epidemia colposa per non aver istituito per tempo come zona rossa Alzano e Nembro nella bergamasca, che arrivano al mattino e se ne vanno alle 5 della sera, insieme alla notizia di un interrogatorio durato tre ore solo per il premier Conte (a cui vanno aggiunte quelle che la Pm Maria Cristina Rota, ha dedicato ai ministri Lamorgese e Speranza), non hanno certo giovato al governo alla vigilia di un avvenimento internazionale come gli Stati Generali dell'Economia, che nell'agenda prevede l'arrivo a Roma di tutti i vertici Ue. Lo scrive il Giornale che certifica l'imbarazzo politico di questa situazione. Perchè, scrive sempre il Giornale, "un trattamento di riguardo era il minimo che ci si potesse aspettare per un governo che, non è un mistero, ha al suo interno i terminali politici delle correnti delle magistrature più interventiste, dai giustizialisti ai nipotini delle toghe rosse".  Proprio la vicinanza di Conte a quei mondi rende le immagini di ieri in ogni caso un problema per lui. Se ci fossero stati Berlusconi, Letta o Renzi, scrive Minzolini, per fare dei nomi, al posto di Conte e nelle sue stesse condizioni, infatti, si può star sicuri che Marco Travaglio "avrebbe già eretto una ghigliottina accanto alla Colonna Antonina". Mentre per Piercamillo Davigo i poveretti sarebbero già dei "colpevoli non scoperti".

Carlo Nordio e la "prova diabolica" della pm Maria Cristina Rota per cacciare Conte: altissime fonti in procura. Libero Quotidiano il 13 giugno 2020. Per Carlo Nordio quella della magistratura di Bergamo sarà un'inchiesta irta di ostacoli. Il motivo? "Per ora - scrive sul Messaggero l'ex magistrato - mancano il reato e gli indagati". Dopo l'audizione di Giuseppe Conte, Roberto Speranza e Luciana Lamorgese da parte della pm Maria Cristina Rota "occorrerà dimostrare la colpa, cioè la negligenza, imprudenza o imperizia di questi soggetti nella gestione della crisi." Ma non è finita qui, perché nel caso in cui venisse trovata, "bisognerebbe dimostrare che essa ha cagionato l'epidemia e le morti conseguenti: quello che in giuridichese si chiama nesso di causalità". In sostanza per Nordio si tratta "di una prova diabolica, come sempre avviene quando all'imputato si contesta non ciò che ha fatto, ma ciò che non ha fatto, sostenendo che se avesse fatto quello che doveva fare l'evento non si sarebbe verificato". E di qui l'auspicio "che la Magistratura si limiti ad individuare chi ha commesso errori, e quali, ma si arrenda davanti all'impossibilità di accertare il nesso di causalità, archiviando tutto quanto prima. Ma la legge penale non esaurisce ogni forma di responsabilità, e men che mai quella politica". L'ex toga non nega che il governo abbia le sue colpe "per l'approccio pasticcione con il quale, almeno in un primo tempo, ha affrontato l'emergenza. Ma la responsabilità politica - e questo è il punto secondo Nordio - della Regione guidata dal leghista Fontana si evince proprio dal confronto con altre regioni virtuose, che sono intervenute autonomamente, superando le oscillazioni governative, per affrontare una situazione grave e imprevista".

Annalisa Chirico, Conte e la pm di Bergamo Rota: "Le vittime di coronavirus resteranno senza giustizia".  Annalisa Chirico su Libero Quotidiano il 14 giugno 2020. «Rifarei ogni cosa, ho agito in scienza e coscienza», con questo messaggio, ribadito in molteplici interviste, il premier Giuseppe Conte offende la memoria dei morti e l'intelligenza dei vivi. Serve ritegno, talvolta. Nel Paese che ha perduto 35mila concittadini per la crisi epidemica, il presidente del Consiglio, interrogato sulla mancata istituzione della zona rossa nella provincia bergamasca, la più colpita in proporzione alla popolazione, afferma che, tornando indietro, rifarebbe esattamente ciò che ha fatto, lui non si pente di nulla, ha agito «in scienza e coscienza». Ecco allora che l'inadeguatezza dell'uomo prende il sopravvento anche sull'incapacità del politico. Non s' intende con questo imbastire un processo sulla pubblica piazza né inaugurare la caccia al colpevole, esercizio che nel nostro paese eccita schiere di tricoteuse pronte ad avventarsi sul cadavere caldo. Le circostanze avrebbero però consigliato un maggiore garbo istituzionale. O, se volete, il senso della decenza. Perché i bergamaschi piangono ancora i loro defunti, eppure il premier, sostenuto dal solito caravanserraglio mediatico, non perde l'occasione di cimentarsi nell'arte dello scaricabarile. La campagna denigratoria contro la Lombardia, la Regione più colpita, ha toccato punte inaudite, con il solo obiettivo di condannare il governatore che già a fine gennaio invocava misure restrittive nei confronti delle persone provenienti dalla Cina (vi ricordate le accuse di razzismo?) mentre in altri luoghi vicini si allestivano gli aperitivi negazionisti sulla tragedia che di lì a poco si sarebbe abbattuta sull'umanità intera. Di fronte a un «incidente della Storia» siamo tutti vittime e colpevoli. Abbiamo subìto un confinamento lungo e severo: se nelle guerre tradizionali si rischia la vita per salvare la libertà, noi abbiamo rinunciato alla libertà per tentare di salvare le nostre esistenze. E non abbiamo saputo proteggere quelli tra noi più vulnerabili, gli anziani. Abbiamo appreso, di colpo, che il Parlamento è un'istituzione vintage, e se Casaleggio junior e Grillo si limitano a teorizzarlo, l'avvocato del popolo neoeuropeista lo ha dimostrato nei fatti, governando a colpi di Dpcm ed esibendo una sostanziale indifferenza per il ruolo dell'istituzione culla della sovranità popolare. Sarà che la democrazia del voto interessa ormai a pochi ma la stessa convocazione degli Stati generali appare come l'ennesima trovata mediatica per occupare il proscenio destituendo, di nuovo, il Parlamento della sua funzione fondamentale di confronto e discussione. Lo scaricabarile contro la Regione Lombardia si è rivelato un boomerang: il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota ha audito il premier in qualità di persona informata dei fatti che potrebbe però diventare indagata nel caso di prosecuzione delle indagini. È infatti impossibile, Costituzione alla mano, individuare le responsabilità della mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo senza prendere atto della competenza preminente ed esclusiva del governo centrale. Questione di competenza - Lo hanno detto, sin dal principio, personalità del calibro di Giulio Tremonti e Sabino Cassese: l'articolo 117, secondo comma, alla lettera "q", menziona la "profilassi internazionale" tra le materie di competenza esclusiva dello Stato. Nel dibattito viene spesso citata la legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che assegna sì il potere di ordinanza agli enti territoriali in materia di sanità pubblica ma riconosce pure le competenze del ministro della Salute e del governo centrale. Già l'articolo 120 della Costituzione consente al governo di sostituirsi alle Regioni in casi di grave pericolo per l'incolumità. La Costituzione è cristallina e, fino a prova contraria, essa prevale sulle leggi ordinarie. Come ha chiarito Michele Ainis, il principio che permea la normativa in vigore è che, se l'emergenza investe un territorio regionale, interviene, in prima battuta, la Regione; se ne supera i confini, tocca allo Stato. I sedici giorni di colpevole ritardo tra la scoperta del focolaio bergamasco e l'adozione delle misure restrittive si potevano e dovevano evitare. Vogliamo capire che cosa accadde tra il 3 e il 9 marzo quando il governo inviò le forze dell'ordine e l'esercito nella bergamasca ma poi l'ordine di istituire la zona rossa fu ritirato. A dispetto dei ripetuti solleciti da parte del Comitato tecnico scientifico. Lungi da noi emanare sentenze preventive, ma pretendere giustizia, questo sì. 

Inchiesta zone rosse, pm Bergamo: “La questione è complessa”. Veronica Caliandro il 14/06/2020 su Notizie.it. Le parole del procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota dopo le audizioni di Giuseppe Conte e dei ministri Speranza e Lamorgese. “La questione è complessa e sarà approfondita all’esito della ricostruzione in fatto”. Sono queste le parole del procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota dopo le audizioni del presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, e dei ministri Speranza e Lamorgese. Alla domanda se si possano o meno configurare responsabilità penali o se le scelte di Palazzo Chigi siano da considerarsi come atto politico e pertanto insindacabili, il procuratore facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota, ha affermato :”La questione è complessa e sarà approfondita all’esito della ricostruzione in fatto“. Sono queste, quindi, le parole utilizzate dal procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota dopo le audizioni del premier Conte e dei ministri Speranza e Lamorgese in merito alla mancata zona rossa a Nembro e Alzano. Per i pm di Bergamo, quindi, si prospetta una settimana di lavoro volta a ricostruire, grazie all’analisi delle dichiarazioni raccolte e allo studio della documentazione acquisita, i vari passaggi che ai primi di marzo hanno portato a stabilire come zona rossa non solo Nembro e Alzano Lombardo, ma tutta la Lombardia. Una valutazione volta a stabilire se la decisione dell’esecutivo sia da considerare come una scelta politica insindacabile, oppure come atto amministrativo che consentirebbe eventualmente di ipotizzare un reato e relativa responsabilità. Prima di giungere ad una conclusione effettiva, comunque, ci sarà un lavoro istruttorio, molto probabilmente anche con altre audizioni di testi, incrociando le dichiarazioni messe a verbale dei principali protagonisti.

Valentina Errante e Claudia Guasco per il Messaggero il 14 giugno 2020. Le audizioni del premier Giuseppe Conte, dei ministri Lamorgese e Speranza, dei vertici della Regione Lombardia non sono sufficienti per tirare le fila di un'inchiesta complicata. Ci sono le deposizioni e gli atti acquisiti - direttive, mail, rapporti dei tecnici - e ora tutto il materiale verrà incrociato dai magistrati che indagano sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro. «La questione è complessa e sarà approfondita all'esito della ricostruzione in fatto», afferma il procuratore facente funzione di Bergamo Maria Cristina Rota. Che, insieme al suo pool di pm, deve stabilire se la decisione di non isolare la bassa Val Seriana sia stata un atto politico oppure amministrativo con eventuali responsabilità penali.

LA RICOSTRUZIONE. Il governatore Attilio Fontana già confida sulla direzione che prenderanno le indagini: «Il tempo è galantuomo e dopo le offese, gli insulti e le minacce la verità sul buon operato della Regione Lombardia sta emergendo dalle inchieste e dai dati ufficiali», scrive su Facebook. «Restano i pochi incivili da tastiera a promuovere infondate tesi complottiste, false e prive di ogni ragionevole fondamento mentre la verità sta emergendo con tutta la sua forza», conclude. Per arrivarci in realtà, come afferma la procuratrice Rota, ci vorrà ancora tempo. I magistrati sono al lavoro per ricostruire, attraverso l'analisi delle dichiarazioni e della documentazione raccolta, i passaggi che dall'ipotesi di sigillare Alzano e Nembro hanno portato a decretare zona rossa tutta la Lombardia. Il primo passo è stabilire il nesso causale, ovvero fino a che punto la mancata chiusura abbia aggravato l'epidemia e cosa sarebbe successo, invece, se già ai primi di marzo fossero stati blindati i confini dei comuni della bergamasca. Poi bisogna capire se la scelta del governo sia stata politica, quindi insindacabile, anche da parte della magistratura. E, infine se ci siano state omissioni e quali spazi di manovra avesse la Regione Lombardia. Resta il fatto che Palazzo Chigi non avesse ricevuto alcuna richiesta formale dal governatore. Da quanto filtra dagli inquirenti, per sciogliere i nodi, definiti «complessi», sarà svolto un lavoro istruttorio, probabilmente con altre audizioni di testi, che si svolgerà incrociando le dichiarazioni messe a verbale dagli esponenti del governo, della regione, dai rappresentanti degli industriali, con le delibere e i dati epidemiologici. Numeri sui quali è già stata affidata una consulenza a un esperto scelto dai pm. Dimostrare il reato di epidemia colposa è complesso, anche alla luce della sentenza della Cassazione del 2017 secondo cui «per sussistere deve prevedere una condotta commissiva e non omissiva». In sostanza, non basta non avere impedito al virus di diffondersi per ipotizzare il reato. Intanto nella bassa Val Seriana cresce la tensione sociale. «I nostri morti non li abbiamo salutati. Ci avete preso in giro e non tutelati. Abbiamo dovuto piangere e lavorare ma se c'è giustizia qualcuno dovrà pagare», è lo striscione appeso da un gruppo di ragazzi davanti al Comune di Nembro mentre i pm di Bergamo erano a Roma per le audizioni. I vigili lo hanno rimosso, mentre quello appeso al cimitero c'è ancora: «Il vuoto senza voi è immenso... dolore, fiori e lacrime hanno senso se ogni giorno mi alzo e vi penso. Giustizia per tutti».

LE PROTESTE. Nella bergamasca prevale un sentimento di rabbia per la mancata istituzione della zona rossa e per i morti seppelliti senza nemmeno un saluto. In loro memoria è stata organizzata una messa il 23 giugno al campo sportivo, alla quale sono state invitate le famiglie dei 183 defunti della cittadina. E anche ad Alzano la tensione è palpabile: prima si è svolto un presidio davanti all'ospedale, cluster del contagio, poi l'assemblea pubblica si è spostata a Bergamo, davanti alla sede dell'Ats (l'ex Asl). «Sulla zona rossa ormai è scontro politico fra Regione Lombardia e governo ma per noi sono colpevoli entrambi», sostiene Roberto Fugazzi, del comitato popolare Verità e giustizia per le vittime da Covid-19. E anche negli esposti dei parenti delle vittime, riuniti nel comitato Noi denunceremo, si chiede perché non sia stata istituita la zona rossa in Val Seriana e si cita un documento del 27 febbraio in cui imprese e sindacati sostengono che, «dopo i primi giorni di emergenza, è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate», evitando di «diffondere una immagine e una percezione, soprattutto nei confronti dei partner internazionali, che rischia di danneggiare durevolmente il nostro made in Italy e il turismo». Il documento è sottoscritto da Abi, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia, Cgil, Cisl, Uil.

Da bergamo.corriere.it il 14 giugno 2020. «Credo che la zona rossa avrebbe dovuto essere istituita alla fine di febbraio. A marzo, quando l’Istituto Superiore di Sanità con una nota ha ritenuto ci fossero le condizioni per attuare misure restrittive come a Codogno e nel Lodigiano, la situazione era già fuori controllo. L’epidemia non era più confinata nei nostri due comuni ma era già ampiamente diffusa e quindi il provvedimento da prendere doveva essere più drastico». Claudio Cancelli, il sindaco di Nembro, il comune che assieme ad Alzano Lombardo e al centro della questione della mancata zona rossa nella Bergamasca, ritiene «coerente» la decisione presa da Giuseppe Conte così come il premier ha ricostruito ieri ai magistrati di Bergamo che lo hanno sentito e come, precisa, «ho letto sulla stampa». Il primo cittadino precisa che i suoi commenti si riferiscono a quanto ha letto sulla stampa e aggiunge che quella del capo del Governo, che il 7 marzo ha disposto di trasformare in zona rossa tutta la Lombardia , «è una assunzione di responsabilità rispetto a una scelta che lui ha ritenuto la più coerente».

Inchieste e accuse incrociate sulla pandemia, tutti alla ricerca di un responsabile politico. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Nelle mani della magistratura. La pandemia giudiziaria era prevedibile, l’abbiamo prevista oltre un mese fa, e ora è arrivata. Nelle mani dei pubblici ministeri di Bergamo per ora ci sono i massimi vertici del governo –Presidente del consiglio e due ministri – e della Regione Lombardia, il Presidente e un assessore. Tutti testimoni, naturalmente. “Persone informate dei fatti”, e i fatti sono i tanti morti uccisi da un virus sconosciuto e violento in Lombardia e in particolare nella bergamasca, dove si sarebbero dovuti chiudere come “zona rossa” i comuni di Nembro e Alzano, ma ci furono inspiegabili ritardi e il virus poté procedere indisturbato. La convocazione del Presidente del consiglio per oggi ha scatenato i soliti schieramenti da curva sud, o nord. Commentatori dei principali giornali ed esponenti politici non ci hanno risparmiato le proprie “verità”: chi doveva prendere l’iniziativa, in quei primi giorni di marzo, per delimitare i paesi della Val Seriana, come era stato già fatto dal governo per Codogno? Il direttore dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro, interrogato due giorni fa, ha ricordato di aver firmato il 3 marzo un verbale in cui si dava atto all’assessore della Regione Lombardia Giulio Gallera di aver chiesto la chiusura dei comuni di Nembro e Alzano. E ha ricordato il dissenso del presidente Conte e del ministro alla sanità Speranza, i quali tergiversavano. E preferirono successivamente dichiarare l’intera Lombardia come “zona arancione”. Anche la pm Maria Cristina Rota si è già sbilanciata, ritenendo che fosse responsabilità del governo prendere quella decisione, come dimostrato dalla presenza in quei giorni delle forze dell’ordine già schierate a delimitare il territorio. Ma è anche vero che qualche governatore di altre Regioni aveva forzato la mano. Si sono autodenunciati, ma solo per sostenere il governo, De Luca e Bonaccini. Dimenticando che altri, come il governatore delle Marche, che aveva chiuso di propria iniziativa le scuole, aveva subito le rimostranze del ministro Boccia. Forse anche il governatore della Lombardia avrebbe potuto agire di testa propria. O forse no. Ma si tratta, eventualmente, di responsabilità politiche. È incomprensibile il fatto che se ne occupi la magistratura. Non solo quella di Bergamo, anche a Milano ci sono diverse inchieste aperte. Finiranno in niente, crediamo. Anche perché il reato di “epidemia colposa” è pressoché indimostrabile, in quanto comporterebbe una condotta attiva, più che omissiva. È una questione non solo tecnica, che ben dovrebbero conoscere, per esempio, gli avvocati che stanno mettendo insieme comitati (che ormai spopolano su Facebook) di parenti di persone decedute per il virus, e che manifestano davanti alle procure chiedendo “verità”. Ma quale verità? Qui si apre un altro capitolo, quello del dolore che si fa rabbia, quello di un’elaborazione del lutto faticosa perché legata a qualcosa di tremendo, improvviso e incomprensibile piombato nelle case e nelle vite di troppe persone. Queste persone si mettono nelle mani di chi “ne sa di più” e magari promette loro di arrivare a qualche forma di risarcimento. Ma non sarà così, ed è straziante vedere persone che mostrano la foto dei loro cari che non ci sono più, come se si trattasse di dispersi di guerra. È inutile cercare le colpe e scatenare la caccia alle streghe per errori dovuti solo all’impreparazione davanti all’ignoto. E bisogna stare anche molto attenti. Perché per ora gli opposti schieramenti hanno preso di mira il mondo politico. Gli avvocati di sinistra dei comitati si affrettano a dichiarare che la deposizione di oggi di Conte è un “atto dovuto”, ma lasciano intendere che ben diverse sono le responsabilità della regione Lombardia. Matteo Salvini ha già condannato il governo con sentenza di cassazione e il quotidiano Libero ci dice che è “fallito il golpe anti-Fontana” e già prevede che (purtroppo) sarà difficile inquisire Conte. Senza domandarsi perché mai dovrebbe essere indagato e quali reati abbia commesso. Il rischio vero, mentre si cercano gli untori (sempre nel giardino del vicino), è che la novella pandemia giudiziaria rischia di travolgere, prima o poi, il personale sanitario. Nessuno lo vuole, per ora, e tutti si sgolano a negarlo. Ma sarà inevitabile, una volta partita la macchina giudiziaria. Perché nei tanti esposti contro ignoti c’è dentro un po’ di tutto. Ci sono le lamentazioni di tante cose che non hanno funzionato. Hai chiamato il 118 a non arrivava mai? Il medico di famiglia non è mai venuto a visitare tuo padre? Un parente è deceduto in casa senza poter essere ricoverato? Oppure è andato in ospedale per patologie diverse dal Coronavirus e lì si è infettato? Eccetera eccetera. La situazione rischia di diventare gravissima, anche perché in Italia, contrariamente a quel che accade per esempio in Francia o negli Stati Uniti, è prevista ancora la responsabilità dei medici per fatti colposi. Cosa che non accade per esempio per i magistrati. In attesa di una riforma che con questi chiari di luna non è neanche ipotizzabile, bisognerebbe prima di tutto ripescare quell’emendamento al decreto Cura Italia inutilmente presentato dal senatore Marcucci, capogruppo del Pd, per la creazione di una sorta di cordone protettivo per personale e strutture sanitarie, in modo che siano al riparo da denunce civili e penali. Una norma emergenziale al contrario, di tipo garantistico. In modo analogo si erano pronunciati anche Gustavo Zagreblesky, che ha proposto una causa di non punibilità che liberasse tutto il personale sanitario dalla possibilità di esser sottoposti a processo per la propria attività nel periodo del virus. E il sostituto procuratore generale di Bologna Walter Giovannini, in un’intervista al quotidiano La verità, aveva previsto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non solo emergenziale. Ma di tutto ciò non si parla. Si preferisce trastullarsi sul “chi doveva prendere l’iniziativa” per far fare un po’ di gogna mediatica all’avversario politico. La verità è che il nostro Paese con le sue istituzioni, nazionali, regionali e locali, ha compiuto un grande sforzo di fronte a un nemico sconosciuto e aggressivo, con una classe medica e infermieristica coraggiosa e professionale come poche al mondo. Per quale motivo ora dovremmo buttare tutto in vacca, affidando la sorte del dopo-virus ai pubblici ministeri, cioè alla categoria in questo momento più squalificata? Eppure è proprio ad alcuni di loro che vogliamo rivolgerci, alla pm Tiziana Siciliano di Milano come alla pm Maria Cristina Rota di Bergamo: perché non lasciate che sia la politica a risolvere i problemi politici e a stabilire le reciproche responsabilità?

Inchiesta di Bergamo su Covid senza senso, ma Conte deve chiedere scusa. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Giugno 2020. Se il presidente del Consiglio fosse più coraggioso, più consapevole, un po’ meno “avvocato del popolo” e un po’ più vicino al suo popolo in ogni sua piega e sfaccettatura. Se fosse uno statista. Se fosse così, per esempio ieri, invece di ripetere con sussiego “rifarei tutto”, avrebbe potuto dire alla pubblico ministero di Bergamo Maria Cristina Rota che lo ascoltava in qualità di persona informata di quel che era successo tre mesi fa nella bergamasca, parole di questo tipo: è vero, signor pubblico ministero, che nella mia veste di capo del governo, consapevole della mia responsabilità prevista dalla Costituzione, che mi attribuisce competenza esclusiva in caso di pandemia, che il 3 marzo scorso avevo deciso di istituire la “zona rossa” nei due comuni di Nembro e Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo. Del resto questa decisione mi era stata suggerita anche dal Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro (che aveva avuto questa indicazione anche dall’assessore Gallera della Regione Lombardia) e dal presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli. Non ho avuto dubbi, poiché mi sta a cuore la salute dei miei cittadini. Su mia disposizione, il ministro dell’interno Luciana Lamorgese ha dato ordine alla Prefettura di Bergamo che, nella notte tra il 4 e il 5 marzo, ha fatto spostare trecento uomini delle forze dell’ordine, carabinieri, poliziotti, finanzieri e anche esercito, nelle località da isolare, come avevamo già fatto nei comuni di Codogno e di Vo’. Era tutto pronto, i militari erano già in zona, i confini erano segnati. Poi, signor pubblico ministero, è successo qualcosa che mi ha creato una grande angoscia. Perché, come lei sa bene essendo, credo, nativa di quelle parti, qualcuno mi ha fatto notare che con quella decisione avrei creato un altro tipo di strage, quella dello sviluppo, del lavoro e dell’economia. La Valseriana è una zona ricca di centinaia di piccole, medie, ma anche grandi aziende, con un notevole fatturato, migliaia di posti di lavoro e un flusso costante di esportazione. Chiudere i confini e chiudere le fabbriche avrebbe significato aggiungere strage a strage, da quella sanitaria a quella economica. Inoltre, purtroppo, mi si faceva notare, i buoi erano ormai usciti dalla stalla, il contagio era diffuso ed era pressoché impossibile fermarlo del tutto. Non ci ho dormito la notte, prima di decidere. Poi ho dovuto. Ecco perché non ho più chiuso quei confini, ecco perché ho ritirato i trecento uomini, ecco perché ho ripiegato sulla “zona arancione”, un provvedimento più blando, e l’ho fatto applicare a tutta la Lombardia. Ma mi sono preso sempre cura della salute dei miei cittadini. E non ho inteso uccidere nessuno, né favorire l’epidemia. Sarebbe stato un discorso sincero e generoso, un’assunzione di responsabilità politica e sociale. Da statista vicino al suo popolo, ai suoi cittadini, alla loro salute e al loro lavoro. Ma Giuseppe Conte non l’ha fatto, né avrebbe potuto. Non sarebbe stato lui, sarebbe stato una persona con certi principi, un’idea di società, un progetto politico di futuro del Paese, magari addirittura un’ideologia capace di farlo stare di qua o di là, invece che un po’ qua e un po’ là. Assumersi una responsabilità politica, senza scaricarla su altri soggetti come quelli regionali, dopo aver scritto ordinanze in cui si affermava che «le direttive aventi incidenza in materia di ordine e sicurezza pubblica rimangono di esclusiva competenza statale», non vuol dire però avere responsabilità penali. Gli articoli 438 e 452 del codice penale prevedono comportamenti attivi: «Chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di agenti patogeni…». Ergastolo per il caso di dolo, pena da uno a cinque anni per l’ipotesi colposa. Non è previsto il caso di responsabilità omissive. Non ha quindi molto senso il fatto che la procura della repubblica di Bergamo abbia aperto un’inchiesta con questa ipotesi di reato. E neanche il fatto che esistano fascicoli aperti sulla base di esposti di privati cittadini. Aprire indagini penali non è imposto neppure dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, esiste anche la possibilità di archiviare, nel caso di denunce palesemente infondate. Altrimenti bisogna avere il coraggio di denunciare anche i medici. Non si può continuare a cercare vaghe “responsabilità politiche” per i contagi e le morti. La dottoressa Rota all’uscita da palazzo Chigi dopo aver sentito come testimoni il premier e i ministri dell’interno Lamorgese e della salute Speranza, ha riferito che gli incontri si sono svolti in un clima disteso e di massima collaborazione istituzionale. E su quanto aveva dichiarato il 29 maggio, dopo le audizioni del Presidente Fontana e dell’assessore Gallera, sulle responsabilità del governo, ha detto di non aver nulla di nuovo da aggiungere. Come se gli incontri di ieri non le avessero fatto cambiare idea. O come si fosse un po’ pentita di essersi lasciata sfuggire un’opinione a indagini appena avviate. Era stata criticata, per quel fatto, soprattutto da tutti quelli che da venticinque anni – dai tempi di Di Pietro fino ai giorni di Gratteri – si erano abbeverati alle dichiarazioni irrituali o ai passaggi di carte da parte dei pubblici ministeri. Ora andiamo a completare il nostro lavoro, ha detto soltanto la dottoressa Rota ieri, congedandosi dai cronisti. Speriamo ciò avvenga in tempi rapidi e senza l’eterno esercizio di supplenza da parte della magistratura nei confronti del mondo politico.

Zone rosse Alzano e Nembro, Travaglio ad Accordi&Disaccordi (Nove): “Chiudere o meno è una scelta politica, non un reato”. Il Fatto Quotidiano il 13 giugno 2020. “Se dovessero arrivare avvisi di garanzia ai politici che sono stati sentiti come persone informate sui fatti nell’inchiesta della procura di Bergamo sulla mancata istituzione delle zone rosse in Lombardia, non dovrebbero dimettersi”. Così Marco Travaglio, nel suo intervento settimanale ad ‘Accordi e Disaccordi’, il talk show politico condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi, in onda su Nove tutti i venerdì alle 22.45. “Sappiamo benissimo che gli avvisi di garanzia significa che stanno indagando su di te – ha spiegato il direttore de Il Fatto Quotidiano – Io non credo che il tema dell’indagine sia chi ha chiuso cosa e quando, cioè fermo restando che penso che Fontana e Gallera abbiano commesso errori capitali, letali, che hanno portato conseguenze drammatiche, io non credo che sia un reato chiudere o non chiudere, o chiudere oggi o domani. Penso alla Svezia. La Svezia ha deciso di non fare il lockdown, di raccomandare comportamenti e di fidarsi dei suoi cittadini. Avrà fatto bene, avrà fatto male? Sono scelte politiche. Secondo me ha fatto malissimo, ma non è un reato. I reati sono quando tu fai qualcosa o di omissivo o di attivo, sapendo che quello che stai facendo produce dei morti”, ha concluso il giornalista.

Barbara Palombelli contro Zingaretti e Sala: "Mi prendevano in giro per il coronavirus e facevano gli aperitivi. Visto com'è finita?" Roberto Alessi su Libero Quotidiano il 14 giugno 2020. La signora di Francesco Rutelli fa neri Zingaretti e Sala: «Mi prendevano in giro perché avevo paura del Covid e invitavano a prendere l'aperitivo, Milano riparte, ci dicevano, poi s' è visto come è andata. Mi ha svegliata Melania Rizzoli che mi inviava gli algoritmi dove si vedevano i centomila contagiati in prospettiva. All'inizio tutti facevano ironia sul virus dopo un paio di settimane hanno fatto retromarcia. Ora mi dicono che sono stata preveggente. Avevo solo una fifa boia». Che dire? In che mani siamo?

Facebook. Tutto Travaglio il 12 giugno 2020. Quando Sallusti e gli altri strillavano: “Macché chiudere, lasciateci lavorare”. - La farsa dei giornali di destra - Mi permetto di ricordare che, in base alla Legge 23 dicembre 1978, n. 833. "Istituzione del servizio sanitario nazionale", alla Riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione (art 117), in ambito di tutela della salute pubblica, lo Stato, le Regioni ed i comuni hanno stesse competenze e la medesima potestà legislativa.

Conversioni: Quando Sallusti e gli altri strillavano: “Macché chiudere, lasciateci lavorare”. La farsa dei giornali di destra ...di Tommaso Rodano il 13 giugno 2020 su ilfattoquotidiano.it. Ora a destra è tutta una ola, un’esultanza sguaiata per l’interrogatorio di Giuseppe Conte. “Il premier in ginocchio dai pm”, titolava ieri Libero: “Giuseppe deve rispondere della mancata zona rossa intorno a Bergamo”. Il Giornale di Sallusti scrive di una “Carta che inguaia il governo”, la dimostrazione che il Viminale non autorizzò i posti di blocco pronti a essere allestiti attorno ai primi focolai bergamaschi. E pure La Verità di Belpietro si esalta: “Conte ha bisogno di un avvocato”. Sulle responsabilità politiche per la diffusione del virus è legittimo avere un’opinione (possibilmente senza ignorare i fatti). Meno legittimo è avere un’opinione diversa ogni settimana, come i direttori dei quotidiani di area salviniana. Oggi fanno il giro delle tv per dire che la Bergamasca doveva essere chiusa prima. Ma quando era il momento di chiudere, invece, accarezzavano le proteste di Confindustria e dei settori produttivi: quelli che volevano restare aperti a oltranza. E scrivevano questo.

Il Giornale, 28 febbraio. Titolone bold: “Isolato Conte. Il Nord riparte”. Catenaccio: “Riaprono musei e duomo, scuole in forse”. Il virus era arrivato in Italia una settimana prima, il 21 febbraio. Nei giorni successivi erano arrivate le prime chiusure e le zone “gialle” a Milano, Torino, Veneto e mezzo nord. A una settimana dal “paziente zero”, Sallusti si è già stufato. Altro che chiudere: il premier è finalmente lasciato solo in questa idea malsana, il Nord può riaprire. Nel suo editoriale il direttore è assertivo: “Il Paese non è fragile. Chi lo guida invece sì”. La soluzione: “Adesso bisogna velocemente andare oltre e tornare alla piena normalità, che è poi l’unica ricetta per sconfiggere paure irrazionali e falsi allarmismi”. Un vero profeta.

Libero, 28 febbraio. Titolone: “La normalità è vicina” (come no!). Occhiello rosso: “Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”. Il pezzo principale è firmato Renato Farina, alias “agente Betulla”: “Non è la peste, è un’influenza”. E ancora: “Non montiamogli la testa a questo Coronavirus. Se ha la corona non è quella del re, e neanche quella del rosario, ma è un pirla di virus qualsiasi”. Due volte profeta. Nella stessa edizione c’è anche un prezioso fondo del direttore Vittorio Feltri, dal titolo: “Quando per paura di avere l’Aids ci si ammazzava”.

Libero, 27 febbraio. Il giorno prima il quotidiano di Feltri aveva una linea ancora più pirotecnica. Titolo: “Virus, ora si esagera”. Occhiello: “Diamoci tutti una calmata”. Catenaccio: “Non possiamo rinunciare a vivere per la paura di morire. I pochi deceduti erano soggetti debilitati, gli altri contagiati guariscono in fretta. Non ha senso penalizzare ogni attività”.

Ricordiamolo: sono gli stessi che oggi dicono che il governo avrebbe dovuto chiudere tutto prima.

La Verità, 27 febbraio. Anche Belpietro attacca il governo che con le prime chiusure e una “dissennata gestione della crisi, provoca danni economici ingenti e ci pone nella incredibile posizione di ‘untori’”.

Libero, 1 marzo. Qui siamo in pieno delirio alcolico. Titolo: “Reclusione continua”. Occhiello: “Il virus è una condanna”. Editoriale di Feltri: “Ma quale crisi? Facciamo finta che sia Ferragosto”.

Il Giornale, 2 marzo. Titolone in prima: “Non c’è più tempo. Fate presto”. Il catenaccio è sull’ “ira degli imprenditori”. Sallusti spiega nell’editoriale: “Pensare di salvare lo Stato e lasciar morire l’economia è pura utopia. Semmai è vero l’inverso. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà”.

Libero, 2 marzo. Titolo: “Lasciateci lavorare”. Occhiello: “Pressante richiesta al governo”. Catenaccio: “Dopo i veneti anche i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività”. Insomma, come diceva Salvini in quei giorni: riaprire, riaprire, riaprire.

Il Giornale, 5 marzo. Titolone: “Sanno solo chiudere”. Ah, ecco. Perché ora dicono il contrario.

Ora a destra è tutta una ola, un’esultanza sguaiata per l’interrogatorio di Giuseppe Conte. “Il premier in ginocchio dai pm”, titolava ieri Libero: “Giuseppe deve rispondere della mancata zona rossa intorno a Bergamo”. Il Giornale di Sallusti scrive di una “Carta che inguaia il govern...

Monica Serra per ''la Stampa'' il 12 giugno 2020. Giorgio Gori lo ha detto e, nonostante le smentite, lo ha confermato: «Regione Lombardia non comunica più i dati dei decessi divisi. Da quando abbiamo segnalato che quelli reali erano molti di più di quelli "ufficiali", hanno secretato i dati per provincia». Un' accusa grave, non la prima, lanciata con un tweet dal sindaco di Bergamo, città che in questi mesi ha pagato un prezzo altissimo. Gori sostiene che non vengano più comunicati neppure «i dati sui guariti, che sarebbero importanti per capire che oggi le persone ammalate sono poche. Spero che il nuovo dg della Sanità, Marco Trivelli, parta da qui, dai dati e dalla trasparenza».

La sua protesta è andata avanti anche dopo la smentita ufficiale della Regione.

«Loro negano, ma io mi permetto di confermare. I dati sui decessi per province sono stati accessibili fino al 26 aprile, collegati a una mappa sviluppata con il software ArcGis. Dopo l' inchiesta sulle Rsa, del 24 aprile, è stato fatto sparire tutto».

A rispondere all' attacco è l' assessore alla sanità lombarda, Giulio Gallera, proprio nei giorni in cui circola la voce che, dopo quella del dg Luigi Cajazzo, rischi di saltare anche la sua poltrona.

Assessore Gallera, è vero che Regione Lombardia nasconde i dati ai Comuni?

«Assolutamente no. Da parte nostra c' è sempre stata massima trasparenza. Nel tempo le Ats si sono organizzate in maniera diversa. Ma i numeri sono sempre stati comunicati».

Questi dati vengono comunicati in maniera distinta Comune per Comune?

«Alcuni in maniera aggregata per provincia, altri separati per singolo Comune. Il sistema si è assestato nel tempo, abbiamo coinvolto le prefetture. L' Ats di Milano, per esempio, ha aperto un suo sito a cui i Comuni accedono con una password. La stessa cosa succede a Pavia».

E a Bergamo come funziona?

«I dati vengono trasmessi alla prefettura, poi il prefetto li distribuisce ai Comuni. I metodi che abbiamo studiato si modulano a seconda del territorio ma non viene mai meno la trasparenza».

Gori dice di non riceverli.

«Nessun altro sindaco della Lombardia si è lamentato, a parte il fatto che se c' è un decesso i Comuni lo sanno prima di noi. I dati vengono trasmessi anche al ministero: la comunicazione segue meccanismi precisi».

Ma a Gori arrivano o no?

«Ho parlato col prefetto di Bergamo e mi ha confermato che trasmette i dati ai Comuni ogni giorno. Poi se ci sono delle richieste diverse da parte di alcuni sindaci possiamo parlarne, prenderne atto e provare ad andare incontro alle esigenze».

Che cosa ne pensa del fatto che i pm di Bergamo interrogheranno Conte e il ministro dell' Interno sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro?

«È giusto che i magistrati raccolgano anche la versione del governo, è la corretta prosecuzione di un' indagine in corso».

La parabola di Luigi Cajazzo, da dg della Sanità a vice segretario regionale, è stata presentata come una promozione. Chi lo ha voluto silurare?

«Nessuno è stato silurato. Stiamo rafforzando la squadra per preparare la macchina a una eventuale seconda ondata. Il nuovo dg, Trivelli, ha vissuto in prima linea la trincea degli Spedali Civili di Brescia: è la figura idonea per aiutarci a dare una risposta più efficace. Cajazzo continuerà a far parte della squadra e a occuparsi di Sanità».

Teme per la sua posizione?

«Io faccio il mio dovere. L' ho fatto a febbraio quando siamo stati travolti dalla pandemia e lo continuo a fare oggi. Per la direzione generale è stato scelto Trivelli, con cui ho già collaborato quando era alla guida dell' ospedale Niguarda. Continueremo a lavorare bene insieme».

Non c' è il rischio che il prossimo a saltare sia lei?

«Io sto lavorando. Col governatore Attilio Fontana continua a esserci un rapporto costante di fiducia. Poi, voglio dire...».

Il tassello che manca ai pm: le pressioni del sindaco Gori. La Lega accusa il primo cittadino: avrebbe spinto il Pd a chiedere di non far della Bergamasca una zona rossa. Redazione, Sabato 13/06/2020 su Il Giornale. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, gli industriali locali, i commercianti, tutti erano contrari alle zone rosse e all'isolamento. A fine febbraio lo slogan è #Bergamononsiferma con la pandemia che ben presto si espande a macchia d'olio. Il 5 marzo stanno arrivando i rinforzi su ordine del ministero dell'Interno per la zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Lo stesso Gori in un'intervista all'Eco di Bergamo, ancora presente sulla sua pagina Facebook, dice testualmente: «La vita va avanti, non siamo in guerra () Seguiamo tutte le prescrizioni, ma non c'è motivo per non uscire, andare al ristorante con la moglie o farsi una passeggiata in centro». E boccia le zone rosse: «Il paradosso è che la città rischia di pagare un prezzo molto più elevato del reale () questa situazione ci sta danneggiando più del necessario». Solo l'8 marzo cambierà idea quando è troppo tardi. La Lega adesso vuole vederci chiaro con un'interrogazione in Consiglio comunale, chiedendo «se a inizio del mese di marzo 2020, il sindaco ha ricevuto richieste da singoli imprenditori e/o associazioni di categoria perché intercedesse presso il governo nazionale o i parlamentari del suo schieramento politico al fine di dissuadere l'istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro». Il deputato leghista di Bergamo, Daniele Belotti, è stupito che «la procura» dopo aver chiamato a deporre tutti, dai vertici della Lombardia al governo, «non abbia sentito il sindaco Gori sulle eventuali pressioni per non istituire la zona rossa di Alzano e Nembro». Belotti conferma al Giornale «che gli imprenditori chiamavano tutti per evitare le chiusure. Il primo cittadino, che gode di una rilevanza nazionale, ben più di certi parlamentari, aveva il peso politico per intervenire sul Pd e sul governo». Pure i grillini vengono pressati e i rappresentanti locali sentono Roma, compreso Vito Crimi, reggente dei Cinque stelle. La risposta iniziale non lascia dubbi: «La zona rossa si farà». A Bergamo, però, la lobby anti chiusura è potente e ha nel sindaco il primo alfiere, come ricostruisce il Giornale. Per capire la situazione bisogna fare un passo indietro partendo dalla lista dei sostenitori bergamaschi di Gori per la campagna elettorale, che l'ha portato sulla poltrona di primo cittadino. Non pochi gli imprenditori o persone vicine come Grazia Flaviani, moglie del patron della Brembo, Alberto Bombassei, che dona 50mila euro. Tagli di 10mila euro per la Persico, proprio di Nembro, la Azotal di Bergamo e altre società. In tutto si arriva ad un ragguardevole finanziamento di 250mila euro. Non è un caso che il sindaco, dopo i primi provvedimenti della regione Lombardia, sposi la linea della sottovalutazione postando su Facebook l'uscita a cena con la moglie Cristina Parodi. E soprattutto aderendo alle campagne della Confindustria locale e della Confcommercio che sottovalutano il virus. Lo slogan adottato dal sindaco, con tanto di video rassicurante e colonna sonora dei Pinguini Tattici nucleari, è «Bergamo non si ferma». Il 28 febbraio Gori scrive su Facebook, che «600 NEGOZI lanciano il weekend di shopping in città: saranno TUTTI APERTI SABATO E DOMENICA () il problema Coronavirus non è superato, ma #Bergamononsiferma». Il 5 marzo sostiene che pur seguendo le prescrizioni «non c'è motivo per non uscire di casa». E sottolinea che sono aperti pure i musei. Di fatto boccia pubblicamente la zona rossa sapendo bene che stanno arrivando i rinforzi: «Questa situazione ci sta danneggiando più del necessario». Tra le piste al vaglio della procura di Bergamo, che indaga sull'ipotesi di reato di «epidemia colposa», è sempre più consistente quella degli industriali che fanno pressione sui politici per evitare le zone rosse. L'interrogazione della Lega in Consiglio comunale ricorda come il sindaco «promuoveva la campagna Bergamo non si ferma al fine di spingere la gente a recarsi in città e a frequentare bar e ristoranti». E nonostante gli allarmi già lanciati dagli esperti a livello nazionale e regionale «riprendeva il messaggio di Confindustria Bergamo», che sminuiva i pericoli. I leghisti Enrico Facoetti e Stefano Massimiliano Rovetta scrivono nell'interrogazione che «da più parti si fanno ipotesi su possibili interventi che il mondo imprenditoriale orobico () avrebbe esercitato ad inizio marzo sugli organi politici per evitare l'istituzione della zona rossa». E ricordando i fondi degli imprenditori per la campagna elettorale di Gori chiedendo se ha fatto pressioni sul «governo nazionale o i parlamentari del suo schieramento politico al fine di dissuadere l'istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro». Solo l'8 marzo, quando il governo fa ritirare i rinforzi abbandonando l'idea della chiusura mirata e totale trasformando la Lombardia in una più vaga «zona arancione», Gori fa mea culpa e cambia rotta. «La situazione è molto SERIA. La diffusione del Coronavirus ha avuto un'accelerazione negli ultimi giorni - scrive su Facebook -. Adesso dobbiamo stare a casa il più possibile. Uscire il meno possibile, incontrare meno persone possibile».

Armando Di Landro per il “Corriere della Sera” il 16 giugno 2020. Procedono sia l'inchiesta della magistratura, sull'ospedale di Alzano, sia le polemiche politiche sulla mancata definizione, a inizio marzo, della zona rossa nello stesso Comune della Val Seriana e a Nembro. In Procura ci sono i primi due indagati sulla gestione del Pronto soccorso, che fu chiuso e riaperto nel giro di tre ore, il 23 febbraio, dopo la scoperta dei primi due contagiati, poi deceduti. L'ipotesi è di epidemia e omicidio, colposi. L'identità delle persone sotto inchiesta non è nota. Nessun dirigente e nessun medico dell'Azienda socio sanitaria territoriale di Seriate, competente su Alzano, avrebbe ricevuto al momento informazioni di garanzia. Come persone informate sui fatti erano stati sentiti, già prima di metà maggio, l'ex direttore della Sanità regionale Luigi Cajazzo, il direttore generale dell'Asst di Seriate Francesco Locati e il direttore sanitario Roberto Cosentina. Tutti avevano spiegato che il Pronto soccorso era stato riaperto soprattutto per far fronte all'epidemia e non perdere un presidio sul territorio: i magistrati tentano di capire se i pazienti con sintomi sospetti, ricoverati da più giorni prima di quel 23 febbraio, dovessero essere gestiti diversamente e se, a causa della loro presenza, non fosse necessaria una sanificazione più specifica sia del Pronto soccorso sia dei reparti. L'intervento, secondo le dichiarazioni del dg Locati, era stato eseguito da personale interno, a differenza di quanto avvenuto a Codogno (lì il Pronto soccorso rimase chiuso tre mesi). E in serata, durante il Consiglio comunale di Bergamo (in streaming) è andata in onda una lite furiosa tra il sindaco Giorgio Gori e la Lega. Al centro, di nuovo, le accuse dei leghisti a Gori di aver fatto pressioni contro la zona rossa. Un attacco per il quale il sindaco arriva a minacciare querele, mettendo sul tavolo un dettaglio mai prima raccontato: «Il 7 marzo, l'ultimo giorno prima che venisse chiusa tutta la Lombardia - il racconto di Gori -, il presidente Attilio Fontana disse a me e ad altri sindaci che aveva consultato i suoi esperti costituzionalisti, i quali sostenevano che la Regione non avesse potere di istituire la zona rossa. Alla luce di quanto avvenuto in altre regioni ritengo che quella indicazione, ammesso l'abbia ricevuta, non era corretta, come poi ha ammesso l'assessore Giulio Gallera». Poi Gori chiarisce la sua posizione: «Non ero contrario alla zona rossa e nessuno ha fatto pressioni. A Roma parlavo con i parlamentari del mio partito, non con il presidente del Consiglio o con il ministro della Sanità - dice , tornando anche sulle campagne per invitare la gente a uscire, a fine febbraio -. Molti amministratori del Nord si sentirono mossi dagli ambienti economici a dare un segnale di resilienza, io l'ho fatto il 26 febbraio sui social. Lo ritengo un errore da parte mia».

IN LOMBARDIA LO SCARICABARILE DELLA LEGA: ZONA ROSSA DI VERGOGNA. La Procura ha nominato un pool di periti per gli accertamenti che analizzeranno i dati epidemiologici. Irene Panighetti il 16 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Non è colpa mia ma tua, sua, o di altri ma in ogni caso non mia! È espresso in maniera forse un po’ grossolana, ma il concetto, in sé piuttosto elementare, è proprio quello dello scaricabarile: tale è il refrain della Lega in Lombardia, che, ad ogni livello, sta cercando di allontanare da sé la responsabilità della mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e a Nembro, su cui stanno indagando i Pm di Bergamo, che hanno ascoltato lungamente anche il premier Giuseppe Conte. La Procura ha nominato un pool di periti per gli accertamenti che analizzeranno i dati epidemiologici dei due comuni all’inizio di marzo, quando appunto si escluse l’istituzione della zona rossa. La perizia farà parte degli atti dell’inchiesta, che è complessa anche dal punto di vista tecnico: ricostruire nel modo più dettagliato possibile è quindi un modo per capire se chiudere tutto sarebbe stata una misura efficace contro la diffusione dell’epidemia o se invece, ai primi di marzo, fosse già troppo tardi. Un lavoro impegnativo, che sta coinvolgendo questa e altre Procure, mentre il governo lombardo è alla ricerca di vie di fuga, attuando varie strategie: “l’odio politico ha attaccato la Regione Lombardia – ha lamentato Fontana su facebook stigmatizzando ciò che definisce – quello sciacallaggio che ha cercato di infangare la mia Giunta proprio nel momento in cui il fronte della pandemia richiedeva più attenzione. Riscontro un clima irrazionale, pericoloso per la nostra democrazia, qualcosa nel Paese rischia di naufragare: la ragione”. Sentendosi vittima di quell’odio, domenica il governatore, sotto scorta da qualche settimana, nel giorno festivo ha fatto sapere: «questa mattina, come sempre mi sono svegliato molto presto, ho pensato di fare una breve passeggiata, è domenica e staccare la mente prima di immergersi nel lavoro può far solo bene. Mi stavo preparando quando ho razionalizzato, non posso uscire, sono sotto scorta e non mi sembra bello costringere gli Agenti a seguirmi sebbene il loro attaccamento al lavoro non li farebbe batter ciglio». In casa e davanti al televisore: poche ore dopo sullo stesso social Fontana ha aggiunto, commentando la trasmissione “Mezzora in più” di Lucia Annunziata (dove era ospite Ferruccio de Bortoli il quale ha anche accennato alla Lombardia): «sull’ammissione degli errori mi sento come Governatore di dover rispondere. Abbiamo commesso degli errori di comunicazione? Forse, probabilmente, ma sfido chiunque a vivere in trincea, sotto il fuoco nemico, ed essere esente da qualunque giudizio». Strategia del “Non è colpa mia” anche a Bergamo, dove la Lega in consiglio comunale ha attaccato il sindaco sulla mancata zona rossa in Valseriana: le camice verdi locali chiedono a Giorgio Gori se «abbia ricevuto richieste o pressioni da singoli imprenditori e/o associazioni di categoria perché intercedesse presso il Governo Nazionale o i parlamentari del suo schieramento politico al fine di dissuadere l’istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro». La replica è arrivata dal vicesindaco, Sergio Gandi, su facebook dove ha bollato l’iniziativa come “inaccettabile e paradossale – perché – tenta di coinvolgere il sindaco in polemiche che riguardano altri livelli istituzionali; di certo, il sindaco di Bergamo non ha nulla a che fare con questa vicenda, trattandosi di altro Comune, estraneo a quelli che avrebbero potuto essere inclusi nella zona rossa; a detta degli stessi magistrati e in base alle norme del nostro ordinamento giuridico, si può discutere di chi potesse istituire la zona rossa ad Alzano e Nembro, se potesse e dovesse farlo il Governo o la Regione, ma nessuno ha mai invocato responsabilità dei Sindaci dei due Comuni interessati, uno dei quali appartiene, peraltro, allo stesso partito che presenterà l’interpellanza, e tanto meno di Sindaci di altri Comuni». Di chi è la colpa? È la domanda che si pone pure Gianpietro Maffoni sindaco di Orzinuovi, paese della provincia di Brescia e tra i più colpiti dal Covid-19: il Primo cittadino, in qualità di senatore (di Forza Italia), ha rivolto l’interrogativo al Ministro della salute Roberto Speranza e ora attende risposte per motivare perché il suo paese, così come altri nel bresciano e nella bergamasca, non siano stati proclamati zona rossa. Questo sebbene il sentore della gravità della situazione fosse già diffuso: il 22 febbraio, senza ancora casi accertati sul territorio comunale, il sindaco di Orzinuovi aveva emesso in via cautelativa un’ordinanza per evitare assembramenti; revocate anche le feste e le sfilate di Carnevale e chiusi impianti sportivi, asili nido e le scuole materne, oltre che sospese le visite alla casa di riposo della zona. Maffoni insomma aveva messo in atto, seppur forse senza capire ancora bene il contesto ma pur sempre con grande allarme, quelle misure che un Primo cittadino può prendere, mentre per le altre, di competenza non sua, oggi chiede conto, unendosi alla lista delle tante persone decise ad avere verità e giustizia.

Da “TeleLombardia” il 12 giugno 2020.

DOMANDA: se fosse stata istituita la zona rossa ad Alzano e Nembro si sarebbe potuta contenere la gravità dell’epidemia nella bergamasca? Oppure era già ampiamente diffusa e sarebbe stato comunque difficile contenerla?

REMUZZI: io credo che sia vera la seconda cosa perché adesso abbiamo sempre più evidenze che questo virus era con noi da tanto tempo. C’è stato un caso in Francia a dicembre, 266 casi in Cina a metà novembre. Pensate a quanta gente ha viaggiato dalla Cina a Bergamo e a tutte le nostre zone industriali. Secondo me quando l’epidemia è arrivata noi non ce ne siamo affatto accorti. Ha colpito soprattutto giovani che sono o asintomatici o hanno sintomi lievi. Io penso che è proprio vero che qualunque cosa si fosse fatto probabilmente era tardi. Per dire: se chiudere Nembro avrebbe risparmiato qualche vita? Questo è molto difficile da dire se non siamo di fronte a dei dati che non ce lo dimostrano con certezza. Il buon senso ci fa dire che se Nembro fosse stata chiusa subito forse avremmo avuto qualche contagiato in meno ma certamente la malattia era partita prima e paradossalmente queste aggregazioni dove ci sono i sindaci più bravi, che creano università per anziani, luoghi per anziani dove ritrovarsi, che sono tutti luoghi chiusi, quelli creano paradossalmente situazioni che favoriscono la diffusione del virus.

DOMANDA: quindi, professore, il parere scientifico suo è che, se fosse stata istituita la zona rossa, la malattia era già talmente diffusa, quella decisione poteva essere un aiuto ma non sarebbe cambiato molto?

REMUZZI: io personalmente penso così, però non ne sono certo e non c’è modo di saperlo.

Diodato Pirone per “il Messaggero” il 12 giugno 2020. Quelle di Codogno e Vo' sono ormai storia italiana. Ma in realtà le zone rosse istituite nei mesi scorsi da una dozzina di Regioni per fermare il Covid 19 sono state parecchie decine. Il fenomeno ha coinvolto anche Comuni non piccolissimi come ad esempio Fondi nel Lazio, Ortona in Abruzzo, Medicina in Emilia o Ariano Irpino in Campania. Zone rosse sono state anche centri famosi come Canazei, in Trentino, o San Giovanni Rotondo in provincia di Foggia, notissimo presso i devoti di Padre Pio. E sempre fra le zone rosse vanno annoverati tanti paesini sconosciuti della Calabria, della Sicilia e persino di Regioni poco toccate dalle pandemia come il Molise e la Basilicata. Paesini travolti spesso dalla diffusione del virus in piccole case di riposo che portato all'esterno da infermieri, medici o personale della pulizia, hanno messo a rischio la salute di migliaia di persone. Alcuni minuscoli paesi dell'Abruzzo, come Elice in provincia di Pescara, sono arrivati a implorare essi stessi alla Regione di essere circondati dai Carabinieri e dall'Esercito pur di bloccare tutte le attività e stroncare il contagio e la paura.

CASI ECLATANTI. Complessivamente le zone rosse italiane sono state più di 100, su Internet gira la cifra di 109 ma in realtà si tratta di una stima molto imprecisa perché ferma a metà aprile. Fra le 109 aree isolate sono in realtà compresi comuni delle province di Piacenza e di Rimini che furono coinvolti dal presidente della Regione Emilia, Stefano Bonaccini, in una sorta di maxi zona arancione con controlli più severi di quelli già pesanti previsti dal governo. Alcune zone rosse regionali hanno fatto molto rumore. Bonaccini - l'ha ricordato ieri - fece circondare in una notte il comune di Medicina, con 16.000 residenti, situato in provincia di Bologna, per fermare il contagio che stava minacciando pericolosamente il capoluogo regionale. Pesante anche il caso di Fondi, poche decine di chilometri a sud di Latina, che fu isolato dal presidente del Lazio Nicola Zingaretti subito dopo la metà di marzo di fronte ad una crescita esponenziale dei contagi rispetto alla popolazione che spaventava anche Roma. Ci volle quasi un mese per eliminare i posti di blocco (che per la verità non erano proprio rigidissimi). Nella Campania guidata da Vincenzo De Luca ha fatto scuola il caso di Ariano Irpino. Anche qui le leggerezze di qualche abitante e, purtroppo, la scarsa preparazione iniziale dell'ospedale locale scatenarono il virus con risultati disastrosi: il 24 aprile ad Ariano si contavano ben 25 morti e 153 contagiati. Dopo la chiusura di questo paesone di 17.000 abitanti la Regione Campania ha organizzato un test del sangue di massa al quale hanno partecipato oltre 13.500 arianesi. Un caso unico in Italia. Il test fece emergere 644 persone con anticorpi al Covid, tutte sottoposte a tampone e così si è potuto scoprire che lo 0,44% di tutti i testati era contagiato. Non è una cifra piccola: la media regionale degli infettati in Campania è dello 0,08% della popolazione.

DAGOREPORT il 12 giugno 2020. Il passato di questo disgraziato paese insegna: arriva sempre la magistratura, quando si deve cacciare o tenere a freno un premier in preda al delirio del potere. Eppure, questa volta, Conte non uscirà con le ossa rotte dalla vicenda della mancata zona rossa di Nembro e Alzano Lombardo. Certo, il premier per caos deve passare da un’audizione con i pm di Bergamo, gli stessi che sostengono che a rigor di diritto dovesse essere il governo – e non la Regione Lombardia – a chiudere il focolaio della Val Seriana. La volpe di Palazzo Chigi salverà la pelliccia, perché Fontana, che ora strepita, non ha mai presentato una richiesta formale per far dichiarare zona rossa i due comuni, come spiega l’articolo di oggi di Fiorenza Sarzanini sul “Corriere della Sera”. Il premier è tranquillo perché convinto che la Regione avrebbe potuto prendere in autonomia ordinanze più restrittive. Cosa che hanno fatto altri governatori (Zaia a Vo' Euganeo, ad esempio) senza che da Roma fosse impedito alcunché. Fontana da par suo ha un guaio e una salvezza, con lo stesso nome e lo stesso cognome: Matteo Salvini. Durante la macelleria lombarda, il Capitone ha teleguidato il Pirellone del malcerto Attilio tramite l’ex compagna Giulia Martinelli, capo segreteria del governatore. Per questo stesso motivo, Fontana non può essere fatto fuori. Salvini non se lo può permettere di veder cadere un suo uomo e di sciogliere il consiglio regionale prima del tempo, con il rischio di perderlo. E così si arriva allo scaricabarile con qualche testa da ghigliottinare affinché Fontana non rischi di annegare nei Navigli. Primo caprio espiatorio: Luigi Cajazzo, che era diventato direttore della sanità lombarda potendo vantare un curriculum strordinario: ex capo della squadra mobile di Lecco!. Al suo posto arriva Marco Trivelli, manager con un pedigree più consono – è stato dg al Niguarda e agli ospedali di Brescia. Ma alla resa dei conti sul “chi ha sbagliato di più”, il vero caprone espiatorio è Giulio Gallera: Innanzitutto perché è di Forza Italia, quindi più sacrificabile, e poi il suo protagonismo spesso ha oscuratom il governatore; infine per la serie innumerevole di gaffe che ha inanellato in questi mesi. Fontana e Salvini stanno intessendo una trama bipartisan – anche con il PD -  per scaricarlo o convincerlo a lasciare e liberarsene una volta per tutte. Al di là di eventuali defenestramenti, è ormai certo che non potranno non esserci conseguenze per il modello lombardo di sanità. Una sanità eccellente, certo, ma concentrata molto – troppo? – sul profitto privato e poco sul territorio. A forza di Formigoni, in Lombardia si è puntato tutto sulla sanità privata, dall'Humanitas al San Raffaele, la cui eccellenza era mirata su oncologia, ortopedia e cardiologia etc, che permettevano di doviziosi ricavi (il 20% sul fatturato). Quando è arrivato lo tsunami del Covid si sono trovate totalmente impreparate, rispetto agli ospedali di stato, su come affrontare la pandemia: ventilatori, sale di rianimazione, tamponi, etc. È anche questo che va considerato per capire cosa (non) è successo tra fine gennaio e inizio marzo a Bergamo e dintorni. Mentre il Veneto isolava i positivi a casa impedendo loro di infettare i pronto soccorso, la Lombardia smistava gli infetti nelle Rsa, riapriva il pronto soccorso di Alzano 4 ore dopo averlo evacuato il 23 febbraio. Anche le date sono importanti per rispondere alla domanda: Perché Alzano e Nembro non sono diventati zona rossa? Il 2 marzo il focolaio bergamasco è in condizioni ben peggiori di quanto non fossero Codogno e gli altri comuni del lodigiano dieci giorni prima. Eppure niente viene fatto. Erano i giorni in cui gli industriali facevano “forti pressioni” affinché quella chiusura non si facesse, come racconta Paolo Berizzi oggi su “Repubblica”. Erano i giorni in cui Beppe Sala condivideva il video “Milano non si ferma”, e Giorgio Gori a cena con la moglie Cristina Parodi twittava: “Dobbiamo andare avanti”. Erano però anche i giorni immediatamente successivi all’allarme (ignorato) degli scienziati del comitato tecnico scientifico. Il 4 marzo il presidente dell’ISS Brusaferro lanciava l’allarme. Il direttore del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli ieri ad Agorà ha detto che gli esperti avevano segnalato tutto per tempo e che "ha scelto la politica". Era tutto pronto, tanto che la sera del 5 marzo al Palace Hotel di Verdellino arriva l’esercito per chiudere tutto. Ma non succederà, perché quella decisione non arriva. Già, ma chi doveva prenderla?

Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 12 giugno 2020. (…) Nei giorni tribolati, e ancora avvolti in una parziale nebulosa, durante i quali Regione Lombardia e governo si passavano il cerino della decisione sulla zona rossa da istituire a Alzano e Nembro – i due paesi focolaio della bergamasca -, gli imprenditori del territorio hanno esercitato forti pressioni affinché quella chiusura non si facesse. Pressioni bipartisan. Geograficamente trasversali: sia sul governo regionale, sia su quello centrale. È l’ipotesi di lavoro - non l’unica, ma la più interessante -, sulla quale sono concentrati i magistrati della procura di Bergamo. Da oggi sono in trasferta a Roma per sentire (come persone informate sui fatti) il premier Giuseppe Conte, i ministri Luciana Lamorgese (Interno) e Roberto Speranza (Salute). La vicenda giudiziaria – il reato ipotizzato è epidemia colposa – ruota intorno a quello che è il cuore dell’inchiesta: la mancata zona rossa nel focolaio bergamasco. Che già il 2 marzo (…) era in condizioni di gran lunga peggiori di quanto non fossero, dieci giorni prima, Codogno e gli altri Comuni del lodigiano (cinturati dallo Stato il 23 febbraio per contenere la diffusione di Covid 19). Chi è perché, e, a questo punto, su input di chi, ha ballato per 5-6 giorni – a inizio marzo - per infine decidere di non isolare Alzano e Nembro, come invece avevano espressamente suggerito gli scienziati, e estendere il lockdown all’intera Lombardia e poi a tutta Italia (dall’8 marzo)?

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 12 giugno 2020. La Regione Lombardia non ha mai presentato una richiesta formale per far dichiarare «zona rossa» i Comuni di Alzano e Nembro. La conferma arriva al termine del secondo giorno di missione a Roma dei pm di Bergamo. E ora i magistrati vogliono ricostruire i contatti di quei giorni, verificare che tipo di rapporti e trattative ci furono con il governo. Agli atti dell'inchiesta è stato infatti acquisito il verbale della riunione svolta il 3 marzo dal comitato tecnico scientifico in cui si dà conto di una telefonata tra gli scienziati e l'assessore alla Sanità Giulio Gallera. E sarà proprio questo uno degli argomenti al centro degli interrogatori del premier Giuseppe Conte e dei ministri dell'Interno Luciana Lamorgese e della Salute Roberto Speranza fissati per oggi. Tutti convocati come testimoni. Nella nota che dà conto della riunione del Comitato del 3 marzo è scritto: «Nel tardo pomeriggio sono giunti all'Istituto superiore di Sanità i dati relativi ai Comuni di Alzano e Nembro. Al proposito è stato sentito per via telefonica l'assessore Gallera e il direttore generale Caiazzo che confermano i dati relativi all'aumento. I due Comuni si trovano in stretta prossimità di Bergamo e hanno una popolazione rispettivamente di 13.639 e 11.522 abitanti. Ciascuno dei due paesi ha fatto registrare attualmente oltre 20 casi, con molte probabilità ascrivibili ad un'unica catena di trasmissione. Ne risulta pertanto che l'R0 è sicuramente superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio». Nel verbale non si fa cenno a istanze degli amministratori locali. Viene invece specificato che fu proprio il Comitato a proporre «di adottare le opportune misure restrittive già adottate nella "zona rossa" anche in questi due Comuni al fine di limitare la diffusione nelle aree contigue». In quel momento la linea degli scienziati è dunque tracciata, ma il suggerimento non viene preso in considerazione né in Lombardia, né a Roma visto che due giorni dopo il direttore del Comitato Silvio Brusaferro invia una relazione a palazzo Chigi per ribadire la necessità di «chiudere». Perché la Regione non ritenne opportuno appoggiarlo? Di fronte ai magistrati il governatore Attilio Fontana ha dichiarato che la scelta spettava all'esecutivo. Oggi Conte sosterrà di fronte ai pubblici ministeri che «in caso di urgenza e necessità la Regione poteva procedere autonomamente, come effettivamente è avvenuto in seguito e come hanno fatto altre Regioni». E spiegherà che lui decise di aspettare perche «intanto era maturata una soluzione ben più rigorosa, basata sul principio della massima precauzione, che prevedeva di dichiarare "zona rossa" l'intera Lombardia e tredici Province di altre Regioni». Un provvedimento firmato l'8 marzo e di fatto entrato in vigore il 9 marzo. L'attesa di quei giorni ha contribuito ad aumentare il contagio nella bergamasca? Se la circolazione ad Alzano e Nembro fosse stata interdetta così come era accaduto a Codogno si poteva limitare la trasmissione del coronavirus? Conte lo negherà di fronte ai magistrati, ma dovrà spiegare perché appena tre giorni prima di firmare il decreto aveva fatto mobilitare le forze dell'ordine e l'esercito proprio per «cinturare» i due paesi. Su questo sarà ascoltata come testimone la titolare del Viminale Lamorgese. Il suo dicastero non è inserito nella catena decisionale sull'opportunità di creare «zone rosse», ma interviene nel momento in cui bisogna decidere con la prefettura competente quali reparti devono provvedere alla sorveglianza delle aree interdette. E dunque dovrà consegnare ai magistrati tutte le note e le circolari di quei giorni che aveva preceduto l'invio di poliziotti e carabinieri, ma anche dei soldati che avrebbero dovuto impedire la circolazione dei cittadini.

Estratto dell'articolo di Claudia Guasco per “il Messaggero” il 12 giugno 2020. (...) Il procuratore Rota, con i pm Paolo Mandurino e Silvia Marchina più un paio di fidati investigatori, è a Roma e mercoledì ha sentito il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro. È lui che, il 4 marzo, ha spiegato come la Val Seriana, epicentro del focolaio bergamasco, fosse sotto osservazione da parte dei virologi, i quali valutavano «l'opportunità di estendere la zona rossa». Toccherà poi al consulente del governo Walter Ricciardi e probabilmente a qualche altro tecnico. (...) Concluderà la serie di audizioni quella del premier Conte, che peraltro ai primi di aprile aveva già espresso il suo parere sulla questione, facendo notare che il «governatore della Lombardia poteva assumere in autonomia ordinanze più restrittive» e che non gli è stato «impedito di farlo, altri governatori lo hanno fatto. Non voglio imputare o scaricare responsabilità». Il governatore Fontana aveva tutti gli strumenti per istituire autonomamente la zona rossa, sostiene il premier, «come previsto dall'articolo 32 della legge 23 dicembre 1978 n.833» che dispone: «In materia di igiene e sanità pubblica» possono essere «emesse dal presidente della giunta regionale e dal sindaco ordinanze di carattere contingibile e urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla regione o a parte del suo territorio comprendente più comuni e al territorio comunale». Dell'isolamento della Val Seriana, che ha creato parecchia tensione tra il governo e la Lombardia, ne ha parlato il 3 marzo il comitato tecnico scientifico del Dipartimento della protezione civile, che riteneva necessario blindare il focolaio. Il giorno dopo Conte ha chiesto un approfondimento e il 5 marzo Brusaferro ha dato suo parere: era sufficiente isolare Alzano e Nembro. Ma non se ne è fatto nulla, perché il 7 marzo è stato firmato il decreto che ha decretato zona rossa tutta la Lombardia. (...)

Giuseppe Conte, il retroscena: "Alla pm Rota ha detto di non aver mai ricevuto il dossier tecnico sul focolaio di Bergamo". Libero Quotidiano il 14 giugno 2020. Un dettaglio sconcertante emerge dall'interrogatorio di Giuseppe Conte di venerdì davanti alla pm di Bergamo Maria Cristina Rota, che lo ha ascoltato come persona informata sui fatti nell'ambito dell'inchiesta per "epidemia colposa" sulla mancata istituzione della zona rossa a Nembro e Alzano, a inizio marzo. Il 26 febbraio, è la ricostruzione del Corriere della Sera della linea difensiva adottata dal premier, "la Regione Lombardia sapeva che in provincia di Bergamo c'era il rischio di un'impennata di contagi da coronavirus". La prova sarebbe nella parole pronunciate dall'assessore al Welfare Giulio Gallera 4 giorni dopo la chiusura del primo focolaio di Codogno. L'assessore parlò di un "nuovo focolaio" relativo all'impennata di contagi nella Bergamasca, ma la Regione non sollecitò l'istituzione della zona rossa, ha spiegato Conte. Ma qui la palla passa al governo. Il premier, rivela il Corsera, ha dichiarato ai magistrati di non aver "mai ricevuto il verbale della riunione del Comitato tecnico scientifico del 3 marzo che suggeriva di prendere provvedimenti". Roba da saltare sulla sedia, in piena emergenza sanitaria nazionale. "Soltanto il 5 marzo, quando mi è stata consegnata l'ulteriore sollecitazione del professor Silvio Brusaferro, ho chiesto un approfondimento e in base a quei dati si è deciso di chiudere l'intera regione oltre a 13 province di altre regioni". Un bel salto, visto che dal 3 marzo si passa al weekend dell'8 marzo. Cinque giorni di sostanziale liberi tutti, sebbene sui giornali si parlasse solo del caso Lombardia. Ma qualcuno, al Comitato tecnico scientifico, si è dimenticato di avvisare Palazzo Chigi. 

Un fedelissimo di Palamara sostituirà la pm che indaga su Conte. Il pm Maria Cristina Rota, che ha sentito il premier lo scorso vederdì, lascerà il suo ufficio al nuovo procuratore Angelo Antonio Chiappani. Michele Di Lollo,  Domenica 14/06/2020 su Il Giornale. Ci sono due inchieste che si incrociano. Quella delle chat di Luca Palamara e quella del caso delle "zone rosse" nella provincia di Bergamo. Maria Cristina Rota, il pm che ha sentito il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, lo scorso venerdì, a breve lascerà il suo ufficio al nuovo procuratore Angelo Antonio Chiappani, nominato all’unanimità dal Csm procuratore di Bergamo circa un mese fa. Un magistrato che il 29 maggio 2019, quando esplose il caso Palamara, manifestò a quest’ultimo la propria solidarietà. Allora Chiappani era in corsa per la poltrona di procuratore di Brescia (sua città natale). In occasione del famoso dopocena dell’hotel Champagne uno dei presenti a proposito di quella nomina, stando a quanto ricostruito da La Verità, disse: "Io vorrei fare Roma e magari ci metto Brescia perché dovrebbe essere più semplice Brescia visto che abbiamo il derby". Il derby era quello tra Chiappani e Francesco Prete, che a dicembre è risultato vincitore, entrambi di Unicost, la corrente di Palamara. Ma Chiappani non è finito solo nelle chat di Palamara. Ha anche visto di persona il pm indagato mentre era sotto intercettazione e le sue parole potrebbero essere state carpite dal trojan. L’occasione dell’incontro tra i due riguarda una partita della rappresentativa magistrati contro quella degli attori allo stadio di Lecco, città di cui Chiappani era procuratore. Palamara, forse trovandoselo inaspettatamente di fronte, chiese, via messaggio, al collega di Unicost Massimo Forciniti: "Chiappani è quello che deve andare a Brescia?". Riceve risposta affermativa. Al termine dell’evento Chiappani scrive sulla chat di gruppo: "Grazie a tutti per questo 23 maggio vissuto a Lecco con una grande cornice di studenti e grazie a tutti di avermi dato l’occasione di rimettere le scarpette dopo più di trent’anni". Gli aveva dato il benvenuto Paolo Auriemma, procuratore di Viterbo, in strettissimi rapporti con Palamara. Il 29 maggio arriva, però, la notizia dell’inchiesta su Palamara. E sulla chat del calcio inizia la corsa a esprimere la propria solidarietà all’ex presidente dell’Anm sotto indagine. Chiappani ci va giù pesante. Scrive polemico: "Jus sputtanandi". Ma Palamara consiglia di abbassare i toni. Palamara non doveva invece godere della fiducia della Rota. Infatti, la nomina di quest’ultima a procuratore aggiunto di Bergamo, è arrivata alla fine di una durissima battaglia al Csm che ha portato alla spaccatura tra Area e Unicost, dopo che per diversi mesi i due schieramenti avevano votato insieme interi pacchetti di nomine. Lei è diventata procuratore aggiunto di Bergamo con i voti di Area, la corrente delle toghe progressiste e di Magistratura indipendente, la corrente che per molti anni, e in parte anche oggi, ha avuto come punto di riferimento il parlamentare di Italia viva, Cosimo Ferri. L’unica corrente che cercò di sbarrarle la strada fu quella di Palamara, Unicost. Ora la Rota lascia il suo incarico e al suo posto arriva un fedelissimo di Palamara. E chissà come se la caverà con l’inchiesta che tiene col fiato sospeso il governo giallorosso.

Lettera di Vincenzo Zeno-Zencovich a Dagospia il 15 giugno 2020. Egregio Direttore, Sono consapevole – anche se confesso che me ne sfuggono le ragioni – della forte opposizione (per usare un eufemismo) della sua testata al Presidente del Consiglio. Le chiedo tuttavia se non ritiene che si possano esprimere alcune perplessità in ordine alla recente “trasferta” dei procuratori della repubblica di Bergamo per sentire il prof. Conte come “persona informata dei fatti”. Mi permetto di esprimere un dubbio sulla compatibilità di una siffatta decisione con uno stato di diritto, fondato, innanzitutto, sulla separazione dei poteri. Il problema di fondo è che il Presidente del Consiglio non è un cittadino qualsiasi che possa essere a conoscenza di un reato: è il Capo dell’esecutivo al quale la magistratura chiede conto – in maniera puntigliosa: le cronache parlano di un interrogatorio durato tre ore – del suo operato. Operato che è prettamente politico, nel senso giuridico e costituzionale del termine. In sostanza si chiede al Capo dell’esecutivo, per evitare di passare dalla posizione di “persona informata dei fatti” a quella di imputato, di rimuovere ogni sospetto di reato dal suo capo, eventualmente addossando la responsabilità a qualcun altro (in questo caso il Presidente della Regione Lombardia). Beninteso, le decisioni del Capo dell’esecutivo sono tutt’altro che insindacabili e sono quotidianamente oggetto di attento scrutinio (in termini di legalità, legittimità, non eccesso o sviamento di potere) da parte del giudice naturale della Amministrazione, e cioè il giudice amministrativo. Ma sottoporre a scrutinio penale – a distanza di tempo -  la condotta individuale e la percezione soggettiva che il Presidente del Consiglio ha avuto degli eventi (per magari cogliere contraddizioni fra il suo personale ricordo e quello di qualcun altro) significa semplicemente trasferire il potere esecutivo al potere giudiziario, il quale ultimo potrà stabilire se il Governo è stato diligente o ha concorso colpevolmente con la diffusione della pandemia. Peraltro, sia ben chiaro, non si tratta di un episodio isolato: già lo si era constatato nelle vicende riguardanti le disposizioni date dal Ministro dell’Interno sullo sbarco di cittadini extracomunitari salvati in mare, e la forte contrapposizione, anche nell’opinione pubblica, su questa tematica non fa venire meno le perplessità giuridiche in ordine ad una invasione di campo. Si tratta di considerazioni queste che trovano il loro fondamento non in teoriche visioni ma in una linea ben tracciata in questi anni dalla Corte Costituzionale sui conflitti di attribuzione fra poteri (il pensiero va alle questioni relative all’ILVA e alla sentenza 85 del 2013). Giudicheranno in primo luogo il Parlamento e poi, doverosamente, gli elettori se il  Governo e le autorità locali hanno preso le decisioni appropriate nel momento della emergenza. Affidare questa valutazione alla magistratura non fa bene né al Paese, alle sue istituzioni (in primo luogo la magistratura stessa), e riduce ad una controversia fra legulei il dolore dei familiari delle tantissime vittime. Vincenzo Zeno-Zencovich Professore nell’Università Roma Tre.

Paolo Berizzi per la Repubblica il 15 giugno 2020. Le audizioni di venerdì a Palazzo Chigi sono andate «benissimo ». Il giorno dopo, dai corridoi blindati della procura di Bergamo, filtra un cauto ottimismo che è inutile interpretare. Così come ha poco senso immagina re dei sottopancia alle parole di ieri della pm Maria Cristina Rota sulla possibilità di stabilire «se c' è reato» o meno nella decisione del governo di non istituire la zona rossa in Val Seriana: «La questione è complessa e sarà approfondita all' esito della ricostruzione del fatto », ha detto. L' ammissione piena e argomentata della «responsabilità politica» che il premier Conte ha consegnato venerdì ai magistrati bergamaschi è considerata come un «dato acquisito» importante (lo stesso ragionamento è stato fatto per i confronti con i ministri Lamorgese e Speranza). Che permette ora agli inquirenti di tornare a lavorare in "ambito regionale". L' asse dell' inchiesta si sposta di nuovo sull' operato del presidente Fontana e dell' assessore Gallera (già interrogati a Bergamo così come il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti). E sulla catena dirigenziale amministrativa e sanitaria lombarda protagonista dei giorni più caldi dell' epidemia. Nei prossimi giorni potrebbe toccare ad altri testimoni rispondere alle domande della pm Rota. Direttori sanitari, direttori generali, forse qualche medico. E questo per quanto riguarda in particolare gli altri due filoni dell' indagine avviata per epidemia colposa: il caos nelle Rsa e la vicenda dell' ospedale di Alzano Lombardo. Da ambienti investigativi filtra che, qualora emergesse l' impossibilità di accertare il "nesso causale" sulla questione della mancata zona rossa - scelta "politica" rivendicata da Conte e argomentata con dovizia di particolari -, se è vero che resterebbe comunque in piedi l' accertamento di eventuali pressioni sul governo da parte del mondo imprenditoriale, potrebbero però diventare questi i due filoni decisivi: Rsa e ospedale di Alzano. Qui si aprirebbe il fronte di un' eventuale e possibile "corresponsabilità" da parte della Regione. Ma torniamo ora al tema zona rossa. Imprese e sindacati (ma non i rappresentanti locali). Cooperative e agricoltori. Che cosa accomunava le associazioni e le sigle di categoria alla fine di febbraio, quando la situazione epidemiologica in Val Seriana aveva già toccato livelli allarmanti e la scienza stava già suggerendo alla politica di cinturare l' area? Erano contrari alla chiusura delle fabbriche. Segnatamente - i magistrati hanno raccolto elementi in questo senso - anche e soprattutto nel perimetro più infetto della Bergamasca (e poi d' Italia e d' Europa). Lo indica un documento acquisito dalla Procura di Bergamo. Un documento da "fonte aperta". Ma che gli inquirenti considerano uno spunto non banale. È il "comunicato congiunto di imprese e sindacati sul coronavirus" pubblicato il 27 febbraio sul sito di Confindustria. Un appello sottoscritto da: Abi, Coldiretti, Confagricoltura, Confapi, Confindustria, Alleanza delle cooperative, Rete Imprese Italia, Cgil, Cisl, Uil. Che cosa chiedevano? "Dopo i primi giorni di emergenza - si legge - , è ora importante valutare con equilibrio la situazione per procedere a una rapida normalizzazione, consentendo di riavviare tutte le attività ora bloccate", "evitando di diffondere sui mezzi di informazione una immagine e una percezione, soprattutto nei confronti dei partner internazionali, che rischia di danneggiare durevolmente il nostro made in Italy e il turismo". Il 27 febbraio, dunque. Siamo alla vigilia dell' infelice spot di Confindustria Bergamo con l' hashtag #Bergamoisrunning (per il quale il presidente Stefano Scaglia ha fatto ammenda). Ma siamo, soprattutto, in una finestra temporale dove Covid 19 a queste latitudini viaggiava a ritmo notevole: ne è prova il fatto che il 29 febbraio il Comitato tecnico scientifico lancia l' allarme su Alzano e Nembro facendo mettere a verbale quanto segue: "L' RO (il tasso di contagiosità, ndr) è superiore a 1, il che costituisce un indicatore di alto rischio di ulteriore diffusione del contagio". E tuttavia: le imprese qui sono rimaste attive. Fino al 16 marzo certamente. Molte fino al 23 (data del lockdown economico deciso dal governo). La resistenza di imprese e sindacati alla chiusura e, per sillogismo, alla zona rossa in Val Seriana, finisce dritta in Procura. Anche attraverso le oltre 200 denunce del comitato di parenti delle vittime Covid "Noi denunceremo". «In diversi esposti il comunicato imprese-sindacati è citato», dice l' avvocato Consuelo Locati, legale del comitato.

Claudia Guasco per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. Da «atto dovuto» a inchiesta complessa e articolata. Dopo le audizioni del premier Giuseppe Conte, dei ministri Lamorgese e Speranza, le indagini sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro passano al secondo livello. I pm bergamaschi del pool guidato dal procuratore aggiunto facente funzione Maria Cristina Rota convocheranno questa settimana altre persone informate sui fatti, a cominciare dai medici, e approfondiranno due filoni dell'inchiesta che a questo punto si intrecciano. Quella sull'ospedale di Alzano Lombardo, riaperto in una manciata di ore il 23 febbraio dopo i primi casi di Covid, e il fascicolo sull'isolamento mai avvenuto dei due comuni focolaio nella bassa Val Seriana. Il principale nodo da sciogliere è: se il 3 o 4 marzo, quando esercito, polizia e carabinieri erano già schierati e pronti a eseguire l'ordine, Alzano e Nembro fossero stati sigillati, il contagio sarebbe stato meno disastroso o era comunque troppo tardi? Per il sindaco di Nembro Claudio Cancelli la mossa era comunque tardiva: «O si chiudeva a fine febbraio, oppure bisognava isolare una porzione ben più ampia del territorio», afferma. La Procura di Bergamo ha nominato quindi un collegio di consulenti, chiamato a ricostruire l'evoluzione dei dati epidemiologici delle due cittadine dall'inizio di marzo e a stabilire se sussista un nesso causale tra la chiusura mai avvenuta e il record di mortalità sul territorio. La progressione è stata inarrestabile: stando ai dati ufficiali - ma secondo i medici di famiglia sono decisamente sottostimati - nell'ultima settimana di febbraio in provincia di Bergamo i positivi erano 72, di cui 19 a Nembro con tre morti. Tra il 28 febbraio e il primo marzo lo scenario precipita, in due giorni i casi sono 25 in più a Nembro e 12 in più ad Alzano. Il 3 marzo il Comitato tecnico scientifico consiglia al premier Conte di chiudere tutto, ma non se ne fa nulla: i contagiati salgono a 58 a Nembro, a 26 ad Alzano e nella bergamasca i morti sono già 423. Il 9 marzo, quando scatta il lockdown nazionale, Nembro ha 107 malati e Alzano 55. Di zona rossa non se ne parla più, finché l'11 maggio i magistrati di Bergamo convocano Luigi Cajazzo, direttore generale Welfare della Regione Lombardia nel frattempo rimosso dal ruolo e nominato dal governatore Attilio Fontana vicesegretario generale della Regione. Dice Cajazzo ai magistrati: la decisione di riaprire il pronto soccorso di Alzano Lombardo il 23 febbraio, dopo l'accertamento dei primi due casi di coronavirus, «è stata presa in accordo con la direzione generale dell'Asst di Bergamo est», poiché è stato assicurato che era «tutto a posto». I locali «erano stati sanificati e c'era già i percorsi separati Covid e no Covid». Ciò che hanno riferito i medici, in realtà, è ben diverso: «Il 23 febbraio è arrivata la chiamata del direttore generale Cajazzo, che ha detto: non si può fare, perché c'è almeno un malato di Covid in ogni provincia, non possiamo chiudere oggi Alzano, tra due ore Cremona. Quindi riaprite tutto». Per il sindaco Cancelli l'epidemia in Val Seriana, che si è spostata verso nord mettendo in ginocchio Bergamo, è partita proprio dall'ospedale: il virus è entrato dal pronto soccorso ed è dilagato nel reparto di medicina generale, dove si è ammalato anche il primario. Stabilire tempi ed eventuali errori, a questo punto, è fondamentale anche per capire se il contagio tra le corsie avrebbe reso necessaria una zona rossa in tutto il territorio. I magistrati incroceranno le dichiarazioni raccolte a Palazzo Chigi e in Regione con le direttive e i dati dell'epidemia, per capire se la mancata zona rossa sia stata una scelta politica o si configuri il reato di epidemia colposa.

Mancate zone rosse, la procura di Bergamo indaga per omicidio colposo. Il dubbio il 15 giugno 2020. “Epidemia colposa” è invece l’ipotesi dell’indagine sulla mancata “zona rossa” che ha portato gli inquirenti a Roma per sentire come persone informate sui fatti il premier Conte e i ministri Speranza e Lamorgese. La Procura di Bergamo indaga per omicidio colposo in relazione alle denunce presentate il 10 giugno dai familiari delle persone morte per coronavirus che fanno parte del Comitato “Noi denunceremo”. Stando a quanto apprende l’AGI, è questa l’ipotesi di reato a carico di ignoti da cui si parte, prevista dall’articolo 589 del codice penale. Solo una traccia per un’indagine tutta da svolgere che richiedera’ lunghi accertamenti e valutazioni caso per caso perché, anche se le storie sembrano seguire tutte un unico filo conduttore – quello legato ai ritardi nelle diagnosi e nelle cure e alla mancata zona rossa – ciascuna vicenda presenta le sue peculiarita’. E non è detto che l’esito delle inchieste sia lo stesso. “Articolo 589 del codice penale” è la dicitura apposta dalla polizia giudiziaria che si trova nel verbale di ratifica della denuncia presentata dal Consuelo Locati, avvocato e leader, assieme a Luca Fusco, del Comitato nato spontaneamente su Facebook nei giorni più cruenti della pandemia. La legale, assieme alla sorella, chiede che venga fatta chiarezza sulla morte del papà Vincenzo avvenuta il 27 marzo alla clinica Humanitas Gavazzeni di Bergamo. Dopo avere accusato diversi sintomi del Covid ed essere stato anche ricoverato e poi dimesso, il 18 marzo arriva la certezza, attraverso una radiografia al torace, che si tratta di polmonite interstiziale. “Non era possibile ricoverarlo – scrivono le sorelle Consuelo e Cassandra Locati nell’esposto – a fronte del fatto che la saturazione non era considerata nei valori critici e, dato il collasso degli ospedali, non sarebbero intervenuti per il ricovero di papà”. Le figlie riescono comunque a recuperare delle bombole di ossigeno e a farsi prescrivere una terapia da un medico amico. Dopo una grave crisi respiratoria, il signor Vincenzo veniva portato all’Humanitas. “La cartella clinica – si legge nel documento che ha dato il via all’indagine – appalesa che la notte del ricovero e sino al giorno dopo era stato somministrato ossigeno con la Cpap (una sorta di casco, ndr) e papà era nettamente migliorato ma il giorno dopo inspiegabilmente (oppure no) gli veniva lasciata solo la mascherina, insufficiente per aiutarlo a sopravvivere”. Il medico rianimatore decideva poi “in autonomia di non rianimare papa’ ma di accompagnarlo verso la morte somministrando la morfina”. L’esposto si conclude, come gli altri depositati, con le accuse la governo e alla Regione Lombardia di non avere chiuso l’ospedale di Alzano Lombardo, non avere istituito la zona rossa in Valle Seriana, non essersi attrezzati per prevenire la diffusione del contagio nonostante l’esperienza cinese e il piano contro la pandemia che pure c’era “dal 2006”. Come già noto, omicidio colposo è pure il reato ipotizzato dalla Procura in relazione alle denunce presentate dall’Inail.

 Paolo Russo per “la Stampa” il 15 giugno 2020. La mancata proclamazione della zona rossa in Val Seriana non sembra più essere la sola questione al centro dell'attenzione della Procura di Bergamo, che sta acquisendo i documenti necessari a capire perché, in un arco temporale molto più ampio, che va dall'8 al 23 marzo, nelle fabbriche della Bergamasca e del Bresciano si continuasse a lavorare a pieno ritmo. Nonostante medici e scienziati chiedessero a gran voce di «chiudere tutto e subito». Gli inquirenti per ora hanno acquisito l'appello congiunto di imprese e sindacati, che il 27 febbraio chiedevano «di riavviare tutte le attività ora bloccate». Un pressing che è durato a lungo, specie da parte degli imprenditori, fino alla serrata totale decisa dal governo il 23 marzo, mentre Cgil, Cisl e Uil Lombardia si sono smarcati il 12 marzo, con la nota unitaria "Prima la salute". Quel che la Procura cercherà di capire è cosa possa aver indotto imprese, governo e regione a far continuare a muovere 500 mila lavoratori nelle due province martiri dell'epidemia. Con effetti difficili da quantificare, ma certamente più gravi della ritardata chiusura di 5 giorni della Val Seriana, quelli che vanno dall'allarme lanciato il 3 marzo del comitato scientifico fino alla proclamazione della Lombardia "zona arancione" dell'8 marzo. Il blocco delle imprese, infatti, arriva soltanto il 23 marzo, perché il lockdown proclamato il 10 aveva chiuso gli esercizi commerciali, ma lasciato libere le aziende di continuare a produrre. Comprese le 84 mila di Bergamo nelle quali lavorano 385 mila dipendenti e quelle di Brescia, per un totale di 107 mila ditte e 402 mila lavoratori impiegati. Due province che già allora contavano oltre 8.000 contagi, uno su cinque di quelli rilevati all'epoca in tutta Italia. «State a casa», ripetevano ossessivamente governo, medici e scienziati. Più facile dirlo che farlo nelle due delle province d'Europa a più alto tasso di produttività. E infatti era la stessa Confindustria Lombardia a confidare che il 73% di piccole, grandi e medie imprese stava andando avanti, come del resto in tutta la regione. Come dire che nelle aree più epidemiche ben mezzo milione di lavoratori continuava a fare avanti e indietro casa-lavoro, anche se poi in fabbrica si è cercato di sanificare e modificare le linee di produzione per garantire quel famoso metro di distanziamento sociale. A Brescia nel settore industriale vero e proprio furono raggiunti 63 accordi per la sicurezza anti-Covid sul lavoro. A Bergamo soltanto 2. Briciole rispetto al mare di imprese delle due province. Che non potesse bastare per contenere la crescita esponenziale dei contagi lo pensavano i tecnici del comitato scientifico, che suggerirono a Conte di «fermare tutto salvo le filiere che producono beni di consumo essenziali». Che è quanto poi decise il Governo. Ma solo 15 giorni dopo la zona arancione lombarda. Nonostante il Presidente dell'Ordine dei medici di Milano, Roberto Carlo Rossi, affermasse che «mandare avanti la produzione fosse un gravissimo errore» e chiedesse di «chiudere tutto», considerando «una follia vedere ancora capannoni e cantieri pieni di gente». Gli inquirenti cercheranno ora di capire se ci siano state delle responsabilità dietro quella «follia». Che nelle due province fece andare avanti aziende tutt' altro che essenziali, come quelle di chiusure industriali per capannoni, verniciature, calcestruzzi, strumenti elettronici. Ma anche di armi o di lussuosi bolidi. Mentre molto più lentamente sfilavano via da Bergamo i camion pieni di bare.

Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 15 giugno 2020. «Ammesso e non concesso che noi industriali abbiamo fatto pressioni per tenere aperte le aziende, al dunque siamo rimasti impotenti davanti alle scelte della politica». Marco Bonometti, 65 anni, presidente di Confindustria Lombardia e di Officine meccaniche rezzatesi, esce da un periodo nero per le aziende del Nord, mentre gli ultimi dati sulla produttività non promettono niente di buono.

Col senno di poi è stato un errore fare pressione contro la zona rossa di Bergamo? 

«Nessuna pressione. Di quella zona rossa non si è mai parlato nei dettagli, l'idea era di chiudere le province di Bergamo e di Brescia, ma il governo ha optato per l'intera Lombardia. Le decisioni in quel momento difficile, ma facile da analizzare col senno di poi, le ha prese l'esecutivo e noi imprenditori le abbiamo seguite».

Ma l'11 marzo non si incontrò con Fontana per chiedere di lasciare aperte le aziende?

«Ci incontrammo per un protocollo d'intesa per permettere alle aziende che potevano continuare senza mensa, con le distanze, con le protezioni e con lo smart working di farlo. Abbiamo sempre salvaguardato le attività essenziali, dal settore alimentare al farmaceutico. Senza la Dalmine sarebbero finite le bombole d'ossigeno».

Non sono rimaste aperte molte aziende oltre a quelle essenziali?

che non potevano rispettare le regole si sono fermate. Gli imprenditori hanno messo al primo posto la salute, ma va considerato che per alcune aziende non essenziali legate a filiere internazionali questo significa perdere commesse e chiudere per sempre, come purtroppo dimostrano gli ultimi dati».

In che senso?

«Nel primo trimestre la produzione industriale segna -10, mentre ad aprile arriva a -44 e a maggio a -33. La situazione è drammatica: cala il fatturato, la liquidità viene meno e saltano i posti di lavoro».

Un problema solo italiano?

«In tutto il mondo le persone si sono abituate a consumare meno, la produzione rallenta e i lavoratori sono in eccesso. Il coronavirus ha portato la decrescita infelice».

Il presidente di Confindustria Bonomi parla di un milione di disoccupati in più entro l'anno e lei?

«È ottimista, solo ad oggi sono 400 mila. Se va bene ci vorranno un paio d'anni per tornare ai livelli di prima».

Dunque si può recuperare?

«Sì, ma bisogna affrontare i limiti storici italiani di competitività, infrastrutture e burocrazia. Le priorità sono la liquidità per non fare fallire le aziende, gli investimenti bloccati dalla burocrazia e gli incentivi per il mercato interno come l'auto».

Meglio il governo Conte o un nuovo esecutivo per gestire l'emergenza?

«Basta un qualsiasi governo che agisca e metta al centro l'impresa. Solo rilanciando le aziende usciremo dalla crisi, mentre ora le si vuole accusare di aver aiutato il contagio».

La Lombardia tornerà ad essere la locomotiva d'Italia?

«Bisogna sperarlo per tutto il Paese. Se c'è una regione in grado di trainare l'Italia questa è la Lombardia. Però serve un potenziamento del sistema sanitario territoriale per evitare un ritorno del contagio. Non ci possiamo permettere una seconda ondata».

Armando Di Landro per “il Corriere della Sera” il 18 giugno 2020. Fino allo scontro con il presidente Luca Zaia, il professor Andrea Crisanti è stato il volto del successo veneto contro il coronavirus, dove l'incidenza del contagio è stata ed è infinitamente più bassa di quella registrata in Lombardia e a Bergamo in particolare. Duecento chilometri separano il suo studio di Padova dal centro della città più colpita ed è da lì che è partita una telefonata per lui: il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota vuole il virologo ribelle, l'uomo dei tamponi di massa contro le indicazioni del ministero e dell'Istituto superiore di sanità, come consulente nell'inchiesta per epidemia colposa aperta a fine marzo. Il contatto c'è stato, secondo indiscrezioni il dialogo è a uno stato già avanzato, mancherebbe solo la firma per ingaggiare Crisanti. Ma dalle parti della Procura si registrano solo silenzi. Nessun commento da parte di Rota. «Non sono certo io a poter dare conferme - ha dichiarato ieri il professore -. Soprattutto in questo caso bisogna osservare la massima correttezza istituzionale». Silenzi dai pm, ma nessuna smentita. L'esperto del Veneto governato dal leghista Zaia si troverebbe così a fare da consulente per l'inchiesta penale, al momento più clamorosa, nel cuore della Lombardia governata dal leghista Fontana. Sui meriti dei risultati contro il coronavirus (basti la provincia di Padova che conta 300 deceduti in tutto per Covid accertato dai tamponi, contro i 3.100 a Bergamo) lo strappo c'è già stato: Zaia ha rivendicato il lavoro dei dirigenti regionali, Crisanti ha commentato con un amaro «vogliono riscrivere la storia». Ora però il ruolo che si profila a Bergamo è diverso. L'inchiesta è al momento un grande calderone che va dalla mancata zona rossa a Nembro e Alzano alla gestione dell'ospedale della Bassa Val Seriana, che dipende dall'Azienda socio sanitaria di Seriate. E Crisanti, da virologo esperto, dovrà dare risposte ai pm, che si chiedono quanto abbiano inciso i divieti sfumati per quella porzione di territorio quando il contagio iniziava a galoppare, ma soprattutto perché avrebbe potuto servire il contenimento del focolaio ospedaliero: già da metà febbraio ad Alzano risultavano ricoverati pazienti con sintomi sospetti, polmoniti acute in particolare, ma i primi tamponi erano stati fatti solo il 23 febbraio. Eppure l'ospedale, dopo l'ufficialità dei primi contagiati, era rimasto chiuso solo tre ore, a differenza di quanto accaduto a Codogno o a Schiavonia (Padova). Le circolari del ministero che chiedevano di riscontrare contatti dei degenti con la Cina, erano vincolanti? Crisanti le ha sfidate, ma ora il punto è rispondere a una serie di interrogativi, per consentire ai pm di capire se siano stati commessi reati.

 DAGOREPORT il 21 giugno 2020. Ma lo sa la Procura di Bergamo, che l’ha nominato consulente nell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza da coronavirus, che il professor Crisanti non è né un microbiologo né un virologo, ma soltanto un parassitologo che all’Imperial collega di Londra si occupava di zanzare? Ma lo sa la Procura di Brescia che Crisanti non ha mai visto neppure col cannocchiale un paziente né tantomeno un piano di sanità pubblica, quello strumento che ha salvato il Veneto dal fare la fine di Lombardia e Piemonte, del cui successo epidemiologico Zaia ha sempre tributato gli onori a Francesca Russo, siciliana tutta d’un pezzo che dirige il Dipartimento di Prevenzione della Regione? Lo sa, infine, la Procura di Brescia, che il Professor Crisanti è in Veneto da pochi mesi e non ha mai fatto altro che refertare campioni a Padova nel più ampio (quasi 3 mila metri quadri di superficie) laboratorio d’Italia messogli a disposizione dalla Regione? Sono le domande, condite con un filo di ironia e scetticismo, che la comunità scientifica si sta ponendo di fronte all’ennesima boutade di Crisanti che la tv e i giornali (sui quali sta molto più che in laboratorio) hanno trasformato nella superstar dei professori, il quale oggi ha definito come un cumulo di “chiacchiere” le anticipazioni di uno studio sulle cause della minor virulenza del Covid 19 condotto fra il San Matteo di Pavia, lo Spallanzani di Roma e la rete delle microbiologie venete. Intanto, all’Università di Padova e nella prestigiosa e antichissima Scuola di Medicina, la rabbia sorda contro Crisanti che tratta tutti gli altri colleghi come degli sprovveduti, monta ogni giorno di più e il Rettore Rosario Rizzuto stenta ormai a contenerla. Con la conseguenza che molti cervelli hanno preannunciato la fuga: non dall’Italia, ma da Crisanti.

(ANSA il 20 giugno 2020) - Sarà il virologo Andrea Crisanti, direttore del laboratorio di Microbiologia e virologia di Padova uno dei consulenti che faranno parte del pool incaricato dalla procura di Bergamo nell'inchiesta per epidemia colposa sulla mancata zona rossa nei comuni di Alzano Lombardo e Nembro, a inizio marzo, e sulle eventuali negligenze all'ospedale di Alzano, che venne riaperto poche ore dopo l'isolamento di un primo paziente positivo al coronavirus, a fine febbraio. "E' la prima volta che vengo chiamato a svolgere un ruolo così delicato e sono molto contento di collaborare con la procura di Bergamo - ha confermato Crisanti a Tpi.it - Ce la metterò tutta per aiutare i pm ad arrivare alla verità". Nei prossimi giorni saranno resi noti anche gli altri componenti del pool di esperti voluto dal procuratore facente funzione Maria Cristina Rota.

Da ilgiornaledivicenza.it il 21 giugno 2020. «Chi parla dell’infettività di questo virus non sa quello che dice, perchè l’infettività si misura sperimentalmente e sull’uomo non è possibile fare nessun esperimento e non esiste un modello animale. Senza numeri e senza misura non è scienza, sono solo chiacchiere». Così il professor Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di microbiologia e virologia di Padova, stronca l’indagine sui risultati dei tamponi realizzata dalla Regione e presentata ieri dal collega Roberto Rigoli, coordinatore delle microbiologie del Veneto, secondo la quale il Coronavirus si starebbe in sostanza «spegnendo». «Siccome non è possibile fare sperimentazioni di infettività sull’uomo - aggiunge Crisanti -, nessuno sa qual è la dose infettiva di questo virus e non c’è nulla da commentare: non si può commentare con un argomento scientifico una cosa che non è Scienza».

(ANSA il 21 giugno 2020) - "La bassa/assente infettività èstata valutata su due  fronti: il primo epidemiologico monitorando i contatti stretti dei pazienti con carica bassa, il secondo seminando su colture cellulari i campioni appartenenti sempre a pazienti con c.t. alto (bassa carica). Dati preliminaridi un lavoro condotto dal prof. Baldanti dimostrano che solo un`esigua minoranza di questi campioni risulta positiva in colture cellulari confermando altri recenti dati di letteratura internazionale". Replica così Roberto Rigoli, vice presidente dell`associazione Microbiologi Clinici Italiani, agli attacchi del collega Andrea Crisanti, che aveva definito "chiacchiere" lo studio sui tamponi dal quale emergerebbe un "indebolimento" de lvirus.

(ANSA il 21 giugno 2020) - Sul fatto che "i ragionamenti riportati dal sottoscritto sono solo chiacchiere – aggiunge Rigoli - ricordo che, in accordo con il Presidente dell`Associazione Microbiologi clinici Italiani dottor Pierangelo Clerici, con la professoressa Maria Capobianchi responsabile del laboratorio di Virologia dello Spallanzani di Roma, e con il Professor Fausto Baldanti responsabile del laboratorio di Microbiologia del Policlinico San Matteo di Pavia, è stato deciso di mettere in discussione l`interpretazione del dato proprio alla luce della discordanza tra manifestazioni cliniche, andamento epidemiologico e positività al test eseguito in PCR- RT.".  "In particolare - sottolinea il virologo - la discordanza appare chiara nei pazienti clinicamente guariti con C.T. elevati(bassa carica)". "In accordo con il Presidente Amcli e i componenti del direttivo - conclude Rigoli - ribadisco il concetto che il confronto aperto tra tutti rappresenta l`unica via per vincere la guerra verso questo nuovo agente patogeno". 

Un'altra zona rossa ignorata fa tremare la sanità di Fontana. Irene Panighetti il 20 giugno 2020 su Il Quotidiano del Sud. Oggi a Milano tanti lombardi (ma non tutti quelli che vorrebbero esserci ma non possono anche a causa dei vincoli dovuti al Covid-19 sulla modalità delle iniziative di piazza) manifestano contro il governo lombardo, per chiederne le dimissioni e per chiedere conto delle responsabilità della catastrofica gestione dell’emergenza sanitaria. In piazza Duomo la rete Milano2030 (ma non solo) per puntare il dito contro “le scelte fatte in questi mesi che sono state devastanti e hanno dimostrato l’insipienza di chi avrebbe dovuto proteggere la nostra regione dalla pandemia – e per – realizzare quello che non è accaduto in tutti questi anni: il radicale potenziamento del welfare e del servizio sanitario nazionale. Sotto il Pirellone ci saranno invece altre realtà, più legate alla sinistra radicale, che con l’iniziativa in piazza Duomo condividono molte valutazioni sulla gestione della crisi e sulla privatizzazione del servizio sanitario in corso da anni, ma che affondano direttamente il coltello nella piaga delle responsabilità: da Formigoni a Maroni, da Fontana a Gallera questi i soggetti ritenuti “politicamente responsabili. Devono quindi andarsene a casa e liberare la regione dalla loro gestione criminale. Non siamo più disposti ad aspettare!”.

FRONTE COMPATTO. Due appuntamenti potrebbero dare l’idea di divisione, ma anche, da un altro punto di vista, di forza: “ci amareggia che ci saranno due piazze – valuta la campagna #oraacasarestatecivoi (che sarà in piazza Duomo) ma se per farli andare via non ne basta una, ci auguriamo che ci riescano due piazze contemporaneamente”. In effetti il fronte contro la giunta di Fontana, se non compatto è quanto meno davvero poliedrico e con molti centri distribuiti in settori differenti della società: le piazze, i social e i mezzi di informazione da un lato, la magistratura con le sue decine di indagini dall’altro. A questo fuoco incrociato se ne è aggiunto uno nuovo, in seguito alle rivelazioni rese note da “Il Fatto quotidiano” giovedì, ovvero una nuova accusa di mancata istituzione di zona rossa, questa volta nel cremonese, che si somma a quella, su cui sta indagando la Procura di Bergamo, ad Alzano Lombardo e Nembro. No 2020).

LA MANCATA CHIUSURA. La vicenda metterebbe sotto accusa Fontana che avrebbe dovuto inserire (ma non lo fece) i Comuni di Pizzighettone, Formigara e Gombito nell’elenco della zona rossa da istituire già alla fine di febbraio, insieme ad altre sei località in provincia di Lodi. Il giornale riporta per iscritto le parole di un audio di una riunione del 23 febbraio (stessa data in cui il Covid-19 veniva individuato al pronto soccorso dell’ospedale di Alzano) tra i rappresentanti regionali, tra cui Fontana, il prefetto di Lodi Marcello Cardona e alcuni sindaci; all’ordine del giorno la discussione su quali comuni isolare e l’organizzazione della presenza militare per far rispettare la chiusura. Fontana aveva una lista di 10 paesi già stabiliti (Codogno, Castiglione d’Adda, Casale, San Fiorano, Bertonico, Fombio, Terranova dei Passerini, Somaglia, Maleo e Castelgerundo) e ne avrebbe aggiunti altri 9: Santo Stefano Lodigiano, San Rocco al Porto, Corno Giovine, Cornovecchio, Caselle Landi, Pizzighettone, Formigara, Gombito, Brembio. Quindi intervenne il Prefetto le cui parole sono riportate con il virgolettato sul Fatto Quotidiano: “Sono tutti miei, tre a Cremona e il resto tutto a Lodi. Sto facendo il calcolo, credo che dobbiamo aggiungere altri venti, ci stiamo muovendo sulle 70mila persone. Noi stiamo lavorando su quei dieci che Attilio aveva già individuato, già individuati i check, già individuato il numero dei rinforzi. Appena Attilio mi formalizza questi comuni (ma già lo sapevo perché me lo aveva comunicato Giulio, lavoriamo sui nuovi check perché li dobbiamo mettere su carta”. Ma poi non ci fu mai l’ufficializzazione da parte della Regione e i tre comuni cremonesi rimasero aperti.

REPLICA DI GALLERA. La replica è arrivata ieri da Gallera, che ha respinto le accuse con la già rodata strategia del rimandare ad altri le responsabilità; accuse “false, fuorvianti e gratuite” – ha dichiarato Galera citato su cremonaoggi.it – il 23 febbraio con la logica di isolare le aree coinvolte per arginare la diffusione del virus, i nostri esperti avevano disegnato su una mappa una cintura di sicurezza sanitaria che comprendeva 22 comuni. Fra questi, non era presente la città di Lodi, dove in quella data si riscontrava un unico caso positivo. La lista veniva comunicata immediatamente al Governo. Poco dopo, la risposta del Governo evidenziava l’impossibilità di accogliere la richiesta della Lombardia nella sua totalità perchè il blocco di un’area così vasta avrebbe comportato l’impiego di un numero troppo elevato di operatori delle forze dell’ordine. Si procedeva quindi con la definizione della zona rossa di 10 comuni in stretto coordinamento con il Governo, la Prefettura, la Protezione Civile e le amministrazioni locali. Nessuna polemica, su questo caso, è stata mai sollevata dalla Regione Lombardia”.

L’audio inedito sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro. Notizie.it il 31/07/2020. La Lombardia aspettava che fosse il Governo a prendersene la responsabilità: l'audio inedito sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro. “Decidete voi, se chiudere o meno”, così i vertici di Regione Lombardia al ministro Speranza lo scorso 4 marzo. Continua a tenere banco la mancata zona rossa ad Alzano e Nembro dello scorso marzo che ha portato, oggettivamente, a una crescita esponenziale della pandemia in Italia. Nella giornata del 31 luglio il Corriere della Sera pubblica un audio inedito: si tratta di una conversazione, avvenuta giorno 4 marzo, tra il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana, l’assessore al Welfare, Giulio Gallera, e il ministro della Salute, Roberto Speranza. L’incontro avviene a Milano con il governatore del Pirellone collegato in video perché in quarantena. Durante il colloquio si discute di tutto eccetto che dell’emergenza sanitaria ad Alzano e Nembro che ha, invece, priorità marginale.

L’audio inedito sulla mancata zona rossa. Come riportano Ravizza e Sarzanini sull’edizione cartacea del Corriere della Sera i vertici della Lombardia parlano con cautela di istituire una zona rossa: “(…) Loro, e un altro interlocutore non identificato, appaiono consapevoli del tempo prezioso che si è già perso, preoccupati di quanto potrà accadere. Sanno che quei due paesi possono diventare il focolaio più esteso. Ma poi, al momento di stringere, si affidano alle valutazioni del governo.

Chiedono ma non troppo. Senza insistere, e senza pretendere”. Nell’audio inedito sulla mancata zona rossa ad Alzano e Nembro emerge come, per esempio, Gallera riferisca: “Alzano e Nembro… Voi volevate fare… secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì… però là c’abbiamo il secondo focolaio… sta crescendo e là non c’è la percezione perché chi abita lì… questi continuano a uscire, vanno in giro…”. E pur consapevoli della possibilità di un grande focolaio, i vertici di Regione Lombardia rimandano la decisione sulla zona rossa al Governo Conte.

Covid, l’audio inedito sulla zona Rossa. Fontana e Gallera dissero a Speranza: «Decidete voi se chiudere». Marco Imarisio, Simona Ravizza, Fiorenza Sarzanini il 31/7/2020 su Il Corriere della Sera. La riunione del 4 marzo in cui il governatore della Lombardia e l’assessore al Welfare vedono il ministro. A Bergamo, meglio di no. Nel resto della provincia, chissà. Forse è il caso di aspettare gli effetti delle misure che abbiamo preso la settimana scorsa. Martedì 3 marzo la provincia di Bergamo supera per la prima volta la zona rossa del Lodigiano per aumento giornaliero di contagi. Eppure, quando il giorno dopo si incontrano a Milano il ministro della Salute Roberto Speranza e i vertici della Regione, rappresentati dal vicepresidente Fabrizio Sala, l’assessore al Welfare Giulio Gallera e quello al Bilancio Davide Caparini, con il governatore Attilio Fontana collegato in video perché nel frattempo è entrato in quarantena, nessuno sembra avere fretta, nessuno dimostra di comprendere quanto sia drammatica la situazione ad Alzano Lombardo, a Nembro, in tutta la Val Seriana e nel capoluogo. La riunione, fissata nel pomeriggio, riguarda temi che non hanno nulla a che fare con la diffusione ormai conclamata del contagio, e anche questo, con il senno di poi, fa riflettere. Fontana tiene una conferenza stampa mattutina per dire quali siano le priorità dell’incontro. Vuole che il governo preveda misure shock sul modello del nuovo ponte di Genova, riconoscendo alle imprese liquidità come sostegno per mancato guadagno. Chiede, sì, che l’intera Lombardia diventi zona rossa, ma solo “economicamente”. E che tutte le aziende colpite dall’attuazione delle ordinanze godano di un sostegno per mancato guadagno o per disdette facendo riferimento alla media degli ultimi tre anni fino a un massimo di 200.000 euro. E poi sostegno alle famiglie che non possono badare ai bambini dopo la chiusura delle scuole, l’auspicio di un provvedimento urgente che consenta almeno a uno dei due genitori o al genitore, in caso di famiglia monoparentale, di poter stare a casa ad accudire il proprio figlio.

Soldi, ancora soldi, tutela alle imprese, lavoro, assistenza ai bambini. Gli argomenti all’ordine del giorno sono questi. Tutte cose importanti, ma in quel momento ci sarebbe da affrontare una urgenza indifferibile. In realtà, durante l’incontro si parla anche di Alzano Lombardo e di Nembro. C’è un audio, registrato dai presenti alla riunione e rimasto finora inedito, che dà conto della conversazione sull’impennata dei contagi. E dimostra il sussiego con il quale viene affrontato il tema della chiusura dell’intera area. Sono due minuti di registrazione durante i quali Gallera, ma soprattutto Fontana, parlano con una certa cautela al ministro della necessità di istituire una zona rossa. Loro, e un altro interlocutore non identificato, appaiono consapevoli del tempo prezioso che si è già perso, preoccupati di quanto potrà accadere. Sanno che quei due paesi possono diventare il focolaio più esteso. Ma poi, al momento di stringere, si affidano alle valutazioni del governo. Chiedono ma non troppo. Senza insistere, e senza pretendere.

Speranza: Magari ci girate...

Uomo: Le slide, le giriamo tutto. Subito. Adesso...

Speranza: Diciamo, tutto quello che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero...

Gallera: È presto, poi il dato è un po’ grezzo. Questo dato qui sono i tamponi di ieri, dell’altro ieri... Peraltro ormai la gente arriva e noi la ricoveriamo perché è in situazione... poi gli fai il tampone, poi il tampone viene visto in ventiquattro, trentasei ore, torna qui in leggera... è la fotografia di due giorni fa sostanzialmente...

Speranza: Queste persone si potrebbero essere ammalate prima delle nostre misure, perché le misure le abbiamo messe in campo da una settimana...

Fontana: Dieci giorni...

Speranza: Ancora non vediamo...

Gallera: Esatto, esatto... Non vediamo, c’è solo la diffusione... Questa è l’ultima che abbiamo, questa è di ieri.

Fontana: Sentiamo la necessità che il clima di preoccupazione cresca un po’ più di quello che è stato, perché c’è molta sottovalutazione.

Gallera: Alzano e Nembro... Voi volevate fare... secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì... però là c’abbiamo il secondo focolaio... sta crescendo e là non c’è la percezione perché chi abita lì... questi continuano a uscire, vanno in giro...

Uomo: Più si annuncia, più scappa.

Gallera: Quindi bisognerebbe proprio... che ha fatto la proposta...

Speranza: Sì, sì, ci stanno ragionando... Appena rientro, provo...

Gallera: Sono due Comuni. Poi... nell’area Nord...

Uomo: Al limite potrebbe arrivare anche oltre la provincia di Lodi che ne ha 500. Quindi il focolaio è nato secondario ma potrebbe diventare il peggiore della Lombardia. Mentre con la zona rossa... qualcosina...

Gallera: Non la città, la città ancora è abbastanza... è a 40, 50... Sono i due Comuni sopra...

Speranza: Ma, sul piano dei comportamenti, qui c’è uno scatto?

Il giorno seguente, Gallera incontra i giornalisti e mette in chiaro quale sia l’atteggiamento della Regione. «Nella Bergamasca mercoledì i contagi sono leggermente diminuiti. Resta comunque una delle zone a maggior presenza di positivi, sono 423. Abbiamo chiesto al ministro Speranza quali orientamenti abbia il governo e ha detto che nella sera ci sarà la decisione definitiva sulle misure da assumere. Attendiamo le loro valutazioni e siamo pronti ad accogliere ogni misura, anche quelle più rigide, che dovesse decidere il governo». A decidere, insomma, devono essere gli altri. Ogni scelta viene dunque delegata a Roma. In Lombardia nessuno, sia pur evidenziando come ha fatto il governatore Fontana il timore che ci sia stata una sottovalutazione, vuole evidentemente prendere l’iniziativa. Né assumersi l’onere di una misura che in quei giorni appare evidentemente impopolare. O comunque troppo drastica. Ma il 4 marzo è l’ennesima giornata particolare di questa tragedia, un’altra data che nessuno potrà mai dimenticare.

Stefano Landi per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2020. «Sì, lo acquisiremo». Poche parole per una conferma, dal procuratore reggente di Bergamo Maria Cristina Rota. L' audio esclusivo del Corriere della Sera sull' incontro del 4 marzo, a Milano, tra il ministro della Salute Roberto Speranza, il vicepresidente della Regione Lombardia Fabrizio Sala, l' assessore al Welfare Giulio Gallera e quello al Bilancio Davide Caparini, con il governatore Attilio Fontana in quarantena e collegato via video, entrerà tra gli atti della maxi inchiesta sull' emergenza coronavirus nella provincia più colpita d' Europa. La Procura di Bergamo ha già gli esposti del comitato «Noi Denunceremo», le segnalazioni dell' Inail per i sanitari contagiati sul lavoro, le mail dei cittadini. L' audio è un documento ritenuto interessante dai magistrati perché racconta, senza filtri, come si siano rapportati governo e Regione nel pieno dell' emergenza. E come, anche quando il caso Bergamo era esploso da giorni - dopo la chiusura e la immediata riapertura del Pronto soccorso dell' ospedale di Alzano, del 23 febbraio - si temporeggiò sulla decisione di istituire una «zona rossa» in Valle Seriana (cosa che non venne mai fatta). Era una riunione per parlare di misure straordinarie per le aziende e le famiglie, ma il sottofondo registrato testimonia il tema di quei giorni. «Alzano e Nembro... Voi volevate fare... secondo me, l' idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì... però là c' abbiamo il secondo focolaio... sta crescendo e là non c' è la percezione perché chi abita lì... questi continuano a uscire, vanno in giro», dice Gallera. «Sì, sì, ci stanno ragionando... Appena rientro, provo...», è l' impegno che si prende il ministro. Il 4 marzo è anche il giorno in cui la questura e la prefettura di Bergamo vengono allertate: si fa la zona rossa a Nembro e Alzano. Viene consegnata una data: il 5 marzo, giovedì. Non se ne fa nulla, ma arrivano i rinforzi con 320 tra carabinieri, poliziotti, finanzieri, esercito che riceveranno l' ordine di andarsene domenica mattina, dopo che sabato notte il premier Giuseppe Conte decide per la chiusura di tutta la Lombardia. La registrazione è centrale nel capitolo sulla mancata zona rossa del libro Come nasce un' epidemia (edito da Rizzoli) scritto da Marco Imarisio, Simona Ravizza e Fiorenza Sarzanini, da ieri in libreria e in edicola con il Corriere della Sera . Non è il solo inedito. Attraverso le memorie difensive, le telefonate e gli sms viene ricostruita la domenica 23 febbraio, il giorno dei primi tre casi positivi all' ospedale di Alzano. Soprattutto, tre ore di agitazione, con il direttore generale dell' Asst Bergamo Est Francesco Locati che chiama invano l' Ats Bergamo e la Regione. Lo scrive lui nella memoria difensiva. Alle 14.30 c' è una riunione a cui partecipano anche primari e medici. È lì, senza indicazioni superiori, che viene presa la decisione di chiudere. A Regione e Ats Locati lo dice via sms, alle 14.56 e alle 14.57, è sempre la sua memoria. Da Milano viene richiamato alle 17.30: l' ospedale va riaperto.

M.Ev. per “il Messaggero”  il 7 agosto 2020. Le chiusure delle aree attaccate con violenza dal coronavirus sono arrivate con dieci giorni di ritardo. Il Comitato tecnico scientifico aveva invocato limitazioni più stringenti, per le regioni settentrionali, già il 28 febbraio. Ritorniamo a quel giorno, è un venerdì. Da più di una settimana l'Italia ha capito che il nemico non è più così lontano. Il Nord è stato travolto dall'onda del Covid a partire dal 20 febbraio, quando nel pronto soccorso di Codogno, in provincia di Lodi, viene trovato, quasi per caso, il paziente uno, in gravi condizioni a causa di una forte e misteriosa polmonite. Contemporaneamente ci sono i due contagiati di Vo' Euganeo, in Veneto, e a macchia d'olio il Sars-CoV-2 si estende a nord verso Bergamo, a ovest in Piemonte, a sud nella provincia di Piacenza. A fine febbraio si viaggia a circa 800 nuovi casi al giorno. La quiete quel venerdì è già finita, è già tempesta.

IL DOCUMENTO. Il 28 febbraio il Comitato tecnico scientifico scrive, in uno dei documenti ufficiali desecretati grazie all'iniziativa della Fondazione Einaudi: «Le Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto presentano una situazione epidemiologica complessa attesa la circolazione del virus, tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento già adottate, opportunamente riviste come segue». Il documento elenca una serie di provvedimenti aggiuntivi da prendere subito: «Chiusura di tutte le attività commerciali» in mancanza di interventi organizzativi che consentano il mantenimento della distanza di un metro; «sospensione di tutte le manifestazioni organizzate, di carattere non ordinario e di eventi in luogo pubblico e privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolte in luoghi chiusi ma aperti al pubblico (grandi eventi, cinema, teatri, discoteche e cerimonie religiose)». Ancora: stop a scuola e università. Di fatto, per le tre regioni del Nord maggiormente colpite nella fase iniziale dal contagio, il Cts chiede una serie di misure immediate, molto simili a quelle del lockdown; alla riunione del 28 febbraio partecipano il coordinatore Miozzo, il presidente dell'Iss Brusaferro, Maraglino, Locatelli, Dionisio, Coccoluto, Ricciardi, D'Amario, Ippolito. Gli interventi per fermare il contagio, soprattutto nelle aree più in crisi del Lodigiano, del Bergamasco, del Piacentino e di parte del Veneto, arriveranno però un po' alla volta. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, lascia trascorrere una decina di giorni e l'8 marzo firma il Dpcm che prevede delle limitazioni agli spostamenti in Lombardia, nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini, Pesaro-Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia. Passerà alla storia come la notte della grande fuga, dell'immagine dei tanti fuori sede che fuggono dalla Lombardia per raggiungere il Sud prima della pubblicazione del decreto. Dall'8 marzo (il lockdown ci sarà solo l'11) proibiti eventi e competizioni sportive, chiusi cinema, teatri, discoteche e sale bingo. Stop a musei e università, a negozi se non viene garantito il metro di distanza; bar e ristoranti possono lavorare dalle 6 alle 18. Se alla richiesta del Cts fosse stata data una risposta tempestiva, alcuni focolai, portatori di morte e sofferenza, sarebbero stati evitati. Alzano e Nembro, nel Bergamasco, in quei giorni stanno già diventando due dei comuni più colpiti d'Italia. Altro esempio: a fine febbraio il presidente delle Marche, Luca Ceriscioli, preoccupato per i primi casi a Pesaro, chiude le scuole, il governo reagisce irritato e minaccia di impugnare l'ordinanza. Il limbo di incertezza tra il 28 febbraio e l'8 marzo è un buco nero doloroso, pur tenendo conto del fatto che l'Italia fu il primo Paese occidentale ad affrontare il nemico sconosciuto, il Covid-19.

«ERAVAMO GLI UNICI A VOLERE QUELLE CHIUSURE PER CONVINCERE IL MINISTRO DOVEVAMO FORSE URLARE?» Stefano Landi per il “Corriere della Sera” l'1 agosto 2020. È il 4 marzo. La miccia è già accesa e la bomba sta definitivamente per esplodere. I numeri di contagi, ricoveri e decessi lievitano. Al tavolo ci sono il ministro della Salute Roberto Speranza, con tutti i vertici della Regione. C' è il governatore Attilio Fontana con l' assessore al Welfare Giulio Gallera. Si parla della possibilità di chiudere a chiave i Comuni di Alzano e Nembro come nuova zona rossa, visto il tragico progredire dell' epidemia, che in pochi giorni scavalca i numeri della zona già chiusa nel Lodigiano. Nell' audio inedito pubblicato ieri dal Corriere , Fontana e Gallera chiedono al Governo di decidere sulla zona rossa.

Gallera, perché non avete battuto i pugni sul tavolo pretendo quella decisione se vi sembrava la più urgente?

«Cosa dovevamo fare? Urlare o mettergli le mani addosso?».

Come è nato quell' incontro?

«Vista la gravità del momento ci rendiamo conto che non sarebbe bastato un confronto telefonico con il Governo. Non abbiamo mandato una mail. Abbiamo pregato Speranza di correre qui a Milano».

E lui il 4 marzo si presenta...

«Arriva intorno alle 4 del pomeriggio. Siamo al sesto piano di Palazzo Lombardia, sede della nostra unità di crisi. Gli diamo la mascherina: lui era arrivato senza. La indossa dopo essersi reso conto che noi l' abbiamo tutti. Il nostro tecnico nella task force, Vittorio Demicheli attacca con le slide».

I vostri toni non sembravano perentori.

«Gli abbiamo spiegato la drammaticità del momento che a qualcuno a Roma sembrava sfuggire. Speranza è sempre stato il più lucido, serio e corretto. Dopo un' ora e mezza, si alza, promette che si sarebbe confrontato subito con il premier e riprende l' aereo».

Voi cosa pensate?

«Pensiamo che entro sera avrebbero annunciato la zona rossa ad Alzano e Nembro. Ci sembrava avesse colto quello che gli avevamo fatto notare. Che serviva un segnale forte, perché da quelle parti la gente continuava ad uscire di casa come se niente fosse».

Invece non succede niente.

«Non subito. Però il giorno dopo arrivano i militari e due giorni dopo, il 7, la decisione di chiudere l' Italia intera. Credo che il lockdown del Paese sia nato grazie a quella riunione».

Imporre la zona rossa era impopolare. Sembra nessuno se ne volesse assumere la responsabilità.

«Il 5 marzo gli stessi sindaci della bergamasca invocano misure diverse dalla zona rossa. Altri governatori come Zaia e Bonaccini erano contrari. A Roma non l' hanno decisa. Credo che Regione Lombardia sia stata l' unica a spingere per quella soluzione. Non avevamo paura di quella responsabilità. Anche perché il giorno prima in un incontro con il presidente dell' Iss Silvio Brusaferro avevamo condiviso i rischi di quel focolaio che stava implodendo».

Tornasse indietro avrebbe forzato quella decisione?

«Ci stavamo rendendo conto che le misure del 1° marzo non bastavano. Abbiamo fatto di tutto per convincerli. Poi visto il dilagare dello tsunami, non so se quei due giorni di anticipo sul lockdown del Paese avrebbero cambiato le cose. Però in questi casi la tempestività è tutto».

Che ricordo ha di quei giorni?

«Gente che mi chiamava 24 ore su 24, le riunioni con qualcuno a cui scappavano rabbia e lacrime. Una lotta incessante, come fosse una guerra. A tratti impotente, contro un nemico che non conoscevamo».

Si dice però che lei in quei giorni non rispose alle chiamate dell' ospedale di Alzano...

«Non chiamarono me».

Dopo 5 mesi è cambiato l' umore?

«Resta la prudenza, ma se qui registriamo dati migliori che in altre zone d' Italia e soprattutto d' Europa significa che le misure che abbiamo adottato e il rispetto di chi le ha applicate hanno pagato».

Andrea Sparaciari per businessinsider.com il 28 maggio 2020. Una donna sola al comando, ma in evidente conflitto di interesse (politico). È Patrizia Baffi, la consigliera regionale di Italia Viva eletta ieri  – grazie ai voti di Lega e Forza Italia (più il suo) – alla presidenza della commissione chiamata a far luce sulle tante e macroscopiche falle della gestione dell’emergenza sanitaria da parte del duo Attilio Fontana – Giulio Gallera. Tra le tante magagne sulle quali si dovrà indagare, c’è sicuramente la famosa delibera regionale dell’8 marzo 2020 che mise i malati Covid nelle Rsa, causando una vera e propria strage di anziani. Un punto nodale della gestione della crisi pandemica di Fontana, che la Commissione dovrà vivisezionare. Il problema è che la neo-presidentessa Baffi risulta essere dipendente – in aspettativa – proprio di una Rsa, la Fondazione Opere Pie Riunite di Codogno Onlus. Il suo curriculum recita infatti: “Fino al 2001 mi sono occupata di materia societaria e riclassificazione bilanci  presso uno Studio Professionale di Dottori Commercialisti, in seguito e fino al 2018 ho lavorato presso una Residenza Sanitaria Assistenziale operando in materia amministrativa gestionale”. Ad aggravare la situazione il fatto che quell’istituto fa era finito al centro delle cronache nei mesi di massima crisi Covid, perché, come riporta “Il Giorno” del 12 maggio 2020, aveva vissuto “un periodo durissimo che ha visto 43 decessi dal 21 febbraio al 30 aprile, di cui 31 solo nel primo mese dall’inizio dell’emergenza”. Insomma, in quella Rsa il virus aveva colpito duro. Tanto che il segretario regionale della Federazione Italiana Sindacati Intercategoriali (Fisi), Gianfranco Bignamini, dichiarava alla stampa: “I decessi alla Fondazione Opere Pie sono 44, il 34% rispetto ai posti letto, che ne fanno la prima fondazione con morti in Lombardia, superiore anche al Pio Albergo Trivulzio di Milano”. Ora, sui comportamenti della Rsa di Codogno si farà luce e non sappiamo se Bignamini abbia ragione, oppure abbia ragione la dirigenza sanitaria, che il 16 aprile pubblica un comunicato stampa nel quale afferma che “ad oggi gli ospiti che sono deceduti presso la nostra struttura sono 43, di questi solo 4 sono risultati positivi al Covid-19”. Tuttavia un fatto è certo: la presidente Baffi si potrebbe trovare anche ad “indagare” sui propri datori di lavoro. Con un evidente conflitto di interessi. Naturalmente, la Commissione – dalla quale le opposizioni hanno già preso le distanze – non dovrà svolgere indagini sui singoli casi, ma avrà il compito di andare ad analizzare le decisioni della giunta Fontana. Tuttavia resta una gigantesca questione di opportunità politica: può il presidente di una Commissione tanto attesa nella regione che ha registrato oltre 16 mila morti, essere gravato di un tale ingombrante fardello? A maggior ragione se di quel fardello nessuno era a conoscenza… Perché Baffi non ha dichiarato apertamente la sua situazione? Forse sarebbe stata eletta comunque, o forse no. Di sicuro avrebbe evitato di aggiungere benzina sul fuoco delle già roventi polemiche generate dalla sua elezione arrivata nello stesso giorno nel quale tre senatori renziani davano una grossa mano a Matteo Salvini in Senato nel farsi bocciare dalla Giunta per le immunità la richiesta di autorizzazione a procedere nei suoi confronti per la vicenda Open Arms. Polemiche come quelle sollevate nella nota diramata dal Movimento 5 Stelle della Lombardia nella serata di ieri: “La vicenda della elezione del Presidente della Commissione di inchiesta evidenzia quanto fosse non idonea l’autocandidatura del collega Usuelli e della Presidente Baffi. Il primo è un medico del Servizio sanitario regionale e la secondo dipendente di una RSA (con un numero di decessi per COVID superiore a 40). Insomma figure che in un modo o nell’altro potrebbero non essere obiettivi nel relativo modo di agire. Il fatto stesso di autocandidarsi da parte di un gruppo costituito da un solo consigliere rende la cosa di per sé ridicola. Nemmeno nelle riunioni di condominio si elegge così il capo scala. Questa è la serietà con la quale si muove la Regione Lombardia con l’interpretazione faziosa di un regolamento tale per cui ogni un singolo consigliere si può autocandidare e poi farsi eleggere con i voti nella maggioranza. Senza un controllo democratico, discriminando le minoranze e facendo dell’intolleranza e dello scambio di favori il modus operandi di Regione Lombardia”. E che sicuramente continueranno oggi. Intanto, nei corridoi del Pirellone si mormora che subito dopo il voto di ieri, Baffi (che sarebbe esplosa in un irrefrenabile pianto subito dopo l’elezione) sia rimasta politicamente sola e che si moltiplichino le “pressioni” affinché rinunci al contestato mandato. Inviti provenienti anche dai suoi referenti politici di aria lodigiana, come l’onorevole Ettore Rosato, fino a ieri padrino politico di Baffi, da oggi forse un po’ meno.

Giuliana Ubbiali per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2020. Erano in 300 tra carabinieri, polizia, esercito e guardia di finanza, negli alberghi della Bergamasca. La sera del 6 marzo erano pronti per andare a sigillare Nembro e Alzano. Invece, non se ne fece nulla della zona rossa in Valle Seriana, nonostante il parere dell' Istituto superiore di sanità. Regione e Governo, chi la voleva e chi non la decise. Se n' è parlato a lungo, non senza rimpalli. Ora i carabinieri del Nas hanno consegnato alla procura di Bergamo una relazione anche sulla mancata zona rossa. Sarà Piazza Dante a decidere se, al di là della scelta politica, ci siano estremi penali. L' ondata dei contagi e dei morti di allora, con quell'immagine delle bare sui camion dell' esercito che ha fatto il giro del mondo, è superata. Ieri, i nuovi casi positivi nel giro di 24 ore erano 51, in totale 12.732. Ma sulla mancata zona rossa, tra l' altro, c' è ancora bisogno di chiarezza. Lo conferma il procuratore generale del distretto di Brescia (include anche le procure di Bergamo, Cremona), Guido Rispoli, arrivato il 25 marzo in piena bufera coronavirus. Facendo il punto delle segnalazioni dei cittadini ha riferito che sono arrivate anche relativamente a «rappresentanti del Governo nazionale e della Regione», in particolare sulla delibera dell' 8 marzo 2020 con cui si chiedeva alle Rsa di accogliere pazienti Covid «a bassa intensità» e, appunto, sulla mancata zona rossa. Ma lo scenario di segnalazioni, esposti, denunce è molto più ampio. Il procuratore generale ha fatto riferimento agli organi di gestione degli ospedali e delle Rsa, sia «sulle scelte organizzative che sulla inadeguatezza delle risorse umane e dei presidi materiali messi a disposizione per fronteggiare l' emergenza». Chiedono di indagare i parenti di chi è morto, chi si è infettato, il personale sanitario, l' Inail stesso invia le segnalazioni come infortuni sul lavoro. Lesioni colpose, omicidio colposo, epidemia sono le principali ipotesti. Non mancano i fascicoli con indagati. A Bergamo, numerosi, anche centinaia, riguardano il personale sanitario che si è infettato. Ma ci sono anche i fascicoli relativi ai decessi, anche nelle case di riposo. Massima riservatezza sull' ospedale di Alzano, chiuso e riaperto nello stesso giorno, il 23 febbraio quando iniziò ufficialmente il caso Bergamo. Rispoli parla di «esigenza di accertamento dei fatti, ineludibile in considerazione della straordinaria gravità e della pressante richiesta di fare chiarezza della popolazione». Ma mette in luce anche l' approccio: «Tenendo bene in considerazione l' assoluta particolarità della situazione ambientale nella quale i fatti si sono verificati». Non che alzi già bandiera bianca, per lo tsunami. «Ma preferisco essere prudente, oltre che rigoroso». Le difficoltà di indagare ci sono. Come «l' oggettiva impossibilità di accertare l' esatta causa delle morti» perché non vennero effettuate tutte le autopsie, l' esatta individuazione del luogo e del momento dell' infezione» e «l' assenza di linee guida sanitarie».

Coronavirus, decine di morti nella Rsa "Don Gnocchi" di Milano, i parenti chiedono il risarcimento danni. Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da La Repubblica.it Una ventina i firmatari: "La fondazione è responsabile dei decessi". A marzo all'interno dell'istituto è stato realizzato un reparto per l'assistenza a bassa intensità dei pazienti Covid. La replica: "Regole rispettate". Sono già una ventina le lettere di richiesta di risarcimento del danno in sede civile, tra quelle già inviate e quelle che stanno per partire, dei familiari di ospiti morti all'Istituto Palazzolo Don Gnocchi di Milano, la struttura per anziani al centro (assieme a un'altra ventina di Rsa tra cui il Pio Albergo Trivulzio) delle indagini della Procura sui contagi e i morti nelle case di cura. Lettere, a firma dei legali dello studio dell'avvocato Romolo Reboa, in cui si sottolinea il "nesso causale tra la responsabilità della Fondazione" e la morte del paziente. In una di queste lettere si legge che la apertura "nella seconda settimana di Marzo 2020 all'interno dell'Istituto Palazzolo di un reparto dedicato all'assistenza a bassa intensità dei pazienti Covid positivi" è "ulteriore dimostrazione dell'assenza strutturale di una corretta valutazione del Clinical Risk Management (gestione del rischio clinico, ndr)". "Tale reparto, per evidenti motivi di economicità, - si legge ancora - è stato realizzato all'interno della palazzina Generosa in luogo della palazzina esterna, così come era previsto dalla Delibera della Giunta Regionale della Lombardia, la XI / 2906 dell'8 Marzo 2020". Il Palazzolo-Don Gnocchi ha sempre ribadito che non c'è stata alcuna negligenza in relazione ai contagi. Nella lettera si legge anche che "una struttura delle dimensioni della l'Istituto Palazzolo - Fondazione Don Carlo Gnocchi, la quale svolge le proprie attività in regime di accreditamento con il Servizio Sanitario Nazionale (...) è tenuta ad avere nel proprio seno un Comitato Ospedaliero per le Infezioni Nosocomiali". Eppure, si legge, "di tale comitato non si rinviene traccia sul sito internet" della Fondazione. "Ove effettivamente tale comitato non sia presente all'interno dell'organigramma della Fondazione - continua -  si tratterebbe di una omissione gravissima, sufficiente a far presumere la responsabilità gestionale per l'infezione ospedaliera da covid19". E questo "atteso che è palese che, in una Rsa di ricovero per anziani, per questi ultimi il rischio infettivo ha conseguenze mediche sicuramente maggiori a quelle, ad esempio, di un atleta ricoverato per una lesione muscolare". Peraltro, continua, considerato che "sono deceduti per la medesima causa anche oltre 150 degenti, è evidente che, quandanche sia stato formalmente istituito il Comitato Ospedaliero per le Infezioni Nosocomiali, lo stesso non ha svolto quell'attività preventiva ad esso affidata dalla normativa, fatto di cui non è dubbio che sia civilisticamente responsabile la Fondazione Don Carlo Gnocchi".

Coronavirus, pioggia di denunce e querele contro le restrizioni. Sotto accusa governo e Regione. Dito puntato contro il restringimento della libertà e le carenze della sanità pubblica. Conte e Cirio i bersagli. Massimiliano Peggio su lastampa.it il 10 maggio 2020. A prima vista sembra quasi una rivoluzione. Una sommossa di popolo contro la dittatura dei decreti emergenziali: una «prise de la Bastille» senza forconi né barrique, ma con timbri e carte bollate. Così fioccano denunce contro i governanti per la gestione dell’epidemia Covid 19, tirando in ballo libertà calpestate e diritti costituzionali ignorati. A Torino due avvocati civilisti hanno depositato una corposa e dettagliata querela contro il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza, il presidente della Regione Alberto Cirio, l’assessore regionale alla Sanità Luigi Icardi. I reati ipotizzati vanno dall’attentato contro la costituzione dello Stato all’abuso d’ufficio, dal sequestro di persona aggravato alla violenza privata, dall’epidemia colposa all’omicidio colposo plurimo. Sotto accusa le procedure di diritto, le scelte d’emergenza imposte con atti amministrativi «mediante la coercizione con l’ausilio delle forze dell’ordine», le strategie per aggredire la diffusione del virus e soprattutto le carenze di dispositivi di protezione per gli operatori sanitari, come hanno documentato molte inchieste giornalistiche. «Innanzi tutto - spiega Maurizio Giordano che con la collega Maria Paola Demuru ha firmato la querela - si è verificata un’alterazione dell’assetto costituzionale che non può essere giustificata neppure da una situazione di emergenza». E la salute? Le vite da salvare? Come la mettiamo? «Ecco, il diritto di salute garantito dalla Costituzione - afferma il legale - è infatti il diritto “individuale” di ricevere o rifiutare cure dal sistema sanitario, mentre la salute “pubblica è un mero interesse collettivo. Nessuna parte della Costituzione consente di interpretare il diritto alla salute come diritto prevalentemente su tutti gli altri, e in ogni caso tale scelta andrebbe fatta previo bilanciamento dei diritti in gioco». Stando alla querela le forzature normative di governo e Regione hanno avuto un effetto boomerang a danno dei cittadini. «A causa di queste disposizioni incostituzionali, inutili se non addirittura controproducenti a perseguire il risultato del contenimento della diffusione del virus, hanno causato enormi danni: al tessuto economico e sociale del Paese e alla vita dei singoli cittadini». Inoltre, sostengono gli avvocati elencando atti e documenti, le strategie sanitarie «sono state adottate senza una approfondita valutazione epidemiologica. Infatti oltre la metà dei decessi sono avvenuti nelle case di riposo, gli altri in ospedale e in ambiente domestico. I contagi sono stati invece favoriti dall’assenza di un’azione tempestiva, efficace, organizzata e coordinata di sanità pubblica». Ora toccherà all’autorità giudiziaria valutare l’attendibilità delle accuse. Di certo non è l’unica denuncia. Molti altri cittadini, tra cui operai e casalinghe, si sono presentati nei giorni scorsi nelle caserme dei carabinieri e in questura per querelare il presidente Conte. Denunce, queste, ancorate per lo più al modulo fotocopia proposto dall’avvocato Edoardo Polacco, uno dei primi a dar fuoco alle polveri, incitando gli italiani alla rivoluzione giudiziaria.

Natalino Ronzitti per startmag.it il 2 maggio 2020. La pandemia causata dal Covid-19 ha creato danni incalcolabili. Ma chi li risarcisce? Chi è responsabile di aver omesso di prendere le misure necessarie a contenere il virus? Uno stuolo di avvocati e di giuristi più o meno improvvisati è al lavoro. La Cina è di regola indiziata come lo Stato responsabile e le proposte, talvolta alquanto fantasiose, non mancano. Si va dalla denuncia della dirigenza cinese alla Corte penale internazionale alla petizione volta a trovare uno Stato che intenda assumersi l’onere di iniziare un procedimento contro la Cina di fronte alla Corte internazionale di giustizia. Ma tutte queste proposte non si sono ancora consolidate in iniziative più o meno credibili. Al contrario, azioni legali sono state introdotte negli Stati Uniti da coloro che si ritengono danneggiati dalla Cina, accusandola di negligenza nel contenimento dell’epidemia o addirittura di aver condotto esperimenti senza aver preso le misure necessarie per impedire la diffusione del virus. Le class action sono state intraprese in California, Florida, Nevada e Texas. Addirittura l’attorney general del Missouri ha iniziato un procedimento legale e analoga azione è stata intrapresa (o sta per esserlo) da un altro stato della Federazione: il Mississipi. Le iniziative dei due Stati federali hanno sollevato le proteste della Cina e sono state bollate di “hooliganismo”. Procedimenti dinanzi ai tribunali contro la Cina sono stati iniziati (Francia) o sono allo studio (Regno Unito) anche in Europa. In Italia il Codacons sta raccogliendo adesioni per eventuali azioni di risarcimento danni contro la Cina di fronte ai nostri tribunali. Quali probabilità di successo possono avere azioni del genere? Scarse. Indipendentemente dal merito della questione – se cioè la Cina sia effettivamente responsabile per la propagazione del virus – esiste un principio di diritto internazionale secondo cui gli Stati esteri non possono essere convenuti in giudizio per attività pubblicistiche, connesse alla loro sovranità, quali sono quelle inerenti alla gestione della salute. Per poter convenire in giudizio la Cina occorrerebbe dimostrare che l’attività espletata a Wuhan era di natura privatistica, volta alla fabbricazione e commercializzazione di prodotti farmaceutici. Un tentativo è stato fatto in una delle class action intentate negli Stati Uniti, dove addirittura è stato chiamato in causa il partito comunista cinese e il presidente della Repubblica. Ma il partito comunista si identifica con lo Stato e il Presidente Xi Jinping, in quanto capo di stato, gode di immunità e comunque la sua azione è imputabile allo stato cinese. Sempre negli Usa sono stati presentati al Congresso progetti di legge per limitare l’immunità giurisdizionale, quantunque non abbiano probabilità di successo. Stando così le cose i tribunali interni dovrebbero dichiararsi incompetenti a giudicare la controversia. Ciò che potrebbe avvenire anche in Italia, tranne che possa essere invocata un’eccezione consolidata nella giurisprudenza italiana, secondo cui uno Stato estero può essere convenuto in giudizio anche per attività sovrane, quando queste finiscano per ledere principi inderogabili del diritto internazionale. Un’azione contro uno stato estero pone un’ulteriore difficoltà. A supporre che il tribunale si dichiarasse competente e la class action fosse accolta, come potrebbe essere materialmente eseguita la sentenza e come potrebbe essere ottenuto il risarcimento? Occorrerebbe sequestrare beni cinesi nello Stato che ha emesso la sentenza o in altro Stato che decidesse di eseguirla. Ma sul punto il diritto internazionale è ancora più restrittivo, intendendo assicurare un’adeguata tutela dei beni stranieri. Indipendentemente da azioni risarcitorie, ci sono altre vie per accertare la realtà dei fatti? La strada maestra è quella di una commissione d’inchiesta composta da esperti indipendenti. Tale commissione potrebbe operare sotto l’egida del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, oppure sotto quella del Consiglio dei diritti umani o di altro organismo internazionale. I membri della commissione dovrebbero però avere un accesso incondizionato ai luoghi e poter interloquire con le persone interessate. La proposta è stata avanzata dall’Australia, tuttavia la Cina si è subito opposta. L’Australia ha contattato vari governi occidentali, incassando il consenso degli Stati Uniti, ma non quello del Regno Unito, della Francia e della Germania. Sarebbe interessante conoscere il parere del governo italiano, a supporre che sia stato contattato. I membri Ue sono molto cauti e un rapporto del Seae (Servizio europeo per l’azione esterna), che a quanto sembra metteva in luce le effettive responsabilità, è stato tenuto riservato. La lotta contro la pandemia è di primaria importanza. Ma ciò non esclude che si possa accertare la reale situazione della sua origine. E questo indipendentemente da ogni azione risarcitoria.

Biagio Simonetta per ilsole24ore.com il 7 aprile 2020. Undici giorni. È il tempo passato, a Wuhan, fra la morte di un uomo di 61 anni per Covid19 e l’ammissione pubblica di Zhong Nanshan, epidemiologo cinese, alla tv di stato circa la diffusione di un nuovo virus. Undici giorni fatali per la Cina, e forse per il mondo intero. In quel lasso di tempo, circa 5milioni di persone hanno lasciato la capitale dell’Hubei, muovendosi verso il resto della Cina e il resto del mondo. Portando il contagio ovunque. Diventando, inconsapevolmente, diffusori di una malattia sconosciuta.

Ma andiamo con ordine. La prima vittima ufficiale da Covid19, il sessantunenne di Wuhan, muore il 9 gennaio. Nei giorni precedenti aveva frequentato il mercato alimentare della città, luogo legato a molti dei primi casi di questa pandemia. La sua morte viene annunciata dalla Commissione Sanitaria Municipale due giorni dopo (l'11 gennaio). Le autorità cinesi sono più o meno certe che queste polmoniti fossero state trasmesse da animale a uomo, e che quindi i potenziali infetti erano quelli venuti a contatto con gli animali stessi al mercato cittadino. Nessuno, però, fa trapelare un dettaglio determinante: dopo 5 giorni dalla morte del 61enne, anche la moglie della vittima ha iniziato ad avvertire gli stessi sintomi. E la donna non è mai stata al mercato d Wuhan. Un segnale chiarissimo che il virus misterioso, il nemico sconosciuto, si sta diffondendo da uomo a uomo. Sono i giorni più importanti, nella storia di questa polmonite diventata pandemia. E la Cina sceglie la strada del negazionismo. Il 14 gennaio, mentre Wuhan si appresta a diventare un inferno, l'Organizzazione Mondiale della Sanità twitta che le indagini preliminari cinesi «non hanno trovato prove chiare della trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus identificato a Wuhan». Tutto sotto controllo, insomma. E invece no. Zhong Nanshan è un epidemiologo cinese molto noto. È apprezzato per il suo lavoro durante l'epidemia di SARS, nel 2003. Tocca a lui, il 21 gennaio (48 ore prima che Xi Jinping imponga il lockdown totale) ammettere alla tv pubblica che il nuovo coronavirus si sta senza dubbio diffondendo tra gli umani. Sono passati undici giorni da quando l'uomo di 61 anni, la prima persona risultata positiva a un test, è morto per Covid19. Undici giorni che potevano cambiare tutto. Undici giorni in cui nessuno ha avvertito i residenti di Wuhan o delle aree vicine che il nuovo coronavirus stava diventando altamente contagioso. Anzi, mentre l'intero Paese si preparava a festeggiare il capodanno lunare, con milioni di persone in movimento, le autorità locali di Wuhan decisero di indire una sorta di festa: il 18 gennaio, in un sobborgo della metropoli dell'Hubei, il sindaco Zhou Xianwang invitò i cittadini al XXI banchetto di Capodanno, con decine di migliaia di persone che si riunirono in strada portando cibo da casa. Una bomba biologica, a pensarci adesso. E non è un caso che oggi di Zhou Xianwang non si parli più. Le comunicazioni ufficiali del governo cittadino sono affidate al vicensindaco, Hu Yabo. Mentre l'intera gestione dell'Hubei, per volere di Xi Jinping, è stata affidata a un braccio destro dello stesso presidente. Quando Zhou Xianwang svela al quotidiano Global Times che 5 milioni di persone hanno lasciato la sua città, scoppia il panico. La Cina e il mondo intero iniziano a chiedersi: quante di loro sono portatori del nuovo coronavirus? E quante altre persone saranno infettate a causa loro? Un recente studio condotto da ricercatori dell'Università di Southampton, in Gran Bretagna, ha stimato che se la Cina avesse agito con tre settimane di anticipo rispetto all’oramai celebre data del 23 gennaio, il numero di casi complessivi di Covid-19 si sarebbe potuto ridurre del 95%. Ma anche una sola settimana avrebbe ridotto il contagio globale del 66%. E gli 11 giorni di Wuhan avrebbero potuto cambiare il destino del mondo.

Da liberoquotidiano.it il 23 aprile 2020. Una mossa un poco sospetta, quella della Cina, che pochi minuti fa ha annunciato la donazione di altri 30 milioni di dollari all'Organizzazione mondiale per la sanità. Una donazione per gli sforzi dell'Oms a sostegno della cooperazione internazionale nella lotta al coronavirus. La decisione è stata annunciata dal portavoce del ministero degli Esteri del Dragone, Geng Shuang, e segue la prima donazione di Pechino all'Oms, pari a 20 milioni di dollari. Un fiume di denari che arriva nelle casse dell'Organizzazione poco dopo lo stop ai fondi verso l'agenzia dell'Onu deciso da Donald Trump: gli Stati Uniti erano primi in termini di contribuzione all'Oms, ma Trump ha deciso di fermare le erogazioni accusando l'Oms di aver coperto le responsabilità della Cina per l'epidemia mondiale. Accusa, per inciso, mossa da più parti contro l'Oms, ed è per questo che il tempismo della donazione cinese fa sorgere qualche sospetto in più.

Federico Rampini per “la Repubblica” il 23 aprile 2020. Lo Stato del Missouri fa causa alla Cina per negligenza e menzogne sul coronavirus. Il ministero degli Interni americano denuncia una vasta operazione della propaganda di Pechino per diffondere il panico nella popolazione americana. Xi Jinping fa arrestare diversi militanti democratici a Hong Kong, mentre il dissidente Ai Weiwei avverte che «lo stato di polizia si sta rafforzando in Cina». La tensione da guerra fredda tra le due superpotenze risale ai massimi. Si aggiunge l' elemento militare. Nel Mare della Cina meridionale si fronteggiano forze navali delle due superpotenze (per la US Navy la nave d' assalto anfibia America e l' incrociatore lanciamissili Bunker Hill), dopo episodi che hanno opposto le forze armate cinesi a navi dell' Australia e della Malesia.

La tensione coinvolge gli alleati. Il governo australiano si unisce al coro di quelli che chiedono un' inchiesta internazionale sulle responsabilità della Cina all' origine della pandemia; chiede anche un' inchiesta sul ruolo dell' Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In Brasile il governo Bolsonaro è ai ferri corti con Pechino dopo scambi di accuse roventi. L' iniziativa più clamorosa è quella del Missouri, Stato governato dai repubblicani. Vuole processare la Repubblica popolare e il partito comunista cinese, per chiedere i danni, in nome dei 230 cittadini morti di coronavirus in quella giurisdizione. Chiede anche risarcimenti per la crisi economica che impoverisce il Missouri. Il ministro della Giustizia di quello Stato, Eric Schmitt, ha presentato la denuncia al tribunale federale del Missouri accusando le autorità cinesi di numerosi reati: «Hanno ingannato il pubblico, hanno nascosto informazioni cruciali, hanno arrestato testimoni scomodi, hanno negato il contagio, hanno distrutto ricerche mediche, hanno consentito che milioni di persone fossero infettate, hanno accaparrato attrezzature mediche, hanno causato una pandemia globale che poteva essere prevenuta». L' iniziativa giudiziaria è clamorosa ma ha scarse probabilità di successo, perché uno Stato straniero è protetto dall' immunità sovrana. Si ricorda un precedente importante, i familiari di vittime dell' 11 settembre tentarono di ottenere giustizia dall' Arabia saudita per il suo ruolo a sostegno di Osama Bin Laden, ma vennero sistematicamente ostacolati dal governo federale, sia durante l' Amministrazione Bush che in quelle successive. In quanto alle richieste di un' indagine internazionale sulle responsabilità della Cina, a cui si è unita l' Australia, se avanzate in sede Onu verrebbero bloccate dallo stesso governo di Pechino che ha un seggio permanente al Consiglio di sicurezza con diritto di veto. L' influenza cinese è aumentata molto in tutte le organizzazioni internazionali, e questo è proprio uno degli argomenti di chi denuncia il comportamento dell' Oms per servilismo o complicità verso Xi Jinping.

Su un altro fronte caldo dei rapporti Washington-Pechino è il Dipartimento di Homeland Security (superministero dell' Interno che ha competenze anche sull' antiterrorismo) a rivelare che a marzo la Cina inondò gli americani con milioni di messaggi - sms o fake news sui social - per seminare il panico su un' imminente chiusura totale del paese, e l' uso delle forze armate per presidiare tutte le città Usa onde evitare disordini e saccheggi. Una sorta di prova generale per una nuova escalation nelle guerre della propaganda, disinformazione, inquinamento politico e psicologico dell' opinione pubblica in campo avverso. Xi Jinping non sembra impressionato da attacchi e denunce. A colpire l' opinione pubblica americana arriva infatti la notizia degli ultimi arresti a Hong Kong. Quasi che il leader cinese si senta più libero che mai di regolare i conti con gli avversari, nella città ribelle la polizia ha fermato e incarcerato una dozzina di attivisti democratici. Tra gli arrestati figura anche un noto politico locale, Martin Lee, fondatore del partito democratico di Hong Kong. Di fronte alla critiche internazionali il governo di Pechino ha affermato «il proprio diritto di mantenere l' ordine costituzionale a Hong Kong», sottolineando così che non si farà condizionare dallo statuto autonomo dell' isola ex colonia britannica. La questione cinese è destinata ad assumere un' importanza crescente anche nella campagna elettorale americana. Sia Trump che Joe Biden fanno a gara nell' accusare l' avversario di cedimenti e debolezze verso Pechino.

Il Missouri fa causa alla Cina: “Ha nascosto informazioni cruciali sul coronavirus”. Redazione de Il Riformista il 22 Aprile 2020. Il Missouri ha depositato una causa contro la Cina, colpevole di aver occultato delle informazioni essenziali sul coronavirus. A causa della crisi economica scatenata dal Covid-19 molte persone sono scese in strada nello stato del Midwest per manifestare contro le restrizioni. E il procuratore generale del Missouri, Eric Schmitt, nell’azione ha evidenziato in particolare i danni economici scatenati dalla pandemia. “Durante le settimane decisive dell’epidemia iniziale – si legge nel testo della causa – le autorità cinesi hanno ingannato l’opinione pubblica, occultando le informazioni cruciali, arrestato gli informatori anonimi, negato la trasmissione da uomo a uomo di fronte a prove crescenti, distrutto la ricerca medica critica, permesso a milioni di persone di essere esposte al virus e persino accumulato dispositivi di protezione individuale, causando così una pandemia globale che non era necessaria ed era prevenibile”. Il testo dell’azione legale fa riferimento a diversi articoli di giornale. E ambiguità sull’atteggiamento di Pechino erano state infatti evidenziate da un report dell’intelligence statunitense consegnato alla Casa Bianca; da un’inchiesta dell’Associated Press che aveva sottolineato come le autorità cinesi abbiano tardato nel rendere nota l’emergenza; dal Washington Post che facendo riferimento ai cablo di due diplomatici raccontava di situazioni a rischio in due laboratori di Wuhan, la città focolaio dell’epidemia. La causa cita anche Breitbart News, media di riferimento dell’ultra-destra americana. Il Missouri chiede allora un risarcimento dall’entità non meglio specificata per la perdita di vite umane, la sofferenza e gli ingenti danni economici causati dal virus. Non è la prima azione del genere: già tre cittadini di New York, secondo quanto riportato da Abc News, avevano denunciato un’azione contro l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) accusandola di collusione con la Cina nell’aver occultato la pandemia. Gli Stati Uniti sono il Paese più colpito dal Covid-19. Secondo i dati della Johns Hopkins University sono oltre 825mila i casi positivi. Il Missouri, secondo il New York Times, conta 5.941 casi, 221 vittime.

Coronavirus, gli Stati del G7 chiedono 3.200 miliardi alla Cina: il prezzo da pagare per l'epidemia. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 7 aprile 2020. Presto, prima che termini la pandemia, la Cina sarà sul banco degli imputati per rispondere della diffusione del Covid-19. Che sia chiamato a comparire presso una corte internazionale come quella dell'Aja o a difendersi davanti a un tribunale speciale come a Norimberga, il governo di Pechino dovrà affrontare una richiesta di risarcimento per 350 miliardi di sterline. A tanto ammontano i danni calcolati dalla Henry Jackson Society, un centro studi britannico, nel suo rapporto di 44 pagine dal titolo eloquente: Compensazione da Coronavirus? Stabilire la potenziale colpevolezza della Cina e le vie di un'azione legale pubblicato ieri.

CAUSA PILOTA. Si tratterebbe di una causa pilota, alla quale potrebbero fare seguito quelle relative ad altri Paesi occidentali. Il Regno Unito ha registrato finora oltre 52mila contagi, ma stando ai dati di ieri la Germania supera già i 100mila, la Francia si avvicina con 93mila, la Spagna è oltre quota 135mila e l'Italia ne conta più di 132mila, senza parlare degli Usa, in testa alla triste classifica, che hanno superato i 350mila casi. Una stima prudenziale, anche se la curva epidemiologica scendesse, porta a decuplicare la cifra. O anche a centuplicarla, visto che gli Stati del G7 per affrontare l'emergenza del Covid-19 hanno adottato misure per 4mila miliardi di dollari. Per non dire che si tratta di una tragedia umanitaria dal costo incalcolabile. Qualcuno prima o poi dovrà pagare. Si annuncia una lunga battaglia, in realtà, poiché la vicepresidente della Corte Internazionale di Giustizia è la giurista cinese Xue Hanqin, per un caso curioso docente di giurisprudenza proprio a Wuhan, il centro della pandemia. La reazione più probabile del potentissimo segretario del Partito Comunista cinese Xi Jinping è un rifiuto della giurisdizione dell'Aja. Occorrerebbe quindi trovare una strategia alternativa, che indichi una violazione dei diritti umani. Numerosi studiosi del diritto, nelle settimane scorse avevano indicato il fondamento giuridico di un'azione legale contro i responsabili di una condotta che ha provocato un enorme numero di morti e il tracollo dell'economia globale.

ACCORDI VIOLATI. Negli Stati Uniti, il ricercatore James Kraska ha preso in esame il Regolamento sanitario internazionale emanato dall'Organizzazione mondiale della Sanità, adottato nel 2005 proprio a causa della censura di Pechino, concludendo che proprio la Cina ha contravvenuto agli obblighi di comunicazione entro 24 ore agli altri Stati membri delle informazioni inerenti la Sars e malattie «provocate da un nuovo sottotipo» del virus». In realtà, a far le spese della censura imposta dietro la Grande Muraglia sono stati per primi i cinesi. È per questo motivo che è partita una campagna internazionale che punta a rinominare il morbo: non più «virus cinese», ma «virus del Partito Comunista Cinese», più preciso e offensivo solo nei confronti di chi lo merita.

Da ilgazzettino.it il 20 maggio 2020. Dopo l'Hotel De La Poste di Cortina d'Ampezzo, l'intero Distretto turistico delle Dolomiti bellunesi cita per danni il Ministero della Sanità della Repubblica popolare cinese. L'udienza si terrà il 21 dicembre 2020 dinanzi al Tribunale di Belluno. «Il Distretto ha avuto il danno più elevato nel blocco immediato di tutti i cosiddetti "progetti pilota", tra i quali la realizzazione dell'aeroporto di Cortina d'Ampezzo in previsione dell'afflusso di gente previsto per i Giochi Olimpici del 2026». È un passaggio dell'atto di citazione, a firma dell'avvocato barese Marco Vignola, con il quale si accusa il Governo cinese di «non aver tempestivamente segnalato all'Oms lo stato del diffondersi del virus e dei suoi gravi effetti letali a cavallo fra novembre e dicembre 2019, e comunque di non aver assunto i necessari provvedimenti di controllo sugli scali aereoportuali in partenza dalla Cina». Il danno del quale si chiede il ristoro riguarda il «mancato guadagno per anticipata chiusura delle intere strutture del comparto turistico, nel pieno della stagione sciistica invernale», quando le strutture avevano ormai «il tutto esaurito». «In considerazione anche dell'assegnazione a Cortina dei Mondiali di sci alpino 2021 e in previsione delle Olimpiadi invernali 2026» prosegue l'atto, erano inoltre già stati predisposti «eventi culturali e sportivi di caratura internazionale, con il conseguente investimento di ingenti risorse economiche ed organizzative della rete d'imprese». «La chiusura anticipata ed improvvisa - continua - ha portato conseguenze disastrose anche a seguito del necessario licenziamento dell'intero personale, nonché la disdetta dei contratti di fornitura, di tutte le strutture» dei 64 Comuni aderenti al distretto.

Michelangelo Borrillo per corriere.it il 20 aprile 2020. Stagione sciistica saltata e addio al tutto esaurito registrato per le finali della Coppa del mondo di sci alpino. Per questo l’«Hotel de la Poste» di Cortina d’Ampezzo della famiglia Manaigo ha citato per danni il ministero della Sanità della Repubblica popolare cinese davanti al Tribunale di Belluno, per «non aver tempestivamente segnalato all’Oms lo stato del diffondersi del virus e dei suoi gravi effetti letali a cavallo fra novembre e dicembre 2019», e «non aver assunto i necessari provvedimenti di controllo sugli scali aeroportuali in partenza dalla Cina». Nell’atto, a firma dell’avvocato barese (di nascita, ma ampezzano di adozione per i suoi trascorsi sportivi nel Bob) Marco Vignola, la Srl che gestisce l’albergo mette sotto accusa il ritardo nella diffusione di informazioni da parte della Cina sull’epidemia per i danni al turismo della nota località sciistica veneta, dove l’albergo aveva registrato il tutto esaurito in vista anche delle finali di Coppa del mondo di sci alpino, fissate dal 18 al 22 marzo 2020 ma poi annullate nell’emergenza coronavirus. «A livello giuridico — spiega l’avvocato Vignola — l’atto giudiziario va notificato in duplice copia, in italiano e cinese, anche al ministero di Grazia e Giustizia italiano, come da accordi presi tra i due Paesi. E questa è stata certamente una complicazione ulteriore dal punto di vista procedurale».

L’hotel di «Vacanze di Natale». Nella citazione si legge che il 12 marzo è stata disposta la «chiusura anticipata dell’hotel e di tutti i servizi connessi», «nel pieno della stagione sciistica invernale», con «conseguenze disastrose anche per il licenziamento dell’intero personale dell’hotel e la disdetta dei contratti di fornitura, così come avvenuto per tutte le altre strutture ricettive ampezzane». L’hotel — che è quello del film Vacanze di Natale in cui Claudio Amendola arriva in ritardo al primo appuntamento dicendo «avevo capito davanti alle poste» — chiede al Tribunale di Belluno di accertare «le gravi omissioni» del ministero cinese, che «hanno impedito allo Stato italiano una tempestiva assunzione di provvedimenti da adottare di ordine pubblico e sanitario, che sicuramente avrebbero ridotto al minimo il disagio e le conseguenze negative derivanti dal Covid-19».

Emmanuel Macron e Giuseppe Conte denunciati per le chiese chiuse: Fase 2, valanga giudiziaria? Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 4 maggio 2020. Piccola marcia indietro del governo Conte, che ha messo a punto un Protocollo di massima, relativo alla graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche. Se ne rallegra il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Gualtiero Bassetti, che annuncia «le linee di un accordo, che consentirà, nelle prossime settimane, sulla base dell' evoluzione della curva epidemiologica, di riprendere la celebrazione delle Messe con il popolo. Sono state utili le pressioni politiche, ma soprattutto le carte bollate. «Se il fornaio può consegnare pane fresco a chi glielo chiede, non si comprende per quale ragione un sacerdote non dovrebbe poter consegnare Pane Consacrato a un fedele», osserva il Centro Studi Rosario Livatino in un ricorso depositato ieri al Tar del Lazio. Chiedono, con un documento di 24 pagine, di annullare e sospendere l' efficacia di due decreti della presidenza del Consiglio dei ministri, emanati il 10 e il 26 aprile scorso, nelle parti in cui proibiscono le cerimonie religiose, con la sola esclusione dei funerali. Firmando, il premier e il ministro della Sanità hanno violato il Concordato, la Costituzione e svariate norme di diritto internazionale, sostengono i giuristi promotori della richiesta. In più è stata compressa e negata la libertà religiosa di tutti i credenti, non soltanto dei cattolici privati della Messa, ma anche dei musulmani che non possono celebrare il Ramadan e degli ebrei a cui è impedito di assistere ai servizi di Shabbat, anche se adottino le medesime precauzioni che permettono l' accesso in siti chiusi, come i supermercati o i luoghi di lavoro che riapriranno domani. Disposizioni illegittime - Che le disposizioni di Palazzo Chigi non siano valide né legittime, lo sostiene anche Christian Solinas, presidente della Regione Sardegna, dove sempre da domani, benché con divieto di assembramento e muniti di regolare mascherina, si potrà assistere alle messe cosiddette "ordinarie". «Abbiamo in armonia con il Dpcm - sottolinea Solinas - sospeso le cerimonie civili e religiose ad eccezione delle cerimonie funebri con l' esclusiva partecipazione dei congiunti». Tuttavia «a livello centrale il governo ha vietato le cerimonie ma non le funzioni religiose», poiché «esiste nell' ordinamento giuridico italiano una netta distinzione tra cerimonia, funzione e pratica religiosa». Perciò «autorizziamo nel territorio regionale lo svolgimento delle funzioni eucaristiche ordinarie. Questo significa le messe ordinarie con obbligo di distanziamento tra le persone, divieti di assembramento e contatto diretto, nonché con l' obbligo della mascherina». Sarà poi compito dei vescovi adottare «appropriate linee guida sul contingentamento degli accessi e lo scaglionamento delle funzioni in ciascuna parrocchia nell' arco della giornata». Libertà di culto - Anche in Francia il governo è sotto attacco per aver consentito le celebrazioni religiose aperte ai fedeli solo a partire dal 2 giugno. Dopo la protesta dei vescovi transalpini, si muovono 67 deputati dell' Assemblée Nationale, con un documento pubblicato integralmente su Le Figaro nel quale si ricorda che la libertà di culto resta uno dei diritti fondamentali, che l' esecutivo non può annullare. Più equilibrato l' approccio federalista tedesco, reso noto dalla cancelliera Angela Merkel il 30 aprile con le disposizioni che consentono di celebrare le messe in Germania, a determinate condizioni. Per quanto riguarda la riapertura dei luoghi di culto, i governatori dei Laender pensano di permettere «particolari feste religiose come battesimi, funerali o matrimoni, ma sempre in piccole cerchie», rispettando la distanza di 1,5 metri e regole igieniche.

DAGONEWS il 4 maggio 2020. L’assistente di un medico di New York si è spogliata a Times Square: è rimasta in topless indossando soltanto una maschera da gatto riflettente e tenendo in mano un coltello da cucina. Più che di una protesta per le condizioni di lavoro, come quelle dei medici tedeschi e dei dentisti francesi, era una performance artistica. “Ho lavorato per sei settimane e ho visto molta morte, quindi volevo mescolare arte e costumi per alleviare la mia tensione” – ha detto al “New York Post”. 

Da "it.euronews.com" il 2 maggio 2020. Nudi per protestare contro la carenza di dispostivi di protezione sanitaria. È la singolare iniziativa dei dentisti francesi, che hanno postato sui social foto senza veli, accompagnate dall'hashtag #dentistesapoil (dentisti nudi), per richiamare l'attenzione del governo. Nei video e nei post che circolano sui social i dentisti chiedono che l'esecutivo fornisca loro delle mascherine prima della riapertura degli studi prevista per l'11 maggio. Julie Zerbib-Martin è la dentista che ha fatto partire la protesta assieme a due colleghe: "Purtroppo - dice - non abbiamo abbastanza dispositivi di protezione per tornare al lavoro". Posare nudi è una metafora dell'essere costretti a lavorare "in una situazione di vulnerabilità con i nostri pazienti". Le foto sono diventate rapidamente virali quando il dentista Thierry Meyer le ha raccolte in un album su Facebook e un altro dentista, Thierry Desaules, ha postato un video su YouTube. Stando a Zerbib-Martin, sono più di 175 i dentisti che finora hanno partecipato all'iniziativa. I dentisti, per ragioni facilmente intuibili, sono tra le categorie più esposte al contagio da coronavirus. Emmanuel Fougère è un dentista che ha lavorato come assistente sanitario in un'unità di terapia intensiva per aiutare durante la pandemia. La foto "au naturel" postata nel suo profilo Facebook è stata scattata poco prima che iniziasse il suo turno nel reparto di terapia intensiva. "Poi - si legge nel suo post - mi sono vestito con tutto il necessario: pantaloni, camicia, cappuccio, grembiule, scarpe, visiera, doppio paio di guanti e mascherina FFP2: tutto quello di cui abbiamo davvero bisogno". Le gemelle Catherine e Nathalie Gros hanno postato una loro foto in ufficio su Instagram, condannando la mancanza di attrezzature per i dentisti. Il ministero della salute francese ha detto che fornirà 150mila mascherine ai dentisti prima della revoca delle restrizioni dell'11 maggio, ma i dentisti sostengono che non è una quantità sufficiente (sarebbero circa 3 per ogni dentista). Zerbib-Martin ha sottolineato anche l'aumento del costo delle mascherine e il fatto che non al momento non possano essere ordinate attraverso i fornitori abituali. "Non lavoriamo da un mese e mezzo e non potremo più vedere tanti pazienti come prima - dice Zerbib-Martin - abbiamo dato via i nostri materiali agli ospedali all'inizio della crisi in segno di solidarietà. Ora non ci è rimasto più nulla".

Da “huffingtonpost.it” il 2 maggio 2020. Sono stati lasciati “nudi” contro il Coronavirus. E dunque i medici di base si sono spogliati davvero, in Germania, per sollevare l’attenzione sulla mancanza di mascherine, tute, guanti e materiale protettivo, con cui stanno facendo i conti da settimane, in piena emergenza coronavirus. Le immagini dei medici svestiti sono state pubblicate sul sito web di protesta blankebedenken.org (“nude preoccupazioni”). “Per curarti in sicurezza, noi e i nostri team abbiamo bisogno di attrezzature protettive”, afferma la campagna sul suo sito web. “La nudità deve simbolizzare che noi senza protezione siamo vulnerabili”, spiega Ruben Bernau alla rivista specializzata “Aerzte Zeitung”. È lui stesso poi a denunciare di essere ancora sprovvisto del necessario equipaggiamento contro il contagio, insieme al suo team. La campagna trae ispirazione dall’azione di un medico francese, Alain Colombiè, che si è fatto fotografare nudo nel suo studio medico, sotto la scritta “carne da macello”. Le foto dei medici nudi sono rimbalzate adesso anche sulla Bild on line. La Germania ha finora retto molto bene di fronte alla prova del Coronavirus: rispetto all’alto numero dei casi di contagio registrati, il bilancio delle vittime è di gran lunga inferiore a quello di altri paesi colpiti dal virus (stando a dati della Hopkins University di oggi, si contano 157.770 contagi e 5.750 morti). Qualche giorno fa il ministro della Salute Jens Spahn ha affermato come il virus fosse “sotto controllo”, e che il sistema sanitario - dotato di 20 mila posti di terapia intensiva, già prima della pandemia, e da settimane in azione per raddoppiare questa cifra - non sia “mai stato sotto stress”. A sentire le testimonianze di tanti medici, anche a Berlino, la forza del sistema tedesco non è riuscita però a garantire la necessaria protezione ai sanitari attivi sul territorio. Anche reperire le mascherine è stato molto difficile a lungo. Oggi ne è arrivato un carico di 10 milioni dalla Cina: l’arrivo a bordo di un aereo della Bundeswehr a Lipsia ha avuto molta risonanza mediatica.

Leonardo Martinelli per lastampa.it il 9 aprile 2020. Claire vive un misto di ansia e dolore. Ma è anche una donna arrabbiata. Suo marito, Eric Loupiac, medico d’urgenza all’ospedale di Lons-le-Saunier, nel Jura francese, non lontano dal confine con la Svizzera, sta combattendo in rianimazione la sua battaglia contro la morte. «L’ho sentito al telefono l’ultima volta a metà marzo – racconta sua moglie -. Ha preso il coronavirus al pronto soccorso, ricevendo una signora, che poi si è rivelata positiva. Lui aveva una mascherina chirurgica, già utilizzata da tempo. E niente più». Eric era stato uno dei «volti» dell’associazione degli «urgentisti» di Francia, che nei mesi prima dell’epidemia aveva denunciato i tagli agli ospedali pubblici. Oggi Claire promette di «fare causa contro lo Stato e gli ultimi due ministri della Sanità». Lo hanno già fatto più di 600 medici o i loro familiari («Era tutto prevedibile, lo avevamo visto quello che succedeva in Italia, bisognava ordinare subito più mascherine e materiale sanitario», insiste Claire Loupiac). È in un contesto strano, tra annunci a ripetizione del Governo (i francesi sono così fieri della loro potente macchina organizzativa pubblica) e le polemiche sull’impreparazione iniziale che il Paese sta diventando uno dei grandi malati europei di Covid-19. Ieri sera, inesorabile, è caduto l’ennesimo bollettino: finora i decessi dovuti all’epidemia sono stati 10.869, ormai la Francia è dietro solo a Italia e Spagna nel Vecchio continente. Nelle ultime 24 ore negli ospedali sono morte di coronavirus 541 persone (poco meno dei 597 del giorno precedente). Ma a questi vanno aggiunte le vittime nei ricoveri per anziani, che per la giornata di mercoledì non erano disponibili per «ragioni tecniche», ha indicato il ministero della Sanità. Fino a martedì sera le morti nelle Rsa ammontavano già a 3.237. Insomma, quel bollettino di 541 decessi per l’ultimo giorno non è esaustivo. Intanto ieri le nuove ammissioni in rianimazione sono state 482, solo in lieve calo rispetto a martedì. La Francia procede a qualche giorno di distanza dietro i due grandi Paesi vicini. Ha avuto il tempo di riparare ai suoi ritardi, ma soltanto in parte. Ha ordinato due miliardi di mascherine in Cina e organizzato un ponte aereo per importarle progressivamente, ma mancano ancora negli ospedali. Pure per i test, è stato annunciato un formidabile aumento della produzione sul territorio nazionale, ma siamo ancora a 30mila al giorno (saranno 50mila solo a fine mese). Ieri, perfino nella portaerei Charles-de-Gaulle, in navigazione nell’Atlantico, sono stati segnalati una quarantina di casi sospetti, messi subito in isolamento. In Francia il coronavirus ha colpito duramente agli inizi nell’Est, in particolare in Alsazia, ma oggi la situazione più critica si registra a Parigi e nella sua regione, soprattutto nella periferia Nord, dove la popolazione è più giovane ma anche più povera. Emmanuel Macron parlerà nuovamente in diretta in televisione lunedì per annunciare il prolungamento del confinamento, al momento attuale previsto a livello nazionale fino al 15 aprile. I francesi sono preoccupati per i riflessi economici dell’epidemia. Ieri sono stati resi i dati relativi al primo trimestre dell’anno: il Pil è calato del 6%. Già aveva registrato una flessione dell’1 per cento negli ultimi tre mesi dell’anno scorso. Sì, il Paese è tecnicamente in recessione. E non finirà qui.

L'infettivologo Galli sul caso della Iena Politi: “I protocolli per la quarantena sono farlocchi”. Le Iene News il 30 aprile 2020. Massimo Galli, infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano e una delle più importanti autorità italiane in materia, ha detto in tv: “La vicenda di Alessandro Politi dice che le indicazioni attuali sulla quarantena sono farlocche. Il protocollo non è più attuale”. La Iena oggi, 49 giorni dopo primi sintomi e tampone, è finalmente negativo al Covid-19. Ripetiamo la domanda dell’ultimo servizio: qualcuno potrà essere ritenuto responsabile di non aver aggiornato quei protocolli? I protocolli per la quarantena da Covid? “Farlocchi”. Parola dell’autorevole infettivologo del Sacco di Milano Massimo Galli, intervenuto durante la trasmissione tv “Sono le Venti”, ai microfoni di Peter Gomez. Una sentenza lapidaria la sua, che non fa che confermare i dubbi che da settimane avanziamo anche noi, dopo avervi fatto conoscere la storia del nostro collega Alessandro Politi, che potete vedere qui. Alessandro, finalmente negativo ma dopo ben 49 giorni dal tampone e dall’inizio dei sintomi, dimostra che qualcosa non torna nelle indicazioni ufficiali dei protocolli per la quarantena. L’infettivologo Massimo Galli, parlando anche del caso della Iena, non ha dubbi: “Questo è uno dei problemi ovvi che dobbiamo affrontare se vogliamo riaprire, perché questa indicazione dei 14 giorni di quarantena mi verrebbe da dire che è un’indicazione farlocca. Come si fa allo stato attuale delle conoscenze a dire a una persona che può uscire dopo 14 giorni non ha avuto sintomi? Il protocollo non è più attuale. Le indicazioni sono state fatte inizialmente dall’Oms e in conseguenza i vari comitati presenti in questo Paese, sulla base degli elementi di conoscenza che man mano c’erano. Ma questa ormai è diventata una soluzione francamente non più di garanzia. Abbiamo valutato oggi i risultati di un questionario che si chiama Epi-Covid e da lì deriva che almeno il 6% dei pazienti con tampone positivo che non sono stati ricoverati in ospedale sono completamente asintomatici. Questo è certamente un numero sottodimensionato rispetto al vero. Quindi abbiamo un grandissimo bisogno dei test”. Seguendo la storia di Alessandro Politi, negativizzatosi dopo ben 49 giorni, abbiamo capito che il tempo necessario per liberarsi dal Covid-19 ed evitare di diffondere il contagio, può essere ben più lungo dell’ordinaria quarantena. Un tempo ben più lungo di quei 14 giorni dagli ultimi sintomi che gli stessi medici avevano indicato anche a Valentina, la fidanzata di Alessandro Politi, che ha avuto gli stessi sintomi della Iena ma che non ha potuto fare un tampone nonostante sia stata un contatto stretto di un malato di Covid-19, come potete vedere qui sopra anche nell’ultimo servizio di martedì scorso. E la cosa ancora più strana, oltre all’indicazione di potersi ritenere guarita e in grado di poter uscire dopo la quarantena dei 14 giorni, è stata che, come sostenuto dall’Agenzia di tutela della salute della Lombardia, nessuno sapesse che lei convive con un malato. Eppure l’Ats ha in carico tutti i casi di Covid-19: possibile che abbiano due liste, una con i malati e una con le persone in quarantena, che però non comunicano tra di loro? Se le cose stanno così, ci chiediamo anche: come fanno a fare la mappatura dei contagi? E quante persone infette possono uscire e inconsapevolmente infettarne altre? Ancora un’ultima domanda: chi dovrebbe aggiornare il protocollo ma non lo fa potrebbe essere considerato responsabile di un fatto colposo? È quello su cui lavorano nello studio legale Romanucci&Blandin di Chicago, negli Stati Uniti. “Il nostro studio sta investigando per conto di quelle persone a cui è stato detto di non essere infetti quando invece potrebbero esserlo”, ci dice il socio dello studio Antonio Romanucci. “Stiamo pensando sia a cause individuali che a class action”. In Italia le class action sono molto più complicate, ma cosa si potrebbe fare? “Non rivedere queste linee guida potrebbe essere un fatto colposo”, ci dice il professor Federico Tedeschini dell’università La Sapienza di Roma. “Un fatto colposo produttivo di responsabilità in capo alle amministrazioni che lo applicano a coloro che ne subiscono dei danni”. Nel frattempo, mentre il Codacons sta già lavorando a un maxi esposto, le parole dell’infettivologo Massimo Galli non fanno che confermare i nostri dubbi. Dubbi che, come abbiamo visto, emergono dalla cronaca quotidiana, che ci riporta anche il caso dell'attaccante juventino Dybala, ancora positivo dal 21 marzo, dopo 4 tamponi. Un caso che, secondo alcuni esperti, confermerebbe l'ipotesi che nei più giovani e asintomatici il Covid possa essere meno letale ma resistere più a lungo, anche fino a 50 giorni. Noi di Iene.it abbiamo raccolto anche le storie di Massimo e Fausto, entrambi positivi dopo 45 giorni.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 4 aprile 2020. «Cessate d' uccidere i morti, non gridate più». I versi di Ungaretti accompagnano, sul sito dell' ordine professionale, «l' elenco dei medici caduti nel corso dell' epidemia di covid-19». Ogni sera viene aggiornato: nome, specializzazione, città. Ieri il conto degli operatori sanitari morti ha raggiunto quota 100: 77 medici e 23 infermieri). I contagiati sono quasi 11 mila, ma il dato è sottostimato per la scarsità di tamponi. Nelle ultime tre settimane muoiono in media tre medici al giorno. Due terzi sono lombardi. Nelle province di Bergamo e Brescia si è arrivati a punte del 20-25% dei medici di famiglia contagiati contemporaneamente. Sono settimane che ordini e sindacati dei medici lamentano «la sconcertante mancanza di dispositivi di protezione individuale» e l' assenza di uno screening di massa. Agli allarmi inascoltati sono seguite le diffide formali. Il passo successivo, quando l' emergenza sarà superata, saranno le iniziative legali. Esposti penali e azioni di risarcimento civili di massa, che configureranno una dolente class action della categoria che ha garantito la tenuta di un sistema sanitario per altri versi collassato. Tutto parte dalla Lombardia dopo che il 4 marzo la Regione invia kit di protezione con 10 mascherine chirurgiche usa e getta, 1 camice monouso, una scatola di guanti usa e getta e un flacone da un quarto di litro di amuchina. Materiale sufficiente per qualche giorno al massimo e in ogni caso inadeguato (le mascherine chirurgiche proteggono l' interlocutore, non chi le indossa). Fallite le richieste informali, il 16 marzo Paola Pedrini, medico a Bergamo e segretaria lombarda del sindacato Fimmg, invia a ministero della Salute, Regione, aziende sanitarie, prefetti e le Procure una diffida formale redatta da un pool di avvocati specializzati in diritto sanitario. Il documento accusa di «non aver predisposto alcun piano dei rischi, alcuna sorveglianza sanitaria all' accesso agli ospedali e alcun protocollo di sicurezza per l' acquisto di dispositivi di protezione idonei a scongiurare la propagazione del rischio biologico attraverso i suoi sanitari», nonché di non aver inviato ai medici di base «alcun protocollo o elenco di dispositivi medici idonei a proteggerli dal rischio». La diffida ripercorre le segnalazioni di rischio rimaste inascoltate (a parte l' invio di «risibili quantità di mascherine chirurgiche monouso») e argomenta che «tali mancanze hanno fatto in modo che i medici si trovassero ad affrontare un rischio catastrofico senza misure di sicurezza adeguate». Infine diffida le autorità entro 72 ore a dotare i medici di kit di protezione adeguati e a sottoporli a tampone, «ritenendo fin da ora i destinatari responsabili dei danni» che il loro «comportamento omissivo ha prodotto». Il preludio delle future cause civili. Risposte? L' indomani arriva un nuovo kit, considerato dai medici «tutt' altro che soddisfacente»: 20 mascherine tra cui alcune filtranti, 1 pacco di guanti e un bidone di rifiuti. Solo negli ultimi giorni la Regione ha cominciato a fare i tamponi agli operatori sanitari. La linea dei medici è che «adesso è il momento della cura e del dolore, poi valuteremo come procedere dal punto di vista legale». Diverse le opzioni, sia penali (soprattutto per le morti) che civili, «perché le violazioni delle leggi sulla sicurezza e sul rischio biologico sono diverse e palesi. Prevedo tantissime richieste di risarcimento», spiega l' avvocato Paola Ferrari che segue il dossier.

Da video.lastampa.it il 23 aprile 2020. «Non so se ci sono stati errori, ma mi auguro che prima di partire con le accuse si abbia una buona conoscenza dei fatti. Sono un po' preoccupata perché credo che delle persone che, come me una quindicina di anni fa, facevano il loro lavoro in laboratorio o in ospedale, possano trovarsi nell'occhio di un ciclone pur avendo operato in assoluta buona fede. Prego in una giustizia che sia più solida anche dal punto di vista scientifico». Così la virologa Ilaria Capua, ospite a DiMartedì su La7, ha risposto all'invito a commentare le indagini aperte sulla gestione dell'emergenza dovuta al coronavirus.

Coronavirus, la Giustizia in Italia è sempre un po’ politica. Toni Capuozzo il 19/04/2020 su Notizie.it.  La lettura giudiziaria della pandemia in Italia sarà pandemica, se ogni famiglia dei medici o infermieri deceduti farà causa al Servizio Sanitario, se lo farà ogni famigliare di vittima del Coronavirus. Un po’ in ritardo, ma la Protezione Civile si è accorta che snocciolare ogni giorno numeri dopo numeri rischia di generare ansietà e non illumina su trend di contagi, decessi e guarigioni che appaiono più chiari se letti a cadenza settimanale. Ma i numeri restano importanti, e hanno un’anima e un senso. Prendete quelli resi noti il 18 aprile per la provincia di Bergamo, e cioè un pezzo d’Italia trai più colpiti e nello stesso tempo un campione non così grande da perdercisi dentro. Gli abitanti della provincia di Bergamo sono un milione cento e ottomila. Tra coloro che sono stati contagiato dal Covid 19 – o almeno quelli il cui contagio è emerso ai dati ufficiali – l’età media è stata di 64,6 anni. Tra coloro che sono deceduti l’età media è stata di 76,5 anni. A confermare la fragilità della popolazione anziana il fatto che 3429 contagiati avevano più di 75 anni. Seguiti da vicino dalla fascia d’età tra i 50 e i 64 anni, con 3047 casi. Ci sono stati però anche 60 minorenni positivi, e 22 tra loro erano neonati. Nell’alluvione di voci su Covid 19 sono corse due affermazioni: che le donne sono meno colpite e che gli immigrati non ne sono colpiti. Gli uomini costituiscono il 58,6% dei contagiati, le donne il 41,3%. Però se andiamo a vedere le vittime, le donne sono il 33%, gli uomini il 66%: come se le donne reagissero meglio. Quanto agli immigrati, nella provincia si sono rivelati positivi 60 albanesi, 57 rumeni, 47 marocchini, 33 boliviani. Il mondo intero, senza però, è vero, immigrati dell’Africa subsahariana, ma qui bisogna chiedersi se l’assenza di dati sia davvero assenza di contagi. Quanto al numero dei decessi – molti insistono che i morti su base annua per polmoniti e influenze varie sono più o meno gli stessi, solo con una minor concentrazione temporale – i numeri della provincia di Brescia (1 milione 264 mila abitanti) sono eloquenti: dal 16 al 31 marzo in provincia nel 2019 ci furono 99 decessi. Nel 2020 nello stesso periodo 711: un aumento del 618%. Infine un ultima serie di numeri. Sappiamo tutti della valanga di inchieste giudiziarie sulla questione delle morti nelle RSA. Giusto, se ci sono stati errori, è doveroso perseguirli. Però dobbiamo ricordare che in Francia il 7 aprile (ultimo dato da me rintracciato) su 10.328 morti, 3237 sono avvenute in Hepad, la case per anziani. Oggi i decessi in Francia sono in totale 19.323. Se la proporzione tra totale e decessi negli ospizi fosse rimasta la stessa, sono quasi 6000 morti. In Spagna su 20.639 decessi, quasi 6000 sono avvenuti nelle case per anziani. In Canada su 1470 vittime, la metà è stata registrata nelle residenze per anziani. Cosa vuol dire? Tutti colpevoli nessun colpevole ? No, vuol dire che la lettura giudiziaria della pandemia in Italia sarà pandemica, se ogni famiglia dei cento e passa medici farà causa al Servizio Sanitario, se lo farà ogni famiglia di ogni infermiere deceduto, e se lo farà ogni famigliare di vittima del Covid 19. Ma la Giustizia, in Italia è sempre un po’ politica, e che la politica continui nelle aule di tribunale è avvilente. Vi ricordate il terremoto dell’Abruzzo? Ci fu un lungo processo a sei scienziati della Commissione Grandi Rischi che faceva capo a Palazzo Chigi, dove allora stava Berlusconi. Avevano minimizzato lo sciame sismico che aveva preceduto il terremoto. Li assolse la Cassazione, che però condannò il vice di Bertolaso, De Bernardinis, perché in un’intervista televisiva, e dunque fuori da un inevitabilmente aleatorio dibattito scientifico sulle previsioni, aveva detto che «non c’era pericolo». Una dichiarazione «negligente e imprudente», che finì per rassicurare ingannevolmente gli abitanti dell’area colpita, secondo i giudici. Ora ricorderete quello che il premier Conte, ospite della Gruber, il 27 gennaio 2020, ebbe a dire, rassicurante, sulla minaccia del virus, allora solo cinese: «Siamo prontissimi, continuiamo costantemente ad aggiornarci con il Ministro Speranza. L’Italia in questo momento è il Paese che ha adottato misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri, ancora più incisive. Abbiamo adottato tutti i protocolli di prevenzione possibili e immaginabili». Come si andata, questo lo sapete.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera” l'8 maggio 2020. Questa è la storia di un reparto «pulito». Il reparto dei «salvati». Per due mesi ha resistito mentre tutt' intorno il Covid-19 devastava il Pio Albergo Trivulzio (203 morti tra marzo e aprile). È anche la storia degli infermieri che si sono portati le mascherine da casa. Dall' interno del «Grossoni», reparto a contagio (quasi) zero, però hanno visto tutto. Anziani con i sintomi del coronavirus, curati senza le necessarie protezioni e poi morti, ma senza accertamenti. E poi gli spostamenti «pericolosi», andati avanti fino al 22 aprile. Arriva a quella data la cronaca delle dieci settimane più drammatiche nella storia recente del Trivulzio, che il Corriere può ricostruire grazie a una denuncia appena depositata (la prima da parte del personale, curata dagli avvocati Luca Santamaria e Luigi Santangelo, che seguono anche il «Comitato giustizia e verità per le vittime del Trivulzio»). Il documento è nell' inchiesta già aperta sul Pat. Fine febbraio. Al «Grossoni» (pazienti cardiologici) segnalano il primo caso sospetto di Covid. Viene isolato in una stanza singola. A marzo arrivano altri pazienti: sono i giorni della grande emergenza, in cui la Regione limita i tamponi solo alle persone con sintomi che vanno in ospedale. Così, al Pat, i pazienti a rischio restano tra i padiglioni senza diagnosi (e presumibilmente diffondono il virus). Due di quelli che entrano al «Grossoni» moriranno anche, come «casi sospetti». Ventisei febbraio. Il paziente C., malato di polmonite, finisce nella «stanza isolata». Non può uscire. «Non si indicano però protezioni», dice la denuncia. Dopo qualche giorno, si aggrava. Il 10 marzo muore. Crisi respiratoria. Così viene rubricato: senza tampone. Il giorno dopo, 11 marzo, la stessa stanza viene assegnata al paziente Z. Al ricovero, non ha sintomi, ma presto si ammala. Febbre alta. Crisi respiratorie. Il 30 marzo, anche il paziente Z. muore. Su questi anziani, nonostante i sintomi compatibili, la presenza del Covid resta ignota. Forse, come altri, hanno diffuso il virus in modo non controllato. È uno dei punti nevralgici per spiegare la strage nelle Rsa. Assenza di diagnosi precoci, pochi isolamenti, spostamenti frequenti tra reparti. Le cartelle cliniche dei pazienti C. e Z. sono state sequestrate dalla Finanza. Nelle prime settimane di marzo, gli infermieri del «Grossoni» sono sempre più preoccupati. Hanno tre anziani con la polmonite. E sono «sprovvisti» di protezioni adeguate (è il momento in cui mancano anche negli ospedali). Gli infermieri iniziano a recuperare mascherine in proprio e le indossano. Il 14 marzo (quando in Lombardia si registrano già 5.630 ricoveri e 966 decessi per coronavirus) avviene un alterco che potrebbe avere un peso decisivo nell' inchiesta. Nella denuncia è ricostruito nei dettagli. La dottoressa V. (della dirigenza) arriva al «Grossoni» e ribadisce che «non è necessario indossare le mascherine». A un' infermiera che ha la sua, spiega che non va usata: «Per non creare scompiglio tra i degenti». Le protezioni (anche alcuni ordini del Trivulzio sono stati «requisiti» dalla Protezione civile) vengono distribuite il 20 marzo. Al «Grossoni» le fanno indossare anche ad alcuni degenti, pur senza indicazioni in tal senso. Gli infermieri, in accordo coi medici del reparto, il 10 marzo iniziano a dare i pasti nelle stanze per evitare affollamenti nella sala comune. Quando la notizia arriva alla dirigenza, spiega la denuncia, la dottoressa V. richiama il personale e fa ripristinare il servizio nel salone (si riusciranno a mantenere cena e colazione in camera). Il «Grossoni» rimarrà «pulito» anche perché infermieri e medici hanno usato precauzioni di propria iniziativa «senza mai attendere disposizioni, anzi spesso contro le indicazioni della dirigenza». Il frequente spostamento di pazienti e personale ha avuto un peso primario nella diffusione del virus nelle Rsa. Per coprire i turni, l' infermiera C., a inizio aprile, viene spostata dal «Grossoni» al «Sant' Andrea» (un reparto «sporco»). Pochi giorni dopo, si ammala. Va in pronto soccorso. Tampone «positivo». Il Trivulzio (e qui si tratta ancora di direttive regionali) riceve i primi tamponi il 16 aprile. Sta ora riorganizzando i reparti per separare «positivi» e «negativi». Gli spostamenti però iniziano immediatamente, prima ancora del secondo tampone di conferma. Il 22 aprile, al «Grossoni» vengono inseriti cinque «negativi». Infermieri e medici sistemano i nuovi arrivati in stanze lontane. Hanno ragione a essere sospettosi: 6 giorni dopo, il 28 aprile, la paziente C., risulta «positiva». E d' urgenza viene rimandata indietro.

Milano, al Trivulzio assenteismo e approssimazione nei giorni del Covid. La commissione d'inchiesta sulle morti nella casa di riposo ha consegnato la sua relazione: scarse le protezioni per gli operatori, ritardi negli interventi. Giulio Bonotti il 9 luglio 2020 su La Repubblica. Una relazione che riscontra delle criticità, a partire dalle molte assenze dei lavoratori solo in minima parte attribuibili ai contagi da Covid-19. E dalla carenza di mascherine e dispositivi di protezione. Ma che, alla fine, sembrerebbe non condannare del tutto la gestione dell'epidemia all'interno della Rsa, che secondo i commissari - tra cui i magistrati Gherardo Colombo (incaricato dal Comune) e Giovanni Canzio (numero uno dell'anticorruzione regionale, nominato dal Pirellone - non ha avuto esiti diversi o peggiori rispetto a quelli delle altre case di riposo lombarde colpite dalla pandemia. Sono i primi esiti del lavoro della commissione d'inchiesta dell'Ats di Milano sull'operato del Pio Albergo Trivulzio durante la pandemia da Covid-19 che nella struttura ha provocato, tra sedi centrali e decentrate, 300 decessi. Secondo la relazione, tra le criticità le numerose assenze del personale: al 21 febbraio, il giorno dopo la diagnosi del primo caso a Codogno, solo il 9 per cento del personale risultava assente per motivi legati ufficialmente al Covid-19. Nonostante questo, però, in malattia c'erano molti più lavoratori, tanto da far scendere a 265 i presenti complessivi. Dall'altro lato, però, nella relazione si critica la scarsa applicazione di misure a tutela della sicurezza dei lavoratori, a partire dalla scarsità di tamponi effettuati. Per quanto riguarda la carenza di mascherine e presidi di protezione, è vero che erano pochi e quindi poco diffusi all'interno della Rsa. Ma è anche vero che in quelle settimane la carenza era generalizzata in tutta Italia per i problemi di approvvigionamento, tanto che il Pat, la casa di riposo più famosa d'Italia, dovrà attendere il 23 marzo e la prima fornitura da parte della Protezione civile per poterle avere. La relazione suggerisce anche una riorganizzazione interna della struttura, per evitare che i problemi si possano ripetere. Il documento sarà ufficialmente presentato oggi in Regione Lombardia durante una conferenza stampa, ma è stato consegnato al Pirellone, al Comune e alla procura della Repubblica, dove è aperta un'indagine per epidemia e omicidio colposi.

Il rapporto. Coronavirus a Milano, al Pio Albergo Trivulzio «assenti 2 dipendenti su 3». La relazione conclusiva della Commissione regionale sulla gestione dell’emergenza: poche protezioni, ritardi, «elevato tasso di assenteismo del personale» e scarsi tamponi eseguiti sui lavoratori. Giuseppe Guastella e Simona Ravizza il 9 luglio 2020 su Il Corriere Della Sera. Mentre la pandemia mieteva vittime tra gli anziani, il 65% dei quasi 900 operatori del Pio Albergo Trivulzio non era al posto di lavoro per malattia o in permesso. «Un livello così elevato di assenze difficilmente trova spiegazione nella diffusione del contagio tra gli operatori» da Covid-19 scrive la Commissione regionale sulla gestione dell’emergenza nel Pat nella relazione conclusiva che segnala altre criticità, come la scarsità di dispositivi di protezione individuale e la carenza nell’applicazione delle misure di sicurezza per i lavoratori. Tra i dati positivi, se così si può dire, la mortalità inferiore alla media tra gli ospiti.

Riunioni e audizioni. Istituita l’8 aprile per «accertare l’entità di quanto accaduto e analizzare le procedure adottate sin dalle fasi iniziali del contagio», la Commissione ha concluso il suo lavoro (23 riunioni, 16 audizioni e 1.400 documenti esaminati). I risultati sono stati trasmessi anche alla Procura di Milano che ha in corso un’inchiesta sul Pat e su altre Rsa. La premessa è che ci si è trovati di fronte a uno «straordinario fenomeno pandemico» in cui la Lombardia è stata la prima regione dell’Occidente ad essere coinvolta. Con oltre mille posti letto complessivi, centinaia di prestazioni ambulatoriali e riabilitative al giorno, il Pat ha inizialmente affrontato l’emergenza con grandi difficoltà, come altre strutture simili. Le prime misure per il distanziamento sociale sono del 23 febbraio, quando vengono limitati gli accessi dei visitatori, che saranno vietati solo il 10 marzo. Cinque giorni prima il documento di valutazione del rischio biologico prevedeva già igienizzante per mani in ogni reparto, ma mascherine ffp2 solo per il personale considerato a rischio per le proprie condizioni di salute e non per il lavoro che svolge. Solo il 22 marzo, in pieno lockdown, viene fatto riferimento ai rischi di contagio a causa del droplet e bisogna attendere il 22 aprile per le prime prescrizioni di sistemi antivirus per altre parti del corpo. Ma quello dell’approvvigionamento dei dispositivi di protezione, ricorda la commissione, è stato un problema comune. Il Pat, che aveva scorte di mascherine sufficienti solo «in una situazione ordinaria», deve attendere il 23 marzo per la prima fornitura della Protezione civile. «Non si sono reperiti riscontri circa gli asseriti ordini impartiti a taluni operatori di non indossare i dpi», annotano i commissari in relazione alle denunce circolate.

L’assenteismo. La relazione affronta diffusamente la questione assenteismo. Al 21 febbraio «solo il 9%» dei lavoratori «è assente per infortunio da contagio da Covid». Il resto è a casa per altri motivi con il risultato di far scendere a 265 i presenti: «Un elevato tasso di assenteismo del personale, anche prima dell’emergenza sanitaria, che ha raggiunto dimensioni tali da rendere difficoltoso non solo il rispetto di regole e procedure ma gli stessi livelli di assistenza». Ma c’è anche l’altro lato della medaglia: gli scarsi tamponi sui lavoratori. Se nelle strutture sanitarie pubbliche in media il 40% degli operatori viene sottoposto a tampone, con il 21% di casi positivi, nel Pat la percentuale scende al 21% (16% di positivi). Il test sierologico fatto al 64% degli operatori nelle altre Rsa, con il 17% di positivi, ha riguardato il 68% del personale della Baggina col 18% di positivi. La conclusione è che a un «solido e strutturato» sistema di prevenzione sulla sicurezza sul lavoro che esiste sulla carta, nel Pat non è «corrisposta una piena e adeguata applicazione di regole e procedure» di tutela dei lavoratori.

Gli invii di malati. La relazione affronta anche la questione dei malati arrivati dagli ospedali nell’emergenza, nessuno dei quali in teoria era Covid perché la struttura non ha accettato di accoglierne. Qual è la verità? Erano «dichiarati no-Covid dalla struttura di provenienza», sottolineano i commissari, solo perché non avevano sintomi, il che «non forniva sufficienti garanzie nell’eventualità d’ingresso di persone infette asintomatiche». Le indagini hanno scoperto che i primi casi sospetti si sono sviluppati nella Baggina a fine febbraio. A contribuire alla circolazione del virus hanno concorso la mancata applicazione delle misure di distanziamento; gli assembramenti di pazienti, parenti e operatori, ad esempio in sala mensa; l’incompleto/intempestivo isolamento dei casi sospetti oppure le «limitate/incoerenti informazioni» fornite ai familiari. I documenti farebbero ritenere che «la gestione dell’emergenza è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell’Oms, dell’Istituto superiore di sanità e della Regione», tuttavia, rilevano severamente i commissari, «le indagini, le testimonianze, e le denunce» hanno evidenziato «criticità e limitazioni che meritano di essere descritte e analizzate». Ma ci sono note positive, come la presenza di istruzioni e presidi per l’igiene, i dispenser di gel per le mani, gli accessi dei visitatori regolamentati e la «diligenza piena di operatori e addetti all’assistenza degli ospiti». Le raccomandazioni finali invitano a una «riorganizzazione interna» per «rispondere più efficacemente in caso di emergenza». Più camere singole per garantire l’isolamento dei pazienti, aumentare la presenza di personale e, ovviamente, di dpi.

Monica Serra per “la Stampa” il 10 luglio 2020. Il dato per il momento è parziale, e deve essere approfondito. Ma tra la metà di marzo e i primi di giugno la centrale di smistamento dei pazienti che la Regione ha istituito al Pio Albergo Trivulzio avrebbe movimentato dagli ospedali lombardi allo stremo 7.500 pazienti. Di questi almeno 4700 erano covid "a bassa intensità". E i restanti 2800 negativi. Almeno sulla carta, perché non tutti erano stati sottoposti a doppio tampone al momento delle dimissioni. E non si sa ancora quanti di loro si siano poi rivelati positivi. Il dato enorme emerge dai documenti che gli investigatori del Nucleo di polizia economico finanziaria hanno sequestrato nel centro di smistamento dei pazienti, dove sono tornati nell'ambito delle inchieste che la procura ha aperto per fare luce sulle morti sospette nelle Rsa. Tutti questi 7.500 pazienti di certo non sono stati trasferiti nelle case di riposo, perché negli elenchi recuperati dai finanzieri c'erano tante altre strutture socio sanitarie e soprattutto cure intermedie. Ma il dato mette in dubbio quanto ad aprile ha dichiarato l'assessore al Welfare Giulio Gallera: «Solo 147 pazienti sono stati accolti in 15 Rsa lombarde: un numero ristretto che ci ha consentito di salvare vite umane, perché in quel momento l'obiettivo era di liberare posti letto negli ospedali». In quel momento sicuramente erano solo 147. Il problema è che la Regione, anche nei mesi successivi, ha sempre confermato e mai aggiornato il dato. Ma soprattutto non ha mai voluto comunicare quanti pazienti ufficialmente negativi siano stati mandati in Rsa e strutture socio sanitarie. E quanti questi si siano poi rivelati positivi al virus dopo il trasferimento. Un caso emblematico è quello del Ricovero Uboldi di Paderno Dugnano. La Rsa ha dichiarato che dal 18 marzo al 3 aprile «sono stati ricoverati 12 pazienti provenienti dagli ospedali così come disposto dalla centrale unica regionale per le dimissioni ospedaliere. All'atto della dimissione ospedaliera sono stati tutti dichiarati covid negativi. Quattro di loro sono poi risultati positivi al tampone e 5 sono deceduti prima di essere sottoposti al test». Quindi 9 pazienti su 12 ufficialmente negativi, poi si sono dimostrati positivi o addirittura sono morti. Bisogna precisare però che le Rsa sono solo una parte delle strutture socio sanitarie che hanno accolto i pazienti. La maggior parte - da quanto risulterebbe agli atti che devono essere ancora approfonditi dagli investigatori - sarebbero le cosiddette cure intermedie, cioè le ex strutture di assistenza post-acuta e le ex riabilitazioni socio-sanitarie. Ma diverse delle strutture finite sotto inchiesta per epidemia colposa, nei 25 fascicoli aperti dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, hanno al loro interno sia Rsa che cure intermedie. Esempi sono il Pat e la Fondazione Don Gnocchi. I documenti che gli investigatori hanno sequestrato saranno analizzati per ricostruire, attraverso le cartelle cliniche, il percorso ospedaliero di ogni singolo paziente. Il dato emerso, però, è significativo. «Certo, non si può demonizzare la Regione se in un momento di emergenza si sia rivolta alle cure intermedie, non alle Rsa», commenta Luca Degani, presidente di Uneba, associazione di categoria delle case di cura. «Ma è necessario sapere con certezza se il paziente dimesso è covid positivo o negativo. La funzione delle commissioni d'inchiesta è proprio quella di evitare che, se la pandemia torna, si ripetano gli errori fatti, come quello di inviare pazienti dalla diagnosi incerta in strutture che già accolgono ospiti fragili e a rischio». Intanto, proprio gli esiti della commissione regionale d'inchiesta sul Pat dimostrano che, in realtà, la mortalità al Trivulzio sia stata inferiore rispetto alle altre Rsa del milanese. E che, invece, a gravare sulla gestione dell'emergenza, sia stato uno «straordinario livello di assenteismo» del personale con punte del 65 per cento, cui si sono aggiunte le poche mascherine e tamponi effettuati. In questa come in tante altre strutture socio sanitarie lombarde.

 Gratteri, protagonismo senza limiti: in piena emergenza sanitaria mondiale indaga 50 medici e infermieri.

Redazione de Il Riformista il 23 Aprile 2020. Neanche l’emergenza sanitaria nazionale provocata dal Coronavirus ferma il protagonismo di Nicola Gratteri. La Procura di Catanzaro coordinata dal procuratore preferito di Marco Travaglio e del Fatto Quotidiano ha infatti coordinato l’indagine diretta dal pm Domenico Assumma, con il coordinamento del procuratore aggiunto Giancarlo Novelli e dello stesso Gratteri, su presunti casi di assenteismo all’Asp (Azienda sanitaria provinciale) e all’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro.

57 INDAGATI – Nell’indagine condotta dalla guardia di finanza di Catanzaro sono 57 gli indagati: nei confronti di 15 persone, un dirigente e 6 dipendenti dell’azienda sanitaria provinciale di Catanzaro, nonché 8 lavoratori dell’azienda ospedaliera ‘Pugliese-Ciaccio è stata emessa la misura della sospensione dell’esercizio di pubblico servizio, con durate variabili tra 3 mesi e 1 anno. Nei confronti di 18 persone fisiche (oltre ai 15 sospesi, altri due ex dipendenti dell’azienda ospedaliera e un ex dirigente dell’azienda sanitaria provinciale, tutti in quiescenza) è stato disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, anche per equivalente, delle somme di denaro corrispondenti agli stipendi guadagnati durante i periodi di indebita assenza, per circa 20mila euro in totale.

LE ACCUSE DELLA PROCURA – Per la Procura diretta da Gratteri sarebbero 2.100 episodi di assenteismo, di ingiustificato allontanamento dal luogo di lavoro e di falsa attestazione della presenza, per un totale di circa 1.800 ore di servizio non effettuate. I reati contestati agli indagati sono truffa ai danni di un ente pubblico e fraudolenta attestazione della presenza in servizio, che comporterebbe, tra l’altro, il licenziamento disciplinare senza preavviso per i responsabili delle condotte assenteistiche.

I PRECEDENTI FLOP DI GRATTERI – La speranza è che questa volta la Procura di Catanzaro riesca dove ha fallito in precedenza. La maxi inchiesta ‘Rinascita scott‘ con 336 arrestati per ‘ndrangheta, condotta da Gratteri, aveva visto dopo un mese il Tribunale della Libertà e gli uffici del Gip riformare 80 misure cautelari richieste dalla procura di Catanzaro. Esemplare anche il caso dell’operazione Marine condotta nel novembre 2003, quando più di un migliaio di carabinieri circondarono Platì – piccolo paese di tremila anime in provincia di Reggio Calabria – arrestando centinaia di persone. Furono poi le sentenze a ridimensionarne la portata, tant’è che le condanne furono appena 3 (tre su centododici, un po’ meno del 2%) mentre gran parte degli imputati furono prosciolti già nella fase delle indagini preliminari.

Confessione shock di una direttrice sanitaria: le Rsa lombarde pronte a denunciare la Regione. Claudio Marincola il 21 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. Ma lei lo sa che così potrebbe commettere  un reato?  «Dovevo scegliere quale commettere: se abbandonare pazienti e personale o se invece continuare a venire al lavoro e rischiare di contagiarli. Ho la febbre e magari sarò pure positiva al tampone, vorrei tanto tornarmene a casa. Ma non posso scendere dalla nave, non sono Schettino». A parlare è la direttrice di una struttura sanitaria lombarda. Il tono disperato, il timbro della voce affranto, avvilito.  Lo sfogo di chi non regge più la pressione, lo stress, a rischio di mettere a rischio sé stessa e l’intera casa di riposo: «Siamo rimasti in pochi, sono sola nella mia stanza, nessuno mi costringe. La mia coscienza non mi consente di lasciare soli questi quattro gatti del nostro personale risultati negativi e rimasti al lavoro».

Al tempo del coronavirus accade anche questo. Disperazione e follia collettiva. Ma lei si rende conto? «Ho scritto in tutte le lingue che così non si può più andare avanti. Siamo a corto di personale: mi servono infermieri, un medico, non riesco a trovarlo. Nella mia struttura ci sono ospiti che hanno, sia pure in forma lieve,  il coronavirus. Se dipendesse da me urlerei al mondo quello che stiamo vivendo, ci metterei la faccia, andrei in tv, ma non dipende da me. Però tutti devono sapere il dramma che stiamo vivendo in questi giorni. Appena potevamo abbiamo effettuato il tampone al personale. Un buon 30% è risultato positivo pur trattandosi in gran parte di asintomatici. Siamo stati corretti, li abbiamo lasciati a casa e ora non sappiamo come fare».

PAZIENTI NEGATIVI RISULTATI POSITIVI. Una confessione shock, sia pure coperta dall’anonimato. Fa capire che si è arrivati a un punto di non ritorno. Tutto è cominciato quando sono arrivati i primi pazienti mandati dalla Regione Lombardia, in attuazione della ormai famigerata delibera 8 marzo XI/20906. «Dalla cartella clinica risultavano negativi – lei prosegue – ma quando qualche giorno dopo abbiamo fatto i test è venuto fuori che erano positivi. Qui ci sono spazi  comuni, a partire dalla mensa, avremmo dovuto ricoverali in un ospedale.  Non abbiamo potuto. Una successiva delibera della Regione, la 3018 del 30 marzo, ce l’ha impedito. Cosa dovevamo fare? Me lo dice? Prima ce li mandano poi non li rivogliono. Sarebbe stato meglio se sin dall’inizio avessimo saputo che erano positivi, avremmo potuto isolarli subito». Nei giorni dell’onda alta, dei pronto soccorso presi d’assalto, non era semplice prendere decisioni.  «…si, ma faccio fatica a pensare che sviste così madornali si possano fare in buonafede…».

LA LETTERA-DENUNCIA. Sarà per questo, per la  coazione a ripetere errori su errori, che i presidenti dei sei associazione lombarde – Agespi, Anaste, Aris, Arlea, Anffas, Aci Welfare e Uneba – hanno inviato – al presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, all’assessore al Welfare Giulio Gallera e per conoscenza al commissario della Protezione civile Angelo Borrelli e al presidente dell’Anci Lombardia Mauro Guerra –  una lettera che è poco meno di una denuncia in carta bollata. Un elenco dettagliato degli strafalcioni e delle contraddizioni. Mancato rispetto delle linee guide, mancata fornitura di dispositivi, zero tamponi. «Qualora la Regione Lombardia – è la minaccia contenuta nella lettera – non si assumesse immediatamente tali oneri, saremo costretti a rivolgerci alle autorità competenti per tutelare la salute e la vita di operatori e ospiti, nonché gli enti gestori, da successivi e ripercussioni di ordine civilistico e penalistico alle quali il vostro diniego o il vostro silenzio ci potrebbe esporre».

LOMBARDIA “CASO EUROPEO”. E la Regione? «Non sono venuti mai, neanche una volta a vedere. In compenso ci hanno sommerso di questionari Excel,  ho mandato richieste ovunque: Protezione civile, Ordine di Malta, Croce Rossa, Regione, ho esaurito la mia agenda personale nella speranza che prima o poi qualcuno ci mandi un medico». Il dato è ancora parziale: nelle Rsa lombarde sono morti finora oltre 3000 anziani, il 53,4 per Codiv-19 e sospetto Codiv-19. Numeri che non hanno raffronto con le altre regioni. Che lo si voglia o no, e al netto di qualsiasi disputa politica, La Lombardia è un “caso europeo” non solo italiano. “Si deve purtroppo constatare – citiamo ancora la lettera delle Rsa – che in queste otto settimane abbiamo assistito al moltiplicarsi di mail, note, circolari, linee guida, a volte contrastanti tra loro e/o con le disposizioni del governo centrale o il ritorno su precedenti decisioni o ad interim. Tutto ciò non ha consentito agli enti di mettere bene a fuoco la situazione e di garantire piena razionalità e permanente continuità nei modi e nei tempi di vigilanza». Si lamenta la “totale mancanza di un piano pandemico”.  Si fa presente che i casi di infezioni “non endemiche che esulano dalle precauzioni standard sono di competenza del Dipartimento di protezione delle Ats”, che sono a loro volta emanazioni territoriali della Regione. La maggior parte delle strutture ha dovuto procedere in totale autonomia, con grande difficoltà. Una su tutti: la problematica dei tamponi. Il personale che potrebbe rientrare dalla malattia dopo aver terminato il periodo di quarantena non può farlo perché non si riesce a effettuare il doppio test prima del rintegro.  Ordini e contrordini hanno reso difficile la gestione dei pazienti Codiv e sospetti Codiv, considerati a tutti gli effetti malati acuti o pre-acuti. In teoria ai primi sintomi le Rsa e le Rsd, ovvero le strutture che ospitano disabili, dovrebbero ricoverarli attraverso corsie preferenziali negli ospedali o in una struttura adeguata all’isolamento. Ma questo non è possibile e non avviene. Poi c’è la questione dei dispositivi di protezione, un nodo ancora irrisolto. «Sul mercato privato i prezzi, quando reperibili – è l’altro capo d’accusa contenuto nel documento – nel giro di poche settimane sono cresciuti in maniera esponenziale, evidenziando una chiara speculazione». Si sono rilevati frequenti blocchi e requisizioni alla dogana che hanno aggravato la penuria di materiale e ancora una volta dalla Regione sono arrivate forniture una tantum, insufficienti. Stiamo parlando di circa 61 mila posti letto su base regionale e circa 30 mila operatori. Per sopperire al fabbisogno servirebbero 150 mila pezzi per turno, 450 mila al giorno, 15 milioni al mese. Da qui la richiesta di “un piano straordinario di acquisizioni che permetta di superare questa fase”.  Le Rsa lombarde non risparmiano critiche neanche alla Centrale unica dei trasferimenti, la cabina di regia che avrebbe dovuto smistare i pazienti nelle strutture a seconda delle caratteristiche e della diagnosi, “non ha mai funzionato perfettamente”, non tutti si sono registrati”. Un cahièr de doleance sterminato, che si conclude con la richiesta di un tavolo di lavoro comune con Regione Lombardia e Protezione civile.

LA PROVINCIA CON PIÙ CONTAGI ORA HA FRETTA DI RIAPRIRE. La schizofrenia è l’unico elemento continuo e coerente. E così mentre si parla e si litiga sulla fine del lockdown e riapertura , Milano, con 297 nuovi contagi, resta di gran lunga la provincia con il più alto tasso di contagi. L’area metropolitana è arrivata a 16.112 positivi, la Regione a 66.971, +735 rispetto al giorno precedente. Numeri alla mano la decrescita sembra lontana. Il contagio non si è mai fermato. E neanche le imprese che riapriranno senza aver mai chiuso i cancelli.  

Coronavirus, a Milano sono 1.124 i morti: il 94 per cento ha più di 60 anni. Pesa il dramma delle Rsa. I dati rivelati da Fontana a Sala: solo 7.788 i contagiati ufficiali, 31.650 i tamponi effettuati. Più del 60 per cento dei deceduti aveva oltre 80 anni. Alessandra Corica il 27 aprile 2020 su La Repubblica. Oltre 1.100 morti a causa del virus. Per la precisione, 1.124: è questo il dato che colpisce di più, a scorrere la lettera che il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, ha inviato il 24 aprile al sindaco Beppe Sala, che chiedeva chiarimenti in merito all'avanzata del Covid-19 in città. Oltre il 94 per cento dei decessi ha riguardato uomini e donne che avevano da 60 anni in su: la quota principale delle vittime del Sars-Cov-2 a Milano, finora, è infatti rappresentata da coloro che avevano tra 80 e 99 anni. In questa fascia d'età sono morti in 695 fino al 23 aprile scorso, pari al 61,8 per cento del totale. Ma tante sono anche le vittime tra coloro che avevano tra 60 e 79 anni, il virus ne ha uccisi 361, sul totale dei deceduti sono il 32,1 per cento. Quattro vittime avevano tra 20 e 39 anni, altrettante più di 100. La lettera è stata scritta dagli uffici della Regione in seguito alla richiesta avanzata da Sala: "Io ho dei dati sulla progressione dei contagi, ma poi ho gli scienziati che mi dicono altri numeri. Come dice il professore Carlo La Vecchia in un'intervista, a Milano i contagiati sono tra i 150 e i 300 mila " aveva detto il sindaco il 23 aprile su Facebook, citando un'intervista rilasciata dall'epidemiologo della Statale a Repubblica. Di qui la richiesta di spiegazioni al Pirellone, e la risposta di Palazzo Lombardia consegnata a mano venerdì scorso: né il Comune né la Regione l'hanno resa nota in modo ufficiale. Repubblica però ha potuto leggerla. Ed ecco, allora, cosa emerge. Da un lato, il numero dei decessi tra coloro residenti o domiciliati in città, quasi un settimo dei contagiati "ufficiali". Dall'altro, quello dei tamponi fatti fino alla fine della settimana scorsa, 31.650. In particolare, tra il 13 e il 19 aprile, i test per diagnosticare il Sars- Cov- 2 sono stati 6.743 a Milano, con una media giornaliera di 1.003 tamponi. Numeri alti. Che si rispecchiano nella progressione dei contagi: a ieri sera i nuovi casi in 24 ore erano 241, si è arrivati a 7.788 milanesi cui è stato diagnosticato, in modo "ufficiale", il Covid-19. Si tratta però di dati al ribasso, visto che come ribadito dagli epidemiologi - e come testimoniato dal numero di pazienti con sintomi riconducibili al Covid-19 segnalato dai medici di famiglia all'Ats di Milano, oltre 12 mila persone - non si tiene conto dei sommersi. Ossia di coloro che sono a casa con i sintomi dell'infezione da Sars- Cov- 2, ma non ricoverati e quindi non sottoposti finora al tampone. Ma chi sono i malati milanesi? Nella lettera firmata dal governatore Fontana si parla di "contagi avvenuti negli ospedali, nelle Rsa, nelle abitazioni o in altre circostanze", rimandando alla "scheda di segnalazione" di ciascun caso predisposta dal ministero della Salute. Non vengono quindi forniti ulteriori dettagli per capire in che modo e per quale motivo l'epidemia a Milano corra ancora. Certo è, però, che buona parte dei nuovi casi di questi giorni sono legati al mondo delle case di riposo, nelle quali dal 6 aprile sono iniziati i test a tappeto. Solo fino al 15 aprile scorso, allora, secondo i dati di Ats Milano, sui 6.333 anziani che vivono nelle 57 case di riposo milanesi, c'erano 830 ospiti positivi al Sars-Cov-2, più altri 80 ricoverati in ospedale e 745 che mostravano i sintomi dell'infezione ( ma dovevano fare il tampone). Stesso discorso per gli operatori: su 4.789 lavoratori delle Rsa, 45 risultavano ricoverati, 286 positivi al virus, 634 in isolamento domiciliare (ma non sottoposti alle analisi), altri 500 in malattia. Ma non solo: l'Istituto superiore di sanità stima che, ad aprile, almeno il 44 per cento dei contagi in Italia sia avvenuto nelle Rsa. A Repubblica, per la situazione milanese, risulta allora che circa il 40 per cento dei nuovi casi diagnosticati ogni giorno sia riconducibile alle case di riposo. Nelle quali il numero di positivi aumenta di 100-120 anziani quotidianamente. Un'altra quota dei nuovi contagi a Milano sarebbe legata a medici di famiglia e ospedalieri, mentre solo un terzo dei nuovi contagi sarebbe da attribuire alla diffusione del virus in contesti familiari.

Coronavirus: i medici denunciano le aziende sanitarie, la politica vuole lo scudo penale. Milena Gabanelli e Rita Querzè il 26 aprile 2020 su Il Corriere della Sera. In Europa, l’Italia è il Paese dove da anni la probabilità di prendersi un’infezione negli ospedali, è in assoluto la più alta: il 6%. È la conseguenza di un graduale aumento di rischi specifici inclusa la scarsa formazione degli operatori sanitari a osservare le misure di sicurezza, a partire da quelle igieniche. In questo quadro è esploso il Covid-19. Oggi il personale sanitario, che conta 19.942 contagiati e 185 morti, attraverso le sue rappresentanze sindacali ha presentato un esposto ai Nas oltre che alle procure di dieci regioni: contestano alle aziende ospedaliere di non avere tutelato medici e infermieri come dovuto. La questione riguarda anche noi cittadini, perché i medici positivi al virus rischiano di trasformare gli ospedali in focolai del contagio, e il livello di sicurezza del personale sanitario è una delle chiavi del successo (o dell’insuccesso) della lotta contro il coronavirus.

Il piano contro le pandemie mai attuato. Vediamo come sono andate le cose, a partire dai presidi di tutela numero uno: le mascherine. Le Regioni avevano sul tavolo il piano contro le pandemie (dal 2007 in Veneto ed Emilia Romagna, e ben due a partire dal 2006 in Lombardia). Una disposizione chiave dice: «Fate scorta di dispositivi di protezione, mascherine, guanti, tute». Al contrario della Germania, le nostre aziende sanitarie non lo hanno mai attuato, e quando è arrivata la tempesta i dispositivi mancavano. Va sottolineato che, per i medici, le mascherine dovevano essere le FFP2 e P3. Lo richiedeva l’Inail. Siccome scarseggiavano le regole sono state cambiate in corsa dall’Oms e poi dal governo stabilendo che bastavano quelle chirurgiche, che proteggono il paziente ma non l’operatore. È andata avanti così fino a poco tempo fa, e quindi si sarebbe dovuto, quantomeno, fare il tampone a medici e infermieri esposti, per tenerli fuori dagli ospedali in caso di positività, come raccomanda dal 25 marzo il Ministero della Salute. D’altra parte, fin da fine febbraio, con l’analisi dei primi casi di Vo Euganeo e di Codogno, è stato confermato che a trasmettere il virus sono anche persone senza sintomi, ma infette.

Per chi si ammala a casa niente infortunio. Ogni Regione ha le sue regole, che poi vengono recepite in modo diverso dalle singole aziende sanitarie. Una però vale per tutti: chi si ammala di Covid-19 torna al lavoro dopo due tamponi negativi. All’ospedale di Lodi succede che almeno cinque medici positivi al test, vengono fatti rientrare dalla malattia dopo un solo tampone negativo. Ma per capire come ogni ospedale si regola con i propri operatori prendiamo tre casi: il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’Azienda Ospedaliera di Parma e quella di Padova nei giorni dell’emergenza, cioè dal 20 febbraio fino a Pasqua. Nei tre ospedali, ai medici che si ammalavano in corsia veniva subito fatto il test, e i positivi tornavano in servizio solo quando avevano due tamponi negativi. Ma cosa succedeva quando un medico o un infermiere scopriva a casa di avere i sintomi del Covid-19? Ai medici di Padova e di Parma veniva fatto il tampone, e se positivo scattava l’infortunio sul lavoro. A Bergamo, invece, se non finivano ricoverati, spesso restavano a casa in malattia finché non erano guariti, senza che venisse fatto alcun tampone per sapere se avevano contratto la malattia, esponendo così i familiari. Il tampone non veniva fatto nemmeno al ritorno in ospedale, per verificare se erano ancora contagiosi. Inoltre, per loro non si poteva applicare l’infortunio legato al Covid-19, perché la direttiva Inail prevede l’esito del tampone positivo (che nessuno ha fatto). Una differenza non da poco: con l’infortunio, in caso di invalidità o morte, sono previste indennità, con la semplice «malattia» invece a molte direzioni sanitarie hanno pure imposto inizialmente un taglio alla busta paga sui primi dieci giorni di assenza, applicando la legge Brunetta.

La diffida alla Regione Lombardia. E così decine di ospedalieri sono tornati in corsia, a contatto con i pazienti, senza sapere di cosa si erano ammalati. Dopo le continue proteste delle associazioni dei medici, il 10 aprile la Regione Lombardia ha emanato un’ordinanza in cui viene prescritto il tampone anche ai medici che si sono ammalati a casa, o che hanno sintomi. Ebbene, venerdì 24 aprile l’Anaao, insieme a tutte le altre associazioni, ha inviato una diffida alla Regione perché diverse aziende sanitarie si rifiutano di fare il tampone al personale sanitario che ha riscontrato i sintomi del Covid-19 mentre era a casa e anche a quelli che stanno in corsia (tosse, perdita dell’olfatto e del gusto) se non hanno anche la febbre sopra 37,5.

I medici asintomatici a Parma, Padova, Bergamo. Ci sono poi i casi dei medici asintomatici che dentro l’ospedale hanno avuto contatti senza mascherina con persone malate. A Bergamo nei giorni successivi al «contatto a rischio» non veniva fatto alcun tampone per scoprire se erano stati contagiati. In situazioni analoghe a Parma veniva fatto il test entro sette giorni, e chi risultava positivo veniva mandato a casa. A Padova invece venivano fatti 4 tamponi nell’arco di 14 giorni. Padova è anche l’ospedale che in assoluto ha fatto più tamponi: ogni 10 giorni vengono sottoposti al test tutti gli operatori dei reparti Covid, e ogni 20 giorni il personale degli altri reparti. Il risultato è che il 39% dei medici positivi è asintomatico. Vuol dire che senza questo monitoraggio avrebbero potuto contagiare familiari e pazienti a loro insaputa.

Quando ad ammalarsi è il medico di base. Infine i medici di famiglia. Per loro non ci sono procedure da seguire e fino a pochi giorni fa nemmeno i dispositivi di protezione. Con il Covid, l’Inps ha sospeso le visite fiscali ma ai medici è stato lasciato l’obbligo di vedere il paziente per fare il certificato medico, e quello di fare le ricette di carta per una serie di farmaci, come le terapie del dolore. Cosa succede quando un medico di base si ammala? In Lombardia ancora oggi in buona parte possono contare sul tampone soltanto se finiscono al pronto soccorso. In Emilia Romagna bastavano i sintomi, come in Veneto, dove invece da quasi un mese si esaminano tutti i medici di famiglia, anche senza sintomi. La velocità varia a seconda dei territori. Si va dal 97% in provincia di Padova, al 25% di quelli della provincia di Verona (fonte Fimmg).

Scudo penale per tutti, ma i medici non ci stanno. Intanto dal 2 aprile in Emilia sono partiti i test sierologici su tutto il personale sanitario, in Lombardia sono iniziati il 23 aprile, con diversi gradi di priorità. Il risultato di tutto questo è che il tasso di infezione degli operatori sanitari, calcolato dall’ISS, in Lombardia è 19,1 volte superiore a quello della media della popolazione, in Emilia Romagna 6 volte, e in Veneto 3,9 volte. Li abbiamo chiamati giustamente «eroi», ma visto che durante la pandemia non avevano le condizioni adeguate per curare i pazienti di Covid-19, i medici hanno chiesto uno scudo penale e civile limitato ai mesi dell’epidemia. Maggioranza e opposizione si sono dette favorevoli, ma hanno presentato emendamenti al Cura Italia (uno firmato da Salvini per la Lega e uno da Marcucci per il Pd) che toglievano ogni responsabilità anche ai dirigenti delle aziende sanitarie e delle Regioni, impedendo anche al personale sanitario di contestare inadempienze al datore di lavoro. I primi ad insorgere sono stati proprio i medici dicendo che se così dovevano andare le cose avrebbero rinunciato allo scudo anche per se stessi. Alla fine gli emendamenti sono stati ritirati, ma il Parlamento ha disposto con un ordine del giorno che si tornerà sulla questione a breve. Chiarire cosa ha funzionato e quali errori sono stati fatti è un dovere: nei confronti del personale sanitario, delle vittime, e dei cittadini che finanziano il sistema sanitario pagando le tasse.

Marco Travaglio, veleno su Attilio Fontana: "È meglio come serial killer che come governatore". Libero Quotidiano il 27 aprile 2020. Mentre continuano le indagini sulle Rsa che non spaventano la Regione Lombardia, consapevole di avere la coscienza pulita, Marco Travaglio apre il suo editoriale su Il Fatto Quotidiano con una battuta tutt’altro che gradevole nei confronti di Attilio Fontana. Quest’ultimo è stato infatti preso di mira a causa delle sue dichiarazioni su quanto accaduto nelle case di riposo: “Non credo di aver sbagliato, abbiamo portato avanti il provvedimento sulla base delle risultanze tecniche. Se lo rifaremmo? Certamente”. Il commento di Travaglio è stato il seguente: “Come governatore non è un granché, ma come serial killer non è male”. Un’accusa pesante, soprattutto dopo che Fontana aveva chiarito che “per quanto riguarda la delibera che consentiva di trasferire nelle Rsa alcuni malati che stavano uscendo dagli ospedali, noi abbiamo posto delle condizioni assolutamente rigorose. Tanto è vero che solo 15 su 705 Rsa che ci sono in Lombardia hanno aderito a questa proposta”.  

Ritardi e pochi tamponi nel Lazio, ecco la verità. Il Lazio è ultima nella classifica delle persone testate: solo 334 ogni 10mila abitanti. Secondo i medici di base solo il 15% delle richieste ha ottenuto un riscontro e scarseggiano ancora i dpi. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Lunedì 27/04/2020 su Il Giornale. Non c'è solo l'affare delle "mascherine fantasma" a preoccupare il governatore del Lazio, Nicola Zingaretti. Sì perché anche sul fronte dei tamponi c'è chi dice che non si è fatto abbastanza. Lo denuncia uno studio del Sindacato medici italiani (Smi) del Lazio. Il quadro che emerge è abbastanza inquietante: le "reiterate richieste" di sottoporre al tampone pazienti con sintomi correlabili all'infezione da Covid-19 sono rimaste perlopiù inevase.

La denuncia dei medici. Lo Smi Lazio scrive direttamente al governatore Nicola Zingaretti: "Rappresentiamo medici di varie specialità e portiamo alla sua attenzione l'impossibilità per i nostri pazienti di poter avere accesso ai tamponi per la diagnosi di Covid". Nel Lazio ci sono circa 5mila medici di famiglia che mediamente hanno fatto da 5 a 10 segnalazioni: nella migliore delle ipotesi, ne sono state processate appena il 15 per cento. Lo studio si basa su un campione di 21 medici di medicina generale, per un totale di 26.553 assistiti. Delle 160 segnalazioni inoltrate dai camici bianchi ai servizi di igiene e sanità pubblica delle varie aziende sanitarie locali, solo il 15 per cento ha ottenuto un riscontro. Significa che solo 25 pazienti sono stati presi in carico e, di questi, quelli effettivamente sottoposti a tampone sarebbero una minoranza. Insomma, sottolineano dallo Smi, "ad essere ottimisti, potrebbero essere appena 10mila i tamponi effettuati su richiesta dei medici di famiglia". E ancora: "Leggiamo che nel Lazio sono stati fatti circa 100mila tamponi. Questi avrebbero dato un riscontro di una bassa percentuale di positività (9 negativi su 10). Ci chiediamo quindi: a chi sono stati effettuati i circa 90 mila tamponi che i Mmg non hanno richiesto? E la bassa percentuale di positività si potrebbe spiegare con la circostanza che, forse, nell'esecuzione degli stessi non siano stati rispettati i criteri clinici, epidemiologici, o del semplice buon senso?".

I veri numeri dei tamponi nel Lazio. Ma cosa ci dicono i numeri? Ad uno sguardo superficiale si direbbe che il Lazio sia una delle regioni più virtuose dello Stivale. Nella classifica di chi ha effettuato più tamponi, quella guidata dal segretario del Partito Democratico si posiziona al sesto posto con 111.073 esami. Se però distinguiamo i tamponi eseguiti dai casi testati, fa notare YouTrend, il Lazio in realtà diventa fanalino coda. Si parla di appena 23.067 pazienti che, rapportati al numero della popolazione, significa 39 persone analizzate ogni 10mila abitanti. "Un livello significativamente inferiore alla penultima regione, la Campania, che - osservano da YouTrend - invece ha testato 62 persone per 10mila residenti". Per avere un’idea delle proporzioni, il Veneto, la regione che ha adottato per prima il metodo dei tamponi a tappeto, ha esaminato 334 casi ogni 10mila abitanti. Tanto che, nei giorni scorsi, era stata anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi, a chiedere a Zingaretti di fare "più tamponi, soprattutto per quelle professioni a contatto con il pubblico".

L'importanza di un tampone precoce. In queste settimane si è detto e scritto dello strazio vissuto da chi si è visto negare questo tipo di esame. Uno dei casi più noti è quello del ginecologo romano Edoardo Valli, il 106esimo medico morto per coronavirus in Italia. Lo scorso 14 marzo, Valli scriveva su Facebook: "Ho la febbre da tre giorni ma non mi fanno il tampone". In realtà, il tampone andrebbe fatto a 48 ore dall'insorgenza dei primi sintomi. Andare oltre significa esporre il paziente a rischi seri. "La malattia si divide in due fasi, i primi 5 giorni sono di latenza, dopodiché cominciano a comparire i primi sintomi, per questo è necessario intervenire subito, spesso però le tempistiche si dilatano a dismisura", spiega Pier Luigi Bartoletti, segretario romano della Fimmg Mmg. Ed è proprio per cercare di ridurre il rischio di un peggioramento del quadro clinico che i medici di base hanno cominciato a trattare i sospetti Covid con Tachipirina e antibiotici, senza attendere l'esito del tampone: "Quando si è cominciato a capire che l'attesa equivaleva alla ospedalizzazione, ci siamo mossi e, in presenza di sintomatologia sospetta, abbiamo iniziato a trattare anche senza diagnosi". "Purtroppo non è stato dato il giusto ruolo alla medicina del territorio - gli fa eco Ermanno De Fazi, vicesegretario regionale dello Smi Lazio - la priorità è stata quella di intensificare i reparti di terapia intensiva senza considerare che una parte dell'epidemia poteva essere gestita sul territorio, pensare di centralizzare tutto a livello aziendale ha determinato un sovraccarico di attività per il personale". Una diagnosi tempestiva, spiegano i medici, "avrebbe ridotto significativamente il numero dei pazienti ospedalizzati".

Il perché dei ritardi. Bertoletti non ha dubbi. Gira che ti rigira si ritorna sempre lì, ai dispositivi di protezione individuale. O meglio, alla loro carenza. "Per fare un tampone a un sospetto Covid bisogna prendere il personale sanitario, mettergli addosso tutti i dpi che andranno sostituti al termine di ogni accesso domiciliare", premette. "Ma se io ho 100 medici e 20 tute, di fatto, è come se avessi 20 medici", spiega il dottore. Ecco il perché dei ritardi e della incredibile mole di analisi che si sono accumulate. Ci sono voluti mesi prima che si adottasse "un metodo più razionale" con l'introduzione delle Unità speciali di continuità assistenziale regionale (Uscar), ovvero delle task-force di medici e infermieri volontari che eseguono tamponi, effettuano visite e prescrivono terapie, tutto rigorosamente in modalità drive-in. E non solo, in questi giorni le unità mobili sono impegnate anche nelle Rsa del territorio. "È un metodo che possiamo definire industriale perché permette di azzerare lo spreco di dpi e smaltire i tamponi arretrati in vista della fase due", spiega Bertoletti. L'iniziativa regionale, però, è partita solo l'8 aprile, con notevole ritardo rispetto alla normativa nazionale che prevedeva la unità speciali già nel decreto dell'8 marzo. "Probabilmente si sarebbe dovuto agire con maggiore tempismo anche in questa occasione, le unità speciali sarebbero state fondamentali anche per gestire i pazienti nelle Rsa, adesso invece si va nelle residenze dove c'è già un'elevata concentrazione di casi", annota De Fazi.

Lo scontro sui laboratori privati. Per ampliare la fetta di cittadinanza da testare in modo preventivo, ad inizio aprile, si era fatta avanti Uninidustria con una "richiesta urgente". Nella missiva inviata alla Regione Lazio venivano segnalati una serie di laboratori privati accreditati pronti a mettere a disposizione le proprie strutture "per eseguire i tamponi i test sierologici ai cittadini". Dai vertici dell'ente locale però non arriva il via libera. La questione è finita anche al centro della querelle tra la clinica San Raffaele di Rocca di Papa, dove è scoppiato uno dei focolai di Covid del Lazio, e l'assessorato alla Sanità. Il presidente del gruppo, Carlo Trivelli, infatti, indicava proprio il divieto di testare autonomamente ed in modo preventivo i pazienti come una delle cause della diffusione del virus tra gli anziani ricoverati nella struttura.

Le polemiche. La risposta negativa dell'assessore Alessio D'Amato, che puntava il dito contro i "prezzi esorbitanti" proposti da alcune strutture, ha fatto discutere anche a via della Pisana. "Per risparmiare 70 euro – attaccava Antonello Aurigemma, consigliere di Fratelli d’Italia – si preferisce spenderne 1.200 al giorno per ricoverare i pazienti in terapia intensiva". Già ad inizio aprile, ricostruiva Aurigemma proprio su questo giornale, le Rsa erano in allarme "per la carenza di diagnosi su ospiti e operatori". Tanto che, incalza oggi il consigliere, la "stretta sulle case di cura è arrivata soltanto il 18 aprile, quando erano già scoppiati i casi di Nerola, Contigliano e Rocca di Papa". "Segno evidente – aggiunge – che prima non si è fatto abbastanza per evitare scenari di questo tipo". E a far discutere ora sono anche i test sierologici dedicati a medici e forze dell’ordine. Non solo non sarebbero ancora arrivati, ma quelli acquistati, come abbiamo scritto anche qui, sarebbero incompleti. Ovvero, traccerebbero soltanto le immunoglobuline G, quelle che indicano gli anticorpi sviluppati in seguito alla malattia. Insomma, ci direbbero soltanto se è stato contratto il virus in passato ma non ci darebbero informazioni sull’attuale positività di chi si sottopone al test. Una notizia fondamentale per individuare i pazienti asintomatici, al fine di isolarli per evitare la diffusione del contagio, ed iniziare tempestivamente le cure.

Coronavirus. Patto Professione Medica attacca Iss e Protezione civile: “Su Dpi hanno esposto medici e sanitari al contagio con scelte irresponsabili”. Cimo, Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici e Cimop annuciano la volontà di sporgere “denuncia all’Autorità Giudiziaria in merito al comportamento inadeguato e “incivile” della Protezione Civile alla luce del recente gravissimo episodio riguardante la fornitura per uso medico di mascherine FPP2 non idonee ad uso sanitario. Al tempo stesso, chiederà al Ministro della Salute di procedere alla sostituzione dei componenti del Gruppo Tecnico dell’Iss per il lavoro fino ad oggi palesemente inadeguato nei confronti della sicurezza dei medici e degli operatori sanitari”. Da quotidianosanita.it il 3 aprile 2020. Il Patto per la Professione medica, unione di sindacati Cimo, Fesmed, Anpo-Ascoti-Fials Medici, Cimop lancia una ferma accusa contro le “scelte irresponsabili” di Protezione Civile e Istituto Superiore di Sanità in merito ai Dispositivi di protezione Individuali destinati ai sanitari, le cui “nefaste conseguenze sono tristemente visibili”.  E si riserva di presentare specifica denuncia all’Autorità Giudiziaria contro la Protezione Civile e di chiedere l’intervento del Ministro della Sanità sull’ISS. Secondo il Presidente del Patto per la Professione Medica, Guido Quici, “La pandemia che ha colpito il nostro Paese ha svelato la realtà di un servizio sanitario nazionale fragile, frammentato, non adeguatamente attrezzato per la complessa gravità degli eventi ma indubbiamente unico e generoso in termini di impegno professionale e civile dei medici e sanitari. Un impegno professionale – già prima dell’emergenza Covid-19 - fatto di turni massacranti in un contesto di assoluta e grave carenza di risorse umane e strumentali; un impegno civile e deontologico diffuso, dimostrato dagli oltre 18.000 medici e infermieri che hanno risposto all’appello per la richiesta di 800 volontari; un impegno ricco di coraggio, quello di chi è esposto per curare gli altri senza aver ricevuto idonei mezzi di difesa; un impegno fatto di sacrifici che ha coinvolto anche le famiglie e gli affetti di ciascun operatore sanitario”. “Ecco perché – sottolineano gli aderenti al Patto – non possiamo tacere né dimenticare e sentiamo il dovere di denunciare che l’enorme tributo dei medici e sanitari in termini di vite umane e di contagi è legato alla carenza o addirittura alla mancanza di DPI (Dispositivi Individuali di Protezione), ai lunghi tempi di attesa per un tampone, alla confusione organizzativa delle Regioni e della logistica, fino all’eccessiva esposizione al contagio per condizioni di microclima inaccettabili”. “Non è immaginabile – prosegue - che una Nazione avanzata come l’Italia non assuma protocolli così impellenti sugli operatori sanitari e non produca quantità sufficienti di dispositivi individuali di protezione; non è corretto che il Governo attribuisca la responsabilità della pandemia in Italia ad una struttura ospedaliera perché non avrebbe operato “in linea” con i protocolli; non è ammissibile che la Protezione Civile fornisca presidi scadenti e soprattutto non idonei, che espongono i sanitari al contagio ed alle conseguenze tristemente note; è inammissibile che non si possa vigilare, con attenzione e scrupolosa responsabilità, che le norme siano osservate e messe in atto; non è accettabile che, in assenza di adeguati DPI previsti dalle numerose norme e da comprovate evidenze scientifiche, si possa derogare alla sicurezza; soprattutto, è vergognoso che i colleghi dirigenti dell’Istituto Superiore di Sanità, attraverso le proprie linee, abbassino i livelli di protezione individuale sulla base non di evidenze scientifiche ma di esigenze di Governo e successivamente le modifichino repentinamente a causa dei palesi errori che hanno esposto medici e operatori sanitari al contagio”. “L’aver fornito o indicato – rileva la nota -  come idonei dispositivi di protezione che non lo sono (dalle mascherine “swiffer” a quelle da muratore, o camici da pittore/pasticciere o simili), non solo espone a inevitabile contagio chi è a contatto diretto con pazienti COVID-19 ma, indirettamente, abbassa la percezione del rischio negli stessi operatori, convinti di essere effettivamente protetti dall’infezione virale”. “Nessuna sorpresa, quindi, per l’elevato numero di contagi e di morti, bilancio che aumenterà nei prossimi giorni quale esito infausto di scelte irresponsabili. Nessuna delle OO.SS. aderenti al Patto per la Professione Medica - CIMO, FESMED, ANPO-ASCOTI-FIALS Medici, CIMOP -  può tacere né dimenticare e valuta, pertanto, di presentare specifica denuncia all’Autorità Giudiziaria in merito al comportamento inadeguato e “incivile” della Protezione Civile alla luce del recente gravissimo episodio riguardante la fornitura per uso medico di mascherine FPP2 non idonee ad uso sanitario; al tempo stesso, chiederà al Ministro della Salute di procedere alla sostituzione dei componenti del Gruppo Tecnico dell’Istituto Superiore di Sanità per il lavoro fino ad oggi palesemente inadeguato nei confronti della sicurezza dei medici e degli operatori sanitari”.

L'avvocato Vinci: "I sanitari adesso portino in tribunale il governo". Paolo Vinci, avvocato ed esperto di sanità da oltre trent'anni, ci racconta perché, quando la pandemia sarà stemperata, ci sarà un boom di cause intentate dai parenti dei medici caduti in servizio contro il coronavirus, che si sommeranno a quelle degli eredi dei comuni cittadini vittime del Covid-19. Fabio Franchini, Sabato 04/04/2020 su Il Giornale. Sono settantatré i medici caduti sotto i colpi dei coronavirus. "Lo Stato ha spedito dottori e infermieri al fronte senza dare loro le adeguate protezioni", sostiene Paolo Vinci, avvocato ed esperto di sanità da oltre trent'anni. Ecco perché, racconta, molto probabilmente, quando a pandemia sarà stemperata, ci sarà un boom di cause intentate dai loro eredi, che si sommeranno a quelle dei parenti delle vittime del Covid-19.

Avvocato Vinci, i medici sono stati lasciati soli?

"Quello che ha fatto e sta facendo il governo nei loro confronti non basta affatto. Sono stati mandati allo sbaraglio, con mezzi inadeguati, a combattere il coronavirus. E purtroppo abbiamo già 73 medici ed una decina di infermieri morti. Insufficienti sono i dispositivi di protezione e anche insufficienti sono le tutele a livello legale: in questo momento, giustamente, gran parte del Paese nutre ammirazione e gratitudine per il sacrificio di medici ed infermieri, veri eroi, ma molte migliaia di decessi sono un bilancio troppo pesante che lascia sul campo rancori, amarezze, voglia di caccia al colpevole e di facili capri espiatori"

Ecco, a tal proposito veniamo al piano giuridico: cosa ne pensa del cosiddetto scudo penale per i medici?

"Dico che esisteva già, grazie a una giurisprudenza precedente, in evoluzione costantemente uniforme, una garanzia forte per il sanitario che, grazie alle Leggi Balduzzi prima e Gelli-Bianco poi, poteva sostanzialmente già dormire sonni tranquilli sotto il profilo penale. È sotto gli occhi di tutti che la classe medica, in questi giorni, oltre a far fronte a un impegno straordinario senza precedenti, corra, paradossalmente, il rischio di doversi difendere da coloro che invitano i cittadini a denunciare veri o presunti casi di malasanità. È in questo solco che allora arriva la notizia, da parte del governo, dell'approvazione di un emendamento al Cura Italia che introduce una sorta di scudo penale a difesa di medici e sanitari impegnati negli ospedali investiti dall'emergenza coronavirus".

Ma era già previsto…

"Sì, una sostanziale e profonda depenalizzazione è già prevista. Infatti, secondo l'articolo 54 c.p. 'Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo'. Non a caso, circa il 97% dei procedimenti penali nei confronti sanitari si conclude con un'archiviazione o un'assoluzione".

Quindi, in verità, il governo non ha fatto niente di concreto?

"Esatto, anzi: ha fatto tanto rumore per nulla. Nel decreto, il governo ha 'gattopardianamente' detto tutto per non dire nulla, per declinare affermazioni pleonastiche e sterili".

Ma che cosa succederà in caso di eventuali future azioni giudiziarie?

"Siamo in presenza di una pandemia, per cui le compagnie di assicurazioni degli ospedali potrebbero eccepire e contestare tutto e il contrario di tutto. Nel caso in cui io fossi chiamato a difendere un medico – e la cosa succederà – andrei senza mezzi termini a chiamare in causa chi lo ha mandato allo sbaraglio, ovvero lo Stato attraverso i Ministeri interessati".

Insomma, il governo è colpevole?

"Nel momento in cui tutto questo finirà, ci si domanderà chi è stato il colpevole di tutto questo. Quando si esaurirà la spinta propulsiva emotiva sociale, per qualcuno arriverà il giorno del redde rationem. Qualcuno che, al di là delle belle parole, ha fatto delle pessime, inadeguate e improvvide azioni…"

È stato chiarissimo. Per tirare le fila, secondo lei saranno più le cause intentate dai cittadini contro medici e ospedali o quelle dei medici stessi contro le istituzioni?

"Ecco, è esattamente questo il punto critico e la risposta paradossale è una sola: entrambe. Gli eredi dei cittadini che potevano essere salvati e non lo sono stati, per mancanza dei mezzi adeguati, agiranno contro le aziende pspedaliere e, specialmente se saranno operativi i decreti attuativi della Gelli-Bianco, contro le loro compagnie assicuratrici. Ma le aziende ospedaliere si dovranno strenuamente difendere, e invito loro a farlo, andando a tirare per la giacchetta lo Stato, che non le ha poste nelle condizioni di salvare tutte le vite che potevano essere salvate".

Idem gli eredi dei medici?

"È scontato che gli eredi di questi eroi agiranno giudizialmente nei confronti del ministero della Salute, non avendo adeguatamente provveduto a garantire la loro incolumità quando li hanno spediti al fronte. I medici ci sono andati e hanno lavorato e combattuto in prima linea con eroica abnegazione, peraltro consapevoli del rischio che correvano. Ciò nonostante, lo hanno fatto per amore e dedizione verso la loro nobile professione. I mariti, le mogli e i figli dei medici caduti hanno tutte le ragioni del mondo – e io sono pronto a stare al loro fianco – per chiedere un giusto risarcimento. E sfido chiunque a sostenere il contrario".

Coronavirus, medici e sanitari denunciano il governatore della Toscana. Gabriele Laganà, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. L’emergenza coronavirus è ancora nella più acuta, in quanto non è stato raggiunto il picco nei casi di contagio, ma già si iniziano a sentire boati di una possibile guerra legale. Campo di battaglia è la Toscana. A finire nell’occhio del ciclone sono il presidente piddino della Regione, Enrico Rossi, l’assessore alla Sanità, Stefania Saccardi, e il direttore del Dipartimento regionale per le maxi-urgenze, Piero Paolini. Come racconta La Verità, i tre sono stati denunciati alla Procura della Repubblica di Firenze dallo Snami, Sindacato nazionale autonomo dei medici, dalla Fismu, Federazione sindacale dei medici uniti, e dal Cobas della Asl Toscana Centro, che rappresenta i sanitari dell'emergenza 118 che operano sulle ambulanze. Scopo dell’azione legale è quello di accertare se sussistano gli estremi di una serie di gravi reati come istigazione a delinquere, lesioni colpose gravi, epidemia colposa, omissioni d'atti di ufficio. Due sono le pesanti accuse rivolte contro i tre: quella di aver dotato di mascherine del tutto inadeguate i medici impegnati nella lotta contro il coronavirus e le regole ritenute essere deontologicamente scorrette imposte dalla Regione Toscana nelle procedure per il trattamento dei malati. Partiamo dal primo punto legato ai sistemi di protezione individuale. La Regione ha dotato i medici di mascherine chirurgiche prodotte da imprese locali. Un esame effettuato dal laboratorio del Dipartimento di chimica dell'Università di Firenze ha ritenuto questi strumenti "soddisfacenti". Ma qualcosa non quadrava. Le organizzazioni sindacali hanno fatto analizzare le mascherine da Alice Ravizza, del Politecnico di Torino, uno dei massimi esperti in materia. Ed ecco l’amare sorpresa: secondo la sua perizia del 20 marzo, le protezioni" non possono essere definite "utilizzabili come dispositivi medici" secondo i contenuti della Circolare del ministero della Salute del 13 marzo". In pratica non soddisfano i requisiti indicati dai presidi medici per fronteggiare il coronavirus. Come se non bastasse, Ravizza sostiene anche che il test effettuato dall'Università di Firenze "non appare fornire garanzie sulle principali caratteristiche tecniche delle mascherine", in quanto non ne valuta "né la filtrazione batterica, né la traspirabilità, né l'indossabilità o la sigillatura al viso". Giovanni Belcari, vice responsabile nazionale 118 dello Snami, a La Verità ha raccontato che dopo il responso, alla Regione sono stati dati due giorni per adeguarsi. "Abbiamo chiesto loro di cercare altri fornitori e mascherine più valide”, ha aggiunto il medico ma “non ci hanno nemmeno risposto". Il timore è che i medici possano essere contagiati dal coronavirus e che, a loro volta, poi possano contagiare involontariamente altre persone. Del resto, anche in Toscana stano aumentando i pazienti positivi al Covid-19. Altra questione denunciata da Fismu, Snami e Cobas riguarda le direttive imposte dalla Regione Toscana in merito alle procedure per il trattamento dei malati. Tra il 13 e il 20 marzo, il Coordinamento regionale delle maxiemergenze ha stabilito le regole che devono seguire gli equipaggi delle ambulanze alle prese con pazienti, anche solo sospetti, di aver contratto il coronavirus. Nel testo, come riporta ancora il quotidiano, si legge che "dovrà essere, per quanto possibile, limitato l'utilizzo di aerosol terapia e C-pap" (le mascherine che si applicano al volto dei malati, ndr). Ma si può limitare, ad esempio, la somministrazione dell’aerosol a chi sta male? Belcari non ci sta. Il vice responsabile nazionale 118 dello Snami ricorda che queste sono le tipiche misure salvavita che non si possono negare a un paziente e, pertanto, le norme sono "inaccettabili, deontologicamente scorrette". "La Regione mi dice: se sei in situazione a rischio, stai fermo. Ma se il viaggio in ambulanza dura mezz'ora, il malato di Covid-19 muore", ha affermato Belcari. Il 18 marzo Snami, Fismu e Cobas hanno chiesto alla Toscana di modificare le regole ma fino ad ora non ci sarebbero state novità. E allora, le tre sigle hanno deciso di iniziare la battaglia legale.

Coronavirus. Avvocati denunciano governo: migliaia di morti per colpa vostra. Rinaldo Ricci su meteoweek.com il  2 Aprile 2020. Gli avvocati Sinagra e Lonoce denunciano i ministri Conte, Speranza e Lamorgese, colpevoli, secondo loro, di avere causato migliaia di morti per "negligenza" nell’emergenza coronavirus. “Salvini indagato per molto meno”. Ora anche gli avvocati attaccano Conte e il suo governo, e in modo formale, con tanto di denuncia depositata alla Procura della Repubblica. Il governo è accusato da due avvocati di non avere fatto il necessario per evitare migliaia di morti per coronavirus.  “Stamattina ho depositato presso la Procura della Repubblica di Roma la denuncia contro Giuseppe Conte, Roberto Speranza e Luciana Lamorgese, a firma mia e dell’Avv. Alfredo Lonoce”. Ad annunciarlo sul suo profilo Facebook, è stato Augusto Sinagra, ex magistrato e professore di diritto dell’Unione europea alla Sapienza, tra gli altri ha difeso CasaPound nella causa vinta contro Facebook. Dopo quella del New York Times arriva un’altra bocciatura per la gestione dell’emergenza coronavirus del governo. Nella denuncia, Sinagra e Lonoce accusano il governo di aver sottovalutato e minimizzato l’emergenza, “omettendo nei tempi e nei modi necessari ogni misura di contenimento e di prevenzione, favorendo l’enorme diffusione” del Covid-19 “con l’impressionante numero avutosi di contagiati e di deceduti”. L’accusa dunque mira ai colpevoli ritardi del governo, arrivato alla chiusura totale della nazione solo a marzo inoltrato e con il contagio ormai diffuso, nonostante già il 31 gennaio fosse stato dichiarato lo Stato di emergenza sanitaria. A finire sotto accusa, anche il pasticcio dell’8 marzo, quando venne dichiarata la chiusura della Lombardia e di altre province causando l’assalto ai treni e la conseguente fuga verso il Sud, peggiorando la situazione. Nel suo post su Facebook l’avvocato Sinagra fa una ulteriore precisazione rispetto alle iniziative legali: “Solo una precisazione: gli Uffici giudiziari sono aperti, così pure i Commissariati di Polizia, i Carabinieri, la GdF e i Consolati italiani all’estero. Esigenze di “giustizia” consentono i necessari spostamenti (comunque minimi). Il collega Lonoce e il direttore de La Verità fanno un paragone con Salvini. “E’ stato indagato per molto meno – dice l’avvocato. “Per avere lasciato dei migranti qualche giorno in mezzo al mare, Matteo Salvini dovrà rispondere addirittura di sequestro di persona” – gli fa eco il giornalista.

Simona Pletto per "Libero quotidiano" il 27 aprile 2020. Mentre il governo si prepara a togliere i "lucchetti" per liberarci dagli arresti domiciliari, c'e chi affila le armi per avanzare azioni legali collettive contro le sanzioni "Covid 19" staccate ai cittadini per le libere uscite non autorizzate e per i danni causati a imprenditori e commercianti per il lockdown. Mauro Sandri, avvocato del Foro di Milano e che lavora anche in Germania, esperto di diritto internazionale, il primo in Italia che ha promosso una causa per i risparmiatori danneggiati dal default argentino che ha fatto giurisprudenza, contro le società di revisione corresponsabili del crack Parmalat, ora si prepara ad una class action che, appena lanciata, ha gia raccolto circa 300 mandati nel giro di pochi giorni.

Avvocato Sandri, qual e il fondamento giuridico della vostra iniziativa?

«Non ci sono alternative per qualunque azienda o lavoratore che voglia sopravvivere a questa emergenza».

Questo per quanto riguarda i danni alle aziende. Invece per le sanzioni dei cittadini beccati ad uscire senza autorizzazione valida?

«Intende dire che per i multati sorpresi a fare una passeggiata oltre 200 metri da casa non vi e stata proporzionalità? In seguito, con la finalità di celare questa abnorme mancanza originaria, che ha causato tra l' altro l' irresponsabile esposizione a rischi elevatissimi del personale sanitario, si e amplificata la gravita del virus. I decessi sono elevati solo in certe aree geografiche e riguardano esclusivamente una fascia d'età Le ultime indagini hanno chiarito che oltre il 50% dei decessi sono avvenuti in case di cura. Il covid 19 non e, certamente, responsabile di tutti i decessi addebitatigli, e se fosse stato affrontato con il minimo di diligenza necessario e dovuto, non avrebbe causato nemmeno gli esiti nefasti che, solo in Italia, si sono verificati. Infine per i medici e le famiglie che hanno avuto vittime causa Covid si investirà il giudice civile con iter fino all' ultimo grado di giudizio che terminerà alla Corte europea. La controparte sarà il Ministero della Sanità».

L'avvocato Ferretti querela Conte e Speranza: "Responsabili epidemia". Giampaolo Giorgio Berni Ferretti, avvocato e consigliere comunale a Milano per Forza Italia, contro il premier e il ministro delle Salute: presentata querela per "delitto di epidemia". Fabio Franchini, Mercoledì 08/04/2020 su Il Giornale. Quali sono le responsabilità del governo in questa epidemia, anzi pandemia di coronavirus? E, innanzitutto, il presidente del Consiglio e il ministro della Salute, nella persone di Roberto Speranza, hanno colpe? Interrogativi ai quali Giampaolo Giorgio Berni Ferretti, avvocato e consigliere comunale del Municipio Uno di Milano per Forza Italia, avanza la sua risposta: sì. E infatti ha presentato ufficialmente una denuncia – alla Procura della Repubblica meneghina – proprio una denuncia-querela contro Giuseppe Conte e il titolare del dicastero della Salute. Ferretti lo fa chiedendo alla Procura di Milano di accertare eventuali responsabilità del ministro della Salute e dell'inquilino di Palazzo per l'epidemia di coronavirus nel nostro Paese. Il legale nell'atto fa riferimento all'articolo 438 del codice penale – "Chiunque cagiona un'epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l'ergastolo" – e anche ad altre norme giuridiche che prevedono pene meno severe se il fatto è commesso a titolo colposo. L'avvocato Ferretti, dunque, riporta gli elementi costitutivi del reato secondo la giurisprudenza italiana: rapidità della diffusione, diffusibilità a un numero indeterminato e notevole di persone, ampia estensione territoriale e diffusione del male. A sostegno della denuncia-querela, l'azzurro riporta quelle che sono le dichiarazioni rilasciate agli organi di stampa da parte Walter Ricciardi, membro del Consiglio esecutivo dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo il quale "paghiamo il fatto di non aver messo in quarantena da subito gli sbarcati dalla Cina. Abbiamo chiuso i voli una decisione che non ha base scientifica, e questo non ci ha permesso di tracciare gli arrivi, perché a quel punto si è potuto fare scalo e arrivare da altre località". E ancora: "Significa che non si sono messe in campo le pratiche adatte, oltre al fatto che il virus è molto contagioso". Nella conclusione dell'atto, Ferretti chiede alla Procura di Milano di "disporre gli opportuni accertamenti in ordine ai fatti così esposti, valutando gli eventuali profili d'illiceità penale degli stessi e, nel caso, individuare i possibili soggetti responsabili che parrebbero essere Il Ministero della Salute e il Presidente del Consiglio dei ministri al fine di procedere nei loro confronti". Infine, si legge anche: "Con il presente esposto si intende inoltre formulare denuncia-querela, sempre in relazione ai fatti sovra descritti, nell'ipotesi in cui dagli accertamenti svolti dalle Autorità competenti dovessero emergere fattispecie di reato per i quali la legge richiede la procedibilità a querela di parte". Ora la parola passa alla Procura, che dovrà stabilire se procedere o meno contro Conte e Speranza.

Giuseppe Conte denunciato per strage per il coronavirus: Taormina, bomba giudiziaria sul governo. Libero Quotidiano il 05 aprile 2020. Una denuncia per strage contro Giuseppe Conte. A presentarla è uno che di giustizia e reati se ne intende, il principe del Foro Carlo Taormina. Come riportato dal Tempo, l'avvocato annuncia il terremoto giudiziario che attende il premier, perché dietro la sua iniziativa c'è un esercito di italiani: "Ringrazio le oltre 700.000 persone che mi hanno, in un solo giorno, voluto sostenere nella denuncia da me presentata alla Procura di Roma contro i responsabili di questa autentica strage colposa di Stato". Il tema, ovviamente, è il coronavirus: il numero dei morti sarebbe legato, spiega Taormina, "ai 40 giorni di ritardo nel chiudere tutto". Nella denuncia parla di "gravissime condotte omissive messe in atto dai nostri governanti e dai consulenti che li hanno assistiti". "Così una massa di contagiati si è trasformata in una massa di morti", sottolinea con rabbia mista ad amarezza. Il legale chiede alle autorità di comunicare quante sono state le persone morte in casa, nonostante una richiesta di soccorso medico, quante quelle morte fuori degli ospedali e "fatte rimanere a crepare nelle autoambulanze perché non c'erano respiratori o letti di terapia intensiva" e quanti infine, siano morti negli ospedali "perché scelti di far morire per salvare altre vite". 

Taormina denuncia governo e autorità sanitarie: “Responsabili di seimila morti”. Redazione de Il Secolo d'Italia mercoledì 25 marzo 2020. L’avvocato e giurista Carlo Taormina ha annunciato sui Social una denunzia penale contro il governo e le autorità mediche italiane. Motivo della denunzia? La gestione disastrosa dell’emergenza coronavirus. “Oggi – scrive l’ex sottosegretario alla Giustizia – sono occupato perché devo scrivere la denunzia da presentare alla Procura di Roma contro questi cialtroni di governanti e questi tromboni di medici che hanno sulla coscienza 6000 morti per averci chiuso in casa con un mese di ritardo. Il problema sarà di trovare magistrati che non siano conniventi col potere e che quindi come al solito vogliamo coprire queste gravissime responsabilità. Vorrà dire che denunzieremo anche i magistrati che non dovessero fare il loro dovere. Da cittadini rispettosi delle istituzioni, abbiamo il dovere di fidarci e quindi di provare”. Proprio in queste ore, si sgretola il muro del “Siamo stati bravi” del governo. Il virologo Massimo Galli, molto onestamente, spiega che l’Italia ha sbagliato nella gestione iniziale. «In Giappone, sono riusciti a circoscrivere il virus per tempo. Hanno individuato velocemente i contagiati, li hanno isolati e hanno ricostruito i loro contatti. In Italia invece l’ infezione ha circolato almeno per un mese senza che ce ne rendessimo conto. Quando tutti, me compreso, pensavamo di essercela cavata, ecco che siamo stati presi alle spalle».

“Colpevole ritardo nelle misure del governo”. Un atto d’accusa altrettanto duro arriva dal Fatto quotidiano. “Sapevano dall’ inizio di dover rafforzare le terapie intensive, fin “dai primi di febbraio” come dice il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Ma è passato un mese prima che il ministero della Salute avviasse l’ acquisto di apparecchi ventilatori. Solo il 5 marzo la Protezione civile ha ricevuto l’ indicazione di comprarne 2.325; solo il giorno dopo è partito il bando Consip per altri 5.000 macchine per la terapia intensiva e subintensiva (gli ormai noti caschi Cpap) ma le consegne non potevano essere immediate e infatti sono ancora in corso”.

Disse: «Non assumerei mai un omosessuale». Per la Corte Ue Carlo Taormina è perseguibile. Il penalista querelato da un’associazione Lgbti dopo le dichiarazioni rilasciate in radio a “La Zanzara”. Simona Musco Il Dubbio il 23 aprile 2020. È legittimo agire in giudizio per discriminazione contro dichiarazioni omofobe in materia di occupazione e di lavoro se pronunciate da chi ha o può avere un’influenza determinante sulla politica di assunzioni di un datore di lavoro. A stabilirlo è la Corte di giustizia europea, chiamata a pronunciarsi sul caso che ha visto coinvolto il noto penalista Carlo Taormina, condannato dal tribunale di Bergamo e dalla Corte d’Appello di Brescia a risarcire con 10mila euro un’associazione di avvocati che tutela i diritti degli omosessuali. A portare Taormina in tribunale le parole pronunciate ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24, quando ha affermato che non avrebbe mai assunto un omosessuale. Taormina avrebbe dunque violato la “direttiva antidiscriminazioni”, nella parte relativa alle “condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro”, pur non essendoci, in quel momento, nessuna procedura di selezione di personale. Il caso è arrivato a Lussemburgo dopo il ricorso di Taormina per Cassazione, i cui giudici hanno girato il quesito alla Corte di giustizia in via pregiudiziale, in merito all’interpretazione della nozione di «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro». Gli ermellini hanno chiesto alla Corte di giustizia di stabilire, in primo luogo, se un’associazione di avvocati, come l’Associazione avvocatura per i diritti Lgbti, abbia un interesse legittimo a garantire che le disposizioni di tale direttiva siano rispettate e, quindi, il diritto di avviare una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla stessa. Legittimazione riconosciuta dal giudice d’appello in quanto, stando allo statuto, l’associazione ha «lo scopo di contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone» Lgbti, «sollecitando l’attenzione del mondo giudiziario», e «gestisce la formazione di una rete di avvocati (…) favorisce e promuove la tutela giudiziaria, nonché l’utilizzazione degli strumenti di tutela collettiva, presso le Corti nazionali e internazionali». La Cassazione ha chiesto anche chiarimenti sui limiti che la normativa per la lotta contro la discriminazione in materia di occupazione e di lavoro appone all’esercizio della libertà di espressione, alla luce del fatto che, nel caso Taormina, non era in corso alcuna selezione di lavoro. La Corte, nel decidere, ha fatto riferimento ad una sua precedente sentenza, Asociația Accept, sottolineando come tali dichiarazioni lascino intendere l’esistenza di una «politica di assunzioni omofoba», nonostante a pronunciarle sia una persona che non abbia la capacità giuridica di assumere. Ad incidere, dunque, sono lo status dell’autore e la veste nella quale si è espresso, data la capacità di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni. Ma da valutare sono anche la natura e il contenuto delle dichiarazioni, il contesto in cui sono state effettuate e, in particolare, il loro carattere pubblico o privato. Un’interpretazione della norma che, secondo la Corte, non comporta alcuna limitazione all’esercizio della libertà d’espressione, che non è «un diritto assoluto» e che può incontrare limitazioni, purché previste dalla legge. Nel caso di Taormina, le limitazioni sono proprio quelle sancite dalla dottrina “antidiscriminazioni” e si applicano soltanto allo scopo di garantire il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, vietando esclusivamente le dichiarazioni che rappresentano una discriminazione in quell’ambito, a tutela di persone ancora oggi oggetto di discriminazione. Ed è per tale motivo che il fatto di costituire un’opinione personale non rappresenta un’esimente, venendo meno, in quel modo, la tutela concessa dalla direttiva. Per la Corte, dunque, «l’espressione di opinioni discriminatorie in materia di occupazione e di lavoro, da parte di un datore di lavoro o di una persona percepita come capace di esercitare un’influenza determinante sulla politica di assunzioni di un’impresa, è idonea a dissuadere le persone in questione dal candidarsi ad un posto di lavoro». Anche sulla legittimazione dell’Associazione ad agire contro Taormina la Corte è chiara: nonostante non sia identificabile una “vittima” specifica di tali dichiarazioni, la direttiva prevede la possibilità, per gli Stati membri, «di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli alla tutela del principio della parità di trattamento rispetto a quelle in essa contenute». Tocca, dunque, agli Stati decidere se lo scopo di lucro o meno dell’associazione possa avere un’influenza sulla valutazione della sua legittimazione ad agire in giudizio. La palla, ora, passa ai giudici di Cassazione, che dovranno risolvere definitivamente la controversia, sulla base dell’interpretazione data dalla Corte di giustizia.

Hanno tolto lo scudo ai medici per levare dai guai Conte & c. Fallisce il blitz Pd per tutelare i politici. Ma salta anche la garanzia sulle eventuali cause ai camici bianchi. Laura Cesaretti, Giovedì 09/04/2020 su Il Giornale. C'è una grande paura che unisce destra e sinistra, maggioranza e opposizione: dopo l'ondata del virus, arriverà lo tsunami delle Procure? Finiranno sotto processo tutti coloro che, da Palazzo Chigi alle sedi delle regioni, hanno preso decisioni sotto la spinta dell'emergenza? Paura comprensibile, in un paese in cui qualunque calamità (dai terremoti alle malattie delle piante) può dare origine a massicce inchieste giudiziarie più o meno complottiste. Il problema è che, stavolta, a farne le spese potrebbe essere proprio chi ha combattuto eroicamente in prima linea il grande contagio: medici, infermieri, personale ospedaliero. Che ora temono di finire nel mirino di valanghe di denunce ritorsive, e di essere lasciati senza protezione, anche a causa di un tentativo bipartisan un po' goffo, e finito male, della politica di tutelare se medesima. La cosa è andata così: tra gli emendamenti al decreto Cura Italia, che andrà oggi in votazione al Senato con la fiducia, ne sono spuntati un paio, di opposta provenienza, che hanno fatto scalpore: uno firmato dal leader della Lega Matteo Salvini, l'altro da due poco noti senatori Pd. Entrambi, con formulazioni leggermente diverse, producevano lo stesso risultato: estendere la protezione (più che legittima) per medici e sanitari anche ai livelli della gestione politica dell'emergenza. «È limitata ai soli casi di dolo e colpa grave - recitava il testo firmato dai dem Paola Boldrini e Stefano Collina - la responsabilità civile, penale e amministrativa dei titolari di organi di indirizzo o di gestione che (...) abbiano adottato ordinanze, direttive, circolari, atti o provvedimenti (...) la cui attuazione abbia cagionato danni a terzi». Mentre quella firmata dal capo del Carroccio diceva: «Le condotte dei soggetti preposti alla gestione della crisi sanitaria derivante dal contagio non determinano, in caso di danni agli stessi operatori (sanitari, ndr) o a terzi, responsabilità personale di ordine penale, civile, contabile». Quando, spulciando la valanga degli emendamenti, sono stati scoperti i due commi, si sono levate le proteste incrociate, da opposte sponde: «Ecco l'emendamento salva Fontana voluto dalla Lega», si è tuonato da sinistra. «Ecco l'emendamento salva Conte, Arcuri, Borrelli, Speranza e compagnia voluto dal Pd», si è denunciato da destra. Di fronte alle polemiche, e alle proteste dei sindacati della Funzione pubblica che accusavano la Lega di «scaricare tutto sulle spalle degli operatori sanitari», Salvini ha scelto di ritirarlo perché «si presta a fraintendimenti». Nel frattempo, il capogruppo dei senatori dem Marcucci si infuriava contro i due firmatari del suo gruppo, che - a sua insaputa e su input del ministero della Salute, dicono nel Pd - avevano agganciato il proprio testo a quello firmato da Marcucci e volto proprio a tutelare il personale sanitario. Alla fine di tutto questo cortocircuito, gli emendamenti sono stati tutti ritirati, incluso però anche quello di Marcucci, trasformato in un ordine del giorno che chiede al governo di convocare un «tavolo» per valutare le misure necessarie. «Purtroppo però ora rischia di essere troppo tardi - dicono in casa dem - vedrete tra un paio di settimane che valanga di cause partirà, sollecitate da avvocati o associazioni dei consumatori prive di scrupoli. Un disastro annunciato».

Coronavirus, allarme medici: “Travolti dalle cause, altro che eroi”. di Antonino Paviglianiti il 19 aprile 2020 su Notizie.it. L'allarme dei medici in piena emergenza coronavirus: "Rischiamo di essere travolti dalle cause, altro che chiamarci eroi". E adesso arriva anche un’altra preoccupazione per i medici: le cause che i pazienti e le famiglie delle vittime da coronavirus sono pronti a intentare contro il personale sanitario. L’allarme arriva direttamente da Giuseppe Deleo, medico legale, consigliere OmceoMi (Ordine provinciale dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Milano) e socio fondatore di Amla (Associazione medico-legale ambrosiana); in un documento dal titolo “Orientamento etico-deontologico in ambito di responsabilità civile medica nel contesto di patologie Covid-19 correlate e sue conseguenze”, si evidenziano tutti i rischi che si stanno già correndo dal punto di vista legale e che potrebbero aumentare nei prossimi giorni. Per questo i medici milanesi hanno deciso di mettere nero su bianco e evidenziare tutte le proprie preoccupazioni in merito alla questione ‘cause’: “È crescente la paura degli operatori sanitari relativamente alle svariate notizie di possibili future azioni giudiziarie relative a decessi o sopravvivenze con menomazioni”. Anche l’ordine degli avvocati della Lombardia si è prontamente mosso in merito: “Comportamenti attuali e futuri in tema di accaparramento di clientela e comunque di azioni che non siano rigorosamente allineate ai migliori canoni etici e deontologici non saranno accettati”. Anche perché i medici milanesi evidenziano come il contesto sia: “Particolarmente arduo e difficile sia per le scarse conoscenze scientifiche sulla patologia, sia per il dirottamento di moltissimi sanitari a mansioni emergenziali diverse da quelle attinenti alla propria preparazione e specializzazione”. Le associazioni di categoria invitano i propri iscritti al pieno e intransigente rispetto dei migliori principi deontologici, fornendo pareri e supporto peritali (in particolare nel ruolo di consulenti tecnici di parte) che siano ispirati alla più prudente e cauta valutazione della condotta degli operatori sanitari impegnati in questo difficile momento. In un’intervista al Corriere della Sera, inoltre, Giuseppe Deleo propone alcune soluzioni per andare incontro all’emergenza cause da coronavirus. “Una proposta che riteniamo interessante, e che avanziamo in forma di auspicio non avendo voce legislativa in capitolo – ha detto il medico milanese -, è quella di un indennizzo di Stato, indipendente dal sussistere di fatti colposi, su modello della legge 210/1992 che ha riconosciuto un risarcimento alle vittime di trasfusioni di sangue infetto, con l’intento di bloccare, di fatto, il ricorso alle vie giudiziarie. Riteniamo che un provvedimento sociale di questo tipo potrebbe rappresentare una soluzione”. E anche per i medici di famiglia: “Vale in gran parte quanto detto finora: sono stati costretti a gestire situazioni particolari, a riorganizzarsi, seguendo direttive regionali che cambiavano di giorno in giorno. Hanno affrontato grandi difficoltà organizzative, la necessità di dare istruzioni alle famiglie dei positivi, la scelta delle terapie di primo approccio”.

I medici eroi sono a rischio denuncia, serve amnistia come scudo penale per la pandemia. Tiziana Maiolo de Il Riformista il 3 Aprile 2020. Ci vorrebbe un’amnistia, come provvedimento eccezionale, un po’ come quella di Togliatti del 1946 al termine del secondo conflitto mondiale, quando finirà la guerra della pandemia Covid-19, in favore di tutti coloro che con fatica e abnegazione stanno cercando di salvare vite negli ospedali. Parliamo di medici, infermieri, operatori sociosanitari e socioassistenziali, ma anche di personale tecnico e amministrativo e dirigenziale di nosocomi, case di cura e residenze per anziani. Oltre, naturalmente, ai medici di famiglia, quelli che più di altri stanno soffrendo oggi la fatica di dover assistere i propri pazienti spesso privi dei necessari presidi sanitari. Sono già 69, alla data di ieri, i medici morti di coronavirus, e circa diecimila gli operatori sanitari contagiati dall’epidemia. Ma solo l’idea di dover aggiungere allo stress fisico e psicologico quotidiano anche l’ansia di dover subire, al termine dell’emergenza, anche un processo civile o penale per qualche errore reale o presunto, sta creando tensioni che sarebbe preferibile evitare in questo periodo. Nei giorni scorsi il sostituto procuratore generale di Bologna, Walter Giovannini, intervistato dal quotidiano La Verità, aveva proposto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non relativa solo all’eccezionalità di questo periodo, sottolineando anche il fatto che l’incriminazione per colpa non esiste negli Stati Uniti né in Francia. E ieri, in un articolo sulla Stampa, il professor Gustavo Zagrebelsky proponeva l’introduzione di una causa di non punibilità che liberasse i medici e tutto il personale sanitario anche della pena di esser sottoposti a processo. Due pareri autorevoli, che qualcuno mostra di ascoltare. Si è mosso il presidente del gruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, primo firmatario di un emendamento al decreto Cura Italia che ho lo scopo di creare una barriera immunitaria intorno ai medici per frenare la tentazione di sfogare sui sanitari il dolore e la rabbia conseguenti al fatto che tanti si sono ammalati e tanti purtroppo non ce l’hanno fatta. L’emendamento è una sorta di provvedimento emergenziale al contrario, cioè di tipo garantistico invece che di inasprimento delle pene come sono in genere le leggi emergenziali. Propone di creare un vero cordone protettivo su tutte le «strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private e gli esercenti le professioni sanitarie-tecniche amministrative del Servizio sanitario». Lo scudo è limitato solo a tutti i comportamenti e gli eventi che si siano verificati durante il periodo dell’epidemia da Covid-19 e propone innanzi tutto di esimere da responsabilità civile o danno erariale tutti i soggetti, pubblici e privati che abbiano svolto in quell’ambito la loro attività professionale, tranne i casi di condotte dolose o di colpa grave. La proposta di immunità si estende anche al campo penale, ed è questa la novità più rilevante e anche più delicata, finalizzata soprattutto a che, nel dopo virus, non si crei un ingorgo processuale tipico dei “dopoguerra”, cioè i momenti in cui si cerca giustizia spesso lasciando prevalere il dolore rancoroso e un po’ disperato, afferrando la prima ciambella che pare di salvataggio, anche se spesso è controproducente. Va ricordato che in genere il 90% dei medici chiamati in causa dai pazienti viene prosciolto o assolto. Anche perché è difficile dimostrare che un sanitario abbia agito per colpa grave, cioè con «macroscopica e ingiustificata violazione dei principi basilari che regolano la professione sanitaria o dei protocolli o programmi emergenziali». Vista la stima, fondata, di cui godono in questo momento tutti gli operatori del sistema sanitario, si presume che in sede di conversione del decreto Cura Italia la proposta del Pd (cui si accompagneranno anche altre dei partiti dell’opposizione) avrà l’unanimità dei consensi. Il che servirà a tranquillizzare gli animi non solo ai sanitari, ma anche in parte al clima politico. Che, se sul piano nazionale può contare di una certa disponibilità sia dei partiti di governo che delle minoranze a mettere in campo il massimo delle energie per fronteggiare un’emergenza veramente eccezionale, comincia a presentare delle crepe in particolare all’interno della Regione Lombardia. Prima c’è stata una lettera critica dei sette sindaci Pd al governatore Fontana, poi la richiesta, sempre della sinistra, di un consiglio regionale straordinario per discutere del coronavirus e delle responsabilità della Giunta. Un chiaro messaggio ostile non solo al Presidente della Regione, ma anche all’assessore al welfare Gallera, che ha avuto grande visibilità sul piano nazionale in questo periodo, tanto da esser visto da molti come un possibile antagonista alle elezioni comunali del 2021 del sindaco milanese Beppe Sala. Il quale è in difficoltà per aver sottovalutato la gravità dell’epidemia a lungo e per aver stimolato i cittadini milanesi a uscire, oltre che ad aver organizzato il famoso aperitivo con il segretario del Pd Nicola Zingaretti (che in seguito risulterà contagiato) e i giovani del partito. Se ci sarà l’assemblea in Regione, dove governa il centrodestra, è possibile quindi che ci possa essere una ripercussione in Comune a Milano, dove governa la sinistra. E non ne verrà niente di buono per nessuno. Sarebbe meglio, mentre si cerca un’amnistia per i medici, costruirne una anche per le polemiche politiche. Non è il momento dei litigi, proprio no.

I penalisti: “Non difenderemo chi vuole fare causa ai medici”. Viviana Lanza de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Due casi a Napoli e uno a Scafati. Ci sono associazioni e professionisti che offrono assistenza legale, talvolta anche gratuita, per intentare cause in materia di malasanità legata all’emergenza da Covid-19. “È sciacallaggio”, insorge l’avvocatura napoletana. La maggior parte degli avvocati concorda nel contestare l’atteggiamento di chi, fra i colleghi, prova a risollevarsi dalla crisi di questo periodo cercando nuovi clienti tra i pazienti positivi al Coronavirus o, comunque, tra i cittadini che direttamente o indirettamente hanno avuto esperienze sanitarie legate a tamponi, ricoveri e lutti. La questione è molto discussa sui social da un po’ di giorni a questa parte e ha aperto un dibattito sui limiti e i confini dell’etica e del diritto. “È come dire non difendo chi è accusato di omicidio o di spaccio di droga, eticamente se ne può discutere ma giuridicamente è una aberrazione perché siamo avvocati”, fa notare qualcuno criticando il fatto che siano pubblicizzate prestazioni gratuite e non anche la scelta in sé di incentivare contenziosi in tema di sanità al tempo del Coronavirus. Ma è una voce fuori dal coro di no che prevale tra gli avvocati napoletani e che si è sollevato fino a portare il Consiglio dell’Ordine di Napoli, presieduto da Antonio Tafuri, a diramare un comunicato per sottolineare che l’avvocatura è con i medici, con gli infermieri e con tutti gli operatori sanitari che sono in prima linea nella lotta al Coronavirus. “A loro va vivo apprezzamento e sentita riconoscenza”, si legge nel documento degli avvocati napoletani con cui la categoria “si dissocia da inopportune iniziative pubblicitarie di offerte di prestazioni legali per contenziosi da instaurare con riferimento a contagi da Coronavirus, valutando da subito i comportamenti deontologicamente rilevanti ed eventualmente segnalarli al competente consiglio di disciplina”. “Lo studio legale comunica alla spettabile clientela che non accetterà incarichi professionali oggettivanti responsabilità medica”, intanto, è l’avviso degli avvocati Raffaele e Vincenzo Maria Sassano, tra i primi a prendere questa posizione pur avendo una lunga esperienza in giudizi in materia di malasanità. “Ci sembra la decisione più giusta in questo momento”, spiegano. E i più condividono.

Da eroi a capri espiatori sui medici piovono le denunce. Hanno perso decine di uomini, ma c'è già chi vuole portarli in tribunale. E i dottori chiedono un'amnistia. Alberto Giannoni, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Milano. Da eroi collettivi a capri espiatori il passo è breve. E doloroso. I medici cominciano a subire la minaccia delle cause legali. E da Milano parte un appello al Quirinale e alla politica, perché si introduca uno strumento di tutela generale in questo caos. Fino a ieri i camici bianchi erano indicati come artefici di una pagina esemplare di abnegazione. Arruolati a volte in via straordinaria, sono stati contagiati in gran numero e spesso uccisi dal virus, infine stremati da turni e pressioni disumane. Ora vengono additati invece, e cominciano a intravedere l'ombra di rivalse temerarie e di paradossali ripercussioni giudiziarie. Il tam-tam è partito, corre sui gruppi facebook sospinto da gruppi, pseudo-associazioni e figure con pochi scrupoli. Un cardiochirurgo milanese ha scritto all'ordine professionale. Ha preso l'iniziativa «nel ricordo dei colleghi caduti durante questa tragedia, perché il loro esempio ci guidi in questa difficile missione». Ha sollevato il tema della responsabilità, e di polizze che prevedono un rischio commisurato all'attività specialistica dichiarata. «Pur in una situazione di emergenza, e nonostante le continue dichiarazioni sui media del ruolo eroico del personale sanitario - ha avvertito - sono crescenti le denunce di parenti». Un collega rianimatore si sfoga: «I turni sono massacranti, ed è difficile resistere, anche perché molta gente comincia a pensare alle denunce. I parenti chiedono le cartelle se il familiare è morto, domandano perché non è stato intubato prima e quali farmaci sono stati somministrati. Da eroi siamo diventati responsabili, questo fa perdere la voglia di rischiare la pelle. È assurdo». Stefano Carugo, noto cardiologo, solleva la questione senza giri di parole: «Tutti lavorano a testa bassa, si fanno miracoli e vorremmo continuare a occuparci esclusivamente dei pazienti da salvare, senza passare il tempo a fare le fotocopie delle cartelle cliniche». «Vediamo il pericolo di conseguenze isteriche e di una guerra legale, fioccheranno denunce, temo. La mia idea, oltre ai balconi che vanno bene, è che si preveda per gli operatori sanitari in situazione di guerra una sorta di amnistia». Carugo è stato consigliere regionale, è professore universitario e presidente lombardo della società di cardiologia. Ma è anche in prima linea, come direttore del dipartimento cardiorespiratorio dell'Asst «Santi Paolo e Carlo». Racconta, una situazione di emergenza che da fuori non si coglie fino in fondo. «La situazione è devastante, la Lombardia sta facendo miracoli, ogni giorno è un dramma e a tanti colleghi viene chiesto di fare cose mai fatte, a stipendi invariati ovvio. Siamo tutti in un frullatore e purtroppo si devono compiere anche scelte drammatiche, fra pazienti con diversa speranze e possibilità di sopravvivenza». «Già fioccano le denunce - prosegue - e magari le inchieste, se ne parla ogni giorno. Vale per i medici e per le direzioni sanitarie. E allora dico: agiamo ora, in questa fase dei medici eroi, perché fra due mesi inizierà la bagarre politica e i medici rischiano di restare in mezzo, saranno i capri espiatori perfetti. Il presidente Mattarella ha usato le parole giuste, di unità e concordia. Con questo spirito, allora, agiamo subito, è importante per poter continuare con la necessaria serenità».

Coronavirus, 63 anziani morti in una Rsa. I parenti: "Pronta la denuncia". In un mese, i 150 ospiti della struttura sono diventati quasi la metà. Un parente: "Presentiamo denuncia perché si faccia luce su come è stata gestita la faccenda". Giorgia Baroncini, Mercoledì 01/04/2020 su Il Giornale. È salito a 63 il numero degli anziani deceduti alla residenza Borromea a Mediglia (Milano). In un mese, i 150 ospiti della struttura privata sono diventati quasi la metà. In poco tempo, la Rsa si è trasformata in un focolaio per l'infezione da coronavirus e ora i parenti delle vittime vogliono capire cosa sia davvero successo. E così, "una denuncia collettiva contro ignoti è pronta a partire". Lo ha raccontato all'Agi Leonardo La Rocca, nipote di una donna ospite della residenza. Suo suocero è deceduto, contagiato verosimilmente andandola a trovare. Gli anziani infatti sarebbero stati lasciati senza protezioni e si sarebbero contagiati tra loro per poi infettare anche i parenti in visita. "La denuncia, ai carabinieri contro ignoti, la presentiamo perché si faccia luce su come è stata gestita tutta questa faccenda, sia dentro che fuori dalla struttura - ha spiegato l'uomo - . Al momento siamo una quindicina di persone tutte con qualcuno che è dentro o che era dentro la Rsa, ma si continuano ad aggiungere parenti perché di giorno in giorno cambia il numero dei decessi. È questa l'unica ragione per cui non l'abbiamo ancora fatta: continuano a chiamarci parenti di altre vittime dicendo 'anche noi vogliamo unirci'". La Rocca ha poi precisato che la denuncia verrà presentata domani e nel frattempo "partirà anche una diffida affinché ci sia una sanificazione della struttura socio sanitaria, che non è stata ancora fatta". Secondo quanto raccontato dall'uomo, i primi casi di contagio potrebbero risalire al 23 e 24 febbraio. "Se questo fosse vero - ha tuonato -, sarebbe di una gravità enorme. Significherebbe che hanno insabbiato e tenuto nascoste le notizie; che non hanno comunicato nulla. Se questa notizia sarà accertata significa che li hanno ammazzati. E hanno anche aperto ai parenti la settimana successiva alla prima chiusura del 23 marzo, rischiando di ammazzare anche i parenti. Confidiamo che la magistratura possa fare delle verifiche". Dalla struttura hanno spiegato di aver applicato tutte le procedure subito dopo la scoperta del primo paziente a Codogno. Ma l'uomo, così come altri parenti, non ci sta. "C'è un rimpallo fenomenale - ha dichiarato -, un trasferimento di fiammiferi accesi tra amministrazione comunale, la Rsa e l'Ats senza soluzione di continuità da quasi un mese, senza che sia stata fatta una ispezione, una sanificazione e neanche solo una ordinanza per programmarla. Stiamo sfiorando il 50 per cento dei decessi sul totale degli ospiti e ancora stanno giocando rimandandosi a vicenda di chi è la responsabilità di attivare la sanificazione".

Coronavirus, Vittorio Sgarbi denunciato dagli scienziati: «Ho solo raccomandato precetti cristiani». Il Mattino Domenica 15 Marzo 2020. Dopo i video e i messaggi sul Coronavirus, Vittorio Sgarbi è stato denunciato dall'associazione Patto Trasversale per la Scienza (Pts). Attraverso i suoi canali social il critico d'arte aveva più volte minimizzato l'emergenza Covid-19. A Chi l'ha Visto? il suo atteggiamento era stato equiparato a un reato, ma lui ci tiene a chiarire di non aver istigato nessuno. Durante la trasmissione si faceva riferimento al suo invito ad andare in giro e persino a Codogno. Su Facebook la replica all'esposto penale dell'associazione fondata da Roberto Burioni e Guido Silvestri. «Le mie posizioni sono quelle di molti scienziati. Dal Governo strategia della tensione per coprire le inefficienze del sistema sanitario. Ogni mia dichiarazione è ispirata alla posizione di uomini di scienza che hanno indicato i limiti del virus rispetto alla mortalità». «Nessuna mia affermazione - scrive il critico d'arte - prescinde dalle posizioni di virologi ed epidemiologi quali Gismondo, Bassetti e Tarro, ai quali mi sono ispirato. Non ho istigato nessuno - sottolinea - ma ho raccomandato i precetti cristiani della visita agli infermi nel momento in cui si è dichiarato che a Codogno il virus era stato debellato». «Tra le opere di misericordia - continua Sgarbi - c’è l’obbligo di visitare gli infermi. Denuncio quindi la prepotenza, l’aggressione, la presunzione di verità di chi, in nome della scienza, nega i dati oggettivi sulla malattia, virale ma non mortale, per coprire le insufficienze dello Stato nella sanità, procurando allarme e confondendo le cause di morte per attribuirle indebitamente al Coronavirus». E ancora: «Per questa strategia della tensione si inventano associazioni inesistenti e farlocche, che approfittano della paura e della intimidazione, come il sedicente “Patto trasversale per la scienza”, che non ha niente a che fare con la scienza e che è espressione di una prepotenza che approfitta della paura dei cittadini e la propaga». Poi l'annuncio: «Ho dato mandato all’avvocato Cicconi di procedere contro chi si investe della scienza senza averla, diffondendo ignoranza. Vi chiedo - conclude - di condividere questo messaggio».

Dagospia il 26 marzo 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Dovremmo essere tutti responsabili. Io non ero sufficientemente preparato ad affrontare un tema come questo, che mi sembrava più piccolo di quanto non sia nelle proporzioni”. Dopo un mese di polemiche e battibecchi in radio e tv, a La Zanzara su Radio 24 Vittorio Sgarbi ammette: “Non avevo titolo a parlare, posso solo fare valutazioni sui dati. E dico che nel mondo potrebbero esserci il settanta per cento di contagiati. Dunque le considerazioni polemiche che io ho fatto sono in realtà difficili da sostenere oggi perché siamo in guerra contro un mostro sconosciuto. Non abbiamo delle armi per affrontarlo. E’ come l’urlo di Munch e non si capisce perché, non è che gli sparano. Non si sa cosa ha. Non sapere è molto più pesante che sapere. Dunque mea culpa, mea grandissima culpa. Ma sono stato depistato da persone che consideravo rassicuranti e capaci”.

L'invettiva del critico d'arte. Sgarbi contro Burioni: “Il Patto Trasversale per la Scienza lo denunci”. Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. “Il Patto trasversale per la scienza ha intenzione di denunciare anche il suo fondatore?”. È l’interrogativo che si pone Vittorio Sgarbi, che rilancia su Twitter la ‘battaglia’ contro il virologo Roberto Burioni. Il critico d’arte e parlamentare ha infatti chiesto al PTS di riservare al suo fondatore il trattamento adottato nei confronti della dottoressa Gismondo, la direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano, diffidata nei giorni dal Patto “per le gravi affermazioni ed esternazioni pubbliche sul coronavirus, volte a minimizzare la gravità della situazione e non basate su evidenze scientifiche”. Nell’invito a usare lo stesso metodo anche per Burioni, Sgarbi pubblica nel suo tweet anche un lancio dell’agenzia AdnKronos del 2 febbraio scorso proprio su Burioni. All’interno vengono riportate alcune dichiarazioni del virologo rilasciate a  Che Tempo Che Fa, la trasmissione in onda su Rai 3 e condotta da Fabio Fazio. In quell’occasione Burioni disse infatti che “”In Italia il rischio è 0. Il virus non circola. Questo non avviene per caso: avviene perché si stanno prendendo delle precauzioni”. “Questi allarmi continui non sono necessari: bisogna basarsi solo sui casi confermati ed è davvero odiosa questa discriminazione contro i cinesi e contro gli italiani di origine cinese. È una cosa barbara”, evidenziava Burioni. 

Novella Toloni per il Giornale il 28 marzo 2020. È guerra aperta sui social tra Fedez e il Codacons. Nelle ultime ore sono molti i personaggi famosi che si sono schierati al fianco del rapper dopo le sue denunce contro l’associazione dei consumatori. Nella polemica mediatica si è inserito, con un tweet, anche Salvo Sottile, conduttore "Mi Manda Raitre", che ha espresso il suo disappunto sulla questione. Il Codacons ha avviato un accertamento con l'Antitrust per verificare la correttezza e la trasparenza delle raccolte fondi nate nelle ultime settimane per finanziare la lotta al coronavirus. Compresa quella lanciata da Fedez e Chiara Ferragni. Il rapper si è scagliato contro l’azione dell’associazione ritenendola assurda e ingiusta. La denuncia di Fedez si è spinta però oltre. Il rapper ha polemizzato contro il Codacons che avrebbe sfruttato l’emergenza da Covid-19 per raccogliere donazioni per sostenere l’operato dell’ente. La polemica è iniziata a girare sui social, incontrando il favore pro-Fedez di molti volti noti. Tra loro anche il conduttore Salvo Sottile che, attraverso il suo profilo Twitter, ha espresso il suo disappunto: "Ne ha scritto Fedez (mostrando il post di Fedez) ma che vergogna!". Le parole di Salvo Sottile non sono piaciute al Codacons che, con una nota ufficiale, ha annunciato di aver denunciato alla Procura il conduttore: "Salvo Sottile nella foga di attaccare ieri il Codacons, ha preso le difese di Fedez senza dare spazio alle replica fornita dall'associazione al rapper, e ha ricordato come il Codacons non sia mai invitato a "Mi manda Raitre"; un vero e proprio autogol perché di fatto conferma le discriminazioni compiute dalla sua trasmissione ai danni dell'associazione, e le violazioni delle regole del pluralismo cui la Rai deve attenersi. Ora Salvo Sottile è stato denunciato in Procura per abuso d'ufficio, e nei suoi confronti è partita una istanza al CdA Rai e alla Commissione di vigilanza perché siano adottati i provvedimenti del caso". Le parole dell’associazione dei consumatori hanno innescato l'inevitabile risposta di Salvo Sottile. Sempre attraverso l’account Twitter, Sottile ha risposto con toni piccati al Codacons, chiedendo alla magistratura di indagare: "Ma il codacons di cui oggi parla Fedez a proposito di donazioni è lo stesso che ha minacciato me e la Rai di chiedere 10 milioni di euro di danni morali perché, una differenza delle altre associazioni, non li invitiamo MAI a "Mi manda Rai Tre"? Speriamo la magistratura indaghi".

Fedez sbotta: "Raccolti 8 milioni per Bergamo, soldi fermi. Il ministero li sblocchi". Il rapper, ospite di Peter Gomez a "Sono le 20", ha invitato il governo a essere più attivo e celere nello sbloccare i fondi raccolti per l’ospedale di Bergamo, attualmente inutilizzati. Novella Toloni, giovedì 19/03/2020 su Il Giornale. Sono centinaia le raccolte di fondi a sostegno degli ospedali italiani che in questi giorni di emergenza da coronavirus si sono attivate. Soldi che però, nella maggior parte dei casi, sono ancora inutilizzati. A lanciare l’allarme è stato il rapper Fedez durante la trasmissione di Peter Gomez "Sono le 20". Il popolare rapper è stato il primo, insieme alla moglie Chiara Ferragni, a lanciare una campagna di raccolta fondi a sostegno dell’ospedale San Raffaele di Milano attraverso la piattaforma di crowdfunding Gofundme. Una gara di solidarietà che in pochi giorni ha fatto registrare oltre 4 milioni di euro di donazioni e che entro il 20 marzo si concretizzerà con l’apertura del nuovo ospedale da campo all’ex fiera di Milano. Non tutte le raccolte fondi lanciate in questi giorni, però, hanno avuto la stessa rapidità di attuazione. Molte campagne hanno raggiunto cifre ragguardevoli che però sono a oggi inutilizzate. L’allarme è stato lanciato da Fedez che, ospite in collegamento dalla sua casa di Milano della trasmissione di Peter Gomez sul Nove, ha parlato di una situazione paradossale: "Pochi giorni fa l’Eco di Bergamo ha scritto un articolo dove spiegava che sono stati raccolti 8 milioni di euro a sostegno dell’ospedale di Bergamo e il rischio è che rimangano lì a prendere la polvere! Quindi serve che il Ministero della Salute o qualsiasi altro ministero che voglia agire aiuti questi ospedali a gestire i denari e le operazioni". Fedez ha sottolineato quanto oggi sia impensabile che gli ospedali pubblici, in questo momento di emergenza, si possano fermare per occuparsi delle questioni burocratiche, serve che enti preposti si occupino della cosa e trasformino la generosità dei donatori in fatti: "Bisogna aiutare gli ospedali pubblici a sbloccare i fondi nella maniera più celere possibile e che qualche istituzione li aiuti a gestire e a fare opere utili a questa emergenza". Fedez ha infine ricordato la necessità di essere rapidi per sostenere medici e infermieri e ridurre il numero dei morti: "In questo momento più celeri si è più si riescono a portare aiuti concreti agli ospedali e agli operatori per affrontare questa emergenza e a salvare vite".

Da “Sono le Venti – NOVE” il 19 marzo 2020. Durante lo SPECIALE SONO LE VENTI di Peter Gomez, in onda mercoledì 18 marzo in prima serata sul Nove, Fedez risponde al direttore del fattoquotidiano.it in merito alle polemiche suscitate dalla campagna di raccolta fondi promossa dall’artista insieme alla moglie in favore del San Raffaele, struttura privata: “Mi mette un po’ in imbarazzo dovermi giustificare su una cosa che è stata fatta a fin di bene e che sta portando oggettivamente dei risultati che salveranno delle vite. Se però sono costretto a farlo... Noi abbiamo dato una scala di priorità rispetto a questa campagna, avevamo due strade” – chiarisce il cantante, collegato da casa – “Inizialmente la nostra opzione era quella di vagliare un ospedale pubblico, però era anche quella di partire nel minor tempo possibile, in questo momento più celeri si è, più si riescono a portare risultati concreti... Ci siamo messi in contatto con l’Ospedale Sacco tramite il dottor Galli, che però purtroppo in quel momento stava gestendo un’emergenza importante e, nonostante servissero poche documentazioni, non è riuscito a mandarmele. Mi sono trovato ad un bivio: o aspettare ulteriori settimane o andare su una strada che mi avesse permesso di farlo nel minor tempo possibile. Non mi pento di questa scelta... Il San Raffaele, essendo una struttura accreditata al sistema sanitario nazionale, è riuscita a sbloccare fondi e gestirli con una rapidità che in questo momento, mi sento di dire, servirebbe anche agli ospedali pubblici”, conclude Federico Lucia al conduttore.

Ilaria Floris per adnkronos.com il 27 marzo 2020. "Sul loro sito ufficiale c'è una campagna per supportare il Codacons contro il Coronavirus. Ma se ci vado a cliccare sopra scopro che hanno fatto un banner sul Coronavirus dove in realtà la donazione va al Codacons, che non si occupa di Coronavirus. E questa è un'associazione parastatale che dovrebbe tutelare i consumatori?". E' scontro acceso tra Fedez e il Codacons: dal suo profilo Instagram, il rapper attacca pesantemente l'associazione a tutela dei consumatori. Nelle sue 'stories', Fedez rivela in realtà il vero motivo dell'attacco. Il rapper non ha infatti affatto gradito che il Codacons abbia inteso "vederci chiaro sulla raccolta fondi lanciata da lui insieme alla moglie Chiara Ferragni," chiedendo all'Antitrust di intervenire sul sito utilizzato dalla coppia, Gofundme. "La proposta del Codacons sarebbe quella di bloccare tutte le raccolte fondi private -dice il cantante- Cioè tutti i milioni di euro raccolti per aiutare gli ospedali pubblici, cancellarli e stopparli. Io sono allibito, qualcuno li fermi". Secca arriva la risposta del Codacons che, contattato dall'Adnkronos, smentisce categoricamente le accuse del rapper. "Intanto dobbiamo ringraziare questo signore, che credo sia un cantante, ma non ne sono certo, perché stiamo ricevendo moltissime donazioni da tanti che non sapevano si potesse fare ed ora grazie a lui lo sanno", dice il presidente del Codacons Carlo Rienzi. Che sul resto spiega: "Fedez non ha capito niente, noi raccogliamo fondi per le denunce, diffide, ricorsi in questo momento di emergenza. Sono già 42 le cose fatte e sì, sono fondi a sostegno del Codacons, ma per l'emergenza Coronavirus". Sull'accusa di voler "bloccare le raccolte fondi private", Rienzi è ancora più netto: "Ma quando mai -attacca Rienzi- Noi abbiamo chiesto con un atto formale al governo che i soldi siano versati direttamente sul conto della Protezione Civile, perché almeno è un ente pubblico, e non si rischia che i privati non le destinino a chi devono" E sottolinea: "Le percentuali che rimangono al privato tra l'altro sono elevatissime: oltre ad un 2,9% di costi di incasso, c'è anche un sistema che individua una percentuale, indicata in una piccolissima postilla che può essere modificata ma quasi nessuno legge, che regala il 10% al privato", spiega il presidente del Codacons. Che conclude una stoccata ai Ferragnez: "Del resto stiamo parlando di gente che passa la vita dentro un armadio o in alberghi di lusso, vendono l'immagine di un bambino di due anni contro tutte le norme internazionali a tutela del fanciullo e che si vende l'acqua della fontana a 9 euro al litro: non mi sembra ci sia altro da aggiungere".

Da quifinanza.it il 27 marzo 2020. Un piccolo miracolo quello che Chiara Ferragni e Fedez sono riusciti a realizzare grazie alla potenza dei loro social. Proprio da loro, attraverso un’iniziale donazione di 100mila euro, è partita una campagna di raccolta fondi che ha portato in pochissimi giorni alla realizzazione di un reparto aggiuntivo di terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano, dove potranno essere curati i contagiati da Covid-19. Mentre il Governo Conte ha attivato un piano di emergenza per potenziare il Sistema sanitario nazionale e aiutare i cittadini (qui trovate il nostro speciale sugli aiuti alle imprese e alle famiglie), le donazioni hanno consentito l’attivazione di una nuova terapia intensiva presso l’ospedale e l’acquisto delle attrezzature necessarie per triplicare i posti letto di terapia intensiva e subintensiva, tra cui ventilatori, dispositivi di ventilazione non invasiva, monitoraggio emodinamico e monitor.

Perché è intervenuta l’Antitrust.Ma, oggi, a reparto ultimato, l’Antitrust vuole vederci chiaro. Le donazioni, arrivate mercoledì 25 marzo a 4 milioni 436mila euro (l’obiettivo era di 4 milioni), fatte da 202mila persone sulla piattaforma GoFundMe, hanno attirato l’attenzione dell’Autorità per la concorrenza. Il sito gofundme gestisce una piattaforma attraverso la quale è possibile effettuare raccolte di fondi a scopo benefico, il cosiddetto crowdfunding. L’Autorità è intervenuta per “l’esigenza di interrompere la diffusione di una pratica estremamente grave, tale da rendere urgente e indifferibile l’intervento dell’Autorità”. Ma quale sarebbe questa pratica? Il sito promuove la possibilità di effettuare le donazioni, tra cui molte sono attualmente in favore degli ospedali e reparti ospedalieri delle zone più colpite dall’emergenza Coronavirus, in maniera gratuita e senza costi per il donante. Ma questa gratuità, denuncia l’Antitrust, non è proprio così assicurata. Naturalmente Fedez e Chiara Ferragni sono totalmente estranei alla vicenda, e anzi ne sono rimaste vittime. In realtà – sottolinea l’Agcm – sussistono costi occulti connessi alle transazioni con carte di credito e debito. Inoltre, la piattaforma consente ai consumatori di elargire, per finanziare il proprio funzionamento, delle commissioni facoltative su ogni transazione.

La prova di QuiFinanza. Anche QuiFinanza ha provato a fare una donazione. Al momento di effettuare la donazione, notiamo in effetti che la commissione è preimpostata sul 10% della somma che vorremmo donare. Solo se il consumatore se ne accorge, la può cambiare, ma tra le diverse opzioni, oltre al 10%, ci sono solo 5 e 15%. Solo selezionando su “Altro” si può annullare la percentuale e scrivere manualmente zero. Quindi, si può eliminare la commissione, ma bisogna sapere che si può farlo, e come.

Codacons chiede chiarimenti al San Raffaele. Sulla raccolta fondi avviata dai Ferragnez è intervenuto anche il Codacons, che chiede all’ospedale di precisare se i lavori siano stati eseguiti effettivamente con i soldi raccolti attraverso l’iniziativa di solidarietà lanciata dalla coppia, o se la struttura abbia anticipato di tasca propria le spese per il nuovo reparto, in attesa di ricevere i fondi promessi. È necessario – spiega il Codacons – fare chiarezza nell’interesse di chi, in buona fede, dona soldi per aiutare la sanità italiana, ed è giusto che sia reso noto quanto dei soldi raccolti da Fedez e Chiara Ferragni sia stato già elargito al San Raffaele ed effettivamente speso, e quanto invece rimanga in mano ai privati. I soldi pagati dagli utenti, prosegue il Codacons, per la commissione al 10% devono essere immediatamente restituiti ai cittadini: ipoteticamente 400mila euro incassati dal fondo e 116mila euro di spese carte di credito. Intanto il Codacons ha fatto partire un esposto all’Antitrust e alla Procura della Repubblica di Milano in cui si chiede di bloccare tutte le raccolte fondi ingannevoli o che applicano commissioni nascoste o equivoche agli ignari donatori.

Coronavirus, è scontro aperto tra Fedez e il Codacons: "Vogliono bloccare le raccolte fondi". Scontro aperto tra Fedez e il Codacons; il rappaer attacca l'associazione dai suoi profili social e il Codacons risponde smentendo le parole dei Ferragnez. Francesca Galici, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. Fedez e il Codacons sono arrivati a un nuovo scontro. Solo pochi giorni fa, l'associazione dei consumatori ha informato di aver avviato un accertamento con l'Antitrust per verificare la correttezza e la trasparenza della raccolta fondi avviata dal rapper e da sua moglie ma anche da tutti gli altri privati, che hanno scelto la piattaforma GoFoundMe per raccogliere donazioni in favore degli ospedali pubblici. L'emergenza coronavirus ha messo in ginocchio il Paese ma, soprattutto, le strutture sanitarie italiane che sono ormai al collasso. Grazie alla raccolta fondi avviata da Fedez e Chiara Ferragni, per esempio, è stata realizzata in tempi record una terapia intensiva all'ospedale San Raffaele, utile per far fronte a tutti i malati e i contagi che necessitano di un supporto alla respirazione a causa della polmonite da Covid-19. Il Codacons ha chiesto di fare chiarezza sulle commissioni applicate dalla società che ha ospitato le raccolte fondi, che però in accordo con i Ferragnez ha già devoluto 250.000 € di commissioni ad alcuni ospedali italiani, come dichiarato da Fedez solo pochi giorni fa. Inoltre, il Codacons ha aggiunto anche che l'Antitrust dovrà procedere al blocco di tutte le raccolte fondi avviate da privati, che hanno giò permesso di raccogliere milioni di euro, a causa di presunte commissioni poco chiare. Un atteggiamento che non è andato giù a Fedez e a sua moglie, che in queste ore sono andati al contrattacco del Codacons, segnalado un comportamento a loro avviso poco corretto in un momento di emergenza così grande. "La proposta del Codacons sarebbe quella di bloccare tutte le raccolte fondi private. Cioè tutti i milioni di euro raccolti per aiutare gli ospedali pubblici, cancellarli e stopparli. Io sono allibito, qualcuno li fermi", ha tuonato Fedez, spiegando il pregresso scontro con l'associazione. "Sul loro sito ufficiale c'è una campagna per supportare il Codacons contro il Coronavirus. Ma se ci vado a cliccare sopra scopro che hanno fatto un banner sul Coronavirus dove in realtà la donazione va al Codacons, che non si occupa di Coronavirus. E questa è un'associazione parastatale che dovrebbe tutelare i consumatori?", attacca Fedez dalle sue storie di Instagram, raccontando quel che è stato scoperto sul sito internet dell'associazione. Immediata la replica dell'associazione, che tramite l'Adnkronos ha voluto dare la sua versione, non senza attaccare Fedez: "Intanto dobbiamo ringraziare questo signore, che credo sia un cantante, ma non ne sono certo, perché stiamo ricevendo moltissime donazioni da tanti che non sapevano si potesse fare ed ora grazie a lui lo sanno.Fedez non ha capito niente, noi raccogliamo fondi per le denunce, diffide, ricorsi in questo momento di emergenza. Sono già 42 le cose fatte e sì, sono fondi a sostegno del Codacons, ma per l'emergenza Coronavirus." Anche sull'accusa di voler bloccare le donazioni dei privati, il Codacons spiega la sua azione: "Noi abbiamo chiesto con un atto formale al governo che i soldi siano versati direttamente sul conto della Protezione Civile, perché almeno è un ente pubblico, e non si rischia che i privati non le destinino a chi devono. Le percentuali che rimangono al privato tra l'altro sono elevatissime: oltre ad un 2,9% di costi di incasso, c'è anche un sistema che individua una percentuale, indicata in una piccolissima postilla che può essere modificata ma quasi nessuno legge, che regala il 10% al privato." Non manca, infine, una battuta velenosa sui Ferragnez: "Del resto stiamo parlando di gente che passa la vita dentro un armadio o in alberghi di lusso, vendono l'immagine di un bambino di due anni contro tutte le norme internazionali a tutela del fanciullo e che si vende l'acqua della fontana a 9 euro al litro: non mi sembra ci sia altro da aggiungere." Fedez risponderà?

Francesca Galici per il Giornale il 29 marzo 2020. La polemica tra Fedez e il Codacons sta assumendo contorni sempre più ampi. Tutto ha preso il via dalla raccolta fondi dei Ferragnez per il San Raffaele, per far fronte all'emergenza coronavirus. L'operazione è stata attenzionata prima dall'Antitrust e poi dal Codacons, che ha iniziato una "battaglia" con il rapper a colpi di video e comunicati stampa. L'associazione ha contestato ai Ferragnez le modalità di raccolta fondi e una presunta scarsa chiarezza da parte dell'ente privato che ha ospitato l'iniziativa, tanto da chiedere la restituzione di tutte le commissioni trattenute ai benefattori e il blocco di tutte le raccolte fondi private. L'intento del Codacons è quello di convogliare le somme raccolte verso la Protezione Civile, in modo tale da avere la certezza della tracciabilità e della trasparenza, a tutela dei consumatori. La segnalazione del Codacons non è stata accolta con soddisfazione da Fedez, che dal suo profilo ha fatto sapere che Gofundme, la piattaforma che ha ospitato la raccolta fondi, si è impegnata a donare 250mila euro delle commissioni, che i Ferragnez hanno devoluti ad alcuni ospedali italiani. Inoltre, Fedez ha attaccato il Codacons per una campagna di finanziamento che ha avviato sui suoi canali web. "Fate girare! Codacons sta spacciando sul loro sito una campagna di raccolta fondi apparentemente 'contro il coronavirus' quando basta cliccare sul banner per scoprire che le donazioni servono a sostenere SOLO loro stessi. Ma è possibile che nessuno intervenga?", di chiede Fedez in un tweet diventato virale. Al tweet di Fedez hanno fatto seguito numerose storie sul profilo Instagram del cantante, in cui Fedez spiega i motivi della sua rabbia. I video sono stati rimossi dopo poche ore, non per volontà del marito di Chiara Ferragni. Questa mattina Fedez ha sferrato un nuovo attacco, ribadendo che non porgerà le sue scuse al Codacons per quanto detto. L'associazione ha risposto al cantante per voce del suo presidente e ha annunciato querela ma è di queste ore l'intervento di Carlo Sibilia, che tramite un tweet ha annunciato di aver dato seguito alle rimostranze di Fedez. "Grazie di questa vostra segnalazione. La questione è stata riferita alla Polizia di Stato che sta realizzando gli approfondimenti del caso. Ancora grazie, queste cose non dovrebbero mai accadere, men che meno in questo periodo", scrive nel suo tweet di risposta a Fedez il Sottosegretario del Ministero dell'Interno. Il messaggio di Carlo Sibilia è giunto pochi minuti prima della conferenza stampa straordinaria di Giuseppe Conte, durante la quale il Premier ha annunciato anche l'impegno alla semplificazione burocratica per le donazioni.

Tra Fedez e Codacons è guerra dopo la raccolta fondi dei Ferragnez su Gofundme. Le Iene il 30 marzo 2020. Il Codacons punta il dito contro Gofundme, la piattaforma che ha raccolto 4 milioni di euro a partire dai Ferragnez da destinare all’ospedale San Raffaele di Milano. Anche Fedez fa le pulci all’associazione di consumatori che nel frattempo ha promosso una sua raccolta fondi. Su Iene.it ricostruiamo questa vicenda mostrandovi che qualcosa sui vari siti è cambiato. Tra Fedez e il Codacons è guerra aperta a colpi di dirette Instagram e tweet. Nel mirino dell’associazione che tutela i consumatori è finita la raccolta fondi promossa dai Ferragnez che in pochi giorni è arrivata a 4 milioni di euro, grazie all’aiuto di oltre 200mila persone. Noi di Iene.it abbiamo ricostruito tutta la vicenda nel video che potete vedere qui sopra. “Questa è l’associazione che dovrebbe garantire tutela e trasparenza al consumatore che invece viene a fare le pulci a me e a mia moglie”, dice Fedez indicando con il dito il sito del Codacons. In una lunga diretta dal suo profilo Instagram, il rapper si è scagliato contro l’associazione e di certo non ha usato mezzi termini. “Vogliono bloccare tutte le raccolte fondi fatte da privati, tutti i milioni di euro per gli ospedali pubblici. Sono allibito!”, sostiene. Nel mirino del Codacons è finito Gofundme, il sito su cui Fedez e Chiara Ferragni hanno raccolto le donazioni per costruire il reparto aggiuntivo di terapia intensiva dell’ospedale San Raffaele di Milano. La piattaforma online ha applicato alle donazioni l’opzione della commissione del 10%, ritenuta dal Codacons come “ingannevole”. “Gofundme si finanzia attraverso le mance che lasciano gli utenti nel momento in cui donano. Una scelta completamente facoltativa”, spiega a Iene.it Elisa Finocchiaro, manager del sud Europa di Gofundme. “I 4 milioni raccolti con questa campagna è un record non solo italiano, ma anche europeo”. Nei giorni scorsi l’Antitrust ha voluto sapere quanto di quella cifra sia stato realmente girato al San Raffaele. “Tutti i 4 milioni di euro. Ed è stato bello vedere che sono già stati aperti 60 posti di terapia intensiva”. E nel caso specifico di questa campagna anche la parte “di mancia” prevista per Gofundme è stata destinata alla battaglia contro il coronavirus. “Prima dell’Antitrust abbiamo chiesto a Gofundme di girare una parte di profitto agli ospedali colpiti dall’emergenza”, spiega Fedez. “Abbiamo destinato 250mila euro a Bergamo, Cremona e al Policlinico di Milano”. Dopo questa polemica qualcosa è cambiato. Fino a qualche giorno fa Gofundme applicava di default l’opzione del 10% a ogni donazione, oggi questa percentuale è a zero. “Dopo l’intervento dell’Antitrust ci siamo adeguati alla situazione italiana”, spiega Finocchiaro. Ma Gofundme non è stato l’unico a cambiare il proprio sito in questi giorni. “Sul sito del Codacons c’era una campagna contro il coronavirus. Ma quando uno ci clicca sopra, i soldi finiscono magicamente alla vostra associazione”, sostiene Fedez. “E allora siete voi a doverci dire dove cazzo finiscono i soldi che vi danno le persone…”. La stessa domanda se la sono fatta anche alcuni utenti che hanno scritto al Codacons: “Come tutti siamo in difficoltà a causa dell’epidemia coronavirus”, risponde l’associazione su Twitter. “La gente muore di fame e loro chiedono i soldi per loro stessi. Come cazzo state? È perché non c’è un’istituzione che vi venga a fare il culo”, replica Fedez in una diretta Instagram. Non si è fatta attendere la reazione del Codacons. “Fedez e la sua associazione ci disgustano. Con loro ci confronteremo in tribunale dove stiamo presentando querele contro questo grande ignorante”, dice Carlo Rienzi, presidente del Codacons.  Ma Fedez non si è impaurito e anzi ha rincarato la dose: “Quando non avevo un euro in tasca, non avevo paura di quelli che mi querelavano. Figurati ora che ho qualche soldino da parte. In più, in una causa che ho fatto a una persona che mi ha diffamato più volte su internet, il pm ha sostenuto che non è un mezzo diffamatorio. Si può dire il cazzo che si vuole. Quindi vorrei aggiungere a tutto quello che ho detto in precedenza, caro Codacons, che potete andare a fare in culo”. Nell’attesa di vedere come finirà in tribunale, vi ricordiamo che su Gofundme potete contribuire a tantissime raccolte fondi per gli ospedali che lottano contro il coronavirus che hanno raccolto oltre 15 milioni di euro. Anche noi de Le Iene ne abbiamo sostenuta una, quella per l’Ospedale di Bergamo. Una delle province più in difficoltà, che ha bisogno dell’aiuto di tutti noi.

Luciano Capone per ilfoglio.it il 31 marzo 2020. Una class action dei consumatori contro le associazioni dei consumatori è roba surreale, ma forse sarebbe una cosa realistica in questo paese dove spadroneggiano associazioni come il Codacons che, dopo aver fatto battaglie contro i vaccini e le vaccinazioni obbligatorie, si è scagliato contro la raccolta fondi organizzata da Fedez e Chiara Ferragni per aiutare il San Raffaele a costruire ex novo un reparto per curare i malati di Covid-19. Se ne è parlato tanto. Possiamo riassumere la vicenda così: l’associazione dei consumatori ha chiesto alle autorità di intervenire per alcune presunte irregolarità contro GoFundMe, la piattaforma più usata a livello internazionale per raccogliere fondi, chiedendo la restituzione ai cittadini delle donazioni finora effettuate e lo stop di tutte le raccolte fondi attive sulla piattaforma. Il Codacons sostiene che GoFundMe speculerebbe sull’epidemia in maniera ingannevole e con “commissioni nascoste o equivoche agli ignari donatori”. Beh, questa potrebbe essere proprio la base di un esposto all'AgCom dei consumatori contro l’associazione dei consumatori guidata da Carlo Rienzi. Infatti il Codacons ha in homepage diversi banner ingannevoli, che usano il tema “coronavirus” per incassare soldi. Il più clamoroso è un servizio telefonico “emergenza coronavirus” per fornire “supporto o informazioni” ai cittadini. Si tratta di due specie di hotline (numeri “premium” 893), ovvero di linee a pagamento chiamate “forum telefonici” per fornire “assistenza psicologica” o “assistenza legale” sull’“emergenza coronavirus”. In particolare "col primo forum di assistenza psicologica – che risponde al numero 89349949 – un team di psicologi dell’associazione dalle ore 10 alle ore 12, e dalle 14 alle 16, fornirà aiuto per affrontare nel migliore dei modi questi giorni di isolamento a casa, offrendo consigli e supporto a chi più di altri risente dell’emergenza sanitaria in corso”, scrive il Codacons. Mentre “il secondo forum – attivo nei medesimi orari al numero 89349933 – è dedicato invece all’assistenza legale su tutte le tematiche inerenti rimborsi di biglietti e viaggi, voucher e bonus, misure di sostegno per famiglie e imprese inserite nel decreto “Cura Italia”, scadenze fiscali, bollette, ecc”. Il numero verde 800066735, inizialmente indicato, scompare completamente dalla descrizione lasciando spazio a quelli a pagamento. Inoltre, se i consulenti sono attivi solo per poche ore – due la mattina e due la sera – il servizio non si ferma, ma prosegue 24 ore su 24 “per ascoltare le domande dei consumatori e le risposte fornite dall’associazione”. In questo modo, però, i cittadini/consumatori che telefonano fuori da queste brevi fasce orarie, pagando il prezzo di una consulenza personalizzata, si ritroverebbero ad ascoltare telefonate registrate a caso. Come se un cittadino, presentandosi in ritardo dal medico, si ritrovasse a pagare il prezzo di una visita per assistere alle visite di altri pazienti. In maniera ancor più ingannevole, quindi, i due numeri sono affiancati a un numero verde 800, confondendo così i consumatori su cosa sia a pagamento e cosa gratuito. E con un servizio che cambia in base alle fasce orarie, il Codacons inganna i consumatori che allo stesso prezzo pagano cose nettamente differenti: entro un orario si paga per essere ascoltati, dopo per ascoltare. Inoltre sul banner pubblicitario compare la dicitura: “Il costo della telefonata serve per poter continuare ad aiutarvi”. Quasi a far intendere che si tratti di costi vivi, trattenuti dai gestori telefonici, per un servizio o un supporto offerto gratuitamente dal Codacons. E invece è proprio il corrispettivo di una prestazione del Codacons che ha tariffe salatissime, che arrivano quasi a 1 euro al minuto (circa 80 centesimi al minuto più Iva più lo scatto alla risposta). E di questa somma solo una parte va alla compagnia telefonica per la gestione del servizio, mentre l’altra – la parte maggioritaria, che può arrivare anche al 90 per cento – viene incassata dal content provider, ovvero il Codacons di Rienzi. Speculare sulle persone che si trovano in una situazione di fragilità psicologica ed economica durante un’epidemia, peraltro in maniera così ingannevole e quasi truffaldina, è qualcosa che meriterebbe un esposto all'AgCom dei consumatori contro il Codacons. E farsene promotore, magari, potrebbero essere proprio i Ferragnez.

Dagospia l'1 aprile 2020. Riceviamo e pubblichiamo. Gentile Direttore, in riferimento al vostro articolo in oggetto che riprende un diffamatorio articolo de Il Foglio Quotidiano, chiediamo ai sensi della legge sulla stampa la pubblicazione della seguente rettifica inviata al Foglio: I servizi resi ai consumatori non sono gratuiti, hanno un costo per chi li fornisce e devono essere pagati anche perché le associazioni dei consumatori non godono di alcun finanziamento pubblico e si sostengono grazie al contributo dei propri sostenitori. Importante è che siano chiare condizioni e modalità per avvalersi dei servizi, per cui ognuno possa decidere consapevolmente. Proprio per questo sul nostro sito i costi dei nostri servizi (telefonici e non) sono spiegati in modo chiaro e trasparente. Se poi Il Foglio vuole finanziare tali servizi siamo a disposizione per fare del giornale lo sponsor ufficiale Codacons con tutti gli onori del caso. E certo non pretendiamo che Il Foglio non faccia pagare ai propri lettori il giornale (non sappiamo se percepite i contributi pubblici dell’editoria) solo perché l’informazione giornalistica è un servizio pubblico essenziale. Chiediamo anzi al suo giornale di farsi portavoce del grave problema del Terzo settore, che rischia di scomparire a causa della grave emergenza in atto, diffondendo l’appello ai cittadini e consumatori pubblicato al link codacons.it/appello. Cordiali saluti. Presidente Codacons Avv. Giuseppe Ursini

Coronavirus, alta tensione a Messina: il Sindaco occupa il porto e chiude la città: “stanno entrando cani e porci, devono arrestarmi se vogliono riaprire”. Coronavirus, il sindaco di Messina: “E’ in atto un depistaggio di Stato, si sottostimano i dati. E’ una vergogna”. Coronavirus: il sindaco di Messina Cateno De Luca si è recato al porto per controllare di persona il sistema di verifiche ad auto e passeggeri. A cura di Filomena Fotia il 24 Marzo 2020 su meteoweb.eu. “E’ in atto un depistaggio di Stato: si sottostimano volutamente i dati dei movimenti verso Messina per nascondere la realtà dei fatti. Così assistiamo ad attacchi a Musumeci e a me, come quelli di ieri sera del Viminale, e a omissioni, oltre a un sistema di controlli farlocco“: non usa mezzi termini il sindaco di Messina, Cateno De Luca, che, questa mattina, come ieri sera, si è recato al porto per controllare di persona il sistema di verifiche ad auto e passeggeri. Si è persino imbarcato a bordo del traghetto per Villa San Giovanni, per poi tornare indietro. De Luca si è riferito al caso di “80 persone tra cui 20 minori, da ieri a Villa San Giovanni, cui hanno somministrato anche pasti caldi invece di mandarli indietro in quanto irregolari. Una situazione non emersa dai dati forniti dal Viminale, nota da ieri pomeriggio e taciuta. Si è voluto tenere nascosto questo caso. In quel gruppo anche persone provenienti dall’estero e che a questo punto non se ne vogliono più andare e hanno occupato il piazzale. Si sta creando persino un problema di ordine pubblico che ostacola anche il traffico merci. Una bomba pronta a esplodere frutto di questo depistaggio di Stato, una vergogna“. Il sindaco De Luca ha preparato un’ordinanza che prevede l’istituzione di una banca dati dei passeggeri che devono attraversare lo Stretto e un servizio di prenotazione on line. L’ordinanza dispone che i concessionari per il trasporto navale e ferroviario, istituiscano “un servizio di prenotazione dei titoli di viaggio on-line mediante la creazione di una banca dati condivisa, nella quale dovranno essere inseriti i nominativi dei passeggeri, le ragioni dello spostamento, il luogo da raggiungere e l’indirizzo dove si intende trascorrere l’autoisolamento“. La banca dati dovrà essere data in gestione alla Presidenza della Regione siciliana. Secondo l’ordinanza la prenotazione dovrà avvenire entro 24 ore prima della partenza proprio per permettere le verifiche. Inoltre i dati inseriti nella banca dati dovranno essere trasmessi dai concessionari dei servizi di trasporto che li avranno raccolti, alla Presidenza della Regione Siciliana Coordinamento per le Attivita’ Necessarie per il contenimento della diffusione del Covid-19, al Comune di Messina ed al Comune di destinazione finale del viaggiatore. In questo modo il sindaco del Comune di destinazione potrà monitorarli. Per i pendolari dello Stretto, dopo la registrazione iniziale sarà attribuito loro un codice identificativo univoco che consentirà il diritto al passaggio quotidiano. L’ordinanza prevede inoltre che i concessionari dei servizi di trasporto dello Stretto siano “obbligati a garantire la riserva di posti, sempre in via prioritaria, per i passeggeri che rientrano nelle previsioni normative da soddisfare, con particolare riferimento a tutti coloro che lavorano nell’area dello Stretto (forze dell’ordine, operatori della sanità, operatori della giustizia, Forze armate) e sono impegnati nell’ambito dei servizi essenziali“. ”Fino a ieri erano centinaia le persone che entravano in Sicilia senza averne titolo perché il governo nazionale non aveva predisposto a Villa San Giovanni la barriera. E’ lì che fino a ieri notte non c’erano i necessari controlli. Ho fatto la rimostranza e la nota di protesta al ministro dell’Interno che stamattina (ieri, ndr) ha collocato 85 uomini in divisa a Villa San Giovanni, perché bisogna gridare per avere i propri diritti in questa terra di Sicilia. Bisogna gridare”: lo ha affermato il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci, intervenendo ieri sera su Rete 4 alla trasmissione Stasera Italia, intervistato da Barbara Palombelli. “Ho emesso un’ordinanza con cui chiedevo che la Sicilia restasse chiusa ed è ancora vigente la mia ordinanza. Quelli che passano e arrivano a Messina sono i sanitari. Sono coloro che hanno bisogno di sbarcare perché autorizzati dal governo nazionale e dal governo regionale. Purtroppo fino a ieri notte non era così, perché entrava anche chi non aveva titolo”. ”Abbiamo disposto la riduzione da 24 a 4 delle corse di traghetti, soltanto per il personale che ne ha titolo. Gli altri se ne possono tornare al Nord. Quando venti giorni fa dicevo che quelli del Nord avrebbero fatto bene a non scendere in Sicilia fui contestato da tutti”. ”Non debbono imbarcarsi. Vengono controllati uno per uno. Io starò tranquillo quando sarà finita questa emergenza. Nella corsa delle 18.20 c’erano solo 58 vetture e 210 passeggeri, tutti legittimati perché appartengono a categorie autorizzate”.

Coronavirus, Lamorgese denuncia il sindaco di Messina Cateno De Luca per vilipendio. Aveva cercato di fermare alcune decine di persone che stavano per traghettare in Sicilia accusando il Viminale di non aver fatto i controlli, ma i viaggiatori erano in regola. "Parole offensive per le istituzioni". Alessandro Ziniti il 26 Marzo 2020 su La Repubblica. Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate. Nella dura battaglia contro il coronavirus non c'è tempo per le sceneggiate e così la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese non ha perso tempo. Dopo due giorni di violenti attacchi da parte del sindaco di Messina che ha provato a fermare (invano) l'ingresso in Sicilia di persone che avevano tutto il diritto di farlo e che per questo erano passate ai puntuali controlli delle forze dell'ordine dalle città di partenze, Lamorgese ha segnalato all'autorità giudiziaria il comportamento del sindaco Cateno De Luca. La decisione è stata assunta - spiegano dal Viminale - dopo le parole gravemente offensive e lesive dell'immagine per l'intera istituzione, pronunciate pubblicamente e con toni minacciosi e volgari. Proprio in una fase emergenziale in cui dovrebbe prevalere il senso di solidarietà e lo spirito di leale collaborazione, le insistenti espressioni di offesa e di disprezzo ripetute per giorni davanti ai media da parte del primo cittadino di Messina all'indirizzo del ministero dell'Interno appaiono inaccettabili e censurabili sotto il profilo penale per il rispetto che è dovuto a tutti i cittadini e a maggior ragione da chi riveste una funzione pubblica anche indossando la fascia tricolore - alle istituzioni repubblicane e ai suoi rappresentanti". La Procura di Messina iscriverà dunque nel registro degli indagati il sindaco per il reato di vilipendio previsto dall'articolo 290 del codice penale punito con la multa da 1000 a 5000 euro... Per questo genere di reati, perché si possa poi esercitare l'azione penale attraverso la richiesta di rinvio a giudizio o di emissione di decreto penale di condanna, è necessaria l'autorizzazione del ministro della Giustizia.

Il sindaco di Messina querelato per vilipendio dal Viminale: “Non mi arrendo, ci vediamo in tribunale”. Elsa Corsini de Il Secolo d'Italia giovedì 26 marzo 2020. Non si arrende il sindaco di Messina, Cateno De Luca. Neanche di fronte alla notizia di essere stato denunciato dal Viminale per vilipendio. Un’accusa pesante. Che il primo cittadino vive quasi come una medaglia. “Tutto quello che era stato messo in campo dal governo è stato costantemente violato. Avremo modo di parlarne in tribunale signor ministro. Tenga conto che se questo è un avvertimento ne prendo atto ma vado avanti”. Così De Luca in un video postato su Facebook. Rivolgendosi direttamente al ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese. “Non mi fermo”, dice. “Perché non è pensabile che chi sta sopra le nostre teste possa continuare a dileggiare i Comuni. I sindaci e la popolazione”. Lo scrive chiaro e tondo. E poi fa riferimento a un’altra vergogna. Un comunicato diramato il 23 marzo sera. Nel quale, dice, “lei ha dichiarato il falso. E mi assumo la responsabilità di quello che dico. Lei ha dichiarato che era tutto a posto sullo Stretto di Messina. Ma come? Noi abbiamo denunciato 10 persone. Dalle 6 di mattina del 26 marzo c’erano tutte quelle automobili bloccate. Perché nel frattempo era cambiata la normativa. E si era creato quel caos sbloccato in queste ore. Il vostro comunicato ha omesso di dichiarare che c’erano delle persone sequestrate a Villa San Giovanni. Bene signor ministro, lei continui a fare il suo mestiere. Io io continuo a fare il mio e ci vediamo in tribunale”. Immediata la solidarietà della deputata forzista Matilde Siracusano.  Anche lei di Messina. “Quale sarebbe il torto del sindaco di Messina? Forse quello di difendere con passione la sua città? Forse qualcuno a Roma si impressiona per qualche parola sopra le righe? Lasciatemelo dire: io sto con Cateno De Luca! Nella gestione dell’emergenza Coronavirus il governo e il ministero dell’Interno hanno inanellato un errore dietro l’altro“. Di idea opposta un altro esponente di Forza Italia.  Il senatore Renato Schifani. “La grave offesa rivolta al ministro degli Interni dal sindaco di Messina, evidentemente preso dalla tensione e dalle oggettive difficoltà territoriali di questi momenti, ha portato a una querela. Che è un atto dovuto. Mi auguro – dice –  che in questo frangente chiunque ricopra cariche istituzionali non si lasci andare a offese. O non condivida pubblicamente tali gesti, perché mai come adesso la collaborazione, il dialogo e il rispetto tra istituzioni sono indispensabili”.

Felice Cavallaro per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2020. Ha lavorato per un' ora alla registrazione del messaggio antivirus che da venerdì echeggerà con i droni sulle borgate dello Stretto. Ma a Cateno De Luca, all' impetuoso sindaco di Messina deciso ad avere strade deserte, il messaggio da fare echeggiare dall' alto è venuto a modo suo: "Dove cazzo. vai? Torna a casa. Vi becco uno a uno. Questo è l'ordine del sindaco. A calci in culo!". «Oddio, era solo una prova», si schernisce a sera, dopo le battaglie cominciate all' alba su Facebook, dalla sua cucina, ancora in pigiama, con una impennata contro governo e Viminale «per il disastro di Villa San Giovanni».

Sempre deciso a bloccare i traghetti dalla Calabria?

«Messina è la porta dell' isola e io la chiudo se nessuno controlla».

Il Viminale ripete che controllano.

«Il governo sforna decreti che non fa applicare. Intanto non bisognava fare partire migliaia di meridionali in treno ai primi due decreti. Adesso arriva anche gente partita dalla Francia scoprendo solo qui che, frattanto, è scattato un terzo decreto. Un caos».

Un caos con un sindaco come barriera?

«Io ho minacciato tutti, pronto a farmi arrestare. Come è accaduto in altra occasione. Errori di magistrati che hanno dovuto rimettermi in libertà. Difendo la salute di quest' isola dove grazie ai buchi del governo abbiamo registrato più di 30 mila arrivi».

Cosa bisognerebbe fare?

«Per evitare la vergogna delle famiglie bloccate in Calabria, compresi migranti ai quali è scaduto il permesso di soggiorno, chiedo al governo di consegnare tutti a me».

Con quale obiettivo?

«Semplicissimo. Con la polizia municipale e altre forze dell' ordine, mi faccio dire chi sono, dove devono andare e chiamo i loro sindaci ai quali chiedo di fare arrivare i vigili urbani per un' ultima trasferta controllata e sicura, con tanto di autocertificazioni per la quarantena».

Lei ha già difficoltà a trattenere i concittadini in casa.

«Ai miei ci penso io, anche con i droni. Ma lo spettacolo indecoroso che va in onda ogni sera dallo Stretto di Messina deve terminare. E spetta al governo. Nonostante le smentite, non possiamo lasciarci beffare da quattro disperati che dicono di essere artisti di strada in arrivo dalla Francia, pigiati dentro una sgangherata Renault4 con il tettuccio stipato da valigie, cianfrusaglie, scarpe penzolanti e una bicicletta. Roba da circo. Chi sono? Fermati dai carabinieri a Salerno. E poi? Poi ce li siamo ritrovati sul traghetto e su un' ultima foto postata proprio come una burla da Acitrezza».

E i messinesi?

«Faremo la voce grossa. Dall' alto. Con i droni. Per convincere tutti ad attenersi alle regole. A partire dagli impiegati comunali».

Lavorano?

«Ne ho 500 ma troppi si dichiarano indisponibili come i disertori... E io minaccio il licenziamento».

Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 26 marzo 2020. Fino a due mesi fa era una deputata di Forza Italia, oggi è presidente di una delle Regioni del Sud - la Calabria - in bilico tra la salvezza e il disastro. Jole Santelli si muove decisa. Troppo, per chi ha giudicato eccessivo il suo attivismo da governatore che, nella notte tra sabato e domenica, ha chiuso la sua Regione dopo l' annuncio dello stop delle fabbriche in tutta Italia temendo un' altra «calata» dal Nord. Risultato? Conseguenze immediate nei trasporti tra Calabria e Sicilia e blocco di decine di persone ai traghetti in partenza da Villa San Giovanni: «Sono stata costretta a farlo. E non c' era nessun problema tra me e Musumeci. Noi non possiamo permetterci che esploda l' epidemia. Non potremmo affrontarla».

Qual è il problema?

«Quale? Noi dobbiamo fare tesoro di quello che è successo nelle altre regioni e prevenire l' avanzata del virus. La Calabria viene da 10 anni di commissariamento della sanità, è sottoposta ad un piano di rientro, ha carenze di strutture e personale. Non possiamo sbagliare. Per questo cerco di seguire i modelli giusti».

E sarebbero?

«Il Veneto, che ha avuto un approccio territoriale stretto, meno la Lombardia, dove il contagio si è diffuso anche attraverso gli ospedali. Per questo ho cercato di chiudere ogni possibile fonte di contagio. E subito le scuole. Sbagliavo? Non mi pare: mi fecero ritirare l' ordinanza, ma 5 giorni dopo Conte, guarda caso, lo ha deciso per tutta Italia».

Ma lei fa tutto senza confrontarsi?

«Devo farlo. Tre giorni sul territorio possono essere vitali per chi come noi fa i salti mortali per attrezzare gli ospedali, ma sta ancora aspettando i macchinari da Roma. Noi governatori siamo stati costretti a muoverci. La notte del primo decreto che "chiudeva" il Nord, ha portato 25.000 persone qui, tutti possibili contagi per noi insostenibili. Lo capisce il governo che i tentennamenti hanno effetti a catena?».

Ce l' ha con tutti?

«No, con alcuni il rapporto è ottimo. Con il ministro Speranza, con il ministro Lamorgese: con lei siamo riusciti in gran parte a risolvere l' emergenza a Villa San Giovanni, dove molte persone erano bloccate. Semmai andrebbe più coinvolto il ministero dell' Interno, che ha i prefetti sul territorio, che può gestire la polizia. E servirebbe anche l' uso dell' esercito».

E la Calabria «chiusa»?

«Quando sabato notte Conte ha annunciato che avrebbero chiuso le fabbriche, ho avuto una crisi isterica: ho fatto un' ordinanza all' una e mezza, alle 7 ho chiamato i colleghi Bardi (Basilicata) e Emiliano (Puglia), il rischio era massimo. Non si poteva aspettare. Sia chiaro: voglio che qui arrivino mascherine, tute, dispositivi sanitari, non mi importa se un collega è del Pd o di FI, non esistono alleanze, solo esigenze. Uguali per tutti, e noi governatori lo sappiamo».

La libertà sospesa ai tempi del Coronavirus. Giovanni Sallusti, 27 marzo 2020 su Nicola Porro.it Tra le vittime che il Coronavirus rischia di spedire in terapia intensiva c’è pure la libertà d’espressione. Mi rendo conto che nell’era del Parlamento ridotto ad appendice delle strategie social di Rocco Casalino può suonare démodé, ma tocca occuparcene. Anche perché la conversione di certa “élite” liberale al conformismo filogovernativo è stata così fulminea, che rischia perfino di non essere notata. Avete ad esempio sentito qualche voce levarsi in difesa di Cateno De Luca, sindaco di Messina? Un sindaco sicuramente non convenzionale, e non per forza in senso positivo, ma che è addirittura stato denunciato dal ministro dell’Interno Luciana Lamorgese per “vilipendio della Repubblica e delle istituzioni costituzionali”. Un reato gravissimo secondo il Codice Rocco, in quanto diretto contro “la personalità dello Stato”. Un’ottica statolatrica, prima ancora che statocentrica, che evidentemente la nostra Costituzione e il nostro ordinamento antifascista “più belli del mondo” non hanno minimamente intaccato, visto che ora il ministro dell’Interno (ovvero colui che controlla le forze di polizia) la può brandire contro un semplice sindaco. Colpevole di aver descritto, certo con eloquio colorito e fin con turpiloquio (ma saremo almeno ancora liberi di sacramentare, col virus alle porte e la centoventisettesima autocertificazione da compilare?) il fossato tra le rassicurazioni della Lamorgese (“tutto sotto controllo sullo Stretto di Messina”) e le orde che si sono riversate dai traghetti in barba a ogni logica anti-epidemia. E noi, o meglio la mega-Burocratja di Palazzo incarnata dalla Lamorgese, troviamo il tempo di fare causa a un sindaco tosto e non allineato, nel bel mezzo di una crisi sanitaria e sociale nazionale? Che senso delle priorità, e che senso morale, circolano al Viminale, in che realtà vivono? C’è poi il caso di un eccellente scienziato che si pensa un onnipotente censore, Roberto Burioni. Da parte mia, confesso che da quando è deflagrato il virus ho fatto del suo parere all’interno della comunità dei virologi (che non mi pare meno soggetta a vanità, gelosie, ripicche reciproche di quella dei politici, o dei giornalisti) la mia stella polare. Da profano, mi è parso tra i più lucidi e consci della portata pandemica dell’evento. Però, lui e i colleghi che hanno fondato il “Patto trasversale per la Scienza” si stanno capovolgendo nell’opposto antropologico degli scienziati, ovvero in inquisitori. Solo negli ultimi giorni hanno: a) querelato un intellettuale (Vittorio Sgarbi) per le sue considerazioni eretiche sul Coronavirus; b) spedito una diffida alla virologa del Sacco Maria Rita Gismondo per aver inizialmente sminuito l’emergenza; c) chiesto l’oscuramento del sito Byoblu24, e relativo canale YouTube, per aver pubblicato un’intervista al farmacologo Stefano Montanari, il quale sostiene che la gravità dell’epidemia sia gonfiata anche per interesse delle case farmaceutiche (delirio complottando di serie D, per conto mio, ma la libertà di pensiero o è anche libertà di pensare castronerie, o non è). Sarebbe il caso di ricordare a costoro che la “Scienza” esiste solo con la minuscola, che procede per “tentativi ed errori”, come spiegava Sir Karl Popper e come dimostrano loro stessi, che sono ben lungi dall’aver partorito un vaccino o una cura ufficialmente risolutiva. E, soprattutto, che forzare il quadro della democrazia liberale non è qualcosa che spetta a loro. In realtà, per quanto mi riguarda, non spetta a nessuno. 

Dagospia il 27 marzo 2020. Da “la Zanzara – Radio24”. “Ci vediamo in tribunale. Vilipendio? Rispetto al mio pedigree in tribunale, è poca roba. Preoccupato? Ma quando mai. I fatti sono dalla mia parte”. Lo dice Cateno De Luca, sindaco di Messina, a La Zanzara su Radio24 rispondendo al ministro degli Interni Lamorgese che ha annunciato una denuncia per il reato di vilipendio. “Ho sempre toni eccessivi – dice De Luca - ne sono cosciente. Si tratta del fatto che per far passare un messaggio devo usare qualche frase più forte. E ben venga, soprattutto se la finalità è giusta. E comunque abbiamo denunciato dieci persone che non potevano essere a Villa San Giovanni, e altre sono ferme in Calabria. Lo testimoniano i poliziotti che erano con me.  Sono stati i poliziotti accanto a me hanno accertato che dieci persone hanno una dichiarazione irregolare. Il prefetto? Loro sono più attenti alla forma, al combinato disposto delle leggi, più che alla sostanza”. Ma non ti penti aver mandato affanculo il ministro?: “No, perché sul territorio ci siamo noi e dobbiamo subire le norme di carta che vengono fatte. Farei questo ed altro per salvare vite umane. E se per salvare vite umane mando affanculo tutti, lo faccio”. Hai parlato anche di imbroglioni e impostori al ministero dell’Interno: “Addirittura? Me ne è scappata più di una, allora. Porca miseria. Ho parlato anche di depistaggio di Stato. E’ vero. Cavoli, sto Cateno De Luca è impertinente veramente. Ma a parte gli scherzi, il ministro non conta più di me, va bene? La Costituzione mi riconosce lo stesso ruolo. Il ministro ha un ruolo, mi può anche rimuovere. Allora faccia la procedura, lo rimuova, così De Luca non romperà le palle. Se non mi pento di nulla? No, no”.

Messina, il sindaco De Luca torna all'attacco: stavolta nel mirino le mascherine e il ministero della Sanità. Redazione La Sicilia il 27/03/2020. Il primo cittadino critica la circolare che vieta l'uso di dispositivi di protezione non autorizzati. Il sindaco di Messina, Cateno De Luca, torna all’attacco. «Scusate: stamattina sono in ritardo - scrive sui social -! Non ho chiuso occhio per finire di leggere una montagna di carte per cercare di far stare in piedi le nostre ordinanze contro gli attacchi del partito della 'blasonata burocrazia dell’articolo con il combinato disposto». All’indomani della denuncia per vilipendio da parte del ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese,il primo cittadino non abbandona i suoi toni accesi. Questa volta l’ira di De Luca si scaglia contro una circolare del ministero della Salute sulle mascherine non certificate. «Poi uno non si deve incazzare?», esordisce. Addosso ha una delle mascherine fai da te realizzata, spiega il sindaco, «grazie all’Esercito italiano, alla stoffa fornita dalla Startex di Calatabiano e alla disponibilità di un’azienda che fa tessuti della provincia di Messina. Ne abbiamo cominciato a fare mille al giorno». «Tutto a costo zero», scandisce il sindaco, che aggiunge: «Perché lo abbiamo fatto? Perché in giro non si trovano le mascherine con le certificazioni, neppure i medici le hanno e voi ancora continuate con il combinato disposto?». «Ma la vogliamo finire di provocare e di dire che queste cose non si possono fare - prosegue De Luca -. Dobbiamo evitare le mascherine fai da te? E cosa dobbiamo usare? Perché non ci date le mascherine invece di mandarci queste str... che sanno di provocazione in questo momento». Poi l’escalation: «Quando parlo di "Repubblica delle banane" intendo dire questo: i burocrati scrivono e richiamano il combinato disposto. Ma perché non si scrive che in questo momento in cui non si riescono trovare le mascherine che rispettano la normativa è autorizzato il fai da te? Perché uno Stato che non riesce a mettere in circolazione le mascherine secondo le norme europee vigenti non diffida chi si organizza. Ecco perché noi poveri sindaci andiamo di testa», conclude De Luca.

Il sindaco di Messina esplode contro il ministro: “Lamorgese uccide me e la democrazia, si dimetta”. Redazione de Il Riformista l'8 Aprile 2020. “Mi vogliono ammazzare. Signora Lamorgese lei dovrebbe dimettersi” ma “non ha un briciolo di pudore per farlo”. E’ l’attacco del sindaco di Messina, Cateno De Luca, in un video su Facebook dopo la decisione del Consiglio di Stato che ha espresso parere favorevole alla proposta del ministero dell’Interno per l’annullamento della sua ordinanza che avrebbe imposto a “chiunque intende fare ingresso in Sicilia attraverso il Porto di Messina, sia che viaggi a piedi sia che viaggi a bordo di un qualsiasi mezzo di trasporto” l’obbligo di registrarsi su su un sito internet almeno 48 ore prima della partenza e di attendere il rilascio da parte del Comune di Messina del Nulla Osta allo spostamento”. Il sindaco ha quindi ribadito che l’ordinanza “rimane valida. I nostri controlli attraverso la banca dati li continuiamo a fare. Il ministro vuole bloccarci e metterci il bagaglio. Ma il nostro sistema preventivo per chi entra in Sicilia ha dimostrato di essere un modo scientifico per controllare gli ingressi, cosa che lo Stato non sa fare”. Dal primo cittadino sono arrivate altre accuse al ministro Lamorgese: “Il ministro non pensa. Lei, Lamorgese, non pensa ma agisce con supponenza di Stato. Sta tentando di uccidere i sindaci come me e la democrazia. Io sono stato eletto dalla comunità, lei no: rappresenta, per quello che mi riguarda, il frutto della peggiore democrazia ed è lì non per un ruolo di cecchinaggio. Il signor ministro non intende occuparsene perchè impegnata a fare la guerra al sindaco De Luca”. Nelle scorse settimana la titolare del Viminale Lamorgese aveva utilizzato parole durissime contro il sindaco di Messina, che aveva accusato il Ministero di non svolgere i controlli necessari tra i pendolari che attraversano lo stretto quotidianamente per raggiungere la Sicilia. “Proprio in una fase emergenziale in cui dovrebbe prevalere il senso di solidarietà e lo spirito di leale collaborazione, le insistenti espressioni di offesa e di disprezzo, ripetute per giorni davanti ai media da parte del primo cittadino di Messina all’indirizzo del ministero dell’Interno, appaiono inaccettabili, e quindi censurabili sotto il profilo penale, per il rispetto che è dovuto da tutti i cittadini – e a maggior ragione da chi riveste una funzione pubblica anche indossando la fascia tricolore – alle istituzioni repubblicane e ai suoi rappresentanti”. Per questo il primo cittadino di Messina era stato denunciato per vilipendio della Repubblica, delle Istituzioni costituzionali e delle Forze armate, ovvero in violazione dell’articolo 290 del Codice penale.

De Luca e le mascherine del Governo: “Sono quelle di Bunny il coniglietto”.  Redazione de Il Riformista il 27 Marzo 2020. E’ un Vincenzo De Luca che non risparmia critica al Governo per come ha affrontato e sta affrontando in queste settimane l’emergenza Coronavirus. Oltre alle misure tardive adottate da Roma per affrontare la pandemia, De Luca contesta anche i ritardi nelle forniture (mascherine, tute, ventilatori). Nel corso della diretta sulla propria pagina Facebook, esilarante la gag sulle mascherine inviate nelle scorse settimane dalla Protezione civile. De Luca si accoda alle polemiche sollevate da tempo dal personale medico sulle cosiddette mascherine e paragona le ‘mascherine swiffer’ a quelle utilizzate per carnevale per travestirsi da “Bunny il coniglietto”. Per il Governatore della Campania le vecchie mascherine erano utili soprattutto per pulire gli occhiali. “In Campania sono arrivati 552mila mascherine ma queste cose ci vuole davvero una fantasia accesa per definirle mascherine. A meno che non si pensi alle maschere che utilizzano i nostri nipoti a carnevale. Questa va bene come maschera per Bunny il coniglietto. Se ve la mettete le vostre orecchie escono da queste fessure e avete la faccia di Bunny il coniglietto. Facciamo un sorriso anche in momenti difficili ma non le chiamate mascherine. Per quanto mi riguarda, ho scoperto che hanno una grande efficacia per pulire gli occhiali, sono davvero un prodotto eccezionale, ma negli ospedali lasciamo perdere…”.

A Gottolengo il sindaco distribuisce mascherine gratis ai cittadini. Il primo cittadino di questo comune, nel bresciano, ha convinto le aziende del territorio a produrre mascherine. Le consegna nella cassetta postale. Michele Di Lollo, Sabato 28/03/2020 su Il Giornale. Lo Stato centrale spesso non ce la fa a contrastare da solo l’emergenza. E così alcuni comuni italiani si sono organizzati autonomamente. Questo, di cui scriviamo, è uno di loro. La chiamano "Mask force", un team che distribuisce gratuitamente mascherine. Una squadra che al tempo del coronavirus fa sognare. Sono un sindaco, un gruppone di volontari, gli imprenditori e i lavoratori di due imprese tutti sul campo a ritmi serratissimi. Lo spiega al Tempo, Giacomo Massa. È il primo cittadino di Gottolengo, comune di poco più di cinquemila abitanti in provincia di Brescia. In questo borgo il virus ha colpito forte. Contano 36 contagiati, circa 90 persone in quarantena obbligatoria, 9 morti. Questo sindaco under 35 combatte una guerra di trincea. Massa guida una lista civica di centrodestra. Lui è militante di Cambiamo!, il movimento di Giovanni Toti. Ma qui le differenze si annullano. Siamo nel cuore della Lombardia e Massa racconta: "Nel nostro comune non c’erano mascherine, non le abbiamo ricevute. Ed era urgente trovare una soluzione per contribuire a proteggere i nostri cittadini. Ho trovato un accordo con due aziende tessili del territorio, la Tappezzeria Rizzi e la Iso Conf. Per noi hanno riconvertito parte della loro linea di produzione per sfornare dispositivi in tessuto non tessuto". Gli operai si sono messi nel giro di pochissimo all’opera. Poi ci sono loro. Gli angeli di Gottolengo. Non si può non citare infatti gli altri protagonisti di questa storia. Volontari della protezione civile, più alcuni studenti. Impegnati strada per strada, condominio per condominio per depositare nella cassetta delle lettere di ogni famiglia un kit con cinque mascherine, assieme a una missiva del primo cittadino che spiega con scrupolo come igienizzare il dispositivo. Alla distribuzione è associata anche una piccola campagna social comunale con delle grafiche che, attraverso immagini semplici, raccomanda di curare l’igiene delle mani e di maneggiare le protezioni prendendole sempre tramite gli elastici. Il tutto, sia la produzione dei dispositivi, sia la grafica, è completamente gratuita. Le aziende hanno donato al comune oltre 20mila mascherine. Poi però la Cassa Padana si è offerta di sostenere un eventuale riconversione, in prospettiva, delle loro linee produttive per metterle in commercio. Altra fase. Dalle parole del primo cittadino comprendiamo come ogni buona azione ne generi un’altra, perché quella pattuglia di studenti in campo si è già messa a disposizione per consegnare le medicine agli anziani. Gesti che non verranno mai dimenticati. Qui si estende la linea del fronte. E il sindaco guida le truppe. Si è trovato anche in situazioni difficili. Tipo quando ha dovuto presenziare lui, da solo, alle esequie di tre persone portate via dal virus, perché i familiari non avrebbero potuto in quanto bloccati a casa dalla quarantena. "Non potevo lasciarli soli per l’ultimo saluto".

Folle burocrazia e tasse: così lo Stato intralcia l'arrivo delle mascherine. Il fisco pretende il 6,3% di Iva anticipata sulle protezioni. Onda di solidarietà da Nord a Sud. Tiziana Paolocci, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Fatte in casa con tessuto non tessuto, cucite nei conventi dalle suore, preparate da improvvisate sarte usando le fodere dei divani. Le mascherine fai-da-te possono non solo essere inutili ma risultare dannose, come spiega Ernesto Iadanza, della commissione biomedica dell'Ordine degli Ingegneri di Firenze, che da giorni riceve richieste da parte di quanti tentano di realizzare in proprio i dispositivi di protezione. L'ondata di solidarietà, però, nulla può contro una burocrazia lumaca, incapace di velocizzare il processo di approvvigionamento e snellire le pratiche doganali per far entrare in Italia gli strumenti fondamentali per arginare i contagi da coronavirus. «La burocrazia è dissennata - tuona Paolo Tiramani (Lega) - le imprese non solo devono sostituirsi allo Stato nel reperire le mascherine da destinare alle amministrazioni locali, ma devono anche scontrarsi con dogane che non agevolano il rilascio rapido del materiale, dispositivi che hanno costi gonfiati e corrieri espressi che applicano importi per le importazioni aeree fino al 30% del valore della merce. E lo Stato che fa? Invece di agevolare gli imprenditori pretende il normale pagamento anticipato dell'Iva applicando un onere del 6,3% sulla maggior parte dei dispositivi». La Lega ha presentato emendamenti al decreto Cura Italia che propongono l'Iva al 4 per cento su mascherine e respiratori e incentivi per le pmi fino a 2 milioni di fatturato. Ma non basta. Bisogna correre più velocemente del virus. La Lombardia ha avviato una piccola riconversione dell'economia e non è l'unica Regione ad averlo fatto. Alcune aziende hanno provveduto da sole e i tappezzieri altoatesini hanno già chiesto un permesso speciale al commissario di governo per modificare la produzione tradizionale e cucire mascherine lavabili e camici. L'elenco di chi si rimbocca le maniche per aiutare il prossimo è lunghissimo e comprende le donazioni, come quella fatta a Bergamo dalla cinese Fosun Foundation insieme al gruppo Paref, che da Shanghai hanno fatto arrivare migliaia di mascherine di varie tipologie. Poi ci sono i diecimila pezzi regalati dal gruppo Forti Holding al Comune di Pisa e i 1.500 giunti ai volontari di Anpas Toscana grazie all'attività di due pelletterie di Scandicci. A Cerreto Guidi (Firenze) il comune ha consegnato a domicilio due unità a famiglia e a Gottolengo (Brescia) una task force le ha prodotte e consegnate alla popolazione depositandole nelle cassette delle lettere. E poi ci sono gli arrivi «istituzionali». La Consip ha fatto sapere che sono state già distribuite 561.500 mascherine e altre 311.800 sono in consegna, mentre Francia e Germania hanno rivendicato la donazione all'Italia di due milioni di pezzi. Ma è una goccia perché ne servono oltre novanta milioni per cercare di creare una barriera contro il Covid-19, proteggendo gli operatori sanitari e quanti rischiano ogni giorno per lavoro e non solo. Non è un caso se sul web c'è chi arriva a vendere 50 unità monouso a 89 euro, come hanno scoperto ieri le Fiamme Gialle di Ravenna. Invece la macchina è lenta e gli ingranaggi troppo farraginosi. «Abbiamo nuovamente offerto alla protezione civile un milione di mascherine certificate CE subito e 100mila a settimana - denuncia da giorni Tullio Romussi, direttore commerciale di una azienda farmaceutica milanese - li avremmo avuti grazie alla collaborazione di un nostro partner cinese. Ieri ci hanno risposto di nuovo che hanno protocollato la nostra disponibilità. E stop».

La denuncia della Polizia: "Lo Stato ci ha abbandonati. Costretti a comprarci le mascherine". Ora il sindacato di Polizia scrive a Giuseppe Conte e chiede al governo di "annullare l'Iva sulle protezioni". Costanza Tosi, Venerdì 27/03/2020 su Il Giornale. Ora la Polizia scrive a Conte. “Le mascherine ce le compriamo noi, ma almeno cancellate l’Iva sull’acquisto”. Da settimane ormai gli uomini in divisa lottano giorno e notte per riuscire a garantire la sicurezza degli italiani. Anche nel bel mezzo di una pandemia. Anche a costo di ammalarsi. Anche dovendosi accontentare delle briciole: i pochi pacchi di mascherine protettive arrivati alle stazioni di comando, i flaconi di gel disinfettante consegnato già scaduto. A distanza di quasi due mesi dall’annuncio dell’emergenza sanitaria le cose non sono cambiate per le Forze dell’Ordine, per gli uomini in servizio che combattono il Coronavirus in prima linea. La storia è sempre la stessa. E se qualcosa in più è arrivato è solo grazie a loro. Elogiati ai microfoni, resi eroi nelle parole solenni che ormai quasi ogni giorno il governo si appresta a recitare per aggiornare i cittadini sulle misure restrittive previste nei nuovi decreti, e poi lasciati in balia dei propri rischi. A cui sono esposti ogni giorno. Senza nessuna tutela o protezione da parte di uno Stato che chiede di essere forti ma non mette i suoi uomini nelle condizioni per farlo. “Le mascherine ci sono state fornite con il contagocce”, ci spiega Stefano Paoloni, presidente nazionale del Sindacato Autonomo di Polizia. Il problema era già stato fatto presente con ripetute lettere ai Presidenti delle rispettive Regioni nelle settimane scorse. Nessuna risposta dai piani alti. E sopratutto, niente scorte di mascherine, guanti e gel disinfettanti in arrivo. Tanto che, il sindacato ha scelto di acquistare la merce da fornitori esterni pur di riuscire a mettere in sicurezza i propri uomini. Oltre al danno anche la beffa. Perché su ogni ordine la Polizia è costretta a pagare il 22% di Iva. Tutti soldi da versare alle casse dello Stato. Lo stesso Stato che, da fine gennaio, non è riuscito a far arrivare un numero consono di protezioni a tutti coloro che in questo momento si trovano ad affrontare l’emergenza del Covid19. Medici di base contagiati perché senza protezioni, vigili del fuoco costretti ad utilizzare il sottocasco antifiamma per proteggersi dal Coronavirus, forze di polizia ridotte alla conta giornaliera dei dispositivi di protezione in base ai quali organizzare le uscite delle pattuglie. “A Torino, a dimostrazione della scarsità delle risorse è stata data disposizione che su una pattuglia da due la mascherina venga utilizzata solo da un poliziotto e che quelle più sicure, vale a dire le FFP3 e le FFP2 vengano utilizzate solo nel caso ci si trovi davanti a persone con evidenti sintomi. Ma per noi è molto difficile prevedere prima di un intervento a cosa sia stia andando incontro. Quasi impossibile”, ci spiega Paoloni. Una situazione che ha indotto il Sap a prendere la decisione di acquistare autonomamente le mascherine monouso, rivolgendosi a grossisti, aziende che hanno convertito la propria produzione, fornitori locali. “Pagare il 22% di Iva sugli acquisti ci costringe, date le nostre risorse minime, ad acquistarne il 20% in meno.” Per dirla in parole povere, su una spesa di 5mila euro, 1100 sono di tasse. Una spesa che la Polizia sta continuando a sostenere per evidente necessità. Sono stati fatti ordini, a Rimini, Piacenza, Reggio Calabria, Brescia, Parma, Como, in tutta la Toscana e altri sono già in programma. Tanti soldi spesi per sopperire a delle mancanze. Mancanze delle quali, forse, avrebbe dovuto occuparsi il governo. Magari, spinto dalle sacrosante parole di ringraziamento che ogni giorno rivolge alle Forze dell’Ordine. Ed è proprio al governo, che questa volta il presidente del Sap ha voluto rivolgersi, inviando una lettera destinata al “Signor Presidente del Consiglio dei Ministri professor avvocato Giuseppe Conte”, in cui si evidenzia come, vista l’emergenza sanitaria, tutto il materiale di protezione sia diventato un bene primario, motivo per cui, gli uomini in divisa, ritengono che “azzerare l’Iva su tali prodotti sarebbe una misura concreta di sostegno nei confronti degli operatori della sanità e delle forze dell’ordine esposti al contagio.”

Lo scandalo: al Sant’Orsola di Bologna sono state inviate mascherine. Ma sono quelle per imbianchini. Massimiliano Mazzanti venerdì 27 marzo 2020 su Il Secolo d'Italia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo: Non c’è più nessun problema per le mascherine, si affannano a dire nel governo a ai vertici della Protezione civile. Eppure, anche ieri, in uno dei giorni più “caldi” del fronte emiliano-romagnolo, alla la clinica universitaria Sant’Orsola di Bologna è capitato l’assurdo. Il virologo Pregliasco: «Siamo travolti dall’onda». Chiusura e tempismo utili. Ma i politici sono sulla graticola. Scarpe ai cani per la passeggiata, mezzi pubblici fermi, spesa disciplinata: così la Cina ha vinto sul virus. E noi? Ai sanitari che operano nella “area critica” – dove il Covid gira e i pazienti sono in terapia “cppap” – hanno consegnato mascherine del tipo FFP2. Cioè, le protezioni a uso edilizio, quelle che si indossano per non respirare la polvere quando si costruisce o si vernicia un muro. Per imbianchini – per intendersi- non per medici che lottano per non morire anche loro contagiati. La denuncia viene dagli stessi operatori sanitari del nosocomio bolognese, i quali hanno anche fatto girare la foto della scandalosa fornitura. Dunque, al di là delle insistenti rassicurazioni, proprio il personale sanitario sarebbe ancora esposto a gravi rischio di contagio e di trasmissione del virus. Vanificando gravemente i sacrifici che tutti stanno sopportando per il contenimento del Covid-19.

Mascherine farlocche, esposto alla Procura. La notizia è stata raccolta anche da una consigliera comunale, Francesca Scarano, la quale non ha escluso, in attesa delle risposte politiche, di far seguire all’interpellanza che ha presentato tempestivamente, un esposto alla Procura della Repubblica.

Coronavirus, mascherine da muratore per gli infermieri: «Ma queste non ci proteggono». Sono state distribuite al personale all'Ospedale Fatebenefratelli a Milano. Il sindacato: «Filtrano grandi granelli di polvere e lasciano passare il virus». Gloria Riva il 20 marzo 2020 su L'Espresso. I pacchi di mascherine sono arrivati giovedì mattina all'Ospedale Fatebenefratelli di Milano, uno dei più grandi della città, dove ogni giorni medici e infermieri lottano per salvare vite umane dal coronavirus. Il personale tecnico le ha distribuite, le mascherine, senza prestarci molta attenzione. Poi sono arrivate nelle mani degli infermieri: raggelati. «Sono mascherine da carpentiere, da muratore», spiega Mauro D'Ambrosio, infermiere a sua volta e sindacalista di NursingUp. «Sono mascherine che lasciano scoperto gran parte del volto, che non possono essere utilizzate dai sanitari al Pronto Soccorso, nel reparto di subintensiva, nel reparto di rianimazione intensiva. Di più, sono molto fragili e si rompono facilmente, specie gli elastici. Sono mascherine che filtrano grandi granelli di polvere, ma lasciano passare il virus». E sono pure poche: cento maschere, comunque sufficienti per una sola giornata di lavoro e senza alcuna possibilità di sostituirla durante i massacranti turni di 10 ore. D'Ambrosio ha allertato il responsabile del Pronto Soccorso e ha mostrato il dispositivo di sicurezza: «È rimasto smarrito, quanto me. Ha consigliato di infilarci sotto la mascherina chirurgica. Ho chiamato anche il direttore generale, che è rimasto altrettanto sorpreso. Sono adatte per chi fa l'imbianchino, non per chi lavora a stretto contatto con malati di Covid-19». La protesta di ieri è servita a far arrivare una piccola scorta di maschere ffp2 e ffp3 da altri nosocomi cittadini: sono state distribuite solo agli operatori dei reparti di terapia intensiva. «Ma questa mattina (venerdì) siamo nuovamente punto e a capo. Le maschere stanno terminando e non ne stanno arrivando di nuove», continua il sindacalista D'Ambrosio, che ha fatto partire una lettera di diffida nei confronti dell'azienda ospedaliera. I direttori territoriali degli ospedali rispondono ai sindacati di evitare polemiche in momento difficili come questi. «Ma gli infermieri non sono diventati pazzi d'un tratto. Semplicemente sanno che questi dispositivi non li riparano dall'infezione. In guerra ci andiamo, non abbiamo paura delle malattie, ma con le armi giuste, non allo sbaraglio!», dice D'Ambrosio. Quattro le richieste dei sindacati alle aziende sanitarie e quindi alla Regione Lombardia: «Una corretta informazione preventiva su quello che sta succedendo all'interno delle aziende sanitarie, perché ogni giorno ci sono cambiamenti, spostamenti e non si riesce a capire cosa stia succedendo; La possibilità di sottoporre a tampone i sanitari che abbiano avuto contatti diretti con la malattia o con sintomatologia specifica, altrimenti rischiamo di contagiare tutti i colleghi e chiunque stia loro intorno; comunicazioni ufficiali sul numero di sanitari in quarantena e in malattia; chiediamo infine un supporto psicologico, perché molti stanno crollando».

L'sos dei medici di base: "Costretti a visitare con mascherine per agricoltura". L'sos dei medici di base della Capitale: "Dalla Asl non sono arrivate le mascherine, ci arrangiamo con quelle da agricoltura". Ma i sindacati a avvertono: "Sono inadeguate". Elena Barlozzari, Sabato 21/03/2020 Il Giornale. “Le mascherine? Ci arrangiamo come possiamo, qualcuno le aveva già e le ha distribuite ai colleghi, qualcuno è riuscito a comprarle su internet. Io ed altri ci siamo attrezzati con delle mascherine da agricoltura che proteggono le vie respiratorie”. A parlare è un medico di base della Capitale, uno dei tanti impegnati a fronteggiare l’emergenza coronavirus con mezzi decisamente inadeguati. “È come andare in guerra con uno stuzzicadenti”, ci dice amareggiato. “Dalla Asl – continua il dottore – non è arrivata nessuna fornitura, neppure una mascherina chirurgica”. Una situazione drammatica, che riguarda sia i medici di famiglia che quelli della continuità assistenziale. Tanto che qualche giorno fa i sindacati hanno scritto al presidente della Ragione Lazio Nicola Zingaretti denunciando la mancanza dei dispositivi di protezione individuale e chiedendo l’esecuzione dei tamponi per tutto il personale sanitario. Per scongiurare che i nostri medici si trasformino in degli untori. Un appello raccolto anche dai consiglieri regionali della Lega che hanno intimato al governatore di attivarsi “per garantire la giusta tutela sia dei camici bianchi che dei pazienti”. “Non riteniamo giusto che i medici debbano ricorrere all’utilizzo di mezzi di protezione non concepiti per l’ambito sanitario per garantirsi un sufficiente livello di tutela”, dice il dottor Ermanno De Fazi, vicesegretario regionale dello Smi Lazio. Pur essendo munite di un filtro, infatti, le mascherine per uso agricolo non sono adattabili alle esigenze degli operatori sanitari e non bastano a schermarli dal virus. “Le mascherine sono solo la punta dell’iceberg – annota Pier Luigi Bartoletti, vicepresidente dell’Ordine dei Medici di Roma – il sistema di protezione da agenti patogeni sconosciuti è un combinato di tanti fattori: servono guanti, camici, cuffie, occhiali e soprattutto la formazione”. Elementi essenziali per questa categoria di professionisti che svolge un ruolo strategico nella gestione dell’emergenza. Sono loro la prima linea. Quelli a cui i pazienti si rivolgono quando stanno male, quelli a cui tutti in queste settimane critiche chiedono consigli e indicazioni. Sono la trincea della lotta al Covid-19. “Quando veniamo contattati facciamo un triage telefonico – spiega De Fazi – per capire se ci sono presupposti che facciano pensare al coronavirus o se si tratta di forme influenzali di poco conto. Nel primo caso si affida il paziente al servizio di igiene e sanità pubblica della Asl sennò lo seguiamo con frequenti contatti telefonici”. Sì perché le sale di attesa ai tempi del coronavirus non sono più le stesse. Si sono svuotate. “In media prima vedevo un centinaio di pazienti a settimana, adesso non più di quattro”, racconta Bartoletti. Si procede per appuntamento ed i pazienti sprovvisti della mascherina vengono rimandati a casa. La regola è: cercare di evitare visite inutili gestendo gli utenti "da remoto". Ma non si può colmare tutto con la teleassistenza e le ricette dematerializzate. Ci sono situazioni in cui il medico non può nascondersi dietro a un monitor. Situazioni in cui le visite domiciliari non si possono rimandare perché ci sono malati cronici, pazienti oncologici o reduci da interventi difficili che devono essere seguiti. Persone che non presentano sintomi necessariamente riconducibili al coronavirus ma che potrebbero essere comunque infette. In casi del genere i dispositivi di sicurezza sono irrinunciabili visto che – per ovvie ragioni – il medico non può tenersi a più di un metro di distanza dal paziente. “Ci ritroviamo in una situazione di estremo pericolo perché abbiamo perso il link epidemiologico, il virus comincia a circolare anche a Roma e l’unica difesa è il distanziamento sociale”, spiega il dottor Bartoletti. “È una guerra che noi medici stiamo combattendo senza armi, sia dal punto di vista terapeutico che dal punto di vista delle protezioni”, aggiunge. E se le cose non cambiano, avverte, “rischiamo di trasformarci in medici monouso”.

Fazzoletti come mascherine, medici diventano kamikaze: “Hanno firmato nostra condanna”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 17 Marzo 2020. Chi per 20 giorni, chi per oltre un mese ha dovuto combattere con mezzi di fortuna quella che oggi è diventata una pandemia. Medici, infermieri, operatori socio sanitari, personale del 118 e della Croce Rosse sono in prima linea contro il Coronavirus ma con mezzi di fortuna, attrezzature inadeguate per lavorare in sicurezza ed evitare di essere contagiati e, di conseguenza, di infettare i propri cari quelle poche volte che tornano a casa. In queste settimane siamo stati abituati a vederli dormire a terra, sulle scrivanie, in auto, in condizioni sempre precarie, sempre in trincea a combattere una guerra quasi come dei kamikaze. Non c’è nulla di romanzato in tutto questo. Basta vedere le fotografie delle mascherine, pardon, fazzolettini, che buona parte di loro ha avuto a disposizione lungo tutta la Pensisola. In tanti si sono ammalati, qualcuno lotta in un letto d’ospedale per sopravvivere, altri sono fuorigioco e in isolamento a casa, impossibilitati a dare il proprio contributo alla causa. Adesso, a un mese di distanza, potrebbero presto avere, tutti, attrezzature adeguate per affrontare l’emergenza. Nel frattempo però sono state numerose le denunce, sia dei sindacati che degli stessi professionisti, alcune delle quali diventate virali in rete. IL MEDICO DI AOSTA – Una testimonianza è il filmato del medico del pronto soccorso dell’ospedale Parini di Aosta che protesta per la mascherina fornitagli lunedì scorso. “Pensate po’, un banale fazzoletto che improvvisamente assurge a presidio medico di protezione. Ringrazio fervidamente chi ha avuto questa brillante idea” spiega ma “con questa splendida idea hai voluto firmare la nostra condanna, la condanna di medici, sanitari e personale parasanitario, che in questo momento difficile sta affrontando un problema serio e mette a repentaglio la propria vita per gli altri. Ti stai approfittando del nostro senso del dovere, della nostra passione, che mettiamo ogni giorno nella nostra professione. Ci ripaghi così, con questa roba qui. Se ci riesci usala, per te che hai avuto l’idea, per la tua igiene intima. Io preferisco lavorare senza”.

L’ASSOCIAZIONE NAPOLETANA – Altra denuncia arriva dall’associazione “Nessuno Tocchi Ippocrate”, da anni in prima linea a Napoli contro la violenza sul personale sanitario. “Sono in distribuzione le nuove mascherine per il personale sanitario, le famigerate “swiffer” (chiamate così per la somiglianza con gli stracci per la polvere) . Qualche collega ha provato, con apposito spruzzino, a bagnarle simulando uno starnuto di un potenziale paziente infetto ed il risultato è stato imbarazzante; si sono attaccate in faccia. A nostro avviso, che abbiamo l’arduo compito di fare i “developers” (ahimè sulla nostra pelle) questo presidio è inutilizzabile. Di certo usarle per la nostra (personale sanitario ) e vostra incolumità è un reale pericolo! Aldilà di tutto………Meritiamo di più”.

Coronavirus, medici di base senza protezioni: «Se ci ammaliamo contagiamo i pazienti». I sistemi sanitari regionali stanno distribuendo quasi solo mascherine chirurgiche, che evitano di infettare ma non di essere infettati. E si contano i primi morti. «E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori. Ma tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie A e di serie B». Federico Marconi il 26 marzo 2020 su L'Espresso. Una mascherina con dentro un assorbente. Una precauzione senza logica, e sicuramente inefficace a prevenire il contagio. Un gesto irrazionale, come quasi tutti quelli dettati dalla paura, in questo caso di ammalarsi. “So bene che non serve a molto, ma mi fa sentire più al sicuro”, spiega P., medico di famiglia. Vive e lavora nelle Marche, una delle regioni più colpite dal contagio. Ha una lunghissima carriera alle spalle – «Quasi una vita, 40 anni» – e ora, come tutti i suoi colleghi alle prese con l’epidemia di coronavirus: «Noi cerchiamo di continuare ad aiutare il più possibile i nostri pazienti, utilizzando la telemedicina. Ma ci sono casi che necessitano una visita in studio o a casa: e in quei casi i dispositivi di protezione non sono all’altezza». P. ha ricevuto infatti solo mascherine chirurgiche. «Sappiamo tutti ormai che sono utili solo a non trasmettere il virus se si è infetti, non a proteggersi dal contagio come le FFP2 o le FFP3», dice preoccupata. «Se noi ci ammaliamo, non mettiamo solo a rischio la nostra salute, ma anche quella di quei pazienti che ancora visitiamo». «È stata una situazione forse sottovalutata all’inizio», racconta F., medico che lavora a Roma. «Quando ancora non era stato imposto il distanziamento sociale, gli studi erano pieni come sempre. Un rischio molto alto: non solo per noi, ma anche per i nostri pazienti. Allora, forse più di adesso, è stato un periodo psicologicamente provante». Nella guerra contro il coronavirus, se gli ospedali sono la prima fila di trincea, i medici di famiglia sono la seconda. Anche tra di loro si contano vittime – ad oggi la metà dei 31 medici morti è un medico di base – e contagiati, e la preoccupazione cresce con il passare dei giorni. Ogni sistema sanitario regionale e ogni Asl (quasi 300 in tutta Italia), cerca di sostenerli come può. Ma non sempre i dispositivi di protezioni forniti sono sufficienti a tenerli al sicuro. «Adesso sembra che viviamo in un mondo mascherina: ne chiediamo agli altri paesi, facciamo riconvertire le fabbriche per farne produrre di più. Ma non bastano solo queste, né tutte sono adeguate a proteggere», afferma Claudio Cricelli, presidente della SIMG, la Società italiana di medicina generale.  «Abbiamo bisogno di protezioni che non sono state neanche predisposte, come quelle totali. E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori, i disinfettanti per sanificare gli ambulatori», continua.  Il problema principale: in Italia il numero di contagiati è almeno dieci volte superiore a quello comunicato dal bollettino quotidiano, e i medici di famiglia non sempre possono evitare le visite. «Anche se lo facciamo il più possibile: ormai i consulti sono fatti con il cellulare, stiamo cercando di realizzare il più possibile dei monitoraggi telematici, mandiamo le ricette per sms. E questo forse è un lato positivo di questa situazione: anche dopo questa crisi continueremo a risparmiare carta e a evitare le file ai nostri pazienti», racconta Cricelli. Le protezioni, però, servono: «Non ne abbiamo a sufficienza. Quello che sembra passato in secondo piano è che in Italia ci sono milioni di persone malate di cuore, di diabete, di cancro. Loro hanno bisogno delle nostre cure. Prima del Covid-19 in Italia morivano circa 200 persone al giorno, e sono tante le persone ammalate che si spengono in questi giorni: tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie a e di serie B».

«Noi medici e infermieri siamo alla guerra con arco e frecce contro un nemico con il fucile». Gloria Riva il 23/3/2020 su L'Espresso. «Non ci facciamo illusioni. Non arriverà alcun nuovo medico a darci una mano. Lo sappiamo benissimo che le truppe in campo sono queste. E su queste dobbiamo contare», parla un pneumologo, ha appena smontato il turno in un reparto Covid-19 di un ospedale comasco, chiede l’anonimato, perché tutte le direzioni sanitarie hanno vietato a medici e infermieri di riferire alla stampa quello che sta succedendo in corsia. Eppure sono molti a volersi raccontare. Nelle parole c’è la volontà di denunciare le mancanze - dal personale che scarseggia, alle introvabili mascherine -, e l’urgenza di condividere il peso della sofferenza, che è enorme. «Qui, nel nostro ospedale, abbiamo trascorso le prime due settimane a vincere la resistenza della direzione sanitaria, contraria a creare percorsi di isolamento, dal triage alle rianimazioni. Siamo riusciti a spuntarla e a mettere a punto il sistema appena in tempo, perché il giorno successivo i letti sono stati tutti riempiti, al ritmo di un nuovo paziente ogni quindici minuti. Eravamo già sotto organico prima che tutto questo cominciasse, figuriamoci adesso». L’aiuto viene dai colleghi specialisti di altri reparti: chirurghi, fisiatri, dermatologi, persino gli anatomopatologi si fanno avanti, «perché di pneumologi, rianimatori e anestesisti ce ne sono pochi e sappiamo che le aziende sanitarie non riusciranno ad assumerne di nuovi. Non per cattiva volontà, semplicemente perché non ce ne sono. Quelli in pensione non hanno risposto alla “chiamata alle armi” (se non in minima parte), spaventati dall’elevata contagiosità del virus. Ed è impossibile fargliene una colpa». I tentativi della Regione Lombardia di assumere nuovo personale hanno dato scarsi risultati, se non altro perché i contratti offerti sono temporanei, occasionali e non danno garanzie. Hanno risposto pochi specializzandi, perché le graduatorie erano già state esaurite mesi fa, ma molti giovani medici neolaureati disposti a entrare subito in corsia, benché privi di formazione. Nelle aree più colpite di Bergamo e Brescia sono stati arruolati una ventina di medici dell’esercito. Una boccata d’ossigeno. L’assessore lombardo alla Sanità, Giulio Gallera, ha promesso che nuovi medici arriveranno dall’estero. Forse dalla Cina. Chissà. Nel frattempo, chi sta in prima linea, non si illude. Combatte consapevole che i rinforzi potrebbero non arrivare mai: «Qui siamo rimasti in due, ma servirebbero almeno tre pneumologi e altrettanti rianimatori», dice un medico bresciano. «Qualche speranza viene dai colleghi di altre specialità che si rendono disponibili. Li stiamo formando. Il che implica una doppia fatica: da un lato siamo chiamati a curare i pazienti affetti da Coronavirus, bisognosi di moltissima attenzione, e dall’altro dobbiamo insegnare le manovre ai colleghi. Oggi è arrivato uno specializzando in ortopedia e una fisioterapista, per dare una mano: ci vorrà un mese per renderli autonomi, ma ogni aiuto è prezioso e speriamo arrivino altri camici bianchi in nostro soccorso». Il ruolo della pneumologia e dell’infettivologia è fondamentale per ritardare il ricorso all’intubazione e l’ingresso in rianimazione: «Quello è il vero collo di bottiglia. Non ci sono più letti e dobbiamo fare il possibile per rallentare le crisi respiratorie: sono in fase di sperimentazione alcuni farmaci che sembrano avere una certa efficacia, ma nel complesso siamo impotenti di fronte a polmoniti spaventose che si sviluppano e peggiorano in pochissime ore», racconta un internista di Varese. Si tampona, insomma, mentre Regione Lombardia fa il possibile per reperire i respiratori e le macchine che consentirebbero di attrezzare un ospedale di emergenza da 500 posti letto nei padiglioni della Fiera di Milano: «Premesso che la Regione si sta muovendo bene, ci domandiamo come intendano poi reperire il personale medico e gli infermieri per far funzionare quei macchinari», si domanda un anestesista del San Gerardo di Monza. Che continua: «Nel nostro ospedale i turni sono già massacranti e il lavoro è reso ancora più complicato dal delirio della vestizione per entrare nei reparti Covid-19, nonché dalla paura di infettarsi. I pazienti Covid stanno mangiando tutto lo spazio disponibile dell’ospedale, ti giri e vedi che le zone da coprire diventano sempre più estese, i malati da assistere non finiscono mai. Le chiamate dai reparti di infettivologia sono sempre più frequenti, chiedono a noi anestesisti di decidere quando è grave ogni singolo paziente: dobbiamo valutare se è sufficiente un casco respiratorio o se è necessario eseguire l’intubazione e attaccare il respiratore. Poi ogni paziente deve costantemente essere monitorato, per almeno due settimane. Di nuovi medici non ce n’è, se non qualche giovanissimo agli ultimi anni della specializzazione. Continuo a domandarmi come faranno a gestire un nuovo ospedale, forse sposteranno lì qualche primario da altre zone: sarà comunque molto complicato». La sofferenza psicologica degli operatori in prima linea è fortissima, come racconta Francesca Baitani, infermiera in un reparto di Infettivologia Covid 19 dell’Emilia Romagna e referente del sindacato Nursing Up: «Soffocano e muoiono soli. L’impatto psicologico su noi infermieri è devastante, restiamo bloccati nella tuta protettiva e non c’è il tempo e il modo di offrire un gesto, una carezza umana, viene meno persino l’atto caritatevole di accompagnare queste persone verso la fine. È l’apocalisse, manca totalmente un supporto psicologico per noi infermieri e medici, per aiutarci ad affrontare l’enorme livello di tensione. Non oso pensare a cosa succederà da qui alla fine del mese, quando il picco arriverà e ci troverà sfiniti e senza una seconda linea che possa sostituirci. Per ora reggiamo, abbiamo ancora livelli alti di adrenalina e siamo abbastanza forti per dare assistenza a tutti, ma come faremo a sostenere questo ritmo sul lungo periodo? Sono preoccupata dell’effetto “burnout” che potrebbe piombarci addosso proprio quando dovremo dare il massimo per salvare centinaia di vite umane». Il burnout, l’esaurimento emotivo, è una reazione della mente e del corpo a un sovraccarico da lavoro, che porta a un improvviso spegnimento energetico, riduzione della lucidità, della capacità d’attenzione e dell’efficienza nella cura dei pazienti. «Continuano a girare voci sull’arrivo di nuovi infermieri, ma qui non abbiamo ancora visto nessuno e temiamo che, anche se dovessero arrivare, non avranno l’esperienza per lavorare in autonomia», racconta Francesca, che lavora da 18 anni in un reparto di infettivologia. C’è poi il rischio contagi per medici e infermieri, tutti lamentano l’assenza di dispositivi di sicurezza. Chi non li ha già terminati, li utilizza con enorme parsimonia: «Il 12 per cento degli infettati in Lombardia sono proprio sanitari: significa 700 professionisti sono fuori gioco, su un organico di 14mila lavoratori. Io stesso ho contratto il virus pochi giorni dopo essere arrivato in corsia a dare una mano», spiega Stefano Magnone, sindacalista dei medici iscritti all’Anaao e chirurgo all’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, epicentro dell’emergenza. Proprio lì, in tempi record, sono state liberate persino le sale operatorie per fare spazio agli infettati. I pazienti con altre patologie sono stati trasportati a bordo di ambulanze in ospedali lontani. Tutto il personale è stato velocemente addestrato ad affrontare l’emergenza: «Con i pazienti ho sempre indossato i dispositivi di sicurezza, ma non con i colleghi medici, da cui probabilmente ho contratto il virus. Così ci siamo ammalati e siamo stati messi in quarantena. Sto abbastanza bene, non sono preoccupato per la mia salute, piuttosto sono angosciato perché non posso essere utile in corsia, dove la situazione sta diventando insostenibile». Le mascherine protettive sono esaurite e questo sta provocando un aumento esponenziale dei contagi fra i sanitari, che non vengono neppure testati. È questo il problema maggiore, a cui le centrali di comando, il governo, la protezione civile, le Regioni, non sanno rispondere. Racconta un operatore socio-sanitario della Brianza, responsabile della cura domiciliare agli anziani, che le Asl hanno fornito a tutti un kit protettivo con una sola mascherina chirurgica: «La sto riusando di giorno in giorno. La indosso da oltre una settimana, ormai non credo serva a qualcosa e non so neanche perché continuo a indossarla. Forse la metto per non allarmare ulteriormente gli anziani allettati, di cui mi occupo quotidianamente. Anche il camice non è adeguato e ho il timore che il mancato ricambio dei dispositivi di protezione possa contribuire a infettare i miei pazienti: alcuni sono già stati ricoverati per Covid 19, così come alcune colleghe. Il tampone? A me non l’hanno fatto e neanche ad altre colleghe che lamentano febbre alta». Stessa situazione per gli infermieri addetti al prelievo e per tutti quelli non direttamente a contatto con gli allettati da Covid-19: «Le commesse dei supermercati hanno molte più protezioni di noi. La mascherina chirurgica non ci protegge e neppure il camice. Ogni giorno andiamo a lavorare terrorizzati, perché tutti ci stiamo ammalando. Scarseggiano anche i tamponi: non sappiamo neppure se siamo positivi. Io ho portato mia figlia a casa dei nonni, perché il rischio di contrarre il virus per me è altissimo», racconta un’infermiera del Veneto. Mentre le sue colleghe di Monza hanno fatto una raccolta fondi e sono andate a recuperare delle nuove mascherine in un negozio della città, che ha chiuso poche ore dopo per esaurimento scorte. Uscite dal negozio hanno commentato: «È come se ci avessero mandato in guerra con arco e frecce, contro un nemico che imbraccia il fucile».

Luca Telese per ''la Verità'' il 28 marzo 2020.

Ho visto le foto delle vostre facce, infermieri segnati dalla guerra in corsia.

«Pazzesco, vero? Le mascherine sono tutto per noi, croce e delizia».

Ti proteggono, ma ti fanno soffrire.

«Noi non possiamo usare la classica mascherina chirurgica in tessuto».

Vi servono la Ffp2 e le Ffp3, più protettive, filtranti, ma anche dure.

«Ti lasciano solchi sul viso».

E poi?

«Ti serve anche la protezione degli occhiali. Sono simili a quelli da sci, che però sono rivestite di gommapiuma e fanno meno male. E per fortuna noi siamo pieni di inventiva».

Cioè?

«L' ultima moda. In pochissimo tempo si è diffusa questa trovata: bardarsi il volto con dei cerotti da decubito prima di vestire le protezioni».

Per limitare la frizione della mascherina?

«Esatto. Ognuno a seconda delle esigenze del suo viso. Chi sul naso, chi sugli zigomi, chi addirittura sulla fronte».

E il cerotto funziona?

(Sorriso). «Ci metti altri dieci minuti in più nella vestizione ma sì, funziona, anche se devo dire che dopo sembriamo delle mummie. Tuttavia non è questo il vero problema».

Perché?

«È fondamentale che tutti quelli che lavorano in corsia, o a domicilio, abbiamo le mascherine come un diritto. Io però fatico sempre a trovarne».

E non c' è disponibilità adesso?

«Macché. Torno a casa e sono sempre attaccato al telefono, a chiedere, implorare, gridare, contrattare, incazzarmi».

I prezzi sono saliti?

«Sta scherzando? Adesso le racconto di quanto e come».

Gianluca Solitro, presidente dell' ordine degli infermieri di Bergamo è un trentenne estroverso, nato in Puglia e trapiantato in Lombardia. È un manager che vive nella trincea del lavoro di tutti i giorni, e descrive l' esperienza collettiva che sta vivendo due volte, si con la cooperativa che guida, sia con sua categoria. Gianluca è lucido, ironico e a tratti anche disincantato: «Quando finisci a dare terapie e sacramenti capisci che nulla sarà più come prima per noi».

Che storia ha Solitro?

«Sono un pugliese, adottato dalla Bergamasca, ho iniziato a lavorare come infermiere nel 1997».

In Lombardia?

(Ride). «Sì. Un "terrone" eletto alla guida degli infermieri della provincia più nordista d' Italia, vuol dire che ho superato la prova cruciale dei bergamaschi».

E quale sarebbe?

(Risata). «Se lavori meno di quattordici ore al giorno ti considerano un part time».

Adesso lei si divide fra l' ordine e la professione sul campo.

«Dirigo una cooperativa che lavora nella sanità a tutti i livelli, dagli ospedali ai medici di base, fino all' assistenza a domicilio».

Nelle strutture cosa fate?

«Abbiamo la gestione di molti servizi intraospedalieri, ad esempio le sale operatorie».

Quindi sto parlando con la persona giusta per capire cosa sta accadendo nell' emergenza.

«Oh, direi di sì, in questi giorni tutto il mio personale di è riconvertito e lavora solo sul Covid-19».

Le pare attendibile il dato sul calo dei contagi?

«Negli ospedali della Bergamasca è ancora allarme rosso».

Descriviamolo.

«Quando tu hai tanti pazienti, li devi gestire tutti insieme, quando vivi un disastro permanente, sai che puoi uscire dal tunnel solo quando cala il tuo afflusso di malati».

Mi dica l' esperienza a cui non eravate preparati.

«Essere noi il parente ultimo, essere noi gli unici al fianco di chi muore in queste ore».

Parla dal punto di vista psicologico, adesso.

«Sì, ma non intendo quello del paziente, parlo del nostro: qualcosa di simile non ci era mai accaduto e ci segnerà per tutta la vita».

Perché in passato c' erano anche i parenti insieme a voi, nelle corsie.

«Esatto. In queste ore, invece, non si può per via degli isolamenti: quando il paziente ti guarda in faccia e ti consegna il suo ultimo messaggio per chi ama e non hai nemmeno dove scriverlo, tu sei impreparato, prima tutto psicologicamente a sostenere un peso così grande».

È terribile.

«Non è finita. È accaduto in questi giorni che i vescovi ci abbiano detto: "Voi infermieri potete dare l' estrema unzione". E sono in moltissimi a chiederla. Ma immaginate di essere al nostro posto».

Torniamo alle mascherine, adesso avete le protezioni?

«Contatissime e scarsissime».

E non è l' unico problema.

«Quando le trovi hanno dei prezzi assurdi».

Mi dia una misura.

«Una mascherina chirurgica prima mi costava nove centesimi, ora costa un euro. Mentre una Ffp3 prima mi costava 0.90, ora mi costa 6,50 euro!».

Tra sei e nove volte di più?

«Esatto. Ma devo aggiungere che non è il mio grossista ad alzarmi i prezzi. Lui mi fa vedere le bolle di quello che le paga lui».

E cosa si scopre?

«Il fornitore mi dice: "Io le chirurgiche le compro a ottanta centesimi. Tutte le spedizioni sono bloccate alle dogane.

Dobbiamo elemosinare tutte le forniture, anche quelle che erano state già pagate"».

Quindi non c' è più scelta.

«Se voglio prendermi mille mascherine devo spendere 6.500 euro: è la cifra con cui prima del Covid-19 compravo tre lettini motorizzati!».

E si cede al ricatto del mercato?

«O non proteggo i miei infermieri o non le compro. Che devo fare? Le compro. Perché non mando un esercito in guerra senza protezioni».

Cosa prova quando vi definiscono eroi?

«Non mi emoziono. Io non entro nelle vicende politiche, ma di quello che ci riguarda non posso tacere».

E cioè?

«È assurdo che le istituzioni che si ricordano solo oggi degli infermieri chiamarci "eroi".

Ieri dove erano?».

Me lo dica lei.

«Abbiamo i contratti scaduti nella sanità privata da 14 anni. Nel pubblico abbiamo ricevuto un aumento contrattuale di cinquanta euro».

Ed è poco?

«Oggi noi infermieri dobbiamo avere una laurea, ci sono richieste specializzazioni con dei master».

Facciamo un esempio.

«Il più facile di questi giorni: le terapie intensive. Uno che ha appena ha finito la scuola non può andare serenamente in una terapia intensiva. Ti serve competenza, esperienza».

E poi?

«Se oggi abbiamo così pochi infermieri per fronteggiare la crisi lo dobbiamo alle scelte politiche di questi anni».

Ad esempio?

«Sono stati ridotti gli organici. Ovunque. Siamo 450.000, pochi. E sono pochi pure i medici: il cortocircuito che stiamo vivendo in Italia lo dice».

In queste ore tutto si è velocizzato, da questo punto di vista?

«Adesso uno che ha poco più che il camice viene assunto. Si assume quando affonda la nave».

Cosa pensa di chi è scappato al Sud?

«Nessuno dei miei amici mi avrebbe lasciato qui a combattere da solo».

Chi non capisce?

«Quelli che sono scesi ora con le famiglie: questo non posso accettarlo. La vigliaccheria è terribile, soprattutto se porta anche contagio».

La cosa che le resterà.

«Riscoprirsi come gruppo, come squadra. Siamo diventati tutt' uno. Come in guerra.

Uno difende l' altro».

Molti di voi si sono ammalati.

«Qualche giorno fa a livello nazionale eravamo al 10%».

E tra di voi.

(Pausa). «Molti, siccome non hanno sintomi respiratori non hanno fatto il tampone».

Per continuare a lavorare?

«Senta, sarò brutale: in queste ore bisogna pensare alla conseguenze».

Me lo spieghi.

«È semplice: se io ho settanta infermieri fermi per il tampone, poi chi li tiene aperti gli ospedali?».

Che dati guarda, lei?

«Solo due. Il numero dei morti e quelli delle terapie. E prego tutti i giorni che non accada in Puglia o Calabria quello che è successo a noi».

(ANSA il 27 marzo 2020) - Altri due medici non ce l'hanno fatta a causa dell'epidemia di Covid-19, si apprende dalla Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo). Si tratta del dottor Benedetto Comotti, ematologo di Bergamo, e Marcello Ugolini, pneumologo e consigliere dell'Ordine dei medici di Pesaro-Urbino. Il totale dei decessi tra i camici bianchi sale a 46.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2020. Non sopportano più di essere chiamati eroi. Vogliono sentirsi difesi, andare in ospedale e in ambulatorio senza il patema d' animo di correre rischi, protetti da «vere» mascherine E piangono i loro colleghi. Ieri il bilancio dei medici caduti sul campo è salito a 41. Nuovi lutti a Novara e Lucca, ormai l' elenco si allunga ogni giorno. Ha la voce strozzata Filippo Anelli, presidente della federazione degli Ordini dei medici italiani, Fnomceo: «Non meritiamo questa considerazione, lo dico a nome dei tanti che vanno al lavoro sapendo di non poter contare su dispositivi all' altezza del pericolo da affrontare». Oggetto di polemiche le mascherine. Oltre ad essere state distribuite in quantità irrisoria, non sono considerate sicure. Si tratta di quelle chirurgiche, ben diverse dalle FFP2 e FFP3, dotate di filtro, capaci di fare da barriera al virus. Il decreto Cura Italia prevede che possano essere indossate anche dagli operatori sanitari, sulla base delle indicazioni dell' Oms. «Noi le chirurgiche non le vogliamo. Pretendiamo di ricevere dispositivi all' altezza di un Paese industrializzato. Non era un obbligo attenersi alle indicazioni dell' agenzia internazionale dirette anche agli Stati con minori disponibilità economiche. Noi medici siamo in grado di definire il livello di sicurezza e di utilizzare le mascherine in libertà, con buon senso, a seconda delle situazioni». E mentre a Torino la Procura apre un' inchiesta sulla carenza di dispositivi di protezione personale, l' Istituto superiore di sanità sta lavorando a un documento che potrebbe andare incontro agli operatori che chiedono anche test rapidi e tamponi, senza ulteriore perdita di tempo. Silvestro Scotti, segretario nazionale della Federazione medici di medicina generale, legge il rapporto dell' Iss aggiornato al 23 marzo: i positivi erano circa 5.200, età media 49 anni, il 35% donne a differenza di quanto avviene nella popolazione generale dove sono gli uomini i più colpiti.

C' è una prevalenza di infermiere infettate in servizio. «Gli ospedali, ad oggi, sono paradossalmente le strutture meno sicure e più a rischio di contagio in quanto operatori potenzialmente positivi non vengono posti in quarantena se non sviluppano sintomi. E anche li sviluppassero, continuerebbero a lavorare in attesa di un tampone e del suo risultato», è l' accusa di Francesco Coppolella, segretario di NurSind Piemonte, il sindacato dei parasanitari. Ma come si spiega la mancanza irrisolvibile di mascherine? Mario Marino, avvocato di diverse imprese del Nord nel campo del settore sanitario, segnala un problema: «Il prodotto ci sarebbe e potrebbe essere importato se venisse pagato dall' Italia con il prezzo di mercato. Invece il decreto Cura Italia prevede che possa essere liquidata la somma relativa al valore che quel bene aveva al 31 dicembre del 2019», quando l' emergenza non ci aveva ancora toccati e le mascherine avevano un costo molto inferiore all' attuale.

Vittorio Sgarbi: “Bonafede contro legge, se un detenuto muore di Covid dovrà rispondere di omicidio”. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 27 Marzo 2020. Ferrarese, classe 1952, Vittorio Sgarbi è tra i critici d’arte più conosciuti nel mondo ma negli annali della Camera dei Deputati, dove è stato rieletto nel 2018, figura come “polemista”. Eletto con Forza Italia e poi transitato al gruppo Misto, ha preso la parola per puntare il dito contro il ministro della Giustizia a Montecitorio. «Mi chiedo come possa vivere serenamente in questi giorni il ministro Bonafede che è in piena flagranza di reato. Come può garantire la distanza di sicurezza di un metro in carceri dove sono in tre, in quattro, in cinque insieme… Lei, dunque, per la sua responsabilità giuridica e morale, è indagato! Un giudice che abbia correttezza dovrebbe indagarla perché lei è un untore…», gli ha urlato contro.

Conferma?

«E certo. Confermo e aggiungo: ho intenzione di farlo indagare per omicidio premeditato. Gli ho scritto. E gli ho mandato un appello che mi arriva dalla sorella di Paolo Ruggirello, in carcere con febbre alta a Santa Maria Capua Vetere. È chiaro che i carcerati non sono a un metro di distanza. Bonafede non faccia lo spiritoso perché è un ministro che sta procurando morte. Rispetti per primo le leggi del governo Conte. È in fragranza di reato. Qui si sta perdendo la libertà, per tenerci la salute. Ma valga per tutti. Chi è in galera per carcerazione preventiva, da non colpevole riconosciuto, non può essere sottoposto alla crudele tortura del contagio di pandemia. Il Dpcm parla di un metro, valga per tutti. Chi è in galera rischia di essere assolto e risarcito, ma rischia di morire. Mi ha scritto un’altra persona. È alla Dozza, Bologna, da otto mesi in carcerazione preventiva. Il regime cautelare di chi doveva essere giudicato a marzo è stato rimandato a ottobre, chissà se sarà vivo. “Alla Dozza ci sono 19 operatori sanitari e detenuti infetti”, mi scrivono. Quindi Bonafede mente quando dice che i contagiati sono quindici in tutto. Denuncio alla Procura l’inadempienza del ministro perché non permette il rispetto del decreto. È inaudito il comportamento di Bonafede. Appena muore qualcuno in carcere, lo denuncio per omicidio premeditato».

Anche lei chiede le dimissioni del Capo del Dap?

«Non so se è giusto focalizzare l’attenzione su di lui. Il capo del Dap risponde alla volontà dei magistrati ed è subordinato al ministro. Chi ha la responsabilità morale e politica è Bonafede».

Cosa si può fare in concreto per far partire i braccialetti elettronici?

«Bisogna farli, per prima cosa. È una soluzione di civiltà. Sono rari come i dispositivi sanitari, eppure sono entrambi beni essenziali. Io oggi libererei tutti coloro che sono in attesa di giudizio, per prima cosa. La presunzione legata all’indizio certo non può più funzionare».

A Nuoro c’è il caso dell’avvocato Pittelli…

«Una vicenda che grida vendetta. Un avvocato che sto seguendo personalmente perché su di lui ci sono solo intercettazioni telefoniche da cui non risultano evidenze, e soffre una prostrazione comprensibile. E oggi questo innocente in galera da quattro mesi senza giudizio rischia la vita per il coronavirus».

Quando parla di giustizia-spettacolo parla di Gratteri.

«Su trecentoquaranta arrestati, duecento liberati: vuol dire che il magistrato che ha firmato le ordinanze ha sbagliato, e di parecchio. Ci sarebbe da prendere e da arrestare chi porta in carcere innocenti, perché il coronavirus è una doppia tragedia, colpisce due volte chi è ferito nella sua dignità, e sconta una pena per cui non sono neanche stati ancora condannati. Basta un solo innocente in galera, a dannare chi l’ha voluto lì. È meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Personaggi alla Gratteri non fanno il bene della giustizia, fanno il loro bene personale».

Libertà e salute, siamo disposti a rinunciare a un po’ di libertà per mettere in sicurezza la salute?

«Parlando con un carabiniere in strada, abbiamo convenuto su un punto: è essenziale la distanza di un metro, non il divieto di uscire di casa. Il coronavirus non è una peste nell’aria. Si può uscire senza venir contagiato, se si mantiene la distanza di sicurezza dagli altri. Mi sembra una inibizione di libertà elementari. Mi sembra che ci siano misure pensate in buona fede ma forzate, sin troppo draconiane. Si è agito in modo rapsodico, tardi per un verso e senza informazione corretta. Le alte percentuali di morti in Lombardia dimostrano che gli anziani che oggi accusano il colpo sono stati quelli più colpiti all’inizio del contagio, quando le informazioni erano poche e confuse».

Quattro moduli in dieci giorni, forse sono troppi per chiunque. Ai cittadini viene chiesto un sacrificio, mentre la burocrazia rimane quella di sempre.

«È vero che c’è poca chiarezza. Le nuove restrizioni riguardano il divieto di non uscire dal Comune. Se si parla di Roma o Milano lo capisco, ma come si applica ad agglomerati dove ci sono tanti piccoli comuni confinanti, dove magari i servizi sono di prossimità tra loro? La burocrazia fa sempre pasticci».

La politica al tempo del coronavirus. Come vede il Parlamento a distanza?

«Il Parlamento si può riunire su Skype ma il voto è legato a una ritualità, come quella religiosa. Non c’è solo il voto, è un luogo di lavoro e come tanti altri, dove il lavoro è ritenuto essenziale e strategico per il sistema-Paese, deve rimanere aperto. A me i privilegi non piacciono mai, da nessuna parte».

Detenuto morto a Bologna, Sgarbi contro Bonafede: “E’ omicidio premeditato”. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 3 Aprile 2020. C’è l’edizione speciale di Mentana: il caso Covid-19 nelle carceri, a partire da quello di Bologna, rischia di trasformarsi in una strage di Stato. Arriva l’appello di Amnesty International: «Governi di ogni parte del mondo stanno adottando provvedimenti per contrastare la diffusione del Covid-19 nelle prigioni: luoghi in cui l’impossibilità di applicare il distanziamento sociale e le inadeguate condizioni igienico-sanitarie possono favorire il contagio». Alla fine anche la politica se ne accorge. La reazione del responsabile sicurezza del Partito Democratico, Carmelo Miceli, deputato in commissione Giustizia, è forte: «Nello stesso giorno un detenuto muore per Covid 19 e un assistente capo della Polizia Penitenziaria si toglie la vita. Non bastano gli appelli di Papa, garanti nazionali e regionali, magistrati, universitari, associazioni e sindacati per capire che c’è da tutelare immediatamente tanto i detenuti quanto la polizia penitenziaria? Il ministro Bonafede deve prendere atto che l’emergenza carceraria è una pentola a pressione che sta per esplodere. Cambi impostazione prima che sia troppo tardi». L’altolà dell’alleato di governo risuona a chiare lettere, ma dal Movimento nessuno risponde. Per Forza Italia parla l’onorevole Ruffino: «Il ministro Bonafede non ha mosso un dito per alzare le tutele sanitarie del personale penitenziario e dei detenuti. L’idea dei cellulari per riattivare un minimo di relazioni sociali fra i detenuti e i loro familiari è una goccia d’acqua nel mare di difficoltà in cui viene a trovarsi il mondo carcerario. Delle due l’una: o il ministro provvede ad alleggerire la popolazione carceraria, secondo criteri di minore pericolosità sociale e anagrafe del detenuto, oppure rifornisce dei dispositivi sanitari essenziali la popolazione carceraria e il personale. Non esiste una terza possibilità per tutelare la salute delle persone, perché anche per gli agenti penitenziari come per i detenuti vale la tutela costituzionale della salute». «L’associazione Nessuno tocchi Caino – Spes contra spem chiede al presidente del Consiglio e al presidente della Repubblica di prestare la massima attenzione al rischio di una pandemia estesa alle carceri, che avrebbe effetti disastrosi non solo per i detenuti e gli operatori penitenziari ma anche per la comunità esterna», dicono i dirigenti dell’associazione Sergio d’Elia, Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti, e chiedono al premier e al Colle «di intervenire con urgenza e di adottare tutte le misure necessarie volte a disinnescare la bomba ad orologeria, ora anche epidemiologica, che apprendisti artificieri della “certezza della pena” hanno da tempo dolosamente innescato nelle carceri e che ora non vogliono o non sanno più disinnescare». L’idea potrebbe essere una moratoria dell’esecuzione penale, per pene brevi o residui brevi da espiare. «A Bologna è successo tragicamente quello che purtroppo avevo previsto», dice Vittorio Sgarbi al Riformista, dopo averne parlato con il ministro al telefono: «Se non vuole essere accusato di omicidio premeditato, Bonafede deve consentire ai detenuti di essere distanziati in tutta Italia. A partire da tutti coloro che sono in custodia cautelare, e che devono uscire tutti: troppe intercettazioni vengono usate per mettere a rischio la vita di condannati senza sentenza». Un uno-due letale, quello giocato da certa magistratura: «Prima ti intercettano i magistrati, poi una volta che stai dentro ti intercetta il virus, e muori. Quello che dimostra di non capire Gratteri, che dice di voler fare le carceri più grandi, perdendo così l’occasione di tacere. Una grande casa con le stesse regole delle case piccole, non cambia il margine di rischio individuale. La chiave di tutti i decreti legge è la distanza minima. Qui siamo alla tortura, alla violenza intenzionale, al tentato omicidio». Per questa ragione, come aveva anticipato al nostro giornale, procede con la denuncia del ministro Bonafede a tutte le 130 Procure della Repubblica: ieri ha unito la sua iniziativa a quella del Partito Radicale. Procurata epidemia. E adesso si indaghi.

Procurata epidemia nelle carceri, denunciati Bonafede e Basentini (Dap). Redazione de il Riformista il 20 Marzo 2020. I Radicali denunciano il ministro Bonafede e il capo del Dap Basentini per procurata epidemia. «Il Partito Radicale – recita la nota – ha oggi inviato a tutte le procure della Repubblica una denuncia nei confronti del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede e del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Francesco Basentini. Il reato ipotizzato è quello di procurata epidemia colposa mediante omissione». La denuncia è stata presentata dai dirigenti del Partito Maurizio Turco, Segretario; Irene Testa, Tesoriere, Rita Bernardini e Giuseppe Rossodivita, membri del Consiglio generale. In contrasto con il distanziamento sociale adottato per contenere l’epidemia, scrivono i Radicali, il Dap ha ordinato agli agenti penitenziari, di «continuare a prestare servizi (ndr. a contatto con i detenuti) anche nel caso in cui abbiano avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate». Il ministro Bonafede invece, «con colpa, dovuta ad imperizia ed imprudenza», «ha scelto di proporre interventi del tutto inadeguati quanto al mondo penitenziario – gli unici adeguati allo stato sono rappresentati dal distanziamento sociale come la Comunità scientifica mondiale sta da settimane ripetendo», «pur di non rinunciare all’identità politico/elettorale del suo partito di riferimento in materia di giustizia». Intanto il disagio per i provvedimenti di Bonafede cresce. Nelle carceri monta la rabbia, soffocata nella violenza. «Grande preoccupazione per le numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute a noi arrivate negli ultimi giorni». A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. «Le segnalazioni – sottolinea Simona Filippi, avvocato dell’associazione – hanno riguardato alcune carceri, tra le quali quella di Milano-Opera. Dove ben otto diverse persone (madri, sorelle, compagne di detenuti) si sono rivolte ad Antigone raccontando quanto sarebbe stato loro comunicato da congiunti o altri contatti interni. Le versioni riportate, che parlano di brutali pestaggi di massa che avrebbero coinvolto anche persone anziane e malati oncologici e che avrebbero portato a mascelle, setti nasali e braccia rotte, risultano tutte concordanti». Tali azioni violente sarebbero avvenute, in tutte le carceri interessate, in momenti successivi a quelli in cui sono stati attuati gli interventi per far fronte alle rivolte che hanno coinvolto 49 istituti penitenziari.

·        L’Impunità dei medici.

Coronavirus, parlate ora contro infermieri e medici. Coronavirus? Improvvisamente leggo post che osannano medici e infermieri, come eroi del momento...La Voce di Manduria - giovedì 27 febbraio 2020. Coronavirus? Improvvisamente leggo post che osannano medici e infermieri, come eroi del momento. Cari signori, siamo gli stessi che voi avete insultato, denunciato, bistrattato, offeso verbalmente e spesso fisicamente. Siamo quelli che avete guardato come nemici, quelli che pensate facciano troppe “pause caffè” che “chissà cosa combinano la notte”. Siamo le “mignotte” e gli “assassini”. Siamo quelli con gli stipendi più bassi d’Europa, per le nostre categorie. Siamo quelli che non possono non andare a lavoro, che sia Natale o Pasqua o che ci siano i virus, i vostri virus, ad aspettarci. Siamo quelli che hanno paura, come tutti, perché siamo esseri umani e non eroi. Noi “siamo”. Noi “ci siamo”. Oggi come ieri, come domani. Meritiamo rispetto... Sempre! Fortunata Barilaro, infermiera, Avetrana.

 Covid-19, i medici sono eroi! Anzi no: centinaia di esposti contro i camici bianchi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Ancora a manifestare davanti alla procura lunedì prossimo a Bergamo. Contro i medici e tutti gli altri. Ieri eroi, domani imputati. Non è eccessivo prevedere il prossimo futuro mediatico-giudiziario che sta per travolgere l’intero sistema sanitario italiano. Sono ormai centinaia in tutta Italia le denunce e gli esposti nei confronti di medici, infermieri, operatori delle Asl e di tutte le strutture governative e amministrative che hanno gestito l’emergenza Covid-19. Lunedì prossimo a Bergamo manifesteranno di nuovo quei parenti di malati che sono deceduti e che vengono considerati “vittime”, come se qualcuno avesse, in modo diretto o indiretto, contribuito alla loro morte. Sono ormai decine gli avvocati che insieme a qualcuno di questi parenti costituiscono Comitati che chiedono “verità e giustizia”. E le chiedono ai procuratori. Quelli del Comitato “Noi denunceremo” dicono che porteranno lunedì 100 nuovi esposti e che ne stanno raccogliendo altrettanti in molte Regioni italiane: Emilia Romagna, Campania, Lazio, Puglia, per cominciare. Forse non si rendono conto del fatto che trasformare il dolore in vendetta proprio nei confronti di chi, come i medici e gli infermieri ma anche tutta quanta la struttura sanitaria, si è spezzata la schiena nei mesi scorsi per aiutare e curare, non porterà a niente di buono. E che non ci saranno né “verità” né “giustizia”. Perché non c’è nulla di oscuro da chiarire nella tragedia che ha colpito il mondo intero e non è giustizia ma giustizialismo accanirsi contro chi ha sacrificato se stesso per gli altri, anche se non sempre è riuscito a salvare tutti. Ma se gli unici a muoversi per allestire il prossimo grande circo mediatico-giudiziario sono questi avvocati (non tutti in buona fede, visto che alcuni hanno sollecitato i parenti dei malati a darsi da fare) e qualche procuratore che si è mosso anche di propria iniziativa, quello che è totalmente assente è il Parlamento. Non perché non ci abbiano provato in molti, a tentare di correre ai ripari prima che il bubbone scoppi, ma perché le smanie punitive (ma che cosa gli hanno fatto da piccoli, a questi qui?) del Movimento cinque stelle hanno ucciso in culla qualunque progetto di cordone protettivo. Così, al posto di uno “scudo giuridico” che impedisca di mandare alla sbarra l’intero sistema sanitario, pubblico e privato, italiano, si è preferito delegare il compito di risolvere il problema a un bel “tavolo tecnico”. Un po’ come si faceva una volta, quando non si voleva affrontare un problema politico e si organizzava un bel gruppo di studio. Possiamo dire che ci troviamo davanti a un governo di irresponsabili e a un Parlamento imbelle? Dobbiamo dirlo. E spiace, perché proprio il senatore Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, era il primo firmatario di un emendamento al decreto Cura Italia che era una sorta di provvedimento emergenziale al contrario, cioè in chiave garantistica invece che di inasprimento delle pene come sono sempre state le leggi emergenziali. Proteggere dal dolore trasformato in rabbia tutti quelli che, davanti a qualcosa di terribile ed enorme che ci ha colpiti, si sono rimboccati le maniche e con grande abnegazione hanno curato e salvato le vite, è un dovere del Parlamento. Di tavoli tecnici e commissioni di studio affogate nel nulla è piena la storia. Nel frattempo chi aiuterà i sanitari a vincere la tentazione di rintanarsi nella “medicina difensiva” e a coprirsi le spalle con un eccesso di esami e controlli (e spesa pubblica) prima di osare anche solo una diagnosi? La storia giudiziaria della nostra sanità ci dice che, nonostante il codice penale preveda anche la responsabilità della colpa lieve, il 90% degli operatori sanitari viene prosciolto o assolto nel processo. Ma non va dimenticato che ormai da trent’anni prima di arrivare in un’aula giudiziaria le cause si svolgono sui giornali, nelle televisioni e con particolare ferocia ultimamente sui social. È questo il rischio che un Governo responsabile e un Parlamento cui andrebbero restituiti i poteri da tempo scippati dall’esecutivo dovrebbero evitare nell’immediato. E non con i tempi assurdi dei tavoli tecnici. Lo hanno capito, prima e meglio, alcuni prestigiosi giuristi. Il Procuratore generale di Bologna Walter Giovannini che già tre mesi fa, intervistato da La Verità, aveva proposto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non relativa solo all’eccezionalità di questo periodo. Sempre negli stessi giorni, dalle colonne della Stampa, il professor Vladimiro Zagreblesky proponeva addirittura una sorta di amnistia, che al termine dell’emergenza-virus funga da sanatoria, come fu quella del ministro Togliatti dopo il secondo conflitto mondiale. Ipotesi che non convince il procuratore Giuseppe Pignatone, se non è un suo omonimo colui che ha vergato un lungo ragionamento, sullo stesso quotidiano torinese, due giorni fa. Il magistrato propone al Parlamento di legiferare in via d’urgenza sul terreno penale per “limitare la responsabilità degli operatori sanitari alla sola ipotesi di colpa grave per i reati di omicidio e lesioni colpose”, con un limite temporale legato al periodo dell’emergenza Covid-19. Questo per quel che riguarda i singoli. E per quel che attiene anche ai responsabili delle strutture sanitarie e amministrative, nei cui confronti si potrebbero ipotizzare carenze organizzative o gestionali? Scelte del legislatore, conclude Pignatone. Ma rivela il suo pensiero quando, pur citando il Presidente Mattarella, che a Bergamo ha invitato a riflettere anche sulle nostre carenze, mette in guardia dal populismo penale come definito dalle parole di Papa Francesco: «La convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali». Possiamo fare a tutti noi i migliori auguri per l’autunno? Se si prepara il circo mediatico-giudiziario ne vedremo delle belle. Anzi, di molto brutte.

Coronavirus, la rabbia dei medici: "Prima eroi, ora sotto accusa". Da eroi in prima linea a ''colpevoli'', i medici del San Matteo di Pavia scrivono una lettera di sfogo: "Ci arrivano segnalazioni in Procura". Rosa Scognamiglio, Martedì 30/06/2020 su Il Giornale. "Prima eroi, ora sott'accusa". Rabbia, dispiacere e amarezza. Sono i sentimenti che trapelano da una lettera redatta da 19 medici del Pronto Soccorso del San Matteo di Pavia, travolti da un'onda di ingratitudine che grida giustizia per le innumerevoli vittime del Covid. Da eroi dei tempi moderni a ''carnefici'' il passo è stato breve. Anzi, brevissimo. Così, quelli che fino a qualche settimana fa erano stati definiti ''angeli in corsia'', acclamati dai media e sui social, ora sono finiti sul banco degli imputati. "Abbiamo sperimentato la paura, la tristezza, la desolazione, l'impotenza, siamo stati chiamati 'eroi'... Oggi riceviamo richiami, segnalazioni, esposti in Procura... Se quello che abbiamo vissuto ci è sembrato un incubo, questo epilogo lo è ancora di più", si legge nello scritto affidato alle colonne de La Provincia Pavese.

La lettera. "Un giorno il virus è arrivato. Improvviso. Inatteso. Si è infilato nelle nostre vite, nelle nostre relazioni, si è nutrito dell'aria dei nostri polmoni e delle nostre paure. Colpiva, come la biglia rossa impazzita di un flipper rotto e lo faceva senza criterio, come una maledizione da cui ciascuno sperava di scampare. E mentre tutti avevamo paura del mostro che avanzava e avrebbe potuto colpire ciascuno di noi e i nostri affetti con conseguenze che ignoravamo, ecco che noi medici di Pronto Soccorso ci siamo trovati, improvvisamente, a dover indossare doppie vesti. Quella di esseri umani (spaventati, come tutti) e quella di professionisti "dedicati all'umano" a cui veniva chiesto di essere presenti, di scendere in prima linea. Specializzandi compresi. E così abbiamo fatto e ci siamo trovati improvvisamente immersi in scenari che non avremmo creduto possibili. Ci siamo trovati ad inventare una nuova medicina, a cercare continue soluzioni per gestire l'iperafflusso dei malati, a fare i conti con l'insufficienza di risorse nonostante i continui sforzi del sistema organizzativo, risorse che sembravano non bastare mai, tante erano le richieste. Abbiamo sperimentato la paura, la tristezza, la desolazione, l'impotenza in quello che ci appariva un incubo. Siamo stati chiamati eroi, anche se non ci siamo mai sentiti tali, perché gli eroi, di solito, scoprono di avere dei superpoteri; noi, invece, no. Solo tante fragilità: la paura di essere inadeguati, di non farcela, di crollare sotto il peso dei dispositivi di protezione talora asfissianti, il timore di infettarci e di infettare i nostri cari. C'è stato chi, tra di noi, si è dovuto isolare, chi si è ammalato, chi, nonostante la stanchezza, è rimasto in piedi ad assistere i malati. È stato difficile e molto. Abbiamo commesso errori, certo, forse non siamo riusciti a garantire il meglio ma abbiamo fatto del nostro meglio. Abbiamo visto persone morire senza la presenza dei loro cari accanto, abbiamo cercato di curare per come meglio potevamo, di informare i familiari nel flusso caotico e inarrestabile dei continui accessi, di consolare e di accompagnare con umanità e dignità quando non è stato possibile salvare. Oggi riceviamo richiami, segnalazioni, esposti in procura; veniamo chiamati a difenderci, a deporre testimonianze, anche solo come persone informate dei fatti. Se quello che abbiamo vissuto ci è sembrato un incubo, questo epilogo lo è ancora di più. È umiliante, demotivante, frustrante. Potremmo scioperare, creare disservizi, portare la nostra rabbia e delusione sul posto di lavoro, ma questo sarebbe contro la nostra etica che ci invita, ancora una volta, ad esserci ma con professionalità e umanità. Così continueremo a restare ai nostri posti, a garantire la gestione delle urgenze, a fare quello che facciamo ogni giorno con la massima professionalità e nel rispetto dei malati, sperando di ricevere, in cambio, il medesimo rispetto.

Da ''eroi'' a ''colpevoli". Il Pronto soccorso di Pavia era in prima linea nella lotta al virus, con punte di 300 accessi al giorno nel periodo nero, quando l’ospedale di Lodi veniva sopraffatto dall’emergenza e Cremona aveva esaurito i posti letto. I medici lavoravano senza sosta, bardati in tute isolanti per 24 ore al giorno, lontani dai propri cari per settimane. Ma delle loro fatiche, ora che la tempesta si è placata, non resta altro che una pila di segnalazioni in Procura. "ll cambio di atteggiamento si vede in tivù, si sente, si percepisce nelle piazze — spiega il direttore del Pronto Soccorso al Corriere della Sera —. Sembra che il problema sia solo quello di capire di chi è stata la colpa di tanto dolore. Ora, gli esposti non riguardano il nostro gruppo di lavoro, ma è comunque avvilente, soprattutto se si pensa alle fatiche fatte, all’energia profusa e anche a quel clima di solidarietà, di umanità che si era creato".

Ripartire dal rispetto. Di punto in bianco, i medici del Pronto Soccorso del San Matteo sono stati fagocitati in un vortice di rabbia e disperazione innescato dai familiari affranti delle tante vittime. "Oggi si cerca solo di individuare i responsabili — continua il professor Perlini —. Io invece vorrei ripartire da quel rispetto spontaneo che era nato fra tutti, dalla solidarietà dei giorni bui. Abbiamo sentito molto il sostegno di chi era fuori, è stato di grande aiuto per tutti noi, medici, infermieri, specializzandi. Non dimentichiamoci di questo grande insegnamento che ci è arrivato. Ci sono state molte tragedie, purtroppo, posso capire la rabbia delle famiglie ma non cerchiamo a tutti i costi un colpevole". Nei giorni successivi alla bufera, Perlini racconta di aver incontrato i familiari di un paziente: "Ne ho incontrati alcuni proprio in questi giorni, altri erano venuti in precedenza a recuperare effetti e documenti che si erano persi nel caos — conclude il professore —. Ho visto una moglie e due figli. Tre storie diverse, tre tragedie. Hanno voluto sapere cos’era successo cercando di ricostruire il percorso del ricovero fino all’ultimo giorno. Spero abbiano capito che c’è stata dell’umanità in quel percorso. Ripartiamo da qui".

COSE NOSTRE. Covid 19, le autopsie non vanno fatte. Ordine del Ministero della Salute. Angelo Maria Perrino su affaritaliani.it Domenica, 10 maggio 2020. Affaritaliani.it pubblica in esclusiva la circolare della Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria che di fatto ha portato a errate diagnosi e terapie. Come il lettore ricorderà, la svolta nella lotta al Coronavirus è arrivata poco tempo fa, quando qualche medico ospedaliero fuori dal coro si è preso la briga di fare le autopsie sui cadaveri dei pazienti deceduti durante la pandemia. Grazie a queste autopsie si è potuto così scoprire che il primo effetto del Covid 19 è la CID, Coagulazione Intravascolare Disseminata. Cioè la formazione di grumi nel sangue e di trombosi. Solo in seguito e nei casi resistenti alle cure antitrombosi arrivava la polmonite interstiziale doppia. Abbiamo così capito che i trattamenti fin li seguiti negli ospedali, basati sulla ventilazione meccanica nelle terapie intensive , erano controindicati. Si può dunque dedurre - ma mancano i dati e forse mancheranno sempre - che fino alla scoperta rivelatrice fatta dopo l’effettuazione di alcune autopsie, le complicanze da Covid sono state in qualche misura prodotte da errate diagnosi e, conseguente, inadeguata terapia. Bastava dunque fare da subito l’autopsia ai primi deceduti da Covid per evitare percorsi e rimedi sbagliati e controproducenti. Oggi fortunatamente, grazie alla svolta nelle conoscenze mediche, non si parla più di rianimazioni e ventilazioni che peggioravano il quadro clinico. Un disastro. Oggi, grazie alle scoperte scaturite dalle autopsie, al primo sintomo si interviene sui pazienti contagiati anzitutto con i fluidificanti del sangue. Cure semplici, effettuabili anche a domicilio. E queste terapie, finalmente idonee, se fatte subito ora consentono di evitare di arrivare alla mutazione della patologia, che da influenza diventa trombosi. E l’epidemia è così gestibile e sotto controllo, mentre le terapie intensive sono decongestionate e chiudono. Ma le nostre autorità sanitarie hanno seguito la strada della Cina, dove autopsie ne hanno fatte pochissime. E il bilancio sanitario è stato devastante. Ma perché in Italia non sono state fatte sin dall’inizio le autopsie? Perché i cadaveri venivano immediatamente inviati alle cremazioni privando così gli esperti di elementi conoscitivi fondamentali? Come Affaritaliani.it ha scoperto e può documentare, non si sono fatte le autopsie perché così è stato disposto e comunicato dall’alto. Addirittura dal Ministero della Salute. Ecco la circolare della Direzione Generale della Prevenzione Sanitaria- ufficio 4, del Ministero, firmata dal segretario generale Giuseppe Ruocco e inviata a tutti i destinatari competenti, dalla Protezione civile, all’associazione dei Comuni, dagli ordini dei medici e delle professioni infermieristiche e dei farmacisti alle Regioni. L’oggetto della circolare è: "Indicazioni emergenziali connesse ad epidemia Covid-19 riguardanti il settore funebre, cimiteriale e di cremazione". È’ un aggiornamento di fine aprile di norme varate dallo stesso ufficio sin dal 22 febbraio e ribadite il 17 e il 29 marzo. Al punto C, intitolato Esami autoptici e riscontri diagnostici, sta scritto al paragrafo 1: ”Per l’intero periodo della fase emergenziale non si dovrebbe procedere all’esecuzione di autopsie o riscontri diagnostici nei casi conclamati Covid 19, sia se deceduti in corso di ricovero presso un reparto ospedaliero sia se deceduti presso il proprio domicilio”. E al punto 2, con riferimento a un eventuale interesse e intervento della magistratura si prescrive: ”L’autorità giudiziaria potrà valutare, nella propria autonomia, la possibilità di limitare l’accertamento alla sola ispezione esterna del cadavere in tutti i casi in cui l’autopsia non sia strettamente necessaria. Analogamente le Direzioni sanitarie di ciascuna regione daranno indicazioni finalizzate a limitare l’esecuzione dei riscontri diagnostici ai soli casi volti alla diagnosi di causa del decesso, limitando allo stretto necessario quelli da eseguire per motivi di studio e approfondimento”. Un autogol incredibile, anche se probabilmente suggerito da motivazioni igieniche e di profilassi.

Taormina denuncia governo e autorità sanitarie: “Responsabili di seimila morti”. Redazione de Il Secolo d'Italia mercoledì 25 marzo 2020. L’avvocato e giurista Carlo Taormina ha annunciato sui Social una denunzia penale contro il governo e le autorità mediche italiane. Motivo della denunzia? La gestione disastrosa dell’emergenza coronavirus. “Oggi – scrive l’ex sottosegretario alla Giustizia – sono occupato perché devo scrivere la denunzia da presentare alla Procura di Roma contro questi cialtroni di governanti e questi tromboni di medici che hanno sulla coscienza 6000 morti per averci chiuso in casa con un mese di ritardo. Il problema sarà di trovare magistrati che non siano conniventi col potere e che quindi come al solito vogliamo coprire queste gravissime responsabilità. Vorrà dire che denunzieremo anche i magistrati che non dovessero fare il loro dovere. Da cittadini rispettosi delle istituzioni, abbiamo il dovere di fidarci e quindi di provare”. Proprio in queste ore, si sgretola il muro del “Siamo stati bravi” del governo. Il virologo Massimo Galli, molto onestamente, spiega che l’Italia ha sbagliato nella gestione iniziale. «In Giappone, sono riusciti a circoscrivere il virus per tempo. Hanno individuato velocemente i contagiati, li hanno isolati e hanno ricostruito i loro contatti. In Italia invece l’ infezione ha circolato almeno per un mese senza che ce ne rendessimo conto. Quando tutti, me compreso, pensavamo di essercela cavata, ecco che siamo stati presi alle spalle».

“Colpevole ritardo nelle misure del governo”. Un atto d’accusa altrettanto duro arriva dal Fatto quotidiano. “Sapevano dall’ inizio di dover rafforzare le terapie intensive, fin “dai primi di febbraio” come dice il professor Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di sanità. Ma è passato un mese prima che il ministero della Salute avviasse l’ acquisto di apparecchi ventilatori. Solo il 5 marzo la Protezione civile ha ricevuto l’ indicazione di comprarne 2.325; solo il giorno dopo è partito il bando Consip per altri 5.000 macchine per la terapia intensiva e subintensiva (gli ormai noti caschi Cpap) ma le consegne non potevano essere immediate e infatti sono ancora in corso”.

Da eroi a capri espiatori sui medici piovono le denunce. Hanno perso decine di uomini, ma c'è già chi vuole portarli in tribunale. E i dottori chiedono un'amnistia. Alberto Giannoni, Domenica 29/03/2020 su Il Giornale. Milano. Da eroi collettivi a capri espiatori il passo è breve. E doloroso. I medici cominciano a subire la minaccia delle cause legali. E da Milano parte un appello al Quirinale e alla politica, perché si introduca uno strumento di tutela generale in questo caos. Fino a ieri i camici bianchi erano indicati come artefici di una pagina esemplare di abnegazione. Arruolati a volte in via straordinaria, sono stati contagiati in gran numero e spesso uccisi dal virus, infine stremati da turni e pressioni disumane. Ora vengono additati invece, e cominciano a intravedere l'ombra di rivalse temerarie e di paradossali ripercussioni giudiziarie. Il tam-tam è partito, corre sui gruppi facebook sospinto da gruppi, pseudo-associazioni e figure con pochi scrupoli. Un cardiochirurgo milanese ha scritto all'ordine professionale. Ha preso l'iniziativa «nel ricordo dei colleghi caduti durante questa tragedia, perché il loro esempio ci guidi in questa difficile missione». Ha sollevato il tema della responsabilità, e di polizze che prevedono un rischio commisurato all'attività specialistica dichiarata. «Pur in una situazione di emergenza, e nonostante le continue dichiarazioni sui media del ruolo eroico del personale sanitario - ha avvertito - sono crescenti le denunce di parenti». Un collega rianimatore si sfoga: «I turni sono massacranti, ed è difficile resistere, anche perché molta gente comincia a pensare alle denunce. I parenti chiedono le cartelle se il familiare è morto, domandano perché non è stato intubato prima e quali farmaci sono stati somministrati. Da eroi siamo diventati responsabili, questo fa perdere la voglia di rischiare la pelle. È assurdo». Stefano Carugo, noto cardiologo, solleva la questione senza giri di parole: «Tutti lavorano a testa bassa, si fanno miracoli e vorremmo continuare a occuparci esclusivamente dei pazienti da salvare, senza passare il tempo a fare le fotocopie delle cartelle cliniche». «Vediamo il pericolo di conseguenze isteriche e di una guerra legale, fioccheranno denunce, temo. La mia idea, oltre ai balconi che vanno bene, è che si preveda per gli operatori sanitari in situazione di guerra una sorta di amnistia». Carugo è stato consigliere regionale, è professore universitario e presidente lombardo della società di cardiologia. Ma è anche in prima linea, come direttore del dipartimento cardiorespiratorio dell'Asst «Santi Paolo e Carlo». Racconta, una situazione di emergenza che da fuori non si coglie fino in fondo. «La situazione è devastante, la Lombardia sta facendo miracoli, ogni giorno è un dramma e a tanti colleghi viene chiesto di fare cose mai fatte, a stipendi invariati ovvio. Siamo tutti in un frullatore e purtroppo si devono compiere anche scelte drammatiche, fra pazienti con diversa speranze e possibilità di sopravvivenza». «Già fioccano le denunce - prosegue - e magari le inchieste, se ne parla ogni giorno. Vale per i medici e per le direzioni sanitarie. E allora dico: agiamo ora, in questa fase dei medici eroi, perché fra due mesi inizierà la bagarre politica e i medici rischiano di restare in mezzo, saranno i capri espiatori perfetti. Il presidente Mattarella ha usato le parole giuste, di unità e concordia. Con questo spirito, allora, agiamo subito, è importante per poter continuare con la necessaria serenità».

“Avvocati promuovono cause contro medici per decessi da coronavirus, fermate questo sciacallaggio”.

Andrea Sangermano su Agenziadire.com il 31/03/2020. In alcune delle zone più colpite dal coronavirus iniziano a comparire “squallidi tentativi di certi studi legali di arricchirsi sfruttando le tragedie che hanno colpito molte famiglie”. Un’opera “schifosa di sciacallaggio” contro cui “tutte le istituzioni” dovrebbero prendere posizione. A sollevare il caso è Ester Pasetti, segretario regionale del sindacato medico Anaao-Assomed in Emilia-Romagna, che invoca l’intervento anche degli Ordini degli avvocati. In alcune aree del Veneto, della Lombardia e delle Marche, rileva Pasetti parlando alla Dire, “studi legali si promuovono dicendosi disponibili a sostenere cause contro i medici per malasanità per i decessi dovuti al coronavirus. E’ una modalità schifosa di sciacallaggio e anche molti Ordini degli avvocati si stanno ribellando, stigmatizzando questo comportamento”. In Emilia-Romagna, precisa il segretario dell’Anaao, “ancora non mi risultano notizie di questo tipo, ma è meglio mettere le mani avanti”. E aggiunge: “Noi non chiediamo certo l’impunità, ma serve un po’ di ragionevolezza rispetto a ciò che abbiamo a disposizione. Siamo di fronte a una malattia finora ignota, per la quale non esistono cure certe nè linee guida, se non la pratica empirica giorno per giorno”. Da qui parte l’appello di Pasetti. “Che le istituzioni nazionali, regionali e locali si alzino indignate e stigmatizzino gli squallidi tentativi di certi studi legali di arricchirsi sfruttando le tragedie che hanno colpito molte famiglie- sollecita la numero uno dell’Anaao in Emilia-Romagna- anche l’Ordine degli avvocati dovrebbe prendere posizione. Di malasanità in periodi come questo non ci deve essere traccia. Tutti stanno facendo il loro meglio. Il possibile e anche l’impossibile. In assenza di evidenze scientifiche e con mezzi limitati”. Pasetti ci tiene a ribadire che il problema della mancanza di protezione per gli operatori sanitari non e’ ancora risolto. “La situazione è meno peggio rispetto all’inizio- spiega il segretario regionale Anaao– ma sui dispositivi di sicurezza siamo ancora a macchia di leopardo. Siamo passati dalla tragedia iniziale e una situazione un po’ migliore, ma ancora adesso non sempre abbiamo tute e mascherine omologate al 100%. Resta una battaglia quotidiana, le dotazioni non sono sufficienti e dobbiamo razionalizzarne l’uso”. In particolare, punta il dito Pasetti, “non ci piace l’atteggiamento del Governo e della Protezione civile, ci da’ fastidio questo scaricabarile sulle Regioni. Alle Regioni spetta la programmazione sanitaria, ma una pandemia non può rientrare in questo compito. C’è un obbligo nazionale e mondiale di garantire la salute di tutti”. Tra l’altro, rimarca la numero uno dell’Anaao in Emilia-Romagna, “l’epidemia sta colpendo le zone più ricche e più dotate del Paese. Ci chiediamo cosa succederebbe con questi numeri in Regioni con meno strutture”.

I penalisti: “Non difenderemo chi vuole fare causa ai medici”. Viviana Lanza de Il Riformista il 31 Marzo 2020. Due casi a Napoli e uno a Scafati. Ci sono associazioni e professionisti che offrono assistenza legale, talvolta anche gratuita, per intentare cause in materia di malasanità legata all’emergenza da Covid-19. “È sciacallaggio”, insorge l’avvocatura napoletana. La maggior parte degli avvocati concorda nel contestare l’atteggiamento di chi, fra i colleghi, prova a risollevarsi dalla crisi di questo periodo cercando nuovi clienti tra i pazienti positivi al Coronavirus o, comunque, tra i cittadini che direttamente o indirettamente hanno avuto esperienze sanitarie legate a tamponi, ricoveri e lutti. La questione è molto discussa sui social da un po’ di giorni a questa parte e ha aperto un dibattito sui limiti e i confini dell’etica e del diritto. “È come dire non difendo chi è accusato di omicidio o di spaccio di droga, eticamente se ne può discutere ma giuridicamente è una aberrazione perché siamo avvocati”, fa notare qualcuno criticando il fatto che siano pubblicizzate prestazioni gratuite e non anche la scelta in sé di incentivare contenziosi in tema di sanità al tempo del Coronavirus. Ma è una voce fuori dal coro di no che prevale tra gli avvocati napoletani e che si è sollevato fino a portare il Consiglio dell’Ordine di Napoli, presieduto da Antonio Tafuri, a diramare un comunicato per sottolineare che l’avvocatura è con i medici, con gli infermieri e con tutti gli operatori sanitari che sono in prima linea nella lotta al Coronavirus. “A loro va vivo apprezzamento e sentita riconoscenza”, si legge nel documento degli avvocati napoletani con cui la categoria “si dissocia da inopportune iniziative pubblicitarie di offerte di prestazioni legali per contenziosi da instaurare con riferimento a contagi da Coronavirus, valutando da subito i comportamenti deontologicamente rilevanti ed eventualmente segnalarli al competente consiglio di disciplina”. “Lo studio legale comunica alla spettabile clientela che non accetterà incarichi professionali oggettivanti responsabilità medica”, intanto, è l’avviso degli avvocati Raffaele e Vincenzo Maria Sassano, tra i primi a prendere questa posizione pur avendo una lunga esperienza in giudizi in materia di malasanità. “Ci sembra la decisione più giusta in questo momento”, spiegano. E i più condividono.

L’ordine degli avvocati: “Nessuna condotta illecita resterà impunita“.  In una nota gli ordini provinciali della Lombardia stigmatizzano il comportamento di alcuni studi legali durante la crisi sanitaria. Redazione Varesenews.it il 29 marzo 2020. Mancanza di correttezza in un momento di crisi: gli ordini degli avvocati delle provincie lombarde non ci stanno e in una nota comunicano disappunto es stigmatizzazione per il comportamento di alcuni studi professionali. Riceviamo e pubblichiamo il contenuto della comunicazione ufficiale che riguarda anche l’ordine di Varese.

I Presidenti degli Ordini appartenenti all’Unione Lombarda degli Ordini Forensi, preso atto che:

– negli ultimi giorni sono comparsi sui social media video e messaggi di avvocati che, approfittando dell’emergenza Covid 19, pubblicizzano particolari competenze dei propri studi, capacità di operare e di garantire i regolari standard di efficienza”;

– in alcuni casi questi si sono spinti ad offrire le proprie prestazioni per “contrastare l’emergenza” e persino a sollecitare da parte dei familiari delle vittime azioni risarcitorie contro Ospedali, Medici ed Infermieri, ossia proprio coloro che in questo momento mettono a repentaglio la propria vita per salvare la nostra;

– in altri casi, si rendono disponibili ad assistere gratuitamente i sanitari per ogni possibile conseguenza legale che dovessero subire o per ogni possibile problema giuridico che dovessero affrontare in conseguenza delle condotte tenute nella emergenza epdiemiologica;

ed inoltre che:

– dette iniziative in taluni casi sono state promosse anche attraverso sigle ingannevoli;

– alcune aziende, anche importanti, hanno offerto assistenza legale gratuita, attraverso i propri legali interni o fiduciari, per ogni evenienza derivante dall’emergenza epidemiologica, pur avendo un oggetto sociale diverso dalla tutela legale;

– la circostanza che non abbiano seguito una via diretta per andare incontro alle esigenze dei cittadini, ad esempio offrendo agevolazioni inerenti alla propria attività sociale, induce al sospetto che la proposta di assistenza celi un tentativo di espansione commerciale mediante una mera operazione di marketing;

considerato:

– che tali comportamenti, quando coinvolgono Avvocati, gettano un velo di discredito sull’Avvocatura che, viceversa, partecipa a questa tragedia nazionale con senso di responsabilità e vicinanza alle professioni sanitarie che tanto si stanno prodigando per la collettività, pagando anche un pesante tributo in termini di perdite umane;

– che le suddette condotte dietro l’intento filantropico celano quello di accaparramento di clientela e pubblicità fuori dai canoni consentiti all’Avvocato dal Codice Deontologico Forense;

– che è dovere dei Consigli degli Ordini degli Avvocati vigilare sulla condotta degli iscritti e trasmettere al Consiglio Distrettuale di Disciplina gli atti relativi ad ogni violazione di norme deontologiche di cui siano venuti a conoscenza, a tutela della collettività e della professione di Avvocato.

Tutto ciò premesso, i Presidenti di tutti gli Ordini degli Avvocati della Lombardia, stigmatizzano fortemente le condotte sopra descritte di coloro che, nello squallido tentativo di recuperare clientela e cercare visibilità attraverso i social media, approfittano del particolare e drammatico momento emergenziale e comunicano che nessuna condotta illecita resterà priva di denuncia e conseguente trasmissione degli atti ai competenti Consigli Distrettuali di Disciplina, e che con lo stesso rigore saranno valutati i casi passibili di denuncia nei confronti dell’Autorità Garante della concorrenza.

Milano, 29 marzo 2020

I Presidenti degli Ordini di Bergamo, Brescia, Busto Arsizio, Como, Cremona, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Monza, Pavia, Sondrio, Varese. 

L'Ordine contro gli avvocati sciacalli che intentano cause contro i medici. Duro attacco dell'ordine provinciale dei camici bianchi contro alcune società di tutoring legale: "Aizzano i pazienti contro i medici per ottenere risarcimenti". Roberto Chifari, Giovedì 05/03/2020 su Il Giornale. "Per i medici ormai è una guerra continua. Dall'impegno straordinario nell'emergenza da Coronavirus per garantire il diritto alla salute a tutti, alla difesa contro gli sciacalli che continua a screditare indisturbata medici e sanitari invitando i cittadini a rivolgersi ai loro professionisti per denunciare presunti casi di malasanità". L'allarme è stato lanciato dal presidente dell'Ordine dei medici di Palermo e provincia, Toti Amato, che stavolta va giù duro contro chi invita i pazienti ad affidarsi a sedicenti avvocati per intentare una causa contro i camici bianchi. Questa volta le vittime della società sono i medici di base, con un bel vademecum 'Come e quando denunciare medico di base' illustrato con una foto a tutto campo di un medico in manette. "Non si può accettare, Abbiamo già dato mandato ai nostri legali contro l'azione denigratoria di questa azienda. Intervenga anche AgCom". Amato, consigliere del comitato centrale nazionale e coordinatore della commissione per la sicurezza della Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordine dei medici) invita alla prudenza e al rispetto dei ruoli, soprattutto del medico. Non è un caso che aumentano anche il numero delle aggressioni al personale sanitario di guardie mediche, pronto soccorso, reparti e ospedali in generale. Segno che c'è una crescente e diffusa idea che l'aggressione al camice bianco resta impunita. Ma anche che prevaricare sull'altro è l'unica soluzione e a non comprendere che spesso e volentieri chi viene aggredito e l'unica persona che può aiutare chi sta male. Medici e sanitari sono in trincea, ma sembrano passati in sottordine le 1200 aggressioni all'anno denunciate in Italia, tre volte meno degli episodi reali e non denunciati, alcuni dei quali avvenuti con tanto di pistola. Dall'emergenza da coronavirus, con turni sempre più massacranti e senza dispositivi di protezione individuale (Dpi) per gestire l'epidemia, alle violenze fisiche e verbali, fino al sequestro di ambulanze del 118, come l'episodio di Napoli. I presidenti degli Ordini chiedono al ministro della Salute Speranza, agli inquirenti e alle associazioni di categoria “una controffensiva più seria ed efficace anche contro le pressioni dei singoli avvocati che cercano di convincere pazienti e familiari a intentare cause di risarcimento. Nel 90 per cento dei casi finiscono nel nulla, ma servono alimentare tensione e diffidenza verso chi ti salva la vita ed estorcere denaro alle persone. "La sanità pubblica è un bene comune - ricorda il consigliere della Fnomceo - servono strumenti repressivi e di controllo preventivo per evitare che messaggi fuorvianti continuino ad essere diffusi attraverso il web e tutti i canali di informazione pubblici e privati. Sono azioni volgari che ledono la dignità di tutto il Servizio sanitario nazionale", conclude Amato.

Maria Masi (Cnf): «Chi specula sul dolore tradisce il ruolo sociale della professione di avvocato». Il Dubbio il 2 aprile 2020. La presidente del Cnf contro «quei pochi iscritti che hanno cercato di profittare dell’emergenza. Ma con i medici l’alleanza è salda”. C’ è la dignità. C’è lo spirito di coesione, ci sono l’emergenza e il dolore. La delibera con cui il Cnf lascia nel cono d’ombra dei «profittatori professionali» i «pochi iscritti» che hanno cercato di speculare sui medici e sulle vittime del coronavirus è un esempio di senso dello Stato e del ruolo sociale di due professioni «alleate», come le definisce Maria Masi. «Si tratta di casi isolati», ricorda la presidente facente funzioni della massima istituzione forense, «che vanno censurati. Non solo per tutelare la dignità della professione, ma anche in nome di un’alleanza con la Federazione nazionale degli Ordini dei medici che ha in sé un valore costituzionale. Che è rivolta, intendo dire, a promuovere nell’opinione pubblica la consapevolezza del ruolo che avvocati e medici svolgono. Si tratta di un valore che, in sé, è in grado di consolidare un senso di coesione sociale più ampio, un riconoscersi in alcuni elementi irrinunciabili per un Paese democratico. E le professioni sono evidentemente fra quei pilastri».

Nella delibera appena approvata dal plenum del Cnf si parla di un danno provocato, da quei pochi avvocati responsabili di «profittare» dell’emergenza per squallide autopromozioni, all’intera professione forense.

«Si tratta di atteggiamenti marginali, residuali. Ed è il primo aspetto da rilevare. Casi isolati in cui si assumono atteggiamenti moralmente censurabili. E se proprio vogliamo mostrare in modo forse imprevedibile quale danno queste persone arrechino all’intera avvocatura, si può forse citare anche un aspetto concreto. Oltre ai numerosissimi punti del nostro codice deontologico calpestati, si va contro l’interesse del mondo forense persino nel senso che l’allusione scorrettissima a una sbandierata gratuità delle prestazioni contraddice anni di battaglie sull’equo compenso. Si tratta di condotte fuorvianti anche da un simile punto di vista. Ma a parte tale aspetto, c’è un vero e proprio filotto di principi deontologici violati in maniera sconcertante».

Quali esattamente?

«Basta citare l’accaparramento di clientela, che è in sé una condotta deontologicamente scorretta e sanzionabile. Così come lo è la stessa fuorviante allusione a prestazioni gratuite. Ma più di ogni altra cosa, si calpestano il decoro e la dignità della professione, che ciascun avvocato è tenuto a custodire, con il tentativo di speculare sull’emergenza e sul dolore. Oltretutto, lo si fa in relazione a scelte compiute dai medici nelle condizioni terribili che sappiamo. Pensare di approfittarne è intollerabile».

Paradossalmente, si dimostra quanto serva l’avvocato in Costituzione: sarebbe un monito anche per chi abusa della toga.

«Partiamo intanto dall’evidente negazione di quel ruolo sociale che noi avvocati aspiriamo, appunto, a veder esplicitamente riconosciuto anche in Costituzione: chi specula sull’emergenza si rende responsabile anche di un simile tradimento. Ma ci si deve rendere conto che il ruolo sociale, e il rilievo costituzionale di quel ruolo, sono fra i principi a cui ci siamo rivolti quando, nel 2016, abbiamo stipulato come Consiglio nazionale forense un protocollo proprio con la Federazione nazionale degli Ordini dei medici. Nell’accordo firmato quattro anni fa ci si impegna alla realizzazione condivisa di azioni sinergiche per affermare, in modo più ampio possibile, due diritti che si trovano sullo stesso piano di rilevanza costituzionale: il diritto alla salute e il diritto di difesa».

E in che modo si possono promuovere nell’opinione pubblica valori del genere?

«Con la corretta informazione, che va favorita appunto in modo condiviso e sinergico da avvocati e medici. E guardi che adesso quell’urgenza è ancora più evidente di quattro anni fa. A maggior ragione in una situazione drammatica come quella che viviamo, è importante far comprendere ai cittadini il rilievo sociale delle nostre professioni. Ed ecco perché vanno espresse, come avviene nella delibera appena approvata dal Cnf, solidarietà e gratitudine ai medici, e vanno allo stesso modo rinnovate, con loro, l’intesa e l’alleanza. Certo, che il nostro ruolo sociale abbia in sé una forza pedagogica è anche implicito nel richiamo ai diritti e ai doveri che ciascun avvocato e ciascun medico devono sempre tener presenti».

Oltretutto, insieme i professionisti possono richiedere più efficacemente le tutele anche economiche che in questa prima fase il governo ha piuttosto trascurato.

«È un momento difficilissimo e insieme possiamo ottenere maggiore ascolto, certo. Noi avvocati siamo tenuti a ottenere ascolto anche per i diritti di altri. Mi limito a citare il diritto all’acqua. Che va assicurato a tutti, senza esclusioni».

A cosa si riferisce?

«A una particolare richiesta avanzata da reti e associazioni e del tutto condivisibile: garantire l’accesso a una risorsa primaria come l’acqua anche ai poverissimi che possono vederselo negato. A maggior ragione in giorni in cui viene ricordato a tutti di doversi lavare le mani. Come garanti dei diritti, riteniamo di doverlo essere, in un momento simile, per tutti coloro che, a maggior ragione ora, si trovano in difficoltà».

La tutela dei diritti è fra quei principi che rischiano di essere travolti dall’emergenza?

«Non sarà così. Anche in virtù dell’impegno e del lavoro condiviso di magistrati e avvocati. Mi riferisco per esempio alle linee guida adottate dal Csm in seguito a un’elaborazione condivisa con il Cnf. È stato importante individuare un’unicità di sistema nelle procedure spesso telematiche che è necessario adottare in questa fase. Dopo i protocolli relativi al settore civile e al penale, abbiamo definito la bozza del protocollo informatico utilizzabile anche dinanzi ai Tribunali per i minorenni. Seppure si tratti di un ambito che gli ultimi decreti puntano a non tenere bloccato, gli spazi materialmente troppo angusti impediscono il più delle volte di svolgere le udienze in condizioni di sicurezza».

Gli avvocati possono essere annoverati fra le categorie che assicurano, anche in piena epidemia, la continuità di alcune funzioni essenziali per lo Stato. Ma le conseguenze economiche sono, anche per loro, comunque pesanti. Sta per essere infranto il mito che descrive i professionisti come un’élite privilegiata?

«Va ricordato che proprio un tornante terribile come l’epidemia del coronavirus mostra a quali rischi sia esposto ciascun singolo professionista, dunque anche l’avvocato. Se mai ce ne fosse bisogno, il dramma che viviamo potrebbe dare occasione di comprendere qual è l’effettiva, reale condizione dei professionisti. Sì, forse in una difficoltà così estrema i nodi vengono al pettine. E non sarà più possibile ignorare le questioni sulle quali da tempo l’avvocatura chiede di intervenire»

Il Cnf: «Quei pochi avvocati che speculano sul dolore e attaccano i medici saranno sanzionati». Giulia Merlo su Il Dubbio l'1 aprile 2020. La solidarietà e gratitudine dell’avvocatura a tutti i medici impegnati nella battaglia contro il coronavirus e tolleranza zero contro chi “indegnamente speculando sul dolore altrui in questo difficile tempo che vive il nostro Paese, disonorano l’Avvocatura tutta”. Il Consiglio Nazionale Forense, riunitosi ieri nel plenum, è intervenuto con forza contro le iniziative di alcuni avvocati volte a pubblicizzare e sollecitare azioni giudiziarie legate all’attuale emergenza sanitaria. La rappresentanza istituzionale dell’avvocatura – preso atto delle segnalazioni giunte dal presidente della Federazione Nazionale dei medici, della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia e delle comunicazioni arrivate dai consigli degli ordini e delle Unioni forensi – ha espresso «la propria solidarietà e gratitudine a tutti i medici, infermieri, personale sanitario in genere, e volontari che, a vario titolo, sono impegnati nella cura e nell’assistenza di coloro che sono stati colpiti dalla malattia e nell’aiuto alla cittadinanza», «la propria vicinanza ai malati che lottano per la guarigione» e «cordoglio a chi in questo periodo è nel dolore per la perdita di una persona cara». Ma soprattutto ha assicurato «attenta vigilanza rispetto ai denunciati comportamenti di quei pochi iscritti che, indegnamente speculando sul dolore altrui in questo difficile tempo che vive il nostro Paese, disonorano l’Avvocatura tutta». In una delibera di risposta indirizzata alla Federazione Nazionale dei medici e degli Odontoiatri, il Cnf ha assicurato di aver accertato «la limitata e, per fortuna, marginale diffusione di tali censurabili comportamenti, sia sotto il profilo etico che deontologico», ma ha ribadito «l’attenta e forte vigilanza di tutte le istituzioni forensi nell’individuare e sanzionare tali comportamenti». Il Cnf «censura e condanna ogni comportamento che, in qualsiasi forma e modo, attenta alla dignità` dell’Avvocatura che invece, anche e soprattutto in queste circostanze, ancora una volta, sta dimostrando piena consapevolezza del ruolo sociale a cui è chiamata e a cui non intende sottrarsi» ed esprime in maniera forte e incondizionata «solidarietà e gratitudine a tutti i medici, ai professionisti sanitari e ai tanti volontari quotidianamente impegnati nella cura e nell’assistenza dei cittadini colpiti dal contagio e la propria vicinanza a tutti i dottori, operatori, volontari, che sono stati contagiati dal Covid- 19 nell’esercizio della loro opera di cura». Il Cnf, poi, ha usato parole durissime nella delibera indirizzata agli Ordini forensi e ai Consigli distrettuali di disciplina, in cui ha «condannato fermamente ogni comportamento in qualsiasi modo o forma espresso che miri a profittare professionalmente dell’attuale situazione emergenziale» e invitato i Consigli degli Ordini degli Avvocati a «vigilare in modo particolarmente attento sulla condotta dei propri iscritti, sotto il profilo della eventuale violazione delle regole deontologiche e a prontamente denunciare tali comportamenti dei propri iscritti, sia come singoli professionisti che come appartenenti a studi associati o società di avvocati, che tali deplorevoli iniziative hanno assunto o abbiano ad assumere» e i Consigli Distrettuali di Disciplina «a perseguire comportamenti che ledono la dignità, l’onore e il decoro dell’Avvocatura con messaggi, in qualsiasi forma espressi, contrari ai doveri di corretta informazione e/ o finalizzati all’accaparramento di clientela». Iniziative analoghe sono state assunte anche dall’Unione Lombarda degli Ordini Forensi, dall’Unione Triveneta, dall’Unione Regionale dei Consigli dell’Ordine Forense dell’Emilia- Romagna e l’Unione Regionale Forense delle Marche. La Ulof ha stigmatizzato tali comportamenti che «quando coinvolgono avvocati, gettano un velo di discredito sull’avvocatura che, viceversa, partecipa a questa tragedia nazionale con senso di responsabilità e vicinanza alle professioni sanitarie che tanto si stanno prodigando per la collettività, pagando anche un pesante tributo in termini di perdite umane» e comunicato che «nessuna condotta illecita resterà priva di denuncia e conseguente trasmissione degli atti ai competenti Consigli Distrettuali di Disciplina, e che con lo stesso rigore saranno valutati i casi passibili di denuncia nei confronti dell’Autorità Garante della concorrenza». Anche il Triveneto ha sottolineato come «suddette iniziative rivestono ancor più rilievo e sono ancor più gravi proprio perchè rivolte nei confronti, da un lato a medici, infermieri, operatori sanitari in genere e strutture ospedaliere, indicati quali possibili responsabili, dall’altro ai cittadini cui, in un momento di insicurezza sociale e drammaticità come questo, ancor più suggestionabili sul piano emozionale, viene fornita una fuorviante e pericolosa informazione» e assicurato che «vigilerà con assoluto rigore la condotta degli iscritti». L’Unione Forense dell’Emilia Romagna, nel garantire attento controllo sul territorio, ha definito i comportamenti «odiosi, inqualificabili e intollerabili, soprattutto perché rivolti contro gli appartenenti a quel “fronte sanitario” che, in questo momento e mettendo a repentaglio la propria vita, rappresenta il vero argine al diffondersi dell’epidemia» e sottolineato che «ancor più inaccettabile è che tali atti di sciacallaggio provengano da appartenenti alla nostra categoria professionale, in provocatoria e quasi irridente violazione degli artt. 17 e 37 del Codice Deontologico Forense». Sulla stessa linea anche l’Unione forense delle Marche, che ha evidenziato come «tali comportamenti hanno come scopo l’accaparramento di clientela sanzionato dal Codice Deontologico Professionale Forense e ledono la dignità ed il decoro della professione» ma soprattutto «si connotano di maggiore gravità perché si rivolgono a soggetti già gravemente provati dalla situazione di emergenza epidemiologica e ingenerano preoccupazioni nella classe medica». Le stesse prese di posizione sono arrivate anche da molti ordini territoriali, tra i quali il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, Bari, Torre Annunziata, Foggia e S. Maria Capua Vetere.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'1 aprile 2020. Tra le vittime del coronavirus ci sono anche decine di medici e infermieri impegnati in prima linea. Ieri La Verità ha raccontato come associazioni e studi legali stiano armando i codici per presentare cause penali e civili perché magari un paziente è deceduto senza trovare spazio in terapia intensiva, si è infettato in ospedale o non è stato visitato personalmente dal proprio medico di base, costretto al consulto telefonico perché privo di mascherina o altra protezione. Adesso tali iniziative rischiano di rendere ancora più drammatico il «Dopoguerra» che ci aspetta. Da anni a Bologna un magistrato, Valter Giovannini, ex procuratore aggiunto con delega alla sanità pubblica e attuale sostituto procuratore generale, propone l' abolizione della responsabilità penale colposa dei medici, ovvero della punibilità di chi sbaglia senza volerlo.

Dottor Giovannini oggi l' Italia tutta osanna i medici e gli infermieri come eroi, ma ci sono iniziative di associazioni e di studi legali che si offrono a tambur battente su Internet per tutelare i familiari di persone decedute.

«In questo momento di lutto nazionale le trovo francamente inappropriate. Tutti ci siamo commossi applaudendo dalle finestre i nostri medici e infermieri. Ma se costoro, tra qualche mese, dovessero ricevere denunce a pioggia non potrebbero che ripensare a quegli applausi come a una manifestazione di ipocrisia. La medicina non è una scienza esatta. Crediamo che l' arte medica ci possa sempre salvare la vita, ma ovviamente non è cosi. Del resto se fosse semplice prevenire gli esiti letali causati dal coronavirus i primi a cautelarsi non sarebbero stati proprio i medici? Invece, a oggi, contiamo 66 sanitari morti sul lavoro. Possiamo onorare la loro memoria rispettando di più, oggi e in futuro, i loro colleghi che tutelano e tuteleranno la nostra salute».

Eppure su Internet questi annunci che propongono cause contro i dottori stanno proliferando.

«La denuncia penale è a costo zero. Si va presso un posto di polizia e si chiede al pubblico ministero di verificare se è stato fatto tutto il possibile da parte dei medici, ipotizzando che ciò non sia accaduto. In base al codice occorre, prima di procedere all' autopsia, iscrivere sul registro degli indagati, come atto dovuto, tutti coloro che hanno avuto a che fare con il paziente. In tal modo nel nostro Paese non sono infrequenti inchieste in cui ricevono l' avviso di garanzia per il medesimo fatto decine di sanitari. Ricordo di avere letto tempo fa di 50 medici indagati contemporaneamente».

Intuisco che non ritenga logico contestare la responsabilità penale colposa ai medici.

«Sono certo che nessun medico prenda in cura o operi un paziente con l' intenzione di ucciderlo. Se lo facesse risponderebbe di omicidio volontario, ma saremmo completamente al di fuori della colpa medica che presuppone la non volontarietà della morte del paziente».

Può reggere un sistema che tiene una simile spada di Damocle sulla testa di chi cura i cittadini?

«No. Per due motivi: il primo è il numero irrisorio di medici condannati rispetto all' enorme numero di denunce presentate; il secondo è che la medicina tradizionale è stata sostituita da quella che ormai viene definita "medicina difensiva", che fa prescrivere esami e accertamenti in serie per evitare future contestazioni di negligenza da parte di pm e giudici».

Con quali risultati?

«I processi che sfociano in assoluzioni e le analisi a raffica hanno comportato costi immensi per il sistema sanitario e hanno prodotto una classe medica sempre più insicura e preoccupata di prendere decisioni che potrebbero avere come conseguenza inchieste che possono durare anni».

Eppure le sue proposte e quelle di altri giuristi di venire incontro ai medici sono rimaste lettera morta.

«Questa pandemia ci insegna che è arrivato il momento di agire a livello legislativo. Quando anni fa, nel corso di un paio di convegni in tema di responsabilità medica, parlai di depenalizzazione dell' ipotesi colposa, nell' ambiente giuridico ci fu chi accolse l' idea come una provocazione e nulla più. L' attuale emergenza pone, invece, il tema all' ordine del giorno. Del resto in altri Paesi di solida tradizione giuridica liberaldemocratica, come Stati Uniti e Francia, non esiste tale ipotesi di reato».

A queste condizioni saranno sempre meno i medici che accetteranno di rischiare la vita per poi trovarsi, magari, sul banco degli imputati.

«Se guardiamo al futuro, i nostri giovani medici, formati da università eccellenti, sempre più spesso cercano di evitare specializzazioni ad alto rischio legale quali possono essere ortopedia, ginecologia-ostetricia, chirurgia e anestesiologia».

Se si abolisse la responsabilità penale colposa, a un paziente che ha subito un danno in corsia che strumenti di ristoro resterebbero?

«Naturalmente rimarrebbe aperta la strada dell' azione civile, ma anche in questa materia sarebbe ora di fissare regole più semplici così da evitare conclusioni diverse per casi simili. In ogni caso, da magistrato, ma soprattutto da cittadino dico: mostriamo riconoscenza ai nostri medici e infermieri e lasciamo che lavorino sereni».

RaiNews il 18 giugno 2019. Malasanità usata come business 35mila medici denunciati ogni anno. Il collegio chirurghi: "Siamo sotto attacco" Il collegio italiano dei chirurghi denuncia l'operato di agenzie, studi legali e associazioni che incoraggiano l'azione legale nonostante le statistiche parlino del 95% dei casi penali e del 90% dei casi civili chiusi con un nulla di fatto. Intanto la medicina difensiva, ovvero la prescrizione di un numero eccessivo di esami e accertamenti, costa ai cittadini 11 miliardi all'anno Tweet Carenza medici: tra 15 anni su 56 mila medici ne verranno rimpiazzati 42 mila Pochi specialisti, in Molise potrebbero arrivare i medici militari Napoli. Muore soffocato, 7 indagati tra medici e infermieri 18 giugno 2019 Sommersi da 35mila azioni legali intraprese ogni anno da pazienti che denunciano presunti casi di malasanità, i medici italiani si sentono in trincea, ma senza strumenti idonei per difendersi con serenità. Lo denuncia il Cic, Collegio italiano dei chirurghi, che punta il dito contro il notevole impatto mediatico dei cosiddetti casi di malasanità e contro la diffusa pubblicità fuorviante di organizzazioni legali interessate al problema del contenzioso. La fotografia attuale della chirurgia italiana mette in evidenza come il 95% dei casi penali e il 90% di quelli civili siano statisticamente destinati nel risolversi in un nulla di fatto, ma inspiegabilmente i procedimenti legali siano in costante aumento. Premesse, queste, dalle quali scaturiscono conseguenze fortemente negative non solo per il Servizio sanitario nazionale e per gli operatori che prestano la loro attività professionale, ma anche per gli stessi cittadini che del Ssn dovrebbero beneficiare in assoluta serenità.  La difesa dei medici "L'errore in campo medico esiste, come in qualunque altro settore. In campo medico la specificità della situazione lo rende tuttavia sempre gravido di conseguenze - afferma Filippo La Torre, Presidente del Collegio Italiano dei Chirurghi -. Non bisogna, però, confondere l'errore con le 'prevedibili ma non sempre prevenibili' complicanze. Bisogna controllarlo accuratamente e fare il possibile per evitarlo con meccanismi tanto severi quanto sicuri, riducendolo al minimo e, nel contempo assicurare all'utente il giusto risarcimento di un eventuale danno subito". Di queste problematiche si è parlato A Roma nel corso del convegno promosso dal Collegio Italiano dei Chirurghi dal titolo "Malpractice, informazione, pubblicità ingannevole e suggestiva: un danno per il Ssn" al quale hanno partecipato i rappresentanti delle Società Scientifiche Italiane della Chirurgia insieme ad esponenti del mondo della magistratura, dell'avvocatura e delle istituzioni.  Manca una legislazione chiara "Purtroppo, in assenza di una legislazione che chiarisse i termini della responsabilità professionale e della colpa medica, già all'inizio degli anni '90 i procedimenti sono aumentati a dismisura, così come i costi delle assicurazioni sul rischio ed i tempi (e i costi) conseguenti dei procedimenti giudiziari - continua Filippo La Torre -. La Legge 24 Gelli/Bianco, frutto di oltre due anni di lavoro di sintesi e compromesso tra posizioni differenti, ha cercato di fare chiarezza. Il Ssn Italiano è per definizione universalistico ed è considerato, in campo internazionale, una vera eccellenza ancora oggi, nonostante i tagli ventennali alla Sanità. Va quindi riconosciuto agli operatori sanitari la capacità di averne conservato, comunque, l'elevata qualità nonostante la riduzione dei numeri". Obiettivo primario: ridurre il contenzioso "Gli operatori sanitari e le organizzazioni aziendali si sono dotate di sistemi di maggiore efficienza e controllo del rischio per ridurre l'errore in sanità, come dettato dalla Legge, ma il numero di contenziosi è in progressivo aumento - prosegue La Torre -. Forse deve essere riferito allo sforzo di Agenzie, studi legali ed Associazioni attraverso una Pubblicità verso le denunce di Malpractice, da noi definita ingannevole e suggestiva. Questo perché viene offerta la possibilità di agire senza costo alcuno a carico dell'attore, visto che c'è la volontà di andare incontro ad un evidente business". I costi della medicina difensiva "Se le Aziende Sanitarie e gli Operatori dovranno continuare a dare quotidiano riscontro a questa offensiva e progressiva aggressione, ne risentirà chiaramente la qualità del Sistema con conseguente danno per gli utenti e creando un inevitabile circolo vizioso con un progressivo svilimento e fallimento del Ssn nel suo complesso come, per esempio, quando scatta da parte di alcuni operatori sanitari il meccanismo di difesa conosciuto come 'Medicina Difensiva', vale a dire una richiesta di un numero eccessivo di esami ed accertamenti il cui costo viene quantificato in più di 11 miliardi di Euro, quasi un miliardo al mese. Lo smisurato numero delle denunce ai sanitari, le aggressioni fisiche agli operatori in costante e spaventoso aumento stanno fortemente demotivando tutte le specialità professionali, in particolare i chirurghi e gli addetti al Pronto soccorso, creando dei vuoti di vocazione in questi specifici settori con evidente pericolo per la tenuta del sistema, per la sua qualità e per la sua riconosciuta ed elevata eccellenza. Un danno enorme per il Ssn e, di conseguenza, per tutti i cittadini" - conclude La Torre.

Malasanità: aumentano le cause i medici chiedono impunità. Avv. Nicola Todeschini il 18 gennaio 2015. Risarcimento per colpa medica lieve e grave. La lotta alla Malasanità non ha tregua: si rinforzano le richieste di impunità motivate proprio con l’aumento delle cause. Possibile chiedere di affrontare la malasanità se i medici chiedono impunità? L’invocazione è contenuta in una recente presa di posizione di Aogoi: Per il segretario nazionale, Antonio Chiantera: “Nella sola Campania 4.000 denunce contro i camici bianchi. Siamo costretti a lavorare in un clima da “caccia alle streghe” e aumenta il ricorso alla medicina difensiva che costa 12 miliardi. I provvedimenti in discussione alla Camera dei Deputati devono quanto prima entrare in vigore”. (fonte Quotidiano Sanità).

La cantilena è sempre la stessa: “Ogni anno oltre 34.000 cause legali vengono promosse contro i medici, circa 4.000 nella sola Campania – sottolinea Antonio Chiantera Segretario Nazionale Aogoi -. Più del 98% di queste termina in assoluzione o archiviazione. La paura di essere denunciato da parte di pazienti o parenti ha portato all’esplosione del fenomeno della medicina difensiva”.

Vediamo di fare chiarezza: I medici sono persone intelligenti: che possano sentirsi rappresentati da queste lamentele adolescenziali senza motivazione appare, francamente, assai in dubbio. Il nemico numero uno della sanità in Italia non sarebbero gli errori (frequentissimi), gli orrori (vedi Clinica Santa Rita, per citarne alcuni), le gravi disfunzioni organizzative (sia sufficienti i servizi di Striscia la Notizia, delle Iene, tra i molti), le scarse risorse che il legislatore riduce sempre di più, le compagnie di assicurazione che agitano le notti dei sanitari facendo credere loro di essere nell’occhio del ciclone quando sono proprio le compagnie a volerceli avvinti, ma i pazienti che, indomiti, continuano a chiedere di essere risarciti! Ma secondo il Segretario Generale di Aogoi saremmo di fronte ad un paradosso: la colpa dello scenario apocalittico che disegna, forse anche per dare una spiegazione al suo ruolo, non sarebbe motivato dalle troppe cause fondate, ma dal 98% delle totali…rappresentato dall’assoluzione, a Suo dire. Insomma i medici sono sotto accusa per nulla, gli errori non si commettono se non nel 2% dei casi denunciati….ma allora perché mai le compagnie di assicurazione si lagnano dei tanti soldi spesi per risarcire i danni? Perché i medici si dovrebbero sentir assillati da una così bassa probabilità di essere condannati (per Agoi capita solo a 2 su 100)?

Possiamo ancora discutere con chi sciorina questi dati che, all’evidenza, sono utili a spaventare solo chi non sappia nulla di responsabilità medica?

Vengono invocati di disegni di legge presentati in discussione e, si badi bene, non uno di quelli presentati ha un minimo di dignità scientifica. Ne volete la prova?

Leggete il contenuto della sfacciata proposta di legge del Partito democratico. Leggete quella scherzosa, si fa per dire, del centro destra, oppure ammirate la “serietà” della commissione parlamentare sulla Malasanità.

E la colpa…di chi sarebbe? Dei pazienti danneggiati che chiedono giustizia?

Forse di T. che rimane incontinente totale per un errato trattamento per le emorroidi?

Di S. al quale trapiantano il cuore di un donatore non sano?

Di W. che viene dimesso intempestivamente con l’ittero e rimane invalido permanentemente?

Di C. che nasce invalido al 100% per essere stato vittima della volontà colposa di un ginecologo che ha insistito per il parto naturale quando invece esistevano tutte le ragioni per il taglio cesareo?

E potrei continuare, con centinaia di casi. Ma a sostenere le ragioni di pazienti in punta di diritto e non con slogan non siamo in molti, mentre sanitari, compagnie di assicurazione ed amici seduti in parlamento sono ogni giorno foraggiati per emettere comunicati stampa strampalati, sciorinare dati inesatti, invocare impunità senza nemmeno sapere di che cosa parlano, dimostrando la più assoluta ignoranza delle regole.

Volete un confronto serio, veramente serio? Dimenticate la partigianeria, liberatevi dall’approssimazione e dall’incostituzionale invocazione dell’impunità e parliamone, per una volta seriamente che la medicina difensiva è un’idiozia inventata da pavidi che non conoscono le regole. 

Coronavirus: in arrivo immunità penale per i medici. Laleggepertutti.it il 30 Marzo 2020. Uno scudo legale per tutelare gli operatori sanitari e le strutture, limitandone la responsabilità durante il periodo di emergenza Covid-19. Prevedere una forma di immunità penale per i medici in prima linea nel contrasto al coronavirus, dotandoli di uno scudo che li protegga da azioni legali instaurate nei loro confronti: è il contenuto di un emendamento al decreto Cura Italia, attualmente al Senato per la conversione in legge, che intende tutelare gli operatori sanitari da denunce e richieste di risarcimento danni. Medici, infermieri e personale sanitario ausiliario che in questo periodo sono totalmente assorbiti sul fronte delle cure ai pazienti, eppure iniziano a essere bersagliati da iniziative di alcuni studi professionali che intimano azioni legali per “infezioni ospedaliere” e diffondono sui social inserzioni per promuovere consulenza e assistenza a chi voglia promuovere causa contro gli operatori, le strutture ospedaliere e le aziende sanitarie. La reazione della categoria arriva adesso per via legislativa: un correttivo al decreto legge varato dal Governo il 17 marzo che punta a “blindare” le strutture e il personale che esercita le strutture sanitarie, pubbliche e private, rendendoli immuni dalla responsabilità penale, civile, amministrativa ed erariale – salvi solo i casi di dolo conclamato – per tutta la durata dello stato di emergenza Covid-19 e dunque dal 31 gennaio scorso e fino al prossimo 31 luglio. La norma presentata al Senato punta a modificare il decreto Cura Italia introducendo un nuovo apposito articolo, a mente del quale la responsabilità viene eccezionalmente limitata, durante il periodo emergenziale “in deroga ad ogni altra disposizione vigente ed in ragione dello straordinario periodo di emergenza e di impegno eccezionale cui sono chiamati i sanitari”. Un’iniziativa reclamata a gran voce dai medici del sindacato Snami, in rivolta contro alcuni annunci che circolano sui social mescolando le parole "infezioni ospedaliere", "risarcimento" e "consulenza gratuita", in caratteri maiuscoli in maniera da attirare l’attenzione del pubblico e suscitare allarme, che sono stati già denunciati alla magistratura, agli ordini forensi e all’Agcom, l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato. Per Angelo Testa, presidente del sindacato, è “chiaro l’intento di paventare l’esistenza di responsabilità in capo ai medici e alle strutture ospedaliere per infezioni da Covid-19, come se il virus e la sua diffusione dipendano da imperizia o negligenza. Si tratta di un tentativo di accaparramento della clientela da parte di soggetti che approfittano della fragilità e della paura diffusa tra la popolazione, già sufficientemente allarmata dalla più grave emergenza sanitaria di tutti i tempi”. Perciò – prosegue il presidente dello Snami – “la pubblicazione di un annuncio pubblicitario simile è vergognosa e provoca un ingiustificato allarmismo, in un momento delicato come quello attuale, in cui migliaia di medici e infermieri combattono con tutte le loro forze giorno e notte garantendo anche a discapito della loro stessa salute (fisica e psichica) il miglior servizio sanitario possibile ai pazienti”. Il provvedimento da approvare è atteso in Aula del Senato per l’8 aprile. È probabile che il testo del decreto così integrato, nel successivo passaggio alla Camera dei deputati, arrivi con una seconda lettura definitiva – senza cioè la possibilità di apportare ulteriori emendamenti – per accelerare l’iter e giungere alla definitiva conversione in legge entro la fine del mese.

La lettera denuncia sul caso ospedale di Alzano: “Chi poteva doveva decidere”. Valseriananews.it il 28 marzo 2020. Dall'ospedale di Alzano alla Valle, come si è diffuso il Coronavirus. La lettera denuncia di un'infermiera: "Chi poteva doveva decidere". Quello che è successo il 23 febbraio 2020 all’ospedale di Alzano Lombardo è ormai un caso. Qui in Val Seriana lo sappiamo bene e l’abbiamo raccontato diverse volte: ci sono stati i primi pazienti positivi accertati al Coronavirus, c’è stato l’ospedale chiuso e riaperto poche ore dopo e c’è stato un crescendo esponenziale di contagi che tutt’oggi non ha una fine. Dopo i primi dubbi sollevati in un nostro articolo del 15 marzo, quando la gente della Val Seriana iniziava ad interrogarsi su che cosa non fosse stato gestito in maniera corretta nell’ospedale dove sono stati contagiati medici, infermieri e parenti dei pazienti, anche la stampa nazionale ha cominciato a cercare risposte sul perché della riapertura della struttura senza particolari indicazioni, come riferito dallo stesso personale in servizio quella domenica. Alla nostra domanda: “Quella domenica cos’è successo?” un’infermiera in servizio ci aveva detto: “Noi stessi dopo 13 ore di servizio quella domenica, siamo stati rimandati a casa senza nessuna direttiva ne raccomandazione. Abbiamo fermato noi i colleghi dicendo di non entrare in Pronto soccorso, e solo il giorno dopo abbiamo saputo di 2 casi di positività in Medicina e Chirurgia. Poi è stato un crescendo esponenziale“. Negligenze dell’ospedale? Impreparazione o mancata comunicazione tra gli organi superiori e la struttura? Ricordiamo che il 31 gennaio scorso sulla Gazzetta ufficiale era stato proclamato lo Stato di Emergenza in seguito alla dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica del 30 gennaio 2020 da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo stato di emergenza prevedeva tra l’altro azioni di prevenzione con il potenziamento delle strutture sanitarie.

Dunque, l’ospedale era stato messo in condizione di gestire l’emergenza visto che tre giorni prima era stato riscontrato a Codogno il paziente 1? A queste domande ha tentato di rispondere la trasmissione di RAI 3 “Chi l’ha visto” andata in onda giovedì 26 marzo con un lungo approfondimento dedicato alla Val Seriana e all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo.

Domenica 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo: “Nessuno ci diceva cosa fare”. Nella puntata di giovedì, attraverso la testimonianza shock di un infermiere in servizio, si viene a conoscenza di quanto accaduto quella domenica di febbraio: “Nessuno ci diceva cosa fare. Io sono un RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la sicurezza). E’ stato un macello. Alzano è rimasta aperta con ambulatori, centro prelievi, come se non fosse successo niente. Non so come hanno ragionato. Com’era possibile una cosa del genere? Ci diceva va bene così“. Quello di RAI 3 non è un atto di accusa contro il personale medico che si è trovato suo malgrado a combattere questa guerra senza le giuste armi e pagando anche il prezzo più caro, ovvero quello di perdere dei colleghi, ma è un tentativo di ricostruire gli errori commessi. Anche noi di Valseriana News abbiamo cercato di capirne di più dopo aver accolto appelli di parenti e operatori socio sanitari. Vi ricordiamo la lettera dell’uomo di Villa di Serio che ha perso entrambi i genitori e che ha denunciato il fatto di non essere stato fermato da nessuno e di essere diventato esso stesso un untore. Una Oss invece ci ha raccontato di aver vissuto tutta la tensione del 22 febbraio nel reparto di Medicina quando si iniziava a capire che quelle strane polmoniti in reparto da giorni non erano le solite. “Il paziente vicino di stanza del mio assistito si sentiva morire, non riusciva a respirare. Ma nessuno aveva capito cosa stesse accadendo”. Anche la nostra indagine dunque ha come obiettivo quello di fare luce sulla falla che ha permesso al virus di espandersi in maniera incontrollabile. A questo proposito pubblichiamo la lettera firmata di un’infermiera che denuncia tutte le anomalie vissute e chiede aiuto a gran voce perché i primi martiri di questa strage sono proprio loro, infermieri e medici ancora oggi impegnati in prima linea. Anche quello che è successo dopo quella domenica è a noi tristemente noto ed è stato ricostruito da altre testate nazionali, come ha fatto TPI.it in questo articolo che racconta di come una nota dell’Istituto Superiore Sanità datata 2 marzo aveva previsto la chiusura di Alzano Lombardo e Nembro. Il dato inconfutabile ancora ad oggi è infatti quello che, laddove sono state istituite subito le zone rosse, come nella provincia di Lodi o a Vo Euganeo in Veneto, i focolai sono rimasti contenuti.

I dati del 27 marzo mostrano la differente situazione tra la provincia di Bergamo e Lodi. Riguardo all’istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro (ad oggi ancora i due Comuni più colpiti) l’assessore regionale al Welfare Giulio Gallera parlava così nella conferenza stampa del 3 marzo: “Zona Rossa? Stiamo attendendo le valutazioni dell’Istituto Superiore di Sanità”. Questa è stata la risposta data per tutta quella lunga settimana di propagarsi del virus fino a domenica 8 marzo quando venne chiusa prima tutta la Lombardia, poi tutta l’Italia. Ma per la Val Seriana era già troppo tardi.

·        Imprenditori: vittime sacrificali.

Isidoro Trovato per il “Corriere della Sera” il 13 maggio 2020. I datori di lavoro corrono il pericolo di una denuncia penale nel caso in cui un loro dipendente si ammalasse (fino al decesso) a causa del Covid-19 contratto sul posto di lavoro. Ma attenzione, a rischiare non saranno solo i furbi o i negligenti ma anche gli imprenditori che hanno diligentemente applicato tutte le misure necessarie per contrastare e contenere la diffusione del Covid-19 dettate dai protocolli di sicurezza del 14 marzo e del 24 aprile 2020. Il «salto di qualità», in termini tecnici, si chiama infortunio sul lavoro e da quando Inail ha iscritto la morte del Covid-19 in quella categoria, sono scattati gli allarmi per le conseguenze che ciò comporterebbe. A evidenziarlo sono i consulenti del lavoro: «È un problema non da poco che rischia di bloccare la riapertura di molte piccole e micro aziende - commenta Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dell' Ordine - intimorite da questo rischio. Riterrei urgente avviare una riflessione con le parti sociali per arrivare a una norma». L' equiparazione fatta dall' articolo 42 del d.l. n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe dunque portare al coinvolgimento dell' imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso. Anche nel caso che la responsabilità del datore di lavoro non sia oggettiva, ma l' azienda abbia rispettato norme e regolamenti. «Una responsabilità sarebbe ipotizzabile solo in via residuale, nei casi di inosservanza delle disposizioni a tutela della salute dei lavoratori emanate per contrastare l' emergenza epidemiologica» fanno sapere dal governo, ma la vicenda non è così semplice. I punti critici infatti restano ancora parecchi perché le responsabilità da coronavirus non sono facili da accertare: ad esempio, la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa. Senza poi contare i casi dei soggetti asintomatici, per i quali appare difficile una prevenzione da parte del datore di lavoro. Come può l' imprenditore evitare il coinvolgimento penale (automatico in caso di prognosi superiore ai 30 giorni) nel caso di un asintomatico che ha contagiato collaboratori o clienti? Sarebbe necessario, secondo gli esperti, introdurre una norma, una sorta di scudo penale, che escluda la responsabilità del datore di lavoro nel caso in cui abbia dotato i propri dipendenti di protezioni individuali, mantenuto i luoghi di lavoro sanificati, vigilato sulle distanze interpersonali e assicurato il contingentamento, come previsto dalla normativa. Anche l' Istituto competente per materia si è espresso in favore di uno scudo penale: «Non sembra una scelta irragionevole- afferma il direttore generale dell' Inail, Giuseppe Lucibello -. L' Istituto sarà a disposizione del decisore politico per suffragare una scelta del genere». L' emergenza economico- sanitaria però chiede più chiarezza, una nuova cultura aziendale e maggiore sensibilità nei confronti di imprenditori già assillati dalle conseguenze economiche di un lockdown lungo e dagli sviluppi imprevedibili.

Contagio in azienda, gli imprenditori rischiano processo penale e risarcimento. Redazione su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Introdurre uno scudo per le responsabilità penali dei datori di lavoro che abbiano diligentemente posto in essere tutte le misure necessarie per contrastare e contenere la diffusione del Covid-19 nei luoghi di lavoro dettate dai protocolli di sicurezza. È la richiesta che arriva dai Consulenti del lavoro, che lanciano l’allarme sulla possibilità che il rischio di processo penale per gli imprenditori possa bloccare la riapertura di molte piccole e micro aziende. Il problema evidenziato da Consulenti del lavoro e imprenditori è l’equiparazione fatta dall’articolo 42 del decreto legge n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, che potrebbe condurre a sanzionare l’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni ai sensi dell’art. 590 c.p. e omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p. nel caso di decesso, di omicidio per colpa grave. Sono diversi i punti critici da far emergere prima di una possibile svolta giudiziaria contro gli imprenditori. Innanzitutto la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa del contagio. Inoltre va considerata l’ipotesi di poter escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause contagio, per non parlare quindi di soggetti asintomatici. La proposta di imprenditori e Consulenti del lavoro è di introdurre quindi uno scudo penale, una norma che possa escludere la responsabilità del datore di lavoro se quest’ultimo ha garantito ai dipendenti protezioni individuali, distanziamento e sanificazioni degli ambienti. Per questo l’idea è di prevedere garanzie certe per tutti gli imprenditori, già pesantemente colpiti in termini economici da questa emergenza sanitaria e dai costi per la messa in sicurezza di lavoratori e luoghi di lavoro: l’eventuale rischio di sanzioni correlate all’inosservanza delle misure anti-contagio sarebbe il colpo del definitivo KO.

Infortunio sul lavoro per Covid, datore non responsabile in automatico. Jacopo Bongini il 15/05/2020 su Notizie.it. Secondo l'Inail, il datore non può essere considerato automaticamente responsabile di un eventuale infortunio sul lavoro avvenuto a causa del Covid. Con un comunicato ufficiale pubblicato nella giornata del 15 maggio, l’Inail chiarisce i dubbi in merito all’effettiva responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio dei dipendenti dovuto al Covid-19. In questi ultimi giorni si erano infatti scatenate diverse polemiche a seguito di una controversa interpretazione dell’articolo 42 del decreto legge n. 18/2020, che teoricamente equiparava l’infortunio sul lavoro al contagio da Covid-19 comportando quindi un diretto coinvolgimento civile e penale del datore. Coinvolgimento che tuttavia è stato di recente smentito proprio dall’Inail. Alla luce delle polemiche scatenatesi, l’Inail ha immediatamente chiarito la questione sul proprio sito web: “È utile precisare che dal riconoscimento come infortunio sul lavoro non discende automaticamente l’accertamento della responsabilità civile o penale in capo al datore di lavoro”. Nella nota, l’Inail ha infatti spiegato che i presupposti per l’erogazione di un indennizzo e quelli per il riconoscimento della responsabilità civile e penale del datore di lavoro sono completamente diversi. Come diversi sono anche i criteri con cui accertare le responsabilità del datore di lavoro e quelli previsti “Per il riconoscimento del diritto alle prestazioni assicurative Inail”. Stando a quanto riportato dunque: “Il riconoscimento dell’infortunio da parte dell’Istituto non assume alcun rilievo per sostenere l’accusa in sede penale”. In questo caso infatti continua a valere il principio di presunzione di innocenza oltreché dell’onere della prova che spetta al pubblico ministero. Sempre in merito all’eventuale contagio sul luogo di lavoro inoltre, l’Inail precisa che: “La molteplicità delle modalità del contagio e la mutevolezza delle prescrizioni da adottare sui luoghi di lavoro rendono peraltro estremamente difficile la configurabilità della responsabilità civile e penale dei datori di lavoro”.

No, non ci sono ispettori per verificare che le aziende rispettino le regole. Le persone che devono controllare i luoghi di lavoro, sanificazioni e altre misure per la riapertura sono la metà di quante erano dieci anni fa. Gli imprenditori più spregiudicati possono dormire sonni tranquilli (i loro dipendenti, meno). Gloria Riva il 19 maggio 2020 su L'Espresso. Gli imprenditori e i dirigenti più spregiudicati, anche per questa volta, possono dormire sonni tranquilli: la probabilità che un ispettore del lavoro varchi la soglia dell’azienda per verificare se davvero le distanze fra dipendenti siano a misura di sicurezza, se effettivamente gli ambienti siano periodicamente sanificanti e se i gel disinfettanti, i guanti, le mascherine, le visiere e tutto il resto siano stati forniti ai lavoratori è prossima allo zero. Bruno Giordano, magistrato della Corte di Cassazione, docente di Sicurezza del Lavoro all’Università di Milano e già consulente giuridico del Senato in materia di ispezioni, dice che «è pura utopia e ipocrisia pensare che quanto certificato su carta dalle imprese o autodichiarato con un protocollo, possa essere verificato da un ispettore. Utopia ancor più irrealizzabile se si considera che le poche forze ispettive non sono riuscite in cinque anni a raggiungere l’obiettivo minimo di controllare il cinque per cento delle imprese». E non stupisce, perché i controllori sono come i panda, in via di estinzione: ad avere la delega di vigilare sui luoghi di lavoro sono 2.200 dipendenti delle aziende sanitarie locali, la metà di quanti ce n’erano dieci anni fa; a questi si aggiungono 222 ispettori (specializzati però nel solo controllo dei cantieri edili) dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, l’Inl, istituto creato dal Jobs Act cinque anni fa che avrebbe dovuto accorpare in un’unica agenzia anche gli ispettori dell’Inps e dell’Inail. Il progetto è però rimasto incompiuto e ogni ente continua a fare da sé. I titolati all’ispezione nelle aziende dovrebbero quindi essere gli ispettori delle Asl, ma il decreto del presidente del consiglio dello scorso 26 aprile ha attribuito ai Prefetti il potere di avvalersi degli ispettori dell’Inl per controllare la messa in pratica dei protocolli, l’accesso e l’organizzazione aziendale, la sorveglianza sanitaria, il lavoro agile, nonostante fino a oggi si siano occupati per lo più di cantieri e siano privi della formazione necessaria per queste ispezioni. Sono i sindacati degli ispettori del lavoro ad aver denunciato di non aver ricevuto specifici mezzi di protezione individuale e paradossalmente chi deve controllare se nei luoghi di lavoro vi siano mezzi protettivi adeguati, non li ha ricevuti dal proprio datore di lavoro. Contemporaneamente si muovono gli ispettori delle Asl, che nelle ultime settimane hanno soprattutto vigilato sulle aziende sanitarie - ospedali, case di cura, ambulatori - in molti casi chiudendo entrambi gli occhi di fronte al personale privo di dispositivi di sicurezza: «C’è una problematica di incompatibilità, perché gli ispettori delle Asl dovrebbero denunciare le irregolarità al proprio direttore, che è allo stesso tempo il capo degli ispettori e il coordinatore delle strutture sanitarie. In alcuni territori il problema è stato risolto affidando i controlli delle strutture a ispettori provenienti da altre Asl, come è avvenuto in Piemonte e poche altre realtà». Per quanto riguarda le verifiche nelle aziende, a Milano l’Asl ha inviato dei questionari alle imprese, una sorta di autocertificazione dell’autocertificazione, che culmina in un’ispezione nel caso in cui gli imprenditori non inviino le risposte. Rolando Dubini, avvocato specializzato in diritto penale del Lavoro, spiega che «le aziende sono più preoccupate dalle cause civili e penali che i dipendenti potrebbero intentare contro la società piuttosto che di una reale ispezione. All’inizio di maggio l’Inail ha riscontrato 28mila denunce, la maggioranza in Lombardia, nell’85 per cento dei casi nel settore dalla sanità e dei trasporti. Succede perché l’Inail definisce un lavoratore dipendete affetto da Covid come un “infortunio sul lavoro” e, se l’azienda non ha adottato gli opportuni sistemi di protezione, la persona coinvolta può agire penalmente contro la propria impresa». In assenza di controlli, dunque, l’intera materia della sicurezza sul lavoro ai tempi del Covid rischia di riversarsi sui già intasati tribunali italiani. Soluzioni alternative? Assumere nuovi ispettori in tempi rapidi. La proposta è stata avanzata da Bruno Giordano al governo, si tratta di un progetto in sette mosse, a partire dal reclutamento straordinario di centinaia di ispettori per un massimo di due anni: «Come è stato possibile per la Protezione Civile assumere a contratto, per un periodo limitato, 300 medici e operatori sanitari, lo stesso si potrebbe fare per gli ispettori. Le donazioni alla Protezione Civile ne potrebbero coprire i costi e il reclutamento può avvenire tra ex funzionari in pensione, oppure selezionandoli dal lungo elenco di percettori del reddito cittadinanza o ancora chiamando per titoli parte delle decine di migliaia di candidati del concorso per 600 ispettori lanciato due anni fa», che poi è finito in chissà quale cassetto, senza nemmeno svolgere le prove di selezione.

·        La Voce dei Malati.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 13 novembre 2020. Lorenzo è giovane e forte. Gli amici dicono che non si arrende mai. Ama lo sport, è sano e guarda alla vita con entusiasmo. Insomma, uno di «quelli» che il coronavirus non dovrebbe neppure sfiorare. E invece il Covid-19 è arrivato, nel modo più terribile, subdolo e imprevisto (una visita nel reparto di oculistica dell' ospedale e una mano portata agli occhi) e adesso Lorenzo Stocchi, 35 anni, di Terranuova Bracciolini (Arezzo), una laurea in Economia, è ricoverato nel reparto di terapia intensiva. Ma anche stavolta non si è arreso e, quando si è ripreso da una crisi che sembrava irreversibile, ha avuto la forza dal letto dell' ospedale di raccontare su Facebook la sua odissea. Non lo ha fatto per pietismo, ma per far capire ai giovani che questo virus può colpire tutti, indistintamente. Un racconto che è anche un appello ad essere prudenti e a non sottovalutare il male. Dopo aver descritto i primi sintomi, il primo test sierologico negativo, nel lungo post Lorenzo racconta i giorni della febbre a casa, il primo tampone, la lunga attesa e poi la positività. Quando a casa di Lorenzo arriva l' unità speciale dell' Asl, lui non riesce neppure a parlare. «Dalla camera al bagno il fiatone si faceva sentire - ricorda il giovane -. Respirare era difficile e mi sentivo come un pesce appena pescato. Boccheggiavo». Lorenzo viene trasportato all' ospedale San Donato di Arezzo: è grave, ma per quasi un' ora deve aspettare il suo turno al Pronto soccorso. «Con la radiografia al torace si sono accorti che il polmone destro era collassato - continua Lorenzo - e anche il sinistro era messo male. Mi hanno infilato il casco per respirare (che ho tenuto per undici lunghissimi giorni), con l' ossigeno sparato a 60 litri al minuto. Un rumore assordante e continuo che mi impediva persino di sentire quello che mi dicevano i medici. Ed io non potevo esprimermi che a gesti perché non avevo fiato e potevo solo concentrarmi sul respiro, l' aria non mi bastava. A quel punto mi hanno portato in terapia intensiva. Ed è cominciato l' incubo». Arrivano i primi cateteri, sonde, tubi. Quel ragazzone sembra uno spettro. «Ero nudo in un letto con medici e infermieri che si aggiravano per la stanza, somministrandomi terapie e azioni per far ripartire i polmoni... Poi il mio compagno di stanza è morto. Non lo conoscevo, ma era ricoverato lì accanto a me già da tre giorni. A quel punto sono crollato. Durante le notti infinite, ho avuto delle incontrollabili crisi di pianto». Lacrime così disperate che, racconta Lorenzo, non aveva mai conosciuto da uomo «sempre cinico e razionale». I ricordi arrivano come incubi. Il quarto giorno di ricovero è il peggiore: i medici dicono ai suoi genitori che il figlio deve essere intubato e loro, ricorda ora Lorenzo, invecchiano all' improvviso. «Quella notte, il medico della rianimazione ha provato a farmi stare a pancia sotto, che tra casco e tutto il resto era una situazione allucinante. Miracolosamente gli alveoli hanno cominciato a riaprirsi. Da lì è cominciata la lenta ripresa». Adesso Lorenzo Stocchi sta finalmente meglio. E lancia un appello: «Bisogna prevenire il virus a tutti i costi e convincere gli scettici. Perché anche loro se ne renderanno conto quando una persona vicina è in fin di vita, ma sarà già tardi».

Nino Mazzone, primario da remoto: «Lo yogurt sapeva di calce, ho capito che avevo il Covid». Lorenzo Salvia su Il Corriere della Sera il 13/11/2020. Il dottor Mazzone, primario di medicina interna all'ospedale di Legnano: «Qui solo pazienti contagiati dal coronavirus, il resto è sospeso. Così possiamo resistere soltanto altri dieci giorni».

«Ha presente la canzone di Ligabue?».

Quale?

«Una vita da mediano».

Bella, sì. Ma che c'entra?

«In questi giorni mi sono sentito proprio così, un mediano che corre di qua e di là per tenere su la squadra. Ogni tanto la canticchiavo, per tenermi su pure io. A un certo punto dice "lavorare sui polmoni", se lo ricorda?».

Antonino Mazzone ha la saggezza preziosa di chi riesce a sdrammatizzare sempre, nonostante tutto. Eppure questo simpatico signore che naturalmente si fa chiamare Nino, primario di medicina interna all'ospedale di Legnano, arrivato dalla sua Sicilia ai tempi dell'università, di motivi per drammatizzare ne avrebbe eccome. Sul lavoro e anche personali. Lui ci tiene a cominciare dal lavoro, anche se in questo momento è in isolamento, e non c'è bisogno di spiegare il perché.

«Se l'andamento dei contagi e dei ricoveri resta questo, possiamo reggere al massimo altri dieci giorni. Poi non so cosa potrebbe succedere». L'ospedale di Legnano è in rete con altre tre strutture: Magenta, Abbiategrasso e Cuggiono. Si sono divisi i compiti. «Cuggiono è un ospedale pulito, come diciamo noi: zero pazienti Covid, solo altre patologie. Abbiategrasso è a bassa intensità, pazienti Covid ma non gravi. A Legnano e Magenta abbiamo i casi più seri e infatti in corsia abbiamo anche i caschi, fino a 120».

In tutto i pazienti ricoverati nella cosiddetta area medica sono adesso 450. Quanti posti liberi avete ancora?

«In realtà nessuno. Per fare posto ai pazienti Covid ci siamo già allargati occupando un reparto di chirurgia e uno di otorinolaringoiatria. Ci salviamo solo perché ogni giorno c'è qualcuno che esce: dimissioni se va bene, morte se va male. Per questo mi fa un certo effetto quando leggo che gli ospedali sono vicini al limite. Noi il limite l'abbiamo già superato e non solo per il Covid».

In che senso? «Le visite in ambulatorio sono sospese. Gli interventi programmati sono sospesi. Sono garantite solo le urgenze, in sostanza oncologici e cardiovascolari. Avete idea di che prezzo pagheremo nei prossimi mesi, anche senza considerare il Covid?».

E qui torna alla canzone di Ligabue, con i dottori di medicina interna, come lui, che sono i mediani, «anche se quando accendi la televisione senti parlare solo di terapie intensive, dove ci sono i centravanti. Ma in una buona squadra bisogna coprire tutti i ruoli».

Nella prima ondata il dottor Mazzone ha curato e gestito 1.281 malati. Nella seconda ondata ha perso il conto.

«Sono sempre stato molto attento, pensavo di essere immune. Poi una mattina mi sono alzato per fare colazione. Ho aperto uno yogurt, sapeva di calce: ho capito subito di essere passato dall' altra parte, quella dei malati».

Dopo i primi momenti difficili, Mazzone ha continuato a seguire il suo reparto anche da casa, in isolamento.

Ha avuto paura?

«Sì, perché questa è una malattia subdola, cattiva. Ma adesso posso dire di averla sfangata. Credo mi abbiano aiutato i miei polmoni da nuotatore. Nuotatore di mare aperto, della mia Sicilia, mica da piscina».

Al telefono non si vede ma il dottor Mazzone ora sta sicuramente sorridendo. Il sorriso più grande però l' ha fatto l' altro giorno quando è arrivata la notizia del vaccino: «Credo sia una svolta. Come per gli anticorpi monoclonali che serviranno soprattutto per i pazienti più fragili, gli anziani. Abbiamo bisogno di una luce in fondo al tunnel».

E anche nei reparti, tra i letti dei malati. Dove ogni giorno passano il dottor Nino e gli altri medici che, nonostante tutto, riescono a sorridere.

Da "ansa.it" il 7 maggio 2020. Elisabetta, 98 anni, guarisce dalla polmonite da Sars Cov2, chiede un parrucchiere e di poter tornare alla casa per anziani dove viveva quando è stata contagiata. Il reparto Covid dell'Istituto dermopatico dell'Immacolata (Idi) l'ha dimessa oggi dopo due tamponi negativi e l'ha riportata in condizioni di sicurezza e separata da casi sospetti all'Istituto delle Suore Cappuccine dell'Immacolata di Acilia, dove il mese scorso è stato scoperto un focolaio del virus. "È stata ricoverata da noi l'8 di aprile. Aveva già febbre, lievi difficoltà respiratorie, la polmonite interstiziale da Covid-19. Dopo due giorni è peggiorata all'improvviso, è scivolata in uno stato soporoso smettendo anche di alimentarsi", racconta Antonio Sgadari, primario del reparto Covid allestito all'Idi. "Sembrava segnata - continua il primario - l'abbiamo curata con antiretrovirali, antibiotici e antinfiammatori, abbiamo deciso non solo di idratarla ma di nutrirla anche per via parenterale. Tuttavia la paziente continuava a desaturare arrivando in quella zona limite prima dell'intubazione, che comunque sarebbe stata difficile". Poi la svolta. Dopo dieci giorni in condizioni gravi, nonna Elisabetta, come la chiama il personale sanitario del reparto, ha cominciato a superare la fase critica, la saturazione è migliorata, ha ripreso contatto con l'ambiente circostante. "Abbiamo capito che ce l'aveva fatta quando dal corridoio l'abbiamo sentita chiedere a gran voce un materasso più morbido, perché quello che aveva era troppo duro", dice Sgadari, e sottolinea che a evitarle le piaghe da decubito è stato proprio il letto che lei non sopportava, "è uscita da qui con la pelle rosea e integra". Elisabetta non ha parenti e da anni vive nell'Istituto delle suore Cappuccine, dove decine tra religiose e ospiti sono rimasti contagiati in aprile. I medici durante il periodo di ricovero si sono tenuti in contatto con l'amministratore di sostegno della paziente, informandolo sulle condizioni di salute. Gli infermieri sono stati magnifici, raccontano dall'ospedale, l'hanno imboccata, coccolata. Quando si è ripresa le infermiere le hanno fatto un piccolo trattamento estetico per il viso. La storia di questa paziente anziana che ce l'ha fatta a superare il virus - dicono - ha donato entusiasmo all'ambiente e le sue battute hanno animato l'umore del team di operatori sanitari. "Vediamo spesso il rischio di incorrere nell'ageismo, il pregiudizio legato al dato anagrafico, e solo perché una persona è in età avanzata viene ritenuta non meritevole di cure che non si negherebbero a chi è più giovane - commenta Sgadari - è come se un anziano non meritasse il consumo di risorse. Ma l'unica cosa che conta è lo stato clinico e funzionale di un paziente, se è recuperabile. L'attaccamento delle persone alla vita ci sorprende ogni giorno, come nel caso di Elisabetta". Il presidente dell'Idi Antonio Maria Leozappa conclude mettendo in rilievo che la guarigione di Elisabetta è "una vittoria della Medicina, del personale dell'Ospedale, che riafferma i valori della centralità dell'essere umano nella malattia, la cura e l'assistenza ai più bisognosi". 

Coronavirus, parla Bertolaso: “Curato con clorochina, mi è andata bene”. Jacopo Bongini il 07/05/2020 su Notizie.it. L'ex capo della Protezione Civile Bertolaso ha raccontato la sua esperienza da malato di coronavirus, spiegando di essere stato curato con clorochina. Ospite della trasmissione televisiva di Rete4 Stasera Italia, l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso ha raccontato la sua esperienza da malato di coronavirus dopo essere risultato positivo lo scorso marzo. Bertolaso, che nel contesto della pandemia era stato nominato commissario straordinario per l’emergenza sanitaria in Lombardia, ha spiegato di essere stato curato con la clorochina, farmaco la cui efficacia è stata tuttavia messa in dubbio a causa dei notevoli effetti collaterali che fa emergere nei pazienti. Nel corso del suo intervento, Bertolaso ha raccontato che durante la degenza come malato Covid-19: “Si prova una paura terribile e angoscia. È una roulette russa, a me è andata molto bene, ho passato alcune giornate difficili, ma fortunatamente sono riuscito a riprendere bene tutta la situazione e ho ripreso subito a lavorare. Se non la provi sulla tua pelle non riesci a capirne la gravità”. In seguito, l’ex capo della Protezione Civile ha illustrato nel dettaglio la terapia che i medici gli hanno somministrato durante il ricovero ospedaliero: “Io sono stato trattato con clorochina da subito, che è da usare immediatamente e che si è dimostrata efficace, assieme a un cocktail di antivirali. Oggi è molto di moda l’idea del plasma, che si ricava da soggetti che come me hanno già avuto il virus e si pensa che ci siano degli anticorpi neutralizzanti che possono essere utili nella terapia”. L’utilizzo della clorochina – originariamente un farmaco antimalarico – come cura per il coronavirus è tuttavia ad oggi sconsigliato in moti paesi del mondo, a causa dei gravi effetti collaterali che sviluppa nei malati tra cui disturbi nel ritmo cardiaco se associata all’antibiotico azitromicina.

Incubi, "buchi di vita" e panico: così il virus tortura i guariti. Per gli ex pazienti Covid-19 la fase due, quella di un primo ritorno alla normalità, può essere complicata quasi quanto la guarigione. E se in molti l'ansia è fisiologica, nei casi più gravi chi è stato malato sviluppa il disturbo post-traumatico da stress. La psicoterapeuta spiega come uscirne. Giovanna Pavesi, Mercoledì 06/05/2020 su Il Giornale. C'è chi ha avuto paura di non tornare a casa, di non rivedere più le persone care e di perdere tutto. Il controllo, la lucidità e, persino, la vita. C'è chi si è sentito disorientato nell'arrivare in ospedale e osservare attorno a sé il personale sanitario protetto da quei dispositivi che lasciavano intravedere soltanto gli occhi. C'è chi ha avuto paura di non riuscire a sopportare il rumore dei macchinari, il trauma dell'intubazione, l'isolamento, la solitudine e il timore perenne che quella fosse la fine. Poi, nei casi più gravi e compromessi, c’è stata anche l'esperienza della terapia intensiva o il coma farmacologico, che hanno come azzerato tutto, cancellando un pezzo di esistenza. E poi, c’è chi ha avuto paura di non riuscire a respirare. Perché il nuovo coronavirus, per i malati più gravi, ospedalizzati, è stato questo: una patologia nuova, di cui quasi nessuno sapeva nulla, un avvicinamento costante con la morte e un’esperienza che si porterà dietro importanti ripercussioni psicologiche. Perché la fase due, per un ex paziente Covid-19, può risultare un percorso molto faticoso, quasi quanto quello della guarigione dalla malattia.

Una "paura" generalizzata. Attacchi di panico, incubi ricorrenti, irritabilità e ansia sono soltanto alcuni dei sintomi più comuni presenti in una persona che, da poco, è uscita dalla condizione di malato Covid. "In tutti i pazienti viene riportata una paura generalizzata, mi creda anche dell’aria", spiega al Giornale.it Marcella Bassan, psicologa e psicoterapeuta, che racconta il primissimo impatto che la malattia porta nella vita dei pazienti dimessi, che hanno quasi sempre il timore "di rivivere quell'incubo, che non sia tutto realmente finito e che niente torni come prima". Toccano letteralmente con mano la vicinanza con la morte e quasi tutti accusano il timore di perdere il controllo, perché finiti improvvisamente in una condizione insolita e sconosciuta. E se quello stato non viene trattato adeguatamente, il rischio è che i soggetti sviluppino diversi problemi, dall'ipocondria al (più grave) disturbo post traumatico da stress (e questo vale per tutti, anche per chi prima non soffriva di patologie legate all'ansia). Perché il nuovo virus, che in Italia è arrivato come d'improvviso alla fine di febbraio, colpendo per prima una piccola area in provincia di Lodi, poi un'altra in provincia di Padova e infine tutto il Paese, somiglia poco alle malattie virali a cui siamo tutti più abituati, perché inizia con alcuni sintomi influenzali, ma si evolve in maniera (quasi) sempre diversa: c'è chi ha febbre alta per giorni, chi prova forti dolori al torace, chi segnala la perdita di gusto e olfatto (sintomo che, però, è comune ad altri coronavirus), chi prova un'intensa (e insolita) stanchezza, chi accusa da subito sintomi respiratori molto gravi e chi, invece, ha un tracollo respiratorio che non si aspettava.

Vulnerabili e traumatizzati. Il ritorno alla normalità rappresenta per gli ex pazienti un momento molto complesso e lo conferma il fatto che tanti continuino "a guardarsi le spalle", per riappropriarsi di quel controllo perduto con la malattia. "I pazienti che sono stati colpiti dal Covid-19 non erano a conoscenza della tipologia di virus, non sapevano in che modo la malattia li avrebbe riguardati, né erano certi della loro guarigione. Questo li ha resi ancora più vulnerabili", conferma Bassan, la quale è convinta che in questa fase tra il 70 e l'80% degli ex malati possano presentare sintomi legati all'ansia. A cui, però, vanno aggiunti tutti quelli in che hanno difficoltà di concentrazione, problemi di memoria, irritabilità, continui flashback, attacchi di panico, incubi ricorrenti e affaticamento. Tutte avvisaglie tipiche di un disturbo post traumatico da stress, perché ciò che hanno vissuto è stato, a tutti gli effetti, un trauma. "Lo è scoprire di avere il coronavirus, andare in ospedale, stare lontano dai propri affetti in un momento così difficile, non avere la certezza di rivederli, l'intubazione e persino lo stare nel casco Cpap – spiega Bassan -. Quando escono dall'ospedale per loro è difficile smaltire tutto il vissuto senza effetti collaterali ed è frequente che non si tratti di una semplice forma d'ansia, che invece è una condizione fisiologica in un caso del genere".

Come riconoscere il disturbo post traumatico da stress? Come riportato dall'Istituto superiore della Sanità, il disturbo post traumatico da stress è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche. Può manifestarsi in persone di tutte le età ed essendo una condizione complessa e derivante da diversi fattori, la diagnosi non è mai univoca, né semplice. Nel caso degli ex pazienti affetti da nuovo coronavirus, quando si presentano sintomi eccessivi significa che si sta instaurando questo tipo di disturbo: "Quando iniziano a esserci queste avvisaglie, come per esempio gli incubi ricorrenti, il timore di rivivere l'evento, un pensiero continuo legato all’esperienza e persino la paura di uscire di nuovo ci troviamo di fronte a questa condizione", spiega Bassan. Che aggiunge: "Ci accorgiamo che possiamo essere interessati da questo fenomeno quando di fronte a un evento traumatico esiste un primo momento di choc, dove si riscontra una disorganizzazione mentale, con reazioni fisiche ben precise, come tremori, senso di freddo, nausea e pianto. Poi c'è una reazione cognitiva, quindi mentale, di negazione o di dissociazione: in questo caso i pazienti non ricordano, non capiscono o negano il fatto, perché l'evento è troppo forte e la rimozione diventa un meccanismo di difesa per l'essere umano". E per non confondere il disturbo post traumatico da stress da una più lieve e fisiologica forma d'ansia, la psicologa precisa: "Se sei un paziente appena tornato a casa dall'ospedale ti trovi in una situazione di oggettiva tranquillità, non sei a rischio e in quello specifico momento non dovresti presentare tutte queste sintomatologie. Se si presentano potrebbe esserci un disturbo di questo, perché se una forma di ansia generalizzata è giustificata, tutto il resto non lo è".

Il (difficile) ritorno alla socialità. Oltre alla malattia e a ciò che comporta, l'ex paziente Covid-19 prova anche una certa preoccupazione legata all'approccio con il prossimo e, soprattutto, il ritorno alla socialità: "Molte persone che sono state affette dal virus provano delle emozioni inconsapevoli, che riguardano il senso di colpa (per esempio l'aver potuto contagiare altre persone o l'aver fatto soffrire i familiari) e la vergogna di essere additati come untori". Come spiegato dalla terapeuta, in alcuni soggetti poi, può attivarsi un altro meccanismo inconscio, che riguarda invece la "colpa del sopravvissuto", cioè di chi è riuscito a superare la malattia a differenza di chi, invece, non ce l'ha fatta. "Tornare in mezzo agli altri non è semplice, perché comporta il doversi confrontare con quanto accaduto e sappiamo che, in alcuni casi, molti ricorrono a una forma di evitamento per non pensare a ciò che è stato– continua la psicologa-. Serve una gradualità nell'approccio con gli altri, perché aggirare il ritorno alla quotidianità non è sano, ma è altrettanto vero che è necessario fare un passo alla volta, non esponendosi a delle situazioni troppo forti, ma compiendo piccoli passaggi per ricominciare a rapportarsi con gli altri con normalità".

I comportamenti virtuosi da mettere in atto. E per cercare di superare questa fase esistono delle strategie che possono "liberare" i pazienti da questa gabbia di paura. Così Bassan, così come l'ordine degli psicologi, consiglia di riposarsi, alimentarsi in modo regolare, trovare una routine giornaliera diversa da quella precedente, tenersi impegnati con tante attività e passare del tempo con i propri affetti, quando è possibile. "Ma è anche importante parlare dei propri problemi con persone di fiducia, per non tenersi tutto dentro e far emergere tutte le emozioni e le difficoltà", suggerisce la dottoressa. Che aggiunge: "Oltre alle attività di rilassamento, io consiglio di riprendere tutte quelle attività che riguardano il mondo esterno: è utile, per esempio, tornare a fare la spesa, andare in edicola o fare una passeggiata attorno a casa, stando sempre attenti a non esporsi a situazioni troppo difficoltose. Gli ex pazienti devono imparare a individuare le situazioni in cui si trovano più a loro agio, partendo da quelle più semplici fino ad arrivare alle più complesse. Una cosa molto utile è anche quella di collaborare a eventi comunitari, mettendosi a disposizione degli altri, come accade per il volontariato: un impegno che ci fa sentire indispensabili aiuta anche tutti quei pazienti che provano il senso di colpa di essere sopravvissuti a un'altra persona, come può essere un compagno di stanza che non ce l’ha fatta".

Il caso dei pazienti in coma e il "buco di vita". Ancora diversa è la situazione che riguarda i pazienti che, a lungo, sono stati in coma farmacologico a causa delle complicanze legate al virus. In quel caso si riscontra, infatti, quello che la terapeuta Bassan definisce "un buco di vita", dove il malato non sa assolutamente che cosa gli sia accaduto: "Il fatto di 'addormentarti' in una situazione e di 'svegliarti' magari due mesi dopo in un'altra comporta una situazione molto traumatica". E alla domanda se sia meglio avere assistito alle proprie cure o essere stati sedati, la terapeuta spiega: "Le due situazioni portano traumi diversi e non sono paragonabili: chi non ha vissuto quei momenti della malattia, rispetto ad altri, vive una traumatologia legata al non controllo, un'idea di vulnerabilità connessa all'incertezza, al non sapere. In questi casi, infatti, aumenta di molto il bisogno di controllo". In questo caso, uno degli esiti della convalescenza è il disturbo ipocondriaco, che altro non è che la necessità di dominare ciò che ci sfugge. "Verificare continuamente se si sta bene o se si sta male è una forma di controllo infatti, che si amplifica molto per chi l'ha perso per un periodo o per chi non l'ha avuto – conferma la terapeuta -. Se un ex paziente ha avuto un periodo di vuoto nella sua vita cercherà di riportare il controllo su qualcosa che può dominare". Perché, come conferma la specialista, un buco temporale di quel tipo rappresenta una rimozione di una parte della vita: "Il mondo è andato avanti senza di te, così come i tuoi affetti, che hanno fatto cose mentre tu non c'eri".

L'anticamera della morte. Non è da sottovalutare nemmeno l'impatto che il coma farmacologico ha avuto su quei pazienti che hanno percepito una certa vicinanza con la morte."Toccare con mano la possibilità di andarsene ci fa paura. È un pensiero che cerchiamo sempre di evitare perché ci spaventa. In quella circostanza, invece, i pazienti sono stati costretti a confrontarsi con una dei timori più importanti, perché molto vicino a loro", spiega l'esperta. "Nel momento del saluto alla famiglia, quando si è saliti in ambulanza ed è iniziato il percorso di cura verso l'ospedale, si è messa in conto la possibilità di non vedere più i propri familiari e questo ha aumentato il timore della solitudine, il senso di abbandono, ma soprattutto la paura della morte. In un certo senso, sai che è lì, che ci sei vicino e che potresti non tornare indietro", conclude Bassan.

La psicoterapia come cura del trauma. Per "guarire" dalla condizione di malato, per la psicologa è indicato intraprendere un percorso di psicoterapia: "Se un trauma non viene elaborato correttamente può ripresentarsi dopo anni in seguito a elementi associativi. E quindi può capitare che, lì per lì, al paziente sembri di aver gestito abbastanza bene i postumi della malattia. Ma se lo choc non è stato trattato in modo adeguato, può capitare che la persona si ri-traumatizzi, magari quando ad ammalarsi è qualcuno di vicino". Come spiegato da Bassan, per superare questo tipo di conseguenza emotiva, si può ricorrere all'Emdr, una tecnica di psicoterapia basata sul movimento oculare. "Si usa anche con i terremotati – racconta la terapeuta – ed è basata sulla stimolazione bilaterale, dove le informazioni che tu hai immagazzinato durante il tuo evento traumatico vengono rielaborate in modo funzionale. Semplicemente viene trattato il ricordo traumatico e da lì si procede e si va avanti. Direi che è la tecnica più efficace per tutti i traumi, soprattutto per i più gravi".

I timori (diversi) dei pazienti giovani e anziani. Anche se sembra impossibile, timori e conseguenze sull'esistenza dopo il Covid-19 possono variare anche in base all'età dell'ex malato. Questi perché, come chiarito dalla psicoterapeuta, un giovane si trova improvvisamente di fronte alla possibilità di morire, elemento quasi mai preso in considerazione prima. L'anziano, invece, è già sceso a patti con questa eventualità: "Nel primo caso prevale l'idea di non vivere più tutto quello che la vita può riservare e quindi ci troviamo di fronte a una preoccupazione legata alla perdita di occasioni. Nei pazienti più anziani, invece, siccome l'esistenza è già stata in gran parte vissuta, l'angoscia riguarda piuttosto il dover lasciare i propri cari e rendersi conto che può essere arrivato il momento di salutare i familiari".

I consigli ai guariti. Prendersi cura di sé, seguire un percorso psicologico volto a riorganizzare i vissuti emotivi e psicologici e fare molta attenzione alle proprie emozioni sono, per la psicologa, i consigli più utili per gestire questa nuova convalescenza: "Dal mio punto di vista è importante non sottovalutare l'impatto che questa esperienza ha avuto nella propria esistenza, non avere paura a chiedere aiuto a un esperto che ci può guidare nel percorso di guarigione e dare ascolto ai propri stati d'animo, prendendosene cura".

La costante dei pazienti: la vita che scorre e il senso di incertezza. Come riportato dalla dottoressa Bassan, quasi tutti gli ex pazienti che sono stati ricoverati e hanno avuto necessità dei dispositivi sanitari per agevolare la respirazione, come per esempio il casco Cpap, raccontano che "sotto quel casco ti scorre tutta la vita davanti, come se in quel momento prendessi coscienza di tutto quello che hai vissuto e delle cose che contano davvero". Come ha spiegato la psicoterapeuta, "l'incertezza e quel senso di non sapere restano nel tempo": "Tra le persone che sono state malate, si è registrato di frequente il timore di morire da soli, l'elemento che fa più paura agli esseri umani. A noi terapeuti, gli ex malati raccontano continuamente della ricerca degli occhi di chi li ha curati, perché il senso di solitudine è stato troppo forte".

"Io, colpito dal virus vi racconto come si sta davvero". Il racconto di un padre di famiglia a ilGiornale: "Con il virus non riuscivo a dormire la notte. Al mattino non avevo la forza di alzarmi. Solo il pensiero dei bambini mi ha fatto uscire dal tunnel". Fausto Biloslavo, Sabato 18/04/2020 su Il Giornale. “Mia moglie si è contagiata nella casa di riposo portando il virus a casa. Il primo aprile avevo febbre alta, dolori al torace e alla spalla. Poi sono stati infettati i figli ed è iniziato l’incubo” racconta al Giornale un padre di famiglia. La consorte lavorava alla Primula di Trieste, una piccola residenza per anziani ricavata dentro un condominio. Due decessi per il Covid-19 accertati e 36 ospiti, tutti infettati e trasferiti. Il centro è stato chiuso e la procura ha aperto un’inchiesta. Anche fra i 22 operatori e fra gli stessi condomini si registrano dei positivi. “Dalla casa di riposo hanno avvisato che qualcosa non quadrava, ma l’azienda sanitaria si è mossa a rilento. Ad un ospite che era in dialisi ogni due giorni all’ospedale Maggiore hanno fatto il tampone di venerdì rimandandolo alla residenza. Lunedì è arrivato il risultato positivo” racconta la fonte de il Giornale denunciando ritardi e mancanze. “Con il virus non riuscivo a dormire la notte. Al mattino non avevo la forza di alzarmi. Solo il pensiero dei bambini mi ha fatto uscire dal tunnel. Il più piccolo, che voleva sempre starmi vicino, dovevo allontanarlo nella speranza di non contagiarlo” spiega il papà in via di miglioramento. “Ci siamo sentiti abbandonati. Non potevamo neppure andare a fare la spesa o a gettare le immondizie - racconta - Siamo stati aiutati dagli amici. Poco o niente dall’assistenza domiciliare”. Solo nella provincia di Trieste ci sono 78 case di riposo, poco meno della metà di tutto il Friuli-venezia Giulia. “Il virus ha messo in evidenza la fragilità delle strutture più piccole ricavate nei condomini” fa notare, Giacomo Benedetti, direttore del distretto sanitario 2 e dell’assistenza territoriale. Anche lui è positivo al virus e confinato in casa. “Trieste è densamente popolata e con il numero di anziani più alto della Regione. Una città dove il contagio trova terreno fertile” spiega il medico. Adesso si stanno facendo i tamponi a tappeto sugli ospiti delle case di riposo, che sono circa 3mila. La Procura guidata da Carlo Mastelloni ha disposto accertamenti su tutti i decessi delle scorse settimane nelle strutture per anziani e in ambito ospedaliero. Non sono pochi i familiari che minacciano rappresaglie legali. Vito Battigelli, medico di base, ha perso la madre, Lida, esule istriana, entrata per riabilitazione post ospedaliera in una struttura privata convenzionata. “In febbraio stava bene, a metà marzo bloccano l’ingresso ai familiari. Anche gli operatori sono contagiati e scopro che la situazione è ingestibile, ma non posso né vederla né intervenire. Gli anziani cominciano a morire” spiega il medico. “Il 28 marzo, un minuto dopo mezzanotte, mi chiamano per dirmi che mia madre è deceduta di polmonite - racconta Battigelli- Il corpo viene catalogato come infetto, ma il test per il virus non l’hanno mai fatto. Sto preparando un esposto per accertare eventuali negligenze e responsabilità”.

Sergio Harari per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2020. Mi ero appena seduto al mio posto, a debita distanza di sicurezza dagli altri, in una riunione istituzionale sull' emergenza sanitaria, quando mi hanno telefonato per avvisarmi che ero positivo al tampone per il Sars - Cov-2. Benché stessi bene l' esame era stato eseguito per ragioni di controllo epidemiologico. Così un po' incredulo, un po' stordito, mi sono alzato dalla mia sedia e sempre a debita distanza ho avvisato qualcuno in modo che non sembrasse maleducato il mio improvviso allontanamento e me ne sono andato. Mi sono sentito come se si fosse accesa una luce rossa e fossi stato bruciato, via, non sei più nel gioco dei normali, sei un replicante anche tu. Ho preso il mio scooter e sono tornato a casa, dove da molte settimane sono isolato dalla mia famiglia, per fortuna rimasta in un' altra località. Solitamente quando rientro mi fermo qualche minuto ai giardini vicino a dove abito per respirare un po' di aria di primavera, guardare gli alberi fioriti mentre faccio due telefonate, questa volta no, non si può più. Niente giardini, niente momento di libertà, niente profumo di primavera, subito a casa per iniziare la quarantena. Avviso mia moglie, mi sfiora l' idea di non dirle nulla ma sarebbe troppo complicato da sostenere, ovviamente è più preoccupata che mai, mentre comunico ai miei referenti in ospedale la situazione. Rassicuro tutti, sto bene, o sono un portatore asintomatico o sono in fase di incubazione ma so perfettamente cosa devo fare nelle prossime ore e tutti i miei collaboratori sanno come attuare il piano che abbiamo previsto nel caso di una mia malattia. Non sono preoccupato, essere freddo è il mio modo di reagire a situazioni di stress, ma sono arrabbiatissimo per questo virus che ti frega sempre anche quando meno te lo aspetti. Sapevo dei controlli sul personale sanitario e li ritenevo utili ma, per un qualche motivo, mi ero convinto che sarei risultato negativo al test. I miei collaboratori per preservarmi si erano fatti carico delle attività a maggiore rischio di contagio evitando che io mi esponessi in prima persona, mi avevano detto che era importante che non mi ammalassi, avendo la responsabilità del coordinamento di tre diversi ospedali, ma malgrado le loro attenzioni ora sono positivo. Meglio diventarlo adesso che nella prima fase, quando lo tsunami virale aveva investito tutta la Lombardia, e dovevamo organizzare l' emergenza, ma proprio non me l' aspettavo. Magari, se mi andrà bene, diventerò anche immune senza sviluppare la malattia, ma certo questo virus, oltre a seminare morte e disastri, è davvero infido. Ti colpisce alle spalle in modo inatteso e ti inchioda a una vita da recluso, quando va bene e non ti regala i sintomi. Domani cercherò di organizzarmi per lavorare da casa, per quel che si può, ma certo non sarà la stessa cosa, mentre decine di amici si offrono di farmi la spesa e portarmi aiuto. L' affetto e la solidarietà sono doni straordinari in questi momenti ma resta la rabbia per un nemico vile e traditore.

"Io, sopravvissuto non dormivo per paura di morire". Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa: 42 anni, atleta e istruttore di arti marziali, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona. Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Fausto Biloslavo, Martedì 07/04/2020 su Il Giornale. Il sopravvissuto sta sbucciando un'arancia seduto sul letto di ospedale, come se non fosse rispuntato da poco dall'anticamera dell'inferno. Maglietta grigia, speranza dipinta negli occhi, Giovanni Ziliani è stato dimesso mercoledì, per tornare a casa: 42 anni, atleta e istruttore di arti marziali, il 10 marzo ha iniziato a stare male nella sua città, Cremona.

Trieste, il fronte del virus che... Cinque giorni dopo è finito in terapia intensiva. Dalla Lombardia l'hanno trasferito a Trieste, dove un tubo in gola gli pompava aria nei polmoni devastati dall'infezione. Dopo 17 giorni di calvario è tornato a vivere, non più contagioso.

Cosa ricorda di questa discesa all'inferno?

«Non volevo dormire perchè avevo paura di smettere di respirare. Ricordo il tubo in gola, come dovevo convivere con il dolore, gli sforzi di vomito ogni volta che cercavo di deglutire. E gli occhi arrossati che bruciavano. Quando mi sono svegliato, ancora intubato, ero spaventato, disorientato. La sensazione è di impotenza sul proprio corpo. Ti rendi conto che dipendi da fili, tubi, macchine. E che la cosa più naturale del mondo, respirare, non lo è più».

Dove ha trovato la forza?

«Mi sono aggrappato alla famiglia, ai valori veri. Al ricordo di mia moglie, incinta da 8 mesi e di nostra figlia di 7 anni. E poi c'erano gli angeli in tuta bianca che mi hanno fatto rinascere».

Gli operatori sanitari dell'ospedale?

«Sì, medici ed infermieri che ti aiutano e confortano in ogni modo. Volevo comunicare, ma non ci riuscivo perchè avevo un tubo in gola. Hanno provato a farmi scrivere, ma ero talmente debole che non ero in grado. Allora mi hanno portato un foglio plastificato con l'alfabeto e digitavo le lettere per comporre le parole».

Il momento che non dimenticherà mai?

«Quando mi hanno estubato. É stata una festa. E quando ero in grado di parlare la prima cosa che hanno fatto è una chiamata in viva voce con mia moglie. Dopo tanti giorni fra la vita e la morte è stato un momento bellissimo».

Come ha recuperato le forze?

«Sono stato svezzato come si fa con i vitellini. Dopo tanto tempo con il sondino per l'alimentazione mi hanno somministrato in bocca del tè caldo con una piccola siringa. Non ero solo un paziente che dovevano curare. Mi sono sentito accudito».

Come è stato infettato?

«Abbiamo preso il virus da papà, che purtroppo non ce l'ha fatta. Mio fratello è intubato a Varese non ancora fuori pericolo».

E la sua famiglia?

«Moglie e figlia di 7 anni per fortuna sono negative. La mia signora è in attesa di Gabriele che nascerà fra un mese. Ed io sono rinato a Trieste». 

Dagospia il 3 aprile 2020. Da “i Lunatici – Radio2”. Un raggio di speranza nella notte di Rai Radio2. Alle 4.10 di questa notte il signor Giovanni ha chiamato lo 063131 per parlare con I Lunatici Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio. "Sono Giovanni, vi chiamo dal Cotugno di Napoli. Riesco a parlare dopo giorni e voglio farlo con voi perché mi avete aiutato moltissimo facendomi compagnia in queste notti difficili. Sto sconfiggendo il Covid. Sembrava tutto perduto, ma mi hanno sottoposto a una terapia sperimentale che mi sta salvando. Mi sono accorto di avere la febbre il quindici marzo. Dopo qualche giorno mi hanno ricoverato. Sono stato malissimo. Quattro giorni fa mi hanno sottoposto a una terapia sperimentale. Sembrava tutto perso e invece ora sto meglio. E' la prima volta che parlo. Voglio raccontare a voi questa cosa perché non sapete quanto mi avete fatto compagnia in queste notti. Non avete idea di quanto la radio sia importante anche in certi momenti. E' come se fosse calata una piastra d'acciaio che mi ha separato da tutto quello che prima non era. Al Cotugno con me sono stati degli angeli". La telefonata si è chiusa dopo pochi minuti con la palpabile emozione dei conduttori che hanno notato la fatica che Giovanni faceva a parlare. "Ci hai emozionato questa notte", hanno detto Arduini e Di Ciancio. Augurando a Giovanni, affaticato ma felice per la vita ritrovata, di tornare a farsi sentire nei prossimi giorni.

Francesco Gastaldi per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020. «Ho toccato con mano la validità del nostro sistema sanitario e del suo personale. Se non avessimo queste eccellenze io credo avremmo contato tre volte i morti che abbiamo oggi». Il prefetto di Lodi Marcello Cardona (ex arbitro) è tornato nel suo appartamento nel palazzo del governo mercoledì pomeriggio. Il San Raffaele lo ha dichiarato guarito dal Covid-19 e dimesso dopo 20 giorni di degenza. Era stato tra i primi a intervenire sull' emergenza, quando esplose il focolaio a Codogno e anche il primo prefetto italiano ad ammalarsi e finire in rianimazione.

Cosa le rimane di questa esperienza?

«Ho vissuto momenti difficili, che mi hanno accomunato a quello che stanno soffrendo tante famiglie italiane. Devo solo dire grazie alla capacità e all' abnegazione degli ospedali che mi hanno preso in carico, prima a Lodi e poi il San Raffaele, stanno facendo un lavoro straordinario. E anche la vita che conduco, le mie passate esperienze da atleta (è stato per anni arbitro in serie A, ndr ) probabilmente hanno rafforzato il mio sistema immunitario».

Quando si è ammalato?

«Durante la gestione della zona rossa del Basso Lodigiano. L' 1 marzo è emerso che un medico che partecipava alle riunioni in centrale operativa era positivo. Così abbiamo disposto il test per tutti. Il 5 marzo il risultato: positivo io e undici collaboratori».

Cosa è successo dopo?

«Ho dovuto chiudere centrale operativa e prefettura e abbiamo proseguito dall' isolamento domiciliare. Io sono andato avanti a lavorare per tutta la settimana dall' appartamento riservato al prefetto. Poi è iniziata la febbre. Insistente e fastidiosissima».

L' hanno subito ricoverata?

«Ho avvertito le autorità sanitarie e tra sabato e domenica ho sostenuto gli esami all' ospedale Maggiore. La respirazione è improvvisamente crollata così mi hanno portato al San Raffaele, dove sono stato ricoverato in rianimazione con ventilazione assistita. Avevo un' insufficienza polmonare del 70 per cento».

Ha avuto paura in quei giorni?

«Preferisco evitare. Posso dirle di aver toccato con mano tutto il dramma delle persone ricoverate in corsia, ma anche il livello eccezionale di preparazione e di abnegazione del nostro personale sanitario. Stanno salvando vite in modo straordinario e senza mai risparmiarsi».

Quanto è rimasto in ospedale?

«Venti giorni, di cui sei in rianimazione e due settimane in medicina. Mi hanno dimesso dopo due tamponi negativi».

Ha avuto modo di mantenere i contatti con il territorio durante la degenza?

«A parte i giorni più duri, sono sempre riuscito a parlare con la mia famiglia e seguire attraverso i miei collaboratori l' andamento dell' emergenza».

È già tornato al lavoro?

«Si, ovviamente da casa perché sono ancora in convalescenza. Ma conto di tornare al mio posto in settimana. Ci sono tante cose da affrontare con i sindaci del territorio».

Nel Lodigiano il picco sembra superato. Decretare la zona rossa fu una scelta corretta?

«Chiudere una zona con quasi 50mila abitanti non è una decisione che si prende a cuor leggero. Alla prefettura è toccato il compito di spiegare e far rispettare le ordinanze in un momento in cui il virus era nella sua fase iniziale e più pericolosa. Avevamo aziende importanti, parte di filiere internazionali e per cui abbiamo chiesto deroghe, una miriade di piccole imprese. Sicuramente in certi momenti si potevano prendere decisioni migliori, ma in un territorio che ha pagato un prezzo pesantissimo al contagio, alla fine sembra che la situazione sanitaria stia dando ragione alle scelte fatte».

Ci sono però ancora tante, troppe persone denunciate per non aver rispettato le disposizioni di isolamento e distanziamento sociale.

«Ci sono ancora dei casi, e verranno perseguiti, ma mi conforta il fatto che la stragrande maggioranza dei cittadini ha capito. E nonostante gli enormi sacrifici loro richiesti seguano le regole».

Da repubblica.it il 3 aprile 2020. Quella fotografia era diventata un'immagine simbolo nelle prime settimane dell'emergenza. Elena Pagliarini, infermiera del Pronto soccorso dell'ospedale di Cremona, era stata fotografata da un collega medico quando a fine turno, sfinita, si era addormentata con la testa sulla tastiera del computer, con la mascherina e il camice ancora indosso. Dopo quella fotografia l'infermiera ha scoperto di essere positiva ed è stata posta in isolamento, in attesa di guarire. Oggi - come racconta il sito Cremonasipuò, laboratorio politico del sindaco di Cremona Gianluca Galimberti - dopo un primo tampone con esito negativo aspetta il responso del secondo. Se anche questo dovesse essere negativo potrà rientrare al suo lavoro, con i colleghi che da settimane sono in emergenza coronaviurs. "Era l'8 marzo, le 6 di mattina, la Festa della donna - ricorda Elena, 43 anni, dal 2005 in ospedale -. Durante la notte era successo di tutto, una notte fatta di corsa tra i letti dei pazienti gravi che con i loro sguardi angosciati chiedevano aiuto e non capivano cosa stesse succedendo. Avevo anche pianto". La foto è stata scattata, un'ora prima della fine del turno cominciato alle 9 della sera precedente, da un medico, la dottoressa Francesca Mangiatorti. "Non me ne sono accorta - continua l'infermiera -. Poco dopo l'istantanea è stata pubblicata su Facebook e da quel momento è iniziato il tam-tam". Il 10 marzo ha fatto il tampone, dal 13 è partito l'isolamento. Racconta sempre al sito Cremonasipuò: "Tutti i giorni mi sento con le mie colleghe, la mia seconda famiglia. Siamo un bel gruppo. Non parliamo mai di lavoro perché loro non vogliono preoccupare me e io non voglio preoccupare loro". Elena vive da sola. "Sto benissimo, grazie al cielo non ho nessun tipo di disturbo, a parte la mancanza del gusto e dell'olfatto. La quarantena è pesante ma mi anche dato modo di fare lunghe riflessioni, un lavoro di introspezione. Ho riscoperto il piacere di stare a casa e ritrovato quello di leggere. Per ammazzare il tempo ho sistemato gli armadi". L'attesa del secondo tampone è carica di progetti: "Non vedo l'ora di tornare in mezzo ai miei colleghi e alla mia professione, una professione che adoro. Tutti i giorni si rischia, ma è il mestiere che ho scelto, una scelta di cui sono fermamente convinta. Mi spaventa, invece, psicologicamente l'idea di incontrare gli sguardi che ho visto quella volta. Non li dimenticherò mai, mai. Ho ancora tanta angoscia nel mio cuore. Ho perso degli amici e il papà di uno di loro. Quando tutto questo finirà, dovremo guardarci intorno e vedere chi è rimasto. Ho paura che mancherà qualcuno di cui non mi sono accorta". Nei giorni scorsi l'infermiera ha mandato un messaggio al sindaco Galimberti, anche lui in isolamento essendo risultato positivo: "Volevo augurargli, essendo in quarantena anche lui, buona guarigione e ringraziarlo per ciò che sta facendo per l'ospedale e la città. Lo sento molto vicino. Tutto qui".

Dagospia l'11 marzo 2020. Alberto Dandolo su Instagram: Solo questa mattina, dopo 36 ore di ricovero, ho potuto tirare un sospiro di sollievo avendo ricevuto l' esito del tampone ( test ripetuto 2 volte ) e quello di tutta una serie di accertamenti, che conferma la mia negatività al Covid-19. La preoccupazione è stata grande perché tutta una serie di sintomi e valori (soprattutto quello legato al livello di saturazione emoglobinica arteriosa, ossia dell'ossigeno presente nel sangue) non lasciavano ben sperare, tanto che è stato necessario fare ben 2, dolorosissimi, prelievi sanguigni dalle arterie. Ma oggi la conferma definitiva della negatività. Quindi da qualche ora sono a casa. Non sono obbligato alla quarantena ma cercherò di uscire solo per far la spesa. E' probabile, mi hanno detto I medici, che nelle scorse settimane sia entrato in contatto con il virus in forma lieve e che il mio sistema immunitario sia stato in grado di combatterlo. Sta di fatto che è tutto ok.

Renato Coen per tg24.sky.it il 29 marzo 2020. La sera del 10 marzo l’ospedale Sacco mi sembra una città sterminata. Ho 39 di febbre e giro a piedi per le strade vuote tra i padiglioni ospedalieri alla ricerca di un edificio che non riesco a trovare. La tosse e la febbre non aiutano la mia lucidità. Ho appuntamento per fare un tampone dopo due giorni di febbre alta e tosse. Dopo mezz’ora di ricerca la vista del dottore con cui avevo concordato di incontrarmi mi sembra la fine di un incubo. Tutto si sarebbe risolto. Avrei fatto il tampone, sarei tornato a casa, così mi era stato detto, e il giorno dopo avrei avuto la prova che avevo solo preso un’infreddatura dovuta a troppa leggerezza nel vestirmi. Milano e il suo clima ancora mi sorprendono.

Entro con la mia guida nel pronto soccorso. La signora all’accettazione mostra poca disposizione e pazienza. Si innervosisce quando non capisce le mie parole frenate dalla mascherina. Ma nello stesso tempo non sopporta quando sono io a chiederle di ripetere le sue, anche esse smorzate dalla sua di protezione. Il vetro che ci divide è un’ulteriore barriera. Indispensabile però. Salvavita per lei, garanzia per me.

Ho una sete enorme e ho bisogno di sedermi, sono disidratato, febbricitante e stanco. Le chiedo se per favore posso allontanarmi di dieci metri a prendere una bottiglia d’acqua alla macchinetta. Mi guarda come se l’avessi insultata. Capisco che non è aria e aspetto. Non trova il mio nome e il mio numero sanitario nel sistema. Dopo due minuti lei si gira e io scappo! Vado alla macchinetta. Apro una bottiglia d’acqua e mi sembra di tornare come nuovo!

Intanto il dottore che mi ha accolto è all’interno ad aspettare e a organizzare il tampone.

Finalmente il mio nome acquista un’identità anche per la responsabile dell’accettazione. Anche per lei esisto. Altro buon segno.

Entro nel reparto di pronto soccorso e mi fanno subito accomodare. Mi prelevano il sangue, mi infilano il tampone nel naso, poi mi portano a fare le lastre ai polmoni. I sintomi preoccupano.

Chi mi fa le analisi però sorride e scherza, mi tira su di morale, si scusa per il fastidio provocato dal tampone infilato nel naso. Ringrazio e mi chiedo cosa, alle 8 di sera possa ancora spingere al buonumore questi ragazzi così sotto pressione.

“Questa sera lei rimane qui”. Mi dicono però con lo stesso sorriso.

“Ma come! Mi avevano detto che avrei atteso a casa l’esito”.

“Non se ne parla, ha la febbre alta, se tutto va bene va a casa domattina”.

Mi portano in uno stanzone attiguo, neanche una corsia d’ospedale. È solo una grande sala con letti di ultima generazione dove sono poggiati altri tre pazienti, ognuno sospeso in attesa di giudizio.

L’attesa mia, dei miei familiari e dei miei colleghi sale. Per tutti un’eventuale positività vorrebbe dire quarantena. Mia moglie e mia figlia sono a Roma da qualche giorno, già chiuse in casa. Il tg dove lavoro dovrebbe chiudere da un momento all’altro per far scattare un piano di emergenza che gli consenta di andare in onda nonostante tutto. Per continuare ad informare. Trasmettere in un assetto precario dalla piccola redazione di Roma invece che dalla grande di Milano. Con decine di colleghi improvvisamente inattivi e costretti in casa a causa della mia positività.

No, sarebbe troppo complesso. Una cosa troppo grande. Tutto per un po’ di febbre. Andrà tutto bene mi dico. E mi rilasso, se non fosse che una volta dissetato mi manca ciò che ormai a noi esseri umani è vitale quanto l’acqua: la carica del cellulare! Stupidamente l’ho lascata a casa convinto di tornare. Da fuori continuano a chiedermi notizie e il 24% che lampeggia mi fa pensare ad una clessidra dove la sabbia scende troppo velocemente.

Dopo un’ora arriva un’infermiera, anche lei ha voglia di scherzare. Mi guarda e mi dice: “Ho i risultati delle lastre: buone notizie, i polmoni stanno bene!”

“Ottimo, grazie!”

“Le analisi del sangue invece….

“Invece?....”

“Invece Pure! Ah ah ah ah! La trasportiamo al piano di sopra tra quelli che stanno bene, in attesa del risultato del tampone che arriverà domani mattina”.

Fa pure l’ironica, penso! E lo penso con ammirazione, anche se in quei due secondi di pausa scenica, il suo spirito non mi ha divertito moltissimo.

Già mi sento parte di “coloro che stanno bene”, tutto andrà a posto, deve passare la notte, e che il cell resista!

Spostato al piano di sopra inizio a capire cosa vuol dire isolamento. Sono un potenziale positivo al coronavirus. Mi mettono in una stanza da solo, mi indicano guanti e mascherina e mi dicono di metterli nel caso qualche operatore sanitario entri in stanza. Mi portano del cibo in una busta di plastica, ma non in stanza, me lo lasciano fuori e mi dicono da oltre la porta di aprire e prenderlo non appena si sono allontanati. Non ho molto appetito, ma mangio il pasto che mi viene portato dall’operatore sanitario che trionfante annuncia: l’ha preparato Cracco! Altre risate, altri scherzi. A distanza, con guanti e mascherina, divisi da una porta chiusa. Ma forse proprio per questo la battuta è più apprezzata.

Mangio. Do le news del caso a moglie e capi del lavoro, spengo il telefono e mi metto a dormire, distrutto, ma in fondo ottimista….

Ore 6.30. Non so perché ma già sono sveglio. Oggi qualcosa succede, è inevitabile che non poltrisca in un’anonima stanza di pronto soccorso ancora mezzo vestito su un letto ancora fatto. Sento ancora la febbre e il fiato corto. Accendo il telefonino che dopo qualche istante si mette a vibrare per l’arrivo di un messaggio. È il dottore che mi ha fatto fare il tampone.

Porca miseria! Il primo pensiero? Non la mia salute. Ma la notizia in sé. Le conseguenze che questo vuole dire per decine di persone. Mia moglie e mia figlia, il dispiacere, il disagio, il senso di sfida, la novità della prova da superare per la mia famiglia e più ancora i miei colleghi. Il primo pensiero è la portata del cambiamento che il risultato di quel tampone implica per decine di persone, è questa la notizia. E in un gusto quasi perverso, penso per un baleno che è una notizia che per ora conosco solo io!

A parte le psicopatie professionali sono ben deciso a condividere al più presto la novità. Chiamo i responsabili e amici del tg, li sveglio e li avviso. “Buona fortuna ragazzi!” Penso. Loro cercano solo di tranquillizzarmi ed essermi di aiuto e conforto. Io mi sento confuso ed ho bisogno di parlare con mia moglie.

Mi tranquillizza anche lei. È incredula, come me. La sento sorridere. Mi aiuta.

La mattina parte presto in ospedale, mi tirano fuori altro sangue, poi mi portano il tè. E non ci sarebbe nulla di male, se non fosse un po’ di liquido in un piatto fondo di carta. “Come i gatti!” Mi dice un amico che in quel momento mi aveva chiamato! Beh sì, non riesco neanche a inzuppare il biscotto. Le dotazioni in emergenza sono quel che sono… E chi se ne frega, in effetti.  Dovrei preoccuparmi di ben altro.

Dovrei preoccuparmi ad esempio del fatto che la febbre non scende e che lo strumento per vedere la saturazione del sangue dà un livello d’ossigenazione troppo basso. In dieci minuti mi mettono le cannule d’ossigeno al naso.

Mi chiama il medico che mi ha ricoverato per chiedermi se posso rimanere in isolamento a casa, alla mia risposta entusiasta mi chiede qual è al momento il mio stato. Gli dico dell’ossigeno. “Allora niente da fare, la ricovero, come non detto, arrivederci”.

Ci siamo, mi dico, mi serve tutto, non solo la carica del cellulare, che nel frattempo sta consumando i suoi ultimi istanti di vita.

Arriva un medico, o un infermiere, sono tutti così bardati e protetti che non riconosco sempre i loro ruoli dall’abito. Mi spiega che temono mi si stia sviluppando la polmonite. “Anzi forse già ce l’ha, per questo le abbiamo messo l’ossigeno”. La voce in effetti mi si sta abbassando e immagino sia un esito inevitabile.

Avviso mia madre, avviso mia moglie e i miei capi che vogliono essere aggiornati. Riesco a dare le ultime istruzioni a chi si offre miracolosamente di portarmi una carica del cellulare. E poi il telefono muore ed io inizio la mia attesa. Attesa del principio ufficiale del mio ricovero, finché non mi trasferiscono nel primo girone dei malati ufficiali di coronavirus.

Alle 14 circa, dopo un breve tragitto in ambulanza all’interno del Policlinico vengo accolto con cortesia e sorrisi al secondo piano del padiglione 56. Ho imparato il mio “indirizzo” ascoltandolo da chi mi accompagnava.

Mi sistemano in una stanza doppia, mi mettono al letto e mi riprendono tutti parametri del caso. C’è una dottoressa, molto rassicurante. Afferma che la polmonite per ora non ce l’ho, la febbre sì, alta, e quella per ora è il problema, mi toglie l’ossigeno e poi aggiunge: “Da questa sera inizieremo una cura antivirale, sarà un po’ dura ma abbiamo visto che è efficace”. La ringrazio. Lei esce.

Mi giro verso il mio compagno di stanza che mi dice: “Minchia quelle pasticche sono delle bombe assurde, mi hanno distrutto. Ma ora sto bene e mi stanno dimettendo”. Infatti in mezz’ora se ne va e rimango solo, a cercare di capire dove sono finito. Dove sto andando.

Non sono ancora preoccupato. Il respiro non va molto bene. Ma sarà per tutti i rivolgimenti della giornata, per l’atteggiamento rassicurante dei sanitari, sarà la solidarietà ricevuta da fuori, ma tutto per ora non mi sembra altro che un’avventura, spiacevole ma non drammatica, alla mia età posso superarla tranquillamente.

Miracolosamente arriva anche un caricabatterie. Riattacco il telefono. E scopro che come uno tsunami frantumatosi in milioni di rivoli d’acqua la notizia della mia malattia e del mio ricovero ha fatto il giro non solo di tutte le persone che mi conoscono e che mi vogliono bene, ma anche di quelle che mi conoscono solo di vista, o che non hanno rapporti con me da anni, o che neanche mi vogliono bene!

Evidentemente dalle comunicazioni ufficiali del mio Tg la notizia è uscita su qualche sito di informazione on-line, e di lì il passaparola è molto breve. Mi chiama una giornalista di un’agenzia di stampa che inizia a chiedermi informazioni sulla mia anamnesi. Prima le rispondo cordialmente, poi cerco di farle capire di aver bisogno di un minimo residuo di privacy. Mi chiama una radio che cerca di ironizzare, un po’ a sproposito, su quanto mi sta accadendo, e mi scrivono decine e decine di persone. Chissà perché, decido bisogna rispondere a tutti, ringraziare ognuno, non tralasciare nessuno. Rispondo al telefono, parlo, scrivo, sono diventato pr di me stesso.

Il problema è che chiunque lavori in tv seppure abbia un pubblico ridotto amplifica l’evento che gli accade, suo malgrado. E così una malattia che colpisce decine di migliaia di connazionali, spesso in maniera molto più invasiva di quanto non stia accadendo a me, è diventata da qualche parte nel mondo dell’informazione un’ennesima piccola notizia da dare. Chi non mi conosce neanche la nota, chi mi conosce, seppur lontanamente invece sì, e lo dimostra facendo vibrare il mio telefonino.

Passano così le ore con la febbre che non scende, il respiro che resiste, ed io concentrato non sul Covid-19 ma nel tranquillizzare chi mi scrive allarmato.

Alla sera si apre la porta ed entra il mio nuovo compagno di stanza. È in sedia a rotelle. Attaccato all’ossigeno. Lo stendono sul letto accanto a me, mentre lui tossisce, tossisce, di una tosse secca e senza tregua. Lo saluto e capisco subito che non sta bene.

Intorno a lui due operatori sanitari protetti da camice, mascherina, cuffia e guanti lo posano sul letto. Un infermiere gli dà gentilmente le istruzioni base e gli offre le prime medicine del caso. Lui ringrazia. Non ha la forza di essere gentile, sta male. Ha una doppia polmonite.

Nello stesso tempo l’infermiere mi mostra un numero di telefono appeso al muro di fronte al letto. “Se hai bisogno di qualcosa non suonare il campanello, prendi il cellulare e chiama quel numero. Rispondiamo noi qui in reparto. Così è più facile. Tu già ci dici di cosa hai bisogno e noi veniamo da te in stanza già attrezzati. In questa maniera ci vestiamo una sola volta per venire. Altrimenti dobbiamo entrare, chiedere cosa desideri riuscire e poi rientrare e le vestizioni si moltiplicherebbero”.

Queste sono le regole in un reparto di malattie infettive. Questo è il minimo che può consentire ad un operatore sanitario, un infermiere, un medico di poter continuare a svolgere il proprio lavoro in relativa sicurezza.

La mia stanza ha un’anticamera.  Una sorta di camera di decompressione dove chi si occupa di noi deve prepararsi.  Questo spazio in realtà dà accesso a due stanza gemelle.  In una ci sono io col mio nuovo compagno, nell’altra una coppia di signore.

Chi entra da noi si prepara nell’ingresso mettendosi una cuffia, una mascherina, accompagnata spesso un’ulteriore protezione di plastica solida messa a mò di barriera a proteggere bocca e naso, due paia di guanti monouso, ed un camice verde impermeabile.

Appena trattato un paziente, ancora in stanza, gli operatori si tolgono una delle due paia di guanti che indossano. Con un igienizzante si lavano le mani che ancora calzano gli altri guanti ed infilano un nuovo paio di guanti per fare il resto del lavoro.

“Così trovare la vena per prenderti il sangue è impossibile!” Quasi si giustificano ogni tanto, non riuscendo con due strati di lattice addosso ad avere la giusta sensibilità per infilare un ago.  Il caldo che soffrono mentre lavorano, lavano i malati, rifanno i letti, puliscono pazienti non autosufficienti, distribuiscono terapie, e confortano, è a volte insostenibile. Ma sorridono, ci scherzano su e quasi a volte sono tentati di darti una carezza.

Il mio vicino di letto non ha voglia di parlare. Ma di lamentarsi sì, e lo capisco. Io d’altra parte, da quando la sua sofferenza è entrata dalla porta sono come inibito. Ho paura di scrivere i messaggi per non sembrare indifferente e asociale. Parlo con i miei familiari con un filo di voce. Loro si preoccupano, mi chiedono se mi sento male, ed io mi accorgo che lo faccio per non disturbare chi mi soffre accanto. Del resto è uno scrupolo senza senso e infondato. L’uomo di fianco a me pensa a tutto meno che a me e a quel che racconto a mia moglie. Cerca di trovare un equilibrio tra la maschera d’ossigeno che paradossalmente gli dà un senso di soffocamento e l’esigenza di respirare meglio proprio attraverso di essa.

Si chiama Mauro. Porta con un gran fisico asciutto i suoi 58 anni di uomo allenato. Mi parla del suo compagno, che è a casa e si preoccupa per lui. E tossisce, forte, devo ammettere senza grande attenzione a me che gli sono steso a poco più di un metro.

Lui non ha forza, umore e tempo per preoccuparsi di altri che non siano il suo malessere. Io invece sì! Sto meglio di lui. Vedo a sera inoltrata un’infermiera che entra in stanza irriconoscibile ed iper coperta, lui tossisce, ed io penso: “Ma perché devo essere l’unico idiota che non ha un filo di protezione di fronte a questo zampillare di particelle di Coronavirus?” La risposta è ovvia: Sono una grande particella zampillante di Coronavirus io stesso, e quindi da cosa mi proteggo? Da un mio simile? Il mio corpo sta già combattendo, lui non può farmi e trasmettermi niente che non abbia già. Sì, questo razionalmente, ma se qualcuno del mestiere me lo ripetesse la cosa mi aiuterebbe. Impossibile però. Il mio coinquilino è lì, silenzioso in grado di sentire qualsiasi cosa dico. Non ho privacy e di fronte a lui non ho certo il coraggio di rivolgere questa domanda a nessun infermiere medico od interlocutore telefonico.

Mi ritrovo però, in un gesto un po’ infantile a proteggermi con tutta la testa sotto le coperte in coincidenza con gli accessi di tosse più violenti, quando Mauro si toglie la maschera e magari si alza mettendosi seduto sul letto, ovviamente rivolto verso di me.

Così, amabilmente passa la mia seconda serata all’ospedale Sacco. In un certo senso fortunatamente la febbre mi regala quel torpore e quel sonno che mi consentono di addormentarmi senza problemi.

La mia febbre sta iniziando a scendere e salire con pendenze vertiginose da luna park. Hanno iniziato a darmi tre pasticche di cosiddetti antivirali, medicine che non tardano a far sentire i loro effetti collaterali. E poi tachipirina, senza risparmio, appena la febbre supera i 38. Mi sveglio la mattina in un bagno di sudore a causa dell’antipiretico, mi cambio, mi rinfrescano letto e lenzuola e tempo un’ora la febbre torna a salire.

Gli antivirali devo prenderli la mattina a stomaco pieno e la sera dopo cena. Il fatto che mi siano stati subito somministrati da un lato mi rassicura, dall’altro mi pone delle domande cui non so rispondere. Ma c’era bisogno? Li danno a tutti? In fondo non potrei cavarmela come fosse una normale influenza? Chi sta come me spesso sta a casa, perché c’è bisogno che io sia ricoverato?

Sono domande senza risposta che piano piano scavano un piccolo solco nel mio stato d’animo. Mentre il mix di antivirali inizia gradualmente a farsi sentire.

Lo stomaco mi si chiude. Poi vengo avvolto da un senso di nausea che mi accompagna in ogni minuto. Mi sento spossato e disgustato. Perdo le forze nonostante, lo sento, il virus pare abbia trovato buoni anticorpi a combatterlo. Ho un po’ di tosse, non respiro benissimo, ma capisco anche io che la polmonite è lontana. Per ora non è un mio problema.

Mi ricordo che il giorno prima mi hanno fatto firmare un consenso informato prima di somministrarmi il farmaco.

Si chiama Kaletra, intuisco che è quello utilizzato anche per tenere sotto controllo il virus dell’HIV.

Capisco che siamo sul terreno della sperimentazione. La mattina quando viene il medico nel suo giro quotidiano mi chiede come sto. Io mi mostro piuttosto su di tono anche se non posso nascondere la febbre. E lui mi spiega quanto sia importante che la febbre diminuisca. Poi con un’espressione dubitativa che traspare nonostante veda solo i suoi occhi che escono dalla mascherina, mi ripete: “Speriamo che la situazione non peggiori”.

Mi rendo conto che i medici per primi non possono avere risposte. Quelle risposte che ormai nella nostra epoca siamo abituati abbiano sempre pronte in tasca, per positive o negative che siano.

Qui vedo che ogni paziente è allo stesso tempo un assistito ed un osservato speciale, è al contempo un malato ed un caso scientifico da studiare.

Lo sento ascoltando i dialoghi tra Mauro, ricoverato accanto a me, i medici e gli infermieri. Sta provando una cura, che però non porta i suoi frutti. Gli aumentano l’ossigeno. Gli promettono poi di provare con altri farmaci. Parlano di una cura antivirale pregressa che prende da tempo, e piano piano capisco. Il Coronavirus non è il suo unico problema. Ha qualcosa di pregresso che sta già combattendo e che può complicare il suo decorso. Nonostante questo è arrivato alla sua età in ottima forma.

È chiaro che nel nostro microcosmo di una stanza a due letti il fortunato sono io.  Sono io “quello che sta bene”. Mi rendo anche conto che questo deve essere un pensiero costante e non di circostanza. Non sto rischiando nulla. Qualsiasi altra cosa abbia Mauro. Sono positivo al Coronavirus anche io e quindi non sto più rischiando di prendermelo. Quindi basta pensare a fantasmi inesistenti. I fantasmi non esistono. Ma il peso dell’isolamento sì.

Il silenzio in stanza è interrotto dai suoi colpi di tosse e dai miei dialoghi telefonici con mia madre, mia moglie e mia figlia.

Lei ha tre anni, non la vedo da troppi giorni. È a Roma, in isolamento, dentro casa, con mia moglie che nello stesso tempo lavora moltissimo in modalità smart working. Le video chiamate col papà sono un bisogno suo (spero!) ma sicuramente mio.

“Papà su alzati dal letto basta di fare il pigrone!!” Mi urla guardandomi dal cellulare. “Subito amore, ero solo un po’ stanco. Che hai fatto oggi?” “Sono molto triste perché mi si è rotta la bacchetta magica. Quando vieni a Roma me ne compri una grandissima??”. “Certo, te ne compro una enorme” “Cosaaa?? Perché parli con la voce strana? Lo sai che ho fatto la pipì tutta da sola senza pannolino? E pure la caccaaa!” “Br, ehm brava tesoro mio sei una campionessa”, “Papaaaaaa, se parli così non ti capisco!” “Ma c’è un signore vicino a me che  non sta molto bene e non posso urlare”. “Parla parla, tranquillo, non mi dà fastidio” mi dice Mauro. Allora un po’ mi disinibisco. Le prometto mega bacchette magiche, premi per i bisogni espletati autonomamente, lotte trionfanti da condurre insieme contro streghe e mostri!”.

Il senso di nausea intanto sale, mi sento sempre più uno straccio, non per il virus credo, ma per la sua cura. Lo stomaco si chiude sempre di più e la febbre continua a salire e scendere. Ho il termometro sul comodino. Tre volte al giorno vengono gli infermieri a farcela misurare, ma ci incoraggiano a tenerla sotto controllo da soli ed a chiedere all’occorrenza una Tachipirina per farla scendere. Mi sento quindi in uno stato sempre più trascurato. Perennemente caldo di febbre o sudato, finisco ben presto quei pochi cambi che sono riuscito a farmi arrivare. Mi sento sporco e poco curato. Non temo il peggioramento della malattia anche se nessuno mi assicura che ciò non accada, temo che il tempo non passi più.

Ed in effetti il tempo inizia man mano a diventare, insieme alla febbre, il mio nemico principiale. Mi è stata recapitata una settimana enigmistica ed un libro di Isaac Singer. Un po’ pesante per il mio stato d’animo. Le riflessioni sul senso di dio, della vita e della morte, le contraddizioni esistenziali degli ebrei newyorkesi degli anni 40 che assistevano da lontano al massacro dei loro cari in Europa, non sono facilmente sostenibili in questa fase del mio ricovero. Non ho nient’altro se non il telefonino. Ma dopo i primi giorni di estrema disponibilità e buona disposizione sociale i messaggi che ricevo iniziano ad alimentare quel senso di nausea che mi sta avvolgendo. Nonostante sia enormemente grato a chiunque mi scriva per mostrarsi vicino, e per chiedere informazioni, sono francamente stanco di leggere, e ancor di più di rispondere sempre alle stesse domande. Sono stufo di scrivere whatsapp su di me e le mie condizioni di salute. Sto perdendo l’ironia e la voglia di scherzare e quindi mi irritano anche coloro che mi mandano una battuta virale tristissima e chiosano immancabilmente il loro messaggio con un “Ti faccio fare due risate, così ti tiro un po’ su”, “Ma io non ho voglia di fare due risate!” Vorrei rispondergli, “E cosa ne sai che ho bisogno di essere tirato su! E se anche avessi voglia, quello che mi hai mandato non mi fa ridere!”

Mi rendo conto io stesso che questa irritazione è sintomo del fatto che un problema forse ce l’ho. Ma ancora non è così dirompente. Mi annoio un po’, sonnecchio e penso al disagio seguito alla mia positività. Faccio questo mentre la Kaletra continua rendermi sempre più debole e inappetente.

La mattina successiva, quando mi portano la colazione non posso neanche sentirne l’odore. Lo stomaco si è chiuso completamente e il senso di disgusto si è impossessato del mio corpo.

Come al solito sono zuppo di sudore a causa della Tachipirina. Arriva la signora delle pulizie, trova un piatto di plastica sporco sul mio comodino. “Questo lo butto io adesso, ma la prossima volta può farlo lei. Diamoci una mano!”. Sono mortificato. In effetti nella stanza c’è un grosso secchio dove vengono gettati carta, guanti e mascherine utilizzati e altri rifiuti. Lo uso anche io quando mi alzo, ma non sapevo dovessi mantenere io l’ordine.

“Intendiamoci – continua la signora – a me non dà fastidio buttare via le cose, ma in queste condizioni è meglio essere tutti più collaborativi”.

“Certo, ci mancherebbe, mi scusi ma non mi alzavo da un po’ e non avevo notato il piatto sul comodino”.

“Non c’è problema, io in genere sono amata da tutti i pazienti. Ci gioco, li abbraccio, stiamo bene insieme, ma in questa situazione non si può. Quello è il secchio, se non ti affatica quando puoi getta tutto lì”.

“Agli ordini, grazie”.

Capisco che non è facile neanche per loro. Si trovano a pulire e a muoversi, celati da tutte quelle protezioni, in un ambiente non molto ospitale. Con pazienti potenzialmente pericolosi per la loro salute. E loro, a differenza degli infermieri e degli altri operatori sanitari forse non hanno la necessaria esperienza e formazione, probabilmente neanche hanno scelto in quale reparto lavorare.

Diamoci una mano quindi, giusto. Chiedo più tardi ad una sua collega se può anche dare una passata di straccio in bagno. Lo condivido con Mauro e non sempre ho la sensazione che il lavandino ed il resto siano puliti dal precedente passaggio del mio coinquilino.

La tensione di chi lavora però è naturale. Ed io continuo a chiedermi con quale stato d’animo vengano tutti i giorni per trascorrere lunghi turni in reparto in quelle condizioni.

Col passare dei giorni e delle ore le infermiere diventano figure sempre più familiari. Non vedo la parte bassa del loro volto protetto, non posso che indovinare la loro corporatura celata dal camice verde prima ancora che dalla loro divisa, intravvedo il colore dei loro capelli, coperti e raccolti. Ma vedo bene i loro occhi. Le riconosco da quelli. Le classifico così. Quella con gli occhi neri tristi.  Quella con gli occhi chiari e sorridenti. Quella che sembra sempre felice e strizza gli occhi, quella con lo sguardo rassicurante. Poi ci sono gli uomini, di meno, forse più diversi fisicamente e più riconoscibili, anche loro però mi parlano più che altro con gli occhi.

Tutte, e dico tutte, quando entrano sorridono. Tutte sembra siano portate da una consapevolezza. Entrare in quelle stanze vuol dire provare a portare il sole.

Il sole, appunto. Un desaparecido. La finestra della stanza non dà sull’esterno, ma su un corridoio interno da dove eventuali visitatori possono venire a salutare i pazienti, protetti da un vetro che non si apre. La luce esterna penetra solo di riflesso da quel corridoio, le cui finestre danno comunque su un edificio molto vicino e più alto.

Insomma vedere il cielo è impossibile e lo è altrettanto capire che tempo faccia fuori.

Il “fuori” per noi chiusi in quelle stanze sono appunto le infermiere e le operatrici sanitarie che entrano.

Si mettono a fare i lavori più spiacevoli ridendo e scherzando. Invitano Mauro a muoversi. Lavano ciò che ha sporcato e gli danno sempre motivo di sorridere, o almeno ci provano.

Parlano degli effetti benefici che hanno le tute impermeabili sulla loro pelle. “Sai quest’estate che pelle liscia e vellutata! Sono camici miracolosi, altro che Spa!”. “Macché pelle liscia, io mi sento Chewbecka, il personaggio tutto peloso di Star Wars! Tutte le donne saranno così tra un mese”.  In effetti l’idea di Chewbecka fa molto ridere anche me. E non c’è bisogno di pensare alle signore, basta guardarmi in faccia con la barba di 5 giorni e i capelli che hanno completamente preso il controllo della mia testa, instaurando un regime anarchico senza legge che non sia quella del più forte.

Ridono, e portano l’energia di un mondo che intorno a noi sembra averla persa.

Un giorno parlo con Stefania, una di loro. Le chiedo come fa. Le se ha paura in una normale giornata di lavoro ad avere a che fare continuamente con gente quasi “intoccabile”, sempre a rischio di infettarsi. “Chi inizia a lavorare in un reparto di malattie infettive poi non vuole più fare altro” mi risponde, “Ti dà troppo ed è troppo interessante”. La situazione attuale però esce dalla normalità. La pressione del numero enorme di persone ricoverate per il virus arriva tutta sulle loro spalle, e la vita è diventata impossibile anche e soprattutto per chi lavora in ospedale.

“Ora è diverso però – continua – È un’emergenza senza fine, una cosa che non abbiamo mai visto. Per noi è dura, fisicamente, certo, ma anche psicologicamente. Quando torniamo a casa ci portiamo dentro i vostri occhi, i vostri sguardi. Non credere che sia facile poi tornare alla propria vita privata. In un certo senso rimaniamo sempre qui con voi”.

Stefania ha fretta di andarsene, non si può rimanere a fare conversazione nella stanza di un malato. Allunga una mano e col suo doppio guanto di gomma mi accarezza il braccio.

Se non mi sono mai sentito veramente solo in isolamento è stato grazie a persone come lei.

Un giorno Mauro in cerca di conforto, o di spaventose conferme ferma un’altra infermiera che lo aveva appena assistito in una cura. “Signora mi dica sta morendo tanta gente?”. Gli occhi di Angela cambiano e diventano lucidi: “A questo non posso rispondere, mi dispiace”. “Coraggio!” aggiunge, si toglie i guanti e lascia la stanza.

Mauro nel frattempo non riesce a migliorare, la cura in parte funzione ma le difficoltà di ossigenazione rimangono. Un giorno entra un medico e gli annuncia che verrà trasferito in un'altra stanza, dove potrà mettere un casco d’ossigeno che lo aiuterà a respirare meglio. Lui sembra pessimista, ma ha una buona forza fisica ed i medici sono nonostante tutto speranzosi. Chiede solo di essere ricoverato accanto al suo compagno, nel frattempo risultato positivo ed ospedalizzato anche lui.

Lo saluto un pomeriggio mentre lo trasportano via. Diceva che i rimproveri e i saluti di mia figlia che urlava dall’altra parte del telefono erano un piacere ed un’iniezione di vita. Per me era sicuramente così. Non so se gli siano poi mancati veramente…

Chiedo ad un infermiere venuto a sistemare la stanza se avrò un altro ospite e lì capisco la dimensione nella quale sono immerso e che non posso vedere.

“Certo che arriva qualcuno – mi spiega – sono appena arrivate due ambulanze ma siamo riusciti a sistemare i pazienti in un’altra stanza appena liberata. Questo è il quinto edificio riconvertito a reparto per malati di coronavirus. In origine qui c’era altro. Siete tanti e ne continuano ad arrivare. Fra qualche ora vedremo chi entra qui dentro”.

In realtà passa quasi un giorno, o meglio una sera ed una mattinata intere. Le uso per parlare più liberamente con mia moglie e la mia famiglia. Per essere più generoso di parole con mia madre che mi segue preoccupata da lontano. Per promettere un enorme Hula Hop a mia figlia che è convinta, a tre anni, alta un metro, di poterlo far volteggiare benissimo.

Il telefono per il resto lo guardo poco. Continuano ad arrivare messaggi di mera vicinanza ed altri in cui si chiedono notizie che, francamente, non ho grande voglia di dare. C’è anche chi si sente in dovere di informarmi sul suo stato di salute.  E non parlo di un collega positivo al virus, ma di chi mi scrive: “Ho un po’ di raffreddore anche io, ma rimango a casa, ti saluto”. Chissà cosa gli passa per la testa!

La chiusura in ospedale però inizia a farsi sentire.  Calcolo che è quasi una settimana che sono ricoverato. La situazione clinica sta decisamente migliorando. Mi sento di avere un buon respiro e la febbre sta scendendo. Anzi, è scesa sensibilmente. Non ho più picchi oltre il 39, viaggio tra il 37 e il 38 e mi curo con la tachipirina.

Sono molto debole però, perché non riesco a mangiare. La cura a base di Kaletra ha fatto il suo corso. Questa insieme al virus ha cambiato il mio senso del gusto, ha chiuso il mio stomaco definitivamente, mi dà un senso di spossatezza e nausea che prostrano. I medici hanno deciso di somministrarmi un ciclo di 5 giorni, dieci dosi in tutto. Conto le ultime e psicologicamente mi sembra di faticare sempre più ad ingerirle. Quasi fossero pesanti mattoncini.

Quando entra il signor Gianni in stanza il mio stato clinico è certamente confortante. Mi sento debole e disgustato, ma la febbre non è alta ed i medici seppur dubbiosi e di poche parole sembrano fiduciosi. Hanno decine di casi ben più gravi di cui preoccuparsi.

Gianni ha 87 anni sembra mal portati. Entra in barella. Non è presentissimo a sé stesso. Provo a salutarlo ma non risponde. Lo adagiano sul letto. E da quel momento inizio a sentire un rantolio, continuo, che non lo abbandonerà mai. Gli parlano a voce alta nell’orecchio, lui sembra capire, ma parla in modo poco comprensibile e confuso. Steso sul letto è immobile, capo rivolto a sinistra, e rantola di un respiro affannoso che non fa presagire nulla di buono.

Sono di nuovo in compagnia, si fa per dire. Ma la situazione inizia a pesarmi sempre di più.

Sarà lo stato fisico in cui mi trovo, ma qualsiasi cosa penso di fare mi provoca un senso di ulteriore rigetto.

Prendo in mano il telefonino, do un’occhiata ai messaggi di chi mi chiede notizie. Riesco a rispondere ad un paio di loro ma poi mi viene il disgusto di me stesso, dei termini utilizzati e dell’attività in sé.

Allora apro internet, provo a distrarmi. Prima notizia letta: “A 46 anni muore di coronavirus, La storia tragica di un giovane uomo”. Esattamente mio coetaneo. Mi deprimo ulteriormente.  Per lui, per quello che mi accade intorno, per il fatto che nonostante tutto capisco di non riuscire comprendere a fondo la dimensione di ciò che stiamo vivendo. Leggo un po’ il libro di Singer, ma mi fermo quando parla dei morti che ci guardano nella nostra quotidianità e di tutti noi appesi a un filo in attesa di andare nell’aldilà.

Poso il cellulare e guardo nel vuoto. Il rantolio di Gianni accompagna il silenzio. Col tempo capisco che è un suo modo di respirare in parte anche pregresso all’infezione di Coronavirus. Non è attaccato all’ossigeno, non credo abbia la polmonite, ma certamente non sta bene.

Inizio a capire che con l’andare dei giorni sono sempre più bloccato psicologicamente.  Quella sensazione di disgusto per qualsiasi cosa pensi di fare è una spia che indica che sono in riserva. Riserva di buon umore, di carburante da bruciare per rinfrancare lo spirito, riserva di pazienza. Non ho mai avuto la sensazione, dall’inizio del ricovero, di vivere un’esperienza dura e particolarmente provante. Ho sempre pensato che mi stesse sostanzialmente andando bene. La mia unica ossessione era di non ricevere da Roma la notizia che mia moglie si fosse ammalata. Per il resto ho sempre avuto la consapevolezza di stare abbastanza in forze, specialmente vedendo lo stato fisico di chi mi era attorno.

Ma evidentemente questi giorni mi stanno mettendo alla prova più di quanto creda. Inizio a provare un senso chiaro di claustrofobia. Continuo a chiedermi il perché non possa, nelle mie condizioni, tornare a casa in attesa che passi.

I medici una mattina sono molto chiari: “Noi non la dimettiamo finché lei ha la febbre. Quello per noi è importante. Quando le passerà la febbre andrà a casa”. Ora so chi è il mio nemico, o amico: il termometro!

E la febbre scende ulteriormente. Quando prendo la tachipirina passo diverse ore sotto il 37°. Ma non basta. Non deve essere necessario l’antipiretico, devo non avere la febbre, punto.

Le giornate diventano un’attesa ossessiva della misurazione della temperatura. Nel frattempo ho smesso la terapia antivirale. Non ne vedo ancora i benefici negli effetti collaterali, anzi inizio a temere che l’interruzione di quei farmaci potrebbe farmi peggiorare. Non ho paura di ammalarmi gravemente. Ho paura di non uscire presto dall’ospedale.

Una sera mi addormento con pochissime linee di febbre. Non prendo nessuna tachipirina. Mi risveglio con 36,5°. Ogni ora guardo il termometro speranzoso. Alle 10.30 il medico mi ripete: “Fino a ieri sera aveva la febbre, non la posso fare uscire, speriamo si mantenga sotto il 37 tutto il giorno”. E così inizia l’attesa, ossessiva, che il tempo passi e che la febbre non torni. Alle 12.30 ho 37.3°. E cado nello sconforto. Uno sconforto sproporzionato, probabilmente ingiustificabile. Mi sento un leone in gabbia. Anzi, un leone no, tutt’altro! Mi sento solo in gabbia. E sono di pessimo umore.

È allora che entra una gentile operatrice sanitaria. Sistema alcune cose intorno a Gianni. Poi mi guarda e mi dice: “Lei lavora in tv al telegiornale vero?”, “Sì signora”, “Beh lo sa chi è ricoverato nella stanza accanto?”. “No, mi dica”. “Mia figlia! Sì, mia figlia che ha 40 anni, fa l’infermiera in ortopedia. L’hanno fatta lavorare senza protezione.  Ha accompagnato i pazienti a fare le lastre, a fare le terapie, al letto. Ed ora è positiva anche lei”. “Mi dispiace signora, purtroppo la mancanza di mezzi di protezione è un problema enorme”. “Eh, sì, io glielo dico perché lei fa il giornalista”.

Nel pomeriggio entra un altro infermiere. Cerca di tirarmi su. Anche lui è gentilissimo, fa il suo lavoro con energia, senza paura, e cercando di instaurare un rapporto umano scavalcando mascherine e protezioni. Ma a un certo punto mi dice: “Tu lavori al tg di Sky, io ti vedo. Devi sapere che qui la situazione è difficilissima. Ci sono edifici pieni di malati, continuano ad arrivare ambulanze. Non so come se ne esce”.

Io sto sprofondando nel mio malumore. Mi sento costretto in ospedale. Ed ora mi sento pure in qualche modo responsabile di veicolare all’esterno quelle richieste d’aiuto, quelle denunce fatte da gente che lavora per gli altri. D’altra parte penso, ma io che c’entro, cosa posso fare? Perché me le dicono tutte a me queste cose? Domande stupide, risposte ovvie. Frutto dello spirito che inizia a cedere.

Dalla stanza accanto invece, quella dov’è ricoverata l’infermiera di ortopedia, sento una voce ancora tonica e squillante. È lei che racconta al telefono la sua avventura. Sento che entra la madre che le dà conforto. Dall’altra parte, da oltre il muro, mi sembra quasi si stia celebrando una festa. Non è così, ma sono voci di gente in quel momento sicuramente più forte di me. C’è una signora che deve essere anziana. Non l’ho mai vista ovviamente, ho solo sentito vagamente la sua voce, o meglio la voce delle sue interlocutrici, infermiere ed operatrici che la tirano su e che cantano. Ha un nome insolito. Si chiama Paloma, e la canzone di Battiato riecheggia nei corridoi del reparto in maniera continua. Infermieri ed operatori che entrano da Paloma, la curano, escono e attaccano “Cuccuruccucuuu Palomaaaa…”.

Neanche Paloma però mi tira più su di morale, sarà il rantolio del mio compagno di stanza, sarà che ormai ho solo un’ossessione, uscire da dove sono, ma le ore si fanno sempre più lunghe. La febbre è quasi andata via. Ogni volta che infilo il termometro lo vivo come una prova di coraggio. Vediamo se mi delude o no, penso. E mi delude sempre meno spesso. La temperatura sta realmente scendendo, insieme paradossalmente al mio coraggio, alla mia pazienza e alla mia serenità.

Le ore del pomeriggio sono lunghe. Parlo al telefono con mia moglie che mi invita ad essere paziente ed ottimista. Lei e mia figlia stanno bene, tutto sta passando, io sto guarendo. Dovrò stare qualche altro giorno all’ospedale? Pazienza. Posso leggere, e pensare sempre che in fondo sto bene. Non fa una piega, ha ragione. Ma il mio animo non è molto orientato a seguire il sentiero della razionalità.

Intanto Gianni ha smesso di rantolare, mi preoccupo, c’è un silenzio inquietante. La sua posizione nel letto non è cambiata. Spero respiri ancora. Controllo. Ed in effetti respira, dorme tranquillo.

Inizia a farsi sera. L’ora in cui fisiologicamente la febbre sale. Metto il termometro con terrore. Ma si ferma a 36.9° e non ho imbrogliato! Mi chiama mia madre. Reclusa in casa come ultra 75enne ma preoccupata. Prima a causa del virus, ora del mio stato d’animo. Cerca di incoraggiarmi anche lei. Mi fa mille domande per distrarmi o per tirarmi su, ma ho poca voglia di parlare. Qualsiasi argomento mi sembra inutile.  Il virus, la febbre, la malattia, la degenza in ospedale, sono temi che mi risultano insopportabili.  Il resto non riesce a coinvolgermi. Non devo essere facile da trattare! È probabilmente l’effetto dell’isolamento.  Il frutto di giorni passati senza poter uscire da una stanza. O forse anche le conseguenze che su di me hanno avuto la fatica e la sofferenza che in piccola parte ho visto ed in gran parte ho percepito ed intuito intorno al mio letto alla mia stanza, lungo reparto di degenza.

La febbre non torna e mi addormento deciso: domani esco, convinco i medici, in fondo ho sfebbrato.

La mattina dopo mi sveglio con 36.4 e mia figlia che mi grida “Auguri papaaaa, 0ggi è la tua festa. Ti faccio una torta di cioccolato enorme e poi quando vengo a Milano ce la mangiamo insieme!!” Deduco che è la festa del papà e il risveglio non potrebbe essere più dolce.  Aspetto, ancora una volta aspetto, con trepidazione l’arrivo dei medici a metà mattinata. Mi sento bene e combattivo. Mi sento però ancora nauseato, stanco e debole psicologicamente.

Arriva la coppia di giovani medici che con cortesia hanno compiuto il giro di visite in tutti questi giorni.

“Non ho più febbre da ieri mattina!” Annuncio trionfante. “Molto bene - mi rispondono - se oggi non le torna, domani la mandiamo a casa. Domani pomeriggio-sera, non prima”. “Ma come!” Mi cade il mondo addosso. Mi sento tradito. “I nostri protocolli prevedono un periodo di 72 ore senza febbre prima di poter dimettere un paziente. E domani sera ad essere precisi neanche sarebbero passate esattamente 72 ore, ma visto che sta bene, faremo un’eccezione. Sempre ovviamente che la febbre non torni”. “Vi prego mandatemi ora, mi sento bene, e psicologicamente sono un po’ provato”. “Signor Coen, la capiamo bene, non è l’unico a risentirne psicologicamente. Anche noi medici abbiamo problemi simili. Proprio per questo, se vuole disponiamo anche di un sostegno a disposizione. Questo edificio dove lei è ricoverato originariamente è un Ospice, uno dei quei luoghi dove si ricoverano casi gravi e malati terminali. È dotato quindi anche di un servizio di supporto con uno psicologo. Vuole che facciamo richiesta per lei?”. “No – rispondo – la ringrazio moltissimo e mi scusi. Un giorno posso anche resistere. Però domani a casa mi ci mandate???”. “Le ripeto, se non torna la febbre sicuramente sì”.

Ed ora che faccio? Sono le 10 del mattino, devono passare altre 24 ore prima di rivedere i medici che decidono se mandarmi a casa. E come faccio in queste 24 ore a non farmi tornare la febbre? Sono sotto terra. Di fronte a me vedo un muro enorme che si chiama tempo. Razionalizzare non mi aiuta. Pensare ad altro mi sembra impossibile. E neanche posso tediare mia moglie che deve gestire una situazione già difficile. E quindi, la tedio lo stesso. La chiamo. Le spiego che non so come far passare la giornata. Lei mi raccomanda di tenermi su di morale, non c’è cosa che influisca di più sul recupero fisico o le ricadute che lo stato d’animo. Ecco ci mancava anche questo pensiero! Per come mi sento psicologicamente già dovrei avere 40 di febbre! Lei prende in mano la situazione. Si fa dare da me il numero del reparto. Tempo 10 minuti mi portano delle gocce di Lexotan che mi stendono e mi regalano un po’ di sonno.

Nel pomeriggio mi riprendo un po’.  Mi siedo a leggere su una sedia, da lì, attraverso la doppia porta vedo uno spicchio di corridoio del reparto. Passa un’infermiera che mi saluta da fuori. È scoperta, ha i capelli biondi e un bel sorriso, e mi fa il gesto più bello che potesse farmi. Fa il segno con la mano di uno che se ne va. “Chi io?” le chiedo a gesti. Annuisce sorridente e aggiunge col dito: “Domani”.

Quando passano gli infermieri la sera mi sento rinfrancato dalla giornata che è passata e dal fatto che obiettivamente mi rendo conto che la febbre mi ha veramente abbandonato. Non mangio quasi nulla. Lo stomaco non dà udienza, ma sorrido quando sento il signor Gianni, in una delle sue poche esternazioni che esclama con l’infermiere “Ce vorrebbe n’bicchier de vino!”. “Dice bene signor Giovanni, un po’ di pazienza e tornerà a bere anche quello”.

La mattina del 20 marzo, mi sveglio un po’ timoroso ma sicuro del mio stato fisico. Non ho febbre e la saturazione del mio sangue va bene. Arriva un’infermiera e mi fa un tampone, per vedere a che punto è l’infezione da Coronavirus dopo 10 giorni di ricovero. Alle 10,30 puntuali entrano i medici. Mi guardano e mi dicono: “La mandiamo a casa. Questo pomeriggio, ma la mandiamo a casa”. “Grazie – sorrido – che bello. Mi hanno fatto anche un tampone”. “L’esito – mi spiegano – in realtà ci interessa poco. Noi qui guardiamo ai sintomi clinici, quando quelli passano il tampone in breve tempo si negativizza. In ogni caso deve rimanere a casa da solo in quarantena, il tampone alla fine verrà negativo, vedrà”.

Mi dicono di aspettare le 17, prima non c’è un’ambulanza disponibile a portarmi via. Troppo lavoro.  Troppo giri tra ricoveri e dimissioni. Improvvisamente le 5 del pomeriggio mi sembrano un orizzonte temporale vicino e ragionevole. Quell’enorme muro immaginario costituito dal tempo che non passava si è sgretolato alla notizia della fine del mio ricovero. E come spesso mi capita, ripensando al dramma dei due giorni precedenti mi sento sciocco e debole”.

Verso le 14 arriva il medico capo reparto. Mi avevano annunciato che voleva parlarmi prima della dimissione. Immagino voglia darmi le istruzioni del caso. “Buongiorno dott. Coen”. “Buongiorno”. “Lei lavora in tv al tg di Sky vero?”. “Sì, vero”. “Senta sono venuto per chiedervi di non invitare più quella dottoressa tal dei tali che secondo me fa dei danni enormi e disinforma i telespettatori”. “Ok, ultimamente non ho potuto seguire molto, ma riferirò” rispondo. “Cerchi di capire dott. Coen ma certa gente minimizzando la portata del virus e quanto sta avvenendo fa del male a tutti”. “Lo capisco perfettamente. Trasmetterò le sue parole ai miei colleghi”. “Ma guardi in realtà non so se voi nel vostro tg l’abbiate mai invitata. Sicuramente lo hanno fatto altri. Ma è meglio non farlo. E già che ci siamo non invitate neanche quell’altro intellettuale che non capisce niente e parla di tutto”. “Ci mancherebbe dottore! Io invece volevo ringraziarvi per l’aiuto, la disponibilità, la dedizione oltre l’umano di tutti i vostri operatori”. “Si figuri. Io sono infettivologo ma in genere mi occupo dell’Ospice. Siamo tutti un po’ improvvisati e ci stiamo riorganizzando per far fronte all’emergenza. Arrivederci e buona fortuna”.

Alle 17 mi chiamano, l’ambulanza è pronta. Mi vesto con il maglione pesante e il giaccone invernale con cui ero entrato. Mi mettono il camice, i guanti, la maschera. Sono ancora un potenziale pericolo.

Provo a salutare invano il signor Gianni. Esco in corridoio, ci sono le finestre aperte. E vengo assalito da un’ondata di luce, di aria fresca, dalla vista del cielo ancora illuminato dal sole. Mi rendo conto di non respirare aria vera e di non vedere il cielo da dieci giorni. Quasi un’ubriacatura.

Entro nella parte posteriore dell’ambulanza. Mi indicano un sedile e mi dicono di sedermi e non toccare nulla. Partiamo, fuori il clima è mite. Nel frattempo è arrivata la primavera e io sono vestito come in una fredda giornata d’inverno. In più il camice e la mascherina non fanno passare l’aria e mi fanno sudare. Ora capisco perché parlavano di saune e Spa le infermiere che entravano in stanza tutte bardate. Dopo qualche minuto di viaggio mi sembra di sciogliermi sotto la lana e il cappotto di piume avvolti dal camice impermeabile. Apro uno spiraglio di finestrino, così scruto pure una Milano sempre più vuota e spettrale. Intravvedo una fila ordinata all’esterno di un supermercato, ed un viale sul naviglio completamente vuoto. L’aria che filtra un po’ mi aiuta. Ma quando arriviamo sotto casa e l’operatore mi apre la porta, vede lo spiraglio di finestrino aperto. “Chi ha aperto questo finestrino??”, “Sono stato io, non potevo?” “Eh no che non poteva! Le avevo detto di non toccare nulla! Ma si rende conto? Ma cosa crede lei, di venire dall’Ortomercato!!”, “Mi scusi tanto morivo di caldo, ho i guanti, non credevo non si potesse, ma mi scusi ancora. Capisco bene”. “Macchè la scuso, lei viene da un reparto di malattie infettive! Quei guanti sono anch’essi infetti! Roba da matti! Ora per colpa sua dobbiamo sanificare tutto il mezzo e spendere 150 euro”. A quel punto decisd di smettere di scusarmi e mi allontano, voglio gustarmi il ritorno a casa, che seppur vuota, è sempre casa!

Ci si riabitua subito ai propri spazi, alla familiarità degli oggetti quotidiani. Dentro casa è tutto come ho lasciato la sera di dieci giorni prima, uscendo di corsa febbricitante per fare un tampone e tornare subito al caldo.

Il disordine regna. Ed io mi impongo, nonostante la debolezza, la nausea, lo sfasamento, di mettermi un minimo al lavoro. Prima per ripulire me stesso. Poi l’ambiente che mi circonda.

Non ho molte forze, e non ho paura che mi torni la febbre ma capisco che devo procedere per gradi per riprendere il pieno controllo di me stesso.

Del resto me lo hanno detto. Per ora devo rimanere isolato e in quarantena. Per quanto? Per due settimane immagino.

Aspetto la mattina seguente per chiamare l’ospedale. Mi hanno lasciato un numero. Lì posso informarmi sull’esito del tampone effettuato prima delle dimissioni. Alle 12 qualcuno mi risponde. “Signor Coen, l’esito dell’analisi fatta ieri risulta negativo”. Ottimo penso. Sono pure mezzo guarito! Nel pomeriggio mi richiama il medico che mi ha dimesso e mi conferma: “Ho una buona notizia. Il suo tampone è negativo! Ora ne serve un altro per confermare la negatività. Abbiamo comunicato il suo nome all’Ats (la Asl), e dovrebbero chiamarla per farglielo loro. Ma l’avviso….”. “Mi dica dottore”. “Non la chiameranno mai! Sono troppo oberati”. “Ah, molto bene, quindi io rimango in quarantena”. “Sì, ed è un peccato perché con un secondo tampone potrebbe uscire dall’isolamento”. “E cosa posso fare?”. “Aspetti che la chiamino”.

Io ancora non sto benissimo. I sapori in bocca devo ancora ritrovarli, come l’appetito. Non ho fretta di andare chissà dove ma certamente mi trovo in uno stallo.

Passano i giorni e riacquisto le forze ed il gusto per il cibo. Squilla il telefono, da un numero che non conosco. “Parlo col signor Renato Coen?”, “Si chi è?” “Buongiorno è la polizia. Ci hanno segnalato il suo nominativo”. “Mi dica, che è successo?”. “Lei è stato appena dimesso dall’Ospedale Sacco”. “Sì lo so, grazie”. “Bene, la chiamo per dirle che lei deve rispettare l’isolamento nella sua residenza. Se contravviene alla disposizione e la troviamo fuori di casa dobbiamo applicare una sanzione che prevede l’arresto fino a tre giorni”. “Molto bene, la ringrazio!” …E ben tornato a casa anche a lei, mi verrebbe da aggiungere! Invece continuo e spiego che in realtà io risulto già negativo ad un primo tampone e sono in attesa, vana, che me ne venga fatto un altro per poter essere libero. “Molto bene, io lo segno” Mi risponde l’agente. “E se lo segni…”.

Passano altri due giorni nei quali riapprezzo il sole forte che batte e la libertà di muovermi a casa mia. Mi manca mia figlia, mi manca mia moglie e vorrei essere con loro, l’isolamento ulteriore dopo l’ospedale senza poterle riabbracciare mi pesa. Loro sono a Roma. Distante anni luce in questo momento. Ma in fondo sto attraversando un periodo di reclusione casalinga come la maggior parte dei miei connazionali. Se esco però mi arrestano. Sono amministrativamente ancora un appestato!

Dopo due giorni mi chiama l’Ats. Finalmente! “È il signor Renato Coen, abitante in via ..., nato a, nato il, ecc ecc?”. “Si, buongiorno sono io”. “Signor Coen la chiamo perché a noi è stato comunicato che lei è stato sottoposto ad un tampone risultato positivo a Coronavirus lo scorso 10 marzo”.  “Sì, esattamente, e a seguito del quale sono stato ricoverato”. “Ah, è stato ricoverato?!”. “Eh sì”. “Allora aspetti che lo segno”. “Sì, lo segni. Però poi sono stato dimesso dall’ospedale Sacco e mi hanno fatto un nuovo tampone risultato negativo”. “Ah, molto bene, segno anche questo. Ma lei lo sa che di tamponi negativi ne servono due?”. “Eh, sì lo so. Infatti ero in attesa di una vostra telefonata per avere un secondo tampone. So che siete oberatissimi di lavoro con altre urgenze, però i medici dell’ospedale mi hanno detto di aspettare di essere contattato da voi”. “Da noi? E perché? Non potevano farglielo al Sacco un secondo tampone già che c’erano?”. “Eh, mi permetta ma questo io non lo so…”. “Era meglio lo facessero loro.  Noi qui dobbiamo dare la priorità a malati oncologici che con un tampone negativo possono proseguire le loro cure a casa, dobbiamo testare altri casi più gravi e non so se possiamo farle un tampone”. “Capisco benissimo”, rispondo. E capisco veramente di non essere certo una priorità in un caos del genere. In un’ondata tale di urgenze e di richieste d’aiuto, le autorità sanitarie stanno cercando di fare il massimo. Una conferma di un secondo tampone negativo per una persona già guarita, a casa, e in sicurezza, non può essere né un’urgenza, nè tantomeno una priorità per la regione che sta affrontando la più grande emergenza sanitaria degli ultimi 80 anni. Nonostante questo, mi hanno chiamato, e si mostrano anche generosi di consigli e di tempo da dedicarmi. Anche se i paradossi della confusione che viviamo continuano ad emergere.  “In ogni caso - continua infatti l’impiegato dell’Ats - anche con un secondo tampone negativo lei sempre in quarantena a casa deve stare”. “Scusi e perché? Il medico dell’ospedale mi ha detto che con un doppio negativo l’obbligo di isolamento finisce”. “Ah, se lo dice lui non discuto. In fondo in ospedale ne sanno di più di noi”. Provo il tutto e per tutto: “Mi scusi ma c’è un numero che posso chiamare, a cui posso rivolgermi per sbloccare la situazione?”. “Eehh, no.  Non c’è. Pensi che io la chiamo da casa dal mio cellulare privato. Ormai si lavora così. Io comunque segno tutto”. “Grazie segni tutto anche lei”. “Sì, segno tutto e la richiamo”.

E così rimango chiuso nel mio castello, in attesa di fronte al più grande castello della burocrazia che si è un po’ incartata insieme alla mia quarantena. Aspetto di tornare ad essere sano amministrativamente. Aspetto di riabbracciare la mia famiglia. Intanto, segno tutto anche io….  

Alessia Marani per il Messaggero il 28 marzo 2020. Stefania Giardoni, ex commessa della Magliana, 50 anni, mamma di due figli di 23 e 26, è stata la prima persona malata di Covid-19 a Roma. I primi sintomi il 23 febbraio, poi la corsa il 7 marzo e il ricovero allo Spallanzani, dal 23 marzo è in cura al Covid hospital 3 di Casalpalocco. Appena saputo di essere positiva ha fatto outing anche sui social avvisando al lavoro e chiunque fosse stato in contatto con lei.

Stefania, innanzitutto, come sta adesso?

«Ho appena rifatto l'ennesimo tampone, da tre giorni mi hanno sospeso i farmaci, sono stata curata con il kaletra il farmaco anti-Hiv la cui efficacia però non è uguale per tutti e ora non più confermata. Non me lo avevano detto subito per non spaventarmi: ma avevo preso il ceppo più forte del virus e pensavano di intubarmi. Da qualche giorno ho recuperato il senso del gusto, dicono che dovrei negativizzarmi da sola, ma ho paura perché nella mia stanza è ricoverata una signora che ha una carica più virulenta delle mia. Non vorrei ricominciare da capo. Adesso mi sogno una bella amatriciana».

Che cosa ha pensato quando ha saputo di essere positiva?

«Il mio primo pensiero è stato per mia zia che vive al piano sopra il mio e che assisto. Poi per mia madre, ho cominciato a chiedermi quand'è che l'ho toccata l'ultima volta. Quindi l'interrogativo più angosciante: Uscirò mai da qui?. Per fortuna lo racconto. Ma ho tanta rabbia».

Perché?

«Perché al mio compagno non è stato fatto il tampone. A mio figlio più piccolo che ha manifestato i sintomi, lo hanno fatto solo tre giorni fa dopo che smosso mezzo mondo e ancora stiamo aspettando l'esito. Lui che è una persona coscienziosa si è messa in isolamento nella casa in campagna, a Fiumicino, anche oltre i 14 giorni, è giovane e probabilmente la sta superando. Ma non si può convivere con questa incertezza e anche al lavoro non lo faranno rientrare finché non avrà il risultato».

Ora lei è ricoverata ma sta meglio e dialoga con molte persone, che le dicono?

«Dopo il mio outing mi hanno contattato in tanti via messanger, disperati, perché sono soli in casa e non sanno che fare. Nessuno dice loro se sono positive o meno anche se hanno i sintomi. I medici delle Asl e di famiglia continuano a dire, se si ha poca febbre o poca tosse, di stare a casa, di richiamare solo quando la situazione si aggrava. Ma chi sta male deve essere curato subito».

Curato come?

«A me per esempio il medico diede un fluidificante, ma a poi ho saputo che non è indicato per il coronavirus. Serve uno sforzo in più da parte della medicina di base e dell'assistenza territoriale. Chi è positivo va subito individuato e assistito, anche con visite a casa».

Come si è accorta di essere malata?

«Era il 23 febbraio. Avevo un raffreddore, niente di più. Dopo una settimana è cominciata ad apparire qualche linea di febbre, 37.3, 37.4, andava e veniva, infine tosse sporadica. Il 29 febbraio ho terminato di fare la cassiera al Risparmio Casa. Per scrupolo sono andata dal dottore ma non sono voluta entrare, ci ho parlato dalla finestra. Lui mi ha detto ma dai Stefa' prenditi la tachipirina, ti pare che ce l'hai tu il coronavirus! Però mi viene di nuovo la febbre e torno da lui una seconda volta, sempre dalla finestra. Il sabato successivo la mattina mi sentivo benissimo, ho fatto un sacco di cose, poi il pomeriggio sono entrata in crisi respiratoria. Al numero anti-covid non rispondevano, siccome abito vicino largo La Loggia, mi sono fatta portare dal mio compagno allo Spallanzani».

E cosa le hanno detto?

«Mi hanno fatto entrare nel tendone e lì è venuto un medico tutto bardato. Appena ha auscoltato i polmoni, ha disposto il ricovero. A mezzanotte mi hanno fatto il tampone».

Quando ha saputo di essere positiva?

«L'8 sera o il 9. Avevo comunque già avvisato al lavoro del ricovero. Quindi ho dichiarato pubblicamente di essere positiva perché pensavo a tutte le vecchiette che la mattina venivano in cassa a portarmi un caffè o un cornetto e mi davano il bacino... Tutti dovevano sapere e mettersi al riparo».

E come hanno reagito?

«Il grande magazzino ha chiuso subito e sanificato. Nel frattempo il premier Conte usciva con il decreto per restare a casa. Alla Magliana, devo dire, hanno reagito bene, mi sono arrivati tanti attestati di solidarietà, ma non è mancato chi sui social mi ha attaccato e insultato».

E ora?

«Io ho una tempra forte, ma ci sono persone più fragili che si sentono sole, chiuse in casa, che vanno assistite. Ora pensiamo alla salute, poi bisognerà fare i conti con il lavoro: il mio contratto era scaduto, il figlio più grande parrucchiere non lavora, l'altro è a casa. Speriamo finisca questo incubo».

Dagospia l'8 aprile 2020. Da Un Giorno da Pecora. “Sono nella mia casa di Città di Castello, non esco dal 7 marzo, da quando si è saputo che Zingaretti era positivo. Dal giovedì successivo ho iniziato ad avere i sintomi e ho scoperto di avere il Coronavirus, ora sto bene. Dovremmo esser alla fine, oggi ho rifatto il tampone, quindi dita incrociate e speriamo sia negativo”. Anna Ascani, vice ministra dell'Istruzione e vicepresidente del Pd, oggi a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1 ha raccontato, per la prima volta, i suoi giorni col Coronavirus, che ha contratto qualche settimana fa e dal quale, per fortuna, sembra ormai esser definitivamente guarita. Il precedente tampone che ha fatto era positivo? “Si, purtroppo si. Io sto bene da qualche giorno, per fortuna non ho avuto sintomi gravi”. Che effetto le fa pensare, oggi, di aver contratto il Covid-19? “Mi sento fortunata per com'è andata, ci sono persone della mia età che sono state in terapia intensiva, e qualcuno non ce l'ha fatta. E poi io mi sono isolata presto, e non contagiato nessuno. Mi sento di dire che non è affatto un'influenza, ed è molto pesante anche per chi ha 32 anni come me”. Lei ha dovuto combattere il virus a casa, completamente sola. “Si. Ci sono i sintomi, c'è la febbre e c'è un po' di paura: vedere le scene delle terapie intensive in tv fa venire timore”. Si ricorda il momento in cui si è resa conto di aver contratto il Coronavirus? “Mi sono misurata la temperatura e mi sono accorta di aver una febbriciattola, bassa, quindi lì per lì ho pensato che poteva anche non esser nulla. Invece poi ho iniziato ad avere la tosse, i dolori e il resto dei sintomi. Il primo pensiero però è stato: sabato scorso ho visto i miei genitori, speriamo di non averli contagiati”. Ha avuto la perdita dell'olfatto? “Per giorni e giorni non sentivo gli odori. Poi una domenica mettendo il parmigiano sul brodo coi cappelletti che mi aveva mandato mia madre ho sentito il profumo del parmigiano: è stata una cosa emozionante, pensavo fosse la fine del virus. Però da allora sono passati 15 giorni. Ora però sta bene. “Si - ha detto Ascani a Rai Radio1 - non ho sintomi e l'olfatto sembra tornato”. Ha mai pensato di non potercela fare? “Ho avuto paura di dover andare in ospedale, anche perché io soffro di asma da quando ero piccola e temevo che questo potesse influire sul decorso della malattia”. Ha capito, oggi, se è immune al virus? “No, ma ho capito che devo aspettare l'esito negativo di due tamponi per poter rivedere almeno le persone a qualche metro. Per ora le vedo dallo spioncino della porta quando mi lasciano la spesa, una cosa che fa mio fratello di solito”. Chi le è mancato di più? “I miei genitori ma soprattuto l'idea di un contatto umano”. Come si è curata? “Seguendo quello che mi hanno detto i medici: sempre e solo Tachipirina e in questi ultimi giorni anche un antibiotico, perché la febbre non passava”. E come ha passato le giornate in questa quarantena? “Ho letto, ho visto film e serie tv di ogni genere, forse tutte le puntate di '4 Ristoranti'. E poi ho imparato a giocare con la Playstation, che mi ha portato mio fratello, e ho vinto la Champions League con l'Inter. Una soddisfazione me la sono tolta almeno”, ha scherzato Ascani a Un Giorno da Pecora.

Coronavirus, Sileri: «Ho temuto di lasciare solo mio figlio. Ora donerò il sangue per la ricerca». Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Fabrizio Caccia.

Il glicine è fiorito, viceministro Sileri.

«Lo piantai in balcone cinque anni fa, da allora si può dire che ha dormito. Quest’anno invece è esploso, proprio durante la mia quarantena, ci saranno 300 fiori adesso sulla pianta, è bellissimo, solo che io non sento il profumo. Non sento niente. Né odori né sapori. Anche con il caffè, è uguale. È l’ultimo regalo del virus. Speriamo che passi...».

Il senatore M5S Pierpaolo Sileri, 47 anni, romano, viceministro della Salute, medico chirurgo di professione, è risultato positivo al coronavirus il 13 marzo scorso.

Però lei ora è guarito, ce l’ha fatta. Ha avuto paura?

«Sì l’ho avuta. La notizia del tampone positivo mi arrivò la mattina del 13 marzo, il giorno dopo a Bergamo morì un operatore del 118, un mio coetaneo. Ma ero preoccupato più per la mia famiglia. Avevo paura di lasciare sola Giada, mia moglie. Quando la febbre è salita e la saturazione è scesa a 89 ho pensato che morire era diventata davvero una possibilità concreta. E così ho pensato a mio padre che morì giovane a 45 anni e a mio figlio Ludovico che ha 8 mesi, ho pensato all’ingiustizia che avrebbe vissuto anche lui crescendo senza padre come me».

È andata bene. Ha ricevuto tanti messaggi, tanta solidarietà.

«Tantissima. E mi ha riempito il cuore di gioia. Mi hanno detto che in ufficio sarebbe arrivato anche un biglietto di Niccolò (il diciassettenne di Grado che Sileri a febbraio andò a prendere a Wuhan,ndr), di cui conservo un ricordo indelebile. Mi avrebbe scritto per ringraziarmi di un libro che gli donai appena tornati insieme dalla Cina. Purtroppo il biglietto non l’ho ancora letto. Sarà una delle prime cose che farò appena tornato al ministero».

Quando ci torna?

«Sto aspettando il nulla osta del medico della Asl Roma 3, io sono pronto».

Ce l’ha un desiderio immediato da realizzare?

«Ce l’ho. Ho letto del protocollo di Pavia: dal sangue dei guariti di coronavirus gli scienziati del San Matteo puntano a estrarre gli anticorpi. Ecco, vorrei andare là a donare il mio sangue per aiutare chi oggi ne ha bisogno».

Il film della sua malattia.«Mercoledì 11 marzo accuso bruciore agli occhi, raffreddore e febbre, subito decido di auto-isolarmi, io in camera da letto, mia moglie e il bambino nelle altre stanze. Giovedì 12 la febbre sale e chiedo di fare il tampone. Venerdì 13 faccio il tampone e ho la notizia. Comincia il weekend più duro: febbre alta e saturazione che scende fino a 89, valore bassissimo rispetto ai 98 che è la norma. Non riuscivo neanche più a prendere il termometro sul comodino per la poca forza che avevo. Così, l’infettivologo decide per la Tac, ma martedì 17 i valori dell’ossigenazione risalgono a 95 e mercoledì 18 la febbre sparisce. Domenica 22 e lunedì 23 faccio i nuovi tamponi. E martedì 24 alle 8.30 arriva il risultato: anche il secondo è negativo, così finalmente apro la porta della camera da letto e vado da Giada e Ludovico. Per abbracciarli però aspetto ancora il nulla osta del medico».

La fede l’ha aiutata?

«Beh io credo in Dio, questo è noto, ma pregavo già prima del coronavirus! E in questa guerra che stiamo combattendo anche la Chiesa è in campo: sono morti medici, infermieri e tanti cappellani, anche loro in prima linea tra i malati».Lei ha capito come ha fatto a contagiarsi? «Forse il 2 marzo, forse in aeroporto, quando salii a Milano a visitare gli ospedali, andai anche al Sacco. Di sicuro, non ho preso il Covid negli studi televisivi: nessuno dei conduttori si è contagiato».Come ha passato i giorni di clausura?«Mah, ho sentito quasi tutti i giorni il premier Conte, Di Maio e tanti altri, anche dell’opposizione, che mi hanno fatto arrivare il loro affetto».

Il momento più bello?

«Quando una sera ho sentito una musica da fuori, io abito vicino al Gazometro e dal palazzo di fronte delle persone affacciate cantavano la famosa canzone di Toto Cutugno l’Italiano. Così mi sono affacciato e avrei cantato anch’io ma non avevo voce. Poi, però, quella canzone me la sono scaricata sullo smartphone e ogni sera me la sentivo, prima di addormentarmi. Toto Cutugno mi ha fatto compagnia».

Coronavirus, guarito Matteo Malaventura: “Mai stato così male”. Alessandra Tropiano il su Notizie.it. 24/03/2020. Parla Matteo Malaventura, ex cestista di 41 anni guarito dal coronavirus: "Mai stato così male, ringrazio i medici". Continua a salire il numero dei casi positivi al Covid-19 nel nostro Paese. Parallelamente, però, cresce anche il numero delle persone che sono riuscite a sconfiggere il virus. Tra loro c’è Matteo Malaventura, ex giocatore di pallacanestro in serie A e A2 guarito dal coronavirus.

Il racconto dell’ex cestista guarito coronavirus. I medici continuano a ripeterlo: il coronavirus non colpisce solo gli anziani, è importante non sottovalutarlo. E per evitare di essere contagiati c’è una sola regola da seguire: quella di rimanere a casa. Lo sottolinea Matteo Malaventura, ex cestista di 41 anni, che è stato colpito dal coronavirus. Lui la battaglia l’ha vinta: dopo cinque giorni attaccato a un supporto respiratorio, può tornare a respirare senza macchine. Dopo due settimane di lotta all’ospedale di Perugia, Matteo è potuto tornare a casa, da dove racconta il suo calvario.

“Non ero mai stato così male, avevo mal di testa, mal di schiena e difficoltà a respirare. Dopo 9 giorni la febbre non scendeva e ho cominciato a pensare che poteva trattarsi di Coronavirus, così sono andato in ospedale e ne ho avuto la conferma: il tampone ha dato esito positivo e mi è stata diagnosticata la polmonite da Covid-19″. Da lì il periodo in ospedale, ora terminato. “Non appena i livelli di ossigeno e di saturazione sono tornati buoni, sono stato dimesso e sono tornato a casa”. La lotta dell’ex cestista della Nazionale italiana di basket non è ancora finita. “La cosa principale è la respirazione -racconta Matteo- appena è migliorata mi hanno dimesso, adesso devo stare due settimane in isolamento a casa perché ancora non sono guarito“. La gratitudine di Matteo va tutta all’equipe di medici che l’ha seguito. “Ringrazio medici e infermieri. Arrivano continuamente persone anziane con sintomi gravi, senza il sacrificio di medici e infermieri sarebbe stato impossibile. Quando tutto finirà dovremmo fargli una statua”. Malaventura conclude con un appello: “Mi raccomando, è importante restare a casa e seguire le regole perché in ospedale la situazione è tragica, io che l’ho vista lo posso confermare”.

Coronavirus, a Cremona il primo risveglio dalla terapia intensiva: «Ricordo una paura terribile». Pubblicato domenica, 22 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. «Ricordo una paura terribile. Scolpite nella mente, ho le parole del medico che mi dice che sarei stata intubata di lì a poco. Se chiudo gli occhi rivedo l’ansia di quel momento: io che penso alla mia famiglia a Crema, il timore di non farcela, di morire». Poi il buio. Coma farmacologico fino a oggi, il giorno più bello, quello del risveglio di Margherita, 52 anni, all’Ospedale di Cremona. Dall’inizio dell’emergenza, nella sala di terapia intensiva nessuno aveva ancora riaperto gli occhi. I pazienti che migliorano leggermente vengono mandati in altri ospedali per lasciare il posto a chi è in gravi condizioni. Non è ancora in forma Margherita, è frastornata, sdraiata su quel letto di pneumologia che si è conquistata dopo aver lasciato la rianimazione. Però è felice, e con poche parole ma con gli occhi che brillano al Corriere della Sera parla di «un sogno», dice che «il peggio adesso è passato». Sono giorni di ritmi serrati, a Cremona c’è poco tempo per parlare. Ma quella notizia, uno spiraglio di luce in giornate nere, ha subito fatto il giro delle corsie. «È andata così: mi ha chiamato una dottoressa – spiega Carla Maestrini, capo sala della terapia intensiva –, mi ha chiesto di seguirla. Mi ha portato in rianimazione di fronte a lei. Vedere una paziente senza i tubi, guardare con i miei occhi qualcuno respirare autonomamente, è stata un’emozione indescrivibile: non è mai successo qui da noi. Il nostro rammarico, fino a ieri, è stato quello di non aver mai visto una persona sveglia: è qualcosa che ti distrugge dentro, che ti porti a casa la sera. Di fronte a quella scena abbiamo pianto, significa che qualcosa di positivo lo abbiamo fatto». Anche i medici gioiscono. «Di Margherita – spiega Antonio Coluccello, responsabile della rianimazione dell’ospedale - ci ha sorpreso la rapida evoluzione che le ha consentito di raggiungere l’autonomia respiratoria senza dover praticare la tracheotomia. Ci vuole pazienza, bisogna andare cauti, ma la notizia è buona». Si festeggia, all’ospedale di Cremona, dove la terapia intensiva resta piena, ma quel primo risveglio è la carica per continuare a correre.

Parla il medico contagiato: "Pensavo di morire, nel casco si impazzisce". La testimonianza shock del rianimatore: "Stai soffocando, perdi il controllo e c'è un rumore infernale. Le persone continuano a uscire di casa: siete sordi?" Luca Sablone, Domenica 22/03/2020 su Il Giornale. Angelo Vavassori non scorderà mai il primo paziente positivo che ha fatto ingresso in ospedale verso la sera di venerdì 21 febbraio: l'anziano - sopra gli 80 anni - aveva già varie patologie e presentava i sintomi classici. Ma poi è toccato anche il suo turno: il medico è diventato improvvisamente paziente. "Mi dicevo: se devo morire così, meglio una fucilata. Adesso, quando me lo dirà una persona che sto curando, starò solo zitto, perché so ciò che stanno vivendo", ha confessato. E lui ha provato una dose maggiore di paura in quanto era a conoscenza dell'evoluzione del virus, anche perché la storia prima della terapia intensiva è praticamente uguale per quasi tutti: tre giorni di febbre e poi l'insufficienza respiratoria. Il 6 marzo è finito in ospedale: "L’insufficienza respiratoria è arrivata di colpo, non riuscivo nemmeno a sdraiarmi, gli atti respiratori sono passati da 16 a 40, sembravo un cane d’estate, con la lingua fuori". Non sentiva più l'aria che entrava nei polmoni: "La dispnea simile al fiatone che viene quando si fanno due rampe di scale di corsa è degenerata in modo rapidissimo. Come da manuale". Alle ore 23.00 gli hanno applicato il casco Cpap, all'inizio a una pressione inspiratoria di 12 ma visto che non bastava poi sono passati a 14 e infine a 16: "Tu stai soffocando, sembra di avere l’acqua nei polmoni. Dentro quel casco sembra di impazzire, perdi il controllo. Un tubo pompa un flusso di 50 litri al minuto, l’aria è umidificata e calda, il rumore infernale. Ho chiesto di essere sedato, cosa che faccio con tutti i miei pazienti. Ora so cosa provano".

"La gente è sorda?" Il rianimatore nel reparto di cardiochirurgia al Papa Giovanni XXXIII di Bergamo al momento vive in isolamento in una stanza per non contagiare la moglie e i quattro figli. Non potrà tornare in corsia finché non ha due tamponi negativi a distanza di 24 ore: "Mi scuso con i miei colleghi perché non posso lavorare". Il suo ospedale sta facendo miracoli contro l'avanzata del contagio: l'unità di terapia intensiva cardiochirurgica non esiste più, è tutta dedicata ai pazienti Covid-19. "Sono sparite anche la rianimazione generale e l’unità coronarica, le sale operatorie sono ferme, dentro ci sono i ventilatori. Ogni minimo spazio viene sfruttato", ha fatto sapere. Il medico, nell'intervista rilasciata a Il Messaggero, ha commentato il fatto che ancora troppe persone escono per fare passeggiate o per svagarsi. Angelo ogni tanto prende un po' di sole dal balcone della sua stanza e purtroppo osserva un via vai costante di cittadini: "Stamattina ho visto marito e moglie con bambino in passeggino, tutti senza mascherina, una persona in bicicletta, senza mascherina, un’altra che correva. Ma questa gente è sorda?".

Natascia Ronchetti per “il Fatto Quotidiano” il 22 marzo 2020. Una grande passione per la mountain bike. E per il suo lavoro. Fino a due settimane prima di morire aveva continuato a ricevere i pazienti in ambulatorio: non era nelle sue corde fermarsi. Francesco Foltrani, 67 anni, era medico di famiglia a Cingoli, in provincia di Macerata. È morto nell' ospedale di Jesi. È uno dei 17 medici che dall' inizio dell' epidemia sono rimasti vittime del Covid-19: un numero che sale di giorno in giorno (due giorni fa erano 14). Prima se ne era andato anche Franco Galli, medico di famiglia nel paese di Medole, in provincia di Mantova. Aveva 65 anni, ha avuto una crisi respiratoria nel suo ambulatorio. E ha ceduto dopo otto giorni di ricovero. Ogni giorno, da settimane, la Federazione nazionale dei medici aggiorna il bollettino. Che è come un bollettino di guerra. Fa il punto su quanti se ne vanno dopo aver combattuto senza armi, senza quei dispositivi di protezione individuale necessari per evitare il contagio. Quando non scarseggiano mancano. Dappertutto: negli ospedali e negli ambulatori. Tanto che i numeri sui personale sanitario infettato - medici ma anche infermieri e operatori sociosanitari - continuano a galoppare: ieri gli infettati erano saliti a 3.654; 95 in più rispetto al giorno precedente, quasi il 9 per cento dei contagiati totali e di questi 1.882 nella sola Lombardia. Ora tutti i medici in prima linea sono furiosi. Lo è l' ortopedico (chiede l' anonimato, per timore di azioni disciplinari) che lavora in un ospedale lombardo, nel Mantovano. Tutto è stato scardinato. Specialisti come lui o chirurghi maxillo-facciali sono stati precettati nei reparti Covid. Anche se hanno le competenze diverse da quelle richieste in questo caso. Intanto si alzano muri in cartongesso, si svuotano altre aree. "È come uno tsunami - si sfoga l' ortopedico -. Nel mio ospedale, che supporta quello principale, va anche di lusso. Ma non credete a ciò che vedete in televisione: ci si protegge con i sacchi della spazzatura". La fotografia in pagina arriva proprio dall' ospedale di questo ortopedico. Tutti puntano l' indice contro l' articolo 7 del decreto del 9 marzo del premier Giuseppe Conte: impone al personale sanitario asintomatico di non interrompere il lavoro anche se è entrato in contatto con un soggetto a rischio o positivo, anche senza tampone. "Ma a fronte di una incubazione che può durare fino a due settimane, i soggetti più pericolosi - spiega il giovane ortopedico - sono proprio gli asintomatici. È così che medici e infermieri si infettano tra loro, che contagiano pazienti e viceversa. E i reparti più pericolosi oggi sono quelli non Covid, dove i dispositivi di cui disponiamo hanno una minore protezione. Qui si sta dimenticando l' abc della medicina. Anche uno studio cinese, pubblicato dalla rivista Lancet, conferma che gli asintomatici sono i più rischiosi. L' articolo 7 deve essere cambiato". Forse, ragionano i medici, chi sta al vertice della catena di comando ha perso il polso di chi sta in trincea. O forse stoppa una campagna di tamponi a tappeto perché i positivi potrebbero essere tanti da far crollare il sistema sanitario sotto il peso di migliaia di medici e infermieri in quarantena. Ma non si combatte ad armi quasi nude solo negli ospedali, anche negli ambulatori dei medici di base. Lo Snami, il sindacato che ne associa 12mila in tutta Italia (tra questi anche guardie mediche e operatori del 118), ha scritto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Lo Snami ha ordinato in Cina, a sue spese, 500mila mascherine Fffp2 e Fffp3: 4,5 euro cadauna. "Sono state bloccate", dice il presidente del sindacato Angelo Testa. Problemi doganali. Perché è vero che gli aerei cargo possono atterrare. Ma poi le mascherine non si riescono a scaricare: gli equipaggi restano sull' aereo per il timore della quarantena, gli autotrasportatori non riescono a sdoganarli perché sottoposte a varie certificazioni.

Coronavirus, l’appello dell’ex tronista Leonardo Greco dopo il ricovero: «Ragazzi non avete idea, vi prego state a casa». Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Un filmato senza filtri, fatto guardando fisso la telecamera, senza alzare lo sguardo e con la mascherina sempre indossata. L’ex tronista di Uomini e donne Leonardo Greco si è presentato così ai tanti che lo seguono, per raccontare cosa abbia significato per lui combattere il coronavirus. Lo ha fatto dicendo: «Faccio questo video perché non ce la faccio più a vedere tutta quella gente che si ammala, tutta quella gente sdraiata. Perché ero sdraiato anche io. Voglio cercare di farvi capire che non c’è cura, non c’è vaccino, c’è solo la prevenzione. Questo virus non ti guarda in faccia, ti prende e se ti prende bene, ti spacca dentro». Una video confessione in cui l’uomo, 37 anni, ha raccontato la sua esperienza con la speranza di rendere più chiaro a tutti quelli che sottovalutano l’emergenza cosa significhi essere colpiti da questa malattia. «Non è solo febbre e tosse. Io ho avuto febbre a 39 per 13 giorni, la notte prima che venissi ricoverato ho avuto una crisi respiratoria . Dovete mettervi in testa che dovete stare a casa, perché se pensate all’aperitivo, alla passeggiata, alla voglia di uscire, sappiate che non ci sarà un futuro per queste cose». Greco è stato dimesso dall’ospedale, è tornato a casa dove dovrà continuare l’isolamento. Ha raccontato la situazione degli ospedali, colmi di persone con gravi problemi respiratori, intubati e addirittura in coma farmacologico. «L’unica cosa che ti danno sono sei pastiglie al giorno che sono veleno puro, che ti distruggono e causano nausea, dissenteria, spossatezza . Per prenderti l’ossigeno nel sangue, ti fanno punture arteriose ai polsi che fanno malissimo. Non lo dico per spaventarvi, io vi sto raccontando la realtà. Riflettete, per favore. Riflettete. Io sono tutt’ora chiuso a casa, tutt’ora ho una polmonite. Rimanete a casa per poter uscire un domani, riflettete per voi e per gli altri».

Maddalena Berbenni per "corriere.it" il 19 marzo 2020. «Scusi se la chiamo ora, ma ho riposato perché di notte non riesco ancora a dormire. Ho gli incubi del casco. Sto meglio, respiro bene, ma psicologicamente è dura». Angelo Vavassori, 53 anni, è medico in Rianimazione al Papa Giovanni. Si stava prendo cura dei primi casi di coronavirus, quando è stato male lui. La febbre, la crisi respiratoria, il ritorno in ospedale, ma da paziente grave. Ora è a casa, a Treviolo. «Quella domenica, il 1° marzo, avevo il turno dalle 16 alle 24. Pur avendo la febbre, sono rimasto perché credevo fosse stanchezza».

Era l’inizio del tunnel.

«In quel momento c’erano solo i 16 posti della Terapia intensiva, erano occupati 15. Ora è tutto un altro mondo, hanno ricavato posti letto in ogni buco dell’ospedale».

Cosa ha pensato quando è arrivato il primo paziente?

«Ho pensato: adesso inizia e non finirà più, ci sarà una cascata velocissima (leggi gli ultimi dati: l’esercito porta i feretri fuori regione). Il primo paziente è arrivato il 21 febbraio, è poi deceduto. So che la sera del primo marzo stavo curando il figlio, che era nelle stesse condizioni. Da subito ho avuto la percezione che la diffusione fosse rapida».

Si aspettava così tanto?

«Sì, nella mia testa ho pensato subito che dovevamo chiudere tutto, che si doveva fare una zona rossa (leggi lo stop della Regione sull’ospedale da campo e lo scontro con Gori). Quella domenica non vedevo l’ora che il turno finisse, ma c’è un protocollo di svestizione da rispettare e il passaggio delle consegne. Devi farti la doccia prima con il sapone disinfettante e poi con quello normale. Ricordo che sentivo ancora di più la febbre, tremavo sotto la doccia».

Quando ha capito che poteva essere coronavirus?

«Lunedì mi sono svegliato e non avevo la febbre. La sera sono passato da zero a 38.8 in mezzora. La cosa che mi spaventava un po’ era che non mi sentivo spossato. La febbre batterica ti butta a terra, quella virale no».

E ha iniziato a sospettare.

«Non scendeva nemmeno con il paracetamolo. Sono arrivato a picchi di 39 e la sopportavo bene. Allora ho chiamato il medico del lavoro e mi hanno fatto il tampone: era positivo».

E poi?

«Mi sono isolato nella stanza degli ospiti, ma il venerdì ho iniziato a non respirare bene e quando la dispnea è diventata importante mi sono fatto portare da mia moglie in ospedale. Per fortuna, si era liberato un posto in semi intensiva».

Ha avuto paura?

«Sì, non mi vergogno a dirlo. Quando sono uscito di casa, ho salutato i miei 4 figli e ho pensato che non li avrei più rivisti. Il maggiore si è accorto di quel saluto speciale».

Come ha vissuto in ospedale da paziente?

«Ho riscoperto soprattutto gli infermieri, gente che conosco benissimo, di cui però, nel quotidiano, mi era sfuggita l’umanità. Da medico ti concentri sul paziente, sulla parte professionale, e perdi quel lato, che invece conta. L’infermiera che entra col sorriso ti cambia la vita, come se fossi in un mare agitato e la tempesta si placasse».

Perché ha gli incubi del casco (è l’apparecchio che aiuta i malati a respirare e a fare guarire i polmoni, ndr)?

«Sotto il casco ci sono flussi velocissimi di aria e ossigeno e un rumore continuo. Ti aiuta a respirare, ma ti senti soffocare. Sudi, io toccavo il viso contro il casco per evitare che le gocce mi entrassero negli occhi. Mi dovevo fare sedare».

Questa esperienza le ha cambiato la prospettiva?

Sì, completamente. E ci terrei che passasse un messaggio: l’unico modo per fermare l’escalation è stare in casa. Dobbiamo farlo, se vogliamo che le cose tornino a funzionare negli ospedali. Mia zia è stata ricoverata in questi giorni ed è rimasta un giorno e mezzo al Pronto soccorso con davanti altre 88 persone».

Com’è stato il ritorno dalla sua famiglia?

«Ho pianto lacrime per 10 minuti e mi sono liberato di tutto (si commuove, ndr). Ora vorrei tornare a dare una mano, ma fatico ancora a stare sulle gambe. Ho perso 6 chili di massa muscolare, non riuscivo a mangiare per gli anti virali. Ieri ho finito la cura e per la prima volta ho pranzato senza avere la nausea».

Che consiglio si sente di dare a chi è malato?

«Il covid ti distrugge soprattutto sul piano psicologico. Bisogna cercare di restare calmi, svuotare la testa dai pensieri e concentrarsi su un obiettivo: tornare a casa. Altrimenti la paura si porta via una parte della tua vita».

Giampaolo Visetti per ''La Repubblica'' il 16 marzo 2020. Quando non sono più riuscito a respirare, ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal coronavirus. Ho visto pazienti morire, conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me». Angelo Vavassori, 53 anni di Treviolo, rianimatore nell’ospedale di Bergamo, racconta dal suo letto di terapia sub-intensiva come si precipita nell’incubo Covid-19 e come si torna alla vita. «In poche ore — dice a Repubblica — sono passato da 15 a 40 respiri al minuto. Non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista. Se sono qui lo devo ai miei colleghi medici, eroi non retorici. Nei momenti più duri mi hanno fatto sentire tranquillo. La mia storia, in ore nere, può aiutare molti a non lasciarsi andare».

Come ha capito di essere stato contagiato?

«Dal 22 febbraio ho curato i primi infettati. Dal 28 il mio reparto di rianimazione è stato riservato a loro. Sabato 29 mi è salita un po’ di febbre, ma sono giorni difficili e anche domenica ho finito il turno a mezzanotte. Lunedì mattina stavo bene, verso sera avevo già 38,9 di febbre».

Come ha reagito?

«Il paracetamolo era inutile. Ho fatto due conti: se il Covid-19 mi aveva attaccato, non poteva averlo fatto quando, protetto, curavo gli altri infettati. È successo prima: a contatto con i miei pazienti chirurgici. La terapia intensiva scoppiava, mi sono chiuso in una stanza di casa».

La sua famiglia non ha temuto il contagio?

«Per due giorni mi hanno lasciato il cibo davanti alla porta chiusa. Lo ritiravo con guanti e mascherina, poi disinfettavo tutto. Comunicavamo al telefono. Non è bastato: mia moglie e il figlio più grande di 18 anni sono rimasti contagiati. I gemelli di 14 anni e la bambina di 11, per ora no».

Quando è precipitata la situazione?

«Mercoledì 4 marzo mi hanno fatto il tampone, giovedì è stata confermata la positività. La febbre restava attorno 39. La sera ho cominciato a respirare a fatica. In pochi minuti ho perso olfatto e gusto, ci vedevo sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria».

Chi l’ha portata in ospedale?

«Ho telefonato io, ma non c’era posto. Sapevo di non poter resistere a lungo. Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno. Alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata».

Come è stato curato?

«La dispnea toglie totalmente il fiato. Mi hanno infilato subito nel casco Peep a pressione di fine respirazione positiva. Ho provato a farcela senza essere sedato e intubato. Si perde comunque conoscenza, non è stato facile».

Qual è il momento più duro?

«L’inizio. Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che se tiri, entra aria. Sono un rianimatore, per giorni ho curato i contagiati: conoscere le loro reazioni mi ha aiutato a resistere».

Quali medicine le hanno dato?

«Il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo. Serve a concedere tempo agli anticorpi, che inglobano e bloccano il virus prima che comprometta i polmoni. I macrofagi assorbono poi sia il virus morto che gli anticorpi».

Quanto tempo ha impiegato per tornare alla vita?

«Per un paio di giorni sono stato assente. Avverti nel sonno che medici e macchine ti infondono ossigeno e ti idratano. Il tempo si concentra in un istante: ora so che è questa accelerazione che cancella passato e presente, il confine tra la vita e la morte».

Come è stato il risveglio?

«Pensavo di essere a casa, appena assopito. Invece nel letto accanto al mio c’era un paziente che avevo curato io per il Covid-19. Come ai bambini, ogni cosa appare nuova e straordinaria. Questo dramma ci insegna il valore di ogni piccola cosa».

Ora dove si trova?

«Sono in gastroenterologia, riconvertita al Covid-19. Respiro con una mascherina che rilascia ossigeno al 70%, circa 12 litri al minuto. Accanto a me ci sono i miei malati: sono sorpresi quando capiscono che mi sono trasformato in uno di loro».

Cosa vuole dire a chi sta lottando, come lei, per sopravvivere?

«Di non farsi paralizzare dalla paura. Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce. La mia preoccupazione però è un’altra».

Quale?

«Se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga. Chiedo a tutti di aiutarci restando in casa. È così che ci si sta vicino. Io poi da lunedì spero di ritornare al lavoro».

Giuseppe Mallozzi per ilmessaggero.it il 12 marzo 2020. «Ci sentiamo a volte stupidamente invincibili, il pericolo sembra sempre lontano e poi all'improvviso ti sale la febbre e la tosse, sarà tutta l'acqua e il freddo presi al campo, sarai stressato poi all'improvviso non riesci più a respirare». A parlare è Fausto Russo, 38enne originario della Calabria, ma residente da anni a Minturno, preparatore atletico della squadra di calcio del Fiuggi (Serie D), che si trova ricoverato per il coronavirus in terapia intensiva all'Ospedale Santa Maria Goretti di Latina, dopo aver riscontrato una grave insufficienza respiratoria. Sta combattendo contro una polmonite respiratoria bilaterale, aggravata dal Covid-19. Anche lui, nonostante sia giovane e forte, è stato colpito dal Coronavirus che sta mietendo vittime in Italia come nel mondo. Non solo anziani, dunque. Fausto è un personal trainer presso una palestra di Minturno, un preparatore atletico che mai avrebbe immaginato di trovarsi in queste condizioni. Ha voluto raccontare la sua storia su Facebook per avvertire quante più persone possibili tra quelli che hanno avuto contatti con lui nelle ultime due settimane, dimostrando forza e un grande senso civico. Un gesto di responsabilità per aiutare sé e gli altri, che assume ancor più valore perché Fausto, dal letto d'ospedale, ha pensato in primis alle persone che lo hanno frequentato, affinché possano seguire le direttive ministeriali e dell'Oms in termini di controlli. Come solo uno sportivo degno di questo nome sa fare.

LA STORIA. I primi sintomi sono comparsi giovedì scorso, quella che sembrava una semplice influenza si è poi ben presto complicata in un quadro clinico più complesso. «Dopo terapie e sempre monitorato si arriva a domenica, la febbre non scende e l'ansia sale fra qualche battuta per sdrammatizzare e continuando a pensare tutto forse come impossibile», scrive il 38enne. «È domenica sera. Direzione Latina, tac polmonite interstiziale. Ricovero immediato e terapia d'ossigeno». Fausto si ritrova catapultato nell'incubo. Ma non perde la lucidità e la speranza. «Solo e lontano dalla mia famiglia ma con un amore enorme che mi danno ogni giorno. La presenza si sente anche quando non la vedi, anche quando non la tocchi. È qualcosa che si sente dentro che ti porti dentro. E metti la paura, lo smarrimento, il senso di affetto e di responsabilità per chi ti sta e ti è stato vicino». Parole che non mancano di rasserenare anche chi gli è più vicino e non solo: «Ci stringeremo più forte, faremo passare questa tempesta vicini vicini (metaforicamente) sotto lo stesso ombrello e ripartiremo più forti e gioiosi di prima perché siamo una grande famiglia». «Andrà tutto bene», conclude. E' l'augurio di tutti. Forza Fausto, tutti insieme possiamo farcela. Lui posta una foto dal letto dell'ospedale e accanto quella di mister Invicibile. «Quello della foto 1 sono io e la foto due è come mi aspettano i miei cuccioli a casa. Devo impegnarmi. Andrà tutto bene». Appena saputa la notizia, il sindaco Gerardo Stefanelli ha inviato gli auguri di pronta guarigione al 38enne, ringraziandolo per «il grande esempio di senso civico e per l'esempio che darà ai ragazzi che probabilmente sottovalutavano questo problema e che oggi si sentiranno maggiormente coinvolti». «Questa vicenda ci dice che il Coronavirus riguarda tutti, anche quelli più giovani e forti che si sentono invincibili, pensando che tocchi solo gli anziani. Ma non è così», conclude Stefanelli.

Il calvario del medico intubato. "Si suda, sembra di soffocare". Il rianimatore nell'ospedale di Bergamo racconta la sua esperienza: "Sono passato da 15 a 40 respiri al minuto, non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista". Luca Sablone Venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. Cambiare le proprie abitudini di vita e restare in casa per l'intera giornata è sicuramente complicato. Ma in realtà chi sta compiendo veri sacrifici enormi e sta mettendo in atto una serie di miracoli sono i personali medici e sanitari: il loro compito è quello di salvare le vite altrui, ma non sono mancati i casi in cui anche loro si sono dovuti sottoporre alle cure del caso per guarire. Così come è successo ad Angelo Vavassori, che dal suo letto di terapia sub-intensiva ha raccontato in prima persona come si vive nel pieno dell'emergenza Coronavirus: "In poche ore sono passato da 15 a 40 respiri al minuto. Non mi entrava più aria nei polmoni e ho quasi perso la vista. Se sono qui lo devo ai miei colleghi, eroi non retorici". Il medico grazie a loro si è sentito più tranquillo anche nei momenti difficili: la sua storia "può aiutare molti a non lasciarsi andare". A partire dal 22 febbraio ha curato i primi infettati e sei giorni dopo il suo reparto di rianimazione è stato riservato a loro. Sabato 29 gli è salita un po' la febbre; lunedì mattina comunque stava bene ma in serata ha avuto 38,9°C. Successivamente si è messo a ragionare: "Se il Covid-19 mi aveva attaccato, non poteva averlo fatto quando, protetto, curavo gli altri infettati. È successo prima: a contatto con i miei pazienti chirurgici". Perciò, mentre la terapia intensiva scoppiava, si è chiuso in una stanza di casa. Per 48 ore si è nutrito con il cibo che la famiglia gli ha lasciato davanti la porta chiusa, che ritirava con guanti e mascherina per poi disinfettare tutto. Ma purtroppo non è bastato: "Mia moglie e il figlio più grande di 18 anni sono rimasti contagiati. I gemelli di 14 anni e la bambina di 11, per ora no". Mercoledì 4 marzo si è sottoposto al tampone e giovedì è risultato positivo: la sera ha avuto difficoltà nella respirazione, ha perso olfatto e gusto e iniziava a vedere sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria. Ha provato a telefonare in ospedale ma non c'era posto: "Sapevo di non poter resistere a lungo. Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno. Alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata". Nell'intervista rilasciata a La Repubblica, il rianimatore nell'ospedale di Bergamo ha raccontato nel dettaglio tutte le tappe che hanno portato alla sua guarigione: "La dispnea toglie totalmente il fiato. Mi hanno infilato subito nel casco Peep a pressione di fine respirazione positiva". Ha tentato di farcela senza essere sedato e intubato, ma comunque si perde conoscenza e non è stato facile. Il medico ha fatto sapere che il momento più duro è stato l'inizio: "Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell'ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po' alla volta senti che se tiri, entra aria. Ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli". Gli è stato dato il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo che serve "a concedere tempo agli anticorpi, che inglobano e bloccano il virus prima che comprometta i polmoni. I macrofagi assorbono poi sia il virus morto che gli anticorpi". Il medico ha voluto lanciare un messaggio a chi sta lottando per sopravvivere: "Non fatevi paralizzare dalla paura. Bisogna restare tranquilli e affidarsi ai medici. Ti tirano fuori, ogni polmonite regredisce". Però ha ammesso che la sua preoccupazione principale è un'altra: "Se penso ai medici e agli infermieri del nostro Paese mi commuovo. Siamo allo stremo e sappiamo che la battaglia resta lunga". Dunque ha chiesto a tutti di "aiutarci restando in casa. È così che ci si sta vicino". 

"I polmoni restano a rischio per i guariti più anziani". Il 15% di loro che si ammala soggetto a recidiva Due adulti su 10 potrebbero avere complicazioni. Enza Cusmai Venerdì 13/03/2020 su Il Giornale. Guarire dal coronavirus? Molti ce la fanno in scioltezza: dopo febbre e qualche colpo di tosse, dichiarano la fine dell'incubo dalla poltrona di casa. Molti altri escono dal tunnel dopo giorni in reparto ospedaliero imbottiti di antivirali e magari aiutati da un supporto respiratorio. I più sfortunati, e crescono di giorno in giorno, finiscono in terapia intensiva. -E quelli che ne escono, come ne escono? E quando possono dichiararsi guariti? «Bella domanda» esordisce Francesco Blasi, ordinario di malattie respiratorie all'UniMI e direttore del Dipartimento di Medicina Interna e di Pneumologia del Policlinico di Milano. Il super esperto è alle prese con l'incremento di posti letto di terapia intensiva a favore dei pazienti gravi affetti da Covid. Al Policlinico di Milano sono stati già attivati 150 letti, di cui un terzo ad alta intensità di cura e in questo drammatico momento ammette che la scienza è ancora disarmata al riguardo. NESSUNA CASISTICA «In realtà nessuno può sapere cosa succederà a queste persone perché non c'è ancora letteratura scientifica. Solo tra sei-otto mesi cominceranno ad uscire lavori sulle conseguenze della polmonite massiva. Dalla Cina per ora ci arrivano solo dati sulla fase acuta e sul trattamento».

LA SINDROME DA DISTRESS La cautela è d'obbligo di fronte al nuovo nemico invisibile. Che però provoca, nei casi più gravi, una patologia ben nota agli esperti: l'Ards, sindrome da distress respiratorio acuto, una polmonite che danneggia in maniera importante il polmone profondo che è addetto allo scambio respiratorio. «Quando si verifica questo danno i pazienti vanno intubati perché hanno bisogno di una grande quantità di ossigeno, fino a più di 60 di ossigeno al minuto al posto dei normali 8 L di aria che contiene circa il 20% di ossigeno. Solo in rianimazione si riesce a far riposare i muscoli respiratori del soggetto che vanno in stanchezza a causa dello stress respiratorio».

FUORI DALLA RIANIMAZIONE Quando il paziente migliora e viene estubato, si contano i danni dei farmaci, della febbre e dell'infiammazione. Il corpo va in atrofia, c'è un calo di peso corporeo, ci sono problemi di ripresa generale.

GIOVANE UOMO Anche se si è in perfetta forma e sportivi, come il paziente numero Uno, di Codogno, di 38 anni, si può restare in rianimazione per molti giorni. Ma dal punto di vista scientifico si sa che durante una gara agonistica lo stress fisico causa un momentaneo calo delle difese immunitarie e questo può spiegare il grave andamento in una persona apparentemente sana e sportiva. In genere, però, chi vive questa brutta esperienza ne esce anche in fretta. «In un giovane possono bastare dalle tre alle sei settimane per recuperare appieno. Ma serve innanzitutto una buona riabilitazione respiratoria» spiega Blasi.

ADULTO Dopo l'evento acuto è meno facile il recupero nell'adulto che può durare mediamente dai sei ai dodici mesi. E, in due casi su dieci, il ritorno alla normalità può non essere completo e potrebbero persistere delle anomalie della funzionalità respiratoria. «Bisogna comunque avere un grande danno per avere ricadute gravi» precisa l'esperto.

ANZIANO Per chi è in età avanzata, è più complicato guarire del tutto, soprattutto se esistono altre patologie. «Il danno al polmone difficilmente si riesce a risolvere spiega Blasi - va quindi compensato con farmaci e ossigeno. E dopo una polmonite la recidiva è intorno al 10-15% nei due anni successivi».

#Celafaremo: quattro storie dall’Italia che non si arrende e che lotta contro il virus. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Alessio Ribaudo, Erika Dellacasa, Fulvio Bufi, Marco Gasperetti. Dalle dimissioni di un’anziana donna contagiata alla mobilitazione per sostenere i più deboli: gente comune e personaggi famosi impegnati nella battaglia per superare la fase più difficile.

In principio fu Steven Zhang. Il giovane presidente cinese dell’Inter donò 100mila euro all’ospedale «Sacco» di Milano per combattere l’emergenza Coronavirus. Ieri, ha replicato regalando 300mila mascherine e altro materiale alla Protezione civile. Invece, il Milan ha devoluto 250mila euro all’Azienda regionale emergenza urgenza lombarda. Il presidente della Juve, Andrea Agnelli ha lanciato una campagna di raccolta fondi «per sostenere il personale sanitario sul territorio, a Torino e nel Piemonte e ha contribuito con 300 mila euro. Per gli ospedali della Basilicata è sceso in campo Simone Zaza, attaccante del Torino. L’attaccante del Napoli, Lorenzo Insigne, ha partecipato alla raccolta di danaro, promossa dalla Regione Campania, per sostenere gli acquisti di apparecchiature e dispositivi medicali utili al potenziamento delle strutture sanitarie regionali. In realtà non è solo il mondo del calcio che si mobilita ma è tutto lo sport. Dal pilota Valentino Rossi che ha dato un «generoso contributo» per l’azienda ospedaliera Marche Nord al nuotatore Filippo Magnini che sostiene l’attività medica degli ospedali del gruppo San Donato. Il «Piemonte team» aggrega il mondo spettacolo, della musica e dello sport. Dal trasformista Arturo Brachetti al presentatore Piero Chiambretti, passando per il golfista Edoardo Molinari, l’attore Gabriel Garko, il cantante Samuel Romano dei Subsonica. I fondi raccolti andranno alla campagna della Regione Piemonte per aiutare strutture ospedaliere, medici e infermieri. Per l’Unità di crisi della stessa Regione, l’attrice Luciana Littizzetto ha donato 20mila euro e aperto una sottoscrizione in Rete su GoFundMe. La stessa usata dalla coppia Ferragni-Fedez che hanno già raccolto 3,7 milioni di euro per l’ospedale «San Raffaele» di Milano o dal volto Rai, Salvo Sottile, che l’ha attivata per finanziare le terapie intensive della Regione Lombardia. (Alessio Ribaudo)

La prima turista infettata ad Alassio è guarita. È una singola guarigione ma ha un valore particolare: è stata dimessa dall’ospedale San Martino di Genova la «paziente zero» della Liguria. In regione il coronavirus aveva fatto la sua comparsa in un albergo di Alassio, in provincia di Savona, dove soggiornava una numerosa comitiva di turisti lombardi. L’hotel «Bel Sit» si è trovato improvvisamente al centro di una bufera: una signora di 79 anni che si era già recata una prima volta all’ospedale di Albenga accusando un generico malessere ed era stata rimandata in albergo, era risultata dopo una seconda visita positiva al coronavirus. Il 25 febbraio la signora di Castiglione D’Adda — in vacanza con il marito — è stata presa in cura dal San Martino nel reparto di malattie infettive. Da ieri è tornata a casa dove resterà ancora per un periodo sotto osservazione anche se è ormai negativa al tampone. «È la dimostrazione che questa malattia è complessa ma si può guarire, anche in età avanzata, e si torna alla vita di prima — spiega il primario, Matteo Bassetti — bisogna avere fiducia. Altri cinque pazienti sono pronti a essere dimessi. In tutto abbiamo già avuto tredici guarigioni». Altri tre pazienti ricoverati in terapia intensiva sono in sensibile miglioramento e possono respirare autonomamente. (Erica Dellacasa)

Il panettiere di Ercolano che regala pagnotte e mascherine. Abitualmente al forno di Gino Varriale si regala il pane. A fine giornata pagnotte, rosette e sfilatini non venduti vengono dati gratuitamente a chi ne fa richiesta. Adesso c’è qualcosa che pare più prezioso e desiderato del pane, e Varriale si è adeguato: regala mascherine. Tramite uno dei tanti tutorial che circolano sul web ha imparato a realizzare quelle fatte con la carta forno, gli elastici e la spillatrice. Non saranno il massimo, ma di questi tempi bisogna accontentarsi. E infatti la sua iniziativa ha avuto moltissimo successo. La bottega che Gino gestisce insieme alla moglie Lisa a Ercolano fa parte di quegli esercizi commerciali che possono continuare a restare aperti, e così da ieri chi va a comprare il pane trova anche le mascherine. «Ne avevo fatte centocinquanta e credevo fossero sufficienti», spiega Gino. E invece non sono bastate affatto, anzi, sono andate esaurite in pochissimo tempo. «Me ne hanno chieste altre e mi sono rimesso immediatamente al lavoro. Anche il parroco è venuto, perché vuole distribuirle a chi non può comprarle». In pratica da ieri Varriale ha un doppio lavoro: di notte fa il pane e di giorno le mascherine. «In questo momento dobbiamo sostenerci tutti, essere solidali. E solidarietà è anche aiutare gli altri a proteggersi». (Fulvio Bufi)

Il cardiologo al servizio di anziani ed immunodepressi. A vederli con i camici bianchi e le buste nella spesa c’è da restare un po’ interdetti. Sono commercianti di negozi di alimentari? No, sono giovani medici, molti dei quali specializzandi e studenti di medicina vicini alla laurea che a Pisa hanno deciso di aiutare le persone più esposte al coronavirus. Hanno organizzato il gruppo «Spesa sicura» e ogni giorno si mettono a disposizione di anziani, infermi e immunodepressi. L’idea è partita dall’associazione di volontariato «Cecchini cuore onlus» che si occupa della lotta alla morte improvvisa e ha installato 531 defibrillatori pubblici a Pisa. «Siamo partiti in tre — racconta Maurizio Cecchini, cardiologo — e nel giro di ventiquattro ore siamo diventati otto tra medici e studenti. Riusciamo a coprire Pisa e dintorni e Lucca centro». Ma anche altre associazioni partecipano all’iniziativa e il numero dei volontari è già raddoppiato. «Abbiamo deciso di coinvolgere medici e studenti di medicina — spiega Niko Pasculli, referente dell’onlus «Sguardo di vicinato» che opera nello stesso progetto — nel loro doppio ruolo di volontari, professionisti ed esperti. Oltre alla spesa, infatti, i medici portano infatti ai loro assistiti anche medicinali e controllano il loro stato di salute». (Marco Gasperetti)

Il primo malato milanese: «Finalmente  sono a casa, ma ho gusto e olfatto ridotti» Sintomi: quali sono. Per quanto si è contagiosi. Pubblicato venerdì, 13 marzo 2020 su Corriere.it da Sara Bettoni. Ha ripreso subito a lavorare. D’altra parte già scalpitava quando ancora era bloccato in un letto di Infettivologia al Sacco. «Ma non ho recuperato del tutto il senso del gusto e dell’olfatto. Mi spiace sa? Sono una buona forchetta...». Angelo Marzano, 57 anni, è il dermatologo del Policlinico e docente a contratto della Statale contagiato dal coronavirus. Ora è in via di guarigione.

Professore come sta?

«Sono stato dimesso lunedì, dopo tre giorni e mezzo senza febbre e un tampone dall’esito finalmente negativo. Anche la tosse è meno forte. Sto lavorando da casa, mi occupo di malattie infiammatorie rare della pelle. I primi giorni ho fatto un po’ fatica, avevo come un cerchio alla testa, oggi sto meglio».

Quando ha notato i primi sintomi?

«A febbraio sono stato all’estero per lavoro. Prima in Grecia, a un congresso con 400 persone e poi in Germania, a Monaco di Baviera, a un incontro più ristretto. La sera tra il 20 e il 21 febbraio ho avvertito i primi brividi. Il giorno dopo sono tornato in Italia e mi è venuta la febbre».

Ha pensato subito al nuovo virus?

«Mi è venuto il sospetto, ma è stata la mia compagna a insistere e obbligarmi a telefonare a un collega del Sacco, il dottor Mario Corbellino. E lui ha convenuto con me sul fatto che fossi un soggetto a rischio».

Poi il ricovero e il test.

«Il 23 febbraio è arrivato l’esito positivo. Ho il triste primato di aver rivoluzionato i criteri epidemiologici validi fino a quel momento, perché non ero stato né in Cina né a Codogno né a contatto con persone che vi erano state».

E dove pensa di essere stato contagiato?

«Nel viaggio di andata verso Monaco due file davanti alla mia era seduta una persona poi risultata positiva, me lo ha comunicato la compagnia aerea. Ma è difficile stabilire se sia stata quella la fonte del contagio e a questo punto ha anche poco senso».

Al Policlinico, dove lavora, sono stati fatti alcuni tamponi.

«Sì, che io sappia sono risultati positivi due specializzandi, con sintomi lievi».

E il virus come ha aggredito il suo corpo?

«Ho avuto due momenti difficili. Il quinto giorno c’è stato un rialzo della febbre, dovuto a una reazione immunitaria all’infezione. Poi il 4 marzo la lastra ha evidenziato una piccola polmonite. Ho avuto anche un sintomo particolare, che i colleghi mi dicono non sia comune».

Quale?

«Mi sono comparse piccole vescicole simili a quelle della varicella sul tronco, ma non sugli arti o sul volto. A chi potevano capitare, se non a me che sono dermatologo? Le ho anche fotografate. Inoltre, come nelle riniti forti, si sono ridotti il senso dell’olfatto e del gusto».

Ancora adesso non sente odori e sapori?

«Direi che tuttora sono ridotti del 50 per cento. Spero di recuperare presto, sono una buona forchetta e vorrei tornare ad assaporare il gusto del cibo».

Come l’hanno curata al Sacco?

«Con una combinazione di due farmaci antivirali di solito usati contro l’hiv e con un farmaco antinfiammatorio. Difficile dire però quanto abbiano aiutato. Ho sofferto un po’ la terapia».

Prendere il coronavirus da medico dà una prospettiva diversa alla malattia?

«Ci sono i pro e i contro. Da un lato capisci le reazioni del tuo corpo, ti aiuta a comprendere quello che sta succedendo. Dall’altro è fonte di stress e paura perché sai come potrebbe peggiorare».

Uno spavento per suoi familiari e pazienti.

«I miei figli, Federica di 16 anni e Stefano di 11, hanno capito la gravità della situazione. In questi giorni ci siamo videochiamati. Colleghi e pazienti mi hanno mandato moltissimi messaggi di solidarietà. E devo ringraziare anche la mia compagna, che mi è stata vicino».

Ora a casa sarà più tranquillo.

«Sono in quarantena, il 23 e 24 marzo farò altri due tamponi, se saranno negativi potrò uscire. A quel punto sarò pronto a fare la mia parte come dermatologo per affrontare la situazione. Devo ringraziare medici e infermieri che mi hanno curato, la sanità lombarda sta dando l’esempio al mondo intero. Alla lunga sono ottimista, ma tutti dobbiamo rispettare rigorosamente le regole di comportamento che ci sono state date».

I guariti dal coronavirus. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it. Le storie di Luigi, fotografo residente a Casalpusterlengo, Morena, operaia di Truccazzano, e dei coniugi Angelo e Daniela, medici nel Pavese: hanno sconfitto il Covid-19 di Francesco Gastaldi, Sara Bettoni, Eleonora Lanzetti.

«Guarire si può, ma ho visto un inferno». Luigi Tommasini, napoletano di origine ma residente a Casalpusterlengo, ha quasi sconfitto il Covid-19. Oggi verrà rimandato a casa dopo sei giorni all’ospedale di Lodi, di cui uno steso su una barella e altri cinque in reparto, ventilato e trattato. In terapia intensiva non ci è finito, «ma assicuro che dopo sette giorni di febbre altissima a casa non ce l’ho fatta più: non riuscivo a respirare». Nemmeno ora riesce a parlare, e affida il suo racconto a WhatsApp. Tommasini ha 59 anni, è fotografo professionista (ha uno show-room a Casalpusterlengo e lavora con il quotidiano locale Il Cittadino) e ha contratto il virus nell’ospedale di Codogno. Si trovava lì per fare riabilitazione a una spalla operata e vi è tornato nel giorno dell’esplosione del coronavirus per scattare le prime foto del nosocomio che chiudeva. «Quel maledetto virus mi deve aver attaccato proprio lì: il 24 febbraio ho iniziato a sentirmi male, avevo tosse e una febbre che non voleva saperne di andarsene. Sono arrivato fino a 39, ho resistito quasi una settimana cercando di curarmi da solo. Alla fine stavo così male che il 2 marzo mi hanno preso in carico. E mi hanno mandato a Lodi». Ciò che ha visto e vissuto lo ha scioccato. «Come fotografo di cronaca sono abituato alle scene peggiori, ma ciò che ho visto al Maggiore è da avamposto di guerra. Malati stesi in barella ovunque, perfino negli stanzini. Ho atteso l’esito in una cameretta secondaria con altri due ammalati». Fortunatamente i polmoni non erano così compromessi e il fotografo è stato ricoverato in medicina, senza essere intubato ma ventilato e con terapie antibiotiche. «Il personale a Lodi sta realmente combattendo una guerra, il modo in cui si prendono cura di noi è commovente». Lui la sua battaglia contro il virus l’ha quasi vinta. Oggi tornerà a Casalpusterlengo, in un appartamento in cui dovrà restare solo per altri dieci giorni almeno. Poi potrà riabbracciare moglie e figli. (Francesco Gastaldi)

Morena, operaia: «Una strana influenza che non passava mai. Sono stata fortunata». «Ho compiuto 59 anni il 21 febbraio e come “regalo” mi sono presa il coronavirus». Morena Colombi vede avvicinarsi la fine della quarantena passata «noiosamente a casa», a Truccazzano, Comune di circa 6 mila abitanti a Est di Milano. Non chiede di omettere il suo nome, «non ho fatto niente di male. Può succedere a tutti». Racconta che i primi sintomi del contagio da Covid-19 sono comparsi il 14 febbraio. «Era un venerdì — ricorda l’operaia —, sentivo brividi, mal di gola e avevo una tosse secca. Nel weekend la situazione è peggiorata». All’inizio non pensa però al virus «cinese». Il lunedì si presenta dal suo medico di base, che le prescrive farmaci per l’influenza. «La febbre è subito passata, tuttavia non guarivo. Facevo fatica a respirare». Quando aumentano i casi di coronavirus nel Lodigiano, Colombi pensa di poter essere stata contagiata, magari da uno dei colleghi che vanno all’estero per lavoro. «Chiamo i numeri di emergenza, ma li trovo sempre occupati. Poi telefono all’ospedale Sacco di Milano, spiego la situazione e mi dicono di andare in un pronto soccorso vicino. Così mi presento a Treviglio». Un comportamento contro le indicazioni: «in accettazione erano un po’ alterati, ma non sapevo cosa fare». Poi il tampone, l’esito positivo e il trasferimento al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove la donna viene ricoverata nel reparto di Malattie infettive il 25 febbraio. «Riuscivo a respirare da sola, le mie condizioni non sono mai state drammatiche». Già il giorno dopo viene rimandata a casa in isolamento, mentre i test sul figlio e gli altri familiari danno esito negativo. Anche i colleghi stanno bene. «Mi ritengo fortunata. Ma ci sono persone che non ce la fanno, per questo continuo a ripetere a tutti di stare a casa». In queste settimane barricata nel suo appartamento ha dovuto reimpostare la sua vita. «Anche la quarantena fa paura, ma ci si organizza. Il negozio di alimentari del paese mi lascia la spesa davanti alla porta». Morena aspetta di essere sottoposta a un nuovo tampone: uscirà solo quando l’esito sarà negativo. (Sara Bettoni)

Angelo e Daniela, medico e pediatra del Pavese: «I pazienti ci hanno mandato messaggi affettuosi. Ora hanno capito che è meglio stare a casa». Medico di famiglia lui, pediatra lei. Entrambi positivi al coronavirus che, loro malgrado, hanno trasmesso ad alcuni pazienti. Angelo Sferrazza, 64 anni, ha tre studi nel Pavese: a Pieve Porto Morone, Chignolo Po e Lambrinia. Sua moglie, Daniela Gambarana, è pediatra nella stessa zona. Ed è lei ad aver accusato i primi sintomi l’11 di febbraio. «Febbre che non passava, tosse stizzosa — ricorda il marito —. Ha fatto una lastra che ha evidenziato una polmonite doppia, perciò le ho prescritto un antibiotico. Ma col trascorrere dei giorni la situazione non migliorava». Anzi, anche il dottor Sferrazza si ammala attorno al 18 febbraio. Poco dopo vengono a sapere che all’ospedale di Codogno, dove è stata fatta la lastra, era passato il «paziente1», il primo caso di Covid-19 identificato in Lombardia. E così anche la coppia di medici viene sottoposta al tampone, che risulta positivo. «Siamo stati ricoverati nel reparto di Malattie infettive del San Matteo di Pavia – dice il dottore – dal 22 al 29 febbraio. Entrambi siamo stati curati con antibiotici e antivirali». Solo dopo un nuovo test, dall’esito negativo, sono stati rimandati a casa in quarantena. Nel frattempo sono stati controllati anche i malati che recentemente erano stati visitati dai due medici. A Pieve Porto Morone una quindicina di persone è stata contagiata dal virus: in buona parte assistiti di Sferrazza. «I pazienti erano preoccupati, ci hanno mandato messaggi affettuosi. Chi è risultato positivo fortunatamente ha avuto sintomi lievi». Altri colleghi li hanno sostituiti in questi giorni di isolamento forzato. In paese «ora le persone hanno capito che è meglio stare a casa. Lo ripetiamo anche a nostro figlio». (Sara Bettoni ed Eleonora Lanzetti)

«Sono stata in terapia intensiva. E ora vi dico: non scherzate con questo virus». Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 da Corriere.it. Abbiamo ricevuto questa lettera, firmata dalla figlia di un’insegnante milanese. Questa ragazza è stata ricoverata in terapia intensiva prima dell’emergenza Coronavirus, per motivi non legati a questo contagio. Abbiamo deciso di non pubblicarne il nome per tutelarne la privacy. Il suo vuole essere un appello a trattare questo contagio con serietà. E a seguire le indicazioni di chi ci chiede di stare a casa, limitare i contatti sociali, e fermare così questo virus. «La percezione di quello che leggiamo e che ci dicono può sembrare, per molti, lontana. Forse perché molti, fortunatamente, non hanno toccato con mano le conseguenze delle parole che sentiamo pronunciare in questi giorni. Dieci anni fa uno di questi posti in terapia intensiva è toccato a me. Per una settimana. Ho avuto bisogno di un’ambulanza che, grazie a un sistema sanitario non al collasso, è riuscita a garantire un tempo di arrivo utile a gestire perfettamente l’emergenza. Grazie ad un sistema sanitario efficiente e regolarmente funzionante, quel posto mi è stato garantito: e senza quel posto, non sarei qui a scrivere. Ho passato 5 giorni, in quel letto: in attesa che potessero farmi il secondo intervento chirurgico di cui necessitavo. Un intervento per il quale le chance (visto che ci piace tanto giocare con i numeri che leggiamo sui giornali, e che tanti con cui parlo si sentono al sicuro grazie alle percentuali che leggono) erano in mio favore. Sì, nel mio caso i numeri hanno funzionato. Ma in mezzo a queste percentuali ci sono state 24 ore, per 5 giorni; più altre 24 ore per altri 2 giorni, post intervento. Quelle ore — passate da sveglia e presente, nonostante la morfina — io non riesco a togliermele dalla testa: nemmeno adesso. Le urla di un ragazzo accanto a me che si è risvegliato intubato e che chiedeva di essere liberato. Il sangue secco sui capelli che non potevano togliermi bene. Il sondino che ti penetra la gola e del quale non si può fare a meno, anche se il desiderio di strapparselo è fortissimo. La sete, perché i liquidi di cui hai bisogno arrivano per vena, ma la bocca è talmente secca che non ti fa dormire. E nonostante questo, percepivo e beneficiavo del lavoro immane di medici, infermieri, operatori sanitari che notte e giorno ci garantivano cure, attenzioni e anche affetto. Un lavoro immane già in situazioni normali: figuriamoci in questi giorni. Questa è una minima parte di quel «posto in terapia intensiva» che se riesci a occupare, nonostante le percentuali favorevoli, ti rimane dentro, e che a dieci anni di distanza ti tiene sveglia nelle notti in cui non riesci a dormire. A chi mi dice che non è giusto, che è stufo, che non è vero, che è impaziente: stare in casa, limitando le uscite al necessario, è manna rispetto a tutto il resto. Il nostro sistema sanitario, quando può funzionare come deve, è straordinario. E per funzionare ha bisogno di un piccolo sforzo da parte di tutti. Perché ognuno dei ricoverati possa sentirsi dire quello che il ragazzo dell’ambulanza mi ha detto una notte che è passato a trovarmi: «Hai visto che è andato tutto bene?»

«Coronavirus, non capiterà a me». Poi il ricovero: il biocontenimento, il tampone, i medici (stressati e umani). Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Martina Pastori. Non so voi, ma io ho la tendenza a vivere le situazioni incerte e potenzialmente pericolose come se non mi riguardassero; le assimilo a nubi gonfie di pioggia, a lontane manifestazioni meteorologiche destinate a dissolversi prima di raggiungere me. Che si tratti di un meccanismo di autodifesa, di semplice istinto umano o di pavidità, questo è stato il mio più spontaneo pensiero nel confrontarmi con la minacciosa nube-COVID-19: c’è da averne paura, certo. Ma non capiterà a me. Bene, oggi sono qui, semi seduta nel mio letto d’ospedale, a parlarvi di come io sia stata ricoverata, in isolamento causa sospetto COVID- 19, al Sacco di Milano; con la speranza che l’informazione aiuti a smitizzare ansie e paure, a comprendere meglio il procedimento dietro ogni diagnosi e a gettare un po’ di luce sul clima che si respira, oggi, negli ospedali, tra chi è impegnato in prima linea per fronteggiare una vera e propria emergenza nazionale. Sono arrivata in ospedale alle 18.45 di lunedì 2 marzo. Dalla settimana prima soffrivo di quelli che, grazie a internet e ai telegiornali, abbiamo imparato a riconoscere come i sintomi del Coronavirus (che, nei casi più blandi, pare non si discostino molto dai sintomi della più comune influenza): febbre, tosse secca e insistente, cefalea a intermittenza, dolori diffusi, ma, soprattutto, un senso di costrizione al petto, come se non riuscissi mai a respirare al pieno della mia capacità polmonare, nonostante le cure prescrittemi dal mio medico di base e una dose quadrupla di formoterolo e budesonite, i miei quotidiani farmaci per l’asma. Così, nel corso di una mia crisi respiratoria, lunedì pomeriggio la mia famiglia ha preso per me la decisione di chiamare il 118: nell’arco di dieci minuti, due operatrici sanitarie, mascherine ffp3 a coprire loro naso e bocca, erano già all’opera nel provarmi febbre, pressione e saturazione, nel farmi indossare a mia volta una mascherina e nell’approfondire la mia sintomatologia, oltreché eventuali contatti avuti con persone provenienti dalle cosiddette zone rosse - contatti, questi, impossibili da ricostruire con certezza per chiunque, come me, frequenti l’università a Milano e prenda abitualmente i mezzi pubblici. Quindi, le operatrici si sono messe in contatto con il Servizio Sanitario Nazionale, al quale hanno riportato tutta la mia anamnesi. Ho capito che mi avrebbero ricoverata, e dove mi avrebbero portata, sentendo la voce all’altro capo del filo prescrivere alle operatrici di procedere con la - loro - vestizione; terminata la quale (che mi ha garantito un minimo margine di tempo per racimolare un pigiama, spazzolino e dentifricio e qualche libro), senza tante spiegazioni né, tanto meno, rassicurazioni, sono stata caricata su un’ambulanza diretta al Sacco. Una volta all’ospedale, ad accogliermi sono stati degli infermieri dotati di tute, copriscarpe, mascherine, cuffie e guanti, che mi hanno subito fatta accedere a una stanza di biocontenimento, il primo impatto con la quale non è stato rassicurante: sulla porta spiccava il simbolo del biohazard, un cartello informava che in quegli scarsi due metri per tre potevano sostare massimo tre persone per volta perché venisse rispettata una distanza di sicurezza di due metri, e un altro ancora che per comunicare con il personale medico bisognava premere un pulsante. Sedie di plastica, nessun tavolino, una porta a chiusura ermetica, un calorifero da campeggio per mantenere una temperatura accettabile malgrado il vento che filtrava da sotto la porta; seduta in un angolo, anche lei in attesa, c’era una donna, quando sono arrivata dormiva, poi mi ha detto di essere in attesa di una stanza, poi si è addormentata di nuovo. Le ore trascorse in quella saletta sono state le più lente del mio ricovero - adesso, col senno di poi, penso che fosse anche perché non sapevo bene cosa sarebbe successo poi: nessuno me l’aveva anticipato, non c’era l’ombra di un medico, li pensavo impegnati altrove, con persone più gravi e sofferenti di me, eppure non riuscivo a smettere di chiedermi dove fossero tutti. Poco dopo mezzanotte, mentre provavo a dormire sdraiata alla bell’e meglio sulle sedie, la porta chiusa ermeticamente si è aperta, e per un istante ho creduto di stare vivendo un film: davanti a me c’erano tre medici, e il mio primo pensiero è andato agli astronauti pronti a un volo nell’interspazio; erano così ugualmente impersonali, coperti e mascherati a quel modo, che mi riusciva difficile distinguerli l’uno dall’altro, o capirli perfettamente quando parlavano. Mi hanno fatta sdraiare su un lettino, e rivolto pressappoco, per metterle a verbale, le stesse domande che mi erano già state fatte; mi hanno misurato la temperatura, la pressione, il livello di ossigeno nel sangue; quindi un prelievo, e una radiografia al torace; e, infine, il tampone per verificare la positività o meno al COVID-19. La denominazione precisa è quella di tampone rino-faringeo; confesso di non essermi mai interrogata sulla natura di questo esame, prima di doverlo fare, e di aver erroneamente dedot- 1 to che mi avrebbero estratto un tampone di saliva dalla bocca. In realtà, il tampone rino-faringeo consiste, invece, nel prelievo di materiale esaminabile con l’aiuto di quello che sembra un cotton fioc di circa quindici centimetri di lunghezza; lo strumento viene inserito prima in una narice, poi nell’altra, e il risultato è una sensazione di dolore misto a fastidio, oltre che alla tentazione di starnutire. Tutti e tre i medici sono stati, nel corso dell’intera procedura, estremamente gentili e umani, nel tentativo di distrarmi, e persino di farmi sorridere; non l’ho dato per scontato, non a mezzanotte passata, non dopo chissà quanti altri tamponi ed esami fatti. Questo genere di persone, chi continua a fare bene il proprio lavoro anche in situazioni di stress, ritmi serrati e allarmismo, sono coloro che più si avvicinano alla mia definizione di eroi moderni. A esami conclusi, e sempre con l’equipaggiamento - mascherina, guanti, copriscarpe - del caso, sono stata trasferita nell’area destinata alla degenza dei pazienti in attesa del risultato del tampone. In tempi normali, per esaminare un tampone bastano tre ore; all’inizio dell’epidemia di Coronavirus in Italia, intorno al 21 febbraio, la media dei tempi di attesa era di circa sei ore; oggi, complice la grande quantità di tamponi realizzati ogni giorno, i tempi di attesa [n.d.r.: almeno per quanto riguarda il Sacco, il cui team di infettivologi esamina i tamponi in loco, senza doverli spedire altrove] possono dilatarsi fino alle quarantott’ore. Non sapevo, inizialmente, quanto avrei dovuto aspettare; a dire il vero, l’idea dell’attesa, una volta entrata finalmente nella mia camera, non mi pesava neppure. Le camere dei pazienti per i quali non si può escludere il contagio da COVID-19 sono singole, e strutturate come normali camere d’ospedale, non fosse per l’anticamera - in gergo: il filtro - che le separa dal corridoio del reparto, nella quale ai pazienti è vietato sostare: il filtro è dove gli infermieri depositano i pasti per i degenti; una volta usciti gli infermieri, i pazienti possono recarsi nel filtro, con mascherina e guanti, e portare in camera i pasti. Una volta in camera, possono stare senza maschera e guanti; prima che qualcuno entri nella stanza, vengono avvisati tramite interfono, e viene loro prescritto di indossare guanti e mascherine e di muoversi il meno possibile. I contatti con il personale medico sono ridotti all’osso: due volte al giorno, alle tre del pomeriggio e alle otto di sera, ai pazienti viene richiesto di provarsi la febbre, e di comunicare tramite interfono la propria temperatura corporea. Per quanto mi riguarda, ho ricevuto la visita di un medico solo il primo giorno, perché avevo la febbre alta; i restanti due, alle sei del mattino, quella di un’infermiera che passava a misurarmi la saturazione e a valutare le mie condizioni di salute. A chiunque vedessi chiedevo con ansia degli esiti dei miei esami, che tardavano ad arrivare. Attraverso le pareti sottili trapelavano i rumori dell’ospedale intorno: le chiacchierate al telefono della signora nella camera accanto alla mia, risultata positiva al COVID-19 benché asintomatica; i colpi di tosse di altre due, forse tre persone. Dall’unica finestra, priva di maniglie e impossibile da aprire, come quelle dei grattacieli, non vedevo niente, perché il vetro era smerigliato e opaco. Avevo come l’impressione di essere sospesa fuori dal mondo. Nelle circa trentasei ore di attesa del risultato del mio tampone, oltre a leggere e a tenermi informata, tramite social media, su quello che avveniva fuori, ho pensato principalmente due cose: uno: visto dall’interno, il COVID-19 sembra destare serie, serissime preoccupazioni; due: Dio benedica la sanità pubblica. Quanto alla prima affermazione, posso solo che motivarla dicendo che la mia percezione - la percezione non di un medico o di un virologo, ma di una comune cittadina che si sforza di tenersi costantemente informata sui fatti - è stata quella di una situazione di indubbia emergenza: le misure prese nei miei confronti sono state onnipresenti, calcolate al millimetro, restrittive a dir poco. Percepivo la cautela, il professionalissimo timore negli sguardi degli infermieri, la loro volontà di trattenersi il meno possibile nella mia camera; la stanchezza, anche. La prima notte, l’infermiera che mi ha accompagnata in radiologia mi ha detto, mantenendo accuratamente la distanza di sicurezza di due metri: «In questi giorni sto ringraziando di non avere famiglia: i miei colleghi non riescono più a vedere mogli e figli. Non sanno che turni avranno, quando potranno dormire». Aveva gli occhi cerchiati e violacei, sopra la mascherina. Eppure era premurosa e attenta, mi ha chiesto quanti anni avessi, che scuola facessi, ha sorriso all’idea che fossi più grande di quanto pensasse; e premurosi lo sono stati tutti, sempre, a discapito di tutto. L’idea che in molti lottino da settimane e in silenzio, mettendo a repentaglio salute, ritmi di vita e legami affettivi dovrebbe aiutarci a ridimensionare il fenomeno, a capire che le persone coinvolte, al di 2 là dei veri e propri malati, di quelli che purtroppo sperimentano il COVID-19 sulla loro pelle, sono molte di più; che questa guerra riguarda noi, tutti noi, e non soltanto gli altri. In secondo luogo, si diceva: Dio benedica la sanità pubblica. Non oso immaginare quanto il mio ricovero di tre giorni mi sarebbe venuto a costare se fossi stata, mettiamo, una cittadina dello Stato di New York: sei, settemila dollari? Ottomila? Il solo tampone rino-faringeo avrebbe sfiorato i tremila dollari; è facile tirare le somme, e concludere che una buona fetta della popolazione americana, con grande gioia del COVID-19, non potrà permettersi l’esame. Il nostro diritto alla diagnosi è alla portata di tutti, ed è giusto che sia così; ma non si dovrebbe dare per scontato, perché scontato non è. Quanto a me, oggi, in data 4 marzo, a distanza di quasi trentasei ore, è arrivato l’esito del mio tampone: negativo. A comunicarmi il risultato sono stati due medici giovanissimi, forse specializzandi; hanno aperto la porta della mia stanza senza paura, sorridenti, quasi espansivi, hanno detto: «Portiamo buone notizie.» Li ho ringraziati con la stessa gratitudine che avrei voluto dimostrare a ogni medico, a ogni infermiere. In risposta loro mi hanno visitata, ancora una volta; mi hanno detto di prepararmi, che mi dimetteranno di qui a un’ora, un’ora e mezza. Ho ancora un po’ di tosse, ma niente più febbre. Io e i miei polmoni asmatici ce ne andremo di qui leggeri come non mai. Questa stanza verrà pulita, disinfettata, cambieranno le lenzuola, svuoteranno i cestini. Sarà presto pronta per qualcun altro.

·        Gli altri malati.

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 13 novembre 2020. Visite rimandate, terapie non aggiornate, rapporto con il proprio medico interrotto. Tra "color che son sospesi" dall' emergenza Covid ci sono sicuramente i malati di Parkinson. Parliamo di persone che hanno bisogno di continuo approvvigionamento di farmaci, di esami clinici frequenti e controlli periodici. «Le decisioni prese in questa fase di emergenza impattano profondamente e in modo negativo sulla gestione della cura di questi pazienti», denuncia la sezione torinese dell' Associazione italiana parkinsoniani, in una lettera aperta inviata al presidente del Piemonte Cirio, a mezza giunta regionale e a tutti i direttori delle Asl. «La scelta di dedicare il Martini e altri ospedali del territorio completamente ai pazienti Covid toglie la possibilità di svolgere le visite», avvertono. Ed è una preoccupazione che non riguarda solo i 22mila malati di Parkinson piemontesi, ma può essere estesa agli oltre 250mila registrati in tutta Italia. «In alcuni casi ci si sta organizzando con visite telefoniche o, quando possibile, con videochiamate - spiega Ubaldo Pilotto, referente Aip di Torino - ma così il medico fatica a rendersi conto delle reali condizioni del paziente. Senza contare che tutte le nuove prese in carico sono sospese». In pratica chi si ammala di Parkinson adesso, magari in una regione "rossa", rischia di veder slittare la diagnosi e l' inizio delle cure. In alcuni ospedali, però, le visite stanno continuando, magari ridotte e limitate ai casi più urgenti. Al Centro Parkinson dell' ospedale Molinette di Torino «stiamo chiamando tutti i pazienti con visite programmate per valutare chi può rimandare e chi, invece, deve venire», assicura il neurologo Leonardo Lopiano, che lo dirige da molti anni. «Un paziente che è in fase avanzata della malattia, con blocchi motori frequenti nella giornata, necessita di aggiornamenti terapeutici non rinviabili - spiega - Per i pazienti meno gravi, si sta cercando di attivare il servizio di telemedicina, il consulto video a distanza». Una soluzione che, però, in molte altre regioni non esiste, con il risultato che non tutti i malati di Parkinson sono uguali. «Senza dubbio c' è un' assistenza un po' a macchia di leopardo - conferma il professor Fabrizio Stocchi, responsabile del Centro Parkinson dell' IRCCS San Raffaele di Roma - da noi finora siamo riusciti a rispettare il programma delle visite e l' attività di ambulatorio in presenza, ma so che in altre realtà si sono fermati». La visita a distanza, così come le lezioni per gli studenti, «non può essere la stessa cosa - dice Stocchi - il contatto diretto consente una valutazione migliore, ma in emergenza anche noi facciamo alcune visite via Skype o Zoom». Il San Raffaele è un polo di riferimento per il centro-sud, vengono seguiti duemila pazienti all' anno, arrivano malati di Parkinson dalla Sicilia o dalla Calabria, «e ora che in alcune regioni sono previste restrizioni agli spostamenti, anche se per motivi di salute sono consentiti, abbiamo registrato diverse defezioni». Il problema maggiore, però, è quello di riuscire a continuare la fisioterapia, con molti centri specializzati costretti a chiudere o a ridurre di molto i numeri. «È un' attività fondamentale per i nostri pazienti, interromperla comporta conseguenze molto negative, lo abbiamo già visto dopo il lockdown della scorsa primavera», spiega Lopiano. Per questo lo sforzo delle associazioni è quello di riconvertire le attività online: «Abbiamo predisposto anche corsi di logopedia, musicoterapia, la riabilitazione cognitiva - racconta Pilotto - tutte cose che evitano un peggioramento della malattia, soprattutto se i malati sono costretti a stare bloccati in casa».

Fabio Di Todaro per lastampa.it il 5 novembre 2020. Un drastico taglio, ma non con il bisturi. Piuttosto, al bisturi. Chi ha dovuto frequentare gli ospedali per curare un tumore nel corso della prima ondata di Covid-19 sa quanto sia stato difficile evitare che la pandemia avesse un riflesso sulla propria malattia. L’emergenza infettiva ha infatti determinato «un'importante riduzione in quasi tutti gli ambiti della chirurgia oncologica», è il responso di un’indagine presentata nel corso del congresso della Società Italiana di Chirurgia Oncologica (Sico) presieduta dal capo dell’oncologia dei sarcomi dell’Istituto dei Tumori di Milano, Alessandro Gronchi. Capitolo chiuso? Macché. Proprio nella fase in cui gli specialisti si erano ripromessi di smaltire gli arretrati entro la fine dell’anno, il Covid-19 ha rialzato la testa. I calendari degli interventi di chirurgia oncologica, per il momento, non sono stati toccati. Ma quanto accaduto tra marzo e aprile va tenuto in considerazione, per non reiterare gli errori. «Il rischio che negli ospedali ci si ritrovi ancora di fronte a una competizione tra pazienti esiste», afferma Ugo Boggi, a capo dell’unità operativa complessa di chirurgia generale e dei trapianti dell’azienda ospedaliero-universitaria di Pisa.

Tumori: meno interventi a causa del Covid-19. I chirurghi oncologi italiani hanno fotografato l’impatto della pandemia sugli interventi che vengono effettuati per la rimozione di un tumore. Partendo dall'assunto che ogni anno in Italia quasi 300mila pazienti vengono operati per asportare una forma di cancro, non si è probabilmente lontani dal dato complessivo se si ipotizza che (almeno) settantamila italiani abbiano dovuto fare i conti con lo slittamento di un intervento chirurgico. O, nella migliore delle ipotesi, con l’indicazione a recarsi in un centro più vicino al proprio domicilio. E - possibilmente - esposto a un più basso rischio infettivo. Finora, però, non c’erano dati ufficiali. Da qui la rilevanza dell’indagine voluta dalla Sico per verificare quanto accaduto nei centri che effettuano il maggior numero di procedure di chirurgia oncologica. Gli esperti hanno individuato i 29 ospedali con la maggiore esperienza nel trattamento chirurgico dei tumori (59.6 per cento nel Nord Italia, 20.7 per cento sia nelle Regioni del Centro sia del Sud del Paese) per poi procedere alla raccolta delle informazioni suddivise per tipologia di cancro trattato (tiroide, melanoma, sarcomi, esofago, stomaco, fegato, pancreas, colon-retto, seno). In linea generale, «a risentire maggiormente della pandemia sono stati gli interventi che avrebbero portato al ricovero dei pazienti in terapia intensiva», ha spiegato Boggi, di fronte a una platea (virtuale) di quasi 200 colleghi. E dunque: la cura dei tumori del fegato, del pancreas, del peritoneo e dei sarcomi addominali.

Sanitari dedicati quasi solo al Covid-19. A causare una flessione degli interventi sono stati pure il calo degli accessi ai percorsi per la diagnosi e la riduzione della mobilità lungo lo Stivale, che ha determinato un sensibile calo delle prestazioni nelle strutture di eccellenza: molte delle quali localizzate nelle aree più colpite dalla pandemia. Ma è sull’aspetto dell’organizzazione interna che occorre lavorare in questa fase, per evitare spiacevoli ricadute. Oltre alla riduzione dei posti in terapia intensiva, la pandemia ha determinato il dirottamento degli anestesisti e degli infermieri verso i pazienti più gravi colpiti da Covid-19. Una scelta obbligata, che però «ha portato a vedere prevalere i diritti degli uni su quelli degli altri», riconosce Boggi, docente di chirurgia generale a Pisa e a Pittsburgh. Un limite che rischia di tornare a galla nelle prossime settimane, se i contagi e i ricoveri non dovessero calare. «I dati ci dicono che l’attività negli istituti oncologici è calata meno che nelle altre strutture. Più in affanno invece sono andati gli ospedali generalisti». È dunque soprattutto in questi luoghi di cura - ospedali e policlinici - che le risorse sanitarie da destinare ai pazienti sono entrate in competizione. Per evitare di ritrovarsi ancora una volta di fronte al dilemma su chi trattare prima, «negli ospedali vanno creati dei centri tumori funzionali e incrementati i posti di terapia subintensiva e intensiva». Diversamente, il prezzo da pagare a causa della pandemia sarà destinato a crescere ulteriormente.

Covid e cancro, la denuncia di Martina Luoni: “Non mi seguono più”. Notizie.it l'08/11/2020. Su Instagram Martina Luoni, 26enne affetta da cancro, denuncia l'inefficienza della sanità, incapace di seguirla a causa dell'emergenza covid. Martina Luoni, 26enne residente a Milano, da anni lotta contro il cancro, e su Instagram ha deciso di raccontare la sua storia, condividendo le difficoltà per tutte le persone come lei nel farsi seguire constantemente in questo momento di piena emergenza causa covid. La ragazza denuncia “Il sistema sanitario mi ha abbandonato”. Nel 2017 a Martina Luoni era stato diagnosticato il cancro al colon metastatico, e da allora ha fatto notevoli progressi, ma sfortunatamente a causa dell’emergenza covid, la 26enne di Milano è stata abbandonata a se stessa. Così su Instagram Martina ha deciso di condividere al sua storia, le sue sensazioni, nonché la sua sofferenza pe run sistema sanitario che da marzo non è in grado di seguire persone come lei affette da questo male: “Il sistema sanitario è così tanto in sofferenza che non i può più curare”.

La storia di Martina.

“A 23 anni mi hanno diagnosticato un cancro al colon con metastasi al fegato – racconta Martina – Dopo vari interventi e varie chemioterapie ero stata dichiarata guarita, ma a dicembre 2019 i controlli hanno rivelato che la malattia non era scomparsa e aveva ripreso a lavorare”.

A marzo 2020 perà scoppia la pandemia mondiale e con esso il lockdown. “Non ho potuto fare nessuna visita specialistica in compagnia dei miei genitori – aggiunge la giovane nel suo intevento social – Ovviamente si preferiva far entrare solo il paziente ai colloqui, ma in questo modo si isola ulteriormente i malati”.

Sempre a marzo, la ragazza si rivolge al San Raffaele di Milano per la conservazione ovarica, prima di inizare con la chemioterapia e radioterapia. Sfortunatamente però dall’ospedale fanno sapere che gli ambulatori sono chiusi causa covid. All’inizio i medici le dissero che il cancro non era operabile, ma dopo i vari cicli di chemio e radio, i medici cambiarono idea, ma purtroppo non si trovò mai la data dell’intervento.

L’appello social. Fedez e Chiara Ferragni sono tra i followers che hanno condiviso la storia di Martina, raggiungendo quita 4 milioni in poche ore. “Grazie alle centinaia di condivisioni si sta muovendo qualcosa” raccontala ragazza nelel sue stories. “Ho ricevuto le chiamate dal sindaco Beppe Sala e si scusa per la situazione“. “Io parlo per me, ma anche per tutte quelle persone che sono nella mia situazione. La situazione è grave“, denuncia Martina. ” Quando dite ‘è solo un influenza, sono giovane’, dovete pensare ai vostri familiari e alle vostre conoscenze che possono o potranno avere bisogno di cure mediche non solo legate al coronavirus”. In conclusione la ragazza ricorda il dritto universale alla salute: “ Non possiamo spegnere il sistema sanitario a causa della pandemia”.

L'appello della 26enne su Instagram: "Per il Covid salta il mio intervento salvavita". Nessuno la cura a Milano per il Covid, la speranza arriva dal Pascale di Napoli: “Vieni da noi”. Redazione su Il Riformista l'8 Novembre 2020. “Io parlo per me, eppure credo di dar voce a tanti: ci vengono annullati gli interventi, la situazione è grave, ma non possiamo far spegnere la sanità per il Covid”. Martina Luoni, 26 anni, di Milano, ha un brutto tumore al colon, lancia sui social un appello doloroso. Nel video che posta su Instagram sorride ma racconta che per l’effetto della pandemia sulle attività degli ospedali non può sottoporsi a un intervento salvavita. Martina è malata di cancro, abita nella Milano flagellata dal virus. In poche ore il suo appello è diventato virale ed è arrivato anche all’Istituto dei tumori Pascale di Napoli che ha risposto all’appello della ragazza: “Vieni a curarti da noi”. “Quando dite che questa è un’influenza e ‘tanto io sono giovane’ – continua nell’appello social – dovete invece pensare a vostra sorella, a vostra mamma, vostro nonno. Le vostre famiglie, io non ve lo auguro, potrebbero aver bisogno di cure mediche, anche non per il Covid. Ma, ragazzi, le cure ci vengono tolte!”. E aggiunge: “Bisogna rispettare le regole: distanziamento, mascherine. Perché gli ospedali, e io ne giro tanti, sono al collasso. Non possiamo far spegnere la sanità per il Covid”. Tre anni fa a Martina è stato diagnosticato un cancro al colon con metastasi al fegato. Seguono cure e operazioni, poi la speranza: “Ero stata dichiarata guarita”. Ma poi la drammatica notizia: a dicembre 2019: “La malattia era tornata. È ricominciato un calvario”. A marzo 2020 la pandemia affligge la Lombardia e il sistema sanitario è in affanno. I controlli subiscono ritardi su ritardi e “molti ospedali non mi hanno nemmeno preso in cura”, racconta. Prima della chemioterapia chiede di far conservare gli ovuli. “Era tutto programmato ma due ore prima della visita mi chiamano: gli ambulatori sono chiusi per la pandemia. Via, tolta un’opportunità”. Così per Martina comincia un vero e proprio calvario, un interminabile pellegrinaggio da un polo sanitario all’altro. “Mi propongono un intervento salvavita. L’altro giorno, nuova telefonata: attività chirurgica sospesa”. Restare in silenzio non era possibile. È nata questa “denuncia contro non so chi, anche stare ai piani alti non è facile, ma io dico: sospendere l’attività chirurgica non è la scelta giusta. Si crea pericolo per persone che ce la stanno mettendo tutta”. L’appello, sul web, vola: “Condividete. Dateci voce perchè chi come me ce la sta mettendo tutta per guarire non può vedersi negate le cure”. Nel giorno in cui le arriva la notizia che il suo intervento è stato annullato perché la sanità lombarda, causa Covid, non può più curarla il suo SOS arriva molto lontano, diventa virale e arriva anche a Napoli, direttamente al direttore generale del Pascale di Napoli, Attilio Bianchi, che legge il grido accorato di questa giovane donna, da tre anni affetta da tumore al colon, si consulta con il management e con gli oncologi dell’Ente e decide che, sì, Martina può venire a curarsi a Napoli. Per comunicare con la giovane usa lo stesso mezzo che ha usato lei: la pagina Istagram del Pascale.

L’assurdo senza fine delle “vittime invisibili”, che muoiono perché si cura (quasi) solo il covid – ABISSI VIRALI. Natale D'Amico e Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 30 ottobre 2020. I dati Istat confermano quanto i medici denunciano da mesi: nel solo periodo di marzo-aprile i decessi non causati dal virus sono stati oltre 20mila in più rispetto alla media degli anni precedenti. Il 22 ottobre l’Istat ha finalmente diffuso il totale dei decessi registrati in Italia nel periodo gennaio- agosto 2020, mettendolo a confronto con quanto avvenuto in media nello stesso periodo degli anni 2015-2019. Ciò consente di rispondere ad alcune domande che si sono affacciate nel dibattito pubblico sulla mortalità da coronavirus. Tutti ci siamo chiesti se e quanto la pandemia – costringendo a concentrare le risorse soprattutto sugli interventi anti-covid – abbia ostacolato la cura e la prevenzione di altre patologie. Le conclusioni alle quali si giunge guardando ai dati diffusi dall’Istat sono crudeli. La gran parte dei decessi da coronavirus si è registrata tra marzo e aprile, ben 27.938 su un totale a fine agosto di 45.483. Esiste ampia seppure non ancora sistematica evidenza del fatto che in quei mesi il rapido progredire dell’epidemia ha messo in crisi i sistemi ospedalieri e di cura. Il che ha probabilmente condannato un certo numero di persone colpite dal virus, che in condizioni diverse si sarebbero salvate. Ma ciò ha inoltre accresciuto tragicamente quelli che – con discutibile eufemismo – i militari chiamano “danni collaterali”. Si tratta degli “altri malati” la cui cura ha dovuto essere sacrificata per fronteggiare il covid. Infatti negli stessi due mesi si sono registrati ben 48.010 decessi in più rispetto alla media degli ultimi 5 anni. La differenza di tale cifra rispetto ai decessi Covid sono “altri malati”. In sintesi, nel momento di crisi peggiore del sistema di ricovero e cura, ad ogni tre decessi da coronavirus se ne sono aggiunti almeno altri due da “danni collaterali”. Per comprendere la gravità della cosa, bisogna scendere ancora di più nel dettaglio. Circa la metà (13.749) dei decessi da coronavirus registrati in Italia nei mesi di marzo e aprile sono avvenuti nella sola Lombardia. In quella regione la crisi dei sistemi ospedalieri e di cura si è fatta particolarmente acuta. Tanto che ad ogni tre decessi da coronavirus nella regione si sono aggiunti almeno 5 decessi e mezzo da “danni collaterali”. Se ne conclude che il Covid-19 come sapevamo può uccidere. Uccide molto di più – direttamente e indirettamente – se gli si consente di mettere in crisi i sistemi ospedalieri e di cura. Tutto ciò non vale solo per il passato, ma tragicamente deve servire da monito per le prossime, difficili, settimane. E, prima o poi, servirà per giudicare a mente fredda quanto è avvenuto nei tre mesi e mezzo trascorsi tra metà maggio e inizio settembre, fine della prima e inizio della seconda ondata dell’epidemia. Avrebbero dovuto essere celermente rafforzate le strutture ospedaliere e di cura. Sarebbe stato necessario fornire alle persone entrate in contatto con il virus una assistenza domiciliare, anche solo telefonica, che le tenesse lontane fin quando possibile dagli ospedali. Sarebbe stato essenziale salvaguardare la funzionalità delle parti non-Covid del sistema sanitario. Altro che rotelle ai banchi di scuola. Purtroppo il non fatto, il fatto troppo poco, il fatto male e tardi, rischierà di tradursi in una perdita aggiuntiva di vite umane superiore a quella direttamente prodotta dalla pandemia. Ogni rimedio, se ancora c’è tempo, va predisposto subito.

Patrizia Floder Reitter per la Verità il 6 novembre 2020. Pazienti con scompenso cardiaco che non vengono ricoverati. Cure negate perché l'emergenza Covid sta paralizzando ancora una volta i nostri ospedali. Lo scorso aprile, uno studio del Centro cardiologico Monzino di Milano segnalava che la mortalità per infarto acuto si era quasi triplicata dall'inizio dell'anno e che erano diminuite del 40% le procedure salvavita di cardiologia interventistica. I pazienti arrivavano in ospedale «già con complicanze aritmiche o funzionali». Come aveva scritto La Verità, conteggiando i 5.968 decessi in seguito a infarto miocardico acuto e i 14.511 morti per altre malattie del cuore, al 6 aprile scorso la triste conta era di 20.479 vittime di malattie del sistema cardiocircolatorio. Aggiungendo i decessi per malattie cerebrovascolari (15.948) in cui rientrano, per esempio, gli ictus causati da embolie di origine cardiaca, il dato finale era enorme rispetto ai morti per Covid che, alla stessa data, risultavano 16.523. Oggi stiamo assistendo allo stesso paradosso, come segnala con grande preoccupazione Bernardo Cortese, primario di cardiologia presso la clinica San Carlo a Paderno Dugnano, già cardiologo al Fatebenefratelli di Milano ed esperto di emodinamica.

Davvero si continua a morire più di cuore?

«Certo, il coronavirus in Italia miete circa 250 - 300 vittime al giorno. I decessi per malattie cardiovascolari sono invece 550-600, quindi il doppio. I numeri sulla mortalità da Covid in Italia non sono preoccupanti, grazie al cielo le terapie intensive non sono piene di persone che si sono prese il virus, quindi non si capisce perché abbiano bloccato già da settimane qualsiasi altra attività ospedaliera».

 A quale blocco si riferisce?

«Una decina di giorni fa, a tutti gli ospedali pubblici e privati della Lombardia è stata mandata dalla Regione una lettera che vieta di seguire i casi clinici elettivi, cioè i pazienti che non necessitano di interventi chirurgici urgenti. Possono accogliere solo gli infartuati, le emergenze. Ma se le persone soffrono di angina da sforzo, che può portare all'infarto del miocardio, o se hanno un pacemaker che si sta scaricando, non possiamo ricoverarli. Anche il paziente con aneurisma, una dilatazione anomala localizzata nell'aorta addominale che significa una bomba che può esplodere, non si può operare. Accade pure in Campania e in Toscana, ordinanze che non trovano giustificazione».

La paura è che servano sempre più posti letto per i pazienti colpiti dal virus.

«Lo capisco, ma quello che sta succedendo nelle cardiologie lombarde è uno spostamento di massa di medici e infermieri nei reparti Covid, in una percentuale che varia dal 30 all'80 per cento. Nell'area metropolitana di Milano alcuni reparti sono addirittura chiusi, come la cardiologia del Policlinico, quella dell'ospedale Sacco, dell'Auxologico. Al Niguarda, tre cardiologie su quattro non lavorano più. Per non parlare delle cliniche private. Dove può andare allora il paziente cardiopatico? 

I medici di famiglia sconsigliano di recarsi al Pronto soccorso.

«Giustamente. Però così si muore a casa, per paura di contagiarsi o di essere respinti come purtroppo accade. Non dobbiamo "chiudere" gli ospedali. È un errore gravissimo concentrare tutta l'attenzione sanitaria sul Covid. Stiamo sbagliando nei confronti del cittadino. I pazienti elettivi rappresentavano l'80% dell'attività del mio reparto. Presumo che per mesi potremo occuparci solo delle urgenze e temo che alla fine sarà altissimo il numero di persone che saranno morte per patologie cardiovascolari, senza riuscire a farsi curare».

Che cosa si dovrebbe fare?

«Mi sembra che ci sia una confusione assurda. Bisogna mettere allo stesso tavolo governatori ed esperti, ma si sbaglia a invitare solo i virologi che non sono famosi per curare i pazienti. Occorre ascoltare il chirurgo, il cardiologo, l'oncologo, i medici che devono affrontare altre patologie di cui i cittadini soffrono. D'accordo mettere a disposizione risorse specialistiche per affrontare il Covid, ma non così. In questa seconda ondata non ce n'è la necessità. Altrimenti rischiamo di far morire, d'altro, molti più italiani».

Dimezzati i ricoveri per infarto, l’allarme dei cardiologi. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Silvia Turin. «Da qualche settimana tutti i nostri timori e preoccupazioni sono rivolti al coronavirus. Questo è un bene perché ci induce rispettare i provvedimenti restrittivi e a non affollare i pronto soccorso ma c’è un aspetto preoccupante che sta emergendo: chi ha un infarto o altre emergenze è restio a rivolgersi al 118 per paura del contagio in ospedale». È l’allarme lanciato dai cardiologi dopo uno studio della Società Italiana di Cardiologia (Sic). In un campione di 50 Unità di terapia intensiva cardiologica, dal 12 al 19 marzo, si sono registrati 349 ricoveri rispetto ai 693 della stessa settimana del 2019. «Nei pazienti con infarto è stata notata una sorprendente riduzione dei ricoveri superiore al 50% e la sensazione degli ultimi 2-3 giorni è quella di una riduzione ancora maggiore. Il calo è più evidente per gli infarti con occlusione parziale della coronaria ma è stato notato anche in pazienti con una forma più grave di infarto. Ridotto anche il numero di ricoveri per scompenso cardiaco, anomalie del ritmo cardiaco e disfunzione di pacemaker e defibrillatori», afferma Ciro Indolfi, presidente Sic, Ordinario di Cardiologia Università Magna Grecia di Catanzaro e promotore del registro. L’andamento non presenta sostanziali differenze dal Nord al Sud. Ulteriore problema il fatto che le persone con infarto che sono arrivate in ospedale lo hanno fatto tardivamente. «Le motivazioni di tale drastica riduzione dei ricoveri sono in fase di analisi. Sicuramente la paura dei pazienti di ricoverarsi in ospedale e di contrarre il Covid-19 gioca un ruolo importante – precisa Indolfi -. Non bisogna credere che in questo momento l’infarto sia meno grave del Covid 19 e non bisogna assolutamente abbassare la guardia». L’invito è quello che non deve far sottovalutare segnali: ad esempio il dolore ti tipo costrittivo al petto che potrebbe essere la spia di un problema coronarico e rivolgersi subito al 118, perché il ritardo nella diagnosi e nel trattamento dell’infarto aumentano la mortalità. I pazienti non devono avere paura e devono attivare, se necessario, il sistema dell’emergenza, perché negli ospedali HUB ci sono percorsi differenziati dove i pazienti non si incrociano anche se molti centri per l’emergenza cardiovascolare sono attualmente trasformati in centri Covid”, conclude Indolfi.

Coronavirus, la mortalità per infarto in Italia è triplicata. Tg24.sky.it il 9 maggio 2020. Lo ha sottolineato uno studio nazionale della Società Italiana di Cardiologia (SIC) che ha riguardato 54 ospedali. I dati emersi, rilevati a marzo 2020 in piena emergenza Covid-19, sono stati confrontati con gli stessi riguardanti l’anno prima. "Se questa tendenza dovesse persistere e la rete cardiologica non sarà ripristinata, ora che è passata questa prima fase di emergenza, avremo più morti per infarto che di Covid-19": è questo l’allarme della Società Italiana di Cardiologia (SIC), nelle parole del suo presidente, Ciro Indolfi, ordinario di cardiologia presso l’Università Magna Graecia di Catanzaro, a seguito di uno studio nazionale in 54 ospedali che ha rilevato un forte aumento delle morti per infarto, con valori triplicati. I dati, dicono gli esperti, parlano di una mortalità per infarto che è passata dal 4.1% al 13.7% a causa della mancanza di cure. Sono stati ridotti del 60% i ricoveri e sono aumentati i ritardi negli interventi, coi i tempi che sono si dilatati fino al 39%, causati dalla paura del contagio. Lo studio, ha spiegato Indolfi, è stato effettuato nella settimana 12/19 marzo, durante la pandemia di Covid-19 e i dati emersi sono stati confrontati con lo stesso periodo dello scorso anno.

I dati dello studio. "Il calo più evidente ha riguardato gli infarti con occlusione parziale della coronaria ma è stato osservato anche in ben il 26,5% dei pazienti con una forma più grave d'infarto”, ha spiegato, entrando nel dettaglio, Salvatore De Rosa, coautore dello studio. La riduzione dei ricoveri per infarto, sottolineano i cardiologi, è stata maggiore nelle donne rispetto agli uomini e non solo i pazienti con infarto si sono fatti ricoverare meno ma quelli che lo hanno fatto hanno aspettato più tempo del normale. Un altro dato emerso riguarda la territorialità. “Nonostante la pandemia Covid 19 si sia concentrata nel Nord Italia, la riduzione dei ricoveri per infarto è stata registrata in modo omogeneo in tutto il Paese: Nord e Sud 52,1% e 59,3% al Centro, hanno precisato gli esperti.

Le altre patologie cardiache. Dati simili riguardano poi anche lo scompenso cardiaco, causato dall'incapacità del cuore di assolvere alla normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. "Una riduzione simile a quella dei ricoveri per infarto è stata registrata anche per lo scompenso cardiaco, con un calo del 47% nel periodo Covid rispetto al precedente anno”, ha sottolineato Pasquale Perrone Filardi, Presidente eletto SIC. In questo caso, la riduzione dei ricoveri è stata simile tra gli uomini e le donne. In linea le statistiche che riguardano la fibrillazione atriale, l'aritmia più diffusa nella popolazione generale, con una diminuzione dei ricoveri di oltre il 53 % rispetto alla settimana equivalente del 2019: lo stesso dicasi per malfunzione di pace-makers, defibrillatori impiantabili e per embolia polmonare: per questi casi è stata registrata una riduzione del 29,4% di ricoveri. "L'organizzazione degli ospedali e del 118 in questa fase è stata dedicata quasi esclusivamente al Covid-19”, ha detto ancora Indolfi. “Molti reparti cardiologici sono stati utilizzati per i malati infettivi e per timore del contagio i pazienti ritardano l'accesso e arrivano in condizioni sempre più gravi, con complicazioni, che rendono molto meno efficaci le cure salvavita come l'angioplastica primaria".

Chiara Baldi per “la Stampa” il 21 aprile 2020. In Lombardia l' emergenza coronavirus ha quasi triplicato le morti per infarto acuto e ha ridotto del 40 per cento le procedure salvavita di cardiologia interventistica. Questo perché, durante la pandemia che nella regione più colpita d' Italia ha ucciso 12.376 persone, chi soffriva di cuore ha evitato di andare in ospedale. Perché gli ospedali erano i «luoghi del contagio», da evitare a meno che non si avessero sintomi gravissimi, altrimenti potevano essere causa di infezione da Covid. I dati sono frutto di una ricerca effettuata da uno dei principali hub cardiologici di Milano e d' Italia, l' ospedale Monzino. «Dall' inizio dell' epidemia, i pazienti arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso già con complicanze aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie che da molti anni hanno dimostrato di essere salvavita nell' infarto, come l' angioplastica coronarica primaria. Questo perché il virus spinge la gente a rimandare l' accesso all' ospedale per paura del contagio», spiega uno degli autori, Giancarlo Marenzi, responsabile della Unità di Terapia Intensiva Cardiologica del nosocomio, che ha fatto lo studio insieme a Antonio Bartorelli, direttore della Cardiologia Interventistica, e a Nicola Cosentino dello staff dell' Unità di Terapia intensiva cardiologica. Nel loro report, gli scienziati citano un recente studio sull' attività di 81 Terapie Intensive Cardiologiche in Spagna nella settimana dal 24 febbraio al primo marzo e la confrontano con quella dello stesso periodo dello scorso anno. Ne è risultato che anche in Spagna l' attività di queste Terapie Intensive Cardiologiche si è ridotta in modo sensibile a causa di un calo importante dei ricoveri per infarto, a cui si è aggiunta la conseguente riduzione del 40 per cento delle procedure di angioplastica coronarica primaria. Per i medici del Monzino, il ritardo a presentarsi in ospedale è stato fatale per molti malati di cuore: «Impedisce trattamenti tempestivi e nell' infarto il fattore tempo è cruciale. Il nostro ospedale, insieme ad altri e a società scientifiche italiane e internazionali, dopo aver osservato il calo degli accessi al pronto soccorso, da qualche settimana ha lanciato un appello a non rimandare le cure. Ora i dati di mortalità legata a questo calo ci danno ragione, e ci sollecitano a ripetere con più forza: per evitare il virus non dobbiamo rischiare di morire di infarto». Anche l' ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano, che col Monzino è stato da subito individuato come un hub per i problemi cardiovascolari, ha avuto lo stesso problema. Spiega Stefano Carugo, direttore dl Dipartimento Cardiocircolatorio: «Nella prima settimana di emergenza, abbiamo avuto un calo del 50 per cento tra chi arrivava in pronto soccorso da solo e gli infartati al miocardio. Ci sono persone che hanno aspettato anche due o tre sincopi prima di venire in ospedale. E poi, quando sono arrivate, erano troppo messe male per rispondere positivamente alla terapia. Purtroppo questa tendenza è andata avanti fino a dieci giorni fa e in tutte le strutture lombarde, tanto che in molte cardiologie c' è una mortalità sopra la media». Negli ultimi giorni però la situazione è migliorata, anche perché la pressione nei pronto soccorso da parte di pazienti infetti si è alleggerita. E sono tornati i pazienti «puliti», cioè quelli che non hanno il coronavirus. «Certo», chiarisce Carugo, «ora arrivano tutti quelli che in queste settimane hanno sopportato il dolore perché terrorizzati all' idea di contrarre il virus. Quindi vediamo in pronto soccorso non più pazienti Covid ma persone affette da angina, scompenso cardiaco e aritmie».

Adriana Bazzi per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2020. Non chiamiamola più «pandemia», ma «sindemia». Lo suggerisce Richard Horton, direttore di Lancet. Il problema, dice Horton, non è solo la diffusione del nuovo Coronavirus, ma il fatto che colpisce più duro dove ci sono situazioni di disagio sociale, povertà, malattie preesistenti, sommandosi (da qui il termine di sindemia ndr) a queste ultime. Ne discutiamo con Ermanno Leo, chirurgo oncologo di Milano.

Cosa sta succedendo con la seconda ondata?

«Partiamo dall' inizio. Questa pandemia è stata sottovalutata, complice anche l' Oms che non ha segnalato alla comunità scientifica i primi casi "strani" di polmonite in Cina, già nell' autunno 2019. Così il virus si è diffuso nel mondo. L' Oms dovrebbe essere un organismo indipendente, ma è finanziato soprattutto da privati. E forse andrebbe rifondato».

L' Italia è stato uno dei primi Paesi colpiti. Come ci siamo comportati?

«Mi chiedo come mai, dopo la prima fase, non disponiamo studi clinici su come siano stati trattati i pazienti: con quali farmaci e quali risultati. Se arrivo in ospedale, ora, in piena seconda ondata, non so come verrò curato».

Ecco, la seconda ondata, con previsioni drammatiche per i prossimi giorni.

«È così. E ci saranno danni collaterali molto importanti, non solo per chi ha il Covid, ma per tutti gli altri pazienti. Non abbiamo imparato niente dalla prima fase. Abbiamo creato un "panico sanitario"».

Che cosa intende?

«Per dire: molti pazienti con tumori (già diagnosticati o in attesa di valutazione, ndr ) o con problemi cardiovascolari (il numero di ricoveri per presunti infarti è diminuito, ndr ) o con sintomi minori di ischemia cerebrale (non ictus, ma i cosiddetti attacchi ischemici transitori, ndr ) a volte non vanno in ospedale per timori di contagio. Questo significa un presumibile aumento della mortalità per questi pazienti, perché la tempestività degli interventi può salvare la vita. E la situazione adesso si aggraverà».

Ci sono, poi, i pazienti con malattie croniche, che possono avere bisogno, per esempio, di terapie del dolore. Gli anziani malati, confinati in casa, a carico dei famigliari. E quelli in situazioni di povertà. Come assisterli? È questo il senso della «sindemia»?

«Sì. Al momento queste persone sono abbandonate. Più o meno. È un fallimento della medicina territoriale. Ma c' è un' opportunità che questo coronavirus ci potrebbe offrire: la riscrittura di alcuni capitoli dell' assistenza sanitaria in Italia».

 (LaPresse il 27 ottobre 2020) - "Troppi screening tumorali, troppe cure vengono rinviati a causa della pandemia". Lo dice il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intervenendo al Quirinale durante la cerimonia di celebrazione de "I Giorni della Ricerca".

Da blitzquotidiano.it il 27 ottobre 2020. La battaglia contro il Covid fa passare in secondo piano le altre patologie, in Italia si rischiano più morti per tumori, ictus e infarti. I medici denunciano lo stato di emergenza per i pazienti “non Covid”. In molti ospedali i reparti hanno devoluto (integralmente o parzialmente) posti letto ai pazienti di Coronavirus. Idem per le sale operatorie. Il rischio, ora, è che aumentino i decessi per gli “altri” malati, quelli che sviluppano patologie ugualmente letali.

Posti letto per malati Covid: a rischio pazienti coi tumori. Forte calo degli screening, delle terapie e dei follow-up. E’ la preoccupante tendenza emersa nei reparti di oncologia, alle prese con una vera e propria “emergenza nell’emergenza” pandemia. L’allarme, contenuto in dati pubblicati recentemente, viene rilanciato dal Cipomo (Collegio Italiano dei Primari Oncologi Medici Ospedalieri), che chiede alle istituzioni una nuova strategia per aiutare i pazienti malati di tumore, alle prese con possibili effetti negativi causati dal virus Sars-Cov-2. Più cure preventive a domicilio e meno ospedalizzazioni per i pazienti con infezione da Covid-19. Ma anche la conservazione di un adeguato numero di posti letto medici e chirurgici per i pazienti oncologici che ne avranno bisogno. Inoltre istituire percorsi protetti da dedicare loro per evitare qualsiasi rischio di contagio in ospedale. Queste le principali richieste del Cipomo, che sottolinea anche la necessità di mantenere le attività di screening delle neoplasie per non trovarsi di fronte nel prossimo futuro a pazienti con neoplasie avanzate e più difficilmente curabili. “Vogliamo rendere noto quanto stiamo vivendo nei nostri ospedali – spiega il Dott. Livio Blasi, Presidente Cipomo – cercando di far capire l’importanza di mantenere lo stesso livello di assistenza oncologica che abbiamo sempre garantito ai nostri pazienti. La diagnosi precoce e le cure oncologiche sono le uniche armi che abbiamo a disposizione per sconfiggere questo male; rallentarle inciderebbe negativamente sul successo delle nostre terapie, con gravi ripercussioni sui nostri malati”.

Allarme ictus e infarti. La pandemia da coronavirus ha avuto un impatto su tutte le patologie e in particolare quelle “tempo-dipendenti” come ictus e infarto del miocardio, in cui il fattore tempo fa la differenza tra la vita e la morte. Per paura di contrarre il Covid-19, molti pazienti non si sono recati tempestivamente al Pronto Soccorso. Secondo i dati diffusi dalla Siems – Società Italiana Emergenza Sanitaria – nella sola città di Roma nel periodo marzo-aprile 2020 si sono registrati 305 interventi di soccorso per ictus, contro i 358 dell’anno precedente. A lanciare l’allarme, in occasione della giornata mondiale dell’ictus il 29 ottobre, sono gli esperti del Campus Bio Medico. Che invitano in caso di sintomi ad agire presto per evitare danni permanenti, ricordando che in Pronto Soccorso i percorsi sono separati tra pazienti Covid e non.

Il fattore tempo decisivo. “Nell’ictus – evidenzia il direttore UOC Neurologia del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, Vincenzo Di Lazzaro – l’intervallo di tempo dalla comparsa dei sintomi entro il quale è possibile effettuare gli interventi terapeutici efficaci, la somministrazione di farmaci o l’esecuzione di procedure per il ripristino dell’afflusso di sangue nelle aree ischemiche è molto limitato, per cui se i pazienti arrivano in ritardo in pronto soccorso si può arrivare a conseguenze disastrose. In generale l’ictus allarma meno di altre patologie perché non provoca dolore. Se non si riesce a muovere un braccio, si può pensare di aver dormito in posizione sbagliata e sentirlo bloccato, ma nel caso dell’ischemia cerebrale non c’è tempo da perdere”. Andare in un pronto soccorso "specializzato" dal quale accedere a più specialisti come quello da poco avviato al Campus Bio-Medico, è essenziale. Secondo l’Osservatorio Ictus Italia (dati dicembre 2018), questa malattia rappresenta la prima causa di invalidità nei paesi industrializzati, la seconda di demenza e la terza di mortalità. Nel nostro Paese si registrano almeno 100mila nuovi ricoveri l’anno e circa un terzo delle persone colpite non sopravvive a un anno, mentre un altro terzo sopravvive con una significativa invalidità. Attualmente, quasi un milione di persone vive con le conseguenze invalidanti di un ictus. (Fonte Ansa)

Paolo Russo per “la Stampa” il 29 maggio 2020. Mentre i reparti Covid si svuotano, 410mila pazienti che hanno dovuto rinviare interventi chirurgici programmati rischiano di dover aspettare altri 6 mesi perché arrivi il loro turno. E stessi tempi si prevedono per ben 11 milioni di italiani che hanno saltato visite di controllo e accertamenti. Magari per vedere se una terapia anticancro sta dando i risultati sperati o se quel dolore al petto non nasconda un problema di cuore serio. Tant' è che uno studio della società italiana di cardiologia parla di morti triplicate solo per infarto. E' questa la vera, nuova emergenza sanitaria che ci lascia in eredità il Coronavirus, dopo che a marzo ambulatori e ospedali hanno lasciato aperte le loro porte solo a chi aveva problemi di salute gravissimi o improcrastinabili. Secondo uno studio condotto da Nomisma, il lockdown ha fatto slittare a tempo indefinito oltre 400mila interventi in sala operatoria. Il maggior numero di interventi saltati sono quelli a ossa e muscoli, 135.700 pari al 79% del totale, seguiti degli interventi all'apparato circolatorio (54mila, il 56% del totale) e al sistema digerente, altri 39mila, pari al 65% del complesso. «Considerando che nei nostri ospedali si eseguono 4 milioni di interventi l' anno e ipotizzando che al massimo potremo aumentare l' attività del 20% per smaltire l' arretrato serviranno almeno sei mesi», spiega Carlo Palermo, segretario nazionale dell' Anaao, il principale sindacato dei medici ospedalieri. «Il rinvio per così tanto tempo di accertamenti e interventi in sala operatoria potrebbe costare 20mila morti a fine anno solo per le malattie cardiovascolari», denuncia. Per poi offrire delle soluzioni: «assumere medici con contratti a sei mesi e incentivare la libera professione negli ospedali pubblici, che almeno ha prezzi calmierati». Che sarà un' estate ancora più bollente nei nostri ospedali lo conferma Vincenzo Vergallo, presidente dell' Aaroi, l' associazione dei medici anestesisti e rianimatori. «Abbiamo già accumulato una montagna di ferie ed ora dovremo sicuramente accontentarci di fare vacanze ridotte d' estate. Ma serve assumere perché non sarà facile smaltire gli arretrati rispettando le regole di sicurezza che prevedono di sanificare la sale operatorie dopo ogni intervento e di contingentare le visite pre-ricovero». Stessi problemi negli ambulatori specialistici, chiusi fino a ieri quelli ospedalieri e funzionanti al 40% gli altri. Il Sumai, l' organizzazione dei medici che ci lavorano, stima siano ben 11 milioni le visite rinviate durante il lockdown. «Se mediamente ciascuno di noi visitava venti pazienti al giorno, durante l' emergenza abbiamo avuto sulle quattro prenotazioni per i casi più gravi, ed alcuni nemmeno si presentavano per paura del contagio», racconta il presidente Antonio Magi, che è anche a capo dell' Ordine dei medici di Roma. «Ora andranno ad ingolfare liste di attesa già insostenibili, per questo chiediamo un piano di emergenza per affrontare anche la nostra Fase 2». Qualche idea c' è già, «come impegnare gli specialisti ambulatoriali per 38 ore settimanali anziché le 22 oggi di media e utilizzare la telemedicina per il controllo a distanza dei malati cronici quando si tratta di accertare solo l' aderenza e la risposta alle terapie», propone Magi. Di soldi per la sanità ora ce ne sono. Si tratta solo di spenderli bene e fare in fretta.

Da ansa.it per 18 settembre 2020. Crollo degli screening per i tumori in Italia nei primi 5 mesi del 2020 a causa della pandemia da Covid-19: sono 1,4 milioni in meno, infatti, gli esami per la prevenzione effettuati rispetto allo stesso periodo del 2019. Un dato grave, avverte l'Associazione italiana di oncologia medica (Aiom), che potrebbe portare ad un aumento della mortalità nel medio termine. Diventano dunque "misurabili", rileva l'Aiom, gli effetti della pandemia sulla cura dei tumori nel nostro Paese. I ritardi nei controlli si traducono, ad esempio, in una netta riduzione delle nuove diagnosi di tumore della mammella (2.099 in meno) e del colon-retto (611 in meno). Questi ritardi nei programmi di prevenzione secondaria , avverte il presidente Aiom Giordano Beretta, "possono determinare un aumento della mortalità nei prossimi anni. Tali neoplasie non sono infatti scomparse, ma saranno individuate in fase più avanzata, con conseguenti minori probabilità di guarigione e necessità di maggiori risorse per le cure". Proprio l'impatto della Covid-19 sull'oncologia è fra i temi centrali del Congresso della Società Europea di Oncologia Medica (Esmo), al via da domani in forma virtuale. "Le nuove armi come l'immuno-oncologia e le terapie a bersaglio molecolare hanno cambiato la storia naturale di molte neoplasie e oggi in Italia il 63% delle donne e il 54% degli uomini sono vivi a 5 anni dalla diagnosi - spiega Beretta, in occasione della presentazione del congresso Esmo -. La pandemia, che solo in Italia ha determinato il contagio di 350mila malati oncologici, sta però modificando gli scenari e le incertezze riguardano in particolare gli screening". Così, in base a stime del National Cancer Institute, negli Stati Uniti, nei prossimi 10 anni, vi saranno circa 10.000 morti in più per tumore del seno e del colon-retto proprio a causa dell'effetto del Covid sugli screening e sul trattamento. Ed in Gran Bretagna si stima un aumento della mortalità nei prossimi 5 anni fino al 16,6% per i tumori del colon-retto e al 9,6% per la mammella. E l'allarme "lanciato in Gb e Usa "si può applicare anche in Italia" afferma Saverio Cinieri, presidente eletto Aiom. Il problema è che malgrado "la morsa della Covid si sia ridotta - spiega Beretta - gli screening non sono ancora ripresi ovunque. In alcune realtà si sta recuperando il pregresso ma ancora non si stanno inviando ai cittadini i nuovi inviti agli esami". E poi vanno superati i timori: "Oggi andare in ospedale - sottolinea Cinieri - è molto più sicuro che prendere un aperitivo fuori, perchè sono rispettate tutte le procedure ed i percorsi Covid e No-Covid sono rigorosamente separati". Sull'altro piatto della bilancia c'è poi la questione delle risorse: in cinque anni (2014 - 2019) la spesa per le terapie è passata da 3,9 a circa 6 miliardi di euro e nel nel 2019 il tetto del Fondo per i farmaci oncologici innovativi, stabilito in 500 milioni, è stato sforato superando i 584 milioni. Servono quindi più risorse, è l'appello dell'Aiom, "non solo per le terapie ma anche per potenziare la telemedicina e per creare percorsi definiti di collaborazione con la medicina del territorio". Per questo, afferma Beretta, "bisogna assolutamente considerare la possibilità che una parte delle risorse del Recovery Fund possano essere destinate al settore dell'oncologia. La Covid auspicabilmente passerà, come è stato per la peste, ma il cancro - ha concluso - rimarrà".

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" l'11 giugno 2020. C'è un danno indiretto imposto dal coronavirus ai pazienti di tumore. Tre mesi senza screening per quelli che non sapevano di averlo, tre mesi senza controlli per quelli che invece, dopo aver conosciuto la diagnosi e avviato un percorso terapeutico, sono stati privati del cosiddetto follow up, i controlli periodici necessari per verificare gli effetti della cura. Chi li ripagherà, chi restituirà loro il tempo perduto? Secondo il calcolo di Stefania Gori, presidente della Fondazione Aiom, l'associazione dei medici oncologi, 230 mila persone hanno subito questo oltraggio fra quanti hanno dovuto ritardare gli accertamenti o rinviare a data da destinarsi le verifiche. Ed è dedicato a loro il seminario web in programma oggi fra alcuni dei maggiori esperti di «fragilità», interventi coordinati dal vicedirettore del Corriere della Sera , Antonio Polito, e Giuliano Buzzetti. Tra i relatori anche l'immunologo Alberto Mantovani, direttore scientifico dell'«Humanitas», e il direttore scientifico dell'istituto tumori di Milano Giovanni Apolone. Il virus non si è limitato a colpire infettando circa 236 mila italiani e uccidendone 34mila (finora). L'epidemia va allargata ai 10 milioni di cittadini con patologie oncologiche e cardiovascolari che hanno dovuto rinunciare a una «presa in carico» tempestiva da parte della sanità pubblica. C'è il rischio che il rinvio possa compromettere l'efficacia delle terapie e allontanare la guarigione tanto più che adesso c'è il problema delle liste di attesa ingolfate. L'attività cosiddetta ordinaria negli ospedali è difficile. Ed è tutt' altro che ordinaria. Da febbraio a maggio gli «altri» malati sono rimasti a casa, chi per l'impossibilità di essere seguito chi per paura. «Bisogna recuperare nell'arco del prossimo anno, colmare il gap per tornare a garantire la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi, la riduzione di mortalità per cancro e la precocità degli screening», denuncia la Gori. Assieme ai colleghi lancia un appello al ministro della Salute, Roberto Speranza e al suo vice, Pierpaolo Sileri. Il dicastero di lungotevere Ripa ha nominato meno di un mese fa un tavolo di esperti incaricati di suggerire un programma per il post Covid. È urgente mettere mano a un piano straordinario per l'oncologia e i fragili.Tra le proposte che verranno lanciate oggi, la creazione di una nuova figura, l'oncologo di famiglia, presente negli ambulatori extra ospedalieri. Oltre al potenziamento, auspicato anche in cardiologia, della telemedicina che in questi mesi sarebbe stata uno strumento prezioso.

Maria Sorbi per “il Giornale” il 14 maggio 2020. I contagi sono in calo ma il lavoro dei medici raddoppia. Da recuperare ci sono due mesi di visite cancellate e si lavora contemporaneamente su due binari: quello Covid e quello no Covid, con tutti i rallentamenti che il rispetto delle norme di sicurezza comporta. Chirurghi e specialisti sono in allarme per le liste d' attesa, che verranno smaltite solo con la fine dell' estate. «In realtà - spiegano al Policlinico di Milano - non possiamo definirle vere liste di attesa. Sono rinvii in blocco. Gli appuntamenti non urgenti del 5 marzo sono stati spostati al 5 maggio e così via. Abbiamo riprogrammato tutto, sfruttando i buchi lasciati da chi ha rinunciato alla visita intimorito dal periodo». Ma anche con il migliore degli incastri di visite sul calendario, ogni settore ha le sue criticità. E va a rilento. Con un quarto dei pazienti in più. Gli ambulatori hanno ricominciato a lavorare ma verranno chiusi per essere igienizzati non appena verrà identificato un paziente sospetto Covid. Per il resto applicheranno le regole degli ospedali: niente accompagnatori, appuntamenti distanziati, pulizia tra una visita e l' altra, niente riviste e oggetti nelle sale d' attesa.

L' ONCOLOGIA. Sono almeno 200mila i pazienti oncologici che con l' allentamento del lockdown devono tornare in ospedale per visite di controllo e accertamenti diagnostici. Tra i reparti più «intasati» c' è quello di uro oncologia, dove i pazienti con tumore alla prostata o alla vescica sono aumentati del 25%. «Abbiamo un aumento esponenziale delle degenze - spiega Giario Conti, segretario generare della società degli urologi oncologici – A causa di problemi strutturali degli edifici, non tutti gli ospedali sono riusciti ad organizzare zone isolate adibite solo ai pazienti Covid. Le operazioni quindi verranno scaglionate e i tempi d' attesa si prolungheranno». Per tutti i malati di cancro verranno seguite le regole fissate dall' Aiom, a cominciare dai percorsi differenziati e dal personale dedicato, evitando che medici e infermieri utilizzati nei reparti Covid siano al contempo utilizzati anche nei reparti oncologici.

LA CARDIOLOGIA. Pur avendo continuato a occuparsi delle emergenze, la cardiologia, in base a uno studio effettuato su 54 ospedali, è arretrata di vent' anni. «Abbiamo registrato una mortalità tre volte maggiore rispetto allo stesso periodo del 2019, passando dal 4,1 % al 13,7% spiega Carmen Spaccarotella, coautrice dello studio in via di pubblicazione sul European Heart Journal. Un aumento dovuto nella maggior parte dei casi a un infarto non trattato o trattato tardivamente. Infatti, il tempo tra l' inizio dei sintomi e la riapertura della coronaria durante il periodo Covid è aumentato del 39%». La sfida di adesso è proprio recuperare questo gap, tornando alla normalità.

LA GINECOLOGIA. Assieme alle attività ordinarie, riprendono anche i trattamenti di procreazione medicalmente assistita per cui le liste d' attesa erano almeno di tre mesi già prima del Covid. Poichè le 7-8 mila coppie che si sottopongono alla fecondazione sono sane e in età lavorativa, sono a maggior rischio contagio. Per questo nei centri ci saranno tre triage, di cui il primo telefonico. Il campione dei potenziali genitori sottoposti ai test Covid verrà anche utilizzato per dare indicazioni sulla diffusione del virus nella popolazione regionale.

L' ORTOPEDIA. Gli interventi non urgenti sono ancora fermi, ma con la fase due sono ripresi quelli semi urgenti di artroprotesi per patologie croniche degenerative, quelli di chirurgia elettiva vertebrale o interventi per sindromi da compressione neurologica cronica (tunnel carpale) e interventi di traumatologia dello sport. Gli altri verranno garantiti non appena si smaltirà «l' effetto imbuto» di maggio.

Clarida Salvatori per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 12 maggio 2020. «Il coronavirus ci ha permesso di "intercettare" tantissimi pazienti con patologie gravi che magari si sarebbero accorti troppo tardi di essere malati». Un risvolto in qualche modo positivo si può trovare anche nelle difficoltà di una pandemia. E a parlarne è Luciano De Biase, professore associato di Cardiologia alla Sapienza e responsabile dei due reparti Covid del Sant' Andrea. «Dall' inizio dell' emergenza coronavirus, solo contando gli accessi tramite il pronto soccorso dedicato abbiamo assistito un migliaio di pazienti».

Possiamo fare un po' di conti?

«Certamente. A marzo sono arrivati al Sant' Andrea oltre 400 pazienti. Di questi 170, ovvero il 42,5%, aveva il coronavirus. Ad aprile su 500 accessi sono risultati positivi 145, il 29%». E gli altri? «Quando sono arrivati avevano tutti difficoltà respiratorie serie, sono stati trattati come potenziali Covid positivi, quindi con tamponi, Tac e isolamento. Dopo il secondo test molecolare negativo sono stati spostati nei reparti adatti alle loro patologie. Spesso molto gravi. E quasi nessuno sapeva di esserne affetto».

Ci fa qualche esempio?

«Abbiamo diagnosticato un po' di tutto: linfomi, tumori, tubercolosi, polmoniti, ictus, problemi pancreatici, epatici, vascolari, neurologici e cardiaci».

E sono stati tanti i pazienti che hanno scoperto di essere affetti da qualche malattia seria perché sospettavano di aver contratto il coronavirus?

«Un buon 40 per cento».

Al Sant' Andrea uno dei due reparti Covid è in dismissione.

«Per fortuna, ma la nostra assistenza non si esaurisce. Abbiamo costituito un team multidisciplinare, fatto di diverse specialità, in modo da poter rafforzare la qualità delle cure. Chi è stato immobile nel letto per tre o anche quattro settimane, che ha avuto come unico contatto i nostri occhi, dal momento che i dispositivi di protezione non permettono altro, vive un forte stress emotivo dovuto all' isolamento. Molti hanno bisogno di una riabilitazione».

E avete pensato anche a un' assistenza duratura nel tempo?

«A breve partirà il follow up . Il Covid lascia segni importanti di infiammazione a cuore e polmoni che non escludiamo si possano trasformare in insufficienze cardiache e respiratorie gravi. D' altronde non abbiamo esperienza sui guariti, sono solo i primi, e anche per conoscere il comportamento del virus continueremo a seguirli».

Pino Neri per leggo.it l'11 maggio 2020. Ha sollevato l’indignazione del vescovo di Acerra l’ennesima morte di un ragazzo, di 24 anni, stroncato da un terribile tumore nella città simbolo della Terra dei Fuochi. Ieri Antonio Di Donna, durante l’omelia della messa domenicale pronunciata in diretta streaming dall’altare del duomo, ha raccontato la tragica vicenda e rilanciato la sua crociata «sull’ormai dimenticata questione ambientale». Di Donna infatti è sicuro: «Anche quest’ultima morte è il risultato dell’inquinamento». Una storia raccapricciante quella di Stefano Sorano, stroncato nove giorni fa a soli 24 anni da un sarcoma polmonare, che lo ha strappato alla vita nello spazio alcuni mesi. La sua agonia si è consumata nel cinismo scaturito dalle precauzioni dovute alla pandemia: il medico di base, rivendicando al telefono la necessità di non potersi muovere a causa del rischio di infettarsi, si sarebbe rifiutato, come denunciano i familiari di Stefano, di visitare il ragazzo durante i suoi ultimi giorni di vita, mentre straziato dal male si spegneva inesorabilmente sotto gli occhi del papà e dei fratelli. I parenti volevano fargli praticare la terapia del dolore. Non è stato possibile. «Stefano è stato abbandonato», ha denunciato il vescovo durante la messa in cattedrale, rimasta come di consueto priva di fedeli a causa dei divieti anti-contagio. Il prelato ha puntato il dito contro il fatto che il Covid 19 sta oscurando la richiesta incessante di terapie da parte di tutti coloro che sono affetti da altre malattie, tumori e cardiopatie al primo posto. «Non ha fatto notizia la morte di questo giovane brillante, laureato, molto bravo – l’omelia di Antonio Di Donna - come le altre morti di ragazzi negli anni e nei mesi passati». Nel giugno del 2018 il vescovo fece stilare un elenco dei bambini e dei giovani morti di cancro nella sua diocesi, che comprende i comuni di Acerra, una parte del comune di Casalnuovo e i comuni casertani di San Felice a Cancello, Arienzo, Santa Maria a Vico e Cervino. Fu un’iniziativa scioccante. Centinaia di nomi furono fatti scorrere su un maxischermo installato davanti all’altare del duomo. E ora per il vescovo è tornato il momento della denuncia. «Stefano – ha detto nella messa - è stato abbandonato e la sua famiglia ha penato molto. Il mio appello è che gli ospedali ritornino al più presto alla normalità». Un appello anche ai medici di base. «Forse comprendiamo – ha puntualizzato Di Donna - che a causa di questa emergenza siano state sospese visite e terapie, anche di malati gravi. Ma questo deve finire. Si riprendano nelle nostre terre e negli ospedali le terapie, le visite dei medici, la vicinanza agli ammalati di tumore». Di Donna ha anche punzecchiato la politica. «Ah – ha sospirato - se si mettesse lo stesso impegno, da parte soprattutto delle istituzioni, nel combattere un’altra emergenza, che è connessa con quella sanitaria: l’emergenza ambientale, che in questo tempo sembra sia passata in secondo piano! Qui non si è smesso di morire per l’inquinamento». Con la fase 2 ci sono state le prime avvisaglie del ritorno alla «normalità». Roghi imponenti di rifiuti, casi di contaminazione del mare e dei fiumi. «Dobbiamo riprendere la lotta e questa emergenza sanitaria non ce lo deve far dimenticare – l’esortazione del vescovo - le due emergenze sono collegate». Infine, la proposta: «Sarà più che giustamente dedicata una giornata ai medici e agli operatori sanitari morti di Coronavirus nell’adempimento del loro dovere. Ma a quando una giornata per i bimbi e i giovani morti di cancro, alle vittime dell’inquinamento?».

Il coronavirus uccide anche chi non ce l'ha: così vengono abbandonati gli altri malati. L’emergenza covid ha conseguenze drammatiche su tutti coloro che hanno altre patologie, specie pazienti oncologici e cardiopatici. Che vedono slittare interventi programmati o visite fondamentali. Maurizio Di Fazio il 07 maggio 2020 su L'Espresso. Sono saltate le operazioni chirurgiche non urgenti, i ricoveri programmati, gli appuntamenti di routine e tanti altri esami clinici e attività ambulatoriali. Gli ospedali sono stati assorbiti dall’emergenza, i pronto soccorso sono diventati luoghi rischiosi. E tutti i giorni facciamo gli scongiuri perché non ci colga un ascesso ai denti: chi ci curerebbe? L’apocalisse da Covid-19 ha alimentato una sorta di “danno indotto” sulle altre malattie, congelate per momenti migliori. Sull’altare dell’epidemia del secolo, sono stati infatti immolati i bersagli delle patologie classiche, “normali”. Da quelle croniche ai settori più problematici di tutti, l’oncologia e la cardiologia. Che continuano però la loro lunga marcia: piombano all’improvviso e possono condurre, anch’esse, e da sole, alla morte, senza il marchio Covid. Tanto da far ritenere che la differenza statistica tra i decessi accertati di virus e l’aumento delle morti rispetto agli anni passati possa avere anche questa causa: la carenza di diagnosi e cure, da mesi, per tutte le altre malattie. Maurizio Ortu, presidente dell’ordine dei medici dell’Aquila, usa la metafora del terremoto. Come quello che martoriò la sua città nel 2009: «Penso a tutti coloro che sono affetti da patologie importanti e per cui è necessaria assistenza continua e controlli periodici, o che non hanno potuto effettuare con la consueta regolarità trattamenti, analisi e visite per la ragione che gli ospedali, già in crisi per i continui tagli, sono costretti a focalizzare l’attenzione sul coronavirus», ci dice. Parla di “tempo sospeso” il professor Humberto Ramon Zanetti, specialista in ginecologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale, per quindici anni primario dell’Aurelia Hospital di Roma: «Questa sospensione continua a incidere dannosamente sulle altre malattie.Tutto questo determinerà, con il ritorno alla normalità, uno stato di crisi del sistema sanitario che già prima non era in grado di soddisfare in tempi ragionevoli le richieste di esami strumentali e interventi chirurgici». Malati in stand-by, insomma. Luigi è un cardiologo specialista, con oltre dieci anni di servizio in un ospedale del nord. Ci chiede di nascondere le sue generalità per raccontarci il grande caos che ha osservato: «Lì dove le figure apicali di riferimento, come i direttori sanitari, sono riusciti a mantenere la giusta freddezza, c’è stata un’organizzazione comunque razionale delle risorse: sia umane (dei medici e infermieri al “fronte”) sia alberghiere, nel senso dei posti letto. Dove invece sono stati gli eventi a dominare, è stata la catastrofe: sanitari esposti privi di Dpi, percorsi e flussi ospedalieri babelici e mai strutturati. Insomma, si è avuta la conferma dell’impreparazione della maggior parte di noi sui temi del risk management, cosa sulla quale io e altri colleghi riflettevamo già in tempi non sospetti». Nel vortice sono finiti centrifugati pure gli avamposti della nostra sanità. Prendiamo l’oncologia. Sono stati 371 mila i nuovi casi di tumore diagnosticati nel 2019 nella nostra penisola, la gran parte dei quali sottoposti a intervento chirurgico. Ora la quota di diagnosi e interventi si è ridotta drasticamente: non vuol dire che ci si ammala meno, ma che la malattia viene scoperta e curata meno. I pazienti, poi, si sono spesso sentiti abbandonati a se stessi. Secondo un questionario realizzato da Codice Viola, un’associazione che si batte per la qualità della vita degli affetti da cancro del pancreas e condotto su un campione di quasi 500 malati, l’81 per cento ha avuto notizia della cancellazione di visite, terapie e operazioni senza che gli venisse prospettata un’altra modalità. L’11 per cento si è visto annullare la seduta chemioterapica. Rinviati d’imperio e a data da destinarsi, nel 42 per cento dei casi, i controlli durante la terapia: il follow-up. Sulla stessa lunghezza d’onda un sondaggio promosso dall’Università Politecnica delle Marche e dagli Ospedali Riuniti di Ancona: su 400 oncologi coinvolti, il 93,5 per cento ha ammesso di aver dovuto ripensare completamente la propria attività clinica. Il 35 per cento non è stato informato o ha ricevuto scarse indicazioni sulle procedure anti-Covid da adottare. Il 60 per cento si è professato preoccupato nel rimandare un trattamento oncologico o un esame strumentale; il 21 per cento ha rivelato di non aver ricevuto dispositivi di protezione adeguati e rapidi. L’Aiom (associazione italiana oncologia medica) ha rivendicato tuttavia l’esigenza di limitare gli accessi in ospedale dei malati oncologici, immunodepressi per definizione, specie se sotto chemio, per abbattere il rischio di un loro contagio accidentale. Gli stessi dati della Protezione civile attestano che il 20 per cento dei positivi e deceduti per coronavirus aveva sviluppato una forma tumorale nei cinque anni precedenti. Largo quindi alle consultazioni telefoniche, via mail o tramite WhatsApp, ai tentativi di telemedicina e al differimento degli screening oncologici di primo livello: dalle mammografie ai pap-test, al controllo del sangue occulto nelle feci per il carcinoma al retto-colon. Parola d’ordine, posticipare il posticipabile. Non dimenticando che parecchi malati del centro-sud sono in cura nelle strutture oncologiche del nord, Milano in primis. Lo stop al pendolarismo di ogni tipo li ha perciò colpiti pesantemente. E c’è da tener conto delle ripercussioni psicologiche di chi è sotto scacco di due mostri: il tumore e la paura del virus. Sostiene Florence Didier, psicologa e psicoterapeuta dell’Istituto europeo di oncologia (Ieo): « Una fatica doppia, e nei pazienti ormai lontani dalla diagnosi questa situazione generale sta riattivando timori ed eventi traumatici già affrontati a livello personale». Demoni che ritornano. Ma non c’è solo il cancro. Secondo l’Istat, ogni giorno nel nostro paese muoiono 638 persone di malattie del sistema cardiocircolatorio. E sta accadendo qualcosa di molto preoccupante: gli accessi per infarto miocardico nei pronto soccorso, diretti o con chiamata al 118, si sono dimezzati. «L’infarto è un avvenimento altamente tempo-dipendente, e più si indugia, maggiore è la compromissione del muscolo cardiaco. Ogni minuto è prezioso», dice Giuseppe Tarantini, presidente del Gise, la società italiana di cardiologia interventistica. A Bologna, nel primo trimestre del 2020 gli accessi in ospedale sono precipitati del 20 per cento per gli infarti più gravi e del 40 per cento per i più leggeri. Ai livelli di trent’anni fa. Conferma il dottor Marco Caruso, cardiologo interventista all’Arnas Civico di Palermo: «Ho confrontato gli accessi per infarto acuto nella nostra emodinamica dall’11 marzo all’11 aprile e ho notato, rispetto al medesimo periodo del 2019, un crollo del 30 per cento». Il motivo è presto detto, come ci dice Davide Ventre, cardiologo dell’équipe del policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo: «Il terrore di recarsi in un luogo potenzialmente affollato da pazienti Covid ha prevalso sulle manifestazioni acute delle patologie. Immagino un cardiopatico ischemico che preferisce abusare di nitrati sublinguali a ogni attacco anginoso, piuttosto che accedere in ospedale in questo periodo». Del resto non mancano i casi di persone che erano ricoverate per problemi diversi dal virus e sono uscite dall’ospedale dentro una bara dopo aver preso lì il Covid. Effetti collaterali dell’iniziale promiscuità e mancanza di compartimenti stagni tra i reparti. Le cronache locali sono piene di queste storie: da chi si è rotto una gamba, è entrato in ortopedia, poi ha preso il virus ed è deceduto, fino a chi ha conosciuto la stessa fine dopo essere stato ospedalizzato per una pancreatite. Poi ci sono i pazienti psichiatrici: anche per loro questo periodo è difficilissimo. Dice il professor Armando Piccinni, psichiatra e presidente della fondazione Brf (istituto per la ricerca scientifica in psichiatria e neuroscienze): «Hanno vissuto in modo accentuato l’aspetto emotivo della condizione di chiusura, avvertendo prevalentemente il risvolto della costrizione e dell’obbligo. Ho ricevuto numerosissime richieste da parte di pazienti che mi chiedevano certificazioni che gli consentissero di uscire». Con le loro antenne speciali, «hanno captato prima di noi la gravità della situazione, l’incertezza del futuro, l’incapacità di scorgere una soluzione in tempi brevi e prevedibili, la sensazione di non tornare più alla vita di prima». Una sua assistita, claustrofobica e affetta da attacchi di panico, che viveva da tempo una condizione di equilibrio, «ha ripreso a manifestarli in maniera incontrollabile. È migliorata solo trasferendosi in campagna, nella casa della madre, dove può trascorrere le giornate in un giardino all’aperto». Ma anche chi è semplicemente in psicoterapia ha avuto problemi: molti analisti si sono convertiti alle visite in video, altri però hanno abbandonato i pazienti a se stessi, proprio quando ne avevano più bisogno. Non resta ora che provare a immaginare il ritorno alla normalità, se arriverà. «Quando la fase radicale della pandemia sarà terminata, avremo davanti a noi le macerie che si sarà lasciato alle spalle. Con tutti gli strascichi legati al pensiero del pericolo corso e superato, all’elaborazione dei lutti dei parenti, degli amici e dei conoscenti, alle drammatiche conseguenze economiche, finanziarie, lavorative e sociali da affrontare». 

Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 27 aprile 2020. «Non è che il malato di tumore non c' è più», faceva notare il ministro della Salute, Roberto Speranza, illustrando il piano sanitario per convivere con il coronavirus. Eppure era stata la stessa Aiom, l' Associazione italiana di oncologia medica, a sottolineare a marzo la necessità di posticipare in alcuni casi i trattamenti anticancro programmati. «È opportuno che venga valutato e discusso caso per caso l' eventuale rinvio», invitava a fare, «in base al rapporto tra i rischi (per il singolo e per la collettività) legati all' accesso in ospedale e i benefici attesi dal trattamento stesso». Molti pazienti si sono sentiti abbandonati, le diverse realtà che operano sul territorio nazionale e offrono assistenza raccontano di continuare a ricevere «richieste di informazioni e supporto», da tante persone «preoccupate per il rinvio o la cancellazione di appuntamenti, il rinvio di cure chemioterapiche, di radioterapia, interventi chirurgici e chiusura di laboratori diagnostici», come informa «Codice Viola», impegnata a migliorare la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti affetti da adenocarcinoma del pancreas. Da un questionario rivolto a tutti i sofferenti di tumore (e di cui parliamo diffusamente nell' articolo sottostante), l' associazione ha riscontrato che in questo periodo gli interventi chirurgici sono stati rinviati a data da destinarsi nel 64% dei casi. «Pensiamo ai tumori più comuni: quello alla mammella, al colon retto», quindi necessità di esami quali «mammografia, ricerca del sangue occulto nelle feci e poi colonscopia. Le persone da un lato hanno vissuto la paura del contagio dentro i nosocomi, dall' altra sono state bersagliate da informazioni spesso sommarie o contraddittorie; alla fine sono rimaste a casa coi propri sintomi e arriveranno nei prossimi mesi», ha dichiarato il professor Giuseppe Navarra, direttore di chirurgia generale a indirizzo oncologico al Policlinico di Messina. Il rischio più alto di complicanze e decesso ha certamente influito nelle decisioni di non esporre i pazienti all' accesso in ospedale in piena pandemia, se non nei casi strettamente necessari per gravità della neoplasia o della terapia richiesta, ma anche qui i dati aiutano a far luce prima delle statistiche, che tarderanno mesi ad arrivare.

Mancanza di posti. Le nuove diagnosi di cancro sono circa mille ogni giorno in tutta Italia, 3.460.000 persone continuano a vivere dopo una diagnosi di tumore, 179.000 sono stati i morti nel 2016 (ultimo dato disponibile). In quell' anno, 3 decessi ogni 1.000 persone erano per cancro, oltre 485 persone al giorno. Veniamo alle stragi causate dal Covid-19. Secondo l' Istituto superiore della sanità, i tumori diagnosticati negli ultimi 5 anni rappresentano tra il 16 e il 20 % delle patologie preesistenti all' infezione, che ha provocato i decessi da coronavirus. Un paziente su cinque aveva un carcinoma, prima di morire per il coronavirus, risultato fatale perché era immunodepresso, perché non aveva abbastanza difese per reagire a un virus così violento e «forse anche perché nei momenti più critici, quando mancano posti in terapia intensiva, la scelta non è a favore dei malati oncologici», afferma Elisabetta Iannelli, avvocato, vice presidente dell' Aimac, l' associazione italiana malati di cancro, e segretario generale della Federazione italiana delle associazioni di volontariato in oncologia (Favo). «Con pochi respiratori a disposizione, nell' emergenza il criterio di privilegiare persone con maggiori aspettative di vita è doloroso, forse inevitabile, certo non commentabile». Se consideriamo sempre i numeri al 6 aprile, i decessi per coronavirus erano 16.523 ma quelli per tumori già superavano quota 46.000. Sommando anche la percentuale di quanti avevano un carcinoma e sono morti per Covid-19 (1 paziente su 5), arriviamo a quasi 50.000 decessi per tumore nel primo trimestre 2020. E non sappiamo ancora il numero di coloro che, non curati, avranno ridotte speranze di sopravvivenza. «Il panico, il senso di abbandono è cresciuto molto in chi si è trovato a dover affrontare, oltre all' enorme problema del cancro, anche l' emergenza coronavirus», fa presente l' avvocato. «È stato difficile far capire che per contenere il rischio in alcuni casi era necessario, ragionevole spostare in altra data esami, visite, terapie. Ma adesso il problema diventa la fase due, non si può più rinviare sine die. Bisogna pensare a dei percorsi Covid free, accelerare soluzioni come terapie a domicilio, occorre potenziare i servizi di telemedicina, di sostegno psicologico a distanza. Servono linee guida, semplificazioni che possano essere utili al sistema sanitario pure per altre patologie e nello scenario post coronavirus». Per chi resta in vita, oltre alla lotta contro il cancro c' è pure quella per la sopravvivenza economica. Il governo forse correggerà il tiro, intanto con l' attuale formulazione del Cura Italia sono stati penalizzati i disabili e un milione di pazienti oncologi che continuano a lavorare, pur convivendo con una neoplasia che richiede cure e visite continue. Fino a quando non sarà chiarito che dal bonus di 600 euro, erogato a lavori autonomi e liberi professionisti, sono esclusi i lavoratori titolari di pensione di anzianità o di vecchiaia, ma non di invalidità, il decreto continuerà a discriminare chi si trova in condizione di maggiore fragilità. «Stiamo parlando di persone che traggono il loro sostentamento dal lavoro, che sono danneggiate dalla riduzione di attività dovuta al Covid-19, ma che a parità di condizione di tutela "di ultima istanza" non possono accedere al bonus. Perché ricevono già assegni di invalidità parziale, ai quali però hanno diritto in quanto pagano i contributi e sono integrazione di un reddito, ridotto per la capacità lavorativa diminuita ma comunque prodotta», spiega Iannelli, che con un tumore mammario metastatico convive da 27 anni, in trattamento cronico. tripla certificazione Non va meglio per i lavoratori dipendenti con patologie a rischio, che potevano rimanere a casa dal lavoro con assenza equiparata al ricovero ospedaliero. Una tutela vanificata dal decreto Cura Italia perché non basta autocertificare la propria condizione di malato oncologico, già nota all' amministrazione sanitaria, ma al datore di lavoro bisogna presentare una tripla certificazione, «forse dei medici legali delle Asl e dove comunque le persone a rischio sarebbero costrette a spostarsi per ottenere l' attestazione della condizione di rischio, di "autorità sanità competenti", pure non precisate e dei medici di assistenza primaria. Era un diritto fruibile fino al 30 aprile, non è stato al momento utilizzabile, non lo sarà mai», commenta l' avvocato.

Simona Bertuzzi per “Libero Quotidiano” il 26 aprile 2020.

Professor Santoro, finalmente calano i ricoveri per Covid-19. Siamo fuori dal tunnel?

«Non completamente, anche se osserviamo segnali positivi. Sono dieci giorni che la pressione è allentata, il pronto soccorso è meno affollato e diminuiscono i pazienti Covid, sia come ricoveri che come terapie intensive».

Armando Santoro è il direttore del "Cancer center" di Humanitas Milano, hub regionale per le cure oncologiche e per il Coronavirus. Uno dei pochi ospedali oncologici, dotato di pronto soccorso, che è stato costretto a riconvertire l' attività per far fronte alla pandemia in atto e continuare a gestire i malati di tumore.

«Quello che mi preoccupa è la reazione delle persone», ammette Santoro.

In che senso?

«Non sono convinto che gli italiani abbiano realizzato che il lockdown era indispensabile per ridurre i picchi della malattia e la sofferenza del sistema sanitario nazionale. Invece è stato fondamentale e nulla potrà tornare come prima».

Sta parlando della fase 2?

«Esatto. Ci saranno nuovi contagi, ma sarà un incremento controllabile e l' opinione pubblica dovrà imparare a non scagliarsi contro chi ha deciso la riapertura».

L' impressione è che in questi mesi di pandemia i malati oncologici siano stati trattati come pazienti di serie b.

«È un' impressione corretta, e mi spingo un po' più in là nella provocazione. Mi domando se i malati oncologici siano diventati cittadini di serie b e se si siano dimenticate tutte le altre patologie. La pandemia è stata enorme per virulenza e gravità, però ha fatto mettere da parte le altre malattie e questo è un errore imperdonabile. Per i malati oncologici sono cambiate le linee guida di trattamento e di accesso all' ospedale. E abbiamo assistito ad atteggiamenti rinunciatari nella prescrizione delle terapie e nella chirurgia. Leggevo l' altro giorno un articolo sul "New England" di un medico americano. Mi ha colpito il titolo: Scilla e Cariddi. L' autore paventava il rischio di un picco di altre malattie: salvare più vite per Covid-19 e trascurare i malati di tumore rischiando un picco di mortalità oncologiche è una vittoria di Pirro».

Lei condivide?

«Io penso che se crediamo alla scadenza dei trattamenti oncologici, non farli possa solo peggiorare i risultati terapeutici. Molti ospedali si sono troppo orientati sul Covid-19 trascurando gli altri pazienti: serve maggior equilibrio».

I malati oncologici rischiano di più?

«Premesso che quando si parla di pazienti oncologici bisogna sempre distinguere tra quelli guariti e quelli attivi (che hanno in corso terapie, ndr), direi che non esistono dati chiari che dimostrino un aumento di casi di contagio o di morti per complicanze da Covid nei pazienti oncologici».

Humanitas ha creato 7 degenze per i Covid, la terapia intensiva e il pronto soccorso hanno raddoppiato capacità e posti letto.

«Ci siamo attivati rapidamente per far fronte all' epidemia. Ma abbiamo avuto il coraggio, in assenza di dati chiari sull' aumentato rischio, di continuare a trattare i pazienti oncologici con terapie mirate, compresi trapianti di midollo e Car-T. Le terapie in day hospital sono diminuite di appena il 6%. Il numero di trapianti di midollo è rimasto costante, erano 40 al 15 aprile 2019 e sono stati 38 quest' anno. Solo la chirurgia ha subito una flessione, perché gli interventi che ponevano un rischio di rianimazione non potevano essere fatti in un momento in cui le terapie intensive servivano per i pazienti Covid. Certo, alcune precauzioni sono state adottate. I pazienti che avevano terapia orale hanno ricevuto le medicine a domicilio. Il follow up, la fase di controllo periodico, è avvenuto telefonicamente, e per i pazienti in buona salute abbiamo rimandato le visite a dopo l' estate. Siamo stati rigidi sugli accompagnamenti familiari, e gli accessi dalle altre regioni sono diminuiti per la paura del contagio e la quarantena...».

E ora che cosa accadrà?

«Ora ci avviamo alla sanificazione e alla riapertura di alcuni reparti. Il meccanismo è modularsi sulla base delle necessità. A breve verrà realizzato un ospedale Covid nel comprensorio Humanitas».

C' è stata molta polemica sui tamponi.

«Il governo può decidere che vengano fatti a tutti, ma si pone il problema di dove reperirli. Inoltre i limiti sono noti: oggi sei negativo, ma tra 5 giorni puoi essere positivo. Finché non avremo il metodo per stabilire se siamo immunizzati o meno, e questo metodo non esiste ancora, il tampone da solo non basterà».

La sanità lombarda è finita sulla graticola.

«La sanità lombarda resta forse la migliore in Italia e fra le migliori nel mondo. Davanti a un' epidemia acuta, con complicanze gravi, qualunque sistema sarebbe andato in crisi».

Non c' è stata lacuna?

«La Lombardia si è lanciata su strutture di eccellenza che richiamano pazienti da tutto il Paese. Forse però è mancata la medicina di territorio».

I medici hanno pagato più di tutti... in Humanitas come è andata?

«Nelle prime fasi ci sono state poche precauzioni, e molti medici, compreso il sottoscritto, si sono ammalati. Personalmente in modo asintomatico».

Tanti gli asintomatici?

«L' 85% dei malati non si accorge di avere la malattia. E vorrei sottoporle un dato: in Italia sono morte 25mila persone per Covid. Ma 70mila muoiono ogni anno di fumo, parte per tumore ai polmoni e parte per patologie cardio respiratorie. Non sminuisco l' allarme, ma i numeri vanno letti in modo critico».

A Pavia usano un antitumorale contro il Covid.

«Ogni giorno spunta una terapia. Sono tutte possibilità per rendere meno aggressivo il virus. Mi fido più del vaccino».

Bastano i fondi per la ricerca?

«I fondi bastano, ma sarebbe bene che gli investimenti non si facessero tutti in un' unica direzione. Vedo troppi bandi orientati su Covid e forse i dati si avranno quando il virus sarà stato debellato».

Giovanni Milito per Dagospia il 13 aprile 2020. Dal 21 febbraio, primo caso in Italia di Covid19, la vita degli italiani è cambiata con la limitazione della libertà personale e la chiusura delle attività produttive di ogni genere ad eccezione di quelle necessarie (farmacie , supermercati..). Da quella data anche la vita degli ospedali si è modificata; e l’attenzione rivolta alla grave emergenza è sui pazienti che da quella data affollano i reparti di malattie infettive e le terapie intensive. La maggior parte degli ospedali è diventata un HUB Covid per cercare di far fronte alla pandemia che sta mietendo così tante vite, compresi oltre 100 medici ad oggi solo in Italia. Medici, anestesisti, paramedici e personale ospedaliero sono tutti impegnati su questo fronte,   una guerra, che ha conyagiato oltre un milione di persone in tutto il mondo dei quali solo 20.000 in Italia. Ci chiamano eroi, angeli, salvatori solo adesso che siamo sul fronte ma questo lo facciamo e continuano a farlo ogni giorno da sempre. Noi non siamo né eroi né angeli ma facciamo semplicemente il nostro lavoro con passione perché di questo si tratta ogni giorno rischiando  la vita come già fatto per  altre epidemie o per malattie altrettanto pericolose quali l’epatite o l’AIDS. Per anni i governi sia di destra che di sinistra hanno tagliato i fondi alla sanità riducendo sempre di più i finanziamenti per la ricerca e l’assistenza ai malati, mantenendo gli stipendi a quelli di 20 anni fa, con minime assunzioni di personale  e costringendo così  molti giovani medici a cercare posti all’estero .

Una riflessione in merito all’attuale affollamento degli ospedali. Da quando è scoppiata la pandemia i pronto soccorso di chirurgia si sono svuotati, si è passato dai circa 200 accessi giornalieri nei grandi ospedali come il nostro Policlinico Tor Vergata a 3/4 pazienti nelle 12 ore (dati confermati anche dagli altri grandi ospedali romani). Capisco che i traumi da incidenti stradali sono quasi azzerati  in questo periodo ma dove sono finite le patologie più comuni? Non credo che possa essere la paura di finire in ospedale che tenga lontano i pazienti ma mi viene da pensare che molti accessi al pronto soccorso siano finalizzati ad altri scopi o a cause alle quali non so dare una risposta. Occorre una migliore educazione e consapevolezza che l’attività del pronto soccorso sia riservata solo a patologie gravi e serie senza affollamenti che compromettono il funzionamento e l’efficienza nell’erogazione delle prestazioni. Come conseguenza i reparti di chirurgia d’urgenza sono ora vuoti o semivuoti, cosa positiva in questo momento al fine di consentire al personale medico e paramedico di concentrarsi sui pazienti affetti da Covid19. In questo momento le linee guida delle società scientifiche nazionali internazionali per la cura delle varie patologie sono state riviste. Unanime e il consenso di ridurre il numero degli interventi chirurgici ai soli casi urgenti alfine di non distogliere il personale medico e paramedico e le strutture dall’affrontare il virus. I pazienti Covid negativo con patologie di urgenza o pazienti oncologici dovrebbero essere ricoverati in ospedali Covid Free. Qualora non fosse possibile, questi dovrebbero seguire percorsi separati in reparti con personale, sale operatorie ed endoscopiche dedicate. Nei pazienti Covid positivo con patologie chirurgiche (in particolare quelle oncologiche) occorre trattare prima l’infezione del virus ed operare solo i casi urgenti .

Vittime collaterali del Covid: “In attesa del tampone è morto per emorragia. Non vedrà mia sorella sposarsi”. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Le storie che riguardano il coronavirus sembrano ormai riempire le nostre giornate. Attraverso i media, la rete, i social possiamo trovare racconti di ogni tipo che spaziano dal dramma dei parenti di chi non ce l’ha fatta alla gioia di chi ne è uscito e ha superato la battaglia covid-19. Ma per quanto l’emergenza pandemia sia al centro dei nostri argomenti quotidiani, non esiste solo il coronavirus. Ci sono anche numerosi casi di persone che muoiono per cause differenti e non sempre sono riconducibili a questa malattia, ed in questo momento sono anche quelli, forse, con meno risonanza. Gli ospedali stanno fronteggiando la situazione in maniera irrefrenabile e con non poche difficoltà, anche se spesso il virus stende un velo su altre emergenze. Infatti può accadere che tra i tanti casi che accorrono nei nosocomi, si possa commettere qualche errore di valutazione. E’ il caso di Doriana, una ragazza di 38 anni residente a Novara con i suoi genitori ma originaria di Reggio Calabria. Come spesso sta accadendo in questo periodo, sono tante le persone che si raccontano sui social descrivendo la loro esperienza e lasciando un pezzettino della propria storia. La stessa cosa ha fatto Doriana, che attraverso un post sui social ha espresso la sua tristezza e il suo dolore per essere stata lontana dalla sua famiglia quando il papà è morto. E anche per l’impossibilità di poter badare alla madre che è reduce da una grave malattia, di cui Doriana è tutrice. I genitori di Doriana sono partiti sono due mesi fa, prima della chiusura totale da parte delle autorità del governo, per andare a trovare la sorella residente nella loro terra natia per ultimare i preparativi per il suo matrimonio, mentre lei è rimasta a Novara per lavoro. Ma se la madre è ancora bloccata lì, il padre non c’è più.

LA STORIA – Come ha raccontato Doriana al Riformista, il pomeriggio di domenica 29 marzo suo padre accusa un leggero malessere ai polmoni, peggiorando verso sera. Così decidono di portarlo al Pronto Soccorso presso il GOM di Reggio Calabria. Dalla prima anamnesi, avevano notato un affaticamento polmonare credendo così che fosse affetto da Covid, sebbene come spiega Doriana “non aveva nessun sintomo correlato a tale patologia. Niente febbre, niente tosse, niente stato influenzale. Ma gli è stato fatto comunque il tampone ed aspettavano l’esito”. La donna racconta che il padre era cosciente, “comunicava attraverso il cellulare con mia madre e mia sorella spiegando ogni singolo dettaglio. L’unico esame fatto e’ stato il tampone, nessun’altro esame diagnostico che potesse escludere qualche altra patologia”. In attesa dei risultati del tampone, in via precauzionale, il padre di Doriana viene così trattenuto una notte in ospedale come da protocollo. La mattina seguente gli viene spiegato che anche nel caso in cui fosse risultato positivo l’avrebbero mandato a casa in isolamento. Così il padre aggiorna la famiglia che in breve tempo avrebbe ricevuto l’esito. Ma nel giro di mezz’ora il padre di Doriana ha delle complicazioni. Quando la sorella arriva in ospedale, dopo aver parlato al telefono con un infermiere, il padre era già morto. Ed era risultato negativo al tampone del coronavirus: “Diciannove ore dopo la presumibile diagnosi di covid, mio padre moriva per emorragia data dalla lacerazione dell’aorta femorale che ha provocato lentamente un’emorragia polmonare senza scampo. Potevano salvarlo se fosse stato preso in tempo. Il destino di mio padre si è ridotto in ore perse ad aspettare l’esito di un tampone risultato negativo solo dopo la sua morte”. Doriana si trova così bloccata in Piemonte, senza poter raggiungere la madre se non denunciandosi alle autorità competenti al suo arrivo in Calabria, ma in ogni caso dovrebbe restare in isolamento senza comunque poter badare a sua mamma. “So che non posso fare niente, come milioni di figli che perdono i loro genitori al sud. Chiedo solo di sapere la verità per mio padre, vittima indiretta del covid, e per tutti noi figli vittime di un sistema ingiusto”.

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2020. Meno bambini per colpa del coronavirus. Quest' anno potrebbero non nascerne 4.500, quelli che tra marzo e maggio sarebbero stati «messi in cantiere» grazie al felice esito di tecniche di PMA, la procreazione medicalmente assistita. Un' ordinanza del ministro della Salute Roberto Speranza, il cui contenuto è stato chiarito a più riprese (16 e 25 marzo, 3 aprile), ha sospeso infatti l' avvio di nuovi cicli. Significa che le coppie già prenotate per avviare presso i centri della fertilità un percorso di fecondazione assistita dovranno rimandare i loro progetti. Sono ritenute indifferibili soltanto le procedure «esclusivamente per pazienti già in trattamento che devono effettuare prelievo di ovociti e trasferimento di embrioni» già programmati. La stima dei neonati che mancheranno dalle culle, già troppo vuote in un' Italia afflitta dalla bassa natalità, è di Antonino Guglielmino, presidente della società italiana della riproduzione umana, la Siru. In Italia ogni anno vengono eseguiti circa 98mila trattamenti riproduttivi su 78.400 coppie. Quasi 14 mila bambini i bambini che vanno ad allietare la vita delle rispettive famiglie. Secondo il ginecologo di Catania «mantenere questi ritmi sembra molto difficile visto il prolungarsi delle misure di contenimento legate alla pandemia nel periodo primaverili, il più richiesto dai nostri pazienti». I mesi di sospensione potrebbero essere almeno tre. Tutti i centri italiani della PMA sono fermi, il 98% dell' attività si è interrotta, hanno concluso il percorso solo le pazienti che avevano già cominciato le cure di stimolazione ormonale, propedeutica al prelievo di ovociti. Ferme anche le importazioni di cellule riproduttive dall' estero destinate alle coppie candidate alla fecondazione eterologa. Lo stop è scattato l' 11 marzo. Gli scambi per l' ovodonazione avvenivano soprattutto con la Spagna attualmente nel pieno dell' emergenza. Gli specialisti del settore sono molto preoccupati soprattutto per le pazienti ultra 40enni , costrette a rimandare i sogni di un nastro da appendere fuori dalla porta. Ermanno Greco, direttore del centro European Hospital, uno dalle migliori performance a livello nazionale: «Dopo quest' età le percentuali di successo della PMA si dimezzano. Sarebbe opportuno inserire tra le prestazioni indifferibili quelle che riguardano pazienti con certe caratteristiche. Prevedendo dunque delle eccezioni come avviene per le donne che devono eseguire il prelievo degli ovociti allo scopo di preservare la fertilità prima di chemioterapia». È quanto sostengono gli autori di un articolo pubblicato sulla rivista Sterility & Fertility: «La raccolta di ovociti dovrebbe essere ritenuta urgente non solo per le pazienti oncologiche ma per tutte le situazioni sensibili come quelle di donne in età materna avanzata e con ridotta riserva ovarica».

Rita Rapisardi per "corriere.it" il 5 aprile 2020. I primi guai si sono fatti avanti già un mese fa nelle ormai ex “zone rosse”. Lì gli ospedali, impegnati contro il virus, hanno iniziato a sospendere l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG): è successo a Sant’Angelo Lodigiano, Codogno e Casalpusterlengo. Poi l’epidemia è arrivata a Bergamo. Prima dell’emergenza lì a garantire il servizio IVG c’erano tre presidi: Alzano Lombardo, Seriate e Piario. Ormai resta solo quest’ultimo. Oggi le donne di tutta Italia non sanno come muoversi. La legge 194 stabilisce che è possibile interrompere una gravidanza entro 90 giorni dal concepimento. Un lasso di tempo che si assottiglia mentre si va in consultorio, si aspetta la cosiddetta “settimana del ripensamento” (obbligatoria, se non in casi di emergenza) e si fanno visite e analisi. Nel caso dell’aborto farmacologico i giorni si riducono a 49: sette settimane, anche se nel resto d’Europa sono nove. E di solito le prime quattro trascorrono nell’inconsapevolezza di essere incinte. Nel mezzo dell’epidemia di coronavirus, le donne che vogliono interrompere una gravidanza perdono giorni preziosi al telefono alla ricerca di consultori aperti e ospedali disponibili. Gli spostamenti poi complicano il tutto. «La più grande difficoltà è stata capire dove andare», racconta F. di Napoli, «io ci ho messo tre settimane. Ormai sono alla decima».

«L’aborto è un servizio essenziale». Alcuni ospedali per giustificare la soppressione delle IVG impugnano il decreto del 9 marzo in cui si legge che si “possono rimodulare o sospendere le attività di ricovero e ambulatoriali differibili e non urgenti”. Ma secondo Alessandra Kustermann, responsabile della Mangiagalli di Milano (che oggi assorbe anche gli aborti del Niguarda), l’aborto è «un servizio essenziale»: «Non si può mettere in dubbio la 194», aggiunge, «o cominceranno di nuovo gli aborti clandestini. Lo considero un femminicidio, ci ricordiamo quante donne morivano?». In Italia, secondo una stima contenuta nell’ultima Relazione annuale sull’attuazione della legge 194, nel 2017 ci sono stati 12-15 mila IVG clandestine. Il rischio è che l’epidemia le faccia aumentare. Il primo a saltare è l’aborto farmacologico: in tutta Italia, sempre meno ospedali offrono la possibilità di optare per la pillola abortiva. Il Policlinico Federico II di Napoli, ad esempio, ha disattivato le IVG farmacologiche e mantenuto solo quelle chirurgiche. Il S. Giuseppe Moscati di Avellino, sentito al telefono per avere informazioni sul servizio di IVG, risponde - si spera per uno scherzo di cattivo gusto - che «durante la settimana Santa non si effettuano quelle cose». Salvo poi rettificare, in un secondo momento, dicendo che il servizio è sospeso per via dell’epidemia. All’Ospedale Maggiore di Lodi gli aborti farmacologici sono stati sospesi: anche quelli già prenotati sono stati convertiti in chirurgici, costringendo così le donne che pensavano di dover fare un percorso a farsene andar bene un altro. Solo chirurgico anche al Merano di Bolzano e al San Leonardo di Salerno. Al Policlinico di Napoli, tutto cancellato per evitare di riempire gli ambienti. Per la provincia di Agrigento e parte di quella di Trapani a garantire il servizio c’è un solo medico: «È vero, ci sono molte emergenze, ma non per questo si può tenere una gravidanza indesiderata», dice.

Favorire l’aborto farmacologico. Eppure in una situazione come quella odierna il farmacologico potrebbe essere parte della soluzione. Se non fosse per via del ricovero obbligatorio di tre giorni, richiesto in 12 regioni su 20, che oggi spinge tanti ospedali a sospendere il servizio: dato che le IVG chirurgiche si svolgono in day hospital, risultano più adatte all’emergenza. Questo anche se, nella pratica, il 95% delle donne che scelgono la pillola abortiva firmano per andare a casa dopo 24 ore. Per tutto ciò che riguarda le IVG farmacologiche, i problemi precedono l’emergenza coronavirus. Basti pensare che in Italia solo il 17,8% delle IVG avviene con l’uso della pillola abortiva, contro il 97% della Finlandia e il 67% della Francia. L’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA) da sempre sconsiglia fortemente la dimissione volontaria e insiste perché si mantenga il limite a sette settimane, anziché portarlo a nove come in altri Paesi europei. «Perché si deve fermare una pratica medica che funziona?», si chiede però Anna Maria Marconi, direttrice del Dipartimento Materno Infantile dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano. Anche l’Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani chiede di facilitare l’aborto farmacologico, anziché ostacolarlo. La stessa OMS invita a ricorrere alla pratica meno invasiva: per alleggerire gli ospedali ma, soprattutto, per un minor rischio per la donna. «Noi cerchiamo di mantenere il servizio nonostante la chiusura del day hospital», racconta Marconi, «purtroppo attualmente le donne che devono abortire sono nello stesso reparto delle puerpere. Non è auspicabile, ma abbiamo dovuto convertire il day surgery in reparto Covid». La dottoressa si augura che da questa situazione nasca un nuovo modello che punti sulla telemedicina: le pillole abortive potrebbero essere somministrate in consultorio o in ospedale, per poi monitorare le donne al telefono. «In tempi di guerra bisogna essere razionali», spiega Francesco Matrullo, direttore del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale San Pio di Vasto. «Abbiamo un numero limitato di anestesisti e stiamo assorbendo in parte le richieste di IVG del Molise. Per questo abbiamo pensato di potenziare il farmacologico, che non necessita di sala operatoria».

I preziosi anestesisti. Matrullo tocca un punto chiave: il ruolo degli anestesisti, che durante l’emergenza sono tra i primi a essere dirottati nei reparti Covid. E così, negli ospedali dove scarseggiano già in tempi normali, non ne resta nessuno per le IVG. È successo, per qualche giorno, al S. Chiara di Pisa e al Grassi di Ostia. E succede ancora al Michele Chiello di Piazza Armerina, in provincia di Enna. «Come in tutte le situazioni dobbiamo sempre trovare il modo di far pagare alle donne il prezzo più alto», commenta la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio: «Il decreto è stato pensato per quindici giorni, non può funzionare per mesi». Per questo si pensa a una direttiva che accomuni tutte le ASL e impedisca la sospensione dell’IVG.

I consultori. Le difficoltà iniziano prima ancora di arrivare in ospedale. I consultori sono indispensabili per compiere il primo passo verso una IVG: rilasciano il documento medico con il quale presentarsi in ospedale. Ma con l’emergenza quelli aperti sono sempre di meno. «Potrebbe essere chiuso il 40-50% dei consultori», è la stima di Federica di Martino, psicoterapeuta, che aggiunge: «Del foglio medico potrebbero occuparsi anche i medici di base, ma pensano non sia loro compito». Risultato? Situazioni come quella di M., una minorenne di Cefalù: ha trovato il consultorio chiuso, è immunodepressa e senz’auto, è riuscita a farsi mandare il documento sul pc solo dopo enormi difficoltà. «Il sistema collassa perché non funziona», chiosa Eleonora, una delle attiviste che si occupa di Obiezione Respinta, una piattaforma web che mappa gli ospedali dove continua l’IVG. In Italia è infatti obiettore il 68,4% dei ginecologi e il 45% degli anestesisti.

Roberto deve operarsi per il linfoma: "Ho le metastasi, non posso aspettare”. Le Iene News il 31 marzo 2020. Roberto Luciani, 60 anni, di Roma, si fa portavoce dei tanti malati che da mesi attendono una visita o esami importanti e che inevitabilmente sono stati cancellati per l’emergenza del coronavirus. “Ho bisogno con urgenza di sottopormi a visite ed esami per poi operarmi. Ora con l’emergenza coronavirus non so quanto potrò andare. Il tempo stringe e aumenta la paura che possa peggiorare”. Roberto Luciani, 60 anni, dalla provincia di Roma manda a Iene.it il suo appello, che potete vedere qui sopra. Nella giornata in cui i contagi da coronavirus superano i 101mila casi in tutta Italia e al contempo i guariti sono ben 1.590 in 24 ore (il giorno prima erano 646), Roberto porta l’attenzione su tutti gli altri malati quelli che per fortuna non hanno riscontrato il COVID-19, ma hanno comunque bisogno di assistenza. “Ci siamo anche noi. Non dimenticatevi dei malati oncologici che dagli ospedali stanno aspettando esiti o visite importanti”, dice Roberto. Dalla scorsa estate sta facendo analisi e controlli dentro e fuori dagli ospedali della Capitale. “Tutto ha avuto inizio per una protuberanza in testa, fino alla diagnosi: linfoma cutaneo. È risultato che ho metastasi in tutto il corpo, specialmente due macchie sospette ai polmoni”. Proprio per questo esame a fine febbraio è riuscito a prendere appuntamento in ospedale per il 23 marzo. “L’emergenza del coronavirus ha annullato tutto perché è anche comparso un caso e quindi hanno dovuto sospendere qualsiasi visita. Per i ricoveri ci sono nuove regole come un degente per stanza, ma così si allungano i tempi”, spiega Roberto. Come lui sono tantissime le persone che hanno bisogno di cure e assistenza negli ospedali italiani, oggi al collasso per gestire i pazienti COVID-19. “Ho bisogno della chirurgia toracica che possa dire con certezza l’avanzamento del mio male. Ora ho anche paura di infettarmi con il coronavirus”, dice Roberto che tramite Iene.it lancia il suo appello. “Non dimenticatevi anche di noi malati oncologici”. E a lanciare l'appello sulla prevenzione contro i tumori sono anche i medici. "Un tumore non può aspettare", ci ha spiegato un chirurgo oncologico, che preferisce rimanere anonimo. "Al momento mandiamo avanti solo le operazioni urgenti, quelle le garantiamo. Mentre le patologie benigne aspettano". I pazienti oncologici sono fra quelli più a rischio di contrarre il coronavirus, perché immunodepressi. "La chirurgia oncologia deve essere separata dal covid, altrimenti metteremmo a rischio i nostri pazienti. Ma la chemioterapia deve ovviamente andare avanti, e quindi si cerca di gestire l'emergenza del coronavirus e allo stesso tempo portare avanti le cure dei nostri pazienti oncologici". Quali sono oggi i pazienti più a rischio? "Quelli per cui c'è un sospetto, per esempio, vengono rimandati. Gli ambulatori sono chiusi, non facciamo visite, e di fatto la prevenzione oggi non esiste. Sullo screening rischiamo di tornare indietro. Ma è l'unica cosa che possiamo fare ora: metti che vieni a farti la mammografia in ospedale, lì c'è il reparto covid e ti metto a rischio di contrarre il virus. Nell'emergenza si mette sul piatto della bilancia le due cose, e si decide. Il problema però è che la mancata prevenzione farà rimbalzare il numero dei tumori". 

L'oncologo in trincea: "Gli occhi dei malati parlano da dietro le mascherine". Il primario di Oncologia dell'ospedale Predabissi Asst Melegnano racconta il dramma dei pazienti malati di tumore: "A loro il virus ha tolto speranza". Francesca Bernasconi, Lunedì 30/03/2020 su Il Giornale. "Gli occhi dei pazienti dietro le mascherine parlano più di ogni parola". E raccontano, oltre alla preoccupazione per il Covid-19, anche "l'ansia per il cancro attivo e la paura dell'abbandono perché già 'segnati' da una malattia cronica che, solo a pronunciarla, mette paura". A rivelare cosa accade negli ospedali in prima linea contro il virus è Andrea De Monte, direttore Uo Oncologia dell'ospedale Predabissi Asst Melegnano e della Martesana, in Lombardia, che ad AdnKronos spiega la difficile battaglia dei pazienti oncologici. Ormai il Covid-19 "ha cambiato la nostra vita", diventando il nemico numero uno contro cui combattere: "Ormai non si parla più delle altre malattie, la paura per la salute che questo virus porta con sè sembra avere sbiadito gli altri big killer della nostra società come le malattie cardiovascolari, gli ictus cerebrali, i tumori". Ma molti dei pazienti affetti da queste malattie sono stati colpiti anche dal virus, che ha lasciato "più ferite aperte: non solo contagiandoli, ma togliendo anche a molti di loro la speranza di riuscire a sconfiggere o, quanto meno, a cronicizzare il cancro". Lo si capisce, secondo quanto riferisce l'oncologo, guardando "i loro occhi dietro le mascherine", che "parlano più di ogni parola" e raccontano la paura di essere abbandonati. "Ma nei momenti di maggiore difficoltà- aggiunge il medico- l'unità diventa la forza per superare i problemi e riscopri nelle persone valori di vita che la nostra società stava cancellando". E succede che "si creano nuove alleanze medico-paziente, si intrecciano nuovi rapporti collaborativi fra strutture sanitarie e si riesce con coraggio a proseguire nella lotta contro il cancro anche nell'era della pandemia Covid-19". In ospedali, racconta De Monte, "si lavora tutti insieme ed ad ogni livello per riorganizzare percorsi diagnostici e terapeutici, per trovare vie facilitate di accesso alle prestazioni sanitarie, per confortare i pazienti: le terapie oncologiche per tutti i pazienti non si sono mai fermate e proseguono (complessivamente 50 al giorno nei vari presidi), così come la vita e la speranza". Una lotta senza sosta, quella di medici, infermieri e operatori sanitario che corrono contro il tempo per fronteggiare le malattie, senza un attimo di pausa. Uno scenario che a uno dei pazienti di De Monte ha ricordato "i pompieri dell'11 settembre". Ma l'oncologo precisa: "Non siamo eroi, ma uomini e donne del Sistema sanitario nazionale che credono nel loro operato, che con grande coraggio e responsabilità rispettano i giuramenti effettuati e gli impegni presi verso la società, pur consapevoli di mettere quotidianamente a rischio la loro integrità fisica".

Coronavirus, la denuncia dei malati cronici: "I nostri farmaci salvavita requisiti per l'emergenza". Le difficoltà di una malata per trovare il Plaquenil idrossiclorochina 200, prescritto per l'artrite reumatoide ma ora usato anche per il Covid-19. L'Aifa non lo inserisce tra i farmaci carenti, ma il produttore avvisa che potrebbe arrivare in misura ridotta. Michele Bocci il 25 Marzo 2020 su La Repubblica.  È uno dei farmaci che hanno dati preliminari di “potenziale attività antivirale” nei confronti del coronavirus. Per questo Aifa, l'agenzia del farmaco, ne ha concesso l'uso off label, cioè fuori dalle indicazioni. La idrossiclorochina è un medicinale nato come antimalarico ma usato anche come antireumatico e in questi giorni in farmacia inizia a scarseggiare. “Ho scoperto che il farmaco che da anni devo prendere obbligatoriamente ogni giorno, per la mia patologia non si trova più da nessuna parte”, scrive su Facebook una malata. Ha fatto telefonate in varie farmacie senza riuscire ad ordinarla. “Non sanno quando tornerà disponibile”. La malata si chiede: “Perché nessuno ci ha avvertiti? Perché dobbiamo scoprire da soli che il nostro farmaco, il Plaquenil idrossiclorochina 200, viene impiegato negli ospedali in Italia e all'estero lasciando noialtri sprovvisti?  Dall'Aifa fanno sapere che al momento non è inserito nella lista dei farmaci carenti. Ma perché un medicinale entri in questo elenco devono esserci segnalazioni che potrebbero non essere ancora arrivate o semplicemente vanno ancora inserite. Dalle farmacie spiegano che è appena arrivata ai distributori una dichiarazione del produttore Sanofi, dove si spiega che visto il grande aumento del consumo negli ospedali, sul territorio arriverà in misura ridotta a seconda delle possibilità. Probabilmente sul territorio arriverà anche, seguendo lo stesso principio, il generico prodotto dall'italiana Doc.

«Le 500 telefonate al giorno per i pazienti oncologici. Esaminiamo ogni caso». Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Giusi Fasano.

Coronavirus. Sempre e solo quello. E i malati oncologici?

«Abbiamo ben presenti i loro bisogni e, mi creda, nessuno viene lasciato indietro. C’è una delibera ministeriale che è un messaggio importantissimo per tutti loro. Dice, appunto, che il nostro Paese non li dimentica. Tra l’altro la questione se la pongono assieme a noi anche i colleghi di tutto il mondo».

Nei suoi 21 anni allo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia, il professor Giuseppe Curigliano mai avrebbe immaginato di vivere le sue giornate di lavoro in difesa, «come se fossimo sotto continuo attacco terroristico», per dirla con le sue parole. Direttore allo Ieo della Divisione di terapie innovative del cancro e professore di Oncologia medica all’università Statale di Milano, lui risponde ogni giorno a una valanga di email di pazienti oncologici preoccupati.

Quali domande pongono?

«Per esempio: come faccio ad avere il farmaco in zona rossa? Se ritardo nel prenderlo comprometto l’efficacia? Posso contrarre il virus più facilmente ora che sto facendo una terapia anticancro? C’è chi chiede che rischio corre se non fa la visita di controllo, chi ha paura di rinviare cure e interventi chirurgici, chi ha appena avuto una diagnosi di tumore e vorrebbe aiuto immediato perché è spaventato. Sono ansie umanamente comprensibili per chi sta vivendo questo momento storico da paziente oncologico».

 Cosa dicono le indicazioni del ministero della Salute?

«Distinguono due categorie: una off-therapy, cioè che non riceve terapie e che verrebbe da noi per controlli, e una che invece le riceve, cioè con malattia attiva. In questo tempo di emergenza Covid l’ordine delle cose negli ospedali è sovvertito e anche allo Ieo — che è diventato un hub oncologico senza più distinzione fra pubblico e privato — ripensiamo di giorno in giorno spazi e priorità. Per noi la cosa più importante è valutare paziente per paziente, decidere che cosa è meglio fare e come bilanciare le esigenze anti-Covid e il timing, cioè i tempi giusti nella somministrazione dei trattamenti».

E in che modo lo fate?

«Ogni giorno chiamiamo i circa 500 malati che dovrebbero presentarsi il giorno dopo. Un gruppo di medici e infermieri li contatta uno a uno e fa una sorta di pre screening: si chiedono gli esami, si domanda di possibili contatti con soggetti potenzialmente contagiati, di eventuali sintomi... Dobbiamo capire come stanno e se possono essere infetti. Non deve succedere che entri un malato contagiato. E però nel frattempo nessuno deve essere trascurato. È un lavoro enorme».

E loro come reagiscono?

«Bene. Credo capiscano che nessuno viene lasciato solo in balìa degli eventi. In un certo senso facciamo telemedicina e facciamo anche educazione. Dato il momento di ridotta mobilità, fra un ciclo e l’altro di terapia li chiamiamo, rispondiamo ai loro dubbi, diamo indicazioni su come proteggersi se hanno difese immunitarie basse. Se decidi che devi trattare un paziente perché il rischio del tumore è alto, in questo momento devi fare anche formazione. Questo è un effetto dell’emergenza coronavirus: dove si può, si fa lavoro clinico telematico».

Molte operazioni sono rinviate, è diffusa la paura che se non viene operato, un tumore possa degenerare.

«Si decide caso per caso fra oncologo, radioterapista e chirurgo. Ci sono tumori per i quali puoi dilazionare l’intervento senza compromettere la prognosi, altri per i quali la chirurgia non è rinviabile. Ma c’è una valutazione attenta per tutti. Ripeto: virus o non virus nessuno viene lasciato solo».

Cos’ha imparato da questa emergenza?

«Ad apprezzare le cose semplici ed essenziali della vita. E ho imparato che siamo fragili. Mia moglie è una rianimatrice e lavora in prima linea in una Covid Unit, io al mattino entro in ospedale e cerco di proteggere me stesso e i miei pazienti dal virus. Io, mia moglie, i nostri pazienti: siamo tutti fragili, ma i malati lo sono di più. Ieri pensavo a quel che avrebbe detto Veronesi di questa emergenza».

E cioè cosa?

«Secondo me avrebbe detto: non lasceremo indietro nessuno. Avrebbe parlato di fiducia e speranza e avrebbe chiesto di credere e affidarsi alla medicina e alla scienza».

«Mia figlia di 14 anni ha bisogno di cure all’estero ma il coronavirus ci blocca». Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Floriana Rullo. Ha bisogno di cure all’estero ma il coronavirus la blocca nel suo letto, a Forno Canavese, piccolo centro tra le montagne canavesane in provincia di Torino. Per questo la mamma di R., 14 anni, da diverso tempo costretta a letto perché alle prese con due patologie rare, la malformazione di Chiari e l’ipotensione liquorale, ha deciso di tentare l’ultima carta in suo possesso e lanciare un appello al Governo. «Mia figlia ha bisogno di essere tutelata — racconta mamma Alessia —. E per farlo deve essere curata all’estero». Le patologie di R. l’accompagnano da quasi l’intera vita e la costringono a rimanere a letto. Ma se la prima malattia sembra essere stata risolta chirurgicamente dopo ben otto operazioni, ora a darle seri problemi resta l’ipotensione liquorale. «Il grosso problema attuale è la perdita di liquido cefalorachidiano di cui non si è ancora riusciti a individuare il punto d’origine – spiega la madre della ragazzina —. Dovevamo recarci all’estero per una diagnostica invasiva e mirata, che in Italia non viene eseguita. Serviva a valutare il tipo di intervento chirurgico a cui sottoporla. Ma all’estero, nessun ospedale ad altissima specializzazione, ora come ora ci accetta come pazienti. La causa? Il coronavirus». Ma mamma Alessia non si rassegna. Così dopo essersi vista negare il via libera il 9 marzo scorso da parte dell’ospedale di Uniklinik di Friburgo, ha deciso di tentare un’altra strada: portare la figlia in un altro centro europeo specializzato in ipotensione, l’Insel Hospital di Berna. «Anche loro però ci hanno negato la presa in carico – chiosa la donna —. E mia figlia resta ancora qui. Non pretendiamo di partire domani o fra una settimana, ma nemmeno quando l’emergenza Covid-19 sarà terminata, perché R. ha bisogno di essere curata, sia perché è un essere umano e come tale deve avere il diritto alla salute e sia perché potrebbe incorrere in complicazioni di vitale rilevanza. Ha bisogno di andare all’estero anche se stiamo vivendo un momento tragico di pandemia. Il Governo ci aiuti».

Coronavirus, le altre vittime: “Mio marito solo senza una riabilitazione vitale”. Le Iene News il 14 marzo 2020.  Francesca, una giovane mamma salernitana, ci manda un video appello disperato: “Mio marito ha 35 anni, è rimasto paralizzato e ora, con l’emergenza coronavirus, è bloccato a Napoli senza poter fare la riabilitazione per lui fondamentale e senza poter vedere le tre figlie. Nessuna struttura riceve più nuovi pazienti, aiutateci a trovare un posto. Più passa il tempo, più può peggiorare!” L’allarme per il sistema sanitario che rischia di non farcela a curare tutti i malati, non solo quelli di coronavirus, si concretizza nel volto di Francesca e nel suo appello disperato per il marito che, dopo una gravissima malattia che l’ha paralizzato, per la congestione di ospedali e cliniche ora non può fare una riabilitazione vitale per lui e per tutta la sua famiglia. “Aiutate mio marito Francesco a guarire e a tornare a casa dalle sue tre bimbe” dice disperata sua moglie, che ci ha mandato il video appello che vedete sopra. Francesco Merola è un ragazzo di 35 anni, forte e in salute, che poco dopo Natale, nella palestra dove lavora, inizia a manifestare qualche disturbo fisico. “Ha cominciato ad avvertire una leggera influenza, con mal di testa e tremore alle gambe”, racconta la moglie Francesca. “Tornato a casa le cose peggiorano e lo portiamo subito in ospedale ma riesce a fatica a camminare e da Paestum, dove viviamo, lo portano con urgenza a Napoli”. La diagnosi è tremenda: “Un batterio gli ha colpito il midollo spinale e l’encefalomielite in pochissime ore lo ha paralizzato a tutti e quattro gli arti”. La moglie inizia un lungo e faticoso pellegrinaggio da casa all’ospedale: tutti i giorni 400 chilometri in macchina per vederlo per appena un’ora. “I medici della terapia intensiva del Monaldi di Napoli lo hanno messo in coma farmacologico, mentre cercano in ogni modo di capire cosa lo abbia ridotto in quel modo. Al risveglio dal coma Francesco è ancora paralizzato, vigile ma attaccato al respiratore. Gli hanno fatto una tracheotomia, per stabilizzarlo. Dicono che è un miracolato, ma che adesso però dovrebbe poter fare riabilitazione in qualche centro specializzato.” E proprio mentre si sta per provvedere al suo trasferimento, sul nostro Paese piomba l’emergenza coronavirus. E le cose per Francesco, già complicate, diventano allarmanti. “Nessuno più lo accetta perché i ricoveri sono chiusi e più si allontana la riabilitazione, più sarà difficile e lungo per lui il ritorno alla normalità. Francesco così non può guarire e non può tornare a casa dalle sue amate bambine. Hanno dodici, sette e tre anni e ogni giorno mi chiedono quando potranno finalmente riabbracciare papà… Uno strazio!”. E così adesso Francesca attraverso Iene.it rivolge un appello disperato, affinché qualche struttura riabilitativa possa accogliere il marito.

Graziella Melina per “il Messaggero” il 10 marzo 2020. Interventi chirurgici rinviati, visite ambulatoriali cancellate, attività di prevenzione sospese. Gli effetti dell'epidemia da coronavirus stanno creando gravi disagi alle persone con patologie croniche, disabilità e bisognosi di cure salvavita. Gli ospedali, ormai al collasso nelle zone dove c'è il focolaio endemico, non riescono infatti a gestire le attività di routine, e così prendono la drastica decisione di rimandare visite ed esami. I più disorientati e spaventati sono dunque le persone più fragili, a cominciare dai malati oncologici, ai quali si consiglia se possibile di rimandare trattamenti di chemioterapia in ospedale e le visite programmate di controllo. «Siamo consapevoli che a causa delle difficoltà operative legate al carico di lavoro del personale sanitario - spiegano Giordano Beretta e Saverio Cinieri, dell'Aiom, l'Associazione Italiana di Oncologia Medica -, potrebbe essere necessario differire parte dell'attività programmata», dunque sarà opportuno «valutare caso per caso l'eventuale rinvio della terapia, in base al rapporto tra i rischi dell'accesso in ospedale e i benefici attesi». Per rispondere alle esigenze delle persone con disabilità, la Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa (Simfer) ha deciso di attivarsi «per evitare che la diffusione del Covid-19 precluda la fruizione di interventi utili e necessari al recupero o al mantenimento di autonomia». Preoccupata anche l'Associazione Nazionale Malati Reumatici (Anmar onlus). «Ci stanno arrivando moltissimi messaggi di persone che vogliono abbandonare le terapie con i farmaci biotecnologici - avverte la presidente Silvia Tonolo - incuranti del fatto che sospendere i trattamenti, senza la condivisione con il proprio reumatologo, può solo comportare un peggioramento della patologia». L'indicazione, per tutti, è dunque di continuare a seguire le cure. Attenzione alta anche per i diabetici. «Occorre attenersi a poche ma fondamentali regole, che valgono sempre nella stagione influenzale, o quando si debba affrontare qualsiasi altra patologia in aggiunta al diabete - spiegano Francesco Purrello, presidente Sid (Società Italiana di Diabetologia) e Paolo di Bartolo, presidente Amd (Associazione Medici Diabetologi) - ossia mantenersi idratati, monitorare ancora più scrupolosamente il glucosio nel sangue, misurare regolarmente la febbre, tenere sotto controllo anche i chetoni, in caso di terapia a base di insulina, e seguire in modo puntuale le indicazioni che si ricevono dal proprio team di cura». Anche i pazienti dializzati «sono particolarmente allarmati - spiega il presidente della Fondazione Italiana del Rene Loreto Gesualdo - in quanto soggetti fragili, con patologie pregresse e frequentemente di età avanzata, lo stesso dicasi per i pazienti portatori di trapianto renale, immunodepressi a seguito della terapia antirigetto e, quindi, più esposti alle infezioni». Per informare sulle corrette pratiche, il 12 marzo, in occasione della Giornata Mondiale del Rene, sarà attivato il numero verde gratuito 800.822.515. Intanto, per paura del coronavirus, non si arresta il calo delle donazioni di sangue, necessario per le terapie di oltre 1800 pazienti al giorno. L'appello del Centro Nazionale Sangue e il Civis, il coordinamento delle associazioni dei donatori, è di donare il sangue, contattando il punto di raccolta per evitare affollamenti.