Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

IL COGLIONAVIRUS

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

LE VITTIME

 

 

 

 

 

INDICE PRIMA PARTE

IL VIRUS

 

Introduzione.

Le differenze tra epidemia e pandemia.

I 10 virus più letali di sempre.

Le Pandemie nella storia.

Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.

La Temperatura Corporea.

L’Influenza.

La Sars-Cov.

Glossario del nuovo Coronavirus.

Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.

Il Coronavirus. L’origine del Virus.

Alla ricerca dell’untore zero.

Le tappe della diffusione del coronavirus.

I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.

I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.

A Futura Memoria.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.

Fattori di rischio.

Cosa risulta dalle Autopsie.

Gli Asintomatici/Paucisintomatici.

L’Incubazione.

La Trasmissione del Virus.

L'Indice di Contagio.

Il Tasso di Letalità del Virus.

Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.

Morti: chi meno, chi più.

Morti “per” o morti “con”?

…e senza Autopsia.

Coronavirus. Fact-checking (verifica dei  fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.

La Sopravvivenza del Virus.

L’Identificazione del Virus.

Il test per la diagnosi.

Guarigione ed immunità.

Il Paese dell’Immunità.

La Ricaduta.

Il Contagio di Ritorno.

I preppers ed il kit di sopravvivenza.

Come si affronta l’emergenza.

Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?  

Lo Scarto Infetto.

 

INDICE SECONDA PARTE

LE VITTIME

 

I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

Eroi o Untori?

Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Onore ai caduti in battaglia.

Gli Eroi ed il Caporalato.

USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Covid. Quanto ci costi?

La Sanità tagliata.

La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.

Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?

Una Generazione a perdere.

Non solo anziani. Chi sono le vittime?

Andati senza salutarci.

Spariti nel Nulla.

I Funerali ai tempi del Coronavirus.

La "Tassa della morte". 

Epidemia e Case di Riposo.

I Derubati.

Loro denunciano…

Le ritorsioni.

Chi denuncia chi?

L’Impunità dei medici.

Imprenditori: vittime sacrificali.

La Voce dei Malati.

Gli altri malati.

 

INDICE TERZA PARTE

IL VIRUS NEL MONDO

 

L’epidemia ed il numero verde.

Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri? 

Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.

Il Coronavirus in Italia.

Coronavirus nel Mondo.

Schengen, di fatto, è stato sospeso.

Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.

…in Africa.

…in India.

…in Turchia.

…in Iran.

…in Israele.

…nel Regno Unito.

…in Albania.

…in Romania.

…in Polonia.

…in Svizzera.

…in Austria.

…in Germania.

…in Francia.

…in Belgio.

…in Olanda.

…nei Paesi Scandinavi.

…in Spagna.

…in Portogallo.

…negli Usa.

…in Argentina.

…in Brasile.

…in Colombia.

…in Paraguay.

…in Ecuador.

…in Perù.

…in Messico.

…in Russia.

…in Cina.

…in Giappone.

…in Corea del Sud.

A morte gli amici dell’Unione Europea. 

A morte gli amici della Cina. 

A morte gli amici della Russia. 

A morte gli amici degli Usa. 

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CURA

 

La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

L'Immunità di Gregge.

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.   

L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.   

Meglio l'App o le cellule telefoniche?

L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.

Epidemia e precauzioni.

Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.

La sanificazione degli ambienti.

Contagio, Paura e Razzismo.

I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?

Tamponi negati: il business.

Il Tampone della discriminazione.

Tamponateli…non rinchiudeteli!

Epidemia e Vaccini.

Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.

Il Costo del Vaccino.

Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.

Epidemia, cura e la genialità dei meridionali.

Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.

Gli anticorpi monoclonali.

Le Para-Cure.

L’epidemia e la tecnologia.

Coronavirus e le mascherine.

Coronavirus e l’amuchina.

Coronavirus e le macchine salvavita.

Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.

Attaccati all’Ossigeno.

 

INDICE QUINTA PARTE

MEDIA E FINANZA

 

La Psicosi e le follie.

Epidemia e Privacy.

L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.

Epidemia ed Ignoranza.

Epidemie e Profezie.

Le Previsioni.

Epidemia e Fake News.

Epidemia e Smart Working.

La necessità e lo sciacallaggio.

Epidemia e Danno Economico.

La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.

Il Supply Shock.

Epidemia e Finanza.

L’epidemia e le banche.

L’epidemia ed i benefattori.

Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.

Mes/Sure vs Coronabond.

La Caporetto di Conte e Gualtieri.

Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.

I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.

"Il Recovery Fund urgente".

Il Piano Marshall.

Storia del crollo del 1929.

Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.

Un Presidente umano.

Le misure di sostegno.

…e le prese per il Culo.

Morire di Fame o di Virus?

Quando per disperazione il popolo si ribella.

Il Virus della discriminazione.

Le misure di sostegno altrui.

Il Lockdown del Petrolio.

Il Lockdown delle Banche.

Il Lockdown della RCA.

 

INDICE SESTA PARTE

LA SOCIETA’

 

Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.

I Volti della Pandemia.

Partorire durante la pandemia.

Epidemia ed animali.

Epidemia ed ambiente.

Epidemia e Terremoto.

Coronavirus e sport.

Il sesso al tempo del coronavirus.

L’epidemia e l’Immigrazione.

Epidemia e Volontariato.

Il Virus Femminista.

Il Virus Comunista.

Pandemia e Vaticano.

Pandemia ed altre religioni.

Epidemia e Spot elettorale.

La Quarantena e gli Influencers.

I Contagiati vip.

Quando lo Sport si arrende.

L’Epidemia e le scuole.

L’Epidemia e la Giustizia.

L’Epidemia ed il Carcere.

Il Virus e la Criminalità.

Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.

Il Virus ed il Terrorismo.

La filastrocca anti-coronavirus.

Le letture al tempo del Coronavirus.

L’Arte al tempo del Coronavirus.  

 

INDICE SETTIMA PARTE

GLI UNTORI

 

Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?

Un Virus Cinese.

Un Virus Americano.

Un Virus Norvegese.

Un Virus Svedese.

Un Virus Transalpino.

Un Virus Teutonico.

Un Virus Serbo.

Un Virus Spagnolo.

Un Virus Ligure.

Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.

Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.

La Bergamasca, dove tutto si è propagato.

Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.

Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.

Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.

La Caduta degli Dei.

La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.

Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.

I Soliti Approfittatori Ladri Padani.

La Televisione che attacca il Sud.

I Mantenuti…

Ecco la Sanità Modello.

Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.

 

INDICE OTTAVA PARTE

GLI ESPERTI

 

L’Infodemia.

Lo Scientismo.

L’Epidemia Mafiosa.

Gli Sciacalli della Sanità.

La Dittatura Sanitaria.

La Santa Inquisizione in camice bianco.

Gli esperti con le stellette.

Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.

Le nuove star sono i virologi.

In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…

Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.

Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.

Giri e Giravolte della Scienza.

Giri e Giravolte della Politica.

Giri e Giravolte della stampa.

 

INDICE NONA PARTE

GLI IMPROVVISATORI

 

La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.

Un popolo di coglioni…

L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?

La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.

Conta più la salute pubblica o l’economia?

Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.

 “State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.

Stare a Casa.

Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.

Non comprate le cazzate.

Quarantena e disabilità.

Quarantena e Bambini.

Epidemia e Pelo.

Epidemia e Violenza Domestica.

Epidemia e Porno.

Quarantena e sesso.

Epidemia e dipendenza.

La Quarantena.

La Quarantena ed i morti in casa.

Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.

Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.

Cosa si può e cosa non si può fare.

L’Emergenza non è uguale per tutti.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Dipende tutto da chi ti ferma.

Il ricorso Antiabusi.

Gli Improvvisatori.

Il Reato di Passeggiata.

Morte all’untore Runner.

Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.

 

INDICE DECIMA PARTE

SENZA SPERANZA

TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE

 

In che mani siamo!

Fase 2? No, 1 ed un quarto.

Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.

Fase 2? No, 1 e mezza.

A Morte la Movida.

L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.

I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.

Fase 2: finalmente!

 “Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.

Le oche starnazzanti.

La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.

I Bisogni.

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

L’Idiozia.

Il Pessimismo.

La cura dell’Ottimismo.

Non sarà più come prima.

La prossima Egemonia Culturale.

La Secessione Pandemica Lombarda.

Fermate gli infettati!!!

Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.

Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?

Gli Errori.

Epidemia e Burocrazia.

Pandemia e speculazione.

Pandemia ed Anarchia.

Coronavirus: serve uno che comanda.

Addio Stato di diritto.

Gli anti-italiani. 

Gli Esempi da seguire.

Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…

I disertori della vergogna.

Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus. 

Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.

Grazie coronavirus.

 

 

 

 

 

IL COGLIONAVIRUS

 

SECONDA PARTE

 

LE VITTIME

 

·        I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.

Covid e medici di base, ecco chi deve fare i tamponi rapidi e perché non funzionano le cure a casa. Dataroom di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2020. Cosa dovrebbe fare un paziente che sta male per sospetto Covid? Chiamare il suo dottore, che lo prende in carico, verifica la positività, poi raccoglie al telefono i sintomi, offre consigli, eventualmente lo invia in ospedale per una valutazione o ricovero urgente, altrimenti monitora la situazione e se necessario fa una visita a domicilio (o invia le Unità speciali di continuità assistenziale, le note Usca). Invece nelle ultime settimane un contagiato su tre, impaurito e abbandonato a casa, va ad intasare i Pronto Soccorso, dove dovrebbero arrivare solo i pazienti Covid che richiedono una valutazione clinica complessa. Inoltre, negli ospedali un malato su tre occupa posti letto anche se potrebbe essere curato a domicilio. Eppure, in Italia ci sono 44 mila medici di famiglia. Dove si inceppa il meccanismo?

I doveri del dottore. La legge 833 del 1978 all’art. 25 dice: «L’assistenza medico-generica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel Comune di residenza del cittadino». Tra le due alternative, la scelta è caduta sulla libera professione in convenzione (legge 502 del 1992, art. 8), vuol dire che il lavoro dei medici di famiglia è disciplinato da accordi collettivi triennali sottoscritti dalle loro rappresentanze sindacali e dalla Conferenza Stato-Regioni. Ogni prestazione aggiuntiva deve quindi passare da una contrattazione sindacale. L’accordo in vigore prevede che lo studio debba essere aperto 5 giorni a settimana, e il numero di ore dipende dal numero di assistiti: va dalle 5 ore settimanali fino a 500 pazienti, alle 15 per 1.500 assistiti, numero massimo consentito. La visita domiciliare deve essere eseguita nel corso della stessa giornata, se la richiesta avviene entro le ore 10, altrimenti entro le ore 12 del giorno successivo . L’organizzazione delle visite a casa, comunque, poi spetta al medico. La paga forfettaria complessivamente arriva più o meno a 86 euro a paziente. Calcolando che ogni medico ha mediamente 1.200 assistiti, lo stipendio annuo è di circa 104.000 lordi. Le spese a loro carico.

Chi deve assistere il paziente a casa. Per l’Agenzia italiana del Farmaco, il medico di famiglia deve fare la «vigile attesa» nella fase domiciliare del paziente, e trattare di fatto solo i sintomi febbrili. Il decreto dell’8 aprile 2020 dice che devono sorvegliare a casa i pazienti fragili e cronici gravi. A Milano sono stati segnalati ai dottori dall’Ats 127.735 malati da contattare telefonicamente per verificare la necessità di un supporto sociale, della terapia assunta e delle condizioni cliniche generali. L’incentivo previsto è di 3 euro a paziente. Ebbene, ne sono stati presi in carico solo 48.624. Gli altri 79.110 sono rimasti scoperti. Parliamo di pazienti il cui rischio di morte, in assenza di vigilanza, è di otto volte superiore. Lo stesso decreto sollecita i medici del territorio ad occuparsi dei loro pazienti in quarantena, o dimessi dagli ospedali ma non ancora guariti, attraverso il controllo telefonico o visite a domicilio. Di fatto ognuno decide per se stesso: chi vuole lo fa (abbiamo visto medici prodigarsi oltre i limiti umani senza attendere il decreto), chi non vuole non lo fa. Va detto che la distribuzione di dispositivi di protezione individuale, è arrivata con il contagocce, come anche la disponibilità di saturimetri (e ancora peggio va per gli strumenti minimi di diagnosi come l’ecografo toracico, al momento non pervenuti). Per coprire questo «buco» di assistenza sono stati incaricati i Dipartimenti di Prevenzione delle Asl di fare le telefonate quotidiane per verificare lo stato di salute (temperatura, grado di ossigenazione misurato con saturimetro e test del cammino). Funziona un po’ si e un po’no, visto che il personale è sempre lo stesso. Invece per le visite a domicilio sono state create le Usca, ma sulle 1.200 previste, e finanziate con 721 milioni di euro, ne sono state istituite secondo gli ultimi dati disponibili la metà (Dl n. 14 del 9 marzo 2020, art. 8).

I test rapidi al via. Intanto il virus corre. Per una identificazione veloce dei focolai e l’isolamento dei casi, il 28 ottobre l’accordo collettivo nazionale in vigore è stato integrato su proposta dei ministri Roberto Speranza e Francesco Boccia: i medici di base sono chiamati a fare i test antigenici rapidi ai loro pazienti sospetti e ai relativi contatti stretti asintomatici. La retribuzione aggiuntiva è dai 12 ai 18 euro a tampone. Il 4 novembre il commissario straordinario Domenico Arcuri ha iniziato la distribuzione di 50 mila kit al giorno e oltre 3 milioni di pezzi a settimana di mascherine, visiere, guanti e tute. A questo si aggiunge la dotazione delle Regioni. I medici che non li fanno possono essere sottoposti a procedimento disciplinare. Ma l’accordo è sottoscritto solo dalla Fimmg che rappresenta il 63% dei medici di famiglia, e pure fra questi ci sono contrari e pronti a restituire la tessera sindacale. Il problema più ricorrente: gli studi sono dentro ai palazzi e i condomini si oppongono perché temono il va e vieni di contagiati. E’ però possibile farli in aree esterne messe a disposizione dai Comuni. Sta di fatto che la categoria è in subbuglio: in Lazio, per ora, hanno dato la disponibilità in 341 (su 4.600). In Veneto il governatore Luca Zaia ha firmato un’ordinanza: tutti i 3.198 medici di medicina generale sono obbligati a effettuare i test rapidi ai propri assistiti pena la perdita della convenzione. Il numero di adesioni in Emilia-Romagna è in alto mare, in Lombardia si conoscerà solo nei prossimi giorni.

Il giuramento di Ippocrate. Sono comprensibili le paure (la maggior parte di loro ha un’età compresa fra i 50 e 60 anni), e condivisibili i timori per il carico di responsabilità che nessuno ha definito, ma ogni medico il giorno della laurea giura «di prestare soccorso nei casi d’urgenza e di mettermi a disposizione dell’Autorità competente, in caso di pubblica calamità». Negli ospedali, abbiamo visto, nessuno è stato tanto lì a discutere. Quello che sappiamo è che, anche per la semplice richiesta di esecuzione del tampone tradizionale, da marzo a ottobre a Milano il 39% dei casi sospetti Covid ha dovuto arrangiarsi da soli, mentre quelli segnalati dai medici di base sono stati il 61%. Fra questi c’è chi si è tirato il collo (l’8% ha segnalato oltre 200 casi) e chi ha fatto il meno possibile (il 20% si è fermato a 50 casi). In ogni caso nell’accordo con i sindacati nulla è stato previsto sulle visite a domicilio che consentirebbero agli ospedali di mandare a casa un po’ di pazienti. Ci sono solo iniziative in ordine sparso: il 30 ottobre la Regione Lazio ha fatto una call per trovare medici generici disponibili a fare le visite a domicilio nei primi due giorni di comparsa dei sintomi. Ci sarà anche un compenso economico, ma il quanto non è esplicitato nel bando.

I paradossi. Da mesi l’ordine è: potenziare la medicina del territorio. Nei fatti però i medici di base sono considerati dall’inizio una categoria di serie B, per almeno tre ragioni. 1) La borsa di studio dei neolaureati che si iscrivono al corso di formazione triennale per diventare medici di famiglia è di 11 mila euro l’anno, sono soggetti a Irpef e con contributi a carico; mentre quella per chi sceglie il corso di specializzazione è di 26 mila, contributi inclusi e senza Irpef. E’ evidente che il giovane laureato punterà alla specialità, anche se deve pagare 2.400 euro l’anno in media di retta universitaria. 2) Ne vengono formati sempre meno di quelli che servono: lo scorso anno 2.864 medici di medicina generale sono andati in pensione, ma sono solo 1.765 le borse di studio previste; nel 2020 scendono a 1.032 per sostituire 3.493 che quest’anno smettono l’attività. 3) Il finanziamento per i corsi di formazione triennale è di 38 milioni l’anno, la stessa cifra del 1989. Infine, la totale mancanza di pianificazione: il concorso per le borse di studio del 2019 si è tenuto a fine ottobre 2019, i corsi di formazione dovevano iniziare a marzo 2020, ma purtroppo sono slittati a fine settembre. Il concorso 2020 si terrà a gennaio 2021.

Nove milioni di italiani sono rimasti senza medico di famiglia. Nell'ultimo anno sono andati in pensione troppi dottori: i loro sostituti non ci sono e per formare nuove professionalità servono dieci anni. Un disastro annunciato. Andrea Tornago su L'Espresso il 03 novembre 2020. Potenziare la medicina di comunità, coinvolgere i medici di famiglia, incentivare la telemedicina. Così l’infezione si può curare prima e meglio, senza intasare i pronto soccorso. Perché la guerra contro il Covid si vince sul territorio, non negli ospedali. Quante volte abbiamo sentito questa formula magica? A trovarlo, un medico di famiglia. Nel corso del 2020 circa 9 milioni di italiani sono rimasti senza medico di base perché quello di fiducia è andato in pensione, perdendo la consuetudine e la conoscenza della storia clinica dei pazienti. E spesso trovarne un altro in grado di riassorbire le persone rimaste scoperte (fino a 1.500 pazienti per medico) può essere un’impresa: semplicemente i professionisti in grado di sostituirli non ci sono. I dipartimenti di cure primarie delle Asl fanno i salti mortali per assicurare la copertura degli assistiti in tempi rapidi. Ma quella della medicina generale è un’altra linea del fronte del sistema sanitario che si trova strutturalmente sguarnita al cospetto della pandemia, dopo quella della prevenzione e degli ospedali. Proprio mentre ai medici di base si vorrebbero affidare la gestione clinica a domicilio dei pazienti Covid, le campagne vaccinali di massa contro l’influenza, i test rapidi per la diagnosi dell’infezione da Sars-CoV-2.

I medici di famiglia si raccontano: "Quei giorni in cui correvo da un paziente all'altro per capire se avevano il Covid". Riccardo Munda, medico di medicina generale, su La Repubblica il 27 ottobre 2020. Fare il medico di base non è affatto una passeggiata, specialmente se ti trovi a dover fronteggiare una pandemia nel bel mezzo dell’occhio del ciclone. Il mio studio -anche se mi preme ricordare che sono un sostituto provvisorio- si trova a Selvino, in val Seriana, ma dal 13 marzo ho iniziato anche a sostituire un collega nel comune di Nembro. Nembro, quel piccolo paese che senza Covid-19 non sarebbe mai finito sotto le luci dei riflettori. In questi mesi ho potuto toccare con mano tutta la drammaticità della situazione. Il virus, secondo le ultime indagini sierologiche, si è diffuso in oltre la metà della popolazione dei comuni in cui presto servizio. Ho passato settimane drammatiche a correre da un malato all’altro cercando di impostare la miglior terapia. Fortunatamente tra i miei pazienti nessuno è deceduto per il virus. Ma se nella valle abbiamo avuto un’ecatombe molto è da imputare alla mancanza di assistenza domiciliare sul territorio. Molte delle persone che sono morte sono rimaste per settimane a casa senza assistenza. Gran parte di queste se ne sono andate senza vedere un medico. Questo è accaduto perché sul territorio siamo in pochi e in gran parte dei sostituti. Comprendo anche le mancate visite da parte dei colleghi più anziani, affetti a loro volta da qualche piccolo problema di salute. Io ho 39 anni e sono in buona salute. Cosa mi sarebbe successo con 20 anni in più a visitare al domicilio decine di persone al giorno positive al virus? Per non ritrovarci più nella stessa situazione occorre che le persone vengano visitate e seguite tempestivamente dai medici di assistenza primaria. Sono queste le strutture sul territorio che vanno rafforzate. Bisogna fare in modo che sempre meno persone arrivino ad aver bisogno di un ricovero in terapia intensiva perché non trattate adeguatamente al nascere dei sintomi. Occorre qualcuno che imposti la terapia ai primi sintomi, la modifichi se serve e li segua giorno dopo giorno. Ciononostante non è cambiato molto. Anzi, siamo passati da 1500 a 1800 assistiti come numero massimo per ogni medico di base. Ora siamo di fronte ad una seconda ondata anche se per ora, nella mia zona, tutto sembra più tranquillo dopo l’inferno dei mesi scorsi. Di una cosa sono però preoccupato. Per come siamo ancora organizzati sento sempre più diffidenza verso il sistema di gestione dell’emergenza. In molti, pur avendo qualche sintomo, preferiscono evitare di rivolgersi al medico. Sento la paura di queste persone di perdere il lavoro e bloccare nuovamente le proprie attività. Questo perché “ingabbiati” nelle lunghe trafile dei tamponi e quarantene.

Francesca Angeli per “il Giornale” il 29 aprile 2020. Nel fronteggiare l' epidemia di Covid 19 è mancato il modello assistenziale territoriale: come seguire il paziente sospetto positivo e i suoi familiari in casa. E neppure in vista della Fase 2 c' è un progetto chiaro di assistenza e contenimento sul territorio che presenta realtà molto diverse sia per quanto riguarda la diffusione dell' epidemia sia rispetto alla capacità di risposta per disponibilità di personale e presidi sanitari. É preoccupato Silvestro Scotti, segretario nazionale dei medici di medicina generale, Fimmg, tra i primi a denunciare la carenza di dispositivi di protezione individuale per i camici bianchi ma anche il mancato coinvolgimento dei medici di famiglia che «non compaiono in nessuna delle task force nominate dal governo».

Che cosa vi preoccupa di più rispetto alla Fase 2?

«Non è stata gestita neppure la Fase 1 per quello che riguarda l' assistenza dei pazienti in isolamento che sono oltre 80mila e dei loro familiari costretti alla quarantena».

A che cosa si riferisce?

«Un sistema burocratico farraginoso che di fatto complica la possibilità di un nostro intervento diretto perché occorre sempre che a richiedere il tampone siano i servizi di sanità pubblica. Io visito un mio paziente e sospetto che abbia il Covid ma non ho neppure un codice di diagnosi per denunciarlo perchè è previsto soltanto per gli ospedali. Problema superato: io lo uso lo stesso, viene identificato come errore ma tacitamente è implicito che ci si riferisce a un sospetto. Dunque si isola e si mettono in quarantena i parenti per 14 giorni e in alcuni casi non arriva neppure la conferma dalla sanità pubblica competente per disporre la quarantena. Dopo due settimane nessuno si è fatto vivo, il tampone non è stato ancora eseguito. Che cosa facciamo? Fino al 4 maggio comunque non si andava a lavorare ora invece riprendono le attività. Ma come?»

Teme risalgano i contagi?

«Poniamo che quel paziente al quale non è mai stato fatto il tampone sia guarito. Ma i suoi familiari? Io conosco i miei pazienti: con un bagno per 4 persone in una casa di 50 metri quadri è evidente che l' isolamento non è stato possibile».

Il rischio sono gli asintomatici?

«Ora sappiamo che circa il 30 per cento dei malati non presenta sintomi. Ieri il 90 per cento dei miei pazienti mi ha chiesto il certificato di buona salute perché un' ordinanza folle della regione nella quale lavoro, la Campania, prevede che si torni a lavorare soltanto se non si è affetti da Covid 19. Ma io non ho la possibilità di fare il tampone. E al momento non ci sono neppure evidenze scientifiche sull' acquisizione dell' immunità dopo aver contratto la malattia. A che cosa serve quel certificato?»

Nel dubbio che lei possa trovarsi di fronte una persona potenzialmente contagiosa come difende se stesso e i suoi pazienti?

«Ho comprato camici, guanti, visiere e mascherine usa e getta. Ad ogni visita li cambio: moltiplichiamo una necessità del genere per tutti i medici e tutte le visite ed è evidente che presto saremo scoperti. Gli studi medici si affolleranno anche perché ripeto è mancata la presenza della sanità pubblica sul territorio»

Gli ambulatori?

«Hanno addirittura interrotto le vaccinazioni obbligatorie. Possibile che non fossero in grado di garantire percorsi protetti per la profilassi dei bambini? Che cosa succederà quando milioni di persone si dovranno vaccinare per l' influenza stagionale? E perché non si attiva per il Covid il modello dei medici sentinella per l' influenza stagionale?»

E c’è un medico di base che sfida la legge  per salvare i pazienti dal coronavirus. Guido Galli visita a domicilio i malati di Covid-19: «Il giuramento di Ippocrate è più importante delle ordinanze». Francesco Specchia il 4 aprile 2020 su Il Quotidiano del Sud. «Mi autodenuncio, sto violando la legge ma non me ne frega niente. Prima viene il giuramento di Ippocrate, dopo le ordinanze. Ma molto dopo…». Nella trincea del Covid19, in questi giorni, il padanissimo e solitamente mite dottor Galli sta sfondando la linea del Coronavirus con impeto quasi supereroistico. Mio figlio piccolo direbbe che usa la mascherina sciacquata nell’amuchina come lo scudo di Capitan America, lo stetoscopio a mo’ di ragnatela alla Spiderman e il ricettario tipo martello di Thor. Forse esagera. Però, in questo momento, il Galli, te lo vedi girellare come un pazzo in ogni angolo d’una Milano ingoiata dal silenzio, a stanar pazienti; ed è lì che li visita, li palpa, li ausculta, li rivolta come un calzino e prescrive loro – nonostante la legge glielo vieti – il mitico Plaquenil, il «farmaco per l’artrite reumatodide che blocca la cascata infiammatoria dei polmoni e, almeno per un po’, evita le ospedalizzazioni».

A TESTA BASSA. Il dottor Galli non è Massimo Galli, il noto infettivologo che va alla tv. No. E’ l’ “altro” Galli. E’ il meno conosciuto dottor Guido Galli, milanese, indomito medico di famiglia specialista in cardiologia ed endocrinologia con svariate esperienze all’estero, tre matrimoni alle spalle e 1.600 pazienti a carico. Pazienti che s’è messo in testa di sottrarre al ricovero e -quando può – alla tenaglia del virus. Il dottor Galli è una sorta di simbolo sussurrato: combatte a testa bassa contro i cretini della partita doppia sanitaria, i politici inadeguati infilati tra le corsie e la burocrazia lombarda che tende a ospedalizzare qualsiasi cosa in movimento dimenticandosi del grande filtro dei medici generali.

«La gestione dell’epidemia sanitaria è come lo spegnimento di un incendio: il nucleo principale è sempre l’oggetto dell’attenzione dei primi pompieri accorsi, i focolai periferici sono considerati secondari dai soccorritori, ma potenzialmente sono più pericolosi e difficili da gestire – racconta il medico – in Lombardia il fuoco principale è l’ospedale; giusto pensare prima all’inevitabile affollamento delle terapie intensive, ma incomprensibile essersi dimenticati del territorio». Al dottor Galli le regole stanno strette quanto i protocolli. Ha un approccio sportivo all’esistenza; d’altronde viaggia tra i 50 e i 60 ma tra arrampicate, triathlon e partite da arbitro di calcio, mostra vent’anni in meno; e se la quarantena non gli avesse chiuso i Navigli sarebbe ancora lì a spararsi la mezza maratona tre volte la settimana. Ma tant’è.

ACQUISTI DI “CONTRABBANDO”. Al dottor Galli preme molto la verità oltre le quotidiane conferenze stampa: «I focolai secondari dell’infezione non sono ancora stati bonificati, lo dimostrano i numeri, molti di noi medici generali, figli di un Dio minore, hanno provveduto in proprio alla personale sicurezza con l’acquisto quasi di “contrabbando” di mezzi di guanti e mascherine per cercare di essere il più possibile disponibili all’assistenza dei pazienti con febbre e affanno respiratorio». Il dottor Galli ce l’ha con tutti, anche con i colleghi seduti sulla massa dei propri assistiti: «Personalmente non capisco come un laureato in medicina possa negare la visita a un ammalato, avrei precettato molto dei miei colleghi, che hanno preferito imboscarsi nel momento in cui i sindacati, in assenza di Dpi, si sono lamentati. Inforcata mascherina e mezzi protettivi, quando si arriva a diagnosi di Covid manca ogni risorsa sia diagnostica che terapeutica applicabile al domicilio del paziente; al momento non sono disponibili protocolli di intesa scientifici tra specialisti ospedalieri e medici del territorio; perciò con l’aiuto di un amico “contrabbandiere” a cui peraltro devo la vita, sono riuscito ad avere una linea guida della Società Italiana di Medicina Generale che propone un trattamento domiciliare relativamente sicuro nelle fasi iniziali a base di clorochina come approvato recentemente da Aifa».

«RICERCA ASSURDA IN TV». Il dottor Galli ha pure cercato anche di rispondere alla “chiamata d’arruolamento” per i medici lombardi, «ma mi sono reso conto che era completamente assurdo ricercare professionalità non formate all’emergenza/urgenza attraverso canali televisivi». Al dottor Galli – come a tutti i lombardi autentici – l’ostentazione fa venire l’orticaria: «Cosa voglio? Cosa vuole che voglia? Farmaci, linee guida precise. Noi medici di base chiediamo la possibilità di fornire farmaci e supporto con ossigeno liquido al domicilio dei pazienti, se non si spegneranno i focolai residui prepariamoci ad una estate a bordo di un Corona materassino nelle acque dell’Idroscalo». Azzardò, l’anno scorso, il leghista Giorgetti al meeting di Cl: «Nei prossimi cinque anni mancheranno 45mila medici di base. È vero; ma chi va più dal medico di base?». Non so se l’onorevole conoscesse il dottor Galli…

Alessandro Mondo per “la Stampa” l'8 aprile 2020. «Troppi deficit nella gestione dell' emergenza. E dubbi sui dati diffusi». Il dottor Roberto Venesia, presidente regionale Federazione medici di famiglia piemontesi (Fimmg), va diritto al punto.

Quali dubbi?

«Quelli che emergono dalla ricerca condotta dal Gruppo ricerca e innovazione della Fimmg dal 26 marzo al primo aprile: 63 medici hanno registrato i dati di 77.216 pazienti, un campione corrispondente al 2,16 per cento della popolazione piemontese».

Risultato?

«Abbiamo avuto 422 segnalazioni di sospetti positivi. Interessante rapportare i nostri dati con quelli ufficiali. In quei sette giorni i casi accertati sono stati 3.183 su 3 milioni e mezzo di abitanti, cioè i piemontesi maggiorenni: ovvero un' incidenza nei sette giorni dello 0,55 per cento contro lo 0,09, una differenza di sei volte. Significa che se i nostri dati fossero validati, i nuovi casi nella popolazione in quei giorni monitorati corrisponderebbero a ben 19.495».

Conclusione?

«In Piemonte il dato dei casi totali, almeno fino al 19 marzo, sembra corrispondere al numero totale dei ricoverati ma sembra sottostimato, visto che non possiamo sottoporre i pazienti sospetti ad alcun test».

Più in generale?

«Finora in Piemonte l' emergenza è stata gestita con un approccio centrato sugli ospedali, senza considerare che la battaglia contro l' epidemia si vince sul territorio».

Come?

«Mettendo i medici in condizione di lavorare con adeguati livelli di sicurezza per prendersi cura dei malati. Inutile girarci intorno: la tecnologia aiuta, ma ad un certo punto i tuoi pazienti devi visitarli, e trattarli. Ora sto andando a ritirare una grossa partita di dispositivi di protezione: ce li siamo comprati da soli».

Anche le Rsa fanno parte del territorio.

«Le Rsa sono state colpevolmente abbandonate da almeno dieci anni: da allora vado ripetendo che l' assistenza in queste strutture non garantisce la stessa tutela di chi è trattato a casa».

Perché?

«Manca un' assistenza medica strutturata e adeguata».

E i tamponi? Troppo pochi?

«A mio avviso vanno riservati al personale sanitario. Noi possiamo e dobbiamo curare i malati a domicilio, impedendo l' evolvere della malattia con farmaci dai risultati promettenti, oltretutto noti da anni. Ma se non si predispongono i protocolli terapeutici non si combina nulla».

Coronavirus, ecco la città "bomba": "Solo qui 100mila contagiati". Bergamo e provincia sono falcidiate dalla pandemia di coronavirus. Un medico: "Numeri ufficiali non credibili. È una strage di Stato". Alberto Giorgi, Martedì 31/03/2020 su Il Giornale. "I numeri ufficiali non sono credibili. Si fanno tamponi solo ai ricoverati, ma qui stimiamo 100mila positivi non censiti su un milione di abitanti". Il qui sarebbe Bergamo e provincia e lo sfogo è di Mirko Tassinari, segretario dei medici di famiglia della città lombarda. Medico di base di professione, Tassinari è stato intervistato da La Stampa, per toccare con mano quella che è forse la situazione più drammatica in Italia, causa pandemia di coronavirus. Bèrghem e dintorni sono infatti falcidiati dal Covid-19 e nelle ultime ore, dopo quella straziante e indimenticabile carovana di camion militari che portavano fuori dalla città le salme dei morti per cremarle, ci sono ancora 170 bare di persone che il comandante provinciale dei carabinieri locali ha dovuto indirizzare nei forni crematori fuori dalla regione. Le parole di Tassinari dal "fronte" non possono certo passare inosservate, specialmente quando il medico di fatto smentisce i numeri – in calo – di ricoveri nelle strutture ospedaliere: "Il calo dei ricoveri non è un buon segnale. Calano perché non c'è più posto in ospedale. Talvolta non si ricovera più nemmeno con 85 di saturazione. Gestiamo a domicilio situazioni che due mesi fa avremmo ricoverato alla velocità della luce. Altrimenti non avremmo 1.200 pazienti in ossigenoterapia domiciliare…". E racconta di avere personalmente un centinaio di pazienti malati su un totale di 1.500, di cui una decina con polmonite "monitorati per telefono". E proprio su questo aspetto, il professionista dice che sostanzialmente non c'è più la Sanità Pubblica: "Non è più un sistema sanitario universalistico e uguale per tutti". Tassinari lo sostiene perché porta l'esempio, appunto, dell'assistenza domiciliare: dopo 12/24 ore una bomba di ossigeno è da cambiare, ma a farlo non ci pensa l'Asl, bensì il paziente stesso: "È una caccia al tesoro. Chi ha parenti, li manda in giro nelle farmacie. Dieci, venti tentativi. Poi magari una la trovi". Stesso discorso, dice sempre il medico, vale per il saturimetro, che misura appunto il livello di ossigeno presente nel sangue: "C'è chi l’ha comprato sul web, chi in farmacia, chi se lo fa prestare dal vicino di casa. Ci si arrangia. Ecco perché non è più un sistema sanitario universalistico e uguale per tutti". Anche Tassinari si è ammalato ed è stato uno dei primi medici della città a essere positivo al coronavirus. Dopo la tosse e la febbre, il tampone, l'esito e quindi la guarigione: "Ora lavoro da casa, dodici ore al giorno sabato e domenica compresi". E i medici di base che sono stati contagiati dal Covid-19 a Bergamo sono tanti-troppi: "Su 600 medici di famiglia ce ne sono 145 ammalati, di cui 5 morti. L'ultimo, Michele, due giorni fa. Non avrei mai pensato di dover aggiornare una lista di colleghi morti. Mandati a morire sul lavoro. È una strage di Stato".

Sara Bettoni e Gianni Santucci per corriere.it il 30 marzo 2020. Quando s’erano chiusi in casa, il 12 marzo, stavano tutti bene, all’apparenza». Venerdì pomeriggio però, da quell’appartamento, a Melzo, una donna chiama il 118: «Non respiro, ho la febbre». Il marito è in rianimazione. La donna dev’essere ricoverata. In casa ci sono i due figli piccoli. Comune e prefettura trovano una sistemazione. La storia ha un aspetto emblematico. Che permette di rispondere, almeno in parte, all’interrogativo che ci si pone ogni pomeriggio quando i dati certificano il continuo aumento di contagi: perché, con la popolazione blindata in casa, le persone continuano ad ammalarsi? Perché il contagio avanza proprio all’interno delle case. Un familiare asintomatico, uno che ha contratto il virus prima del lockdown e ha sviluppato i sintomi dopo il divieto: così si sono creati i focolai domestici. È l’emergenza del momento. Per contenere il contagio, le famiglie sono state confinate in microcosmi chiusi. Ma se il coronavirus è entrato (o entra) nel «recinto» casalingo, intere famiglie si ammalano. E infatti, il contagio casalingo sta aumentando. Sono decine le conferme tra medici di base e di ospedale raccolte dal Corriere negli ultimi giorni. Dal pronto soccorso dell’ospedale «Sacco»: «Sempre più spesso arrivano intere famiglie, magari con padre che ha bisogno dell’ossigeno, madre che ha solo febbre e figli con sintomi lievissimi». A volte, non tutti insieme: «Avevamo qui un signore dal mattino in attesa del tampone. Un’ambulanza, 6/7 ore dopo, ha portato una donna in codice rosso, molto grave. Era la moglie. Almeno siamo riusciti a farli salutare prima di ricoverarli». Conferma Irven Mussi, medico di base con studio in via Palmanova: «Ora la trasmissione del virus è principalmente domestica, è uno dei drammi più diffusi». Aggiunge Paola Pedrini, segretario lombardo della Federazione dei medici di medicina generale: «Quando un paziente inizia ad avere sintomi, pochi giorni dopo anche gli altri membri della famiglia si ammalano. Succede praticamente nella totalità di coppie anziane. Non c’è isolamento adeguato». Storie che si ripetono, e che dopo il «coprifuoco» sono diventate la norma: «Ho iniziato ad avere i primi sintomi — racconta un professionista che vive in zona “Romana” — poi si è ammalata mia moglie e uno dei miei due figli, per fortuna nessuno ha avuto bisogno dell’ospedale. Ora anche la colf, alla quale avevamo proposto di trasferirsi da noi per isolarsi e non dover usare i mezzi pubblici, inizia ad avere la febbre». Riflette Roberto Scarano, altro medico di base: «Abbiamo decine di pazienti a casa con febbre alta che non scende da una settimana o dieci giorni. Senza protezioni come si fa ad andarli a visitare? A nessuno viene fatto il tampone, e per arrivare a un ricovero le condizioni devono diventare davvero gravissime». In queste situazioni, la probabilità che si infettino madri, padri e figli è altissima. Anzi, diventa quasi una certezza: è la fase della «pandemia familiare», migliaia e migliaia di contagiati inconsapevoli che hanno portato il Covid-19 in casa prima della «blindatura» (con le unità domiciliari — Usca — messe in campo dalla Regione la settimana scorsa, che sono ancora «un’entità astratta», ripetono molti medici sul territorio). Paola Pedrini offre qualche indicazione: «Il primo che accusa sintomi deve chiudersi in una stanza; se può, usare un bagno separato, o igienizzare quello di uso comune, indossare guanti e mascherina al di fuori della sua stanza di isolamento». C’è però una riflessione più generale: «È difficile riuscire a isolare i sintomatici, non si sta applicando una strategia sul territorio, le strutture messe a disposizione al momento sono soprattutto per chi esce dall’ospedale e deve rimanere in quarantena, mentre l’isolamento e il trattamento precoce sono fondamentali per frenare i contagi». Da coronavirus sociale, a coronavirus casalingo. Un’evoluzione per la quale gli ospedali più avanzati si sono già attrezzati. «Spesso si ammala tutta la famiglia, compresi i nonni — spiega Vania Giacomet, responsabile di infettivologia pediatrica al “Fatebenefratelli-Sacco” — È difficile per le mamme rimanere in quarantena a casa e badare ai figli. Per questo abbiamo riaperto al “Sacco” un reparto per accogliere, nella stessa stanza, mamme con i bambini che hanno bisogno di cure. Abbiamo risposto a una lacuna che c’era nell’assistenza. Li seguiamo fino alla negativizzazione o alla fine dei sintomi».

Coronavirus, medici di famiglia senza linee guida. E ognuno cura a modo suo. Non esiste alcun protocollo. E i dottori di base sono alle prese con migliaia di pazienti coi sintomi del virus. C'è chi prescrive solo Tachiprina, chi aggiunge clorochina, chi manda bombole dell'ossigeno, chi fa ecografie al torace, chi visita in video, chi usa maschere anti Sars di 18 anni fa. Alessandro Gilioli il 30 marzo 2020 su L'Espresso. I pazienti chiamano da casa, tutti più o meno con gli stessi sintomi: febbre, tosse, difficoltà respiratoria, spossatezza, a volte congiuntivite, mancanza di gusto e di olfatto, diarrea. A questo punto il medico di famiglia capisce già con che cosa ha a che fare. E qui comincia il problema. Inutile pensare di fare il tampone: non lo si ottiene. Inutile anche basarsi su un protocollo: non esiste nulla di ufficiale, per i cosiddetti "sospetti Covid". Sicché ogni dottore di famiglia fa da sé. Con una propria terapia empirica, basata su intuito, esperienza, convincimenti. Il che porta spesso a trattamenti diversi tra pazienti che presentano tutti gli stessi sintomi e, al 99 per cento delle probabilità, hanno lo stesso virus. Si chiama, in gergo medico, "scienza e coscienza". È questa la situazione che si vive ogni giorno in Lombardia, oltre un mese dopo i primi casi a Codogno e con i numeri del contagio ancora in salita - numeri ufficiali che peraltro escludono, appunto, questa massa enorme di "Covid sospetti" che restano a casa loro, senza essere tamponati, curati dai medici di famiglia finché la situazione non diventa così grave da imporre il ricovero, quando si riesce a ottenerlo. Come si diceva, ciascun dottore fa da sé. Fin dal momento in cui arriva la telefonata: c'è chi va di persona dal malato (bardato come un palombaro) e chi ci parla solo al telefono, chi tenta una via di mezzo come la visita attraverso videochiamata WhatsApp, chi decide di volta in volta, a seconda della gravità della situazione per come l'ha capita al telefono. Anche i farmaci prescritti cambiano, con un solo elemento in comune, la Tachipirina (paracetamolo). A cui ogni dottore poi aggiunge altro - o non aggiunge nulla - a seconda della sua visione delle cose. Ad esempio Fiorentino Cuppone Curto, 58 anni, è medico di famiglia a Borgo San Giovanni, provincia di Lodi, una delle aree più calde della pandemia, e ha tra i suoi pazienti una ventina di  "Covid sospetti" a casa loro. Quando riceve una di quelle telefonate, si veste come un palombaro e va a visitarli a casa: «Ho un casco e una tuta che la nostra Asl ci fornì 18 anni fa, in previsione della prima Sars che poi in Italia non arrivò. Mai usati, allora. Per fortuna li ho tenuti e li uso adesso per le visite domiciliari, perché questa volta non ci hanno dato niente». La cosa più importante nella visita, dice Cuppone Curto, è la misurazione dell'ossigeno nel sangue, la saturimetria, «che è una spia importante, più ancora della temperatura corporea». Una volta capito come stanno le cose, il dottor Cuppone Curto prescrive ai suoi "Covid sospetti" il paracetamolo e basta: «Al massimo posso aggiungere Azitromicina, nome commerciale Zitromax, un antibiotico che ha anche funzioni antiinfiammatorie. Ma medicine off-label no, non mi sento di darle (si chiamano off-label i farmaci impiegati per usi diversi da quelli indicati dalle Agenzie del Farmaco, ndr). Non prescrivo neppure la famosa idroclorochina, "l'antimalarico" di cui tanto si parla. Ufficialmente per noi medici di famiglia è ancora off-label, appunto. È stata autorizzata solo per uso ospedaliero: potrei averne anche conseguenze legali se le cose al paziente non andassero bene». Diverso l'approccio diagnostico e terapeutico di un altro medico di famiglia lombardo, Franco Riili, 42 anni, studio in zona Loreto a Milano, che di "Covid-sospetti" ne ha quasi quaranta. Per prima cosa Riili suggerisce ai pazienti che lo chiamano di passare alla modalità video su WhatsApp, per una prima televisita e perché «così capisco meglio». Poi le cose cambiano a seconda se è un malato "fragile" (anziano, obeso o con altre patologie) oppure se è giovane e sano. Nel primo caso scatta la visita domiciliare, con relativa bardatura: «Tute usa e getta, visiere odontoiatriche, mascherine Fp3, guanti idonei. Ho acquistato tutto io su eBay e Amazon, l'Ats mi aveva passato solo mascherine chirurgiche e un gel per le mani, sarebbe stata una dotazione suicida per andare a casa dei pazienti Covid. Indosso tutto nel pianerottoli, suono il campanello, entro, passo al malato una mascherina chirurgica se già non ce l'ha, apro bene le finestre. Misuro la  febbre e la saturazione, ma soprattutto faccio un'ecografia del torace, con un macchinario portatile hi-tech che ho comprato sempre io e tengo nello zaino, ha una sonda che si attacca direttamente al mio cellulare. Così posso vedere se sono in corso polmoniti o se la pleura è infiammata con liquido a livello degli alveoli. Questo esame, associato ai sintomi, per me vale un tampone, se non di più, essendo l'esito del tampone sicuro solo al 75 per cento». A questo punto, una volta compreso che è in corso un attacco virale, Riili imposta  la terapia: «Certo, la base è la tachipirina, magari associata con un antibiotico per prevenire sovrainfezioni batteriche. Ma io aggiungo il Plaquenil, farmaco antiinfiammatorio di solito usato per artrite reumatoide (cioè l'idrossiclorochina, quella che viene chiamato sulla stampa "l'antimalarico", ndr). Se il malato è anziano, allettato, obeso o ha altre patologie, aggiungo anche anche un anticoagulante, il Clexane (nome commerciale dell'enoxaparina sodica). Sono iniezioni che si fanno sulla pancia e aiutano a evitare la Dic (coagulazione vasale disseminata) che spesso è la causa ultima dei decessi». Il dottor Riili poi mantiene quotidianamente i contatti con questi malati, preferibilmente in video, e di solito torna a fare un'altra visita di persona due o tre giorni dopo, per eseguire un'altra ecografia toracica e quindi verificare miglioramenti o peggioramenti. Anche Fabrizio Marrali, 58 anni, il medico di Rogoredo che ha già raccontato all'Espresso come da settimane visita i pazienti "normali" sul marciapiedi separato da un vetro e fa tutto al telefono, il protocollo se l'è fatto da solo, «confrontandomi con i colleghi soprattutto del lodigiano e del gruppo Facebook dei medici di famiglia, oltre che, naturalmente, considerando la letteratura scientifica». Spiega Marrali: «Non è facile fare un protocollo di cure domiciliari con una malattia sconosciuta e presente solo da un mese, allora si sperimenta in maniera empirica», con "scienza e coscienza" appunto. Attualmente Marrali ha dieci pazienti «altamente sospetti di Covid» che stanno a casa loro, «l'età varia dai 30 ai 91, i sintomi cambiano un po' a seconda dei giorno di malattia e del tipo di paziente». Durante un'epidemia, dice Marrali, «bisogna drizzare le antenne e fare ragionamenti clinici. Il paziente mi riferisce i sintomi, io chiedo con chi ha avuto contatti nei 7-10 giorni precedenti (i cosiddetti criteri anamnestici). Capisco che è "sospetto Covid" se la febbre dura giorni e la tosse secca non passa. È importante conoscere l’andamento nel tempo della febbre, più che la sua intensità». Marrali rifornisce i pazienti di saturimetro e li segue sette giorni su sette, monitorando temperatura e saturimetria. Quanto alla terapia, dice il dottore, «intanto va premesso che il medico, come il sarto, deve fare un vestito su misura, deve adattarsi al tipo di paziente, ognuno dei quali è unico come è unico il loro rapporto». Detto questo, oltre ai classici antipiretici e sintomatici, Marrali spiega di aver provato gradualmente «antibiotici, antimalarici ed enoxieparina (azitromicina, Plaquenil, Clexane). Il tutto, «con discreti benefici: diversi pazienti stanno meglio, tre sono quasi guariti». Il Plaquenil, cioè la idrossiclorochina, «non è sicuramente la cura risolutiva per tutti, ma era l’unico farmaco sul territorio. È difficile trovarla, non va presa in prevenzione, un recente decreto permette di prescriverla, poi il farmacista lo ordina e arriva. Io comunque da un mese fa avevo fatto scorta per i miei pazienti: con questo virus bisogna giocare d'anticipo, bisogna essere più rapidi di lui, questa è anche una guerra di velocità». In più, in alcuni casi questo medico di famiglia milanese ha trovato un infermiere coraggioso che, opportunamente protetto, va a domicilio a fare prelievi del sangue per valutare la situazione ematica durante la malattia. Emanuele Berbenni, 58 anni, è medico di famiglia a Montello, nella bergamasca, altra area caldissima del virus. Lui ha addirittura 200 pazienti "Covid sospetti" su 1.550 assistiti, dai diciottenni agli ottuagenari. Alcuni sono già guariti, altri stanno guarendo, 12 sono morti. Per lui, quando i pazienti sono a casa e hanno sintomi significativi, «è fondamentale l'ossigenoterapia a domicilio, più il paracetamolo in caso di febbre, la Cefixima  per scongiurare una sovrainfezione batterica e anche l'idrossiclorochina, oltre all'enoxaparina (o Clexane, di cui si è già accennato, ndr) per le continue segnalazioni di complicanze trombotiche. In più prescrivo il lansoprazolo in caso di emorragie digestive e il Racecadotril in caso ci sia anche diarrea». Per i pazienti con pochi sintomi «se la saturazione dell'ossigeno è buona non faccio fare altre indagini, per evitare spostamenti o contatti dell'ammalato con altre persone». Quelli con sintomi più gravi, con saturazione dell'ossigeno troppo bassa o che non rispondono alle terapie, «li mando al pronto soccorso per accertamenti strumentali: radiografia al torace o meglio - nel sospetto di polmonite interstiziale da Covid - una Tac al torace. Se gli esami strumentali confermano un quadro Covid e le condizioni cliniche sono preoccupanti, chiedo il ricovero». Con successo? «All'inizio dell'emergenza si sono avute difficoltà, ora, per fortuna, la situazione sembra in miglioramento», risponde Perbenni. Ma non sempre va così. Gli altri medici lombardi sentiti dall'Espresso dicono che le Ats, data la situazione di pressione, tendono spesso a rifiutare il ricovero o almeno a prendere tempo, a suggerire strade diverse come una chiamata alla Guardia Medica. Marrali dice di aver discusso più volte con i responsabili del 118, ma «alla fine, quando era indispensabile, il ricovero l'ho ottenuto sempre. I quattro "sospetti" che ho mandato in ospedale poi sono risultati tutti positivi al tampone». Altre volte invece gli esiti sono drammatici: «Io sono furibondo», dice Cuppone Curto parlando di un suo paziente di Pieve Fissiraga, vicino a Lodi: «Aveva 73 anni, era cardiopatico e diabetico. Non me l'hanno voluto ricoverare, non ce l'ho fatta in nessun modo perché dicevano che non aveva la saturimetria abbastanza bassa. Ma io lo vedevo che stava malissimo. È morto di Covid, è ovvio, prima dell'influenza faceva una vita normale. Non gli hanno fatto mai il tampone, non apparirà mai in nessuna statistica».

Coronavirus, medici di base senza protezioni: «Se ci ammaliamo contagiamo i pazienti». I sistemi sanitari regionali stanno distribuendo quasi solo mascherine chirurgiche, che evitano di infettare ma non di essere infettati. E si contano i primi morti. «E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori. Ma tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie A e di serie B». Federico Marconi il 26 marzo 2020 su L'Espresso. Una mascherina con dentro un assorbente. Una precauzione senza logica, e sicuramente inefficace a prevenire il contagio. Un gesto irrazionale, come quasi tutti quelli dettati dalla paura, in questo caso di ammalarsi. “So bene che non serve a molto, ma mi fa sentire più al sicuro”, spiega P., medico di famiglia. Vive e lavora nelle Marche, una delle regioni più colpite dal contagio. Ha una lunghissima carriera alle spalle – «Quasi una vita, 40 anni» – e ora, come tutti i suoi colleghi alle prese con l’epidemia di coronavirus: «Noi cerchiamo di continuare ad aiutare il più possibile i nostri pazienti, utilizzando la telemedicina. Ma ci sono casi che necessitano una visita in studio o a casa: e in quei casi i dispositivi di protezione non sono all’altezza». P. ha ricevuto infatti solo mascherine chirurgiche. «Sappiamo tutti ormai che sono utili solo a non trasmettere il virus se si è infetti, non a proteggersi dal contagio come le FFP2 o le FFP3», dice preoccupata. «Se noi ci ammaliamo, non mettiamo solo a rischio la nostra salute, ma anche quella di quei pazienti che ancora visitiamo». «È stata una situazione forse sottovalutata all’inizio», racconta F., medico che lavora a Roma. «Quando ancora non era stato imposto il distanziamento sociale, gli studi erano pieni come sempre. Un rischio molto alto: non solo per noi, ma anche per i nostri pazienti. Allora, forse più di adesso, è stato un periodo psicologicamente provante». Nella guerra contro il coronavirus, se gli ospedali sono la prima fila di trincea, i medici di famiglia sono la seconda. Anche tra di loro si contano vittime – ad oggi la metà dei 31 medici morti è un medico di base – e contagiati, e la preoccupazione cresce con il passare dei giorni. Ogni sistema sanitario regionale e ogni Asl (quasi 300 in tutta Italia), cerca di sostenerli come può. Ma non sempre i dispositivi di protezioni forniti sono sufficienti a tenerli al sicuro. «Adesso sembra che viviamo in un mondo mascherina: ne chiediamo agli altri paesi, facciamo riconvertire le fabbriche per farne produrre di più. Ma non bastano solo queste, né tutte sono adeguate a proteggere», afferma Claudio Cricelli, presidente della SIMG, la Società italiana di medicina generale. «Abbiamo bisogno di protezioni che non sono state neanche predisposte, come quelle totali. E non ci vengono fornite nemmeno scarpe, sovrascarpe, cappelli, tute, guanti, visori, i disinfettanti per sanificare gli ambulatori», continua. Il problema principale: in Italia il numero di contagiati è almeno dieci volte superiore a quello comunicato dal bollettino quotidiano, e i medici di famiglia non sempre possono evitare le visite. «Anche se lo facciamo il più possibile: ormai i consulti sono fatti con il cellulare, stiamo cercando di realizzare il più possibile dei monitoraggi telematici, mandiamo le ricette per sms. E questo forse è un lato positivo di questa situazione: anche dopo questa crisi continueremo a risparmiare carta e a evitare le file ai nostri pazienti», racconta Cricelli. Le protezioni, però, servono: «Non ne abbiamo a sufficienza. Quello che sembra passato in secondo piano è che in Italia ci sono milioni di persone malate di cuore, di diabete, di cancro. Loro hanno bisogno delle nostre cure. Prima del Covid-19 in Italia morivano circa 200 persone al giorno, e sono tante le persone ammalate che si spengono in questi giorni: tutti hanno bisogno delle nostre cure. Non ci sono malati, e morti, di serie a e di serie B».

·        Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.

"Soffoco, aiutatemi": in Lombardia 60 mila interventi delle ambulanze del 118 nei tre mesi caldi del coronavirus. Pubblicato giovedì, 21 maggio 2020 da Ilaria Carra su La Repubblica.it Il bilancio degli operatori delle Areu regionali: a marzo 1.500 persone soccorse ogni giorno, epicentro nella Bergamasca e nel Bresciano. Poi le sirene, con il virus, si sono spostate verso Milano: "Anche per un incidente stradale usciamo con le protezioni, non sappiamo mai se chi soccorriamo è contagiato". Il giorno più drammatico di tutta l'emergenza sanitaria l'hanno vissuto tra Bergamo e Brescia. È in queste zone che il coronavirus ha corso più veloce quando in una sola giornata, il 13 marzo, le ambulanze sono uscite 694 volte solo per casi sospetti di Covid-19, quasi la metà, cioè, di tutti gli interventi nello stesso giorno in Lombardia. E poi 650 il giorno dopo, 555 il 22 marzo, 558 il 23. "Soffoco, aiutatemi" è la richiesta disperata che si sono sentiti ripetere gli operatori del 118. Persone che non respiravano più e che chiamavano urgentemente per essere soccorse a casa. E non era finita, perché oltre a questi casi c'erano poi da aiutare anche tutti gli altri malati della zona: infarti, ictus, incidenti. Bergamo e Brescia e Codogno le zone più colpite, e poi Milano. "Ricordo tra il 23 e il 24 febbraio il momento più buio, quando ho guardato il contatore delle telefonate a fine giornata ed era arrivato a 2.500 contro le 500 massimo di media - ricorda Fabrizio Canevari, responsabile della sala operativa del 118 di Pavia che copre anche Lodi e Cremona, quindi Codogno e la prima zona rossa - a quel punto ho pensato che il sistema non avrebbe retto se fossimo andati avanti così, c'era grande sconforto. Ma dovevamo reagire e l'abbiamo fatto, ci siamo riorganizzati ora per ora, abbiamo risolto problemi di minuto in minuto". Coronavirus, il lavoro quotidiano dei volontari della Croce Rossa: "Consoliamo i malati solo con lo sguardo" Il record di interventi fa emergere lo stress straordinario dei lettighieri e la sofferenza che ha attraversato, in momenti diversi, le varie province. E la doppia velocità di azione del virus negli ultimi tre mesi, feroce fino ai primi di aprile e da allora meno violento, ma che in 90 giorni ha richiesto il soccorso di circa 60 mila ambulanze. Le uscite "per motivi respiratori o infettivo" fotografano appunto l'evoluzione del Covid-19 e del suo impatto nelle vite di tutti. Dal 21 febbraio, quando scoppiò l'emergenza con il primo focolaio a Codogno, a oggi, i grafici sull'attività del 118 mostrano l'aggressività del coronavirus nelle varie zone. È da queste curve che si vede che agli inizi dell'epidemia e fino a fine febbraio, gli interventi delle ambulanze per problemi respiratori crescono un po' dovunque. In particolare a Milano e a Monza, a Bergamo e a Brescia e nel Pavese che è l'agenzia regionale di emergenza di riferimento per il Lodigiano, prima area rossa di tutta Italia. "Il primo mese è stato massacrante, i primi giorni eravamo tutti disorientati - aggiunge Canevari - la situazione superava le capacità di qualsiasi sistema. E poi riuscire a portare i pazienti in ospedale ma erano saturi, la coda delle ambulanze. Gli operatori erano molto provati. Anche ora quando usciamo per un incidente non abbiamo certezze su chi soccorriamo, se sia contagiato o meno. Quindi continuiamo a uscire bardati, la situazione continua a condizionarci molto". Cronaca Coronavirus, anticorpi in un milanese su venti già prima dell'epidemia Da fine febbraio si vede poi che c'è una curva nei grafici che stacca le altre. È quella della Bergamasca e del Bresciano, della Val Seriana e di Alzano Lombardo con le centinaia di contagiati nelle loro case. Per tutto il mese di marzo il dramma sanitario e umano si consuma principalmente qui. Poi il 30 marzo la sofferenza maggiore si sposta gradualmente altrove, a Milano e nella Brianza dove quel giorno le ambulanze sono intervenute 350 volte per sospetti contagiati contro i 342 di Bergamo. Il sorpasso avviene e si consolida nel tempo: da allora gli interventi del 118 nel Milanese sono sempre stati il numero più alto di tutta la Lombardia, fino a oggi. Numeri, va detto, lontani dalle oltre 1.500 ambulanze che uscivano in un giorno solo a marzo, se si considerano tutte e quattro le Areu della Regione. Ma comunque ancora significativi. Il 2 aprile 363 persone sono state soccorse dall'ambulanza nel Milanese, numeri che nel tempo sono scesi ma che solo a Milano rimangono tutt'oggi ancora a tripla cifra. Del resto le sirene in città si sentono ancora molto, troppo spesso. Lo scorso weekend, per dire, tra Milano e Monza in un giorno gli interventi di soccorso sono stati 135, contro i 55 della Bergamasca e i 54 del Lodigiano. Anche i flussi di accesso nei vari pronto soccorso sono cambiati. Un primo studio della Società scientifica dell'Emergenza sanitaria, la Siems, ha paragonato l'attività del 118 con le affluenze spontanee nei pronto soccorso durante la pandemia tra Milano, Genova e Roma. E osserva una più o meno brusca diminuzione del numero di accessi spontanei (dal 78 al 56 per cento del totale) a partire dal 21 febbraio, conseguenza anche degli appelli a non andare in ospedale per evitare rischi se non strettamente necessario. E un raddoppio, dal 22 al 44 per cento, della percentuale dei trasportati dal 118, segnale di un'attività capillare e fitta sul territorio delle ambulanze.

Il Coronavirus e il ruolo degli ospedali nel propagarsi dell'infezione: la partita tra Veneto e Lombardia. Massimiliano Boschi su altoadigeinnovazione.it il 21.03.2020. La puntata di due settimane fa era tutta concentrata sull’incertezza che circondava lo svilupparsi dell’epidemia e in particolare, si chiedeva se dovevamo attenderci un futuro lombardo (ai tempi 2259 positivi e 98 decessi) o veneto (407 positivi e 10 decessi) perché i numeri, e quindi le prospettive, sarebbero state completamente diverse. A quattordici giorni di distanza dall’articolo e a dieci dall’instaurazione della “zona rossa nazionale”, l’incertezza è la medesima e i dati provenienti dalla Lombardia e dal Veneto continuano a mostrare due “mondi” differenti. Era il 22 febbraio quando Conte firmava un decreto riguardante le aree dei due focolai del Lodigiano e di Vo’ Euganeo trasformandole in “zone rosse” da cui non si poteva uscire né entrare. Stesso trattamento, ma risultati opposti: a un mese dall’istituzione di queste due zone rosse la Lombardia ha fatto registrare 2549 decessi, il Veneto 131. Scendendo nei dettagli, nella sola giornata di ieri 20 marzo, la Lombardia ha fatto registrare 381 decessi quasi il triplo di quelli che in Veneto sono stati registrati complessivamente dall’inizio dell’epidemia, venti volte quelli registrati nella giornata di ieri (16). Riguardo al tasso di mortalità, in Lombardia è stato registrato un morto ogni 4000 (quattromila) abitanti, in Veneto ogni 38.000 (in Alto Adige, a oggi, uno ogni 25.000). Fortunatamente è il dato lombardo ad essere del tutto eccezionale, non solo a livello nazionale. Dei 4032 morti registrati in Italia, 2549 sono lombardi, quasi due terzi del totale. La seconda regione per decessi è l’Emilia Romagna con 640 morti, di cui circa 250 nella sola provincia di Piacenza, il cui capoluogo dista meno di 20 chilometri da Codogno. Dati alla mano risulta evidente che da Codogno e da Vo’ sembrano essersi diffusi virus completamente differenti. Perché? Ma, soprattutto, perché nessun altro luogo del mondo, sta registrando tassi di mortalità come quelli della Lombardia? (La sola Madrid sembra aver preso una direzione simile con molti giorni di ritardo. Al momento i morti registrati nella capitale spagnola sono 628 su 1094 totali della Spagna). Non sono domande retoriche, perché una risposta certa a queste domande avrebbe effetti e ripercussioni a livello mondiale. Perché, come noto, tutti stanno imitando il modello di chiusura all’italiana, ovvero un modello cinese partito in ritardo e meno rigoroso. Lo dimostrano le critiche di alcuni studiosi europei che hanno sottolineato, senza grande successo, come le misure italiane prese dal governo Conte per non intasare le terapie intensive non stiano funzionando. Critiche che hanno un fondamento consistente per quel che riguarda la Lombardia ma non riguardo al Veneto. Sono stati questi dati e queste domande a spingermi a due settimane di ricerca quasi ossessiva per comprendere quali fossero le differenze principali tra Vo’ e Codogno, quali fossero le variabili che potessero spiegare due sviluppi così diversi. La prima differenza è banale e riguarda la dimensione. Codogno è una città di 16.000 abitanti, Vo’ euganeo di 3.300. Non solo, la zona rossa istituita un mese fa riguardava anche città vicine a Codogno per un totale di circa 50.000 abitanti. Isolare un’area più piccola è ovviamente più semplice, ma l’altro dato che potrebbe risultare fondamentale lo si può trarre dalla pagina wikipedia di Codogno che sottolinea come la città sia frequentata “soprattutto per la presenza del presidio ospedaliero, delle industrie e delle scuole, che esercitano un forte richiamo sul circondario”. E’ proprio la presenza del “presidio ospedaliero di forte richiamo” a dare un primo contributo alla comprensione del quadro complessivo. Il secondo riguarda l’accusa di Conte rispetto ai protocolli che non sarebbero stati rispettati proprio in quell’ospedale. L’ospedale di Schiavonia nel padovano, dove sono stati ricoverati i primi malati di Coronavirus, è stato invece chiuso lo stesso 21 febbraio. Come ha titolato il Gazzettino lo scorso 27 febbraio: “Ospedale blindato a Schiavonia: medici e infermieri entrano ed escono ma fanno il tampone ogni volta”. A questo punto non è nemmeno così importante sapere se le parole di Conte fossero ingiuste (ma chi volesse approfondire può leggere questo resoconto dall’ospedale di Codogno), ma appare ormai chiaro a tutti che in Lombardia «si è verificata la situazione più sfortunata possibile, cioè l’innescarsi di un’epidemia nel contesto di un ospedale, come accadde per la Mers a Seul nel 2015. Purtroppo, in questi casi, un ospedale si può trasformare in uno spaventoso amplificatore del contagio». (Massimo Galli, professore ordinario di “Malattie infettive” all’Università di Milano in un’intervista al Corriere della Sera). Chiarito questo primo aspetto, cosa ha spinto il virus a seguire, almeno per ora, i confini regionali lombardi arrivando a causare la morte di 695 persone nella sola provincia di Bergamo (oltre cinquanta in più dell’intera Emilia Romagna che segue la Lombardia per numero di decessi). Anche qui può essere utile seguire la strada degli ospedali. Alzano Lombardo è uno degli epicentri dell’epidemia, lì il 23 febbraio scorso, a seguito di due casi positivi, l’ospedale venne chiuso e poi riaperto poche ore dopo e proprio da quell’ospedale pare sia nato il focolaio di Bergamo. Ma per capire situazione, rabbia e frustrazione di chi ha frequentato quell’ospedale nel mese di febbraio è sufficiente un breve viaggio tra le testate locali bergamasche. Ma se queste notizie aiutano a spiegare i motivi della diffusione del virus, non aiutano a comprendere perché il tasso di mortalità sia così alto solo in Lombardia. A dare una risposta ci ha provato l’immunologo Sergio Romagnani, professore emerito dell’Università di Firenze che, dopo aver analizzato i dati dello studio epidemiologico effettuato dall’Università di Padova a Vo’ Euganeo, ha inviato una lettera alle autorità regionali toscane invitandole a seguire l’esempio di Vo’, e della Corea: “fate il tampone a tutti”. Una lettera, ormai notissima, che è stata ripresa e pubblicata da numerosi quotidiani italiani e stranieri tra cui il britannico “The Guardian”. Un documento in cui Romagnani prova anche a spiegare le differenze nel tasso di mortalità del virus: “Gli ospedali – spiega – rischiano di diventare zone ad alta prevalenza di infettati in cui nessun affetto è isolato. Il rischio di contagio per i pazienti e tra colleghi rischia di diventare altissimo ed esiste anche il rischio di creare delle comunità ad alta densità virale che sono quelle che, secondo lo studio di Vo’, favoriscono anche la gravità del decorso della malattia”. Romagnani indica quindi una correlazione tra la “densità virale” delle comunità e la gravità del decorso dalla malattia. Una teoria che sembra confermata dai dati ma che non si comprende su quali basi mediche si fondi. Non restava che contattarlo per chiedergli di spiegarci meglio il collegamento. Questa la risposta: “Non ci sono ancora prove, ma l’ipotesi è che il rimbalzo del virus più volte sullo stesso individuo (a cause delle sue piccole ma numerose mutazioni) provoca malattie più gravi. L’isolamento protegge non solo dal contagio, ma probabilmente rende meno grave l’evoluzione della malattia”. Dopo dieci giorni di “clausura”, sembra una buona notizia, la prima da tempo. Ma cosa pensa la comunità scientifica della tesi di Romagnani? Come si sta reagendo in Alto Adige rispetto alla sicurezza negli ospedali? Dobbiamo aspettarci dati lombardi o dati veneti? Almeno a quest’ultima domanda si può dare una prima risposta: al momento in Provincia di Bolzano non si registrano picchi paragonabili a quelli lombardi. Sui dettagli e sulle altre domande si tornerà nelle prossime puntate. 

Coronavirus, i medici del Nord alla rivista inglese: «In Italia infezione ovunque, si deve scegliere chi salvare». Il Messaggero Sabato 21 Marzo 2020. «L'infezione è ovunque in ospedale. Anche se indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi controllarla. Dobbiamo decidere chi può andare avanti». Lo racconta in maniera anonima uno dei tre medici di ospedali del Nord Italia, nella morsa dell'epidemia di nuovo coronavirus, intervistati dal New England Journal of Medicine, la più prestigiosa e antica rivista medica al mondo. «Sebbene la natura catastrofica dell'epidemia in Lombardia sia stata ampiamente pubblicizzata - si legge nell'articolo - quando abbiamo parlato con questi medici tutti e tre hanno richiesto l'anonimato, rispettando le indicazioni che gli sono state fornite. Il Dr. L., medico di un altro ospedale, ha ricevuto un promemoria ospedaliero che proibisce le interviste alla stampa per evitare di provocare ulteriore allarmismo pubblico. Tuttavia, come lui stesso ci ha detto, parlare al minimo della gravità della situazione sta avendo conseguenze letali. “I cittadini non accettano le restrizioni, ha detto, 'a meno che tu non dica loro la verità”». «Il sistema sanitario italiano - ricorda il Nejm - è molto apprezzato e ha 3,2 posti letto ospedalieri ogni 1.000 abitanti (rispetto ai 2,8 negli Stati Uniti), ma è stato impossibile soddisfare contemporaneamente le esigenze di così tanti pazienti in condizioni critiche. Gli interventi chirurgici elettivi sono stati annullati, le procedure semielettive posticipate e le sale operatorie sono state trasformate in terapie intensive di fortuna. Con tutti i letti occupati, anche i corridoi e le aree amministrative sono stati dedicati ai pazienti, alcuni dei quali ricevono una ventilazione non invasiva. Ma come trattare questi pazienti? Oltre al supporto ventilatorio per le polmoniti interstiziali gravi, la terapia è empirica, e si stanno provando i farmaci lopinavir-ritonavir, clorochina, o talvolta steroidi ad alte dosi». «E come prendersi cura dei pazienti che presentano malattie non correlate?», si chiede Nejm. «Sebbene gli ospedali stiano tentando di creare unità Covid-19, è difficile proteggere altri pazienti dall'esposizione. Il dottor D. ha detto, ad esempio, che almeno 5 pazienti che erano stati ricoverati nel suo ospedale per infarto miocardico si presume siano stati infettati da Covid-19 mentre erano ricoverati in ospedale. E se proteggere i pazienti è difficile, lo è anche proteggere gli operatori sanitari, inclusi infermieri, terapisti respiratori e coloro che hanno il compito di pulire le stanze. Quando ci abbiamo parlato, il Dr. D. era uno dei 6 medici della sua divisione che sospettavano l'infezione da Covid-19. Dati i ritardi nei test e la percentuale di persone infette che rimangono asintomatiche, è troppo presto per conoscere il tasso di infezione tra i caregiver. E sono proprio queste circostanze che rendono così difficile il controllo delle infezioni. «L'infezione è ovunque in ospedale», dice il dottor D. «Anche se indossi indumenti protettivi e fai il meglio che puoi, non puoi controllarla». «La sfida, ha detto il medico - prosegue Nejm - ha meno a che fare con la cura dei pazienti, nelle cui stanze i medici sono schermati con dispositivi di protezione, quanto con le molte altre attività quotidiane degli operatori sanitari: toccare i computer, salire sugli ascensori, vedere i pazienti ambulatoriali, pranzare. La quarantena obbligatoria dei lavoratori infetti, anche quelli con malattia lieve, è fondamentale per il controllo delle infezioni. Ma se non tutti sono ugualmente vulnerabili alle malattie gravi, c'è da pensare anche alla carenza di forza lavoro». «Un giovane medico, il dottor S., mi ha raccontato che nel suo ospedale ci sono giovani medici in prima linea, che fanno turni extra e lavorano anche al di fuori delle loro specialità. Hanno la paura negli occhi - dice - però vogliono aiutare».

Presidente medici Roma: “Un sistema fondato sugli ospedali: così in Lombardia il virus è esploso”. Marco Billeci su fanpage.it il 3 aprile 2020. “In altri territori ci sono specialisti ambulatori nelle Asl collegati anche ai medici di famiglia. In Lombardia tutto è concentrato negli ospedali. E così le strutture sono diventate focolai di contagio”. Il presidente dell’Ordine dei Medici di Roma Antonio Magi spiega così a Fanpage i numeri enormi di infetti e morti per Coronavirus in Lombardia. Magi poi lancia un allarme: “Per affrontare il virus, rischiamo di lasciare soli i pazienti cronici”. Antonio Magi – radiologo e presidente dell’Ordine dei Medici di Roma – già da settimane sostiene la necessità che anche chi non ha sintomi da Covid indossi la mascherina chirurgica per arginare il contagio. Una posizione che negli ultimi giorni ha guadagnato sempre più forza nel dibattito pubblico.

Perché secondo lei le mascherine sono utili per tutti?

«In ospedale le mascherine chirurgiche servono per evitare di contaminare il campo operatorio. Purtroppo non fermano la ricezione dei germi, ma bloccano l’uscita delle goccioline e l’aerosol. Per questo, se indossate, eviterebbero che chi ha il virus e non lo sa perché non ha sintomi particolari possa infettare gli altri. Per me il loro uso dovrebbe essere obbligatorio per chiunque esca di casa».

Il ministero della Salute e l’Istituto Superiore della Sanità però hanno detto fino a oggi che chi non ha sintomi respiratori non deve mettere la mascherina.

«Io rispetto l’Iss, ma questa posizione mi pare legata al fatto che c’è carenza di protezioni. Se di mascherine disponibili ce ne sono poche, è ovvio che vada privilegiato il loro utilizzo dove è più necessario, come negli ospedali. Ma da qui a dire che non si debbano indossare, il discorso è diverso. Il problema è che bisognava attrezzarsi prima, almeno da gennaio, quando ancora non c’era la corsa a cercare le mascherine in tutta Europa».

A Roma oggi ci sono mascherine per tutti?

«A Roma non ce ne sono ancora tante disponibili, alcune consegne previste devono ancora arrivare. L’obiettivo deve essere produrle nel minor tempo possibile, anche perché, quando la situazione si inizierà a sbloccare, saranno utili per evitare un’onda di ritorno».

Lei crede che aver fatto passare il messaggio che le mascherine per i sani non servivano abbia contribuito a diffondere il contagio?

«Non ho elementi per dire questo. Ci sono altri fattori. In Lombardia il focolaio si è amplificato perché in quella regione l’organizzazione della sanità è incentrata sugli ospedali. In altri territori ci sono più ambulatori e specialisti nelle Asl e a questo sistema sono collegati anche i medici di famiglia. In Lombardia l’attività specialistica per anni invece è stata svolta tutta all’interno degli ospedali. Per questo allo scoppio dell’epidemia, è successo che sia i pazienti con sintomatologia che quelli che dovevano fare visite di altra natura sono andati tutti nelle stesse strutture».

E cosa è successo?

«I pazienti non sono stati gestiti sul territorio ma sono andati tutti nei pronto soccorso e negli ospedali. Qua si sono trovati assieme pazienti sintomatici e asintomatici Covid e persone trattate per diverse patologie. Per questo motivo all’interno degli ospedali lombardi sono scoppiati i focolai e lì sono sorti i punti di massima diffusione del virus. Aggiungo che per giorni i medici sono rimasti privi di protezioni».

I DPI il personale sanitario sono arrivati in ritardo?

«Certo e i avere ventuno sistemi sanitari diversi non ha aiutato perché il federalismo ha comportato una mancanza di coordinamento. Ogni livello ha pensato che ad agire dovesse essere qualcun altro, c’è stato uno scaricabarile reciproco le cui conseguenze sono state pagate dai colleghi. Oggi tra i medici contiamo più di 70 morti, i sanitari positivi sono migliaia, solo tra quelli censiti. Molti altri sono “untori” senza saperlo perché i tamponi non vengono fatti a tutti. Secondo me hanno fallito un po’ tutti, regioni e governo».

Lei sarebbe favorevole a ridare tutte le competenze sulla sanità allo Stato?

«Io riporterei l’organizzazione generale del sistema al Servizio Sanitario Nazionale. Le Regioni devono avere un ruolo nell’identificare alcune peculiarità dei territori, in accordo con lo Stato centrale. È chiaro che nelle aree di montagna l’organizzazione deve essere differente da quelle di pianura o dalle isole, per esempio. Le Regioni devono poter dire la loro anche sulle specificità delle patologie legate ai diversi territori. Il pallino però va rimesso al centro, evitando nello stesso tempo di dare ancora la sanità in mano agli economisti e alla finanza. Oggi paghiamo anche quanto successo negli ultimi anni: il blocco del turnover, il taglio dei posti letto, il sottofinanziamento del sistema».

Cosa dobbiamo fare per prepararci alla fase del dopo emergenza?

«Io credo che comunque alla fine dell’anno i morti per Coronavirus saranno molti meno di quelli per patologie croniche come cardiopatie, diabete, tumori. Chi è affetto da queste malattie in questo momento sta soffrendo ulteriormente perché non riusciamo a seguirlo nel modo corretto. Queste persone oggi sono la parte debole del sistema e dobbiamo pensare anche a loro. Ricordiamoci peraltro che tra le persone con patologie pregresse il tasso di letalità del Coronavirus è molto più alto della media».

C’è il rischio che per provare ad arginare il Coronavirus si trascuri il resto?

«In queste settimane l’attività degli ambulatori è ridotta. Diciamo che su 20 appuntamenti nell’agenda di uno specialista in una giornata, quattro sono quelli che riguardano urgenze per cui le visite sono garantite. Gli altri sedici sono visite programmate o differibili, che oggi sono state bloccate. Io credo che allora gli specialisti dovrebbero poter contattare questi sedici pazienti in modalità smartworking o di telemedicina, per capire quale patologia hanno e perché avevano programmato una visita. Magari è gente che deve verificare l’andamento di una terapia oppure che ha finito un farmaco o ancora deve fare un ecografia periodica. Un triage telefonico può servire ai medici per capire chi tra questi ha bisogno di un intervento e nel caso chiamarlo in ambulatori. E anche in questo caso, indossare tutti le mascherine sarebbe di grande aiuto». Marco Billeci

Budrio, nuovo focolaio di Covid-19 all’ospedale. Verner Moreno su leggilanotizia.it l'8 Maggio 2020. Budrio (BO).  All’ospedale di Budrio nuovo focolaio di Covid-19. Sono quindici i pazienti risultati positivi. Oltre ai pazienti anche 4 infermieri risulterebbero positivi al tampone.  Presso il nosocomio in provincia di Bologna sono ricoverate 34 persone e prestano servizio 43 operatori.  Il via ai controlli in seguito alla positività riscontrata lo scorso 4 maggio in un paziente ricoverato per patologie non correlate al coronavirus. Paziente però risultato positivo dopo che nel corso della degenza ha sviluppato i sintomi della malattia. Quattro operatori sono stati sospesi dal servizio. I pazienti (14) sono stati trasferiti nei reparti Covid dell’Ospedale di Bentivoglio e Villa Erbosa. Si registra purtroppo già un decesso. Un paziente con un quadro clinico già compromesso.

Covid 19, contagiati 72 sanitari in ospedali pugliesi. Task force: «Rischio focolai». Nel documento si evidenzia il rischio che proprio negli ospedali, le strutture più a rischio, possano accendersi dei focolai, come già accaduto in Lombardia. Quotidiano di Puglia il 23 Marzo 2020. In Puglia 72 operatori sanitari ospedalieri sono stati contagiati dal coronavirus: il dato emerge da un documento trasmesso lo scorso 21 marzo dalla task force regionale alle Asl, ospedali, Irccs e laboratori di analisi. Nel documento si evidenzia il rischio che proprio negli ospedali, le strutture più a rischio, possano accendersi dei focolai, come già accaduto in Lombardia, in provincia di Bergamo e nel Lodigiano. «Al momento attuale - si legge nella circolare di sabato scorso - l’ambiente assistenziale in Puglia rappresenta una importante fonte di diffusione del virus Covid-19. Dei 241 di cui abbiamo informazione sulla professione, al momento 72 casi (29,8%) sono in operatori sanitari. Questi operatori hanno potuto contrarre l’infezione in comunità o durante l’attività lavorativa, ma il dato epidemiologico importante è rappresentato dal fatto che ben un terzo dei casi complessivi sono potenzialmente in condizione di accendere focolai ospedalieri, con potenzialità di diffusione comunitaria». 

Il coronavirus e il ruolo degli ospedali nel propagarsi deCovid-19, infetti record negli ospedali: la Regione ha tagliato sulla sicurezza. Da sardiniapost.it il 21 marzo 2020. Col passare delle ore, adesso che i contagi record negli ospedali sono ufficialmente il vero dramma dell’epidemia di coronavirus in Sardegna, spuntano errori e omissioni da parte della Regione. Una somma di manchevolezze che ha esposto medici, infermieri e operatori socio-sanitari alla malattia, con tutto ciò che ne consegue in termine di diffusione della malattia soprattutto tra le persone più vicine. Sardinia Post ha certificato ieri che i malati tra i dipendenti ospedalieri erano circa 50 per cento su 206, contro una media nazionale dell’8,3. Ora il nostro giornale è in attesa di sapere dall’Ufficio stampa della Regione come si è modificato il dato con gli 87 nuovi casi di coronavirus accertati nell’ultimo aggiornamento serale, sempre di ieri: un nuovo dato che ha portato a 293 il totale dei contagi e potrebbe aver aumentato ancora di più la percentuale di infetti tra il personale sanitario. Il primo documento che sorprende è l’allegato alla delibera 13/24, pubblicata sul sito della Regione alle 12 di ieri, 20 marzo, eppure approvata il 17. L’atto, che prova le contraddizioni dell’assessore Mario Nieddu, contiene tutte le norme che il personale sanitario ha l’obbligo di seguire nei diversi spazi degli ospedali e a seconda del paziente che si ha di fronte. Ovvero una persona con i sintomi del coronavirus o meno. Il testo risulta copiato dalle disposizioni dell’Istituto superiore della sanità (Iss), come è giusto che sia, visto che si tratta del massimo organo nazionale in materia di salute. Ma la Regione ha tolto dal proprio allegato le parti più restrittrive. Nel testo della Giunta di Christian Solinas non c’è l’obbligo della “vetrata interfono citofono” nella zona del triage, dove ai pazienti viene affidati un codice in base alla gravità. Per facilitare la comparazione, mettiamo a disposizione dei lettori entrambe le versioni: qui il testo dell’Istituto superiore di sanità; qui la delibera della Regione. Sempre per il triage, nel documento sardo, pagina 4/9, manca pure la misura alternativa alla vetrata, ovvero il “mantenere una distanza dal paziente di almeno un metro (dal paziente)” e “se possibile o indossare la mascherina chirurgica”, come scritto a pagina 7 nel file dell’Iss. Misure restrittive tolte anche per gli ambulatori: l’Iss ha previsto, a pagina 8, nel caso di esami a pazienti senza sintomi, “i dispositivi di protezione individuale per l’ordinario svolgimento della propria mansione con maggiore rischio”. Ma la Regione non ha inserito il “maggiore rischio” nella propria delibera (pagina 5/9). Dal testo sardo del 17 marzo sono stralciate del tutto le regole da seguire nelle aree amministrative. Anche sulle sale d’attesa le due versioni differiscono: l’Iss ha previsto la distanza di almeno un metro dai pazienti con sintomi respiratori (pagina 8); una disposizione, questa, che non figura nell’atto della Regione (pagina 6/9). Ma più di tutto l’elemento omesso è stata la mancata applicazione del principio precauzionale. Si tratta di un postulato chiave per la garanzia della sicurezza nei luoghi di lavoro, come richiamato in questi giorni dall’avvocato del foro di Cagliari, Giacomo Doglio, esperto diritto sanitario del lavoro e consulente di sindacati dei medici e del personale sanitario. “In materia di sicurezza – osserva – si applica il principio precauzionale, anche quando non si hanno certezze. La tutela dell’integrità fisica del lavoratore (articolo 32 della Costituzione e articolo 2087 del Codice civile) non tollera infatti alcun tipo di condizionamento, tantomeno di natura economica. Quindi di fronte all’evidenza che qualsiasi paziente che accede ad una struttura ospedaliera possa essere “sospetto” di affezione dal virus, tutto il personale deve disporre dei necessari presidi di sicurezza, che non esauriscono affatto le misure necessarie da adottare perché altrettanto importanti sono quelle di natura organizzativa. Alo stesso modo i tamponi devono essere estesi a tutti, operatori e pazienti”. In virtù del principio precauzionale, per ridurre al minimo il rischio dei contagi, le Assl della Sardegna avrebbero dovuto assicurare al personale ospedaliero i dispositivi di protezione individuale, a maggior ragione perché il coronavirus è una nuova malattia. E ugualmente la Regione avrebbe dovuto accertare, viste le funzioni di raccordo nell’emergenza, che tutto fosse in regola. Un punto, questo, su cui i sindacati dei medici hanno deciso di dare battaglia proprio in queste ore.

·        Eroi o Untori?

Lo sfogo di un’infermiera del reparto Covid: “Eravamo degli eroi…” Notizie.it il 14/12/2020. Il racconto di un'infermiera del reparto Covid dell'ospedale di Rovereto. Un’infermiera che lavora all’interno del reparto di rianimazione per degenti Covid all’ospedale di Rovereto ha deciso di sfogarsi, dopo aver lavorato a lungo in prima linea contro la pandemia. Le procedure sono complesse ed esigono grande impegno fisico e psicologico, con l’aggravante della delusione da parte delle persone. “A marzo eravamo eroi, ora capita perfino che ci accusino di portare in giro il virus. Ma andiamo avanti, cercando di fare del nostro meglio” ha dichiarato l’infermiera, intervistata dal quotidiano L’Adige. L’infermiera ha spiegato che in primavera erano stati presi alla sprovvista ma con la seconda ondata c’è stata un’organizzazione migliore negli ospedali. “Ora siamo più esasperati: siamo partiti con questi ritmi il 7 novembre, e la sensazione è che ne avremo per diversi mesi, il virus è ancora molto diffuso. I turni sono faticosi, vedo anestesisti che coprono anche diciotto ore di seguito, e tutti i 20 – 21 letti sono sempre pieni, di gente sempre più giovane. Nel corso della prima ondata c’erano molti grandi anziani, ma da un paio di settimane arriva gente sui settant’anni, e anche uno di 62” ha spiegato. La donna ha spiegato che si aspettavano la seconda ondata, ma lei è sempre stata ottimista e sperava che non ci fossero ulteriori emergenze. Durante le vacanze di Natale il rischio sarà ancora più alto e spesso si ha la percezione che si stia sottovalutando la cosa. L’organizzazione in ospedale ora è molto diversa. “Rianimazione è stata allargata per comprendere una parte del blocco della sala operatoria. L’assistenza è garantita con un infermiere ogni due pazienti e ogni oggetto è ripetutamente significato, c’è odore di cloro e antibatterico dappertutto .Lavoriamo in ambienti che originariamente non erano predisposti per le cure intensive, e così ci si deve inventare tutto, c’è sempre un ingegnarsi” ha spiegato l’infermiera, aggiungendo che dal punto di vista umano continuano a parlare con i pazienti, cercando di accompagnare i gesti con le parole. Esiste l’applicazione “vicino a te” che consente ai parenti di mandare messaggi ai pazienti, che loro stampano e attaccano vicino ai letti. Si tratta di un modo per migliorare lo stato d’animo delle persone, di consolarle e di star loro vicino. A volte usano anche la musica. “Il carico fisico adesso sta venendo fuori, e psicologicamente si fa sentire. Quando sto a casa un paio di giorni, al momento di salutare un paziente mi domando se lo ritroverò al mio rientro: è dura. Per fortuna c’è anche chi migliora e cambia reparto: salutano e ringraziano, e questo ci fa stare bene. Quello che invece ferisce è il fatto che, mentre prima eravamo addirittura eroi, ora è successo sia a me che ad altri colleghi, che ci dicessero che siamo pericolosi perché portiamo il virus fuori dall’ospedale. Ed è assurdo, perché le procedure sono dettagliate: a volte mi sento più sicura in reparto che non quando sono in giro” ha spiegato l’infermiera. La pronazione è un procedimento complesso, devono essere in cinque per poterlo fare ed ogni dettaglio è molto importante. “L’uso del casco provoca attacchi di panico, ma quando i malati respirano meglio, si tranquillizzano” ha aggiunto. “La cosa peggiore sono i negazionisti. Ho sentito delle porcate assurde ma cerco sempre di lasciare tutto nell’armadietto, sia quando vado a lavorare che quando poi torno a casa. Un giorno un collega ci ha guardato e ci ha detto: ‘Avete una faccia senza espressione’. Tra di noi ci sono persone che prendono psicofarmaci, c’è chi non riesce a dormire la notte, sta male. Io reagisco facendo passeggiate, e poi provo a non ascoltare le cavolate che vengono dette. Per alcuni è un complotto, dicono che tutti gli anni muore qualcuno e che questa è un’influenza come le altre, ma io non ho mai visto una distesa di persone intubate come questa. Faccio questo lavoro da oltre dieci anni, ma non mi sono mai trovata in una situazione del genere” ha spiegato l’infermiera di Rovereto. “La pandemia dovrebbe insegnarci una solidarietà più estesa” ha concluso.

 “Richiedi i danni se ti ammali in ospedale”, l’Ordine dei Medici contro il volantino che incita i pazienti a fare causa. Rossella Grasso su Il Riformista l' 11 Dicembre 2020. Circola in corsia e tra i pazienti il particolare volantino pubblicitario di uno studio legale che opera tra Napoli e Milano e che invita a fare causa ai medici. Si tratta di un colorato fumetto, ma quello che c’è scritto nei baloon è un vero e proprio invito a ricorrere alle vie legali che in tempi di pandemia risuona come l’ennesimo attacco ai medici. Il titolo del fumetto parla chiaro: “Diritto alla salute. Richiedi i danni, se ti ammali in ospedale”. Nella prima vignetta un paziente esce dall’ambulanza con il braccio rotto e trasportato in barella. Dice ai medici del 118: “L’asfalto era bagnato ed ho perso il controllo”. Dunque il paziente arriva in ospedale per un motivo diverso dal Coronavirus. Poi il paziente viene operato e pochi giorni dopo scopre di aver contratto il virus in ospedale. Il fumetto finisce con lo slogan pubblicitario vero e proprio dello studio legale: “Per fortuna posso individuare i responsabili del mio contagio…attraverso il supporto legale dello studio legale XXX”. E così lo studio cerca di reclutare nuovi clienti tra i pazienti. Una pubblicità che ha scatenato le ire di tutto il personale sanitario. “Vergognoso come, anche in piena emergenza covid, gli avvocati sciacalli stanno cercando di lucrare sulle disgrazie fomentando i pazienti a fare causa ai medici, l’ultima trovata sono delle vignette che circolano e spiegano come fare causa”, dicono i medici. Che si tratti di un messaggio fuori luogo ne è convinto Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli che ha invitato i colleghi dell’ordine degli avvocati a vigilare su iniziative di questo tipo: “I contenuti pubblicitari eccedono i limiti della deontologia e della correttezza – ha scritto in una nota – per cui, in tali termini, viene sottoposta alle valutazioni ed alle eventuali iniziative di codesta Federazione e/o degli Ordini territorialmente competenti”.

Estratto dell’articolo di Gloria Satta per “il Messaggero” l'1 dicembre 2020. Il Doc, quello vero, è in trincea contro il covid. Pierdante Piccioni, 61 anni, nato in provincia di Cremona e in servizio a Lodi, è il medico smemorato che ha ispirato la fiction Doc - nelle tue mani interpretata da Luca Argentero e trasmessa su Rai1 con ascolti record (già in cantiere, a furor di pubblico, la nuova stagione). Il 31 maggio 2013 Pierdante ebbe un incidente d' auto che lo mandò in coma. Sei ore dopo si risvegliò ma scoprì di aver perso completamente il ricordo degli ultimi 12 anni della sua vita. E, con l' aiuto sia delle terapie sia della famiglia, fu costretto a ricostruirsi da zero anche nella professione. Oggi il medico, che 7 anni fa era il primario del Pronto Soccorso nell' ospedale di Lodi, è tornato a lavorare nella stessa struttura: segue i malati di coronavirus e organizza il loro percorso di guarigione. In poche parole, gestisce il post-covid. […] «Essere stato un paziente ed essere oggi un disabile seguito dai neurologi mi ha insegnato l'empatia nei confronti dei malati, la necessità di andare emotivamente verso di loro. Prima ero il classico barone distante: chiamavo i pazienti con il numero del letto, tanto che mi avevano soprannominato Principe bastardo...Oggi stabilisco un rapporto diretto, mi immedesimo nelle loro emozioni e li chiamo per nome sfidando i paladini della privacy».

E cosa percepisce nei malati di covid?

«Incertezza. Paura. Terrore. Il virus provoca sensazioni devastanti. Gli imbecilli negazionisti dovrebbero vedere cosa prova un contagiato quando il respiro gli inciampa tra i denti. […]».

[…] Pensa che voi medici e il personale sanitario siate considerati ancora degli eroi?

«[…] la nostra immagine è stata inquinata dai cosiddetti esperti che infestano i media: virologi, immunologi e compagnia bella che da mesi dicono tutto e il contrario di tutto. Non rendono un buon servizio alla nostra categoria».

[…] Ci sono speranze che lei possa recuperare la memoria?

«Molto flebili. Continuo a curare la mia amnesia post-traumatica, ma se la memoria non mi è tornata dopo 7 anni dubito che tornerà mai. Tuttavia ho trovato l' equilibrio come uno strumento musicale riaccordato e sono felice di aver imparato a fare il medico in un altro modo».

Finiranno i contagi, torneremo alla normalità?

«Dobbiamo prepararci alla terza ondata ma sono sicuro che tutto finirà bene. […]».

Luca Telese per “la Verità” l'1 dicembre 2020. Dalla pandemia alla videopandemia. Ansiogeni, conflittuali, complessi (se non astrusi), spesso contraddittori rispetto alle loro stesse prese di posizione: così appaiono in tv i virologi agli italiani. E quando ai telespettatori si chiede di dare loro un voto, ecco le sorprese: il più visto è Andrea Crisanti, mentre il più «severo» è considerato Fabrizio Pregliasco. Comunque la si pensi in materia, dovremo rendere grazie a un sorprendente studio di Reputation Science, istituto che si è preso l' ingrato compito di sondare i cittadini su come percepiscono i protagonisti della pandemia. Il documento riserva non poche sorprese, e compila anche un' inedita classifica dello share, per dirci chi appare di più nei media nazionali. Nei sei mesi presi in considerazione, per esempio, Reputation Science certifica un record: quello del professor Crisanti, che da quattro mesi batte tutti gli altri con uno share medio impressionante, il 18% (in estate) e il 20% (in autunno). Solo Roberto Burioni era riuscito a insediare questo primato, in primavera, quando, grazie alla presenza fissa a Che tempo che fa, aveva accumulato molto minutaggio in una platea di prima serata (arrivando al 26%). Ma se la videopandemia è una gara che somiglia più alla maratona che ai 100 metri, non c' è dubbio che la costanza (e i piazzamenti) alla lunga paghino. È questo il caso del professor Massimo Galli, che - sommando tantissime partecipazioni - ha fissato un vero e proprio primato, quello di presenza contemporanea e simultanea in due programmi concorrenti (Stasera Italia e Otto e Mezzo). Galli è al terzo posto per visibilità con una percentuale fra l' 11% e il 13%. Se quindi prendiamo in considerazione la classifica «di arrivo» (l' ultimo bimestre) scopriamo che oltre ai primi tre (Crisanti, Andrea Ricciardi e lo stesso Galli), ci sono, nell' ordine, virologi come Matteo Bassetti, Fabrizio Pregliasco, Alberto Zangrillo, Roberto Burioni, Franco Locatelli e Ilaria Capua. Questa classifica è comunque (in parte) «bugiarda»: spiega chi gli italiani hanno visto di più, ma non cosa abbiano capito. Ecco perché è altrettanto utile, se non più interessante, (oltre allo share), la seconda parte dell' indagine: quella dove l' istituto indaga nelle tenebre della comprensione collettiva. Ed è qui che emerge il caos multiforme che le dispute tra epidemiologi hanno indotto nel grande pubblico. Nella difficoltà di capire il dettaglio dei dilemmi scientifici, su cui i protagonisti si accapigliano, la guerra dei virologi nei talk ha un effetto di amplificazione dell' angoscia. Un vero e proprio bombardamento di contenuti e messaggi contraddittori. Così nel report si legge: «Emerge non solo un volume di contenuti estremamente rilevante, ma anche», si legge, «un doppio livello di incoerenza nelle dichiarazioni rilasciate. Non solo infatti molti esperti hanno cambiato approccio nei vari mesi, ma in generale si è assistito a una forte divergenza tra opinioni riguardo alla gravità della pandemia e alla severità delle misure di contenimento». E ovviamente, si legge nel rapporto, «questo potrebbe aver reso gli alti volumi di contenuti registrati ancora più impegnativi da gestire per i cittadini». Lo studio analizza centinaia di dichiarazioni pubbliche sulla pandemia, e ne individua oltre 120 con «impatto mediatico significativo», e oltre 70.000 contenuti online tra Web e social network». Ovvero: una bomba opinionista o informativa, angosciofoba, una forza capace di prendere il controllo dell' agenda mediatica. Ma non finisce qui: «Durante i dieci mesi presi in esame, ogni giorno, queste esternazioni hanno generato circa 234 contenuti sul Web. Allo stesso tempo», si legge nel report, «secondo le analisi, ogni dichiarazione ha generato in media 586 contenuti online». Certo, l' opinionismo virologico ha seguito strategie comunicative opposte: «Alcuni virologi», spiega Sr, «hanno scelto di intervenire pubblicamente nei momenti in cui il trend dei contagi era in aumento, come Burioni o, al contrario, hanno concentrato i propri interventi quando i numeri dei contagi erano ai minimi, come Zangrillo. Gli altri dieci esperti hanno mantenuto tempistiche di intervento pressoché costanti». L' ultima sorpresa, però, sono le «pagelle» del pubblico. O meglio, i voti in decimali espressi da chi è stato coinvolto nella ricerca e chiamato a esprimere due distinti giudizi: uno sull'«indice di allerta» e l' altro sull'«indice di coerenza». Qui tutto si ribalta, e le valutazioni non hanno nessuna corrispondenza con lo share. I più severi sono Fabrizio Pregliasco, Walter Ricciardi e Galli. I meno coerenti solo risultati Matteo Bassetti, Alberto Zangrillo e Maria Rita Gismondo, che «pagano» quelli che sono stati percepiti come rispettivi cambi di opinione. Una valutazione di merito? Non necessariamente: questa, secondo Sp, è solo la percezione che ha avuto il pubblico, mentre cercava di farsi una opinione nel caos.

"Tutto il personale è disponibile anche alle richieste che avvengono con fare minaccioso e urla". Ricoverato nel Pronto soccorso del Cardarelli scrive ai media: “Basta fango, i pazienti qui diventano anarchici”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 17 Novembre 2020. Il terribile video girato nel Pronto Soccorso del Cardarelli ha letteralmente fatto il giro del mondo. Le immagini del paziente morto nel bagno hanno indignato e attirato le polemiche di molti, avviando un denigratorio circo mediatico nei confronti di uno degli ospedali più grandi del Sud Italia. E anche uno di quelli sempre in prima linea. Ma uno dei tanti che sfortunatamente ha dovuto ricorrere al pronto soccorso ha deciso di scrivere ai media per raccontare la sua esperienza di ricovero e cure e spiegare che quella che sta girando è solo una descrizione falsata della realtà. “Mi sento di fornire pubblicamente la mia esperienza nello stesso reparto (il Pronto Soccorso del Cardarelli, ndr), resa necessaria a causa del mio contagio da Covid 19”, ha scritto A.C. Descrive il suo calvario, iniziato con i primi sintomi venerdì 16 ottobre 2020. Poi il lunedì 19 ha avuto il risultato del tampone e ha scoperto di essere positivo. Inizialmente ha provato a curarsi presso il suo domicilio, ma il giorno 26 a causa del peggioramento dei sintomi e della scarsa saturazione ha chiamato il 118 “che mi ha prontamente assistito ma reso consapevole delle difficoltà oggettive associate all’emergenza posti letto – ha spiegato A.C. nella lettera – Ho deciso di temporeggiare un altro giorno fino a quando, a causa del peggioramento delle condizioni, ho scelto di non attendere il 118 ed ho provveduto da solo a recarmi di persona al Pronto Soccorso dell’Ospedale Cardarelli di Napoli intorno alle ore 20. Dopo qualche ora di attesa sono stato accettato al Pronto Soccorso Obi Covid”. “Entrato nella struttura – continua il racconto – diretto dal Primario Fiorella Palladino, ho da subito notato l’incredibile numero di pazienti sistemati in ogni angolo libero del reparto e nonostante tutto mi è stato assegnato un letto mobile con bombola di ossigeno. Non si può nascondere né negare che la mia prima impressione, da paziente ancora lucido e consapevole, era qualcosa di molto più simile ad un ambiente da ospedale in zona di guerra con impressionanti lamenti e continue richieste di soccorso. Tengo a testimoniare che, nonostante tutto, sono stato immediatamente sottoposto agli esami ed alla terapia d’urto con un concomitante e continuo cambio di bombole d’ossigeno”. “Il giorno seguente, le mie condizioni erano in peggioramento, e per questo motivo sono stato sistemato in un posto letto con ossigeno a muro e successivamente sottoposto a terapia con ossigeno ad alti flussi. Nel corso della mia permanenza in pronto soccorso/obi non ho potuto fare a meno che verificare la professionalità, l’efficienza e la grandissima umanità del personale sanitario che, nonostante la continua emergenza, si presta ai bisogni di tutti i pazienti, rivolgendo loro le dovute attenzioni anche quando le richieste avvenivano con fare minaccioso, con urla e con comportamenti evidentemente generati dallo stress e dalla paura che determinavano, di conseguenza, un clima di forte disagio, spesso per richieste d’aiuto anche non urgenti”. “Ogni paziente, in quelle condizioni, diviene istintivamente anarchico e si ritiene evidentemente eletto ad avere una sorta di diritto di prelazione alle cure che non tiene conto della visione più allargata di chi dall’alto riesce con obiettività ad individuare le priorità. Questo probabilmente genera una alterata idea di sotto attenzione che viene poi confusa con “mancanza” di attenzione. Dopo tre interminabili giorni sono stato trasferito al padiglione H in pneumologia covid, reparto diretto da Fausto de Michele, nel quale sono rimasto per undici giorni”. “Durante questa lunga degenza ho avuto conferma della professionalità di tutto il personale anche di questo altro reparto. La sera del 9 novembre sono stato dimesso, da paziente positivo in isolamento fiduciario, per poi proseguire la terapia presso la mia abitazione affinchè si potesse liberare il posto per le nuove urgenze”. “Ritenevo doverosa questa testimonianza in decisa controtendenza rispetto alle tante che leggo sugli organi di informazione che hanno perseguito l’obiettivo di denigrare il lavoro di tante persone che lottano con l’enorme amore per la professione ma con scarsissimi mezzi per affrontare questa pandemia. Le assicuro che le competenze non mancano così come è sempre palpabile l’affanno con il quale viene eseguita ogni prestazione di assistenza ai pazienti”. “Queste poche righe spero potranno esserle utili per comprendere quanto le dinamiche interne ad un reparto così esposto possano continuamente generare un’alterazione molto sensibile della realtà. Sono anche necessarie per ringraziare ancora una volta tutti coloro che mi hanno assistito, dai primari agli addetti alle pulizie, i quali nell’espletare i propri doveri hanno costantemente fornito anche parole di conforto alle persone ammalate, che oltre alla sofferenza fisica, sono esposti ad un terribile trauma psicologico che inevitabilmente si trascinerà nel tempo”.

Dagospia il 13 novembre 2020. Da I Lunatici Rai Radio2. Martina Benedetti, infermiera che nella prima ondata di Covid in Italia divenne un simbolo grazie ad una foto pubblicata sui social e divenuta virale in tutto il mondo, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei. Martina ha parlato della seconda ondata: "Lavoro in Toscana, in un reparto Covid, in una terapia intensiva. Siamo diventati covid free in estate, purtroppo in questo ultimo periodo seguendo il trend nazionale siamo ripiombati nell'incubo covid. Almeno nella mia realtà, rispetto alla prima ondata, quando eravamo sprovvisti di mezzi di protezione individuale, riusciamo a proteggerci. Abbiamo le giuste armature. Molti operatori sanitari si contagiano perché è saltato il tracciamento. In estate abbiamo fallito nel sistema di tracciamento, che è sfuggito di mano. Com'è cambiato l'atteggiamento dei cittadini nei nostri confronti? Questa seconda ondata è ancora più difficile. Nella prima, non volendo, venivamo quasi celebrati come eroi, con i canti e gli applausi dai balconi, adesso succede che durante il periodo estivo abbiamo visto vari fenomeni aberranti, come i negazionisti o i no mask, movimenti fomentati anche da un giornalismo di bassa lega. Varie categorie di persone se la sono presa con noi. Da eroi per qualcuno siamo diventati assassini. Sono questi gli insulti che riceviamo sui social. Oppure ci scrivono "assicurati", quelli con lo stipendio statale, che devono stare zitti. Io e i miei colleghi siamo rimasti basiti, dopo tutto l'impegno che abbiamo messo a marzo e aprile e stiamo mettendo ora. Ti fai un turno massacrante in terapia intensiva, esci fuori e leggi certi commenti sui social, ti fa male". Martina Benedetti è un fiume in piena: "Tutto questo poteva essere previsto, era una situazione annunciata, non è stato fatto abbastanza. Gli hater sui social ce li ho anche io, li ho molti. Veniamo accusati di avere lo stipendio fisso e assicurato, quindi per questo non avremmo il diritto di parlare. Ma a me non dà fastidio il messaggio degli hater, ho un carattere di un certo tipo, mi dà noia la situazione generale, molti cittadini non hanno capito bene la situazione, sono stati gli stessi specialisti a minimizzare nei mesi scorsi, a creare una sorta di circo mediatico. Tutti questi scontri anche tra specialisti, tra virologi, che a mio parere sono assurdi. In reparto ne parliamo avviliti, ma spesso non c'è neanche tempo per stare dietro a tutte le dinamiche, il nostro obiettivo nell'immediato è di far star meglio il paziente che accede, non abbiamo nemmeno tempo per certe cose. Chi è in corsia tutti i giorni non apprezza chi minimizza, ma chi è realista e consapevole. La realtà in questo momento è drammatica. Dal punto di vista clinico sono stati fatti dei passi in avanti, i nostri medici hanno capito delle cose, la malattia viene curata in modo più efficace. Ma rimane il problema di posti letto. Più della letalità del virus, quello che le persone che non capiscono, è la capacità di tenuta del sistema sanitario il problema". Sul vaccino: "Pare che le prime dosi saranno destinate al personale sanitario? A livello pratico non ne stiamo parlando ancora, però ovviamente questa notizia non può che farci piacere. Vediamo come si evolverà la situazione e come verrà gestita".

Medico positivo continua a visitare pazienti a Cuneo: rischia l’arresto. Notizie.it il 5/11/2020. Un medico consapevole di essere positivo al coronavirus ha continuato a visitare i suoi pazienti: rischia arresto e sanzione. Un medico di Villafalletto, comune in provincia di Cuneo, ha continuato a visitare i suoi pazienti nonostante sapesse di essere positivo al coronavirus. Le forze dell’ordine lo hanno denunciato per violazione della quarantena e, oltre a provvedimenti disciplinari (l’Asl lo ha segnalato all’Ordine dei Medici), rischia un arresto da 3 a 18 mesi e un’ammenda da 500 a 5.000 euro. Tutto è iniziato giovedì 29 ottobre quando l’uomo ha ricevuto l’esito positivo del tampone effettuato il giorno prima. L’azienda sanitaria ha informato il sindaco che ha scritto al dottore invitandolo a isolarsi da subito per evitare di diffondere l’infezione. Ma lui non ne vuole sapere e venerdì 30 si è recato nuovamente nel suo ambulatorio visitando alcuni pazienti fino a quando non sono intervenuti i Carabinieri per riportarlo a casa. Ma c’è di più. Domenica 1 novembre il medico si è recato a casa di un paziente oncologico per visitarlo e il martedì successivo si è presentato in ufficio per stampare dei documenti. Il primo cittadino lo ha quindi nuovamente contattato ordinandogli di abbandonare immediatamente l’ambulatorio dove ha continuato a esercitare la professione pur consapevole di rappresentare un veicolo di contagio per i suoi pazienti. Ha inoltre precisato che l’accesso allo studio “sarà inibito con la sostituzione delle chiavi e altre modalità di ingresso della casa di riposo San Luigi Gonzaga“. Struttura a rischio che si trova nello stesso palazzo. Il medico ha provato a giustificare il suo comportamento spiegando che dopo aver effettuato il tampone risultato positivo ha fatto un test sierologico e un altro tampone che hanno dato esiti negativi. Non sapendo cosa fosse successo ha quindi continuato a recarsi in ambulatorio visitando i pazienti rispettando le misure. Quanto alla visita domiciliare, ha raccontato che “Mi ha telefonato il figlio di un paziente implorandomi. Il padre stava molto male e voleva il mio intervento, soltanto io potevo risolvere il problema. Ha insistito più volte, così sono andato”.

Lo sfogo: noi infermieri, prima angeli, poi untori. L'esperienza di un’infermiera contagiata dal Covid. La Voce di Manduria lunedì 02 novembre 2020. «Il comportamento delle persone ora che sono positiva al coronavirus fa più male del virus stesso». Questo lo sfogo di Gina Parisi (di Avetrana), infermiera in trincea che nella sua battaglia contro la pandemia è stata contagiata da uno dei numerosi pazienti che ha assistito. Ora che anche lei è infetta deve fare i conti con i fastidiosissimi e temibili sintomi della malattia e soprattutto con il pregiudizio della gente che le punta il dito come l'untrice del paese. «Sono disgustata e delusa», ripete l'infermiera che da una settimana, appena ha avuto l'esito del tampone, si è chiusa in casa con i suoi parenti. Gina lavora al pronto soccorso di un ospedale della provincia di Taranto (Manduria). È una delle più esperte e attente nel suo lavoro. E non è la sola ad essersi infettata nel suo ambiente. Ora però il suo problema è un altro.

Come ci si sente stando dall'altra parte?

«Naturalmente non è la prima volta che mi trovo a fare la paziente di me stessa, ma questa volta i dolori sono altri e non riguardano gli effetti del virus che prima o poi passeranno. Non passeranno le delusioni e la rabbia per alcuni comportamenti che mi hanno ferito».

Ce li vuole raccontare?

«Mi sono messa sempre a disposizione della gente che si rivolgeva a me per bisogno; certo, il nostro lavoro è questo, mai io credo di aver fatto molto di più di ciò che mi toccava e non credo che cambierò neanche dopo questa brutta esperienza. Accusano me e la mia famiglia di essere andati in giro sapendo di essere infetti e di aver seminato il virus rischiando di appestare il paese. Sono accuse che fanno male e che ti segnano. Prima le battutine sui social, poi accuse sempre più dirette che si palesano anche fuori da internet e fanno ancora più male».

Si sono comportate così anche persone che la conoscono?

«Io non conosco le persone che sparlano. Chissà, magari quelle stesse che, asintomatiche e infette a loro insaputa, mi hanno trasmesso il virus; perché è proprio questa la mia rabbia. Noi operatori della sanità siamo esposti al Covid ed anche alle persone che pur avendo avuto contatti a rischio ed hanno sintomi ce li nascondono per paura e per vergogna perché è questo il lato oscuro di questo maledetto virus: la gente ha vergogna a dire di essere contagiata, lo nasconde ed è su questi comportamenti che il coronavirus si moltiplica».

Lei ha sospetti di come potrebbe avere contratto il virus?

«Assolutamente no, può essere stato chiunque a trasmettercelo perché non sono l'unica. La mia è la voce degli infermieri e di tutti quelli che come me stanno passando questo brutto periodo. È vero che indossiamo sempre i dispositivi di prevenzione, mascherina, guanti e camice, ma il pronto soccorso e l'emergenza in genere non ti permettono mai la sicurezza al 100%. Chi non conosce il nostro lavoro non può capire, l'imprevedibilità è sempre in agguato. Un conto è sapere di avere a che fare con persone certamente contagiate, ma nei pronto soccorso anche chi viene per un mal di denti o per una caduta accidentale può essere un portatore asintomatico del virus».

Come giudica questa seconda ondata di contagi rispetto alla prima?

«Mi viene da dire che è più pericolosa questa e non lo dico perché mi è capitato adesso di essere contagiata. Per noi della provincia di Taranto che siamo stati fortunati a scansarcela nella prima ondata, la vera pandemia la stiamo conoscendo oggi. E questo mi fa paura perché sia noi sanitari che la gente potremmo cullarci o trovarci impreparati. Per non parlare delle stupidità di chi nega il problema. Sono più dannosi del coronavirus».

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2020. L'ultimo si chiamava Mirko Ragazzon, aveva 60 anni e due figlie. Era diacono nella parrocchia di Sant' Antonio a Brancaccio di Torre del Greco ed era un medico di famiglia. È morto il 24 ottobre nel reparto di rianimazione dell'ospedale del Mare di Napoli. I suoi colleghi, quando è passato il feretro, hanno improvvisato un picchetto d'onore con i camici indosso. È la vittima numero 183, tra i medici, dall'inizio della pandemia. Gli infermieri deceduti finora, invece, sono 44. Gli operatori sanitari che sono stati contagiati da quando si tiene la contabilità del coronavirus sono 42.071. Eppure queste persone sono passate da «eroi» a «collusi», «assassini», «bugiardi», «terroristi», «menagrami». Una settimana fa, di notte, nel parcheggio dell'ospedale Infermi di Rimini sono state vandalizzate una settantina di auto: finestrini spaccati, specchietti divelti, sportelli rigati. Dall'interno non è stato toccato niente. Andrea Boccanera, responsabile della sicurezza dei lavoratori dell'Ausl, al Resto del Carlino ha detto: «Non è certo il lavoro di un ubriaco o di qualche teppistello, è un attacco mirato contro i sanitari. La gente è sempre più esasperata e nervosa, forse ai loro occhi, con i nostri appelli sui social a rispettare le misure, creiamo allarmismo». I carrozzieri di Rimini e San Marino si sono offerti di riparare le auto gratis, l'assessore regionale alla Salute Raffaele Donini è andato a ringraziarli. Venerdì a Padova il presidente della Provincia, Fabio Bui, è stato fischiato quando ha espresso solidarietà per chi lavora in corsia ventiquattr' ore su ventiquattro. E il Mattino ha raccontato gli insulti che ricevono su Facebook medici e infermieri della Terapia intensiva. «La solita propaganda terroristica», «inizia a essere quasi giornaliera la foto della caposala, tra selfie e dichiarazioni varie, tra poco la vedremo da Barbara D'Urso», «ma stanchi di cosa?, fate solo il vostro lavoro come tanti altri», «bugiardi fate terrorismo». Fino al paradosso: «Questo lavoro lo avete scelto voi, gli eroi sono un'altra cosa». La presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, Barbara Mangiacavalli, è particolarmente avvilita dall'aggressività dei toni. Al telefono ci dice: «Non mi aspettavo questa violenza e questa acredine. Fin dai primi mesi abbiamo rifiutato la retorica degli eroi, ne comprendiamo il senso, ma siamo prima di tutto dei professionisti. Questi attacchi sono inaccettabili e la polizia postale dovrebbe intervenire per quel che è di loro competenza: invoco la tolleranza zero con chi insulta e addirittura ci minaccia». Gli infermieri, peraltro, sono stati i più vicini ai pazienti nel momento dell'ultimo saluto. In questi mesi hanno adempiuto a compiti che andavano ben al di là delle loro competenze e della loro formazione, sottoposti a uno stress emotivo che non prevede alcuna indennità in busta paga. Mangiacavalli insiste: «Essere accanto ai malati mentre se ne andavano ci ha lasciato una memoria di ricordi preziosissima e ha creato un legame privilegiato con i parenti, che poi hanno chiesto a noi qual era stato l'ultimo pensiero dei loro cari, se avevano ricordato i nipoti e i figli. Credo davvero che ci si debba fermare un attimo, i teatrini televisivi non ci stanno aiutando. Non dico di dare meno informazioni, ma di essere più cauti nel disegnare scenari sempre diversi. Altrimenti, se si sdoganano certe modalità di relazione più di pancia che di testa, il cittadino si sentirà autorizzato a replicarle».

DAGONEWS il 29 ottobre 2020. Ospedali italiani quasi al collasso. In 4 regioni - Lombardia, Piemonte, Lazio e Campania - i ricoverati con sintomi sono oltre il migliaio. Il Lazio ha già superato la propria capacità di posti letto, con le ambulanze ferme per ore nei parcheggi dei pronto soccorso. Le criticità non riguardano ancora le terapie intensive ma i posti ordinari. Ormai non si distingue più tra ospedali Covid 19 e non. Alla disperata ricerca di posti, i reparti vengono riconvertiti. Ma a mancare è anche il personale sanitario e per cercare di colmare questa pesante lacuna, una norma dello scorso mese di marzo, prevede che nel caso si venisse a contatto con individui positivi, bisognerebbe comunque proseguire la propria attività lavorativa, seppur sotto controllo. Un controllo che però non c'è come denunciano gli infermieri, che parlano di "una bomba ad orologeria" ben coscienti che i colleghi asintomatici possano contagiare personale e pazienti.

Ma alcuni infermieri e operatori del 118 denunciano - alla trasmissione Stasera Italia - una pratica non scritta che va oltre la norma del "semplice" contatto con individui positivi e che lascia a bocca aperta. Al personale sanitario infatti verrebbe richiesto di continuare a lavorare se si è positivi al Covid 19 ma asintomatici. Una pratica che molti di loro, in coscienza, rifiutano. Denunciando sintomi che non hanno pur di non andare a lavorare e rischiare di infettare qualcuno. E così una scelta impopolare come il lockdown, secondo alcuni sanitari, potrebbe essere l'unica soluzione per togliere questa soffocante pressione sugli ospedali. "O chiudiamo o crolla la sanità". 

Da ilgazzettino.it il 23 ottobre 2020. Il coronavirus ha colpito il cuore pulsante della macchina dei tamponi dell'azienda sanitaria trevigiana. Un nuovo focolaio è esploso proprio all'interno del dipartimento di Prevenzione che ha sede nel centro della Madonnina di Treviso. Sono emersi complessivamente 9 contagi tra il personale del servizio Igiene e sanità pubblica, Medicina legale, servizio Igiene degli alimenti e della nutrizione, Spisal e servizio Programmi di screening.

LA RICOSTRUZIONE. L'allarme è partito dal servizio Igiene e sanità pubblica, la cabina di regia del tracciamento delle persone positive nella Marca. Nei giorni scorsi un dipendente ha manifestato sintomi simil influenzali compatibili con l'infezione da Covid-19. Il tampone ha confermato il contagio. E così, parallelamente all'isolamento domiciliare, sono scattati i controlli sui colleghi di lavoro entrati in stretto contatto con lui. Tra questi, otto sono risultati a loro volta contagiati: 4 in Medicina legale, 2 nel servizio Igiene degli alimenti e della nutrizione, 1 allo Spisal e 1 agli screening. La scia di contagi ha stranamente colpito settori diversi, non solo persone che lavorano quotidianamente gomito a gomito. Da qui la decisione dell'Usl di avviare uno screening generale sui quasi 200 operatori della Madonnina. Non si parte da zero. Nelle scorse ore è già stato testato tutto il servizio Igiene e sanità pubblica. Sono state controllate complessivamente 60 persone. E tutte sono risultate negative. Un primo sospiro di sollievo, dato che il servizio diretto da Anna Pupo è più che mai strategico nel contrasto alla diffusione del Covid-19. Oggi toccherà a tutti gli altri: ci sono ancora circa 130 persone da controllare.

IL PUNTO. «La Madonnina resta aperta assicurano dall'Usl ora verrà applicato il protocollo ospedaliero con la ripetizione periodica dei test sugli operatori». La speranza è che il focolaio sia già stato circoscritto. In caso contrario si rischierebbero pesanti rallentamenti nell'attività di screening per il coronavirus. Come ha fatto il Covid a entrare nel dipartimento di Prevenzione che sorge in via Castellana, a due passi dalla strada Ovest? L'ipotesi avanzata dall'azienda sanitaria è che l'operatore del servizio Igiene e sanità pubblica sia stato contagiato in ambito familiare.  E che poi abbia diffuso il virus, ovviamente in modo inconsapevole, negli spazi comuni della Madonnina, come l'atrio, la zona delle macchinette del caffè e così via. Questo spiegherebbe l'andamento apparentemente puntiforme dei contagi. «Il primo contagio è avvenuto al 99% in ambito familiare fa il punto Francesco Benazzi, direttore generale dell'Usl della Marca dopo il primo screening generale, ci saranno controlli periodici sul personale tra 5 giorni, tra 10 giorni e tra 14 giorni». Non c'è il rischio che il primo operatore possa essersi contagiato proprio mentre eseguiva i tamponi? Il rischio zero non esiste. L'azienda sanitaria, però, tende a escludere tale ipotesi. «Gli operatori che eseguono i tamponi sono tra le persone più protette in assoluto», sottolinea il direttore generale.

L'APPELLO. In tutto ciò bisogna anche fare i conti con un altro contrattempo. L'Usl aveva lanciato un avviso pubblico per assumere 15 assistenti sanitarie a tempo determinato proprio per fare i tamponi. Ma alla fine se ne sono presentate solo 8. A novembre verrà pubblicato un nuovo avviso. Intanto bisogna stringere i denti. «Con le nuove assunzioni rafforzeremo il sistema di tracciamento dei casi positivi spiega Benazzi i numeri sono sempre più elevati. Anche se con qualche ritardo, nell'ordine di uno o due giorni, riusciamo comunque ancora a garantirlo. In caso di necessità, poi, andremo a ridurre attività diverse, come Medicina legale, per recuperare altre forze». Tutti si augurano che non serva.

IL BILANCIO. A livello generale, intanto, continuano ad aumentare i contagi. Ieri nel trevigiano sono emerse 125 nuove positività. Il totale delle persone che stanno attualmente combattendo contro l'infezione da coronavirus è salito a 2.115. Compresa un'operaia dello stabilimento Electrolux di Susegana, come evidenzia il gruppo sindacale Skatenati Electrolux, che il 10 ottobre aveva preso parte a un matrimonio trasformatosi in un focolaio con 28 contagi. Per i contatti stretti è scattata la quarantena precauzionale. Sempre ieri, inoltre, l'Usl ha portato a termine lo screening generale tra i lavoratori della cooperativa Co-Work, che opera per la società di logistica Xlog di Geox, dove si è arrivati a contare 48 positivi su 500 lavoratori. Il dato dei ricoverati, infine, resta in linea con quello di ieri. Al momento sono 57 i pazienti Covid positivi che hanno bisogno di cure ospedaliere. Due si trovano nella Terapia intensiva di Treviso, 24 sono ricoverati nelle unità di Malattie infettive e di Pneumologia dello stesso Ca' Foncello, altri 24 nella Medicina dell'ospedale di Vittorio Veneto e 7 nell'ospedale di comunità sempre di Vittorio Veneto. «Restiamo in fascia verde per quanto riguarda l'occupazione delle Terapie intensive», evidenzia Benazzi. E da oggi verranno riattivate le aree sub-intensive dei reparti Covid.

"Siamo usciti senza tamponi". Il giorno in cui esplose il virus. La rivelazione sui primi giorni di contagio. Il buco all'ospedale di Alzano: "Sembrava dovessimo scappare..." Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Giovedì 22/10/2020 su Il giornale. Pubblichiamo un estratto da Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni, 350 pagine, 20 euro), scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. Nei giorni successivi, all’ospedale di Alzano Lombardo, diventeranno positivi anche un primario e un caposala. Ed è proprio il pronto soccorso a finire nell’occhio del ciclone perché, dopo i primi allarmanti esiti dei tamponi, viene chiuso per la sanificazione, ma dopo solo un paio di ore viene riaperto. Succede tutto, nel giro di poche ore, la mattina del 23 febbraio. Delia, residente a Nembro, ha entrambi i genitori ricoverati in ospedale da diversi giorni. Passa a trovarli insieme al marito per dar loro una mano a mangiare. Giovanni, il padre, che da alcuni giorni ha la glicemia altissima, è in stato confusionale. Ad un certo punto sul cellulare di un compaesano, anche lui in reparto per assistere i propri cari, arriva un messaggio in cui si parla di un due casi di coronavirus nel nosocomio. Solo allora si accorgono che il via vai delle infermiere si è fatto sempre più frenetico e che la tensione sta aumentando di minuto in minuto. Quando il marito di Delia prova a tornare a casa, alla seconda rampa di scale viene fermato dagli infermieri e rimandato indietro. La comunicazione ufficiale tarda ad arrivare. Nel frattempo, però, le porte di uscita vengono sigillate e ai parenti dei malati vengono fornite mascherine chirurgiche. Fuori si può intravedere la calca di chi si presenta per le visite. Attraverso i vetri cercano di scambiarsi le poche informazioni che riescono a mettere insieme. Non hanno certezze. Ma, quando dalle finestre vedono giornalisti e cameraman aspettare davanti all’ingresso del Pesenti Fenaroli, capiscono che la situazione è davvero grave. Verso le cinque di pomeriggio le infermiere piombano nelle stanze del reparto. «Tirate su tutta la vostra roba – intimano – e uscite di qui». Non c’è tempo nemmeno per salutare i parenti. Il marito di Delia prova a prendere tempo. «Non posso – spiega – c’è mio suocero in bagno». «Deve andarsene assolutamente – insistono – lo lasci lì che, appena abbiamo tempo, ce ne occupiamo noi». «Non siamo nemmeno riusciti a salutarlo...», ci confida con rammarico Delia che, insieme al marito, lascia il nosocomio senza alcun tipo di controllo. Non viene nemmeno formulata l’ipotesi di sottoporli al tampone. «Andate direttamente a casa – è il suggerimento che viene loro dato – lavate i vostri vestiti e fatevi una doccia». Gli infermieri si limitano unicamente a farli passare da un’uscita secondaria per evitare la ressa che, nel frattempo, si è formata all’ingresso. «Sembrava quasi dovessimo scappare...», ci raccontano. Ovunque regna il caos. Le sensazioni dei Morotti trovano conferma nella testimonianza di Nadeem Abu Siam, medico palestinese di 29 anni che il 23 febbraio dovrebbe fare il turno di notte. Alle 17 gli arriva la prima telefonata: «Siamo chiusi, non venire in ospedale». Due ore dopo il telefono squilla di nuovo. Gli comunicano che deve presentarsi al lavoro. «Appena entrato nessuno sapeva cosa fare – confida – il flusso dei pazienti era ancora fermo. Fino a quel momento non avevamo mai usato mascherine in modo generalizzato e in tutto avevamo una decina di tamponi». Nei tre giorni successivi, inoltre, Delia continua a fare avanti e indietro dall’ospedale per portare il ricambio a entrambi i genitori. Il 27 febbraio, poi, la madre 82enne viene dimessa perché il tampone è negativo. Il suo, però, risulterà un falso negativo. Il 28, invece, è il padre a risultare positivo al test. L’incubo della famiglia Morotti era cominciato, però, a inizio mese, intorno al 10 febbraio, quando Giovanni viene portato per la prima volta al pronto soccorso di Alzano. Ha la febbre e la tosse gli toglie il respiro. La radiografia ai polmoni riscontra un inizio di focolaio. Viene, tuttavia, dimesso con una cura antibiotica. Nel frattempo anche la moglie inizia a stare male e per lei viene subito disposto il ricovero al Pesenti Fenaroli. Anche le condizioni di Giovanni peggiorano di giorno in giorno, nonostante le medicine che sta prendendo. «Gli si è ammalata la bocca», ci spiega Danilo, fratello di Delia. Perde completamente il senso del gusto e una violenta candidosi gli toglie l’appetito. Il 21 febbraio tornano, quindi, in ospedale e qui a preoccupare i medici sono soprattutto i valori del diabete. Da questo la decisione di ricoverarlo. Delia e Danilo riescono a vedere il padre 85enne un’ultima volta il 9 marzo, la sera prima che muoia. «Vostro papà è gravissimo», dice il dottore in una telefonata arrivata nel cuore della notte. «Se volete potete dargli un ultimo saluto, ma non toccate nulla... nemmeno il letto». In testa non ha più nemmeno il casco, la C–pap. Ha solo la mascherina. «Ho provato a chiamarlo due o tre volte – ci racconta Delia – ma non mi ha mai risposto». I medici hanno già iniziato a somministrargli la morfina. «Morire per soffocamento non è degno di un essere umano», gli spiega con pazienza un dottore. «Sarebbe come morire annegati... quindi stia tranquilla che lo accompagneremo con la morfina». Per altre ventiquattr’ore andrà avanti a lottare tra la vita e la morte. «Secondo me – taglia corto Delia – di quel reparto lì, ne sono rimasti in vita davvero pochi...». Il 13 marzo anche la madre si aggrava. Questa volta l’ambulanza la porta al pronto soccorso dell’ospedale di Seriate. I medici non la porteranno nemmeno in reparto: morirà lì tre giorni dopo. «Nel frattempo mi sono ammalato io di polmonite bilaterale», ci racconta Danilo a cui non sarà mai fatto il tampone. «Non è necessario – gli spiegano – dal momento che non ha crisi respiratorie». Per guarire, oltre agli antibiotici, un medico dell’ospedale San Raffaele di Milano gli prescrive anche l’antimalarica che, nel giro di un paio di giorni, gli spegne la febbre. Pure Delia si ammala, ma in forma molto lieve. Insieme a lei anche l’altra sorella e la nipote.

Potenza, entra in ospedale per partorire ed esce contagiata dal Coronavirus. La donna ha partorito nel reparto di Ostetricia e Ginecologia dove si è sviluppato un focolaio. Massimo Brancati il 18 Ottobre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Entra in ospedale per partorire ed esce con il virus in corpo. È travolta da sentimenti contrastanti: la felicità per aver dato alla luce il figlio e la rabbia per aver contratto l’infezione Covid-19 in un luogo che dovrebbe essere ultra-sicuro. A raccontarci la sua esperienza è una giovane donna della provincia di Potenza, di cui evitiamo di rendere noto le generalità, che la settimana scorsa ha partorito nel reparto di Ostetricia e Ginecologia del San Carlo di Potenza.

Ricostruiamo l’accaduto. Lei quando è entrata in ospedale?

«Sono stata ricoverata giovedì scorso e appena arrivata mi hanno fatto il tampone che è risultato negativo».

Quando è stata dimessa?

«Ho partorito e sono uscita domenica pomeriggio».

Prima di uscire le hanno rifatto il tampone?

«Macché. Niente. Ho appreso dai giornali quello che era successo in Ostetricia, con il contagio del personale. Nessuno mi ha chiamata, eppure io sono stata lì in quei giorni. Ho deciso di rivolgermi a un laboratorio privato per sottopormi al tampone e l’esito purtroppo è positivo».

Quindi ritiene che il virus l’abbia contratto proprio in Ostetricia?

«Certo, non ci sono dubbi. Io stavo bene e dopo essere uscita dall’ospedale sono andata a casa da dove non mi sono mossa. Sono veramente arrabbiata per quello che è accaduto, non è possibile che uno entri in ospedale ed esca infettato».

Avrà certamente letto delle polemiche sulla festa di un’ostetrica. La direzione ospedaliera ritiene che sia stata lì l’origine del contagio...

«Sciocchezze. Mi dovrebbero spiegare allora perché sono stata contagiata anch’io che mi trovavo in ospedale prima della festa di sabato scorso. Il virus era nel reparto, non raccontassero favole».

Ha avuto contatti con un’ostetrica in particolare?

«Con diverse. Devo dire che stavamo tutti in reparto sempre con la mascherina sia noi pazienti che loro».

Insomma, nonostante le precauzioni ha preso il virus...

«Già, non so come possa essere accaduto. Ma un fatto è certo: in reparto qualcuno era già infetto. Sono preoccupata per me, per mio figlio, i miei familiari, ma anche per tutti gli altri bambini che hanno avuto contatti con le ostetriche. Intendiamoci, non me la prendo con loro, ci mancherebbe. Io lancio un’accusa alla direzione sanitaria che evidentemente non ha previsto di fare tamponi nei reparti. Andrebbero eseguiti ogni tre, quattro giorni».

Come fa adesso con il suo piccolo?

«Spero di continuare ad essere asintomatica. Nel frattempo faranno i tamponi tutti della mia famiglia. Mi auguro che mio figlio non sviluppi l’infezione. Ma questa storia deve far riflettere sulla gestione dei reparti ospedalieri e sul fatto che se non avessi letto del caso di Ostetricia avrei potuto infettare mezzo paese».

Medici positivi, torna l'allarme. Focolai per matrimoni e rave. Ieri altri 5.456 casi, con 30 ricoveri in terapia intensiva. Tra i dottori primi casi di contagio in corsia e in famiglia. Patricia Tagliaferri, Lunedì 12/10/2020 su Il Giornale. Torna l'ansia quotidiana da bollettino. Quanti contagi ci saranno oggi? Ci sarà un nuovo lockdown? Con un occhio ai numeri del ministero della Salute e un altro alla politica che, in base a quei dati, decide quale pezzetto della nostra libertà sacrificare ogni volta per frenare la corsa del Covid. Passata la tregua estiva ci troviamo di nuovo nella fase in cui aspettiamo di sapere di quanto è salita ancora la curva epidemiologica, aspettando un'inversione di tendenza che ormai potrà arrivare soltanto quando si cominceranno a vedere gli effetti dell'ulteriore stretta in arrivo. Ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Un numero leggermente inferiore a quello del giorno prima, ma perché sono stati eseguiti 28.426 tamponi in meno, come accade sempre nel fine settimana. I ricoverati con sintomi sono saliti a 4.519 (183 in più in 24 ore) e purtroppo aumentano anche quelli in terapia intensiva: nelle ultime 24 ore si è arrivati a 420, con un incremento di 30 rispetto a sabato. È il dato che viene monitorato con più attenzione. Per il momento non è paragonabile con i numeri di fine marzo, quando gli ospedali non riuscivano a sostenere gli arrivi dei pazienti più gravi, ma il sistema sanitario non può permettersi di finire nuovamente in affanno. Tanto più ora che comincia a riproporsi il problema della diffusione dei contagi tra i medici. Sicuramente non ci sarà una nuova Caporetto nella categoria, come nei mesi più duri della prima emergenza perché gli operatori sanitari conoscono meglio il nemico da combattere e sanno come difendersi, ma i casi non mancano, anche legati alle infezioni intrafamiliari, che adesso sono quelle che preoccupano di più. Dopo la vicenda della festa privata in corsia, senza mascherine, nell'ospedale pediatrico Giovanni XVIII di Bari, per la quale 12 medici e 8 infermieri rischiano un procedimento disciplinare, la Regione Puglia è corsa ai ripari inviando agli operatori sanitari delle linee guida che vietano festeggiamenti vari, in luoghi improvvisati e al di fuori di ogni protocollo di sicurezza, mentre indossano il camice. È al sud, comunque, per lo più risparmiato dalla prima ondata, che si stanno registrando diversi contagi in ospedale: 17 nella clinica Mater Dei di Bari, 4 al Policlinico Riuniti di Foggia, 3 al Moscati di Avellino, 2 all'ospedale di Carbonia, in Sardegna. Ora la geografia del virus è cambiata, è diffuso su tutto il territorio. Il rialzo dei casi interessa il sud come il nord. La Lombardia ha scansato la Campania dal vertice delle regioni con il maggior incremento. Nelle ultime 24 ore si sono registrate 1.032 nuove infezioni, la maggior parte concentrate nel milanese (460) e a Milano città (211). Lieve calo in Campania (633), seguita da Toscana (517) e Veneto (438). I decessi sono stati 26. Cresce il numero dei focolai da monitorare. Il virologo Fabrizio Pregliasco ha detto che sono diffusi in 104 province. Dopo l'ultimo, con 13 positivi, legato ad un matrimonio con 200 invitati a Monte di Procida (Napoli), nel comune dei Campi Flegrei è scattato un mini lockdown, con la chiusura di scuole, parchi pubblici e il divieto di fare sport. A Ladispoli, invece, sul litorale di Roma, una sessantina di persone tra bambini e adulti è finita in quarantena dopo due feste di compleanno organizzate, scrive il Messaggero, dalla mamma di un bimbo di 8 anni nonostante avesse tosse e febbre. Mentre il governo valuta strette alla movida e le discoteche rimangono chiuse, i giovani trovano altre strade per divertirsi rischiando di fare impennare i contagi. Sabato a Settimo Torinese, nell'hinterland del capoluogo piemontese, è stato scoperto un rave party con 300 persone in una fabbrica abbandonata. Un altro, sempre con centinaia di giovani, è stato sventato nel novarese.

 (ANSA il 10 ottobre 2020) Baci e abbracci, senza indossare le mascherine di protezione obbligatorie in corsia, durante una festa privata organizzata in un reparto dell'ospedale Pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Le foto scattate dai protagonisti sono finite su facebook e, adesso, 12 medici e otto infermieri rischiano un procedimento disciplinare e persino una denuncia penale per interruzione di servizio pubblico. La festa privata, secondo la ricostruzione della direzione sanitaria dell'ospedale pugliese, infatti sarebbe avvenuta durante l'orario di servizio: l'indagine interna è partita venerdì sera, quando le fotografie sono finite sulla scrivania del direttore generale Giovanni Migliore: "Si tratta di un comportamento inaccettabile, per usare un eufemismo, e assolutamente irresponsabile", taglia corto il manager aziendale che ha dato immediatamente mandato di svolgere gli accertamenti per andare sino in fondo alla vicenda. In un momento in cui tutti gli ospedali sono in stato di massima allerta per l'emergenza coronavirus e le cliniche sono "blindate" per limitare i rischi di contagi, venti tra medici e infermieri che, senza indossare i dispositivi di protezione individuale, brindano e si abbracciano in corsia ha provocato imbarazzo all'intera struttura ospedaliera. Non è ancora chiaro cosa il gruppo di dipendenti stesse festeggiando, anche questo è un elemento su cui dovrà fare chiarezza la commissione procedimenti disciplinari che è stata incaricata di effettuare le verifiche e ascoltare tutti i protagonisti. Nel frattempo, la direzione sanitaria del Giovanni XXIII ha acquisito la documentazione fotografica che gli stessi dipendenti sanitaria avevano provveduto a pubblicare sui social network, come se nulla fosse. Grazie alle foto finite su facebook, la struttura ospedaliera è riuscita a identificare tutti i partecipanti. La commissione ascolterà anche il primario del reparto, al quale è stata già chiesta una relazione istruttoria. "E' evidente - prosegue Migliore -che c'è stato un mancato rispetto delle regole anti Covid, dal mancato distanziamento al corretto utilizzo dei dispositivi di protezione e delle procedure di prevenzione e controllo dell'infezione". Secondo la direzione sanitaria, la festa ha finito per mettere "a repentaglio la sicurezza degli operatori e la continuità delle cure". Ma la commissione d'indagine interna dovrà accertare anche se possa essersi verificata "una interruzione di pubblico servizio o altra condotta penalmente rilevante che darebbe luogo ad una responsabilità di natura penale, oltre che disciplinare". "Se così dovesse essere, trasmetteremo alla Procura tutta la documentazione in nostro possesso per l'accertamento delle responsabilità individuali", annuncia Migliore. Le verifiche saranno rapide, assicurano dalla direzione dell'ospedale. "Sono già partite ieri sera - spiega Migliore - non appena ho ricevuto le foto con una prima breve relazione. Attendiamo l'esito degli accertamenti, ma quello che è evidente è che si tratta di un episodio inaccettabile".

Record di casi positivi in Puglia: persone contagiate in corsia. Il Corriere del Giorno l'8 Ottobre 2020. Cinque mesi dopo la riapertura delle frontiere nazionali e dei confini regionali e la ripresa delle scuole e di tutte le attività economiche, il bollettino regionale segnala 3.133 positivi. Il numero dei contagi è aumentato in misura esponenziale nonostante ci si trovi soltanto all’inizio della seconda fase prevista della pandemia. Quando si andava alla riapertura dopo il “lockdown” lo scorso 3 maggio, in Puglia c’erano 2.955 positivi al Covid-19, numero che fu il picco raggiunto nella prima ondata della pandemia. I 196 contagi in un giorno solo non raccontano tutto, infatti lentamente i numeri dei casi positivi sono scesi, sino all’annuncio trionfale di Emiliano e Lopalco di “Puglia regione Covid free“. Ai nostri giorni cinque mesi dopo la riapertura delle frontiere nazionali e dei confini regionali e la ripresa delle scuole e di tutte le attività economiche, il bollettino regionale segnala 3.133 positivi. Il numero dei contagi è aumentato in misura esponenziale nonostante ci si trovi soltanto all’inizio della seconda fase prevista della pandemia. Va segnalata una valutazione rilevante che può confortare in merito ai dati dei ricoveri: lo scorso 3 maggio negli ospedali pugliesi erano 410 i casi positivi , dei quali 40 erano i ricoverati nei reparti di terapia intensiva Covid; oggi sono 251 di cui 23 quelli in rianimazione, grazie al fatto che sono numerose le persone giovani contagiate. Esiste però il pericolo ed il rischio che i casi possano crescere, come verificatosi la scorsa primavera, alimentando una nuova epidemia tra malati cronici e persone anziane, che costituiscono i soggetti più fragili ed esposti. La situazione negli ospedali al momento appare ancora sotto controllo, ma non è da sottovalutare in quanto il quadro potrebbe mutare rapidamente. “Il virus circola e circola con grande intensità . È evidente che la ripresa di tutte le attività in tempo di pandemia, la riapertura delle scuole, il ritorno delle vacanze, hanno determinato un innalzamento dei contagi. La struttura ospedaliera pugliese, comunque, sta reggendo bene anche se, com’è ovvio, c’è grande attenzione nel rafforzarla ulteriormente. Si tratta in gran parte di persone asintomatiche o paucisintomatiche, quindi al momento non c’è uno stress della struttura ospedaliera e nessuna particolare preoccupazione” ammette Michele Emiliano riconfermato presidente della Regione Puglia. Sono però necessari interventi correttivi, soprattutto in alcuni settori come i trasporti: “Bisognerà prendere dei provvedimenti non solo mettere la mascherina sempre quando c’è un contatto ravvicinato con altre persone. Bisognerà fare in modo, ad esempio, che il trasporto scolastico possa essere meno stressato, ipotizzando anche orari delle lezioni sfalsati” dice Il presidente Emiliano che critica il Governo Conte: “I mezzi pubblici non sono aumentati anche perché il governo non ha ritenuto di stanziare nemmeno un euro per rafforzare il sistema“. Oltre ai contagi è aumentata parallelamente anche la possibilità di effettuare tamponi in Puglia. Ieri ne sono stati effettuati 4.822, ed anche questo numero rappresenta un record. 68 dei nuovi casi, riguardano la provincia di Bari, 7 la provincia Bat, 80 i casi nella provincia di Foggia, 3 nella provincia di Brindisi, 10 nella provincia di Lecce, e 27 nella provincia di Taranto. I pazienti guariti sono 4.883 (+54 rispetto a martedì) mentre sono 3.133 i casi attualmente positivi (+142), 274 dei quali ricoverati (+9) e 2859 a domicilio (+ 133). Soltanto lo 0,7% degli attuali positivi, è ricoverato nelle terapie intensive e l’8% negli altri reparti. “Come abbiamo imparato in tanti mesi di esperienza non è il dato di una giornata che deve essere valutato, ma l’andamento della curva nel suo complesso. Il dato di ieri è legato alla casuale coincidenza di un aumento di casi in due province. È una situazione da monitorare attentamente che deve comunque invitare tutti noi alla massima attenzione e prudenza” commenta il professore Pierluigi Lopalco, ex-consulente di Emiliano che lo ha nominato nuovo assessore regionale alla Salute. I casi aumentano a partire dagli ospedali alle scuole, senza tralasciare le Rsa, : sono stati 17 dipendenti tra medici e infermieri del reparto di Riabilitazione della clinica “Mater Dei” di Bari a risultare positivi al Covid-19. Nel capoluogo regionale, sono stati accertati 35 contagi nella Rsa “Oasi Santa Fara“, 20 dei quali riguardano degli anziani ospitati nella struttura, mentre sono 15 i contagiati tra gli operatori sanitari . Una pizzeria a Bari è stata costretta alla chiusura dopo la positività riscontrata a due dipendenti, e la ASL sta cercando di ricostruire la catena dei contatti richiamando anche i clienti. Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’OMS l’ Organizzazione Mondiale della Sanità, presente ieri a Bari in occasione del Forum “Mediterraneo Sanità” che si è tenuto presso la Fiera del Levante ha ricordato che “Gli ospedali non possono essere la prima linea di una risposta di una pandemia del genere, ma non dovevano essere la prima linea neanche come risposta alla normale influenza negli anni passati». Guerra ha lanciato l’allarma anche per il rischio di contagi nelle scuole: “Siamo all’inizio, è fondamentale che le misure di sicurezza predisposte all’interno degli istituti vengano garantire anche nel tragitto casa-scuola e viceversa“.

Coronavirus, sette tra medici e infermieri infettati ad Aprilia. Torna l'incubo degli ospedali-incubatori. Pubblicato mercoledì, 07 ottobre 2020 da Clemente Pistilli su La Repubblica.it Il cluster all'interno della casa di cura "Città di Aprilia", la principale struttura sanitaria della zona. Il focolaio partito da un chirurgo durante un intervento. Altri casi a Latina. Ospedali incubatori del virus. Torna l'incubo della prima ondata. La notizia è di queste ore: sette medici e infermieri sono stati infettati dal coronavirus nella casa di cura "Città di Aprilia", a Latina, dove  la nuova ondata del Covid si fa sempre più preoccupante e dove dal bollettino diramato ieri sono emersi altri 49 positivi, crescono in maniera preoccupante i contagi e torna a infettarsi pure il personale sanitario. Nella casa di cura apriliana, di fatto una sorta di ospedale in cui affluiscono pazienti dalla seconda città della provincia pontina e dal litorale romano, stando alle prime indagini svolte dall'Asl, il Covid ha colpito un infermiere della sala operatoria e un medico, che avrebbero poi infettato i colleghi. Gli accertamenti sono in corso ed è ancora presto per sapere se sono stati contagiati anche altri operatori sanitari e i pazienti. Problemi da giorni si stanno però manifestando anche all'ospedale "Goretti" di Latina, una città dove all'inizio della pandemia è anche deceduto un medico vittima del coronavirus e dove dieci giorni fa ha riaperto il reparto Covid, che dato il numero dei ricoveri è stato poi ben presto ampliato, con il risultato che vi sono ora pazienti ricoverati in tale reparto, in quello di malattie infettive e in un secondo spazio ricavato per far fronte all'emergenza. Al "Goretti" appunto sono risultati positivi un infermiere e un medico proprio del reparto di malattie infettive. Un altro infermiere della sala operatoria è poi risultato positivo al primo tampone e negativo al secondo, per cui è ancora da accertare se sia stato anche lui contagiato, e nei giorni scorsi positiva è risultata una dottoressa del reparto di otorinolaringoiatria. "Si tratta di contagi - specifica  il direttore generale dell'Asl di Latina, Giorgio Casati - avvenuti, in base a quanto sinora abbiamo potuto verificare, in ambito non ospedaliero". L'attenzione è comunque massima. Sono scattate le quarantene e sono stati eseguiti numerosi tamponi su medici e infermieri. Per evitare che il virus dilaghi ulteriormente e temendo che le Rsa tornino a trasformarsi in incubatori, l'Azienda sanitaria sta intanto attivando un protocollo sperimentale per controllare tutti gli anziani ospiti di tali strutture due volte al giorno e valutare così subito eventuali interventi utili a stroncare sul nascere possibili cluster. L'Asl inizierà con la Rsa dell'Icot e se i risultati ottenuti saranno buoni farà lo stesso con tutte le altre strutture della provincia. "Ricorreremo alla telemetria", precisa il direttore generale Casati.

Giulia Di Leo per la Stampa il 13 settembre 2020. Un medico è andato a lavorare con la febbre. Diceva che era una semplice influenza, poi la scoperta del Covid. È successo nel reparto di Ginecologia e Ostetricia dell' Ospedale Santi Antonio e Biagio di Alessandria. L' uomo ora è ricoverato, e le sue condizioni sono serie. Ora si farà il tampone a tutti quelli che sono entrati in contatto con lui. Resta da capire come abbia potuto eludere i controlli. A chiunque viene misurata la febbre: luce verde se la temperatura è sotto i 37,5 gradi, altrimenti con la luce rossa si torna a casa. Il medico con il Covid sarebbe riuscito a entrare addirittura con 38,5 di febbre, e ha pure lavorato in reparto. Non è ancora chiaro quali siano i giorni in cui ha lavorato benché febbricitante. Dall' ospedale arriva la conferma dei controlli a personale e pazienti del reparto. In una nota in cui vengono spiegate le procedure attuate, l' azienda ospedaliera precisa di aver già effettuato i tamponi. «L' obbligo di utilizzo dei dispositivi di protezione indivisuale vigente tutela la diffusione del virus tra pazienti e operatori - precisano -. Stiamo procedendo con i protocolli di sicurezza. Inoltre, sono previste specifiche indicazioni per operatori e visitatori che prevedono che a ogni ingresso sia rilevata la temperatura corporea ed effettuata l' igiene delle mani. A ogni accesso è stato predisposto un checkpoint con la presenza di personale, fornita di termoscanner e gel antisettico per le mani. L' uso dei dpi è obbligatorio per tutta la permanenza in ospedale e qualora gli operatori non seguissero le indicazioni fornite, a seguito di precise verifiche, sarà compito dell' Azienda avviare le azioni dovute». «Ci auguriamo che questo non sia il frutto di una falla dei controlli», dicono intanto dal Tribunale per i diritti del Malato di Alessandria, dove da giorni il telefono squilla incessantemente. A chiamare sono i parenti dei ricoverati, perlopiù anziani e con difficoltà cognitive, che sono ormai arrivati all' esasperazione perché non possono far loro visita e lamentano la carenza di comunicazioni anche da parte degli ospedali. Tutte difficoltà dovute alle grandi restrizioni anti-contagio: «È giusto che le regole valgano per tutti, non solo per i pazienti e i famigliari».

Guido Bertolaso a In Onda: "Così ho preso il Covid", quello che nessuno ha avuto il coraggio di fare. Libero Quotidiano il 29 agosto 2020. Guido Bertolaso è ospite di In Onda, la trasmissione condotta da Luca Telese e David Parenzo su La7. L’ex capo della Protezione Civile è tornato a parlare della sua esperienza diretta con il coronavirus, aggiungendo dettagli inediti su come lo ha contratto durante la collaborazione con la Regione Lombardia per la gestione dell’emergenza. “È stata un’esperienza scioccante, drammatica - ha dichiarato - io sono un soggetto a rischio vista l’età che ho, quindi quando ho scoperto di aver contratto il Covid mi sono molto preoccupato. L’ho preso visitando un ospedale perché volevo capire meglio come allestire e gestire un reparto di terapia intensiva in un momento così drammatico”. Bertolaso ha quindi fatto una cosa che nessun altro ha avuto il coraggio di fare: “Ero andato a salutare medici e infermieri, a parlare con loro visto che nessuno andava per paura del contagio. L’ho contratto in quel momento, ma dovevo capire e poi non ho infettato nessuno e l’ospedale alla Fiera è stato realizzato nei tempi previsti”. 

"Non devi essere risultato positivo". Lo Stato e la beffa ai medici-eroi. I giovani dottori in prima linea contro il Covid. Il Miur pubblica il bando di specializzazione: rischio trappola. Giuseppe De Lorenzo, Sabato 01/08/2020 su Il Giornale. Neolaureati eroi ieri, a rischio beffa oggi. Il diavolo - si sa - spesso si nasconde nei dettagli. E migliaia di giovani dottori oggi quel demone temono di averlo visto scritto nero su bianco nel bando ministeriale che divide le loro vite dal sogno della professione medica. Per partecipare al concorso infatti devono assicurare di “non essere risultati positivi al Covid-19” e di non essere stati recentemente a contatto con qualche infetto. E così chi tra loro si è speso in prima linea contro il virus, ora vive l’incubo di trovarsi fregato. In termine tecnico: cornuto e mazziato. Lo scorso marzo il dl “Cura Italia” li aveva abilitati per decreto e spediti al fronte senza tanti fronzoli. Freschi di laurea, molti giovani dottori hanno risposto alla chiamata alle “armi”: hanno stipulato un’assicurazione e si sono messi a disposizione delle Regioni. Nelle guardie mediche, nelle Usca a curare pazienti infetti a casa, nei servizi territoriali, nei centralini a rispondere alle chiamate disperate dei malati o a sostituire i colleghi più esperti come medico di famiglia. Un lavoro passato forse in sordina, ma decisamente utile nel pieno dell’emergenza coronavirus. Nei giorni scorsi il Miur ha pubblicato il tanto atteso bando per le specializzazioni. Migliaia di posti a concorso (si parla di appena 14.400) e troppi candidati, che dovranno fare a pugni per ottenere un posto. Niente di nuovo sotto al sole, se non fosse che questo è il maledetto anno del coronavirus. Dunque anche per gli aspiranti dottori il concorso sarà diverso dagli altri. Tra gli allegati al bando, infatti, ne appare uno dedicato interamente allo svolgimento dell’esame. Ovviamente tutti i candidati dovranno “rispettare scrupolosamente le misure di distanziamento”, portare mascherine, guanti e tutto il resto. Ma soprattutto dovranno presentare una dichiarazione in cui, pena conseguenze penali, dovranno dichiarare “di non essere sottoposti alla misura della quarantena” (e ci sta), di “non essere risultati positivi al Covid-19”, di non avere la febbre oltre 37,5° e “di non aver avuto contatti negli ultimi 14 giorni con persone risultate affette” da Sars-CoV-2. Ora, come detto il diavolo sta nei dettagli. E quel “non essere risultati positivi al Covid” non spiega se la misura vale per chi “in quel momento” è positivo o se riguarda anche il passato. Cioè: se l’ho avuto due mesi fa, non posso partecipare? E poi non essere stati vicini a un positivo può essere difficile per chi si è tirato su le maniche e sta dando una mano nelle Usca varie o in guardia medica. Il rischio beffa è dietro l’angolo. L’associazione ALS ha messo nero su bianco queste preoccupazioni. “Il Ministero della Salute ha più volte dichiarato che durante la pandemia molti giovani medici hanno contratto il virus per carenza di DPI - scrive - se un neolaureato impiegato nelle USCA ha contratto il Covid il 1° maggio non potrà partecipare al concorso anche se poi ha avuto due tamponi negativi?”. E ancora: “Non aver avuto contatti negli ultimi 14 giorni significa" indurre "dimissioni in massa di migliaia di medici impiegati nelle USCA, guardie mediche, sostituzioni di medicina generale". "Questi contratti sono a tempo - racconta al Giornale.it un medico che chiede l'anonimato - Quelli trimestrali e annuali si possono sospendere dando un preavviso di 30 giorni. Chi è che andrà a lavorare con il rischio di essere esposto? I neoabilitati daranno forfait, tutte queste postazioni resteranno vuote e forse non si riuscirà a garantire il servizio". Domande lecite, che fanno apparire il bando come “una trappola per ricorsi, con il rischio paralisi”. “Ragazzi scusate, ma chi è stato positivo al Covid come fa a fare l’iscrizione?”, si domanda una aspirante. Anche il Segretariato Italiano Giovani Medici (SIGM) ha sollevato le stesse problematiche e, come conferma al Giornale.it, ha già chiesto chiarimenti al ministero. Qualche medico ha pure provato a informarsi al Cineca, senza grossi risultati: “Il modello sarà fornito dal Ministero e non abbiamo alcuna indicazione al riguardo”. Intanto anche una delegazione del Pd e del forum sanità dei giovani dem è andata dal ministro Gaetano Manfredi per chiedere delucidazioni e modifiche alle frasi dubbie. Il rischio, altrimenti, è che ad essere beffati possano essere quei giovani medici che ogni giorno lavorano (e combattono) contro il virus. Uno smacco.

La denuncia. Da angeli ad appestati, operatori 118 cacciati da bar: “Non potete usare il bagno”. Redazione de Il Riformista il 18 Maggio 2020. Da angeli e supereroi del coronavirus ad appestati. Inizia in salita la Fase 2 per gli operatori del 118 a Napoli vittime di un episodio spiacevole avvenuto intorno alle 9 di questa mattina, lunedì 18 maggio. “Voi non potete usare il bagno” è questa la risposta fornita dal gestore di un bar alla postazione India del 118 che, dopo un intervento, si è fermata in un bar della centrale via Toledo per prendere due bottigliette d’acqua. Dopo aver pagato, l’operatore, considerato che l’ambulanza in questione non ha una postazione fissa con servizi igienici, chiede indicazioni per il bagno ma riceve l’inattesa risposta. A denunciare l’accaduto è l’associazione Nessuno Tocchi Ippocrate, da anni in prima linea per denunciare aggressioni e comportamenti incivili nei confronti dei sanitari di pronto intervento. “Dopo tale rifiuto l’equipaggio, basito e senza replicare, rientra in ambulanza e si allontana. Complimenti al gestore” commenta l’associazione. Non è la prima volte che, durante l’emergenza coronavirus, si verificano episodi del genere nei confronti del personale sanitario. Lo scorso 9 aprile, nel pieno della pandemia, Maurizio De Mauro, direttore dell’Azienda dei Colli di Napoli che comprende gli ospedali Monaldi-Cotugno-Cto, denunciò gli atti discriminatori che subivano i dipendenti dell’ospedale: “Qualcuno li ha considerati appestati, mi stringo vicino ai miei medici, infermieri e oss perché sono degli eroi, andrebbero abbracciati e non discriminati”. Il riferimento era ai problemi che hanno incontrato alcuni operatori dell’ospedale nel rientrare nelle proprie abitazioni e, dopo una giornata di duro lavoro, venivano tacciati come possibili untori dai loro vicini di casa. Un altro episodio assai spiacevole è andato in scena stamattina. Un dipendente dell’Azienda dei Colli è arrivato in taxi in ospedale: quando il tassista si è reso conto della destinazione ha iniziato a insultarlo pesantemente. Dura la reazione di Di Mauro: “C’è stato qualche nostro operatore discriminato perché lavora nei reparti dove si trattano malattie infettive. Questo non è corretto, non è giusto, anche perché abbiamo dimostrato al mondo di usare le tutele necessarie per non infettare noi stessi e non creare alcun disagio agli altri”.

Infermiere, da eroine a razza dannata. Gioacchino Criaco su Il Riformista il 27 Giugno 2020. Non diamo la mano alle infermiere, in Italia. Meno peggio che in Francia, lì, a Farida, infermiera, in piazza a protestare per i diritti del personale sanitario, le hanno messo gli scarponi sulle mani, in faccia i manganelli, e invece delle carezze fra i ricci le hanno infilato artigli guantati per farle assaggiare la polvere, dopo la gloria tributatale nelle fasi più acute della pandemia.  In Italia le infermiere sono più discrete nelle rimostranze, i ritocchi economici li chiedono con pudore. Così, sfacciatamente glieli negano. Erano stati promessi loro bonus generosi che a curva covid in discesa sono diventati elemosine. Ma il trattamento economico non è il costume più mortificante, è che alle infermiere non si dà la mano: molte per mesi non sono tornate a casa, per non mettere in pericolo i famigliari o, tornando, si sono confinate in spazi minuscoli conducendo vite separate dai propri cari. I condomini, i vicini, hanno regalato sorrisi e saluti, solo da lontano, per tenere a distanza il male. E non è una vita facile, in ospedale i mostri bazzicano per tutti i giorni dell’anno, hanno nomi diversi dal covid, ma sono tanti, minacciano le infermiere e chi sta a contatto con loro. La loro professione le ha trasformate in una razza, quasi, verso cui utilizzare cautela, sempre. Che poi sono uomini e donne, eppure, per un riflesso culturale, dove c’è assistenza tutto va declinato al femminile: che la donna assiste e l’uomo riceve le attenzioni. E infatti il termine più usato in tempi recenti, verso il personale sanitario, è eroine, l’immaginario si è fissato sulle donne che assistono, così pure le gigantografie, i post sui social hanno violato le regole sul genere e si sono indirizzati a loro, sempre e solo infermiere pure se erano dottoresse, o.s.s., infermiere generiche o laureate, addette alle sanificazioni, operatrici tecniche. L’emergenza non è durata così a lungo da erigere loro statue, e statue dedicate alle donne, in genere, non è che ce ne siano tante in giro, pure per buttarle giù come un Montanelli qualsiasi, che se avesse brutalizzato un bambino non ci sarebbe stata una statua su cui discutere, e non ci sarebbero stati né usi né costumi, né epoche o anni ad attenuarne l’orrore che riesce invece a trasformare in donna una bambina: buona ad assistere, accudire, servire il guerriero. Fare l’amore con le infermiere è solo una leggenda metropolitana, per quanto sorridano, siano dolci, nelle corsie sono ricoperte dai nostri odori, umori, assorbono i nostri dolori, e con loro non siamo mai eccessivamente ossequiosi: di solito le trattiamo come il personale di un albergo, e se non sono leste a servirci, velocemente le ammoniamo col mantra dell’italiano medio, mediocre: “con le mie tasse le pagano lo stipendio”. Sì, è una fortuna che le infermiere in Italia non siano decise nelle rimostranze economiche. Come in Francia, come per Farida, sarebbe l’occasione giusta per accorciare le distanze fisiche, per sbattere loro la mano, da una parte qualunque.

ELISABETTA ANDREIS per il Corriere della Sera il 18 giugno 2020. La chiamata, nell'emergenza più cupa, aveva scosso tutta l'Italia. Da Nord a Sud infermieri e operatori sanitari avevano risposto all'appello di Regione Lombardia per essere arruolati nel nuovo ospedale dedicato al Covid realizzato in Fiera di Milano. A tutti gli assunti, dal primo giorno di servizio (7 aprile), è stato garantito l'alloggio spesato dalla Regione, in hotel. Era stato fatto firmare un foglio con la richiesta di mantenere quella condizione fino alla fine del contratto d'emergenza, fissato per quasi tutti al 31 luglio o, in qualche caso, al 30 settembre. Ed era stato dato a intendere fosse tutto a posto in quel senso. Venerdì scorso, però, la doccia fredda. Una ventina di infermieri, più gli operatori socio sanitari e diverse figure di supporto, si sono sentiti dire dalla reception dei loro hotel: «Entro due giorni dovete lasciare le camere, a meno che non vogliate pagarle di tasca vostra. La Regione ci chiede il check out entro 48 ore». Gli albergatori stessi si sono trovati spiazzati nel comunicare la notizia, figuriamoci i professionisti, quasi tutti giovani. Qualcuno ha trovato in fretta e furia un alloggio a pagamento («Sono andato ad abitare da un collega in un monolocale, ma non me lo posso permettere», riferisce un operatore che vuole rimanere anonimo, come tutti gli altri, per timore di ripercussioni). Qualche altro si è spostato al refettorio a pagamento del Policlinico, dove i professionisti sono stati ricollocati quando a sorpresa, il 5 giugno, la struttura inaugurata in pompa magna (e con grandi spese) alla Fiera ha chiuso i battenti, dopo soli due mesi di attività, visto che il drammatico allarme sanitario dei primi mesi era fortunatamente rientrato. La maggior parte degli infermieri e operatori socio sanitari è rimasta però in albergo dichiarando di non avere alcuna intenzione di lasciare le camere, e a loro è stata concessa una proroga fino a domani, 19 giugno, non chiarendo però a carico di chi sarebbero rimasti. «Ci siamo rimasti male anche noi, ci è arrivata una comunicazione inaspettata dal Policlinico e dalla Regione, dove si chiedeva il check out entro due giorni. E dove dovevano andare quei giovani? Ci è sembrato come di doverli scaricare dopo così tanto impegno», dice uno degli albergatori che li ospita.

Un altro: «Alloggiano da noi anche infermieri che sono andati ad aiutare in altri ospedali, come quello di Sesto. Per loro non ci era arrivata alcuna comunicazione sul check out, solo per chi aveva lavorato in Fiera - riferisce -. Sono persone d'oro, nell'emergenza si sono prodigati con spirito di servizio. Nel tempo libero non potevano neanche uscire dalla struttura, hanno accettato di vivere separati dalle loro famiglie. Era scontato che l'alloggio fosse pagato fino alla fine del contratto e non ci erano mai state date indicazioni contrarie, fino a venerdì scorso». Ancora ieri mattina una infermiera era nel panico: «Nessuno ci ha detto se i giorni di questa settimana ce li faranno pagare di tasca nostra».

Un altro: «Ho risposto alla chiamata dalla Sicilia, senza alloggio pagato non riesco a mantenermi a Milano. I patti non erano questi». E una Oss (operatrice socio-sanitaria): «Non ci hanno dato alcun preavviso, non si trattano le persone così».

Nel pomeriggio di ieri però, contattati dal Corriere , sono intervenuti prima il Policlinico e poi Regione Lombardia, con buone notizie. «Ci siamo impegnati a coprire noi i costi per la settimana di proroga, da domenica 14 a venerdì 19 giugno, e abbiamo attivato nel nostro convitto camere che sono a disposizione, a spese nostre», dicono da via Francesco Sforza. E la Regione: «Abbiamo allungato la convenzione e dunque la copertura della sistemazione alberghiera anche per chi ha lavorato alla Fiera, fino al 31 luglio». Ma, fino a ieri sera, ai lavoratori non era stata ancora alcuna comunicazione ufficiale.

«Vi racconto i 100 giorni dell’inferno a Cremona», la testimonianza di una dottoressa di Altamura. Parla Francesca, amica dell’infermiera premiata da Mattarella, fotografata proprio da lei, esausta, nel pronto soccorso. Franco Petrelli il 4 Giugno 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La foto dell’infermiera Elena Pagliarini esausta nel pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, scattata dal medico altamurano Francesca Mangiatordi nei primi, terribili, giorni del Covid, ha fatto il giro del mondo. Quella immagine in bianco e nero è diventata un simbolo degli eroi in camice bianco, al punto che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha voluto includere anche la Pagliarini tra i destinatari della prestigiosa onorificenza di «Cavaliere al merito» (ne parliamo in altra pagina) per l’impegno esemplare nelle settimane della pandemia. Tra l’altro, l’infermiera lombarda ha contratto essa stessa il virus e ne è guarita. Francesca Mangiatordi, al telefono, commenta la notizia: «Grazie, Elena. Con la semplicità e l'umiltà che ti contraddistinguono hai dato voce a tanti tuoi colleghi e agli operatori sanitari che in questi mesi, tra gap burocratici e difficoltà effettive dovute a un “morbo” nuovo, hanno affrontato a testa alta questo enorme e complesso periodo». Quarantasei anni, sposata, madre di due figli di 13 e 11 anni, Mangiatordi lavora in Lombardia da due anni. Sta trascorrendo qualche giorno di meritato riposo in riva al lago d’Iseo. Il suo «viaggio all’inferno e ritorno» è durato cento giorni. Lavorare di fianco al coronavirus significa vedere pazienti morire, colleghi ammalarsi come la stessa Elena, camminare per ore nei nei corridoi, tra i letti di terapia intensiva che accoglievano persone intubate.

Dottoressa, tre mesi tremendi?

«Tutto è iniziato il 20 febbraio. La difficoltà era anche quella di capire come affrontare le conseguenze dell’infezione per via dell’interessamento di altri organi. La situazione è poi decisamente migliorata. Il pronto soccorso è la via di accesso all’ospedale e ora il numero di pazienti Covid è decisamente ridotto. In una giornata li contiamo sulle dita di una mano. Soprattutto ora non hanno bisogno di essere intubati o di una ventilazione forzata».

Avevate i dispositivi di protezione?

«Quelli li abbiamo sempre avuti, per fortuna. Una mia collega che lavorava in Spagna mi ha raccontato che loro usavano la stessa mascherina per 15 giorni consecutivi e per fortuna da noi non è mai accaduto. Il problema è che avere 200 accessi al giorno vuol dire che l’ospedale è saturo. In un giorno solo abbiamo avuto 218 accessi e in media ne entravano 180. Non avevamo posti letto».

Com’è l’inferno quanto ti arrivano di colpo 218 pazienti?

«Devi sistemarli nel miglior modo possibile e soprattutto dare un’assistenza dignitosa. Abbiamo tirato fuori lettini e brandine per gli ammalati con 40 di febbre. Molti collassavano, non ce la facevano a stare in piedi. Ogni ora l’infermiera mi chiamava dicendomi “dottoressa, questo paziente è svenuto”. I corridoi del pronto soccorso erano stracolmi di umanità sofferente. Passando, piangevo».

Ne ha visti morire tanti?

«In pronto soccorso per fortuna pochi. Comunque in tanti sono andati in Rianimazione. Per molti di loro l’evoluzione è stata verso il peggio. Abbiamo cercato di coprire i turni dei colleghi che si ammalavano. C’erano giorni in cui guardavamo il tabellario per vedere chi era in servizio».

Ha salvato molte vite?

«Non ho mai chiamato i pazienti per cognome ma per nome, per tranquillizzarli. Molti mi domandavano che fine avrebbero fatto. Altri vedevano intubare i pazienti di fianco e la paura cresceva. Cercavamo di rassicurarli ma i dati clinici spesso erano drammatici».

Ci racconti della famosa foto, per piacere.

«Elena lavorava con me, la notte tra il 7 e l’8 marzo. Quella notte ci fu la fuga dei meridionali dal nord. Lei era davvero provata perché aveva fatto un turno la notte prima. Ha lavorato con le lacrime agli occhi continuamente. Cercavamo di darci forza a vicenda. Ci sentivamo impotenti. Uno dei primi colleghi era stato intubato a inizio marzo. Ora è guarito. Elena crollò esausta sulla scrivania».

Come ha gestito i rapporti con la famiglia?

«Mio padre ha la demenza senile e mia madre si prende cura di lui. Stanno ad Altamura. Spero di riabbracciarli a fine mese. Li ho sempre rassicurati, cercando di non rivelare dettagli su quelle settimane “in trincea” perché non volevo che si preoccupassero»

«Sono un medico, un anestesista rianimatore. O almeno credevo di esserlo prima del virus». «Tutti questi sacrifici valgono la pena. Perché assistere alla prima estubazione, poi alla seconda e alla terza e così via mi dà speranza.  Mi riempie il cuore di gioia vedere i “sopravvissuti” uscire dalla terapia intensiva. Mi fa credere che non è tutto perduto»: medici, dottoresse e infermieri raccontano in prima persona le loro esperienze con i malati più gravi di Covid-19. Francesca Sironi il 07 maggio 2020 su L'Espresso. La voce senza filtri di medici, dottoresse e infermieri che affrontano Covid-19. Le loro paure, il dolore per i pazienti, la felicità per ogni guarigione. È “Scriviamo la storia”, uno spazio aperto dalla Società italiana di anestesia e rianimazione per dare agli operatori la possibilità di raccontare le proprie emozioni in forma anonima e protetta. Fa parte di un programma più ampio che mette a disposizione counseling gratuito e informazioni per far conoscere la realtà della terapia intensiva. Le testimonianze raccolte in questi mesi sono spesso difficili da leggere. Perché non approssimano, non sgrammano di nulla il peso della realtà pur di renderla accettabile. Una delle poesie più famose di Erich Fried iniziava così: «È assurdo / dice la ragione / È quel che è / dice l’amore». Anche se parlano di dolore e resilienza, più che d’amore, questi racconti nascono dalla stessa evidenza: la verità è quello che è. Per chi ha vissuto una sofferenza troppo grande lo stesso gesto di scrivere, e condividere, è un aiuto. Ma queste testimonianze servono molto anche a chi è “fuori” dagli ospedali: per non rimuovere, come ricorda il coordinatore Giovanni Mistraletti - «vogliamo creare un archivio di testimonianze dei fatti storici di cui siamo protagonisti», scrive: «perché in futuro nessuno possa negare l’accaduto o il nostro impegno, né il contesto lavorativo incredibile in cui ci troviamo ora». Anche per questo, il coraggio di queste parole va ringraziato. Ecco alcune delle testimonianze caricate ogni giorno su vissuto.intensiva.it.

Cos’è l’empatia - 13 Aprile 2020. Relativamente è da poco che svolgo questa professione, quasi due anni. [...] Ho cercato di aggiornarmi e perfezionarmi il più possibile. L’unica cosa in cui mi sono sempre sentito in difetto è stata quella dose di empatia necessaria, che so già da me che è molto importante in questo lavoro, ma che per storia affettiva personale o per doti caratteriali, ancora non so se riuscirò a sviluppare più o meno lentamente. [...] Alle 6 della mattina scorsa ero in procinto di smontare dalla notte. 

Sindrome di Burnout: 7 medici su 10 ne soffrono. Marco Alborghetti il 17 maggio 2020 su Notizie.it. L'emergenza coronavirus ha aumentato vertiginosamente i ritmi di lavoro dei medici che ora si ritrovano a dover fare i conti con crolli improvvisi. Uno studio condotto nelle prime 4 settimane dell’emergenza sanitaria in Italia ha rivelato che circa 7 operatori sanitari su 10 abbiamo mostrato sintomi evidenti di burnout, una sindrome che sta incidendo molto sulla salute psico-fisica di medici e operatori sanitari che nel breve potrebbero risentirne anche sul lato psicologico. Sindrome di Burnout: stress da lavoro dei medici. La salute psico-fisica dei medici e operatori sanitari è stata messa a dura prova in questi mesi di epidemia, e non di certo una novità che la maggior parte di essi abbia accusato dei crolli psicologici e un esaurimento da stress che adesso possiamo meglio descrivere con la sindrome di burnout. Uno studio elaborato dal Centro di Ricerca EngageMinds HUB che fa parte dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in collaborazione con la Società Italiana di Management e Leadership in Medicina (SIMM) e con il Segretariato Italiano Giovani Medici (S.I.G.M.), ha evidenziato infatti come nelle prime 4 settimane dell‘emergenza coronavirus 7 medici su 10, quindi il 70% abbia accusato un forte stress per la mole imponeete di lavoro a cui è stata sottoposta.

Cos’è il burnout. Il burnout è un problema che accomuna molti lavoratori indefessi. Alla sua origine troviamo ritmi di lavoro e carichi talmente frenetici da spingere l’individuo verso una forma di esaurimento lavorativo.

Da maggio 2019 l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ne ha riconosciuto lo status di sindrome, con dei sintomi ben definiti quali la sensazione di esaurimento, sia mentale sia fisico, il distacco mentale dal proprio lavoro, spesso accompagnato da negatività e in alcuni casi, una conseguente riduzione della propria produttività. Completano il quadro una mancanza di stima o senso di inadempiezza dovuta a lavori non portati a termine nelle giuste consegne.

In prima linea. Serena Barello, ricercatrice di EngageMinds e responsabile dello studio, ha così commentato gli esiti delle rilevazioni effettuate. “Mentre la crisi Covid-19 ha messo sotto pressione i servizi sanitari in tutto il mondo e i governi si sono mossi per rallentare la diffusione del virus, gli operatori sanitari sono dall’inizio in prima linea nella gestione quotidiana della pandemia”. “Il personale sanitario si è trovato a dover fronteggiare una situazione estremamente stressante e complessa, dai tratti imprevedibili, mettendo a serio rischio la propria salute non solo fisica, ma anche emotiva e psicologica, salute già messa a dura prova in tempi ordinari e che ora potrebbe, inasprire aspetti di vulnerabilità la cui tenuta è già precaria” conclude la ricercatrice.

Riceviamo e pubblichiamo da una dottoressa il 9 marzo 2020. Caro Dago, ti scrivo dal fronte di questa guerra silenziosa ma estenuante che stiamo combattendo. Sono una dottoressa di un ospedale che non si trova nella zona rossa né in quella arancione, almeno per il momento. Anche il mio compagno è medico e per evitare di poterci contagiare l’uno con l’altro non viviamo più insieme. È una scelta di responsabilità, se fossimo contagiati non saremmo soltanto due numeri in più nelle tabelle che quotidianamente vengono aggiornate e pubblicate, ma due professionisti sanitari che vengono meno. Ci priviamo della nostra intimità, oltre che di tutto il resto. Lavoro 16 ore al giorno, non posso più leggere un libro, vedere un film, usare il mio cervello per pensare alle mie passioni, al mondo, alla bellezza. Alla mia vita, di cui mi sto privando in questi giorni con senso del dovere e passione per il mio lavoro.  In tutto questo, mentre noi siamo circondati dai malati e costretti a scegliere chi intubare e chi no, cioè chi può sopravvivere e chi no, con una pressione psicologica indicibile, l’altro giorno un pubblico ufficiale mi ha chiesto di fare un certificato per non andare nelle aree di Milano. E mi viene da pensare che non siamo cambiati più di tanto dall’8 settembre… 

Infermiera insultata: “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni”. Le Iene News il 29 aprile 2020. "Grazie per il Covid che ci porti ogni giorno. Ricordati che qui ci sono anziani e bambini”. Questo il biglietto che si è trovata Damiana, un infermiera che ogni giorno combatte in prima linea il coronavirus. Con Alice Martinelli siamo andati a conoscerla e a farle una piccola sorpresa. L’emergenza coronavirus ha portato al centro dell’attenzione mondiale la categoria degli operatori sanitari: dottori e infermieri che ogni giorno rischiano la loro vita per aiutare tutti noi. “Eroi in prima linea” così li chiama la rivista Time, che ha dedicato loro una copertina. Ma non tutti evidentemente la pensano così: c’è anche chi ha paura di loro e chi li tratta da untori. “Grazie per il Covid che ci porti tutti i giorni. Ricordati che in questa casa ci sono anziani e bambini”: questo il messaggio che si è trovata a casa Damiana, un’infermiera dell’ospedale di Lucca. Ed è proprio lì che ci incontriamo con lei. “Siamo rimasti sconcertati, siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti bravi, siamo eroi… ma facciamo paura”, ci dicono subito i colleghi di Damiana. “Nessuno può pensare che sia così fortunato da non ammalarsi di Covid, invito tutti a riflettere su questo”, aggiunge Sauro Luchi, primario del reparto malattie infettive. Ma come è andata esattamente? “Ho trovato questo biglietto nella mia cassetta delle lettere ma, ferita e stanca, non ho neanche reagito”. E dopo questo biglietto è cambiato qualcosa? “No, nessuno è venuto da me, non ho visto più nessuno, come se non fosse successo nulla”. Così decidiamo di andare noi a capirci qualcosa in più. “Non c’è assolutamente odio, se non grandissimo rispetto”, ci dice la prima signora che incontriamo. E ci viene in mente un’idea: perché non fare una sorpresa a Damiana e raccogliere messaggi di solidarietà da lasciarle a casa? Detto fatto, passiamo di porta in porta e nessuno sembra essere l’autore del messaggio! Casa dopo casa, vicino dopo vicino, tutti contribuiscono a questa iniziativa: anche chi ha bisogno di un aiuto per scrivere. Passano poche ore e la nostra scatola è già piena: non ci resta che andare a prendere Damiana. “Un grosso ringraziamento per quello che fai”, “continua a fare il tuo lavoro con la tua grande passione”: biglietto dopo biglietto, lettera dopo lettera, finalmente Damiana si rende conto che è molto apprezzata dai vicini. Emozionata e finalmente di nuovo con il sorriso vuole lanciare un ultimo messaggio: “Non abbiate paura di noi, non ci scansate… né ora e neanche fra due mesi”. Grazie Damiana e grazie a tutti gli infermieri che ogni giorno combattono questa immensa battaglia.

Coronavirus, le mani arrossate dell’infermiera: «Si fa a pugni col Corona». Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Barbara Visentin. La mano arrossata, con le nocche violacee come se avessero preso una botta, e la pelle che si rompe. Dopo una settimana a fare turni massacranti da 13 ore con i guanti sempre addosso un’infermiera mostra i segni che porta sulla pelle: «Non ho preso a pugni nessuno - scrive Silvia Cini, 29 anni, in forze al pronto soccorso di Careggi, a Firenze -. In ospedale porto sempre i guanti Med Vinyl free, non ho mai avuto dermatiti da contatto. Ultimamente tocca spesso lavorare 13 ore a fila. Tredici ore con i guanti, ogni cambio di guanti un lavaggio di mani, ogni lavaggio una disinfettata e di nuovo un altro paio di guanti. In una settimana mi sono spaccata le mani. Si fa a pugni col Corona, con la speranza che non sia lui a prenderci a pugni. Se vi e ci volete bene #stateacasa». Silvia ha postato il suo appello e la foto della sua mano su Facebook. Una conseguenza visibile delle giornate di lavoro lunghissime e dello sforzo costante a cui lei e tutto il personale sanitario sono costretti in queste settimane, mostrata per ricordare alle persone che, rimanendo a casa, possono contribuire a combattere quella guerra, non rendendola vana. La sua immagine si aggiunge alle foto dei volti arrossati da occhiali e mascherine, stravolti dalla stanchezza, che medici e infermieri stanno postando durante la loro lotta al Covid-19, per chiedere a tutti di essere altruisti e fare la propria parte, restando a casa. 

Coronavirus, il post dell’infermiera: «Ho paura di andare al lavoro, ma continuerò a farlo». Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Greta Sclaunich. «Sono un’infermiera e in questo momento mi trovo ad affrontare questa emergenza sanitaria». Comincia così il post di Alessia Bonari che in queste ore ha iniziato a circolare sui social. «Ho paura anche io, - scrive la giovane toscana - ma non di andare a fare la spesa, ho paura di andare a lavoro». «Ho paura perché la mascherina potrebbe non aderire bene al viso, o potrei essermi toccata accidentalmente con i guanti sporchi, o magari le lenti non mi coprono nel tutto gli occhi e qualcosa potrebbe essere passato», spiega la giovane. E ritorna sul tema dei turni massacranti che già nei giorni scorsi sono stati evidenziati, sempre sui social, da altri colleghi (come nella foto dell’infermiera distrutta dal lavoro, postata sui social da una dottoressa che voleva così sensibilizzare gli utenti): «Sono stanca fisicamente perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto. Continuerò a curare e prendermi cura dei miei pazienti, perché sono fiera e innamorata del mio lavoro». «Quello che chiedo a chiunque stia leggendo questo post - conclude - è di non vanificare lo sforzo che stiamo facendo, di essere altruisti, di stare in casa e così proteggere chi è più fragile. Noi giovani non siamo immuni al coronavirus, anche noi ci possiamo ammalare, o peggio ancora possiamo far ammalare. Non mi posso permettere il lusso di tornarmene a casa mia in quarantena, devo andare a lavoro e fare la mia parte. Voi fate la vostra, ve lo chiedo per favore».

Caldo, afa .... sensazione di respiro corto, goccioline di sudore che cadono dal viso, un viso che senti sciogliere...Pubblicato da Martina Benedetti Martedì 10 marzo 2020.

Dagospia il 14 marzo 2020. Da I Lunatici Radio2. Martina Benedetti, infermiera che opera nel reparto di terapia intensiva e rianimazione del Noa a Massa, ha commosso l'Italia con una foto pubblicata sul proprio profilo Facebook che in poche ore ha raccolto più di 80.000 like e 30mila condivisioni. Nella notte ha raccontato la sua storia ai Lunatici di Rai Radio2, programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dalla mezzanotte e mezza. Martina ha parlato di come è nato il post che ha commosso l'Italia: "Sono uscita alle 22 dal turno di pomeriggio e mi sto un attimino rilassando dopo questi giorni di fuoco. Non è facile, non è per niente facile timbrare ogni mattina il cartellino e trovarsi nella situazione che stiamo vivendo oggi. Facciamo un grande sforzo fisico, uno sforzo che non fa che aumentare il disagio a livello emotivo. Il mio post nasce da uno smonto notte. Avevo tutti questi segni sul viso di questa mascherina, dei dispositivi di protezione che usiamo per proteggerci dal contagio, mi sentivo attonita, atterrita, mi sono fatta questa foto, non avrei mai pensato di pubblicarla. Poi mi sono venute delle sensazioni, delle parole, le ho condivise. Non pensavo di ricevere così tanti messaggi". Martina lavora presso la rianimazione e terapia intensiva del Noa, a Massa: "Molte persone mi hanno scritto cose bellissime. Tanto affetto. Tanti mi hanno scritto che dai dati e dalle statistiche non capivano. Con una testimonianza più umana, invece, si sono resi conto. Quando abbiamo preso il primo paziente positivo per il Covid 19 ci ha spiazzato. Ora la nostra rianimazione è praticamente satura. E siamo diventati un set Covid. E rispetto alla Lombardia, ad esempio, da noi la situazione pare ancora sotto controllo. L'attrezzatura che indossiamo è indispensabile per proteggerci, ma rende il lavoro molto più pesante. Speriamo di riuscire a risolvere il problema dei dispositivi di protezione individuale che scarseggiano. I camici impermeabili e le tute fino a poco tempo fa erano contate, ora stanno arrivando. E poi le mascherine al momento sono carenti. Speriamo arrivino presto e per tutti. Ci sentiamo un po' insicuri nel fare il nostro lavoro senza i dispositivi giusti e nelle quantità sufficienti". Martina ha raccontato: "Da quando abbiamo il primo paziente Covid 19 non ho più contatti sociali. Evito le mie nonne, anziane. Non vedo la mia bisnonna di 102 anni. Evito i contatti con i bambini, le mie amiche, le persone più fragili della mia famiglia. Vivo in casa segregata e mi sposto solo per andare a lavorare. Molte persone sottovalutano il nostro sacrificio. Spero che quando tutto questo sarà finito ci si ricordi di noi. Non solo da un punto di vista del riconoscimento sociale, ma anche contrattuale e remunerativo. La maggior parte di noi infermieri si sente abbandonata". Ecco come Martina ha deciso di diventare infermiera: "Volevo fare giurisprudenza alle superiori. Volevo anche scrivere libri per bambini. L'idea di diventare infermiera è nata con l'associazionismo. Quando ero alle superiori ho avuto la fortuna e l'onore di far parte dell'associazione "Un cuore un mondo" che opera presso un ospedale pediatrico di Massa. Tramite questa associazione andavo ad assistere i bambini cardiopatici negli ospedali. Da lì mi è nata la passione per questo lavoro. E' stata la svolta che mi ha fatto cambiare strada".

Da repubblica.it il 3 aprile 2020. Quella fotografia era diventata un'immagine simbolo nelle prime settimane dell'emergenza. Elena Pagliarini, infermiera del Pronto soccorso dell'ospedale di Cremona, era stata fotografata da un collega medico quando a fine turno, sfinita, si era addormentata con la testa sulla tastiera del computer, con la mascherina e il camice ancora indosso. Dopo quella fotografia l'infermiera ha scoperto di essere positiva ed è stata posta in isolamento, in attesa di guarire. Oggi - come racconta il sito Cremonasipuò, laboratorio politico del sindaco di Cremona Gianluca Galimberti - dopo un primo tampone con esito negativo aspetta il responso del secondo. Se anche questo dovesse essere negativo potrà rientrare al suo lavoro, con i colleghi che da settimane sono in emergenza coronaviurs. "Era l'8 marzo, le 6 di mattina, la Festa della donna - ricorda Elena, 43 anni, dal 2005 in ospedale -. Durante la notte era successo di tutto, una notte fatta di corsa tra i letti dei pazienti gravi che con i loro sguardi angosciati chiedevano aiuto e non capivano cosa stesse succedendo. Avevo anche pianto". La foto è stata scattata, un'ora prima della fine del turno cominciato alle 9 della sera precedente, da un medico, la dottoressa Francesca Mangiatorti. "Non me ne sono accorta - continua l'infermiera -. Poco dopo l'istantanea è stata pubblicata su Facebook e da quel momento è iniziato il tam-tam". Il 10 marzo ha fatto il tampone, dal 13 è partito l'isolamento. Racconta sempre al sito Cremonasipuò: "Tutti i giorni mi sento con le mie colleghe, la mia seconda famiglia. Siamo un bel gruppo. Non parliamo mai di lavoro perché loro non vogliono preoccupare me e io non voglio preoccupare loro". Elena vive da sola. "Sto benissimo, grazie al cielo non ho nessun tipo di disturbo, a parte la mancanza del gusto e dell'olfatto. La quarantena è pesante ma mi anche dato modo di fare lunghe riflessioni, un lavoro di introspezione. Ho riscoperto il piacere di stare a casa e ritrovato quello di leggere. Per ammazzare il tempo ho sistemato gli armadi". L'attesa del secondo tampone è carica di progetti: "Non vedo l'ora di tornare in mezzo ai miei colleghi e alla mia professione, una professione che adoro. Tutti i giorni si rischia, ma è il mestiere che ho scelto, una scelta di cui sono fermamente convinta. Mi spaventa, invece, psicologicamente l'idea di incontrare gli sguardi che ho visto quella volta. Non li dimenticherò mai, mai. Ho ancora tanta angoscia nel mio cuore. Ho perso degli amici e il papà di uno di loro. Quando tutto questo finirà, dovremo guardarci intorno e vedere chi è rimasto. Ho paura che mancherà qualcuno di cui non mi sono accorta". Nei giorni scorsi l'infermiera ha mandato un messaggio al sindaco Galimberti, anche lui in isolamento essendo risultato positivo: "Volevo augurargli, essendo in quarantena anche lui, buona guarigione e ringraziarlo per ciò che sta facendo per l'ospedale e la città. Lo sento molto vicino. Tutto qui".

Coronavirus, la foto dell’infermiera distrutta dal lavoro fa il giro del web. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. Sono le sei del mattino. Nelle corsie del pronto soccorso dell’ospedale di Cremona ci sono donne e uomini che hanno passato la notte al lavoro. E tra le tante c’è lei, un’infermiera che dopo il turno crolla. Ha ancora la mascherina sul volto, il camice, i guanti in lattice. Appoggia la testa sulla scrivania del reparto e chiude gli occhi per cinque minuti, dopo ore di ritmi serrati, di lavoro incessante. Dietro di lei c’è un medico del pronto soccorso che entra e vede la scena. Prende il cellulare e scatta una foto che nel giro di poco diventa virale: è il suo modo per dirle «grazie» e per incorniciare il suo lavoro. L’ospedale di Cremona, che contattato dal Corriere della Sera ha confermato la storia dell’infermiera, è uno di quelli in prima linea nell’emergenza Coronavirus. In quella provincia i contagi sono 665, sono aumentati di 103 persone nel giro di un giorno. La foto diventata virale è il simbolo del lavoro senza sosta di questi giorni dei sanitari. L’infermiera appoggia la testa sulla scrivania dopo un turno di lavoro. Non si sa nient’altro di lei, se non che l’indomani tornerà in trincea.

Coronavirus, la dottoressa che ha ritratto l’infermiera di Cremona: «Vorrei che questa foto fosse un invito ad aiutarci. Come? Restando a casa». Pubblicato martedì, 10 marzo 2020 su Corriere.it da Enrico Galletti. «È stato un momento di sconforto, il turno stava per finire e io mi sentivo impotente. Prima di addormentarmi avevo pianto a dirotto, poi sono crollata. Non pensavo che la fotografia suscitasse tanto interesse». Elena Pagliarini è l’infermiera protagonista della foto che ha fatto il giro del web. E’ stata scattata alle sei del mattino, dopo una notte di lavoro al pronto soccorso dell’Ospedale di Cremona, uno dei più colpiti dall’emergenza coronavirus: Pagliarini ha appoggiato la testa sulla scrivania e ha chiuso gli occhi, ancora con la mascherina sul volto, il camice, i guanti in lattice. «Da un lato mi ha molto imbarazzato trovarmi su tutti i giornali – racconta al Corriere della Sera –, ho provato vergogna nel mostrare il mio lato più fragile. Dall’altro sono contenta: ora sul cellulare arrivano messaggi bellissimi da parte di persone che si sono immedesimate nella mia storia». Un’infermiera che ci crede. «Ho molta passione per il mio lavoro – continua Elena La dottoressa Mangiatordi, autrice della foto–, lo faccio senza voler essere ringraziata. In realtà non mi sento stanca fisicamente, potrei lavorare anche ventiquattr’ore di fila se necessario. Non nascondo che in questo momento sono in ansia perché sto combattendo contro un nemico che non conosco. Non vedo l’ora che tutto finisca». A scattare la foto, alla fine di quel turno, è stata Francesca Mangiatordi, medico del pronto soccorso di Cremona. «Vedere Elena stremata dormire su un cuscino di fortuna e sulla tastiera del computer, dopo molte ore in turno, mi ha suscitato profonda tenerezza – ci racconta –. Con quella foto ho voluto raccontare la nostra umanità: siamo donne e uomini, e nonostante i ritmi serrati questi giorni, troviamo sempre il giusto spirito e l’energia per continuare». Poi l’appello: «Vorrei che questa foto diventasse un invito ad aiutarci: state a casa, rispettate le regole, perché questo è l’unico modo per starci vicino». Sono giorni difficili: «La stanchezza fisica passa – continua Mangiatordi –, è il lato emotivo che ci segna di più: le scene che vediamo sono quelle che ci portiamo a casa la sera». Poi il discorso si tronca, dottoressa e infermiera devono tornare in corsia. Mascherina, camice, un respiro profondo. La porta scorrevole del pronto soccorso si apre. È un nuovo giorno, si ricomincia.

Paolo Griseri per repubblica.it il 10 marzo 2020. Poi ha spinto la tastiera verso il computer e ha piegato un lenzuolo sulla scrivania, per appoggiarci la testa. "Non era ancora finito il turno ma ero stremata". Elena Pagliarini quasi si giustifica. A 40 anni, da 15 in ospedale, si stupisce ancora: "Dopo quella foto mi chiamano in tanti. Mi ringraziano. In un periodo normale mi avrebbero criticato".

Com'è andata quella notte?

"Qui al pronto soccorso dell'ospedale di Cremona avevo iniziato il turno alle nove della sera prima. Erano le sei del mattino. Ma quella notte era successo di tutto. La mia primaria, che è una mia amica, ha fatto la foto".

Che cosa ha visto quella notte?

"La sala piena di pazienti spaventati. Moltissime persone in insufficienza respiratoria molto grave. Gente di tutte le età. Persone che improvvisamente, di colpo, avevano difficoltà a respirare, la febbre saliva in modo repentino. Sa qual è la cosa che ci colpiva di più? Che non dicevano niente. Erano nel letto e tacevano. Però avevano gli occhi della paura e quelli parlavano per tutti loro".

Non le era mai capitato?

"Mai. Turni stancanti, situazioni difficili le ho vissute, come tutti coloro che fanno il mio mestiere. Ma così no. Perché qui noi non conosciamo a fondo la malattia. Non ci sono manovre, tecniche, farmaci sicuramente efficaci. E bisogna fare in fretta, intervenire all'improvviso per combattere quelle crisi respiratorie".

Non se l'aspettava? In fondo in Cina succede da qualche mese...

"Fino a pochi giorni fa la Cina era in televisione. Adesso Wuhan è arrivata da noi. Quando ti capita sulla tua pelle, quando coinvolge il tuo gruppo di lavoro, è tutta un'altra cosa".

Come ha raccontato tutto questo in casa, ai suoi amici?

"Io vivo sola e sto bene così. Ma da qualche ora, da quando quella fotografia ha fatto il giro del mondo, tutti mi chiamano, mi chiedono, vogliono sapere. E io provo a spiegare che non mi piace, non sono abituata a essere in prima linea. Io vivo nelle retrovie, fuori dai riflettori. Pensi che non mi piace neppure essere fotografata. E quando capita, nelle fotografie non sorrido mai. Non mi piace espormi".

Ma nella vita sorride?

"Nella vita sorrido, certo. Con gli amici e con i miei colleghi di lavoro. Oggi è quella fotografia che fa il giro della rete, ma in questo ospedale lavoriamo tutti insieme, se riusciamo a salvare delle persone è perché siamo un gruppo di colleghi e amici che collabora insieme. Anche per questo la mia dottoressa ha voluto immortalarmi in quello scatto. Per far capire quel che tutti noi stiamo facendo, quanto impegno stiamo dedicando per combattere questo virus sconosciuto. Siamo un grande gruppo, mi creda".

Perché dice che in un altro momento sarebbe stata criticata?

"Glielo confesso. Quella mattina il mio turno finiva alle sette. Io sono crollata alle sei, un'ora prima. In un momento normale avrebbero detto: "Ecco l'infermiera che si addormenta durante il turno di lavoro"".

Da liberoquotidiano.it il 10 marzo 2020. Il sistema sanitario è allo stremo, colpito pesantemente da un'epidemia che non accenna a rallentare. A raccontare la situazione disperata degli ospedali italiani è Orietta, la figlia di un infetto in una lunga intervista alla Stampa. "Ad oggi non so neppure se mio padre sia arrivato nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale di Crema. So solo che, quando ho chiamato domenica, mi ha risposto un medico che era molto preso. Mi ha detto: 'Signora, deve capire, noi siamo nella m... Il papà è intubato e sedato in sala operatoria, in attesa che si liberi un posto in terapia intensiva'". Eppure da quel momento alla morte dell'uomo sono passate cinque ore. In queste cinque ore nessuno le ha detto nulla. A comunicare che era venuto a mancare ci hanno pensato le forze dell’ordine. "Il giorno dopo si è presentato a casa il maresciallo dei carabinieri. Non so dire che cosa ho provato quando l’ho visto: avevo già capito". Orietta ancora non sa cosa sia successo al padre. Sinonimo, questo, di un'Italia allo sbando.

Ida Di Grazia per "leggo.it" l'11 marzo 2020. Coronavirus, l'appello di Alessia l'infermiera con i segni della maschera: «Sono stanca ma faccio la mia parte, voi la vostra». Il viso stanco e segnato dalle ore e dalla fatica, un grande messaggio e un esempio di dedizione, lei è Alessia un'infermiera che con questa foto rappresenta i veri eroi dei nostri giorni. «Sono un'infermiera e in questo momento mi trovo ad affrontare questa emergenza sanitaria. Ho paura anche io, ma non di andare a fare la spesa, ho paura di andare a lavoro. Ho paura perché la mascherina potrebbe non aderire bene al viso, o potrei essermi toccata accidentalmente con i guanti sporchi, o magari le lenti non mi coprono nel tutto gli occhi e qualcosa potrebbe essere passato». Alessia Bonari è un'infermiera, non è famosa ma lo sta diventando con il suo esempio. Sul suo account Instagram ha postato una foto in camice, probabilmente scattata in quei rari momenti di pausa durante il suo turno di lavoro, mostrando tutta la fatica che il personale sanitario sta affrontando per combattere l'emergenza Coronavirus.  Il volto è segnato dalla stanchezza ma ha anche dei piccoli lividi a causa della maschera, il suo post sta facendo il giro del web ed è un esempio per tutti noi : «Sono stanca fisicamente perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto. Continuerò a curare e prendermi cura dei miei pazienti, perché sono fiera e innamorata del mio lavoro». Il suo post ha superano i 100 mila like, lei ke non è un'inflencer di professione ma che ha un messaggio importante da dare : «Quello che chiedo a chiunque stia leggendo questo post è di non vanificare lo sforzo che stiamo facendo, di essere altruisti, di stare in casa e così proteggere chi è più fragile. Noi giovani non siamo immuni al coronavirus, anche noi ci possiamo ammalare, o peggio ancora possiamo far ammalare. Non mi posso permettere il lusso di tornarmene a casa mia in quarantena, devo andare a lavoro e fare la mia parte. Voi fate la vostra, ve lo chiedo per favore».

(ANSA il 9 marzo 2020) - Sessanta medici di famiglia a Cosenza sono stati posti in quarantena dopo aver avuto contatti, negli ultimi giorni, con un informatore farmaceutico risultato positivo al nuovo coronavirus. Lo afferma all'ANSA Silvestro Scotti, segretario della Federazione dei Medici di Medicina Generale (Fimmg). La situazione, rileva, "è preoccupante. A seguito della quarantena per questi 60 colleghi, infatti, circa 70mila cittadini calabresi da oggi si ritroveranno sprovvisti del medico di base cui fare riferimento".

 (ANSA il 12 marzo 2020) - Nella sola provincia di Bergamo "sono ad oggi cinquanta i medici infettati", uno di questi è morto nei giorni scorsi, che con gli altri due decessi di camici bianchi in Lombardia e Veneto portano a tre le vittime fra i medici. Lo rende noto il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli, nella lettera inviata al premier Conte per chiedere la sospensione dell'accesso libero dei pazienti agli ambulatori per contenere i contagi. E' "a rischio l'efficacia dell'assistenza".

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 24 marzo 2020. Non siamo riusciti a difendere chi ci doveva difendere. Sono oltre 5.000 gli operatori sanitari contagiati, il 9 per cento dei totali dei positivi. Ci sono medici, infermieri, ma anche il resto del personale degli ospedali, dai tecnici delle radiologie a chi fa le pulizie. Il bilancio si aggrava giorno dopo giorno, ci sono già 24 medici morti come racconta il sito della Federazione nazionale degli Ordini, che pubblica una sorta di antologia di Spoon River dei camici bianchi uccisi dal coronavirus. «Elenco dei Medici caduti nel corso dell'epidemia di Covid-19» è il nome che è stato dato alla pagina del sito. Cosa è stato sbagliato? «C'è il termoscanner nelle stazioni e negli aeroporti e non c'è negli ospedali» ha osservato il presidente dell'Ordine dei medici di Forlì, Michele Gaudio. «Fanno i tamponi ai calciatori ma non ai medici e infermieri» è una delle frasi più ricorrenti tra i camici bianchi. Bisognerà riflettere a lungo sulla scelta iniziale di non sottoporre tempestivamente ai test i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che nelle corsie, ma anche negli studi, sono entrati in contatto con pazienti positivi. I tamponi si facevano solo, nella maggior parte dei casi, ai sintomatici. Per non sguarnire i reparti, chi stava bene continuava a lavorare, ma poiché gli asintomatici trasmettono il virus, negli ospedali della Lombardia prima, poi in quelli di altre regioni, si sono prodotti drammatici effetti moltiplicatori del contagio. Sullo sfondo, certo, c'è stato anche qualche comportamento imprudente, qualche viaggio o qualche brindisi di troppo anche tra la classe medica, ma la maggioranza è rimasta contagiata mentre era in prima linea. Disarmata. Uno degli altri gravi problemi è stata la carenza di dispositivi, dalle mascherine alle tute di protezione. Ora si sta correndo ai ripari: quasi tutte le regioni hanno annunciato che si faranno molti più tamponi a medici, infermieri e operatori sanitari; si stanno rifornendo ospedali e studi con mascherine e dispositivi di protezione, ma rischia di essere tardi. Racconta Antonio Magi, presidente dell'Ordine dei medici di Roma, che parla del Lazio, ma fa un ragionamento che vale per tutto il Paese: «Solo nella Capitale abbiamo 84 medici positivi. Due sono ricoverati in osservazione, gli altri sono in isolamento domiciliare. Per fortuna non sono gravi, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato. C'erano poche mascherine, non sono stati eseguiti sufficienti tamponi. Se non si proteggono gli operatori, non si proteggono neppure i cittadini». L'assessore alla Salute della Regione Lazio, Alessio D'Amato, ha confermato: «Stiamo facendo più tamponi a medici, infermieri e operatori. Quando saranno pronti i test rapidi che si stanno sperimentando al Gemelli, sarà ancora più semplice controllare tutti coloro che si trovano nei posti più a rischio». Il capogruppo alla Camera di Fratelli d'Italia, Francesco Lollobrigida, ha chiesto «un immediato cambio di strategia nel Lazio per tutelare chi lavora negli ospedali», ma in realtà la situazione è critica in tutte le regioni. Dei 24 medici deceduti e positivi al coronavirus, venti erano della Lombardia, la regione che ha visto un'avanzata incontrollata del contagio anche e soprattutto negli ospedali. A Napoli quattro specializzandi hanno rifiutato l'assunzione, secondo Silvestro Scotti, presidente dell'Ordine dei Medici locale, anche perché i camici bianchi devono operare «a mani nude o con strumenti inadeguati». Osserva Nino Cartabellotta, presidente di Gimbe, la fondazione che in questi giorni sta raccogliendo i dati sul personale medico e infermieristico contagiato: «A giudicare dalle innumerevoli narrative e dalla mancata esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e gli operatori sanitari, il numero ufficiale fornito dall'Istituto superiore di Sanità è ampiamente sottostimato. Un mese dopo il caso 1 di Codogno, i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell'impreparazione organizzativa e gestionale all'emergenza. Sollecitiamo l'esecuzione dei tamponi a tutti i professionisti e operatori sanitari, nonché l'integrazione delle linee guida Iss per garantire la massima protezione a chi è impegnato in prima linea contro l'emergenza coronavirus». In Lombardia quindici lavoratori positivi hanno denunciato l'Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi di Milano per avere tenuto «nascosti casi di lavoratori contagiati e impedito l'uso delle mascherine per non spaventare l'utenza». Replica della direzione: «Notizie false e calunniose, fin dal 24 febbraio abbiamo seguito i protocolli dell'Istituto superiore della Sanità, non c'è stata alcuna inadempienza».

Picco di contagi tra medici  e infermieri: «Ci mancano anche le mascherine». Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Margherita De Bac. Domenico Crisarà, vicesegretario della federazione dei medici di famiglia Fimmg, si stava preparando per andare a sostituire la prossima settimana da Padova un collega con studio a Vo’ ricoverato con polmonite da Sars-CoV 2 e ancora in convalescenza. «Il problema stavolta è stato risolto, ma noi siamo in grande sofferenza. Sarà sempre più difficile non lasciare i pazienti da soli», profetizza citando i dati del segretario Fimmg, Silvestro Scotti: i medici di famiglia mancanti perché in quarantena, isolamento o ricovero sono circa 150. «E abbiamo un gran bisogno di mascherine, molti di noi lavorano non protetti», aggiunge Claudio Cricelli, presidente della società Simg. C’è un’emergenza nell’emergenza ed è quella del personale sanitario che «cade sul campo» ed esce dal servizio per la positività al coronavirus o per aver avuto contatti con pazienti infetti. Rimandati a casa in isolamento fiduciario? Non tutti. Andrea Bottega, segretario dell’associazione Nursind (professione infermieristica, 41mila iscritti) riporta storie raccolte nelle Regioni più colpite dove diversi suoi colleghi, malgrado abbiamo trattato malati di Covid, restano in ospedale se non hanno sintomi di infezione. Altrimenti interi reparti dovrebbero chiudere e la situazione diventerebbe ingestibile. «Non riesco ad aggiornare i numeri delle assenza per quarantena — riferisce Bottega da Vicenza — So di colleghi intubati e di altri che vengono richiamati dal domiciliare in quanto non trovano i rincalzi. Oltretutto in reparti come la terapia intensiva bisogna avere gente specializzata». C’è molta preoccupazione soprattutto per la tenuta mentale della categoria intera. «Avverto molto stress e temo un crollo emotivo. Parlo anche a nome degli operatori socio sanitari, figure esposte come noi. Svolgono ruoli di assistenza di base ai singoli pazienti, distribuiscono i pasti, si occupano della loro pulizia». Per Anaao-Assomed, principale sindacato degli ospedalieri, i medici contagiati sono almeno duecento, impegnati in pronto soccorso, rianimazione e reparti di medicina interna. Chiara Rivetti, coordinatrice del Piemonte, ha notizia certa di almeno 50 colleghi in quarantena nella Regione, con un aumento esponenziale rispetto al giorno precedente, mentre gli infermieri sarebbero 200: «Bisognerà ragionare sui criteri per prescrivere l’isolamento domiciliare altrimenti rischiamo di lasciare sguarniti gli organici di servizi essenziali.

A Tortona, dove è stato creato un Covid Hospital cinque medici venuti a contatto con malati positivi al virus hanno continuato a lavorare». Antonio Magi denuncia le difficoltà degli specialisti ambulatoriali del Sumai che lavorano nei poliambulatori pubblici dove c’è un viavai di persone, spesso in prossimità degli sportelli dove in questi giorni si stanno creando file. Il 31 marzo scade il termine entro il quale richiedere l’esenzione dal ticket, non ancora prorogato. Ansia, stress, fatica si accumulano col passare dei giorni e pesa l’incognita di quello che potrà ancora succedere. Racconta Augusto Zaninelli, medico di famiglia a Romano in Lombardia, paese di 20mila abitanti nel bergamasco. Il 13 marzo termina la quarantena che sta trascorrendo a casa dopo aver visitato il fratello, ora ricoverato con polmonite da Sars CoV 2, e un altro paziente poi deceduto: «Come fai a tirarti indietro, come fai a mantenere le distanze quando visiti? Il fonendo lo devi comunque avvicinare ed è lungo appena 50 centimetri, la metà della distanza raccomandata».

Sabina, il turno infinito in ospedale e la commozione per le pizze in regalo. Pubblicato venerdì, 06 marzo 2020 su Corriere.it da Barbara Gerosa. «Sono passati dieci giorni o due anni, non capisco, non ricordo. Mi guardo allo specchio e mi vedo stanca ed invecchiata. Ognuno di noi lavora per due o per tre. Giochiamo fuori casa, posti nuovi o quasi, colleghi nuovi o quasi. Pochi riposi, non ci sono ferie o permessi, non ci sono figli o compagni». Inizia così il post pubblicato su Facebook da Sabina Baggioli, infermiera dell’ospedale di Lecco, passata dal reparto di Neurorianimazione a quello «Corona-Ria» dedicato alla rianimazione dei pazienti affetti da coronavirus, al terzo piano del Manzoni. I numeri dei ricoveri si moltiplicano di ora in ora, i turni non hanno mai fine. Un racconto che in poche righe racchiude la stanchezza, la fatica, la solidarietà. Eppure basta una pizza donata da un'ignota benefattrice per regalare forza e speranza. Lo racconta Sabina: «Dall’inizio settimana è la prima volta che riusciamo a buttar giù qualcosa nello stomaco per cena. Ci facciamo portare le pizze, arriva il ragazzo ed esco a prenderle. Ho tolto la cuffia e la mascherina, ho i capelli in aria e puzzo di disinfettante. Il ragazzo dalle pizze mi dice: i soldi non servono, mettili pure via, una signora che aspettava la sua ordinazione ha sentito che dovevamo consegnare alla Rianimazione e ha voluto pagare lei. Ha detto di ringraziarvi tanto e vi augura buon lavoro». L'onda della commozione supera la stanchezza. Sabina si scatta un selfie, fotografa la pizza e commenta: «Ecco un'infermiera spettinata, e che puzza di disinfettante, che si commuove con sette pizze in mano davanti a un ragazzo della pizzeria Rida. Buonanotte combattenti». Conclude Sabrina. In poche ore la sua storia ha raccolta centinaia di commenti, condivisioni e like. «Ci stiamo davvero facendo in quattro e non è un modo di dire - confida Sabina contattata telefonicamente -. Siamo a totale disposizione. La situazione, anche organizzativa, si evolve di ora in ora. La solidarietà è la ricetta migliore in questo momento. Le chiedo di cuore di ricordare la piaga che ci affligge da anni, la carenza di anestesisti e infermieri. Chieda alla gente e a chi ci governa di non dimenticarci quando, spero prima possibile, sarà tornato tutto alla normalità», il suo appello.

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 6 marzo 2020. In Lombardia il 12 per cento dei contagiati sono infermieri e medici. Mancano 250 unità, gli ospedali rischiano di fermarsi proprio mentre devono rispondere a una richiesta di assistenza dei pazienti senza precedenti. A Roma e nel Lazio, dopo i 14 nuovi positivi di ieri che sono passati dal pronto soccorso, ospedali come San Giovanni, Policlinico Casilino, Sant'Andrea, San Filippo Neri, Velletri e Latina rischiano di doversi fermare per ragioni prudenziali, circa cento unità del personale medico, anche se secondo la Regione Lazio, alla luce degli ultimi controlli incrociati, quella cifra dovrebbe essere attorno a 40-50. Ma la sintesi è che l'avanzata del coronavirus sta non solo riempiendo i reparti di terapia intensiva, ma svuotando le corsie di personale che, per ragioni di cautela, deve andare in quarantena. Sempre a Roma all'ospedale Bambino Gesù ci sono due medici in isolamento perché hanno avuto contatti con pazienti positivi (dalla struttura precisano che comunque si attende l'esito dei test e i due professionisti non stanno lavorando); all'ospedale San Camillo un medico è positivo, quindi a casa in isolamento, perché è rimasto contagiato mentre era in settimana bianca in Veneto. Altri esempi: dodici tra infermieri e operatori dell'ospedale Molinette, a Torino, sono stati messi in quarantena precauzionale dopo il caso di un paziente risultato positivo al coronavirus. Di questo passo, tra medici infettati (attorno alla zona rossa di Codogno la situazione è drammatica) e quelli in quarantena, gli ospedali si fermano. Per questo Luca Zaia, il presidente del Veneto, regione a cui mancano 400 tra medici e infermieri a causa del coronavirus, ieri ha attaccato: «Voglio chiedere che si metta mano alla norma e si dia modo ai medici di poter operare anche se presentano dei contatti con persone positive. Non possiamo mettere in isolamento fiduciario i medici per 14 giorni». La proposta: effettuare il test ogni giorno, ma se il medico o l'infermiere risulta asintomatico e negativo consentirgli di continuare a lavorare, sia pure con la mascherina. Giulio Gallera, assessore alla Sanità della Lombardia, spiega: «Noi già lo facciamo, altrimenti tutto si ferma. E poi abbiamo ridotto del 70 per cento gli interventi di elezione, lunedì blocchiamo l'attività ambulatoriale differibile. Abbiamo anticipato le lauree del corso infermieristico previste ad aprile e partiamo con le assunzioni di 315 operatori. Infine, richiamiamo medici e infermieri in pensione. Voglio rassicurare i lombardi sul fatto che tutte le attività urgenti e non differibili, sia per i pazienti cronici che per il resto dei lombardi, verranno assicurate». Si tratta di una corsa contro il tempo perché mentre aumenta il numero dei contagiati e diminuisce quello del personale sanitario disponibile, anche nelle regioni senza zona rossa, si stanno esaurendo i posti di terapia intensiva. A Roma ieri solo per il coronavirus sono diventati sette i pazienti in rianimazione. Per ora è un numero sostenibile, ma cosa succederà se il ritmo di crescita dei positivi e della parte che necessita di respirazione assistita dovesse essere in linea con quello di questi giorni o con quello del resto d'Italia? Nel Lazio ci sono 540 posti di terapia intensiva, ma sono già occupati all'80 per cento, visto che comunque vi sono anche altre patologie che normalmente richiedono questo tipo di assistenza. Per questo si sta correndo ai ripari. «In questo momento - spiega l'assessore alla Salute del Lazio, Alessio D'Amato - la priorità è garantire tutte le procedure di sicurezza, evitare nuove quarantene al personale sanitario e attuare la prima fase del potenziamento delle terapie intensive con 77 nuovi posti». In totale, i letti aggiuntivi per questo tipo di emergenza dovranno essere almeno 153, anche se in caso di necessità questo numero può essere aumentato. Altro nodo è quello dei test: nel Lazio fino ad oggi 1.175 («molto più della Francia» sottolineano in Regione), ma dopo l'incremento di ieri di nuovi casi si è compreso che centralizzare tutto nel laboratorio dello Spallanzani alla lunga potrebbe diventare insostenibile. Per questo sono stati attivati anche altri quattro laboratori, in modo da velocizzare le verifiche, anche se l'hub di riferimento resterà quello dello Spallanzani. 

Contagiato nell’ospedale focolaio, uomo muore a Napoli: “Intollerabile”. Ciro Cuozzo de Il Riformista il 21 Aprile 2020. Era ricoverato nel reparto di Medicina dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli (Napoli) quando è stato contagiato dal coronavirus a causa della presenza, nei primi giorni di aprile, di una paziente asintomatica, risultata dopo il trasferimento all’Ospedale del Mare positiva al covid-19. L’uomo, 60enne residente nel comune di Bacoli, è morto la notte scorsa al Cotugno. “Ha avuto un aggravamento delle condizioni di salute. Non ce l’ha fatta. È la seconda vittima, in città, causata dal Covid-19. Bacoli si stringe alla famiglia per il grave lutto che colpisce l’intera comunità” fa sapere il sindaco Josi Della Ragione che poi chiarisce: “Era uno dei pazienti contagiatosi nel reparto di Medicina dell’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli. Inaccettabile. Intollerabile. Nulla potrà più riconsegnare ai suoi cari il nostro concittadino. Nulla. Ma l’amarezza è davvero tanta. E si dovrà fare giustizia: individuando responsabili e responsabilità”.

L’OSPEDALE FOCOLAIO – Nell’ospedale puteolano, diventato focolaio in alcuni reparti (Medicina e Pronto Soccorso su tutti), ad oggi sono oltre 40 le persone, tra sanitari e pazienti, contagiati dopo il ricovero della donna, che ha portato l’Asl Napoli 2 nord ad chiudere alcuni reparti dell’ospedale per qualche giorno e ad effettuare oltre 700 tamponi collegati all’episodio in questione. Sul caso Santa Maria delle Grazie è intervenuto anche il sindaco di Pozzuoli Vincenzo Figliolia: “Ci sarà sicuramente un momento in cui chi ha sbagliato pagherà: a fine marzo avevo chiesto alla direzione generale di verificare le preoccupazioni mosse dai sindacati sulla sicurezza degli ambienti e del personale. Ed abbiamo tutti il diritto di conoscere gli errori della catena ospedaliera, accertando le responsabilità. Ma ci sarà un secondo tempo per poterlo fare”. !Ora, anche se gli esami dei tamponi sono ancora in corso, mi sento di dire che il possibile focolaio è sotto controllo. I positivi sono tutti in isolamento e i link di contagi sono ormai circoscritti” ha poi aggiunto Figliolia che ha anche giustificato i tempi tecnici per l’analisi degli oltre 700 tamponi: “Non sono ritardi, ma sono tempi dovuti. E vi posso assicurare che stanno lavorando incessantemente.

Coronavirus, 14 dipendenti Policlinico Foggia positivi, tra medici, infermieri e Oss. Sono due medici, 9 infermieri e 3 Oss di Medicina interna. La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2020. Sono risultati positivi al virus Covid 19 due dirigenti medici, nove infermieri professionali e tre operatori sanitari del reparto di Medicina interna universitaria del Policlinico Riuniti di Foggia. Lo comunica in una nota lo stesso ospedale. I 14 dipendenti contagiati si aggiungono ai 6 pazienti già risultati positivi nei giorni scorsi e ricoverati nell’unità operativa di Malattie Infettive, mentre tutti i dipendenti risultano, al momento, asintomatici e stanno trascorrendo l’isolamento a casa. L’intero reparto è stato sanificato. La direzione generale del Policlinico ha ricostruito la catena dei contagi, avvenuta tramite un paziente, risultato negativo a due tamponi e passato prima al pronto soccorso e poi nella cosidetta “zona grigia”. Si tratta di un degente “over 80” che sulle prime era stato trasferito nel reparto di medicina interna per la stabilizzazione del suo quadro clinico. Qualche giorno più tardi è stato dimesso, ma dopo meno di una settimana si è ripresentato in ospedale con sintomatologia tipica da Coronavirus. A quel punto, sottoposto a un terzo tampone, è risultato positivo.

Covid, 7 sanitari dell'ospedale di Castellaneta positivi al test, ma potrebbero essere di più. Ne dà notizia il sindaco di Castellaneta, nonché presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Gugliotti. La Voce di Manduria venerdì 20 marzo 2020. Come si temeva, dopo la positività al Covid del direttore sanitario Stefano Montemurro, all’ospedale San Pio di Castellaneta cova un focolaio di coronavirus. Sono sette sinora i sanitari che hanno contratto il coronavirus, sospetti su altri tre. Tra i primi sette ci sono tre dirigenti medici e quattro infermieri in servizio nei reparti e uffici del presidio ospedaliero. Ne dà notizia il sindaco di Castellaneta, nonché presidente della Provincia di Taranto, Giovanni Gugliotti, che in mattinata incontrerà il direttore generale della Asl, Stefano Rossi e il medico competente, Salvatore Piccini per stabilire le misure da adottare alla luce dei risultati dei test. I tamponi eseguiti sinora sono 54 ma lo screening continuerà oggi e domani su altro personale che ha avuto contatti con i sanitari contagiati. Il primo ad essere positivo è stato il direttore sanitario dell’ospedale San Pio, Stefano Montemurro tuttora ricoverato nel reparto infettivi dell’ospedale Moscati di Taranto.

Castellaneta, 8 positivi in ospedale. Emiliano:«Ho chiesto il licenziamento del responsabile». Il sindaco Giovanni Gugliotti ipotizza che questa emergenza possa essere stata causata da qualche medico che avrebbe violato norme sicurezza. È stata informata la Procura. La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Marzo 2020. Passa da uno a otto il numero degli operatori sanitari positivi al Coronavirus nell’ospedale San Pio di Castellaneta. Il primo positivo al tampone è stato un dirigente medico (che sarebbe andato al lavoro con la febbre), mentre ora ci sono anche tre medici primari di reparti, e quattro infermieri. Per altri tre operatori che presentano sintomi sarà ripetuto il test mentre si attende il risultato del tampone per un’altra cinquantina di operatori sanitari dello stesso ospedale. Il sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti, che è anche presidente della Provincia di Taranto, con un video-messaggio su Facebook ipotizza che «questa situazione di emergenza» nell’ospeale possa essere stata causata «da una violazione dei protocolli previsti per combattere l’epidemia del Covid-19». «Basta una piccola violazione - ipotizza il primo cittadino - basta discostarsi poco dalle indicazioni che vengono date dall’Autorità per perdere il controllo della situazione».

LA REPLICA DI EMILIANO - «Ho appreso della vicenda riguardante l’ospedale “San Pio” di Castellaneta dal direttore generale della Asl Taranto Stefano Rossi, dal direttore del Dipartimento di prevenzione di Taranto dott. Michele Conversano, dal Direttore Sanitario dell’ospedale San Pio di Castellaneta dott. Emanuele Tatò. Ho anche avuto un’importante relazione telefonica sui fatti da parte del Sindaco di Castellaneta, avv. Giovanni Gugliotti, lui stesso esposto a rischi della condotta del soggetto che, dipendente dell’Ospedale San Pio, aveva proprio il compito di vigilare il rispetto da parte di tutti delle regole di igiene atte a prevenire l’estendersi del contagio. A causa di quanto accaduto saranno probabilmente chiusi molti reparti dell’Ospedale e posti in quarantena moltissimi sanitari. Il danno provocato alla comunità è enorme. Si aggiunga che molto probabilmente queste condotte violano diverse norme penali che prevedono gravi conseguenze sull’autore dell’eventuale reato. Per questa ragione ho telefonato subito al Procuratore della Repubblica di Taranto dott. Carlo Capristo, per consentirgli di iniziare tempestivamente la sua doverosa indagine. E ho dato indirizzo al dg Rossi di avviare un procedimento disciplinare finalizzato all’eventuale sospensione e successivo licenziamento, ove i fatti ipotizzati venissero oggettivamente accertati. I medici, infermieri e operatori sanitari sono i nostri eroi, in prima linea in questa emergenza. Ma se qualcuno tra loro, anche uno solo, non rispetta le regole e le leggi, e si comporta in modo irresponsabile nell’esercizio delle sue funzioni o nella vita privata, mette a repentaglio tutto il sistema sanitario, la vita e la salute dei suoi colleghi e dei pazienti. Non abbiamo fatto altro in queste drammatiche settimane che richiamare l’attenzione sulle basilari forme di prevenzione per i cittadini comuni e tale appello vale a maggior ragione per il personale sanitario. Abbiamo detto in tutte le maniere che bisogna proteggere gli ospedali e chi ci lavora. Rispettare le regole non è una libera scelta in questo momento, ma un dovere categorico. Dal nostro rigore dipenderà il successo o l’insuccesso della battaglia contro il coronavirus».

Allarme in ospedale, il sindaco: «Medico ha contagiato 10 colleghi e infermieri». Tamponi a familiari e pazienti di tutti i reparti. Emiliano: «Sia licenziato». Il Quotidiano di Puglia Venerdì 20 Marzo 2020. Un medico della direzione sanitaria dell'ospedale di Castellaneta, il San Pio, era risultato positivo al Covid-19. I successivi 50 tamponi effettuati sul personale sanitario del nosocomio hanno evidenziato circa dieci casi positivi fra medici e infermieri. Per sette di essi - tre dei quali sono primari di reparto - l'esito del tampone è già certo, per altri tre dubbio e si sta ripetendo l'esame in queste ore. Fra i contagiati anche quattro infermieri e due caposala. Si allarga quindi il fronte del personale sanitario colpito dal coronavirus, mentre Ordini professionali e sindacati insistono nel chiedere maggiori protezioni per chi, ogni giorno, deve misurarsi in corsia con nuovi casi di contagio. A Castellaneta, intanto, si stanno eseguendo tamponi sui familiari degli operatori sanitari contagiati e sui pazienti di tutti i reparti coinvolti. Il medico contagiato - secondo quanto riporta l'agenzia Agi - lavora al San Pio e si sarebbe recato in ospedale per sottoporsi ad un intervento, entrando nella struttura avendo già la febbre. «Quello che è accaduto è gravissimo, inaudito, inconcepibile. Un medico, che lavora in ospedale, è andato lì, in nosocomio, e invece di passare dal pre triage come prevedono la procedura e i protocolli, è andato regolarmente al pronto soccorso, come se nulla fosse, e da lì è andato poi nei reparti» ha dichiarato all'Agi il sindaco di Castellaneta, Giovanni Gugliotti, che è anche presidente della Provincia di Taranto. Per questo motivo, il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano ha denunciato l'accaduto alla Procura, sollecitando il licenziamento dell'eventuale responsabile. «A causa di quanto accaduto- scrive Emiliano - saranno probabilmente chiusi molti reparti dell’Ospedale e posti in quarantena moltissimi sanitari. Il danno provocato alla comunità è enorme». «È accaduto uno sfacelo - aggiunge Gugliotti - nel senso che diversi medici,di vari reparti, sono risultati contagiati. Ma era ovvio che potesse accadere. Hanno fatto all’ospedale di Castellaneta una cinquantina di tamponi e diversi sono risultati positivi. Ma non abbiamo finito con i tamponi perché se ne faranno altri. Stamattina - sostiene Gugliotti - stiamo cercando di capirne di più e di valutare come Comune, insieme al direttore sanitario dell’ospedale San Pio, cosa fare e quali provvedimenti intraprendere. Assurdo quanto è successo - prosegue il sindaco di Castellaneta -. Anche se tu sei medico dell’ospedale di Castellaneta, non puoi, ribadisco non puoi, sottrarti ai protocolli. È invece questo è accaduto».  Nei giorni scorsi, la notizia di un altro medico contagiato all'ospedale Giovanni XXII di Bari: il medico colpito dal Covid-19, un endoscopista, lavora nel reparto oncologico, che è stato prontamento sanificato. A Bari e provincia sono stati contagiati un anestesista della Mater Dei (oltre a cinque infermieri e un Oss), un medico del Pronto soccorso del Miulli di Acquaviva delle Fonti e uno del Pronto soccorso del Giovanni XXIII. A Taranto, due medici di famiglia di Manduria, il primario otorino del Moscati e - appunto - un medico tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. A Lecce il primo medico contagiato è stato un anestesista di Copertino, al quale si sono poi aggiunti due medici delle Malattie infettive dell'ospedale leccese Vito Fazzi e il direttore della Radiologia della Cittadella della Salute, ex Fazzi. A Brindisi e provincia si contano uno pneumologo di Ostuni e due medici del Perrino. A Foggia - provincia molto colpita dal coronavirus - il contagio ha riguardato finora due medici di base. Nella Bat ci sono stati i casi dei due direttori di reparto contagiati: il primario di Medicina ad Andria, un medico di Pediatria nello stesso ospedale e poi il primario Radiologia di Barletta.

Coronavirus, medico contagia 10 colleghi dell'ospedale di Castellaneta. Ed Emiliano e Rossi dg dell' ASL Taranto tacciono...Il Corriere del Giorno il 20 Marzo 2020. Adesso tutti i medici ed il personale sanitario, che dovessero risultare positivi al tampone, rischiano di finire in quarantena e lasciare abbandonata a se stesso la struttura ospedaliera di Castellaneta. Il silenzio imbarazzante dell’ Ordine dei Medici e dell’ ASL Taranto. Emiliano sembra essersi eclissato ! Nell’ Ospedale San Pio di Castellaneta in provincia di Taranto è scoppiato un focolaio Covid-19 cioè “Corona Virus“. Il fatto di una gravità inaudita è che anche in questo caso (come nella vicenda di Torricella) a causarlo è stato un medico dello stesso ospedale pubblico. Il medico incosciente, tale Mario Montemurro,  originario di Mottola, ha avvertito i sintomi nella prima settimana di marzo, ma non ha rispettato i protocolli dettati dalle Autorità Sanitarie nazionali per l’emergenza CoronaVirus, ma ha anche infettato altre tre medici e quattro infermieri, risultati tutti positivi, per fortuna tutti con sintomi lievi. Ci sono al momento altre tre casi in corso di valutazione e  54 tamponi sono stati effettuati dai dottori Cetera e Tarasco al personale della struttura sanitaria, ed agli operatori della “Sanità Service” e dei reparti di Endoscopia, Oncologia, Pronto Soccorso e Radiologia . Al momento ci sono ben 4 caposala dell’ ospedale San Pio in malattia nelle rispettive abitazioni.I controlli con il tampone  proseguiranno oggi e domani anche su tutto il personale che ha avuto contatti con i sanitari contagiati. Sulla base di  una prima ricostruzione il dr. Montemurro dopo aver accusato sintomi avrebbe continuato a svolgere la propria attività per due settimane, lavorando a stretto contatto con il personale medico, amministrativo e parasanitario in servizio presso la struttura sanitaria, ma anche con i pazienti stessi. Il medico di Mottola nonostante avesse avvertito sintomi  si sarebbe auto-sottoposto a degli esami clinici autonomi, senza passare dal pre-triage allestito con una tenda dell’ Esercito all’esterno della struttura,  e quindi in tal caso violando la Legge . Adesso tutti i medici ed il personale sanitario, che dovessero risultare positivi al tampone, rischiano di finire in quarantena e lasciare abbandonata a se stesso la struttura ospedaliera di Castellaneta. Tutto questo per colpa di un medico, che peraltro ci risulta essere laureato in igiene e medicina preventiva, circostanza che spiega molto bene in che mani viene affidata la salute dei cittadini pugliesi. A lanciare l’allarme è stato Giovanni Gugliotti, sindaco della cittadina, nonché presidente della Provincia di Taranto,  “Quello che è accaduto è gravissimo, inaudito, inconcepibile. Un medico, che lavora in ospedale, è andato lì, in nosocomio, e invece di passare dal pre-triage come prevedono la procedura e i protocolli, è andato regolarmente al pronto soccorso, come se nulla fosse, e da lì è andato poi nei reparti. Si è permesso il lusso di girare vari reparti e ora abbiamo medici, caposala e impiegati della direzione sanitaria positivi“. “A Castellaneta fino a qualche giorno fa non avevamo nessun caso . Invitiamo  tutti i cittadini di rispettare le regole , restando a casa.  – ricorda Gugliotti –  E’ semplicemente  assurdo che a causare tutto ciò sia stata la leggerezza di un medico“. Ed ora sta per partire l’inchiesta della Procura di Taranto per gli aspetti penali. Abbiamo provato a contattare il presidente della Regione Puglia, Emiliano, che è anche assessore della salute, ma sia il suo telefono che quello della sua portavoce, Elena Laterza squillano a vuoto…ci ha risposto invece il direttore generale dell’ ASL Taranto, Rossi per il quale sembrerebbe essere tutto sotto controllo…. Di cosa meravigliarsi quindi se poi accadono questi casi ? I soliti ciarlatani della politica e dilettanti allo sbaraglio !

Coronavirus, aumento costante dei casi in Puglia: mancata prevenzione? Il Corriere del Giorno il 21 Marzo 2020. Non una sola parola viene detta sulla mancanza di mascherine, guanti, di tamponi non effettuati, che trovano purtroppo conferme in diverse strutture ospedaliere pugliesi. Ormai siamo alla follia da delirio pre-elettorale regionale. “In Puglia il numero di nuovi casi è da qualche giorno costante”: scrive su Twitter l’epidemiologo Pierluigi Lopalo, consulente della task force della Regione Puglia, rilanciando il tweet con cui ieri sera il governatore Emiliano: “Per tre giorni di seguito i casi positivi di Covid sono aumentati sempre intorno alla stessa cifra. La maggioranza dei pugliesi che si è chiusa in casa sta dando una risposta all’incremento del virus. Dobbiamo continuare così". L’ invito rilanciato da Lopalco: “Sono giorni preziosi che ci permettono di preparare al meglio la risposta. Vi prego restate chiusi in casa!“ Non una sola parola viene detta sulla mancanza di mascherine, guanti, di tamponi non effettuati, che trovano purtroppo conferme in diverse strutture ospedaliere pugliesi, circostanze queste convalidate dai vari comunicati stampa di protesta di associazioni e sindacati dei medici e del personale sanitario. A seguito dei casi di CoronaVirus all’ospedale di Castellaneta, Il presidente della Regione Puglia, Emiliano non ha perso squallidamente occasione per strumentalizzare la vicenda per motivi politici-elettorali affermando: “ho telefonato subito al procuratore della Repubblica di Taranto Carlo Capristo, per consentirgli di iniziare tempestivamente la sua doverosa indagine”. Come se un procuratore capo avesse bisogno della sua telefonata per avviare un’indagine…ormai siamo alla follia da delirio elettorale! Sarebbe interessante sapere quanto costerà ai cittadini pugliesi la consulenza dell’epidemiologo Lopalo. In Lombardia, il governatore Fontana ha ingaggiato Guido Bertolaso, medico anche lui, che costerà soltanto 1 euro a titolo simbolico alla regione lombarda. Chissà se Emiliano ha chiamato anche il procuratore capo di Bari, di Foggia, Trani, Brindisi e Lecce  invitandoli a procedere nei confronti dell’ assessore regionale alla salute (cioè di se stesso) e di tutti i direttori delle ASL pugliesi che non hanno fornito mascherine e guanti necessari a tutto il personale. Se queste procure indagassero anche sulle modalità delle decisioni adottate da alcuni medici con cui vengono effettuati i tamponi, allora si che si aprirebbero non pochi procedimenti penali. Ma non è ancora detta l’ultima parola….

Castellaneta: moglie del medico ospedaliero, accuse ingiuste. La famiglia vive “un doppio incubo”, malattia e gogna. Intervista Rilasciata al Quotidiano di Puglia il 21 Marzo 2020. Così come ieri è stato dato spazio a chi lo ritiene gravemente responsabile, oggi va dato spazio a chi dà una versione completamente diversa. In un’intervista al Quotidiano, la moglie del medico di Castellaneta additato come una specie di untore per avere trasmesso il corona virus nell’ospedale in cui lavora, dice che il marito ha seguito tutt’altro comportamento da quello addebitatogli e che la famiglia sta vivendo un doppio incubo: quello della malattia e quello della gogna. Le responsabilità eventuali andranno accertate. Il che, lo ribadiamo una volta ancora, deve fare astenere dal formulare giudizi a priori. Abbiamo tratto spunto da Quotidiano, che invitiamo a consultare per la lettura integrale dell’intervista.

“Falso che il medico abbia saltato il protocollo previsto per l’accesso al pronto soccorso non passando attraverso il ptr triage.

Falso che si andato a Milano, né in alcuna zona rossa e non ha alcuna figlia che studi in quei luoghi. Il medico è stato in servizio, in normali condizioni di salute, sino al giorno 2 marzo 2020. Domenica 8 marzo ha iniziato a presentare al proprio domicilio febbre e da quel momento non si recava al posto di lavoro. nei giorni 11 e 12 marzo la febbre regrediva e lui rimaneva comunque al proprio domicilio. la notte del 13 marzo, per il sopraggiungere di intenso dolore toracico, ha telefonato in PS chiedendo se poteva accedere, si è quindi presentato alla tenda del triage dove è stato sottoposto ai controlli preliminari e quindi è stato dato il permesso di accedere in PS. Qui, protetto da mascherina e guanti, è stato sottoposto a prelievo ed esame del torace. Nei giorni successivi, il medico ha più volte richiesto l’esecuzione del tampone, ma gli stessi sanitari interpellati hanno affermato che non erano presenti criteri per sospettare infezione da Covid-19. La colonscopia eseguita in data 3 marzo è antecedente agli eventi ed eseguita per controllo in completa assenza di sintomi. Insomma, per la famiglia, l’infezione sarebbe stata al contrario contratta dal medico in ospedale dove verosimilmente, conclude la lettera - non senza anticipare azioni legali a propria tutela – c’è un ulteriore fonte di contagio.

Il caso dei contagio al San Pio di Castellaneta, la verità della famiglia del presunto "untore". L'intervista del collega Mario Diliberto è stata pubblicata oggi sul Quotidiano di Puglia. La Voce di Manduria sabato 21 marzo 2020. Pubblichiamo l'intervista alla moglie del vicedirettore sanitario dell'ospedale di Castellaneta, Mario Montemurro, accusato di aver diffuso il coronavirus all'interno dell'ospedale. L'intervista del collega Mario Diliberto è stata pubblicata oggi sul Quotidiano di Puglia.

«Mio marito da tempo non si sposta dalla Puglia. Questa storia è surreale. Ha seguito le regole e quando aveva la febbre ha mendicato un tampone che gli è stato negato.

Viviamo un doppio incubo. Mario rischia la vita e gli hanno scaraventato addosso responsabilità che non ha.

Proprio mentre sta combattendo il Covid-19 nel letto di un ospedale.

Mirella Gatto trattiene a stento le lacrime al telefono. E un fiume in piena, però, nel difendere suo marito Mario Montemurro, il 60enne vicedirettore sanitario dell'ospedale San Pio di Castellaneta, in provincia di Taranto, bollato come l'untore del Covid-19 nel presidio sanitario.

Da giorni Mirella, che di professione fa l'avvocato, e le figlie convivono con la malattia di Mario. E contemporaneamente schivano cattiverie e accuse piovute da tutte le parti e con tutti i mezzi. Un delirio a colpi di post e a chat unificate. Con il picco raggiunto ieri quando sono arrivati gli esiti dei tamponi eseguiti al San Pio, con sette operatori risultati positivi. Quel verdetto e le parole del Governatore Emiliano e del sindaco Gugliotti hanno alimentato una campagna di odio contro il vicedirettore sanitario, dipinto come un irresponsabile.

Capace di entrare in ospedale tacendo i sintomi del Covid-19.

Mirellla, però, racconta una storia molto diversa, puntellata da dati oggettivi. A cominciare dal fantomatico viaggio a Milano imputato a Montemurro. La vox populi sostiene che lui sia andato in Lombardia in piena emergenza "coronavirus" a prendere la figlia universitaria. Una balla facilmente verificabile. Il medico effettivamente ha due figlie. Entrambe studiano medicina. La più grande a L'Aquila, la più piccola in un paese straniero. La prima è rientrata a casa dall'Abruzzo molti giorni prima della malattia del papà. L'altra quando il medico aveva già la febbre «Questa è solo una delle tante bugie che abbiamo sentito' - sentenzia Mirella. «Mario - spiega - ha avuto la febbre l'8 marzo. E da quel momento non è più andato in ospedale. Ha informato i colleghi e il medico curante. Ha anche chiesto di essere sottoposto al tampone. Per lavoro ha contatti con tanta gente e voleva escludere ogni ipotesi. Non hanno voluto farglielo. Lo hanno preso persino in giro. Ho ancora nelle orecchie le parole di chi lo sbeffeggiava. Lui, comunque, è rimasto sempre in casa.

Da quell'8 marzo, quindi, Montemurro si è curato nella sua abitazione, senza accantonare quel dubbio Covid che accompagna un po' tutti in questo tremendo periodo. «Si è isolato in casa. Abbiamo confinato una delle nostre figlie nella tavernetta - continua la moglie - per evitare ogni tipo di rischio. Uno così accorto può mai essere superficiale in un ospedale?». Assolutamente no a seguire il lucido racconto di quei giorni. Perché quella febbricola alla fine è andata via. «Si è ripreso e sembrava stare meglio.

Il 13 marzo - dice Mirella Gatto - ha avvertito un senso di oppressione al petto. Ha contattato l'ospedale e gli hanno detto di andare. L'ho accompagnato io e abbiamo seguito la procedura. Siamo usciti di casa indossando guanti e mascherina. Così bardati siamo passati dalla tenda del pretriage dove hanno misurato la temperatura ad entrambi. Sono stata registrata anche io. Ho ancora il foglietto che mi hanno dato. Non ha nascosto alcuna informazione e lo hanno sottoposto ai raggi. Per loro era tutto ok e lo hanno rispedito a casa. Qualcosa che non andava, però, c'era. Perché due giorni dopo la situazione è precipitata. Montemurro ha accusato problemi respiratori e la famiglia ha contattato uno dei numeri per l'emergenza Covid. «E' arrivata prima l'automedica e poi l'ambulanza. Lo hanno portato al Moscati dove è stato sottoposto al tampone che ha invocato inutilmente per giorni. Ed è risultato positivo. Non abbiamo idea di come possa averlo contratto. Di certo anche lui è stato contagiato. Immagino in ospedale. Da qualcuno che non è stato individuato. Forse è un paziente asintomatico. Questa è la pura verità. Dove ha sbagliato mio marito? E quanto è ingiusto tutto quello che stiamo subendo? Noi e soprattutto lui. Accusato delle peggiori cose in un momento in cui non si può nemmeno difendere.

Coronavirus, allarme per i medici: più di 30 quelli malati. I casi ufficiali censiti dall’Iss sono 22 ma in due giorni sono ulteriormente cresciuti. Tra gli ultimi anche un camice bianco tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. Massimiliano Scagliarini il 19 Marzo 2020 su la Gazzetta del Mezzogiorno. C’è una emergenza nell’emergenza che rischia di mettere in crisi il sistema sanitario. La diffusione dell’epidemia di covid19 tra il personale medico sta assumendo proporzioni preoccupanti anche in Puglia. Il dato ufficiale dell’Istituto superiore di sanità aggiornato a lunnedì sera parla di 22 operatori sanitari contagiati, ma nel frattempo il totale dovrebbe aver ampiamente superato le 30 unità. Più o meno in linea con la media nazionale (calcolata dall’istituto Gimbe), che è pari all’8% del totale dei contagi ma che risente del caso Lombardia. Ma non c’è da esserne soddisfatti, anche perché in Puglia si registra la positività al virus di numerosi primari e in alcuni casi si potrebbe essere di fronte a episodi di malpractice. Nessun dubbio naturalmente sul grande impegno del personale medico, impegno che ieri su queste colonne il direttore dell’unità di Igiene del Policlinico di Bari, Michele Quarto, ha definito «eroico» pur lanciando l’allarme: «Attenti alla troppa generosità, anche noi medici dobbiamo stare molto attenti. Rischiamo di avere focolai ospedalieri». La mappa del contagio medico, in Puglia, è molto lunga. A Bari finora hanno contratto covid19 un anestesista della Mater Dei (oltre a cinque infermieri e un Oss), un medico del Pronto soccorso del Miulli e uno del Pronto soccorso del «Giovanni XXIII». A Taranto due medici di famiglia di Manduria, il primario Otorino del «Moscati» e un medico tarantino della direzione sanitaria dell’ospedale di Castellaneta. A Lecce uno dei primi casi in assoluto ha riguardato un anestesista di Copertino, ma ci sono anche due medici delle Malattie infettive del «Fazzi» e un il direttore della radiologia di un poliambulatorio privato. A Brindisi si contano uno pneumologo di Ostuni e due medici del «Perrino». A Foggia il contagio ha riguardato finora due medici di base (uno è il sindaco di San Nicandro Garganico) e sono a rischio alcuni medici di «Casa Sollievo» (dove 16 dipendenti sono malati). Situazione particolarmente complicata nella Bat con due direttori di reparto contagiati: il primario della Medicina di Andria, e quello di Radiologia di Barletta, oltre che un medico della Pediatria di Andria e almeno altri due medici del primo reparto. Per quanto riguarda il primario di Radiologia di Barletta, il tampone è risultato negativo. Il caso della Medicina di Andria è piuttosto delicato. Il primario era infatti stato sottoposto a tampone in quanto sintomatico, e in attesa dell’esito per quasi due giorni ha continuato la propria attività in ospedale pur febbricitante, facendosi fare anche una radiografia senza passare dal triage. Martedì il medico è poi risultato positivo, costringendo la Asl a chiudere il reparto e a mettere in quarantena oltre 40 persone: due suoi colleghi ieri sono risultati positivi, un terzo è a rischio. «I test effettuati sui pazienti - dice il direttore generale della Asl Bat, Alessandro Delle Donne -, escludono che possa essersi trattato di una infezione nosocomiale. Questo ci ricorda la necessità di protezione, in particolare per tutti gli addetti sanitari, anche al di fuori dell’ospedale». Sempre nella Bat è in quarantena precauzionale il direttore della Radiologia di Barletta, che ha sottoposto a radiografia un sacerdote poi risultato contagiato. Il quadro dunque è particolarmente complesso, soprattutto perché la maggioranza dei contagi di medici - a quanto risulta dalle inchieste epidemiologiche finora effettuate - non sono legati a esposizione diretta a pazienti covid19 in ambito ospedaliero. Vuol dire che il medico ha contratto l’infezione altrove e l’ha «importata» in ospedale. In questo senso va letto l’allarme lanciato dal professor Quarto sul rischio che il personale medico in generale - se le cautele non sono rispettate in maniera molto stringente - possa diventare esso stesso focolaio di contagio: alcuni dei medici che hanno contratto covid19 in Puglia risultano aver svolto attività assistenziale e ambulatoriale nei giorni precedenti, senz’altro con il lodevole obiettivo di non far mancare l’assistenza ai cittadini. Tuttavia in alcuni dei casi finora esaminati c’è il sospetto che le regole di cautela, che impongono la quarantena in caso di sospetto anche ai medici, possano essere state disattese. - Precisiamo che il dottor Emanuele Tatò, direttore sanitario dell’ospedale di Castellaneta, non è stato colpito da covid19 e che il contagio riguarda un altro medico della direzione sanitaria dell’ospedale. Ci scusiamo per l’errore con il dottor Tatò. [m.s.]

In prima linea senza difese. La protesta dei medici di base. Grido d'allarme in Lombardia: "Il rischio è di essere superdiffusori. Vogliamo fare i tamponi". Francesca Angeli, Mercoledì 18/03/2020 su Il Giornale. Camici bianchi in prima linea senza difese. Questa volta i medici di famiglia dell'area di Milano e hinterland, quella più sotto pressione, sono allo stremo e hanno deciso di mettere nero su bianco la denuncia del mancato rispetto delle regole di sicurezza previste dal decreto del governo. E non è il solo motivo di protesta da parte dei medici che chiedono di essere testati rispetto alla possibile positività da coronavirus. In sostanza si monitorano soltanto quelli con sintomi già manifesti. Un errore clamoroso perchè i primi ad essere in contatto con i pazienti fragili sono proprio i camici bianchi che da settimane denunciano il rischio che ciascun medico sia un «superdiffusore». Per questo tutti i sindacati medici insistono sulla necessità di estendere «i tamponi a chi, in ragione della sua professione, rischia di più di essere contagiato dal Covid-19: medici, infermieri, tecnici, operatori socio sanitari, inclusi i dipendenti delle cooperative sociali». I tamponi vanno estesi in primis a loro, «per isolare anche i positivi asintomatici, per proteggere le persone». Nell'esposto dello Snami che è indirizzato anche al Presidente della Regione, Attilio Fontana, e a tutte le autorità competenti il presidente provinciale, Roberto Carlo Rossi scrive: «I medici di famiglia sono stati lasciati ancora allo sbaraglio, senza adeguati dispositivi di protezione individuale, mascherine omologate, camici monouso, occhiali, guanti» strumenti indispensabili ad un esercizio della professione in sicurezza e che nell'emergenza risultano prescritti per legge. Il malessere dei medici di base in Lombardia cresce giorno dopo giorno. Da quando è esplosa l'emergenza coronavirus le chiamate sono aumentate in modo esponenziale. Agli anziani poi è stato chiesto di non uscire quindi i medici di base dovrebbero recarsi in casa ma se poi si espongono al rischio di un contagio, come è accaduto ad un medico di base di Lodi, in condizioni gravissime. Rossi denuncia al prefetto i «gravi accadimenti in netto contrasto con il Dpcm dell'8 marzo scorso» chiedendo di mettere in atto ciò tutto ciò che serve a consentirne il rispetto: in pratica di requisire tutto quello che serve e metterlo a disposizione dei medici.Ad oggi, denuncia Rossi, sono state consegnati dalle Asl «poche mascherine chirurgiche, mediamente 5 a medico; camici monouso non idrorepellenti, mediamente 2 a medico; mediamente una confezione di 100 guanti; nessun tipo di occhiali o visiera». Ma «le idonee mascherine che questo sindacato aveva reperito sul mercato e ordinate per fornirle, in sostituzione del mancato adempimento di parte pubblica, ai tanti medici che ne hanno fatto richiesta non sono consegnabili per intervento del Governo che risulta aver bloccato tutte le importazioni. Quindi noi medici in prima linea sul territorio ci troviamo non solo senza i dispositivi di protezione individuale prescritti da Governo e Regione che non li distribuisce, ma anche nell'impossibilità di acquistarli a nostre spese anche dopo averli reperiti autonomamente». Dunque mascherine e tamponi che invece stentano a decollare in molte regioni nonostante l'appello dell'Organizzazione mondiale della Sanità rilanciato dal rappresentante del board italiano, Walter Ricciardi. «Un semplice messaggio per tutti i Paesi: test, test, test. Fate il test a ogni caso sospetto di Covid-1», scrive in un tweet Ricciardi. Se questi pazienti risultano positivi, ammonisce l'agenzia Onu per la Sanità, bisogna isolarli e scoprire con chi hanno avuto contatti stretti fino a 2 giorni prima che sviluppassero i sintomi in modo da testare anche queste persone.

COME FANNO A ESSERCI 700 OPERATORI SANITARI POSITIVI AL CORONAVIRUS IN LOMBARDIA? Dagospia il 15 marzo 2020. Approfondire se gli operatori sanitari si sono infettati al lavoro? In risposta al Dr. D’Ancona, Istituto Superiore di Sanità. Caro Dr. D’Ancona, ascoltare questa frase “Operatori contagiati? Dobbiamo approfondire se l’esposizione (al covid NDR) è avvenuta professionalmente o al di fuori dell’ambiente di lavoro....” qualunque sia stato il suo scopo, credo abbia fatto male a tutti gli operatori sanitari in servizio in questi giorni in ospedale. 

Approfondiamo: mentre tutti sono a casa per mantenere la “distanza di sicurezza” e ridurre i rischi di contagio, un esercito di operatori  fa girare gli ospedali. La “distanza di sicurezza” in Ospedale non esiste. Ci sono precauzioni e procedure, è vero, ma ogni paziente che arriva va aiutato a spogliarsi, visitato, gli va fatta una radiografia, se va ricoverato va messo a letto. Se ha una frattura non è autonomo ha bisogno di assistenza, anche per bere un bicchiere d’acqua o fare la pipì: se è COVID negativo, a rischio COVID o positivo, non importa, troverà  la stessa mano, che lo aiuterà. La mano di un operatore che agisce secondo procedure che riducono, non annullano il rischio.

Approfondiamo: le procedure sono efficaci? I dispositivi sufficienti? Non abbiamo dati a riguardo. Da uomo di scienza dico gli epidemiologi a emergenza finita diranno se i dispositivi indossati dal personale sono stati efficaci sul rischio di contagio. Per ora vale il buon senso, correndo il  rischio. Ciascun operatore agisce con competenza,  nessuno si sente al sicuro:  “auto-isolati”, tornando a casa non abbracciamo i figli per non propagare il rischio, mangiamo un boccone in solitudine, dormiamo sul divano, una doccia, e si torna in servizio. È domenica, sono fuori turno in ospedale: do una mano e non espongo la famiglia. All’operatore che affronta i suoi rischi professionali con serenità perché fa parte del suo lavoro, si deve riconoscere l’importanza di quello che fa: dalle Sue parole non traspare.

Approfondiamo anche il patto sociale tra la comunità e chi corre rischi: vale per le forze dell’ordine, vale per i magistrati, ma questa emergenza deve insegnare che anche gli operatori della sanità sono esposti in prima linea (e non solo da  oggi...).

Approfondiamo che gli  operatori sanitari peggio pagati d’Europa (controllare gli stipendi di ausiliari, infermieri fisioterapisti e medici) oggi sono  un modello di azione per i nostri vicini di casa Francesi e Tedeschi, riconosciamogli anche solo per questo la gratitudine che meritano: costa meno di un adeguamento di stipendio, ma è ugualmente efficace a tener su il morale.

Approfondiamo infine come stanno i nostri colleghi a casa infettati da COVID, non sono pochi...  a noi interessa che la tosse passi, che la febbre vada via, e che tornino presto al lavoro perché abbiamo bisogno di loro; a voi il compito di approfondire come se la sono presa, noi lo sappiamo già.

Cesare Faldini Direttore Clinica Ortopedica Universita di Bologna Istituto Ortopedico Rizzoli

Niente più quarantena per i sanitari esposti al coronavirus, la denuncia del sindacato medici. Attualmente in Italia i sanitari contagiati sono più di duemila. La Voce di Manduria martedì 17 marzo 2020. Per effetto di un recente decreto legge, tutti i dipendenti degli ospedali o del servizio 118, medici, infermieri, tecnici, ausiliari, addetti alle pulizie, esposti a pazienti positivi al coronavirus, non devono andare in quarantena. La sospensione dal lavoro è prevista solo se si presentano i sintomi o in caso di accertata positività al Covid-19. Secco il rifiuto dell’Anaao Assomed che definisce la situazione paradossale: «il territorio è stato messo al riparo con chiare istruzioni con istruzioni chiare di distanziamento sociale, gli ospedali no e rischiano di diventare sedi di contagio». A tal proposito il sindacato dei medici sta presentando opportuni emendamenti in sede parlamentare. Il dissenso è legato al notevole aumento del rischio clinico, per il lavoratore e per i pazienti, data la grave e persistente carenza di dispositivi personali di protezione (maschere, occhiali, tute di bio contenimento), di tamponi e il colpevole ritardo nell’eseguire e processare gli stessi. Da qualche giorno i tamponi eseguiti in provincia di Taranto vengono processati a Foggia e non più a Bari. Per l’Anaoo Assomed , le Asl devono mettere in sicurezza tutti gli operatori impegnati in prima linea (Emergenza/Urgenza, Terapie intensive, Malattie infettive, Pneumologia, etc) ed adottino le seguenti misure. Per questo è necessario:

- fornire adeguati DPI (in particolare maschere FFP2, guanti, visiere e sovracamici), in quanto all’interno delle Strutture Sanitarie oramai non è più possibile discernere chi è stato esposto da chi no. I medici e gli infermieri potrebbero diventare fonte loro stessi di infezione, per cui negli altri setting deve essere obbligatorio indossare mascherine chirurgiche, guanti e visiere.

- Che il medico preposto a procedure di generazione di aerosol sia tutelato con maschere FFP3, come da linee guida scientifiche internazionali.

- Che venga abolito immediatamente il divieto, che alcune Asl hanno imposto, di indossare le mascherine negli spazi comuni e venga altresì imposto perlomeno negli spazi comuni dei reparti.

- Che il personale esposto si sottoponga obbligatoriamente a tampone, eventualmente dopo 72 ore di isolamento fiduciario, e che il risultato sia prontamente disponibile (5-7 ore). Il ritardo sia nell’esecuzione che nella processazione del tampone ha risvolti colposi, poiché favorisce il contagio.

In caso contrario, alla luce delle ulteriori misure restrittive decise dal Governo, sottolinea il sindacato, i Presidi Ospedalieri diventeranno l’unica area di contagio del paese, anziché di cura. Attualmente in Italia i sanitari contagiati sono più di duemila. 

(ANSA il 24 marzo 2020) Sono 84 a Roma, 6 a Latina, 2 a Viterbo e 2 a Frosinone, per un totale di 94, i medici contagiati dal nuovo coronavirus nel Lazio. A comunicarlo è Antonio Magi, presidente dell'Ordine provinciale di Roma dei medici chirurghi e odontoiatri. I dati però, afferma, sono "sottostimati e per questo è necessario fare i tamponi a tutti gli operatori sanitari. Non c'è più tempo". Istituire presso ogni Asl un registro di tutti i sanitari a rischio per sottoporli a tampone. E' quanto prevede un documento della Regione Lazio varato ieri con raccomandazioni e direttive alle Asl circa la sorveglianza degli operatori sanitari alla luce "della crescente richiesta di bisogno assistenziale legata all'epidemia di COVID-19 con l'esigenza di proteggere il personale sanitario che si espone a casi confermati di infezione all'interno delle strutture sanitarie". Per contatti a rischio, si legge nel documento, si intendono "operatori delle Strutture del Servizio sanitario regionale od altra persona che ha fornito assistenza diretta ad un caso di COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso di COVID-19 senza l'impiego dei Dispositivi di Protezione Individuale (Dpi) raccomandati o mediante l'utilizzo di DPI non idonei". E' precisato inoltre che "al fine di garantire la continuità dell'assistenza sanitaria il personale non risultante ad alto rischio, venuto a contatto con paziente affetto da COVID 19 prosegue la propria attività professionale, previa osservanza delle norme di prevenzione e protezione per l'esposizione a rischio, di adeguate misure di contenimento del contagio ed è sottoposto a sorveglianza sanitaria attiva". Sono 51 nel Lazio i medici contagiati dal Covid-19, tra ospedalieri, medici di famiglia e del 118. Il dato viene fornito dal sindacato Anaao Assomed Lazio. Alcuni, spiegano, sono ricoverati all'Ospedale Spallanzani, altri sono in isolamento a casa. All'Ospedale Sant'Eugenio di Roma è stato chiuso il reparto di oculistica dopo che 7-8 medici e una decina di infermieri sono risultati positivi. 

Medici contagiati, l'attesa e le paure dei loro assistiti. A tutti in ogni caso viene consigliato di non avere contatti stretti con i parenti e di misurarsi la temperatura almeno due volte al giorno. La Voce di Manduria mercoledì 18 marzo 2020. Sono stazionarie le condizioni di salute dei due medici di famiglia manduriani risultati positivi al coronavirus. Entrambi dall’altro ieri si trovane in una stanza d’isolamento del reparto malattie infettive dell’ospedale Moscati di Taranto. Sono invece molto preoccupati i loro rispettivi assistiti che nelle ultime settimane (per almeno due c’è maggior rischio di contagio), hanno avuto bisogno dei propri curanti. La notizia girata in pochi minuti già da domenica sera, ha creato panico soprattutto tra le persone anziane ma in generale tra i circa tremila mutuati dei due professionisti. Molto impegnativo è il lavoro dei responsabili del Dipartimento di salute pubblica della Asl di Taranto che sta contattando una ad una le persone che sono state visitate dai due medici nelle ultime due settimane. Un lavoro impegnativo a lento che sinora, almeno da un piccolo sondaggio lanciato sulla pagina Facebook del nostro giornale, ha raggiunto appena il 12% dei mutuati potenzialmente a rischio. A loro stanno risalendo sulla base delle ricette emesse e registrate nel sistema di immagazzinamento dati della Asl. Gli assistiti vengono così chiamati telefonicamente e in caso di mancanza di numeri direttamente a casa dai tecnici Asl e vengono interrogati per stabilire il grado di rischio di un possibile contagio. A tutti comunque viene consigliato un periodo di isolamento per un periodo di quattordici giorni successivi alla data di emissione della ricerca. A tutti in ogni caso viene consigliato di non avere contatti stretti con i parenti e di misurarsi la temperatura almeno due volte al giorno. Ogni mattina, invece, gli addetti dell’ufficio di prevenzione Asl li contatta telefonicamente per rilevare eventuali sintomi, disturbi di ogni genere e la temperatura corporea. Naturalmente sfuggono ai controlli coloro i quali si sono recati dai medici senza prescrizione ma solo per un consulto qualsiasi di cui non è rimasta traccia. Di rassicurante c’è il fatto che, a quanto pare, negli ultimi giorni i due medici abbiamo visitato indossando i dispositivi di protezione individuale, come maschera e guanti, proprio per evitare rischi di contagio.

L’anomalia di Teramo: 40 sanitari positivi in ospedale, «Il nostro focolaio è lì». Simona Musco il 28 marzo 2020 su Il Dubbio. L’appello del sindaco: «La struttura va commissariata, sanificata e blindata. Sono necessari tamponi a tappeto ma è stato perso molto tempo». La guerra che si combatte in corsia è doppia. Si combatte per i pazienti, sostenendo turni di lavoro massacranti, con presidi di protezione individuale insufficienti. E si combatte anche la propria battaglia personale contro il virus. Dalle strutture ospedaliere del fronte il bollettino di guerra è impietoso: al 26 marzo sono 6.414 gli operatori sanitari contagiati, 200 in più in un solo giorno, medici e infermieri che hanno un’età media di 49 anni, nel 65% dei casi donne. E sono state 46, a ieri, le vittime in camice del coronavirus. Una lista nera che viene aggiornata quotidianamente dalla Federazione nazionale dell’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri, che continua ad allungarsi. «È lecito supporre questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa», afferma il presidente nazionale della Fnomceo, Filippo Anelli. Anelli critica l’inadeguatezza «del modello ospedalo- centrico per far fronte ad epidemie di questa portata». Servono, dunque, «percorsi dedicati esclusivamente al Coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari». Il caso Teramo. In questo quadro a tinte fosche spicca il caso dell’ospedale Mazzini di Teramo, dove giovedì sono risultati positivi 40 sanitari a lavoro in reparti non Covid. Si tratta di 14 infermieri e due medici di oncologia, 14 tra infermieri e oss e due medici di medicina; tre tra infermieri e OSS più un medico di chirurgia toracica, un medico di diabetologia, uno di anatomia patologica, un infermiere e un medico di cardiologia. Un dato che potrebbe crescere, in quanto l’Asl è in attesa di nuovi referti. «Abbiamo avuto diversi giorni di vantaggio rispetto al nord prima del diffondersi del virus – spiega al Dubbio Gianguido D’Alberto, sindaco di Teramo -, giorni che dovevano servire per preservare gli ospedali e il personale sanitario, baluardo della lotta contro il virus, dal contagio. È vero che anche negli altri territori gli ospedali sono stati attaccati, ma in contesti in cui al di fuori dell’ospedale il virus si era già diffuso. Il paradosso, a Teramo, è che mentre la situazione, fuori, è tutto sommato sotto controllo, il focolaio, nell’area della provincia, sta dentro l’ospedale». E ciò, secondo il sindaco, a causa della mancata adozione delle misure necessarie, «che chiedevamo tutti da settimane, in primis i medici». Ovvero la dotazione di dispositivi di protezione personale, l’adozione di protocolli sanitari e un’azione di monitoraggio, effettuando tamponi al personale sanitario. «È mancata una guida – ha aggiunto -. Bisogna ricordare che il Mazzini non segue solo pazienti Covid, ma è un ospedale multispecialistico punto di riferimento per l’intera provincia. E va preservato in modo assoluto o rischia di saltare l’intero sistema sanitario della zona». Per D’Alberto il problema è l’aver voluto gestire in maniera ordinaria un’emergenza. «È necessaria una figura commissariale, un esperto che affianchi il direttore generale per aggredire questa emergenza e salvare gli ospedali». L’obiettivo è sanificare l’ospedale – che conta 24 posti Covid, terapia intensiva compresa – blindarlo e ripartire, partendo da tamponi a tappeto tra tutti coloro che vi lavorano, dal personale sanitario agli impiegati. «Oggi questo meccanismo si è messo lentamente in moto ma già i primi pesantissimi riscontri impongono una immediata accelerazione e, soprattutto, una programmazione sanitaria emergenziale immediata conclude D’Alberto -. Non è ammissibile tergiversare. Nessuna polemica ma un intento costruttivo, nessuna ricerca di responsabilità per eventuali ritardi od omissioni, ma la chiamata ad una maggiore responsabilità da parte di tutti, perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno. A nessuno può sfuggire come, al di là dell’emergenza dettata dalla pandemia, vi sia una normalità sanitaria, una serie di malattie e di urgenze che continuano a verificarsi» .

Lorenzo Nicolini per romatoday.it l'8 giugno 2020. Inizieranno oggi, presso i drive-in della Asl Roma 3, i test a tutti i contatti stretti ed ai pazienti già dimessi dall'Irccs San Raffaele Pisana di Roma, identificato come nuovo cluster della Regione Lazio. Qui, secondo i dati forniti dall'assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D'Amato nel tardo pomeriggio del 7 giugno sono risultati ulteriori due positivi e si tratta di parenti di pazienti della struttura: il totale complessivo dei casi positivi al coronavirus sale così a 37. "Il focolaio è stato contenuto grazie alla tempestività dell'intervento da parte della sanità pubblica. - ha commentato D'Amato  - Questo focolaio dimostra che non bisogna abbassare la guardia e vanno rispettate tutte le indicazioni. Rimangono solo una decina di tamponi su circa settecento che vanno riprocessati per indeterminatezza". Sull'origine del focolaio, invece, non sono mancate le polemiche. Sull'origine del focolaio il Commissario straordinario della Asl Roma 3, Giuseppe Quintavalle ha dichiarato che "è probabile che il caso indice del focolaio sia riferibile ad alcuni operatori della struttura". Una frase che ha innescato subito un botta e risposta con i gestori della clinica intervenuti con una nota ufficiale. "Contrariamente a quanto riportato nelle comunicazioni regionali, dai dati in possesso della struttura e messi a disposizione della Asl sembra emergere una origine derivata dall'invio di pazienti già positivi da parte di alcuni presidi ospedalieri" ha scritto il San Raffaele. "Quanto infine alla citazione nei comunicati e dichiarazioni regionali in merito a presunte "negligenze" della struttura - sottolinea la nota - si precisa nuovamente che al contrario sono state scrupolosamente rispettate ed applicate tutte le disposizioni nazionali e regionali emanate al fine della protezione dei pazienti ed operatori dal rischio contagio da Covid 19. Di tali misure rigorosamente rispettate e' già stata fornita piena evidenza fattuale e documentale alla asl RM 3". L'irccs San Raffaele di Roma confida, pertanto, "che l'indagine epidemiologica in atto ed alla quale pienamente collabora potrà dimostrare la correttezza dell'operato dell'istituto, smentendo così tali generiche e non dimostrate affermazioni regionali ampiamente riportate da tutti i media con piena riserva della tutela in ogni sede dell'immagine e dell'onore dell'Istituto e dei suoi operatori ai quali va il ringraziamento più sentito per l'abnegazione e lo spirito di servizio e sacrificio sin qui dimostrato". In serata l'ulteriore precisazione con una nota dalla Asl Roma 3: "Al momento è probabile che il caso indice del focolaio sia riferibile ad alcuni operatori della struttura anche perché, secondo l'ordinanza regionale del 18 aprile 2020, i pazienti ammessi nella struttura, oltre ad essere sottoposti ad un adeguato distanziamento e l'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, debbono per 14 giorni essere posti in isolamento precauzionale". La gestione della clinica della Pisana è la stessa della struttura di Rocca di Papa. Qui scoppiò un cluster che contò 159 casi positivi e 17 morti. In quel caso lo scontro tra Regione Lazio e San Raffaele si incentrò allora sulla corretta somministrazione dei tamponi e l'assistenza ai pazienti. La Pisana arrivò ad avviare una procedura di revoca dell'accreditamento.

San Raffaele, salgono a 93 gli operatori e i pazienti positivi al Covid. "E il numero salirà". Morta paziente di 89 anni. Pubblicato venerdì, 12 giugno 2020 da La Repubblica.it. San Raffaele, ormai i casi positivi sono 93, con decine e decine di persone ora in quarantena perchè venute in qualche modo a contatto con i pazienti o con gli operatori della struttura di riabilitazione alla Pisana. E sempre oggi è deceduta al Covid Hospital Columbus una donna di 89 anni probabilmente infettata nell'ospedale-focolaio. "Apprendiamo ora dalla Asl Roma 3 che dai tamponi di controllo eseguiti ieri, a distanza di 5 giorni dalla prima tornata, sono emersi altri 16 casi positivi presso l'Irccs San Raffaele Pisana di cui 14 pazienti, tutti collegabili con i primi pazienti positivi nella struttura, e due operatori. I pazienti sono tutti in trasferimento verso l'istituto Spallanzani ed è stato dato mandato alla struttura San Raffaele di comunicare tempestivamente le informazioni ai famigliari. I due dipendenti positivi sono un operatore sanitario e un fisioterapista in sorveglianza a domicilio. E' stato possibile individuare questi nuovi positivi grazie ai tamponi di controllo, eseguiti dopo 5 giorni dai primi tamponi, a tutti i pazienti e gli operatori rimasti nella struttura". E ancora: "Questo focolaio si dimostra impegnativo, ma il sistema dei doppi controlli sta funzionando, grazie alla tempestività degli interventi messi in atto sono stati individuati questi nuovi casi che erano negativi ai tamponi precedenti. Il focolaio raggiunge così al momento un totale di 93 casi positivi, destinati ad aumentare".

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 15 giugno 2020. Da uno a centonove casi. Cinque morti. Sempre che la conta degli infetti si fermi qui. L'epicentro, il San Raffaele Pisana, istituto noto nel panorama della riabilitazione neuromotoria privata, periferia Ovest di Roma, ora semi-deserto, coi reparti evacuati per le sanificazioni e la sorveglianza strettissima della Asl. Mentre la Regione coi tamponi a tappeto insegue lo spettro del contagio che si allarga ogni giorno che passa, raggiungendo le altre province del Lazio, da Rieti a Latina, agli studi della Rai a Saxa Rubra, a Guidonia, i carabinieri del Nas scandagliano nella direzione opposta, restringendo a ritroso il cerchio degli ammalati, spulciando le cartelle cliniche, gli accessi, i certificati di dimissione, le visite dei parenti. Dopo un'ispezione nella sede della Asl Roma 3 la settimana scorsa, il Nucleo Antisofisticazione e Sanità dell'Arma, guidato da Maurizio Santori, ha spedito una prima informativa al pm Nunzia D'Elia. Una relazione preliminare che ricostruisce l'attività d'indagine sin qui svolta e che formula le prime ipotesi. La prima domanda, quella che interroga anche gli esperti del Seresmi, il Sistema d'indagine epidemiologica regionale, è quasi scontata: da dove è partito tutto? Qual è l'origine del focolaio che da giorni gonfia i numeri dei positivi al Covid nel Lazio e che agita in qualche modo la Capitale, abituata a una curva dei contagi ormai sotto ai livelli di guardia da settimane? Insomma, chi è il paziente uno? Gli accertamenti sono ancora in corso, ma il campo d'indagine nelle ultime ore sembra essersi ristretto sostanzialmente a tre piste. Tre nomi. Due sono dipendenti dell'Irccs San Raffaele, l'altro è un paziente che dopo avere avuto un tampone negativo, è risultato positivo al Sars-CoV-2. Una circostanza, quest'ultima, che spinge gli investigatori ad approfondire le procedure dei tamponi ai degenti, sia in arrivo che in uscita dalla clinica. Sotto la lente anche la sperimentazione dei test sierologici avviata dall'istituto privato e che ha coinvolto 250 sanitari e 200 pazienti. Un progetto che, hanno spiegato dal San Raffaele, «è stato eseguito sotto la supervisione del Ministero della Salute e che rappresenta una verifica in più interna». La Regione però nega un'autorizzazione ufficiale. L'origine del contagio viene ormai fatta risalire almeno ad un mese fa, tanto che la stessa Asl sta richiamando per i tamponi di controllo tutti i pazienti dimessi dal 1 maggio in poi. Dei tre positivi che potrebbero essere considerati il caso uno, due sono dipendenti della struttura. Uno è un fisioterapista risultato positivo al Covid il 3 maggio. Secondo l'istituto privato, però, sarebbe rientrato al lavoro dopo due tamponi negativi, come vuole la procedura. L'altra è un'impiegata amministrativa. La terza pista porta invece a un paziente ormai dimesso da tempo dalla struttura. Sottoposto a un tampone, era risultato negativo. Poco dopo è stato trovato positivo. Un paziente che si è positivizzato, come a volte capita, o un errore durante l'analisi? Dubbi che solo le successive indagini potranno chiarire. Ma la sensazione è che ormai il cerchio si stringa. La catena del contagio che ha portato alla moltiplicazione dei casi prende forma. I Nas hanno chiesto all'azienda sanitaria locale gli elenchi dei pazienti dimessi, i pazienti dei day hospital, la lista delle visite ambulatoriali, del ricevimento di famigliari e altri ospiti ammessi all'interno della struttura alla Pisana. Il San Raffaele ieri ha fatto sapere che «dal 9 marzo nessun familiare ha avuto accesso alla struttura se non in pochissimi casi debitamente autorizzati e strettamente controllati e con l'applicazione di tutte le relative cautele». L'istituto si è detto certo di avere «sempre posto in essere le cautele e le precauzioni previste dalle norme nazionali e regionali in materia di Covid-19 e del suo contrasto, ivi compresa la messa a disposizione del personale di tutti i presidi previsti». Nella clinica della Pisana, pensata per 298 posti letto, ormai restano 79 pazienti; 13 sono in uscita. Nel frattempo i casi collegati al cluster aumentano. Ieri, altri 5 positivi. Due sono operatori sanitari dell'istituto, un altro è il famigliare di un paziente dimesso. «Ad oggi sono stati effettuati oltre 4 mila test per circoscrivere questo focolaio, si tratta di uno sforzo senza precedenti su un'unica struttura», rimarca l'assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D'Amato. L'onda del contagio è arrivata fino al quartier generale della Rai, dove si è arrivati a 110 test: 60 esami sabato, altri 50 ieri. Cinque tecnici della tv positivi, in attesa dell'ultima carrellata di risultati. E le analisi andranno avanti.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 16 giugno 2020. Una crepa nelle diagnosi. Un paziente positivo al Covid a cui non sarebbero stati effettuati tutti gli esami necessari. E il contagio che si propaga fino a raggiungere quota 111 infetti e cinque morti. La Procura di Roma indaga sul cluster del San Raffaele Pisana, il focolaio che gonfia da giorni le statistiche sul coronavirus nella Capitale. Ieri i carabinieri del Nas hanno ispezionato per oltre quattro ore la clinica da 298 posti letto alla periferia Ovest dell'Urbe, nome noto nel panorama della riabilitazione neuromotoria privata. Su mandato del pm Nunzia D'Elia, i militari del Nucleo Antisofisticazione e Sanità, guidati dal Maurizio Santori, hanno perlustrato tutti e quattro i piani dell'istituto, chiedendo conto delle procedure interne legate all'emergenza Covid e scandagliando cartelle, rapporti, elenchi su pazienti, medici, infermieri e altri dipendenti della struttura. Anche se l'indagine è alle prime battute, le tessere del mosaico iniziano a comporsi. Alcune piste perdono quota. Altre invece sembrano avvicinare gli inquirenti al caso uno, l'origine del focolaio. Gli investigatori sembrano ormai convinti che a portare il bacillo del Sars-CoV-2 all'interno dell'istituto sia stato un paziente. In un primo momento, gli accertamenti si erano concentrati anche su due dipendenti della clinica - un fisioterapista positivo al virus il 3 maggio e un'impiegata amministrativa - ma le ultime verifiche hanno cambiato lo scenario. Nell'ultima informativa dei carabinieri sono annotati i nomi di 3 pazienti assistiti nei reparti di riabilitazione cardiologica e riabilitazione respiratoria. La scoperta della positività al Covid-19 risale al 2 giugno, a quel punto l'istituto si è immediatamente attivato, contattando la Asl. Ma il sospetto di chi indaga è che il contagio possa risalire a diverse settimane prima e che sia rimasto sottotraccia. Anche il Servizio sanitario regionale, difatti, sta richiamando tutti i degenti dimessi dal 1 maggio in poi. L'inchiesta punta alle possibili falle nelle diagnosi dei ricoverati, prima o dopo l'accettazione al San Raffaele. L'obiettivo è capire se gli ospedali da cui i pazienti provenivano abbiano realizzato tutti gli esami necessari e se lo stesso abbia fatto la clinica privata di via della Pisana. Secondo fonti investigative, alcuni ricoverati avrebbero presentato patologie compatibili con una sindrome respiratoria fin dall'inizio. Il quadro clinico quindi, prima o dopo l'approdo all'istituto di riabilitazione, avrebbe potuto essere considerato diversamente. Aspetti a cui solo gli accertamenti dei prossimi giorni potranno dare risposta. Dal San Raffaele assicurano di avere rispettato tutte le procedure. Il fascicolo appena aperto in Procura è senza ipotesi di reato e indagati, al momento. La Regione intanto prova a mettere argine al focolaio, che dalla clinica ha raggiunto le altre province del Lazio, da Rieti a Latina (ieri altri due casi a Guidonia), al quartier generale della Rai a Saxa Rubra, dove però il contagio sembra essersi arrestato: dopo i 5 operatori tv infettati, gli ultimi 50 test negli studi tv hanno dato esito negativo. In totale, per provare a rintracciare i casi riconducibili al cluster sono stati eseguiti quasi 5 mila esami in pochi giorni. «Il doppio di Vo' Euganeo», ha sottolineato ieri l'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato. «Nel caso del San Raffaele - ha aggiunto - ci sono state delle lacune che adesso stiamo ricostruendo. C'è un problema di percorsi, di direzione sanitaria e di controlli». Ma il sistema delle verifiche incrociate, è convinto l'assessore, «ha funzionato, si è risposto con grande tempestività, ma non dobbiamo mai abbassare la guardia perché sono situazioni che possono ripresentarsi». All'interno dell'istituto restano sessanta pazienti. Insieme al personale sanitario, saranno sottoposti a un nuovo ciclo di esami nei prossimi giorni. Sperando che stavolta, a differenza di quanto accaduto la settimana passata, i tamponi negativi, ripetuti, non diventino positivi.

Il grido d'allarme dei medici: "Per noi pochi tamponi e risultati in ritardo". Continua ad aumentare il numero degli operatori sanitari infettati. La denuncia dei camici bianchi: "Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio". Luca Sablone, Giovedì 02/04/2020 su Il Giornale. La circolare del Ministero della Salute del 20 marzo impone che la comunicazione del risultato deve avvenire entro 36 ore per il personale sanitario, ma ci sono casi in cui si aspetta anche 6 giorni il referto del tampone. Questa la surreale situazione che vivono i medici, impegnati in prima linea contro il Coronavirus ma che non ricevono un trattamento da eroi. Nel frattempo continua ad aumentare il numero dei camici bianchi infettati dal Coronavirus: sono saliti a 10.007, mentre il giorno precedente erano 9.512. Le Regioni più colpite sono Lombardia (oltre 6mila contagiati tra medici, infermieri, Oss e tecnici di laboratorio) ed Emilia-Romagna (944). Mirko Schipilliti a Il Fatto Quotidiano ha raccontato la sua esperienza: "Fortunatamente in quei giorni ero a riposo: una pura casualità. Ma a tanti miei colleghi è andata molto peggio, hanno atteso giorni il referto pur dovendo rimanere in corsia, senza sapere se erano positivi, mettendo a repentaglio, oltre ai pazienti, le loro famiglie".

Il medico del pronto soccorso dell'azienda ospedaliera dell'ospedale Sant'Antonio di Padova sostiene che le aziende sanitarie dovrebbero allinearsi e cercare di ottenere i massimi risultati "dando la priorità al personale sanitario e al paziente con la febbre che deve essere ricoverato". Le mascherine non risolvono il problema dei ritardi: "Siamo a poco meno di 2mila tamponi. Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio, né giocare con procedure così delicate come la sorveglianza". Anche perché ogni giorno in più rappresenta "un pericolo per il sanitario, i suoi famigliari, i pazienti".

La denuncia. È stata fatta una protesta contro la direzione generale e il direttore sanitario, senza però ottenere alcun risultato: "Ci è stato solo detto che c’è un problema tecnico legato alla tipologia delle macchine che processano i tamponi e nulla di più". Schipilliti si è dovuto recare in ospedale per fare il terzo test senza nemmeno sapere se il secondo era positivo: "Tutto questo spalanca lo scenario di denunce alla magistratura". Sulla questione è intervenuto anche Adriano Benazzato, segretario regionale del sindacato Anaao, che ha messo in risalto le critiche condizioni in cui i medici sono costretti a lavorare: "Oltre alla carenza di personale, o mancano le mascherine protettive o mancano i reagenti per i tamponi". Intanto il governatore Luca Zaia ha annunciato l'indagine sierologica che dovrebbe coinvolgere inizialmente i 54mila dipendenti della sanità e delle case di riposo della Regione. Il governatore ha anche parlato di una speciale "patente" a chi ha sconfitto il virus e sviluppato gli anticorpi.

Il giallo dei tamponi ai medici: "Quei risultati attesi da un mese". Il giallo dei tamponi: "L'ultimo test è stato fatto più di un mese fa". I medici avvertono: "Basta un contagiato e si torna a tutto ciò che stiamo vivendo". Luca Sablone, Venerdì 03/04/2020 su Il Giornale. Circa 180 camici bianchi, tra medici di base e pediatri del Lodigiano, stanno continuando a lavorare per garantire supporto a coloro che sono a casa in convalescenza o presentano sintomi sospetti da Coronavirus. A preoccupare però è un fatto agghiacciante: il primo (e unico) tampone risale al 25 febbraio. Una situazione aberrante che è stata denunciata da Massimo Vajani in prima persona: "La mia è una battaglia che continua da settimane. Serve assolutamente effettuare i tamponi a tappeto per tutti i medici e i pediatri del territorio". L'ultimo controllo è stato effettuato più di un mese fa, a pochi giorni dal primo caso del paziente 1 a Codogno che risale al 21: "È troppo poco perché solo nell'ultimo mese abbiamo continuato a lavorare senza sapere se eravamo contagiosi o meno in un territorio, come quello Lodigiano, dove potenzialmente tutti possono aver contratto il virus". Il presidente dell'Ordine dei medici di Lodi ha espresso dubbi sui medici di base nella provincia epicentro del contagio da Covid-19 in Italia: addirittura in molti non avrebbero ricevuto neanche l'esito del primo test "per la grande confusione che nei primi giorni dell'emergenza ha colpito i laboratori di analisi".

"Preoccupati per la riapertura". Come riportato da Il Giorno, i medici sono piuttosto allarmati in vista di una possibile imminente ripresa delle attività, ovvero quando il governo stabilità l'entrata nella fase 2: bisognerà convivere con il virus e far ripartire gradualmente il Paese. Inevitabilmente diverse persone dovranno rivolgersi ai medici di base per chiedere i certificati per poter tornare a lavoro dopo il periodo di malattia: "Solo chi è negativo a due tamponi consecutivi può ritenersi guarito dal Coronavirus. Se questi test però non vengono fatti come facciamo?". I rischi sono ovviamente seri e concreti: "Anche un solo caso positivo può far ripartire tutto quello che abbiamo vissuto nell'ultimo mese. A rischio ovviamente c'è la salute di tutti". Intanto continua ad aumentare il numero degli operatori sanitari infettati: ieri vi abbiamo parlato del grido d'allarme dei camici bianchi, che lamentano pochi tamponi e risultati in ritardo. La situazione surreale è stata sollevata da un medico del pronto soccorso dell'azienda ospedaliera dell'ospedale Sant'Antonio di Padova: "Siamo a poco meno di 2mila tamponi. Non possiamo più tollerare inerzie o sottostime del rischio, né giocare con procedure così delicate come la sorveglianza". Anche perché ogni giorno in più rappresenta "un pericolo per il sanitario, i suoi famigliari, i pazienti".

Alessandra Corica per “la Repubblica” il 5 aprile 2020. «Ma quali eroi. Servono le mascherine, i guanti, le visiere. Quello che ancora non si è capito è che se non si proteggono i medici, non si proteggono i cittadini: i protocolli vanno rivisti». Filippo Anelli è il presidente della Federazione degli ordini dei medici: ogni giorno l' ente aggiorna la conta dei morti tra i camici bianchi, ieri è arrivata a 80, altre 25 le vittime tra gli infermieri. «Occorrono i dispositivi di protezione individuale, i tamponi da fare ogni cinque giorni a chi lavora in ospedale, dei nuovi modelli di protezione che tengano conto non solo degli ospedali ma anche degli ambulatori sul territorio. Ieri sera sembra siano arrivate a Malpensa delle nuove forniture per i medici di famiglia, tra oggi e domani dovrebbero iniziare a distribuirle, vedremo come andrà», dice Anelli. Ancora scottato dall' ultima volta: le forniture consegnate dalla Protezione civile nei giorni scorsi le hanno dovute ritirare, erano «inutilizzabili » dal punto di vista sanitario, tanto che la Federazione ha deciso di girarle ad associazioni ed enti benefici. «Siamo stanchi di promesse, non ci bastano le parole: non abbiamo più lacrime per piangere i nostri morti». Sono 11.252 gli operatori sanitari finora contagiati, oltre 4 mila in Lombardia nella quale il fabbisogno di sole mascherine chirurgiche supera il milione di pezzi al giorno. In tutta Italia trovarle resta problematico, negli ospedali si fa fatica e ancora peggio negli studi dei medici di base. Che se non le hanno acquistate in autonomia ne sono sprovvisti, e ora minacciano la serrata. «Continuano tutti a dire grazie a noi medici. Ma finora per proteggerci è stato fatto poco», riflette Carlo Palermo, numero uno dell' Anaao, il sindacato dei medici ospedalieri. «L' Italia si è basata su una comunicazione dell' Oms del 27 febbraio che diceva che le mascherine chirurgiche le devono portare solo i malati e chi se ne occupa. Ma quella nota è stata scritta pensando al contesto mondiale, all' Italia così come al Corno d' Africa. Non porsi il problema che qui si potesse fare di più è assurdo». E adesso? «Se testassimo tutti i medici, almeno il 10 per cento risulterebbe positivo». Con buona pace dell' assistenza ai pazienti, che in questo modo rimarrebbero scoperti visto che una parte dei sanitari sarebbe costretta a rimanere a casa in quarantena per curarsi. Carlo Montaperto, presidente lombardo dell' Anpo, l' associazione dei primari, scuote la testa: «Non si può dire che le mascherine in ospedale non servono nei reparti senza pazienti con Covid-19, solo perché non si è in grado di acquistarle. Come si fa a essere certi che quel paziente che visitiamo per altre ragioni non sia asintomatico?». Il 28 marzo l' Istituto superiore di sanità ha diramato delle linea guida sull' utilizzo dei dispositivi di protezione negli ospedali: prevedono le mascherine chirurgiche in alcuni contesti, quelle Ffp2 e Ffp3 in altri. E poi i camici, le visiere, gli occhiali, tutto da modulare a seconda della vicinanza al paziente infetto, non da indossare in tutti i luoghi dell' ospedale, insomma. Le direttive sono "in itinere", potrebbero cambiare, «visto che di questa patologia spiega Angelo Pan, primario di Malattie infettive a Cremona, membro del pool che ha steso il documento ancora si conosce poco, quel che rimane fondamentale è fare attenzione, non confondere le zone contaminate con quelle pulite, lavarsi benissimo e spesso le mani». Nel suo ospedale ci sono circa 500 malati con Covid-19, in 200 tra medici e infermieri finora sono stati contagiati: «Fino al 20 febbraio ci eravamo preparati, ma pensando che avremmo dovuto accogliere qualche paziente con Covid-19, non certo l' inferno che si è scatenato».

Da tgcom24.mediaset.it il 2 maggio 2020. Gli specializzandi "escono di casa e hanno una vita sociale molto attiva. Sono questi i soggetti che nel momento in cui si inseriscono nell'ospedale creano maggior pericolo". Lo ha detto Daniele Donato, direttore sanitario dell'Azienda ospedaliera di Padova, in una video conferenza. Un'"accusa" che non è affatto piaciuta ai rappresentanti degli specializzandi che replicano: "Vogliamo scuse pubbliche". Nel video, Donato afferma che la diffusione del contagio nel personale sanitario sarebbe avvenuta soprattutto "nei momenti di socializzazione al di fuori dell'area assistenziale" tra gli specializzandi: "Nel momento in cui erano in ospedale e dovevano seguire tutte le misure di barriera erano estremamente precisi e monitorati, ma nel momento in cui si trovavano nella loro sala per mangiare un panino assieme o per usare il computer, questi comunque hanno trovato dei momenti di contatto e di comunione che hanno favorito la trasmissione del virus". "Scuse pubbliche e immediate", replicano gli specializzandi. "Il Direttore Sanitario dovrebbe vergognarsi e scusarsi pubblicamente con tutti gli specializzandi che ogni giorno permettono il funzionamento dell'Azienda", afferma Andrea Frascati, presidente di Mespad Specializzandi Padova. Medici, sottolinea, che hanno lavorato in prima linea in tutti i reparti dell'Azienda, "inizialmente senza idonei dpi e in assenza di adeguate disposizioni dalla direzione medica". Ora Mespad, spiega Frascati, sta valutando se adire le vie legali per contestare l'accusa di procurata epidemia e il danno d'immagine.

L'Asl apre un'inchiesta dopo la denuncia in diretta tv di Burioni: "Costretta a lavorare con il Covid". Il caso di una dottoressa cuneese in servizio nonostante la positività. Sara Strippoli su La Repubblica il 28 aprile 2020. La Regione aspetta di saperne di più prima di pronunciarsi e, eventualmente, intervenire. L'Asl Cuneo 1 ha annunciato un'indagine. Il direttore generale Salvatore Brugaletta dice di non aver nulla da dire e rimanda ogni dichiarazione all'Unità di crisi. Ma quello di Renata Gili, dottoressa di guardia medica dell'Asl Cuneo 1 è un racconto dettagliato e preciso. E il suo non sarà certo l'unico caso. Per mettere a fuoco le falle di una gestione che si può soltanto sperare sia adesso superata, la dottoressa Gili ha scelto di inviare una lettera a Roberto Burioni con cui collabora alla rivista Medical Facts. L'infettivologo l'ha letta in diretta domenica a " Che Tempo che fa " , la trasmissione di Fabio Fazio. Renata Gili ci ha messo la faccia: collegata da casa ha raccontato, dati e fatti precisi. Dopo un mese è ancora positiva al Covi- 19. Il 9 marzo, nei giorni del caos della prima fase dell'emergenza in Piemonte, lei ha la febbre. Immagina che potrebbe essere coronavirus, ha mal di gola, perdita del gusto e dell'olfatto. Lo comunica. Nessun tampone, all'epoca le regole erano chiare: autorizzazione soltanto nel caso di contatti con una persona positiva. Il 12 la febbre passa. Per l'azienda dovrebbe tornare a lavorare. Lei, convinta di essere contagiata, organizza cambi di turno con i colleghi e decide di autoisolarsi. Sa bene qual è il rischio per gli altri. Riesce a evitare il lavoro fino al 20 marzo, giorno in cui riesce a fare il test. Il risultato arriva il 24 marzo ed è positivo. Peccato che il 23 marzo le dicano di tornare al lavoro. Ci va: " Per dodici ore racconta - ho lavorato in una stanza chiusa a contatto con i colleghi". Cosa sarebbe successo se invece di un giorno quel contatto ci fosse stato per due settimane consecutive? Burioni dice di essere stupefatto: " Il 9 marzo potevano mancare i tamponi, ma questo non è accettabile ". L'indagine promessa non dovrebbe richiedere tempi lunghi. Renata Gili non ha intenzione di parlare della sua Asl, citare nomi, ma è convinta che il suo non sia un caso isolato: "Non voglio parlare di una realtà specifica, il mio è un esempio che si ripete in molte realtà. Spero di aver parlato in modo costruttivo per evidenziare un problema che si è verificato e sul quale sarebbe importante correggere il tiro".

''EROI UNA MINCHIA''. Dal sito dell'USB Lombardia, Unione Sindacale di Base il 16 marzo 2020. Oggi in Lombardia e in tutto il Paese si svolgerà un flash mob per ringraziare del lavoro incessante tutti gli operatori sanitari. Un applauso unanime  sottolineerà lo sforzo enorme a cui tutti sono sottoposti. In un momento in cui l'attenzione generale è rivolta all'emergenza del coronavirus, e che tutti si stanno rendendo conto di cosa possa significare avere un sistema sanitario all'altezza, chiediamo che insieme all'applauso si levi un grido di rabbia per chi ha, negli anni, distrutto il SSN e realizzato questo sistema sanitario criminale, in modo che, finita l’emergenza, si possa discutere su come cambiarlo radicalmente. Tra gli operatori sanitari della Lombardia - e temiamo presto in altre parti del paese - in queste ore, insieme al doveroso senso di responsabilità, all'impegno strenuo,  alla stanchezza e alla paura, si sta facendo spazio anche la rabbia. In molti si sentono abbandonati da un sistema che fino ad oggi li ha sfruttati oltre i limiti, facendoli lavorare costantemente in carenza di organico e al momento con dispositivi di protezione spesso inadeguati, per qualità e quantità, mettendone a rischio la salute. Un sistema che sta negando persino la possibilità di un tampone di controllo a chi lavora in corsia, a stretto contatto con pazienti e colleghi infetti; una circostanza che ha aumentato la rabbia nel leggere che, ad esempio in serie A, ad ogni caso di positività, viene effettuato il tampone a tutta la squadra e all’intero staff. Da questa contraddizione l'idea di lanciare l'hashtag #EroiUnaMinchia, a sottolineare come ad un'idea, comunque esagerata, di eroismo (è il nostro lavoro) che si sta diffondendo tra la gente, si contrapponga un non adeguato livello di attenzione per i lavoratori da parte di chi amministra la sanità. Un sistema sordo alle richieste che abbiamo costantemente rivolto alle aziende e alle istituzioni. Le compatibilità economiche - dettate spesso dall’UE - hanno impedito per anni di investire sulla sanità pubblica ma non certo di privatizzare, esternalizzare, tagliare posti letto, chiudere reparti  e Pronto Soccorso “improduttivi”. E nemmeno quando si poteva assumere e stabilizzare (dal 1 gennaio scorso) gli amministratori regionali e aziendali hanno ritenuto di doverlo fare con la velocità necessaria, malgrado i nostri solleciti. Corrono adesso che il danno è fatto. Tra l’altro con assunzioni temporanee, con l’evidente intenzione di far tornare tutto alla situazione precedente, finita l’emergenza. Noi, operatori della sanità lombarda, presenteremo il conto quanto questa emergenza sarà finita. A chi ha gestito la sanità diciamo: Vi costringeremo a ripensare questo sistema sanitario che avete precarizzato, appaltato, privatizzato, regionalizzato, insomma distrutto! Vi costringeremo a discutere sui veri numeri del contagio, sulla reale situazione degli ospedali lombardi in questa fase, sulla gestione del tutto.  Intanto, in attesa di arrivare alla resa dei conti, vi chiediamo DI METTERE IN SICUREZZA I LAVORATORI DELLA SANITÀ. Questo al momento non sta avvenendo in modo efficace. Mancano DPI, non si capisce la logica dei controlli sui tantissimi contagiati tra i lavoratori, non vi sono controlli efficaci sulle strutture private, da dove ci arrivano segnalazioni di aziende che non forniscono nemmeno le mascherine a chi lavora in corsia. La Sanità non è una missione che ha bisogno di martiri. La sanità è uno strumento che deve garantire la salute. Chi vi lavora non è un eroe, un martire o un missionario: è un lavoratore che ha competenze in quel settore e ha diritto ad ogni tutela perché non deve morire di lavoro. Deve poter ritornare in famiglia senza paura di portare un'ecatombe virale in casa. Chiediamo:

LA COSTITUZIONE DI UN FONDO STRAORDINARIO CON FONDI EUROPEI – la stessa Europa che con le sue politiche ha creato questo disastro - che serva a finanziare l’intervento di emergenza e  la ricostruzione del sistema sanitario su altre basi e su differenti presupposti:

BASTA PRIVATIZZAZIONI ED ESTERNALIZZAZIONI. ASSUNZIONE E STABILIZZAZIONE DI PERSONALE. RITORNO AL SISTEMA SANITARIO NAZIONALE CON L’ANNULLAMENTO DEI LIVELLI DI AUTONOMIA REGIONALE ED AZIENDALE che, come dimostrano questi giorni di emergenza, impedisce un controllo generalizzato e univoco  per gestire l’emergenza.

Una emergenza che, proprio per queste ragioni, speriamo non si allarghi a regioni dove il sistema sanitario è ancora più debole perché, il timore è forte, le conseguenze potrebbero essere inimmaginabili.

Luca Fraioli per “la Repubblica” il 25 marzo 2020. Se è vero che in Lombardia gli ospedali sono stati tra i focolai dell' epidemia, è proprio sulle strutture sanitarie che si deve intervenire per evitare che l' incendio divampi nel resto del Paese. Che qualcosa non abbia funzionato lo ha ammesso Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive dell' ospedale Sacco di Milano, uno degli esperti più ascoltati in questi giorni di crisi. Lo hanno scritto nero su bianco, in una lettera al New England Journal of Medicine , i medici del Giovanni XXIII di Bergamo. Lo dimostrano i numeri dei contagiati tra il personale sanitario: più di 5000, quasi il 10 per cento di coloro risultati positivi al tampone, percentuale che in Lombardia sale al 12. Lo confermano le elaborazioni di Enrico Bucci, professore di Biologia dei sistemi alla Temple University di Philadelphia: «In condizioni normali, all' inizio dell' epidemia da coronavirus, ogni contagiato ne infetta in media altri 2,5. In alcuni ospedali lombardi questa capacità di contagio è stata compresa tra 6 e 7», spiega Bucci. Dunque, un malato di Covid-19 arriva al Pronto soccorso e infetta altre sette persone, tra pazienti, medici e infermieri. Ciascuna di queste ne infetta altre sette e così via: in poche ore quel caso iniziale ne innesca centinaia. «Purtroppo la normale organizzazione di un ospedale non è adatta a fronteggiare un virus che si trasmette per via aerea e con un alto tasso di contagiosità, anzi spesso fa da centro di diffusione», ammette Pierluigi Lopalco, professore di Igiene all' Università di Pisa e ora consulente della Regione Puglia per l' emergenza coronavirus. «Paradossalmente, in questo momento in cui tutta Italia è chiusa in casa, gli ospedali sono gli unici luoghi dove migliaia di persone si ritrovano a stretto contatto. Anche lì andrebbero prima di tutto ridotte le relazioni interpersonali, per esempio rendendo impossibili i passaggi da un reparto all' altro». Negli ospedali lombardi, travolti dall' onda di piena dell' epidemia, non è stato possibile. Così come sono saltate le precauzioni che si mettono in atto per arginare la diffusione di un virus nelle corsie. «Nelle strutture specializzate in malattie infettive è la prassi, ma in un ospedale generale non sempre si fa attenzione a certe procedure», ammette Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dello Spallanzani di Roma. «Dovremo fare una riflessione approfondita su quanto è successo». «Temo che in Italia manchi la cultura per affrontare le epidemie», sostiene Andrea Crisanti, microbiologo dell' Università di Padova e consulente della Regione Veneto per l' emergenza Covid-19. «Le persone che ci hanno consentito di uscire dalla malaria, dal tifo e dal colera purtroppo non sono più tra noi, altrimenti questa epidemia avrebbe avuto un' altra storia». Anche il professor Lopalco sottolinea la scarsa attenzione che finora si prestava a certe procedure negli ospedali italiani. «Fui criticato quando, mentre l' epidemia esplodeva in Cina, dissi: chissà cosa succederà in Italia con la cultura del controllo delle infezioni e dell' igiene che c' è nei nostri ospedali ». Intende dire che sono sporchi?  «No, mi riferisco per esempio alla scarsa abitudine del personale a lavarsi le mani. Se si vanno a guardare le statistiche dell' Oms, si scopre che il consumo di gel disinfettante negli ospedali italiani è abbastanza basso rispetto agli standard. Le norme prevedono che un medico si lavi le mani dopo aver visitato ogni singolo paziente ». Anche per il professor Bucci «i medici non sono preparati, perché da generazioni non hanno visto un' epidemia come questa. C' è urgente bisogno di un cambio di mentalità, che coinvolga e tuteli principalmente il personale sanitario e le strutture ospedaliere». Anche perché con 400 operatori sanitari che si ammalano ogni giorno si rischia di non avere abbastanza truppe per combattere il virus. Ed ecco allora la ricetta di Bucci: test continui a tutto il personale sanitario, identificazione dei medici immuni da utilizzare nelle zone a rischio, utilizzo di personale ausiliario meno esperto per il controllo degli accessi, delle procedure di sicurezza e per la vestizione dei medici, preparazione di strutture residenziali dedicate per il personale medico. «Noi in Puglia ci stiamo provando », dice Lopalco. «Con percorsi differenziarti per i malati di coronavirus. Nei nostri ospedali ormai si accettano solo le urgenze, ma ogni malato va trattato come se fosse positivo. Anche chi arriva per una frattura deve indossare la mascherina».

Coronavirus, tornano ad aumentare i nuovi positivi. Morti altri tre medici. Ancora casi a Codogno. Ieri registrati 4492 nuovi positivi al Covid-19 in Italia. Stop al calo dopo quattro giorni. Sequestrati in Calabria 900 falsi kit per la diagnosi. La ministra Azzolina: esami di maturità con membri interni e presidente esterno. Il Papa dona 30 respiratori agli ospedali. La Repubblica il 27 Marzo 2020. Giorno dopo giorno si allunga la lista dei medici deceduti sul campo per Covid-19. All'alba è morta Anna Maria Focarete consigliere provinciale della Fimmg di Lecco. A Bergamo sono morti Benedetto Comotti e Giulio Calvi. Lutti che portano il numero dei camici bianchi deceduti ad un totale di 44. A raccogliere questo drammatico elenco è la Fnomceo su una pagina del sito listata a lutto che sarà presto aggiornata tre volte al giorno.

La guerra di medici e infermieri, oltre 6mila contagiati e 41 morti. Redazione de Il Riformista il 26 Marzo 2020. I segni delle mascherine lasciati sui volti dei sanitari dopo ore e ore di lavoro. Le loro foto, i loro selfie, le loro immagini hanno fatto il giro del mondo prima che tutto il mondo scoprisse la pandemia. Li hanno – editorialisti e politici – chiamati “angeli”, li hanno chiamati “eroi” di una “guerra” contro un “nemico invisibile”. Di retorica insomma se n’è sprecata ma ci sono i dati a fotografare ancora meglio e senza alcun bisogno di enfasi aggiuntiva: sono 6.205 i medici e gli operatori sanitari  contagiati, oltre il 9% degli infetti totali da coronavirus nel Paese. E le vittime sono state 41 in tutto. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri (FNOMCeO), proprio sulle condizioni di lavoro del personale sanitario, ha scritto alla prestigiosa rivista settoriale, il British Medical Journal. Ai medici italiani – come scrive il presidente Filippo Anelli – vanno innanzitutto garantite misure di protezione e di sicurezza. “È lecito supporre – dichiara Anelli – che questi eventi sarebbero stati in larga parte evitabili se gli operatori sanitari fossero stati correttamente informati e dotati di sufficienti dispositivi di protezione individuale adeguati: mascherine, guanti, camici monouso, visiere di protezione, che invece continuano a scarseggiare o ad essere centellinati in maniera inaccettabile nel bel mezzo di un’epidemia a cui pure l’Italia si era dichiarata pronta solo a fine due mesi fa”. È quindi fondamentale, continua il presidente Fnomceo, sottolineare l’inadeguatezza del “modello ospedalo-centrico per far fronte ad epidemie di questa portata, com’è diventato evidente dopo la chiusura di interi ospedali in Italia per la diffusione dell’infezione tra medici, infermieri e pazienti. Errore fatale è stato e in taluni casi rischia di continuare ad essere l’assenza di percorsi dedicati esclusivamente al coronavirus quanto ad accesso, diagnostica, posti letto e operatori sanitari”. Poiché le epidemie, conclude Anelli, si controllano sui territori, non negli ospedali. E lo si fa attraverso l’identificazione, il doppio screening, il monitoraggio, la sorveglianza.

PROTEZIONI TARDIVE – L’appello sulla pagine del British Medical Journal reclama dunque dispositivi di protezione e tamponi da eseguire in maniera sistematica agli operatori del pubblico e del privato. Dello stesso avviso il presidente della Fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta: “Un mese dopo il caso 1 di Codogno i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza. Inoltre la mancanza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari, conseguente anche al timore di indebolire gli organici – continua Cartabellotta – si è trasformata in un boomerang letale. Infatti, gli operatori sanitari infetti sono stati purtroppo i grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali, residenze assistenziali e domicilio di pazienti”. Dispositivi di protezione individuale – quali mascherine, guanti, visiere – sono stati annunciati ma in molte strutture continuano a scarseggiare. La procura di Torino ha aperto un’inchiesta su tale penuria. E Raniero Guerra, direttore vicario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), ha ribadito come queste forniture debbano essere completate e come i tamponi vadano effettuati “su categorie mirate, oltre che, ovviamente sugli operatori della sanità”.

IL RITORNO DEI PENSIONATI – In Emilia Romagna una direttiva regionale ha permesso ai medici asintomatici (e volontari) di tornare al lavoro. E sono stati numerosi i medici in pensione tornati a indossare il camice per dare il proprio contributo contro il Covid-19. E ancora più numerosi sono stati gli aspiranti, gli specializzandi convocati in corsia spesso prima del tempo. Al bando, lanciato dal ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, per la task force di 300 volontari di supporto alle strutture sanitarie regionali hanno proposto circa 7.900 medici. E molti altri sono in dirittura d’arrivo presso alcune delle aree – Brescia, Bergamo, Piacenza – più colpite nel Nord Italia. Nel frattempo continuano a fare il giro dei social le foto come quella dell’infermiera Alessia, come quella dell’infermiera Elena Pagliarini , come quella del medico specializzando Nicola Sgarbi.

“VITTIME DEL DOVERE” – Sulle pagine del Corriere della Sera Paolo Di Stefano si chiedeva se non fosse il caso che  le vittime avessero il “diritto, in memoria, ai benefici che spettano a quelle figure, appartenenti alle forze di polizia e alle forze armate, che la legge definisce Vittime del dovere: non solo i caduti sui fronti della guerra, della criminalità, dell’ordine pubblico, ma anche quelli che hanno prestato servizio ‘in operazioni di soccorso e di tutela della pubblica incolumità’”. È un’idea. Bisognerebbe pensarci, mentre continuiamo a chiamarli “angeli”, mentre continuiamo a chiamarli “eroi”.

Infermieri,  monta la protesta: «Non siamo carne da macello». La tensione è altissima perché mancano mascherine, tamponi e camici. L'associazione di categoria di Lombardia e Piemonte ha scritto al governo lasciando aperta l'ipotesi di uno sciopero. «I mille euro in più grazie al decreto? Un'elemosina vergognosa». Gloria Riva il 14 marzo 2020 su L'Espresso. Monta la protesta degli infermieri di Lombardia e Piemonte: «Mancano mascherine, tamponi e dispositivi di sicurezza. Siamo allo sbando», dicono i segretari regionali del sindacato degli infermieri Nursing Up, Claudio Delli Carri e Angelo Macchia. Che continuano: «Vogliamo dispositivi di protezione individuale e tamponi subito, non siamo carne da macello. Veicoliamo il contagio e abbiamo paura per le nostre famiglie. Pare, inoltre che nel decreto in approvazione dal governo ci sia un'indennità di mille euro per gli operatori sociali, per quello che stiamo facendo. Mille euro è un'elemosina vergognosa». La tensione è altissima e l'associazione degli infermieri di Lombardia e Piemonte ha scritto al governo lasciando aperta l'ipotesi di uno sciopero della categoria, che è il più esposto al contagio in queste ore. Da giorni lamentano l'assenza di approvvigionamenti, di camici adeguati, di calzari, ma anche delle mascherine che impediscano il contagio e di tamponi per verificare la positività al contagio: «L’esecutivo conta sull’alto senso del dovere dei suoi soldati, mentre sono impegnati in trincea. Noi infermieri non siamo bassa manovalanza e chiediamo di essere trattati da professionisti: a partire dagli approvvigionamenti, che scarseggiano ancora oggi a scapito della nostra incolumità. Ma ricordiamo che la garanzia della nostra incolumità è anche la vostra. Andate a vedere cosa succede laddove ci stiamo ammalando: un dato assente dalle tabelle della Protezione civile e da quelle delle Regioni. Quanti sono gli infermieri contagiati? Domandiamoci perché non viene reso pubblico. Dov’è la sicurezza sul lavoro per gli operatori sanitari?». Così i segretari Claudio Delli Carri del Piemonte e Angelo Macchia della Lombardia commentano il protocollo di sicurezza varato ieri e le anticipazioni sul decreto del Governo oggi in approvazione. «Mentre stiamo combattendo una guerra – sottolineano - ci tocca registrare in alcune realtà l’attesa anche di una settimana della somministrazione dei tamponi ai nostri infermieri che sono venuti a contatto con gli infettati. Si tratta forse di una strategia dolosa da parte delle aziende sanitarie per ovviare alla tragica carenza di organico? Cioè lasciarli comunque in trincea nonostante siano positivi? I professionisti avvertono in questo atteggiamento l’abbandono da parte delle istituzioni costrette in queste ore a scelte drammatiche quanto dissennate. Non vorremmo parimenti che si stiano effettuando valutazioni pericolose sulle nostre teste: anche noi torniamo a casa dalle nostre famiglie alla fine dei lunghi turni massacranti. Anche gli infermieri hanno paura e sono stanchi». E ancora: «Adesso è arrivata l’ora di dimostrare riconoscenza verso il nostro valore non solo a parole. Il Governo si muova tempestivamente per fornire tutele e diritto alla salute agli infermieri e alle loro famiglie senza perdere altro tempo in chiacchiere. Non vogliamo e non possiamo credere che una mancia di mille euro sia la risposta a tutti i disagi che stiamo sostenendo sulle nostre spalle. Se è così che il Governo ringrazia gli infermieri, ci vergogniamo per loro. È così che vengono indennizzati per l’immane sacrificio personale che stanno vivendo? E se la loro indignazione li facesse incrociare le braccia, cosa accadrebbe?».

Alberto Commisso per "ilmessaggero.it" il 23 aprile 2020. Appartamento gratuito da destinare a medici ed infermieri impegnati nella lotta al Covid-19? No, grazie. È diventata un caso la lettera inviata dall’amministratore di un condominio del centro città al vicesindaco Eligio Grizzo e alla direzione dell’Azienda sanitaria del Friuli Occidentale. Una lettera nella quale si evince la perplessità di alcuni condomini nell’appoggiare la scelta di marito e moglie nel voler mettere a disposizione il loro appartamento, attualmente sfitto, a due operatori della sanità che arriveranno nei prossimi giorni a Pordenone. Il loro impiego? Il reparto Covid dell’ospedale civile di Pordenone. Il motivo è presto chiarito: c’è il timore, specie dei residenti più anziani di quella palazzina, che, lavorando a stretto contatto con le persone ricoverate perché contagiate dal nuovo coronavirus, i due professionisti possano, in quale modo, portare il Covid-19 all’interno della palazzina. Da qui la richiesta all’amministratore di inviare una lettera al vicesindaco Grizzo e alla direzione dell’Asfo. Quando ha letto la missiva, Grizzo ha avuto un attacco di rabbia. Di petto ha inviato una risposta pungente, minacciano pure azioni legali qualora qualcuno avesse reso pubblico lo stato di salute di chi, tra qualche giorno, potrebbe andare a vivere momentaneamente in quell’appartamento. «A parte il fatto che il proprietario può decidere di affittare il suo immobile a chi vuole – attacca il vicesindaco, che ha la delega alle Politiche sociali – nel caso specifico credo che quella lettera, che l’amministratore si è visto costretto ad inviare, sia un affronto nei riguardi di chi in questo momento è chiamato a salvare delle vite umane. Sono arrabbiato e, anzi, mi auspico quanto prima che quell’appartamento venga assegnato, sino a giugno, a personale che lavora in ospedale nel reparto Covid o in Terapia intensiva». Un caso singolare, che stride con la disponibilità dimostrata da molti cittadini nel mettere a disposizione gratuitamente, per un periodo massimo di tre mesi (da aprile a giugno), immobili sfitti a favore di medici ed infermieri, vincitori di concorso, che stanno arrivando a Pordenone per dare manforte ai colleghi in trincea. Sono ventiquattro, per l’esattezza, quelli che hanno aperto le loro porte. Una decina gli operatori già sistemati dei sessanta che giungeranno in città a scaglioni. «Le uniche spese a carico degli utenti – ricorda il vicesindaco – sono quelle delle bollette di luce, acqua e gas. Ho visitato personalmente gli appartamenti messi a disposizione e tutti, lo devo dire, sono tenuti molto bene. Anche quello finito nel mirino di alcuni condomini che, concluse alcune piccolissime operazioni di manutenzione già avviate, risulterà essere probabilmente il migliore. Lo so, nella riposta data all’amministratore sono stato duro ma di fronte a certe preteste e richieste non ci ho più visto». Dello stesso avviso Luciano Clarizia, presidente dell’Ordine delle professionisti infermieristiche di Pordenone: «Siamo di fronte a considerazioni gravi – si dispiace – che dimostrano l’ignoranza sanitaria di certe persone che, per fortuna, costituiscono una netta minoranza. Chi lavora nei reparti Covid è più controllato di qualsiasi altra persona, quindi mi viene difficile comprendere tutti questi timori. Di quella lettera, lo devo dire, sono rimasto male anche io, in particolare quando si chiede all’Azienda sanitaria di sapere le condizioni di salute di potrebbe andare ad abitare in quell’appartamento. E se chi l’ha fatta scrivere, un domani, risultasse positivo al coronavirus? E’ questo il ringraziamento a sacrifica la propria vita per salvare quella di altri? Fortunatamente la maggior parte dei pordenonesi, anche in questo frangente, ha dimostrato di avere un cuore enorme».

Mascherine usate e quel treno deragliato a Lodi: così nell’Arma si è diffuso il virus. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. Gli agenti sono stati lasciati senza tutele e nel giorno dell’incidente ferroviario si è creato un cortocircuito “pandemico”. Toglieteci tutto ma non la bandoliera. In piena emergenza Covid-19, i carabinieri continuano a svolgere servizio con la tradizionale uniforme con la banda rossa sui pantaloni. E’ al momento caduta nel vuoto, infatti, la richiesta dei sindacati dell’Arma al comandante generale Giovanni Nistri di autorizzare l’uso della tuta normalmente impiegata per le attività di ordine pubblico. “La tuta – scrive questa settimana il Cocer in una nota – garantisce una maggiore sicurezza sanitaria poiché lavabile in lavatrice con qualsiasi disinfettante, al contrario dell’uniforme che deve essere portata in tintoria, dove molte sono chiuse o non garantiscono la pronta consegna”. Richiesta irrealizzabile per i vertici di viale Romania in quanto non ci sarebbero adesso tute sufficienti. Affermazione subito smentita dal Cocer secondo cui “in molte zone sono in dotazione e addirittura nelle aree terremotate ce ne sono in abbondanza”. Ma oltre alle tute mancherebbero i dispositivi di protezione individuale, ad iniziare dalle mascherine il cui utilizzo sarebbe stato limitato da Roma ai soli “casi eccezionali”. “La tutela del lavoro e della sicurezza non può permettersi in questo momento, la cura del tratto e della forma e questo il ministro della Difesa lo deve chiarire e ribadire con fermezza”, replica il Cocer. A dare manforte ai sindacalisti con le stellette, i parlamentati di Fratelli d’Italia. “Ho ritenuto opportuno sollecitare, insieme ai colleghi della Commissione Difesa Wanda Ferro e Davide Galantino, i ministri dell’Interno, della Difesa e della Salute, affinché siano presi immediatamente provvedimenti e vengano fornite tutte le dotazioni necessarie in modo da salvaguardare la tutela della salute del personale”, ha dichiarato ieri il capogruppo di Fd’I in Commissione Difesa alla Camera, Salvatore Deidda. Fra i motivi del dilagare del virus in Lombardia, da alcuni giorni si sta facendo strada l’ipotesi che siano state proprio le forze dell’ordine uno degli acceleratori del contagio. L’episodio scatenante verrebbe fatto risalire al deragliamento del Frecciarossa avvenuto lo scorso 6 febbraio ad Ospedaletto Lodigiano (LO) quando, come ormai da più parti accertato, il virus pare fosse già in circolo. Nei giorni seguenti al deragliamento, fra le centinaia di carabinieri e poliziotti intervenuti sul posto, molti iniziarono ad accusare gli stessi sintomi: febbre, tosse secca, dispenea. Si pensò ad una normale influenza di stagione e nessuno fece il tampone per il Covid-19. I militari, oltre che da Lodi, venivano dalle caserme delle province confinati: Milano, Bergamo, Brescia. Chi si era ammalato, passata la febbre, riprese subito servizio per essere impiegato, dal 23 febbraio e sempre nel lodigiano, ai controlli della prima zona rossa. Inizialmente, poi, l’uso mascherine era raccomandato soltanto a chi avesse contratto il Covid-19 in quanto ai “sani” veniva detto che era inutile. Le disposizioni da Roma in tal senso erano rassicuranti. In un tutorial della fine di febbraio del Comando generale dell’Arma si prevedeva l’uso delle mascherine da parte dei militari solo in presenza di “casi sospetti”. Nei giorni successivi, agli inizi di marzo, accadde l’irreparabile. Tutti iniziarono ad utilizzare le mascherine che, non essendo tante, venivano però indossate per più giorni e scambiate fra i militari in servizio. Quando ci si accorse dell’errore era ormai troppo tardi ed il virus stava dilagando nelle tre province, costringendo l’Arma a mettere in quarantena interi reparti, ad iniziare dal comando provinciale di Bergamo, e a chiudere molte caserme.

Coronavirus, più di 100 i contagiati tra agenti e operatori penitenziari. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 25 marzo 2020. A “La Dozza” di Bologna sono iniziati i tamponi ma la tensione è ancora alta. Qualcosa non sta andando nel verso giusto nella gestione dell’emergenza pandemia per quanto riguarda il mondo penitenziario. La questione riguarda da vicino proprio il personale: agenti e operatori sanitari. In alcuni istituti – denuncia il sindacato della Uil polizia penitenziaria – diversi agenti sono risultati positivi al coronavirus, mentre i loro colleghi – con i quali sono venuti in contatto – sono costretti a ritornare in servizio. L’emergenza, potenzialmente, potrebbe quindi sfuggire di mano. Secondo quanto Il Dubbio ha potuto apprendere, da alcune fonti sindacali, risulta che in tutta Italia sono circa 100 le persone contagiate: ci riferiamo esclusivamente al personale delle carceri, in maggioranza appartenente alla polizia penitenziaria. «Appare paradossale quanto sta avvenendo in alcuni istituti penitenziari – spiega a Il Dubbio Gennarino De Fazio, il leader della UilPa PolPen -, laddove appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che hanno avuto contatti ravvicinati con altri colleghi, di cui è stata accertata la positività al Covid- 19, sono stati dapprima messi in isolamento e sottoposti a tampone, ma successivamente, dopo svariati giorni, e in attesa di conoscere l’esito dell’esame molecolare, vengono fatti rientrare in servizio». Il rappresentante del sindacato penitenziario si riferisce soprattutto a un carcere specifico che per giuste ragioni di privacy preferisce non riferire. «Ci si chiede, allora, – prosegue il capo della UilPa – se le direttive del Capo del Dap servano solo come orpelli, magari per qualche comunicato stampa o per il sito web istituzionale, o se le articolazioni territoriali debbano attenervisi». E conclude: «In quest’ultimo caso, ci si chiede allora perché non avvenga e se nell’Amministrazione Penitenziaria esista ancora, sempre che ci sia mai stata, una linea di comando». Nel frattempo, come già riportato da Il Dubbio, monta l’insofferenza degli agenti penitenziari che operano al carcere “La Dozza” di Bologna. Anche lì parliamo di personale contagiato e, dopo un lungo e inspiegabile ritardo, finalmente gli agenti penitenziari cominciano ad essere sottoposti ai tamponi. Cominciano anche ad arrivare il materiale di protezione. Il Sinappe ha diramato un duro comunicato dal titolo “Le omissioni del Dap”. «È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi», è l’incpit parafrasando Paulo Coelho per provare a capire cosa stia realmente accadendo nelle carceri italiane. «Abbiamo chiesto più attenzione per il personale in prima linea – prosegue il comunicato – perché temiamo l’imminente onda di piena del virus. E quando noi chiediamo più attenzione sul materiale di protezione non stiamo facendo polemica, stiamo solo pensando ai nostri poliziotti penitenziari che contrastano il contagio all’interno delle prigioni italiane. Ed i tamponi? La sanificazione degli ambienti e la disinfezione generale dei reparti detentivi e delle caserme agenti? Noi vorremmo, semplicemente, che si superasse la retorica dell’eroismo per garantire alle donne ed agli uomini del Corpo ( a delle mamme ed a dei papà) in prima linea in questa complessa fase d’emergenza la salute e la cura». C’ è ancora ansia tra gli operatori in diversi Istituti. Garantire sicurezza e dignità nelle carceri, è oggi più che mai necessario. L’auspicio arriva anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. «Ho ben presente la difficile situazione delle nostre carceri, sovraffollate e non sempre adeguate a garantire appieno i livelli di dignità umana e mi adopero, per quanto è nelle mie possibilità, per sollecitare il massimo impegno al fine di migliorare la condizione di tutti i detenuti e del personale della Polizia penitenziaria che lavora con impegno e sacrificio». Così ha scritto Mattarella, in una lettera su Il Gazzettin’, rispondendo ad un appello rivolto a lui, al presidente del Consiglio e al Papa da parte delle detenute del carcere di Venezia e dei detenuti degli istituti di Padova e Vicenza.

«Siamo senza tutele e protezioni individuali». Il Dubbio il 24 marzo 2020. Le lettere preoccupate degli agenti penitenziari che arrivano al nostro giornale si moltiplicano. Mentre è giunta la buona notizia della guarigione del primo agente penitenziario colpito dal coronavirus e che prestava servizio presso il carcere di Vicenza, continuano ad arrivare notizie – trapelate da fonti sindacali – di alcuni contagi nei confronti del personale penitenziario. Non solo agenti, ma anche medici e infermieri. Nel momento in cui c’è il responso positivo del tampone, subito si attivano i regolamenti sanitari predisposti dal decreto emergenziale. Ad esempio – come ha appurato Il Dubbio – qualche giorno fa è risultato positivo un medico che operava nel carcere di Favignana. Subito la direzione haeffettuato il tampone a tutti i detenuti e agenti che hanno avuto contatti con lui: il responso è atteso tra qualche giorno. Qualche giorno fa è risultato positivo il dirigente sanitario del carcere di Santa Maria Capua Vetere, il quale fortunatamente non avrebbe avuto contatti con nessun detenuto. Come accade in questi casi i familiari dei detenuti vengono raggiunto da voci su eventuali contagi. Ma la cosa non risulta. Purtroppo l’angoscia sale quando non ricevono risposte. La direzione, anche per riassicurare gli animi, dovrebbe rispondere alle richieste comprensibili di chi è preoccupato. Su Il Dubbio, nei giorni scorsi, abbiamo invitato all’indomani del caso di contagio di un detenuto – la direzione del carcere di Voghera a rispondere alle richieste degli avvocati sullo stato di salute dei loro assistiti. Finalmente ad alcuni hanno risposto, riassicurando i famigliari in comprensibile agitazione. Da precisare, però, che Il Dubbio riceve tuttora diverse lettere nelle quali i cari esprimono ancora forte preoccupazione. La magistratura di sorveglianza ha respinto l’istanza dei domiciliari ad alcuni detenuti che soffrono di talune patologie. Gli avvocati hanno fatto tale richiesta in ragione del pericolo di contagio. La preoccupazione però serpeggia anche tra gli agenti penitenziari. Ad esempio, da oggi, il sindacato Osapp ha indetto lo stato di agitazione con astensione dalla mensa obbligatoria di servizio da parte del personale di Polizia Penitenziaria in tutta la provincia di Avellino ( carceri di Ariano Irpino, Sant’Angelo dei Lombardi, Bellizzi Irpino e Lauro). Il motivo? «Ad oggi non sono stati dotati i poliziotti penitenziari di idonei strumenti di protezione dal rischio contagio in particolar modo presso la Casa Circondariale di Ariano Irpino, che si trova ad operare in un contesto difficile e in piena zona rossa e ad alto rischio contagio così come decretato dal presidente della regione Campania e di tutti gli strumenti Dpi e inoltre chiediamo il tampone a tutti gli operatori penitenziari per tutelare e ridurre il rischio contagio da Covid- 19», dichiara sempre l’Osapp. Nel frattempo, però, al carcere La Dozza di Bologna si stanno verificando dei problemi. C’è molta preoccupazione da parte del personale penitenziario. A Il Dubbio risultano tre contagi, mentre in realtà – secondo La Repubblica, – sarebbero addirittura 17, tra medici e infermieri. Da tempo i sindacati hanno chiesto la possibilità di sottoporre tutti gli agenti penitenziari al tampone e la possibilità di avere i dispositivi per la protezione. Ma tuttora, secondo il Sinappe, la loro richiesta è rimasta lettera morta. Hanno paura, per loro e per tutta la popolazione carceraria. Ora sembra che i vertici della Ausl e la direzione carceraria stiano correndo ai ripari, sia a tutela del personale che dei detenuti. Si spera al più presto, anche per evitare possibili ulteriori contagi e tensioni interne. D’altronde l’aria è ancora irrespirabile nella sezione devastata dalla scorsa rivolta.

Morto ispettore di polizia. Forze dell'ordine in allarme. La denuncia del Sap: "Poche protezioni". Almeno 20 gli agenti positivi, più di 30 finanzieri contagiati. Chiara Giannini, Lunedì 16/03/2020 su Il Giornale. Il Coronavirus non sta risparmiando neanche gli uomini e le donne di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, molti dei quali sono contagiati. Tanto che ieri si è registrato il primo morto, un ispettore capo proprio della Polizia di Brescia. Aveva 59 anni e ha contratto la malattia mentre era ricoverato per un'operazione al cuore. Dati ufficiali non ce ne sono, ma da un calcolo preciso si rileva che gli agenti attualmente positivi sono una ventina, tra Roma, Milano, dove un poliziotto è in terapia intensiva, Piacenza, Parma, Padova, ma in molte altre città italiane si registrano casi. Almeno un centinaio, invece, quelli in isolamento. A tal proposito sono state individuate, su indicazione del Capo della Polizia Franco Gabrielli, alcune strutture dove i presunti contagiati possono stare sotto vigilanza: tra tutte quelle di Tor Carbone, nella Capitale. Quatto i positivi a Cremona, altri quattro a Piacenza, dove alla scuola di Polizia è stato creato un centro di emergenza con 13 persone in isolamento oltre ai sintomatici gravi. Ma anche a Napoli c'è un funzionario malato. L'agente della scorta di Matteo Salvini risultato positivo al Covid-19, invece, all'ultimo tampone era negativo. I servizi vengono organizzati in modo che il personale sia diviso in due gruppi: se un'unità è contaminata entra l'altra. Inoltre, alcuni turni sono stati estesi con orari continuati 8-20 e riposo il giorno successivo. «Ma i disagi ci sono e ci sono stati - spiega il segretario del Sindacato autonomo di Polizia (Sap), Stefano Paoloni - con sistemi di protezione distribuiti col contagocce. Non è oltretutto semplice distinguere chi è sintomatico o meno. Abbiamo chiesto a Gabrielli che mascherine, guanti e altro vengano utilizzati ogni volta che l'agente viene a contatto con i cittadini. Ma anche che si pensi a chi è in isolamento e magari lontano dalle famiglie e ha difficoltà». E prosegue: «È importante che gli operatori di polizia siamo messi nella condizione di poter prestare servizio alla collettività nel modo più tutelato possibile». Sicuramente più di 30, quindi, i contagiati della Guardia di Finanza, con decine di uomini in isolamento, soprattutto coloro che hanno operato nelle aree a maggior rischio della Lombardia. A Bergamo il comando provinciale ha chiuso perché su 28 militari 21 sono positivi. Il primo a restare contagiato è stato il comandante. Decine di uomini sono in quarantena. Ma anche tra i carabinieri ci sono problemi seri. A Palermo nove rappresentanti dell'Arma del comando provinciale sono malati di Coronavirus, ma ce ne sarebbero almeno altri 10 nelle varie province d'Italia, con circa 80 in isolamento. Ci sono poi tre vigili del fuoco dell'Accademia di Roma risultati positivi. Intanto, a Roma il sindaco Virginia Raggi ha nominato uno dei suoi generali in ausiliaria a capo della Protezione civile. Si tratta del generale Giuseppe Morabito, che ha preso il posto del generale Giovanni Savarese, attualmente in quarantena volontaria. Qualche protesta, quindi, proprio nella Capitale, perché in una circolare del Viminale si invitano i vigili urbani, vista la carenza di mascherine, a indossarle solo in particolari occasioni. Malcontento anche tra la polizia penitenziaria. Domenico Capece (Sappe) fa presente che non ci sono abbastanza dispositivi di protezione individuale a fronte di un avvicendamento continuo del personale richiesto dal capo del Dipartimento Francesco Besentini.

Coronavirus, comando Alpini in quarantena. Contagiato alto generale. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 su Corriere.it da Andrea Pasqualetto. In quarantena anche lo Stato Maggiore degli alpini. Ad essere risultato positivo al coronavirus è un alto ufficiale delle penne nere, un generale di stanza a Bolzano. E con lui sono finiti in isolamento anche i più stretti collaboratori che rappresentano il vertice della forza armata. «Il generale sta comunque bene e il comando delle truppe è assicurato», fanno sapere da Bolzano, sede della forza armata. L’ufficiale lavorerà da casa, come gli altri ufficiali entrati in contatto con lui e ora costretti all’isolamento. La notizia giunge a dieci giorni di distanza dell’altro contagio eccellente nelle forze armate, quello del generale Salvatore Farina, capo di Stato maggiore dell’Esercito, che ha comportato l’immediata mobilitazione delle autorità sanitarie ai vertici delle Stellette. L’esito dei primi tamponi sui collaboratori dello staff del generale è stato negativo. L’11 marzo è invece deceduto un ufficiale superiore dell’Esercito che lavorava al Segretariato Generale della Difesa, nell’area di Centocelle, a Roma. 59 anni, il tenente colonnello M. M. era a casa dalla settimana precedente per problemi di salute. Le sue condizioni sono peggiorate improvvisamente. Chiamata d’urgenza un’ambulanza, l’ufficiale è deceduto durante il trasporto in ospedale. Il tampone fatto post-mortem ha dato esito positivo al coronavirus. Diversi ufficiali del Segretariato, braccio tecnico della Difesa, sono così finiti in quarantena.

Matteo e gli altri, la trincea invisibile degli addetti alle pulizie. Pubblicato martedì, 17 marzo 2020 da Corriere.it. Ci sono storie che meritano di essere raccontate, anche attraverso giornali e televisioni. Storie di persone che, pur non indossando un camice bianco, lavorano in prima linea per il bene della collettività: assicurano ogni giorno negli ospedali le condizioni affinché medici e infermieri possano prendersi cura dei pazienti in ambienti salubri e sanificati. Sono gli addetti alla pulizia che, impiegati nei reparti dove si combatte costantemente l’avanzata del coronavirus, antepongono la salute degli altri alla propria. Ma non chiamateli eroi perché sono mossi da un senso di grande responsabilità: sanno perfettamente che dentro gli ospedali c’è chi salva vite e il loro impegno è profuso affinché sia possibile farlo nelle migliori condizioni.Al pari di medici e infermieri rispettano turni massacranti, senza sosta o riposo. Come Matteo, 26 anni, che da oltre dodici giorni pulisce, disinfetta e sanifica gli ambienti ospedalieri fornendo un servizio efficientissimo in assoluta sicurezza. Da due settimane è in trincea assieme ad altri quindici colleghi con cui lavora gomito a gomito: tutti insieme formano le squadre speciali per la sanificazione delle tecnostrutture dove sono accolti in prima battuta casi di Covid-19. Sono altamente specializzati, operano 7 giorni su 7 per 24 ore e sono al servizio degli ospedali di Roma San Camillo, Santo Spirito, CTO, nuovo Regina Margherita e nel nosocomio di Frosinone. Ma non sono gli unici nel Lazio perché prestano servizio insieme ad altri 500 lavoratori coordinati da capisquadra: a loro il compito di interfacciarsi con i fornitori per il reperimento di mascherine, guanti e dispositivi di protezione individuale. In tutta Italia, da Nord a Sud passando per le isole, tutti i lavoratori si impegnano con la stessa determinazione e senso del dovere che anima le squadre nel Lazio. Anche a loro dovrebbero andare i ringraziamenti.

Coronavirus, le cassiere in trincea: "Turni troppo lunghi, ora abbiamo paura". La protesta di chi lavora nei supermercati a stretto contatto con i clienti. "Ogni sera tolgo le scarpe e i vestiti  e mi faccio la doccia prima di baciare mio figlio". "La maggior parte di noi ha usato le stesse mascherine per quattro giorni perché non ce n'erano". Caterina Pasolini e Fabio Tonacci il 16 marzo 2020 su La Repubblica. E poi ci sono gli altri eroi. Quelli che non stanno dentro a un ospedale a salvar vite umane, ma non stanno nemmeno a casa. Non possono. Fanno qualcosa di cui l'Italia in quarantena ha bisogno, per mantenere almeno uno dei riti della normalità e non cadere nel timore isterico di rimanere senza il pane, la pasta, il latte, le uova. Gli altri eroi siedono dietro una cassa di supermercato che il Coronavirus ha trasformato in trincea urbana, hanno paura e dicono "così non ci sentiamo tutelati, dobbiamo ridurre l'orario di apertura" . Se facciamo ancora la spesa è grazie a loro, che non intubano persone ma battono scontrini e danno resti. Tutto come prima, o quasi. "Prego signora, digiti il pin", "prego signore, rimanga a un metro di distanza". Immobili sul posto di lavoro mentre centinaia di sconosciuti sfilano loro vicini, troppo vicini, e non gli è concessa neanche l'illusione di poter schivare le malefiche goccioline del respiro infetto. È un fronte anche questo, più scoperto e meno tutelato. Quindi, potenzialmente, esplosivo. Barbara Suriano ha 40 anni e ogni sera, dopo il turno all'Ipercoop Casilino a Roma, torna a casa coi macigni sul cuore. "Mi assale il dubbio: l'avrò preso? Domani mi sveglierò con la febbre?". Barbara lavora in quel supermercato da 17 anni, è la rappresentante sindacale aziendale iscritta alla Filcams-Cgil e negli ultimi giorni ha visto cose che non le sono piaciute. "I primi tre giorni dopo il decreto del premier (quello che ha allargato la zona arancione all'intera Italia, ndr) siamo stati senza mascherine perché l'azienda non le forniva. Ci siamo arrangiati con quelle che usano gli addetti al forno e ai laboratori. Poi mercoledì sono arrivate, ma le hanno centellinate e infatti la maggior parte di noi è stata costretta ad usare la stessa per 4-5 giorni, di fatto rendendola inefficace. Poi la sanificazione dei locali mica l'hanno fatta: gli addetti alle pulizie, poveracci, fanno quello che possono, ma il team non è stato rafforzato". Barbara, che ha un contratto part-time e oltre alla cassa si occupa anche dell'accoglienza dei cliente, raggiunge la sua trincea quotidiana per 830 euro al mese, che è la paga base escluse le domeniche. Per i full time sale a 1.100 euro. "Ma perché non riducono l'orario di apertura?", si chiede. "Abbiamo proposto di aprire dalle 10 alle 18, per ridurre il tempo di esposizione al rischio contagio, e di fare due turni di rifornimento a ipermercato chiuso. Non abbiamo avuto risposta. E perché dobbiamo rimanere aperti anche la domenica?". È un grido d'allarme che la Filcams-Cgil, insieme agli altri sindacati di categoria, ha fatto proprio, e risuona per tutti quei lavoratori che devono per forza stare a contatto con la clientela: farmacisti, dipendenti delle pulizie, personale degli autogrill. I sindacati hanno scritto una lettera al premier, sollecitando maggiori tutele e più chiarezza nelle misure di protezione da adottare. Perché sono eroi di servizio, non kamikaze. "Io ho paura, lo ammetto, come tutte le colleghe", è la premessa di Federica Scanu, che ha trent'anni ed è incinta del secondo figlio. Fa la cassiera da dieci anni al supermercato Ma, nel quartiere popolare di Garbatella a Roma, e si capisce che a lei la riduzione d'orario appare insufficiente. "Forse dovrei rimanere a casa, oggi vedo il medico. Speriamo...Batto 150 scontrini al giorno per otto ore di fila, ho una mascherina di stoffa che ci ha fatto un'amica, perché quelle professionali con la valvola non si trovavano più. Centinaia di persone passano a pochi centimetri di distanza perché da quando c'è l'epidemia vendiamo il triplo, comprano come se ci fosse la guerra. Chi lo sa chi è malato e chi no? E il pensiero di portare a casa il virus, mi fa stare male". Ogni sera Federica prima di abbracciare il suo bambino che ha solo tre anni è costretta alla "procedura". "Appena entro in casa mi tolgo le scarpe, poi mi spoglio nel corridoio, metto i vestiti a lavare e mi butto sotto la doccia, mi lavo le mani anche con l'igienizzante. Solo allora abbraccio il mio piccolo Gabriele. Ma non sono più gli abbracci prima, perché continuo a pensare: e se la mascherina che uso non ha funzionato? E se sono infetta? È una malattia che non si vede, è un incubo". Noi li chiamiamo eroi, queste cassiere e questi cassieri e tutti gli altri dipendenti che, nonostante tutto, continuano ad aprire ogni mattina i negozi. Li vediamo così, ma loro eroi non si sentono. "Sono solo una persona responsabile", dice Barbara, la cassiera dell'Ipercoop Casilino. "So di fornire un servizio essenziale per tutti i cittadini, quindi lo faccio. Però ci sentiamo esposti al contagio. E anche se siamo con gli altri colleghi, in realtà siamo soli: non parliamo più tra di noi, non scherziamo, non ci sono più i clienti affezionati che ti portano una caramella o ti accarezzano con una parola gentile. Ora, al supermercato, c'è solo silenzio. E paura".

Da "liberoquotidiano.it" il 17 marzo 2020. Morti due dipendenti di Poste Italiane in provincia di Bergamo, in questo momento insieme a Brescia la più colpita dal coronavirus. La notizia è stata resa pubblica da Marisa Adobati, della Slc-Cgil di Bergamo: la sindacalista ha ricordato come entrambi avevano "lavorato fino a pochi giorni fa, uno in un centro di recapito e l'altro in un ufficio postale di due comuni della provincia di Bergamo. Per questo la Cgil chiede: Ora basta, è ora di chiudere gli uffici postali". Scontata, ovvia, comprensibile la rivolta: le poste, infatti, sono tra i pochissimi uffici pubblici rimasti aperti.

Nicola Pinna per lastampa.it il 17 marzo 2020. Tra gli italiani che continuano a operare in questi giorni di emergenza nazionale ci sono anche i dipendenti di Alitalia: piloti, assistenti di volo e anche personale di terra. Centinaia di persone che assicurano gli spostamenti inderogabili tra i pochi aeroporti nazionali rimasti aperti e che stanno anche facendo arrivare gli aerei verso l’estero, dove si trovano gli italiani che attendono di essere di rimpatriati. In questi giorni, i velivoli di Alitalia sono stati impegnati anche per il trasporto di organi e nelle ultime ore sono diventate virali sui social le foto di un rene custodito all’interno di una scatola, scattate dal comandante dell’aereo che è stato impiegato per quel trasporto salvavita. Tutte le altre compagnie internazionali, da quelle più gradi alle low cost, hanno lasciato l’Italia e in queste immagini si vedono i piazzali vuoti e l’assenza di altri aerei ai finger dell’aeroporto di a Fiumicino, il principale scalo aereo italiano.

Lorenzo De Cicco per ilmessaggero.it il 17 marzo 2020. L'autista Atac risultato positivo al Covid-19 ha lavorato fino alla settimana che va dal 2 all'8 marzo, prima cioè che la Capitale, come il resto del Paese, diventasse una grande zona protetta, con restrizioni e spostamenti limitati. Da una parte questo rassicura la municipalizzata dei trasporti di Roma, perché si spera che il contagio sia avvenuto a ridosso della pausa dal lavoro. Negli ultimi giorni, l'addetto Atac non ha frequentato colleghi, in sostanza. Dall'altro, significa che il conducente è montato sui mezzi pubblici quando ancora erano abbondantemente affollati di passeggeri, perché l'allerta Coronavirus, ai primi del mese, formalmente interessava principalmente il Nord Italia. La partecipata del Campidoglio, in ogni caso, ha attivato tutti i protocolli sanitari, contattando la Asl e avviando una verifica interna. L'obiettivo è riuscire a ricostruire gli spostamenti dell'autista durante il servizio. Capire quindi su quali linee ha viaggiato prima di essere sottoposto all'isolamento e con quali colleghi sarebbe venuto in contatto negli ultimi giorni di lavoro. Il dipendente contagiato lavora al deposito di Grottarossa, Roma Nord, la più grande rimessa Atac di superficie, con bus a gasolio e filobus. «Qui ha sede anche il magazzino centrale», si legge in un report interno dell'azienda sulla ripartizione della flotta. In questo deposito, ad agosto, è stata anche spedita la prima parte della fornitura dei nuovi mezzi, i Citymood prodotti in Turchia. L'autista, secondo il racconto di altri addetti della municipalizzata, è stato in servizio su 3 linee: il 280, che da piazza Mancini arriva alla stazione Ostiense, passando per il quartiere Mazzini, piazza della Rovere e Testaccio; poi il 23, che dal capolinea di piazzale Clodio viaggia fino a San Paolo; e ancora il 980, che da via Roddino a Montespaccato arriva nei paraggi dell'ospedale San Filippo Neri. In Atac si augurano che il contagio sia maturato in ambienti diversi da quelli di lavoro. E che non abbia avuto conseguenze sul resto del deposito, che difatti resta aperto, nonostante le proteste di alcuni sindacalisti, come Claudio De Francesco, segretario regionale della Faisa Sicel. I superiori dell'autista hanno riferito che anche la moglie del conducente è positiva al Coronavirus, da prima del marito. Anzi, proprio la malattia della moglie avrebbe spinto il dipendente dell'Atac a chiedere il tampone, dal quale è risultata l'infezione. Per fortuna, senza sintomi. Resta da capire se, prima di iniziare la quarantena, abbia avuto contatti ravvicinati con passeggeri o colleghi. L'Atac ieri ha ribadito di avere messo a punto tutte le misure possibili per rafforzare la sicurezza dei propri dipendenti. È anche stato firmato un accordo con i sindacati: chi sarà ricoverato per il Coronavirus, riceverà 3mila euro più 100 euro per ogni giorno in ospedale, dopo l'ottavo giorno. Ad alcune categorie di dipendenti sono anche state fornite mascherine. Che però scarseggiano. Non solo per gli autisti, anche per vigili e netturbini. La sindaca Raggi, come raccontato ieri dal Messaggero, ha chiesto aiuto alla Protezione civile e a Palazzo Chigi. «Il governo - ha detto Raggi - sta dando la precedenza agli operatori sanitari, poi tutto il resto sarà distribuito agli altri operatori che sono in strada».

«Io, autista dei bambini con tumore che vanno curati ogni giorno». Pubblicato venerdì, 20 marzo 2020 su Corriere.it da Fausta Chiesa. «Mascherina, guanti, non si gioca più assieme, ma in ospedale bisogna andare tutti i giorni: io e gli altri volontari non molliamo». Chi parla è Claudia Raina, volontario di Agal (Associazione Genitori e amici del bambino leucemico) , che si definisce un «ragazzo di 62 anni». In pensione da due anni e mezzo, dopo cinque mesi si era stancato di riposare. «Abito a Cava Manara, in provincia di Pavia. Ho conosciuto Agal tramite amici che erano già volontari. Mi sono iscritto come socio volontario. E sono due anni che trasporto le mamme e i bambini dalle strutture di Agal in cui sono accolti gratuitamente al day hospital del San Matteo di Pavia». L’associazione ha sede presso la Clinica di Oncoematologia Pediatrica del Policlinico San Matteo. Avanti e indietro la mattina e il pomeriggio tutti i giorni, perché le terapie per chi ha un tumore al sangue non si possono interrompere. «Da quando c’è l’emergenza coronavirus - spiega Claudio - abbiamo ricevuto indicazioni da ospedale di avere il minor contatto possibile con i bambini, che sono immunodepressi per via delle terapie. Oltre a indossare sempre mascherine e guanti, non possiamo più avere il rapporto di prima: siamo come una famiglia allargata, giochiamo coi bambini, prendiamo il caffè con le loro mamme nella cucina comune... adesso la casa è tutta sigillata per la loro incolumità. Le mamme hanno spiegato che non possono avere contatto fisico con noi». Claudio più che per sé ha a cuore la salute dei bambini e infatti ha deciso di continuare il servizio, mentre altri suoi colleghi, vuoi perché più anziani o perché più timorosi, hanno temporaneamente sospeso la loro attività: da 25 autisti che erano, sono rimasti in meno di una decina. «Le cure - spiega Claudio - non soltanto sono quotidiane, ma possono durare mesi o anche anni e noi dobbiamo essere a disposizione». L’Ospedale è uno dei centri italiani più all’avanguardia per questo tipo di patologie: qui, infatti, vengono effettuate sofisticate e complesse terapie sui piccoli pazienti provenienti da tutta l’Italia e da diverse parti del mondo. Agal, nata a Pavia nel 1982 dal desiderio di un gruppo di genitori di bambini malati di offrire ad altre famiglie un aiuto concreto per affrontare meglio la dura esperienza della malattia, opera su diversi fronti per cercare di «alleggerire» il più possibile il dramma della malattia. L’associazione è presente fin dall’ingresso in ospedale con un punto di accoglienza dove offre orientamento e servizi di mediazione linguistica e patronato. In reparto cerca di regalare un po’ di serenità ai bambini ricoverati attraverso laboratori di gioco e musicoterapia. Durante il lungo e difficile periodo delle cure in day hospital, Agal offre ospitalità totalmente gratuita alle famiglie che non possono permettersi un alloggio temporaneo. Nel 2018 Agal ha accolto nelle sue case a Pavia, a poca distanza dall’ospedale, 161 persone. I luoghi dell’ospitalità sono Casa Mirabello, grande edificio di 500 mq composto da 10 camere con bagno (23 posti letto), cucina e sala da pranzo comuni, ludoteca, lavanderia e spazio verde esterno attrezzato con giochi, e 3 appartamenti indipendenti completamente attrezzati (12 posti letto). Nel maggio 2019 è stata inoltre inaugurata Casa dei Melograni, nuova struttura di accoglienza a Pietra de’ Giorgi, nell’Oltrepo Pavese. Divisa in sei mini alloggi autonomi per 24 posti letto, è dotata di aree comuni come il locale lavanderia e stireria e un’area giochi, ed è circondata da un’ampia area verde con un campo sportivo e un parco giochi inclusivo per persone con ridotta mobilità. La struttura è ospitata negli spazi dell’ex asilo parrocchiale di Castagnara riqualificato dal Comune di Pietra de’ Giorgi nell’ambito del Progetto Oltrepò (bio)diverso, con il fondamentale contributo del Programma Intersettoriale AttivAree di Fondazione Cariplo.

Vittorio Feltri: "Mia figlia è farmacista, loro sono l'ultima ruota del carro. Cosa subisce ogni giorno". Vittorio Feltri per liberoquotidiano.it il 19 marzo 2020. Mia figlia Adele Fiorenza dirige una grande farmacia a Milano ("Foglia") e mi ha raccontato cosa è successo e succede dietro e davanti al bancone. Mi sembra opportuno pubblicare il suo articolo anche se lei non è giornalista (ovviamente) perché dimostra che tra i vari professionisti impegnati a combattere il virus ci sono anche i camici bianchi che vendono medicinali a tutto spiano, rischiando il contagio e senza avere un minimo di considerazione per i loro sacrifici, non molto diversi da quelli sopportati da medici e infermieri. I farmacisti insomma sono le ultime ruote del carro nonostante lavorino a contatto di una moltitudine di gente, non tutta sana. Il pericolo si annida tra la folla, e in farmacia, il primo presidio sanitario, bisogna entrare come al supermercato, un paio di persone per volta non di più. Si tratta di una misura di sicurezza blanda, ma di più non si può. Auguro a mia figlia e ai suoi valenti colleghi di farla franca. E mi complimento con loro per la missione che svolgono senza ottenere riconoscimento alcuno. "In questi giorni di follia i messaggi che ricevo su whatsapp si sono moltiplicati. Molti fanno dell'ironia, altri girano video di Conte, del Papa, e di necrologi. Poi c'è chi è solidale e ringrazia medici e infermieri. Quando torno a casa e li scorro velocemente non posso non notare che la mia categoria, quella dei farmacisti, non è mai ricordata. Non voglio enfatizzare l'importanza del mio mestiere. Ma da quando il casino è esploso, io e i miei colleghi l'abbiamo vissuto, in tutte le sue fasi. Da inizio gennaio, le mascherine, che avevano un mercato ridottissimo, hanno cominciato a essere sempre più richieste, prima solo dai cinesi, che facevano scorte da inviare ai familiari, e poi rapidamente da tutti gli altri. Ho visto clienti battibeccare sulla utilità di fare rifornimento di mascherine e gel mani. Una grande confusione. I miei clienti mi chiedono rassicurazioni e spiegazioni, «Se metto la mascherina non mi ammalo? Mio marito è cardiopatico». «Ho mal di gola però per ora niente febbre. È il caso che prenda l'antibiotico? Il mio medico è introvabile». Sono in cerca di rassicurazioni, anzi certezze, che io non so dare. A metà febbraio abbiamo avuto giornate faticose, le persone cominciavano ad avere paura e hanno fatto incetta di ciò che avevamo, inclusi disinfettanti e integratori per le difese immunitarie. Pian piano l'affluenza in farmacia è calata e con la rapidità con cui sono diminuiti gli ingressi, così sono aumentate le telefonate. «Sono arrivate le mascherine?». «Signora dovrebbero arrivare la settimana prossima». «Bravi, guardate a cosa ci avete portato, con i vostri dovrebbe». La signora Vanda, 81 anni, una mattina si presenta in farmacia, allunga un blocco di ricette, per lei e il marito, che ha problemi respiratori, e che quindi quel giorno non la accompagna. Poi mi fa cenno e tira fuori dalla sua borsa di tela un termos di caffè. «Vedo che tutti i bar sono chiusi, e so che dovete rimanere svegli». Anche un signore, che non avevamo mai visto prima, ci porta dei grissini e una crostata all'albicocca confezionata, e quasi si scusa, perché non può garantire sulla qualità della torta. Pero ci può far comodo ora che tutti i negozi sono chiusi. E non mi scorderò mai di quel giorno che ci è stata recapitata una scatola di cartone. Quando la apro, trovo 50 mascherine e un biglietto: «Queste sono per voi, che ne avete bisogno». Un signore, dalla finestra del mio ufficio, bussa sul vetro: non voglio entrare in farmacia, ma ce l'avrebbe per me una mascherina? Frugo nel cartone e gliene do una. «Grazie, poi vengo a regolare il conto». Gli sorrido e lo saluto con la mano. Ogni giorno sentiamo i nostri fornitori, alla ricerca di gel, mascherine, magari qualche scatola di Cebion. Oggi è stato un giorno fortunato. Domani mi consegnano termometri e mascherine. Lo annuncio ai colleghi che mi guardano e applaudono.

Da Repubblica Tv il 20 marzo 2020. "Oltre quattro farmacie sono state devastate con vetrine rotte e casse svuotate. Alcuni di noi hanno subito rapine a mano armata". È un messaggio accorato e carico di tensione quello che la titolare di una farmacia in zona Prenestina a Roma ha diffuso per far conoscere la difficile situazione in cui lei e i suoi colleghi vivono da quando è esplosa l'emergenza coronavirus. "Dopo le 18 in giro non c'è più nessuno. Abbiamo paura anche di uscire dalla farmacia in orario serale". Poi parla della difficoltà di fare fronte alle richieste dei clienti: "Serviamo con queste mascherine che sono le uniche che abbiamo trovato a prezzi altissimi. La gente deve capire che non è che non vogliamo darle le mascherine, non le abbiamo". Poi chiede l'aiuto dei cittadini: "Qui viene gente che ha tosse, raffreddore e febbre. Rischiamo la vita. Guardateci dalla finestra noi siamo qui per darvi un servizio. Abbiamo bisogno della vostra comprensione. Stateci vicino".

La solidarietà dei farmacisti: “Così aiutiamo le persone ma ne vediamo di tutti i colori”. Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Aprile 2020. “Questi mesi di quarantena sono davvero difficili, soprattutto per le persone più deboli. Per questo motivo abbiamo sentito ancora più forte il bisogno di stare vicino alle persone, umanamente e fisicamente. E per questo sono in tanti a ringraziarci”. Così Fabrizio Schirru racconta con emozione questo periodo duro ma che sta portando tanto calore umano che travalica ogni distanza. È socio della Farmacia Morrica di Marano di Napoli, una delle più frequentate della zona e che copre un vastissimo territorio. “Da quando è partita la quarantena in meno di 24 ore abbiamo subito attivato una serie di servizi per essere praticamente utili alle persone, soprattutto a chi ha patologie pregresse, anziani e a chi ha difficoltà a muoversi, come le consegne a domicilio gratuite. Le persone ci ringraziano e sono felici per il nostro lavoro”. “In questo momento è importante il ruolo delle farmacie in una situazione così complicata e straordinaria – continua Fabrizio – Ci siamo caricati completamente il costo del servizio delle consegne a domicilio. Nell’ultimo mese abbiamo percorso centinaia di chilometri e superato le 500 consegne. Non è una cosa dettata da spirito imprenditoriale ma legata a un’idea di farmacia di comunità e legata alle necessità del territorio”. Fabrizio racconta di persone anziane o in grande difficoltà da cui sono andati non meno di 10 o 12 volte in un mese. “Non abbiamo portato solo i prodotti di cui avevano bisogno in quel momento, ma anche una parola di conforto o un ragguaglio diretto. Le persone in questo momento hanno tanto bisogno del contatto, a volte anche semplicemente visivo e di essere tranquillizzate in maniera più diretta che dai media”. Anche in tempi in cui trovare mascherine e disinfettante era impossibile, o adesso che trovare mascherine certificate è un’impresa, la farmacia di Fabrizio si è impegnata a trovare sempre materiale di buona qualità e che rispettasse gli standard sanitari. Una volta riusciti ad ottenere a fatica il desiderato carico di mascherine le hanno donate a Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia perché “sono in prima linea, e non avevano gli opportuni dispositivi di sicurezza – spiega Fabrizio – toccava a noi dargli una mano”. Oltre a storie di solidarietà Fabrizio racconta anche vicende poco piacevoli che si sono svolte nella sua farmacia, come se si vivesse in un vero e proprio tempo di guerra. “Abbiamo vissuto quei fenomeni che ormai conosciamo bene – racconta il farmacista – come una sorta di mercato nero di quei prodotti come alcol e mascherine da fornitori certificati, affidabili e a prezzi ragionevoli è stato davvero difficile. Un fenomeno davvero incredibile è quello per cui singoli cittadini ci hanno avvicinato per venderci merce di dubbia provenienza, magari non fatturata. Anche noi ci siamo trovati in una situazione poco gestibile”. Poi la corsa agli accaparramenti di farmaci. Appena stampa e Tv lanciavano il nome del nuovo farmaco “miracoloso” del momento scattava la corsa a procurarselo, sia per qualcuno che si era ammalato sia semplicemente da tenere a portata di mano in caso di necessità. Una corsa folle che ha fatto scomparire dagli scaffali delle farmacie prodotti come il Plaquenil. “Ne abbiamo venduto in un mese più di quanto normalmente ne vendiamo in un anno – racconta Fabrizio – Stando sempre molto attenti a dispensare il farmaco solo ed esclusivamente a chi possiede la ricetta del medico. Nonostante tutto abbiamo ricevuto telefonate e prenotazioni da Sorrento o dal basso Lazio per venire a prendersi i farmaci. Evidentemente non più reperibili nelle loro farmacie di riferimento. Questo significa una corsa all’accaparramento di un farmaco senza ragione”.

Medici del 118 in prima linea: “Pagati 16 euro l’ora, senza indennità e senza protezioni”. Rossella Grasso de Il Riformista il 19 Marzo 2020. I medici del 118 sono i primi che incontrano gli ammalati. Sono quelli che corrono in soccorso a bordo delle ambulanze, girano in strada senza sosta e intervengono anche in situazioni drammatiche per salvare la vita dei pazienti. A Napoli spesso sono vittime di aggressioni o costretti a lavorare in situazioni molto complicate. Eppure sono la categoria sanitaria più bistrattata insieme a infermieri e autisti in convenzione. In questo momento di grande emergenza per il Coronavirus subiscono turni di lavoro molto più stressanti del solito. Eppure da gennaio 2020 i medici del 118 dell’AslNa2Nord, AslNa3 Sud e Asl Caserta si sono visti decurtare dallo stipendio l’indennità di rischio. A questo si aggiunge un’altra criticità: quella della carenza di Dispositivi di Protezione individuale (DPI). “Dobbiamo centellinarli – racconta Luigi Esposito, medico del 118 e segretario provinciale Fimmg Emergenza Sanitaria– in un sistema come il nostro che è particolarmente esposto, sempre in prima linea. Che è anche molto debole per come è strutturato: è un sistema misto che vede pubblico e privato insieme, mondo dell’associazionismo e sanità pubblica che lavorano di pari passo in nome della spending review. In questo momento di crisi sono emerse tutte le difficoltà: per esempio non si capisce bene se le associazioni che forniscono autisti e infermieri, nei loro contratti con le Asl debbano fornire dispositivi di sicurezza. E comunque garantire i Dispositivi di Protezione, secondo la legge sulla Sicurezza sul Lavoro diventa complicato. Nelle convenzioni, ad esempio  non è facile capire chi è il datore di lavoro e dunque chi deve garantire sicurezza”. Il medico spiega che “centellinare i DPI” corrisponde a violare le procedure codificate a livello internazionale. Queste prevedono che nel momento in cui il 118 risponde alla chiamata per un soggetto anche solo ipoteticamente affetto da Coronavirus, bisogna indossare tutti i dispositivi. “Il paradosso è che seguendo i dettami governativi noi dobbiamo continuare a lavorare anche se positivi, se siamo in assenza di sintomi, ma questo vuol dire che  se inconsapevolmente abbiamo contratto il virus diventiamo dei veri e propri untori. Rischiamo di essere noi la fonte del contagio”. Ad aggravare maggiormente la situazione di circa 400 medici che lavorano sul territorio è la sottrazione dell’indennità di rischio. Una decisione presa nel 1999 quando nacque il servizio del 118. Fu allora che si previde di dare ai medici in convenzione un’indennità di rischio per favorire il passaggio del personale dalle guardie mediche al 118. “Questa indennità fu stabilita perché quello del 118 è un lavoro usurante, soggetto a rischi biologici, e lo stiamo vedendo in questi giorni, a turnazione maggiore e su festivi, perché comprende anche i sabati e le domeniche quando i medici di famiglia, per esempio, non lavorano affatto. Eppure il nostro è un lavoro assimilabile a quello ospedaliero ma con una competenza territoriale”. La delibera di giunta regionale campana fu recepita e fu stabilito che questa indennità doveva essere estrinsecata nell’accordo nazionale di lavoro successivo. Ma nel 2005 non avvenne nessuna modifica. “In nessuna altra delibera c’è menzione di questa indennità extra contrattuale – continua Esposito – Ma non significa che questa sia stata abolita”. L’accordo finisce nel Sistema Integrato dei Convenzionati Nazionali. Qui viene recepito l’accordo e sottoposto alla Corte dei Conti per la verifica delle coperture finanziarie. “Dal 2005 a oggi non esiste alcuna nota della Corte dei Conti che verifica un’ illegittimità dell’indennità. Nella nota che le ASL hanno mandato nel gennaio 2020, L’asl Na2Nord sosteneva che in seguito all’attività investigativa della Guardia di Finanza, i zelanti dirigenti si sono accorti che veniva erogata indebitamente questa indennità. Dunque invocando l’autotutela hanno deciso di sospendere l’indennità. Ma la Corte dei Conti ha mandato la finanza per fare verifiche su altre cose, non certamente sui compensi dei medici”. Luigi Esposito sottolinea che ultimamente è scattata anche la caccia al “furbetto”, per cui spesso ai medici del 118 viene additata anche la colpa di sottrarsi al loro dovere. “Hanno messo in dubbio la veridicità dei certificati di malattia dei nostri colleghi. Ci hanno anche ricordato con lettera ufficiale che se i medici si sottraggono all’intervento adducendo come motivazione la mancanza dei DPI sono perseguibili penalmente. In un momento storico come questo è veramente singolare che venga decurtata l’indennità, dove il rischio oggi è così alto. L’indennità dovrebbe invece essere consolidata. Il rischio serio è che quei pochi che hanno deciso di fare questo lavoro, lo lascino e ci troveremo nel giro di pochissimo tempo davvero impallati. Circa 400 medici del 118 in Campania non credo incidano così tanto sul bilancio regionale”. Ma sarebbe un rischio grandissimo per la collettività. Dalla loro parte si è schierata Michela Rostan, vicepresidente della Commissione Affari sociali della Camera. “Il tributo che i professionisti sanitari stanno pagando con 2.300 casi positivi dei quali 1.900 sono medici e infermieri – ha detto la deputata di Italia Viva – è assolutamente eccessivo e deve essere a tutti i costi ridimensionato. La distribuzione dei kit di protezione è in questo momento la vera emergenza nazionale. L’appello della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche e della Federazione nazionale dei medici di medicina generale non deve cadere inascoltato. La previsione nel decreto ‘Cura Italia’ di 3,5 miliardi di euro per il comparto della sanità pubblica e della Protezione civile – ha concluso Rostan – è una prima risposta importante del governo alle migliaia di operatori sanitari che stanno combattendo senza sosta in prima linea il coronavirus. Occorre però accelerare al massimo tutte le procedure previste nel decreto per dare attuazione all’implementazione del personale che consentirebbe di colmare nel più breve tempo possibile le carenze degli organici dei servizi di emergenza e di quelli ospedalieri messi a dura prova dalla diffusione del contagio”.

Coronavirus: “Noi dei servizi funebri a cercare cadaveri tra i sacchi neri, rischiando la vita”. Le Iene News il 7 aprile 2020. Riccardo, che ha un’agenzia di servizi funebri a Brescia, ci racconta il dramma coronavirus dal punto di vista di un altro settore, che conta vittime e contagi, sconvolto dall’emergenza. E dai suoi numeri: “I morti sono decuplicati al culmine dell’epidemia”. “Ci siamo trovati all’improvviso a cercare in mezzo a decine di cadaveri in ospedale i nomi sui foglietti dei sacchi neri: tutto il nostro lavoro e la vita sono stati sconvolti”. Riccardo C., che ha un’agenzia di servizi funebri, ci ha contattato per darci la sua versione della Lombardia nell’emergenza coronavirus dal punto di vista degli operatori del suo settore. “Anche noi siamo a rischio e contiamo molti contagiati e vittime”, ci racconta. “Entriamo e usciamo continuamente dagli ospedali e siamo sempre in contatto con i poveri parenti, spesso positivi, dei morti per Covid-19”. Sono soprattutto i numeri dell’emergenza a impressionare, con vittime anche decuplicate: “Tutto è cambiato a inizio marzo, le settimane centrali poi sono state tremende: c'è chi faceva di solito 3 o 4 servizi al mese e si è trovato di fronte in pochissimo tempo a 20/30 richieste mensili. E la situazione purtroppo non è ancora cambiata di molto. Eppure facciamo sempre tutto, con la grande umanità che contraddistingue questo lavoro, anche se magari è pure difficile trovare qualche lavoratore in più per aiutarci, tutti hanno paura dei contagi”. “Anch’io, pur non avendo sintomi, per cautela vivo con la mascherina e da separato in casa in famiglia”, conclude Riccardo C. “Ma il pensiero va soprattutto ai parenti dei defunti: non solo non si possono più fare funerali ma è permesso solo a uno, massimo due familiari di assistere perfino, da distanza, alla breve benedizione del feretro da parte del sacerdote del cimitero. Così è ancora più straziante”.

·        Contagio come Infortunio sul Lavoro.

Isidoro Trovato per "corriere.it" il 25 ottobre 2020.

I primi conteggi. Stando all’ultimo report Inail, a fine settembre le denunce di contagio sul lavoro da Covid-19 hanno superato le 54.000 unità (54.128) con un aumento di 1.919 denunce rispetto a fine agosto di cui 1.127 relative a infezioni avvenute in settembre e le altre 792 nei mesi precedenti, per effetto del consolidamento dei dati. Questi dati riaprono il dibattito sulla necessità di uno scudo penale per i datori di lavoro adempienti, rispetto al tema delle misure di prevenzione. «Le norme vigenti, anche quelle ultimamente introdotte, non escludono la responsabilità penale del datore di lavoro, che vedrà riconosciuto il proprio comportamento lecito solo alla fine del relativo procedimento», commenta Rosario De Luca, Presidente della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro. «Le incertezze esistenti, su dove come e da chi avvenga il contagio, creano una situazione di grande disagio tra gli imprenditori. Ed è un problema non da poco. Per questo è urgente, considerando l’impennata dei contagi a cui stiamo assistendo, avviare una riflessione con le parti sociali per arrivare a una norma».

Rischi e interpretazioni dubbie della normativa. L’equiparazione fatta dall’articolo 42 del D.L. n. 18/2020 tra infortunio sul lavoro e contagio da Covid-19, meritevole di ricevere la copertura assicurativa Inail, potrebbe portare al coinvolgimento dell’imprenditore sul piano penale per i reati di lesioni o di omicidio colposo, nel caso di decesso. E questo anche nel caso che la responsabilità del datore di lavoro non sia oggettiva, ma abbia adempiuto a tutto quanto previsto da norme e regolamenti. Infatti, restano ancora molti i punti critici; tra questi, ad esempio, la verifica che il contagio sia effettivamente avvenuto in occasione di lavoro, considerando che il lungo periodo di incubazione del virus non permette di avere certezza sul luogo e sulla causa del contagio. Così come di escludere con sufficiente certezza l’esistenza di altre cause di contagio. Senza poi contare i casi dei soggetti asintomatici. Il tutto al netto di cause civili per risarcimento danni. Forse andrebbe studiata una soluzione per mettere al riparo dai rischi gli imprenditori che sono stati ligi al protocollo.

Soprattutto gli uomini e si abbassa l’età. I casi mortali per contagio da Covid-19 sono pari a circa 1/3 del totale dei decessi denunciati all’Inail dall’inizio dell’anno. Ad essere colpiti sono soprattutto gli uomini (84,0%) e nelle fasce 50-64 anni (69,9%) e over 64 anni (19,4%), con un’età media dei deceduti di 59 anni. In quasi nove casi su 10 (89,3%) si tratta di lavoratori italiani, mentre tra gli stranieri le comunità più colpite sono quelle peruviana (17,6&), rumena (14,7%) e albanese (11,8%). Prendendo in considerazione il totale delle infezioni di origine professionale denunciate, il rapporto tra i generi si inverte – circa sette contagiati su 10 (70,7%) sono donne – e l’età media scende a 47 anni.

Nord sotto tiro. Dall’analisi territoriale il Nord resta sotto tiro. Entrando nello specifico emerge che più della metà delle denunce presentate all’Istituto (55,1%) ricade nel Nord-Ovest, seguito da Nord-Est (24,4%), Centro (11,9%), Sud (6,2%) e Isole (2,4%). Concentrando l’analisi esclusivamente sui casi mortali, la percentuale del Nord-Ovest sale al 56,7%, mentre il Sud, con il 16,0% dei decessi, precede il Nord-Est (13,8%), il Centro (11,6%) e le Isole (1,9%). La Lombardia si conferma la regione più colpita, con il 35,2% dei contagi denunciati e il 41,7% dei casi mortali. Tra le province, invece, il primato negativo spetta a quella di Milano, con il 10.8% del totale delle infezioni sul lavoro denunciate, seguita da Torino (7,8%), Brescia (5,4%) e Bergamo (4,6%).

Si riducono i contagi delle professioni sanitarie. Se la categoria dei tecnici della salute – con il 39,2% delle infezioni denunciate, oltre l’83% delle quali relative a infermieri, e il 9,5% dei casi mortali – si conferma la più colpita, seguita dagli operatori socio-sanitari (20,6%), dai medici (10,1%), dagli operatori socio-assistenziali (8,9%) e dal personale non qualificato nei servizi sanitari, dopo il lockdown l’incidenza delle professioni sanitarie sul totale dei contagi da Covid-19 si è progressivamente ridotta. Guardando invece le attività produttive coinvolte dalla pandemia, il settore della sanità e assistenza sociale (ospedali, case di cura e di riposo, cliniche, residenze per anziani e disabili) con il 70,3% delle denunce e il 21,3% dei decessi codificati precede l’amministrazione pubblica (Asl e amministratori regionali, provinciali e comunali), in cui ricadono l’8,9% delle infezioni denunciate e il 10,7% dei casi mortali. Gli altri settori più colpiti sono i servizi di supporto alle imprese (vigilanza, pulizia e call center), il manifatturiero e le attività dei servizi di alloggio e ristorazione.

(ANSA il 11 ottobre 2020) - In caso di nuovi lockdown per emergenza epidemiologica da Covid 19, che di fatto impediscano alle persone di svolgere la propria attività lavorativa, l'isolamento domiciliare non sarà equiparato alla malattia. L'Inps precisa quali sono le condizioni per essere considerato in malattia con un messaggio nel quale ricorda che il riconoscimento della malattia si ha solo quando la quarantena è decisa da un operatore di sanità pubblica, (come ad esempio nel caso di contatto stretto con soggetti positivi). "In tutti i casi di ordinanze o provvedimenti di autorità amministrative che di fatto impediscano ai soggetti di svolgere la propria attività lavorativa - sottolinea l'Inps - non è possibile procedere con il riconoscimento della tutela della quarantena ai sensi del comma 1 dell'articolo 26 del decreto Cura Italia (quello che prevede l'equiparazione della quarantena con sorveglianza attiva alla malattia,ndr ), in quanto la stessa prevede un provvedimento dell'operatore di sanità pubblica". L'Inps spiega anche che la malattia non viene riconosciuta ai lavoratori fragili in smart working a meno di malattia conclamata. "Per quanto riguarda i lavoratori fragili la quarantena e la sorveglianza precauzionale - si legge nel messaggio - "non configurano un'incapacità temporanea al lavoro per una patologia in fase acuta tale da impedire in assoluto lo svolgimento dell'attività lavorativa, ma situazioni di rischio per il lavoratore e per la collettività che il legislatore ha inteso tutelare equiparando, ai fini del trattamento economico, tali fattispecie alla malattia. Non è possibile ricorrere alla tutela previdenziale della malattia nei casi in cui il lavoratore in quarantena o in sorveglianza precauzionale perché soggetto fragile continui a svolgere, sulla base degli accordi con il proprio datore di lavoro, l'attività lavorativa presso il proprio domicilio". Nessun riconoscimento della malattia è dovuto per le persone che dovessero fare la quarantena all'estero perché richiesta dal paese di destinazione: "l'accesso alla tutela per malattia - si legge - non può che" provenire sempre da un procedimento eseguito dalle preposte autorità sanitarie italiane". Infine la malattia non viene riconosciuta se il lavoratore malato è in cassa integrazione o ha l'assegno dei fondi di solidarietà. Si tratta infatti - scrive l'Inps "del principio della prevalenza del trattamento di integrazione salariale sull'indennità di malattia. L'Inps ha dato anche istruzioni per il rinnovo del reddito di cittadinanza per quelle famiglie che l'anno avuto in maniera continuativa dal momento della sua istituzione (ad aprile 2019 la prima erogazione) ricordando che si ha l'interruzione di un mese del beneficio e che le domande possono essere ripresentate da ottobre 2020. Nel mese di settembre - chiarisce l'Istituto - " i nuclei familiari che hanno beneficiato della prestazione senza soluzione di continuità fin dalla prima erogazione (aprile 2019) hanno ricevuto la diciottesima mensilità e pertanto la domanda è stata posta in stato "Terminata". Tali nuclei potranno quindi (a partire dal mese di ottobre 2020) presentare la domanda di rinnovo di Rdc. In caso di rinnovo del beneficio - precisa - "deve essere accettata, a pena di decadenza, la prima offerta utile di lavoro congrua".

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. L'epidemia globale ha provocato anche riflessi culturali globali: tra i film, rinnovato successo di Contagion di Steven Soderbergh; tra i romanzi, molti hanno riletto o scoperto per la prima volta La peste di Albert Camus. La voglia di trovare conforto nel paragone con una tragedia ancora più spaventosa, o il bisogno di esorcizzare la paura, hanno fatto tornare di attualità in Francia, Italia e anche in Cina il libro che il premio Nobel francese scrisse nel 1947. Per festeggiare la riapertura delle librerie, Bompiani pubblica adesso Esortazione ai medici della peste, un testo inedito in Italia che Camus scrisse probabilmente nel 1941 come uno dei lavori preparatori al romanzo (a partire dal 13 maggio, l' inedito sarà scaricabile gratuitamente su bompiani.it o regalato ai lettori delle librerie Giunti al Punto). Sono 24 pagine di grande interesse, tradotte da Yasmina Melaouah e pubblicate in Francia oltre 70 anni fa nella rivista di Gallimard «Cahiers de la Pléiade», aprile 1947, assieme al più breve Discorso della peste ai suoi amministrati, pochi mesi prima dell' uscita del romanzo. La peste si può leggere come un libro allegorico: Camus inventa un' epidemia di peste negli anni Quaranta a Orano, in Algeria, per raccontare le reazioni dei suoi cittadini e quindi degli uomini di fronte al Male. Come pochi anni prima i francesi sotto l'occupazione nazista, gli abitanti di Orano di fronte alla peste mostrano le tante possibilità della natura umana: ci sono il medico instancabile (oggi diremmo eroe) Bernard Rieux, generoso, pronto al sacrificio e alla fine convinto che gli uomini abbiano più qualità che difetti; il suo vicino Jean Tarrou, che organizza la rete di Resistenza contro il bubbone; ma c' è anche il profittatore di guerra Joseph Cottard, che fa affari grazie al contrabbando e che rappresenta la perfetta figura del collaboratore amico dei nazisti. Se quella lettura allegorica della Peste era evidente e predominante quando il romanzo uscì nel 1947, a soli due anni dalla sconfitta di Hitler e di Pétain, il romanzo di Camus ha un valore universale che prescinde dalla lotta al nazismo. La stessa natura umana messa alla prova dalla Seconda guerra mondiale è chiamata oggi a mostrare di che pasta è fatta di fronte al Covid-19. La peste ora si può leggere in modo più diretto, osservando come gli uomini - di Orano, Parigi o Milano - reagiscono di fronte a un' epidemia, di peste o di coronavirus. I primi segnali sono spesso trascurati, perché gli uomini tendono a pensare che le catastrofi non accadano, o capitino agli altri: in apertura del romanzo Camus descrive l' ecatombe dei topi, e i cadaveri dei roditori che infestano le strade di Orano. Eppure la maggior parte della popolazione preferisce voltarsi dall' altra parte e continuare la propria vita come se il problema non esistesse e riguardasse solo gli altri, i topi. Impossibile non notare che questa fatica a riconoscere la minaccia si è vista all' opera anche nelle prime settimane dell' epidemia di Covid-19, quando si pensava che l' unico luogo colpito fosse Wuhan. Gli occidentali hanno perso tempo prezioso prima di capire il pericolo del «virus cinese», come lo chiamava il presidente americano Trump, e molti europei si sono a lungo rifiutati di sentirsi coinvolti anche se i loro vicini erano già toccati dal dramma: in Francia, per esempio, il presidente Macron è andato a teatro con la moglie mandando ai francesi il messaggio che «la vita continua», mentre l' Italia già dichiarava quasi 200 morti. Ma la stessa iniziale negazione del pericolo si è avuta in Gran Bretagna, o in Svezia. La somiglianza tra la vicenda immaginaria ambientata da Camus a Orano e la realtà dell' epidemia nel mondo si ritrova anche nel testo preparatorio, in cui l' autore si rivolge ai medici ricordando l' importanza di essere «saldi di fronte a questa strana tirannia». Nelle prime pagine si parla subito delle mascherine, l' oggetto prezioso e colpevolmente raro che ossessiona Francia e Italia in questi giorni. Ma al di là di questo consiglio pratico, Camus affronta la questione di come i medici, ma anche tutti gli altri uomini, possano affrontare un evento così spossante per il corpo e per l' anima come l' epidemia. «La prima cosa è che non abbiate mai paura», scrive Camus. «Dovete fortificarvi contro l' idea della morte e conciliarvi con essa, prima di entrare nel regno preparatole dalla peste. Se trionferete qui, trionferete ovunque e vi vedranno tutti sorridere in mezzo al terrore». Camus sembra evocare qui un tema di cui si è molto parlato nelle ultime settimane, ovvero la rimozione contemporanea della morte dall' orizzonte delle nostre vite. La sua esortazione ai medici, e a tutti, è di non avere paura di niente, neanche della morte. La risposta all' epidemia non può essere fare finta di nulla, o rifugiarsi nella superstizione, o nel fatalismo. Ma prendere tutte le precauzioni possibili e poi combattere, senza paura.

Dal “Corriere della Sera” l'11 maggio 2020. Pubblichiamo un breve estratto dell'«Esortazione ai medici della peste», in uscita da Bompiani mercoledì nella traduzione di Yasmina Melaouah. Infine dovete diventare padroni di voi stessi. E, per esempio, saper fare rispettare la legge che avrete scelto, come quella del blocco e della quarantena. Uno storiografo provenzale narra che un tempo, quando uno di coloro che erano sottoposti alla quarantena scappava, gli veniva fracassata la testa. Non è questo che auspicate. Ma non dimenticate con ciò l' interesse generale. Non venite meno a tali regole per tutto il tempo in cui saranno utili, quand' anche il cuore vi inducesse a ciò. Vi è chiesto di dimenticare un poco quel che siete senza tuttavia dimenticare mai quel che dovete a voi stessi. È questa la regola di una serena dignità.

Gli errori di governo e regioni hanno causato la morte di 200 medici. Bruno Buonanno su Il Riformista il 12 Maggio 2020. Combattevano contro un nemico sconosciuto o i governanti nazionali e regionali si sono “distratti” quando si dovevano riempire i magazzini di mascherine, visiere, tute e di tutto quello che poteva servire per affrontare il Coronavirus? Capiamoli. Silvestro Scotti, presidente dell’Ordine dei medici di Napoli e segretario nazionale del sindacato dei medici di famiglia Fimmg, non fa sconti a nessuno: “Purtroppo la storia dei presidi che mancano non è finita. Continua con guanti in lattice che non si trovano da nessuna parte e chi è in grado di procurarli chiede prezzi impossibili. Un argomento così importante dovrebbe essere gestito dalla Scienza, invece riceviamo indicazioni che cambiano in continuazione e creano problemi. Prima si dovevano indossare i guanti, oggi non servono più perché basta lavarsi spesso le mani e usare gel disinfettanti. I costi sono alle stelle, si parla anche di 12-16 euro per una scatola di guanti e in questo filone dei presìdi si sono inseriti personaggi politici come la Pivetti”. È sempre in prima linea Scotti, pronto a far sentire il suo vocione in difesa di medici e infermieri mandati allo sbaraglio durante la pandemia: “Siamo a oltre duecento morti tra il personale sanitario e gli errori fatti sulla carenza di dispositivi di sicurezza sono senza giustificazione”. A fine gennaio governo e regioni avevano tempo e possibilità di organizzare le scorte perché l’emergenza Coronavirus era ancora lontana dall’Italia. “Chi ci governa – continua Scotti – sapeva che non avevamo una produzione propria di quei dispositivi e, se uno Stato dichiara l’emergenza sanitaria, deve organizzare un’emergenza strategica. Altrimenti è follia. Se sai da dicembre che un nuovo virus può arrivare in Italia, prima di chiudere i voli dalla Cina organizzati per far arrivare dall’Oriente tutti i prodotti di cui puoi avere bisogno”. Siamo partiti a livello nazionale con un budget di cinque milioni di euro decidendo di affidare la gestione dell’emergenza sanitaria alla Protezione Civile. Scelta che Silvestro Scotti critica: “L’articolo 81 della Costituzione prevede che per disastri idrogeologici ed emergenze sanitarie si programmi un finanziamento. Noi abbiamo avuto disastri idrogeologici: la Protezione Civile ha autocarri, tende, ospedali da campo e mascherine e ne ha fornite 70mila alle forze dell’ordine ma non ai medici. Governo e Regioni se ne sono infischiati del personale sanitario. Quando eravamo in piena emergenza sono arrivati a dire: vi servono le mascherine? Compratevele. Procuratevi sul mercato i mezzi di protezione individuale. E partendo da questo presupposto è partita un’operazione sbagliata perché ospedalicentrica e strutturicentrica che ha completamente ignorato il Territorio”. Avvocati, docenti universitari, ingegneri sono oggi nelle sale comando della sanità e nelle task force. Silvestro Scotti è rimasto fuori, come tanti protagonisti della nostra sanità: “Poi ci si chiede com’è possibile che per avere un tampone si debba attendere fino a 15 giorni e altri ancora per sapere se si è positivi o negativi. Hanno inserito nelle task force i manager degli ospedali, il personale della Protezione Civile mentre sarebbe stata più efficace un’alleanza tra medici e farmacisti e il coinvolgimento, in prima battuta, anche della sanità convenzionata”. Un virus nuovo, la gestione della pandemia affidata a chi cura disastri idrogeologici, hanno fatto dimenticare che la prevenzione prevede per milioni di cittadini presìdi di protezione personale. “Ci sono colpe di alcuni specialisti che hanno dato indicazioni sbagliate – ammette Scotti – ma le linee di comportamento in una pandemia sanitaria così grave e importante devono essere dettate dalla scienza e non dalla politica. Calano i contagi e i decessi, ma si teme un ritorno del Coronavirus. Sul futuro non vedo luce, dobbiamo augurarci che l’aggressività del virus si riduca col caldo e sperare di essere fortunati. Intanto sento parlare di app, della tecnologia al posto del medico in prima linea. No, per carità di Dio, adesso non esageriamo”.

Medici di famiglia e farmacisti morti. «Nessun risarcimento per il Covid» Giuseppe Guastella il 2 luglio 2020 su Il Corriere della Sera. Le assicurazioni: l’infezione non è infortunio sul lavoro. Ma chi lavora negli ospedali invece riceve l’indennizzo. I parenti di alcune delle vittime sono pronti a rivolgersi alla magistratura. Ci sono eroi ed eroi. A differenza dei colleghi assunti nella sanità pubblica o privata, i medici di famiglia e gli infermieri che si sono ammalati di coronavirus assistendo i pazienti non saranno indennizzati per i danni subiti, così come non avranno nulla le loro famiglie se sono morti, nonostante per anni abbiano pagato un’assicurazione. Per una questione interpretativa giuridica, infatti, le compagnie non riconoscono l’infezione da Covid-19 come infortunio sul lavoro. C’è già chi è pronto a rivolgersi alla magistratura.

Le categorie. Un medico, un dentista, un farmacista o un tecnico sanitario (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata e che si sono ammalati o si ammalano, speriamo non più, dopo essere stati contagiati da un paziente, possono contare sulla copertura assicurativa dell’Inail che considera ciò che è accaduto loro un infortunio sul lavoro. Di conseguenza, hanno diritto a un indennizzo se riportano un’invalidità permanente che, in caso di morte, viene versato ai familiari. I medici di medicina generale svolgono un servizio — è bene ricordarlo — pubblico in convenzione con il Servizio sanitario che li paga, ad esempio, per visitare i pazienti. Non possono rifiutarsi e se vengono contagiati è obiettivamente difficile non pensare a un infortunio, ovviamente sul lavoro. Lo stesso vale per i farmacisti, per i dentisti e per tutti gli altri operatori sanitari che hanno un’attività libero-professionale che li pone a contatto con il pubblico. Questi professionisti di solito pagano volontariamente una polizza assicurativa che copre i danni da infortuni, versando in media tra i mille e i duemila euro l’anno. Nel loro caso, a differenza dell’Inail, però, le compagnie assicurative private escludono che il contagio possa essere considerato un infortunio e non coprono i danni. Lo fanno se l’assicurato ha stipulato una polizza anche contro le malattie, ma è una cosa molto rara perché in Italia, per fortuna, c’è il Servizio sanitario nazionale che cura gratuitamente.

Le cifre Inail. Dall’inizio della pandemia l’Inail, spiega Patrizio Rossi, sovrintendente sanitario nazionale dell’Istituto, dati al 15 giugno, «ha ricevuto 49.021 denunce di infortuni sul lavoro da parte degli operatori del settore della sanità e dell’assistenza sociale, tra tutte la categoria più colpita con 236 decessi». Secondo i dati Inail, il maggiore numero di contagiati si è verificato tra i tecnici della salute (40,9%), seguiti dagli operatori socio-sanitari (21,3%), dai medici (10,7%) e dagli operatori socio-assistenziali (8,5%). Anche il maggiore numero dei morti è stato registrato tra i tecnici della salute (12%, di cui il 60% infermieri) seguiti dai medici (9,9%) e dagli operatori socio-sanitari (7,8%). «Solo gli operatori infettati sul lavoro che sono assicurati dall’Inail sono tutelati da questi rischi» precisa Rossi. Gli esclusi sono migliaia come, appunto, i medici di medicina generale, i pediatri di libera scelta, i farmacisti e i dentisti, professionalità tra le quali ci sono stati tanti contagiati e morti, tra cui 171 medici e 14 farmacisti. Per loro, quindi, le regole dell’Inail non valgono.

L’interpretazione. «Sulla qualificazione dell’infezione come infortunio c’erano orientamenti opposti tra mondo assicurativo pubblico e mondo assicurativo privato già prima della pandemia», spiega Rossi, secondo il quale, «dal punto di vista tecnico-giuridico non c’è alcuna differenza tra il sistema assicurativo pubblico e quello privato sull’interpretazione dell’infezione come infortunio». Invece, «le assicurazioni private hanno sempre escluso tutte le malattie infettive dall’indennizzo, a meno che non siano collegate direttamente a una lesione subita in precedenza. Questo — prosegue Rossi — è un concetto ormai superato di fronte a una malattia che di per sé costituisce a tutti gli effetti un evento lesivo conseguente a una causa violenta-rapida-esterna. Quello che tecnicamente è considerato un infortunio dalla medicina-legale». Per trovare una soluzione, Inail ha promosso un gruppo di lavoro per studiare l’estensione della propria tutela ai medici e odontoiatri liberi professionisti. Su come affrontare le conseguenze della pandemia in generale si interrogano le assicurazioni che, come ha detto il presidente Ania Maria Bianca Farina, stanno cercando «una soluzione assicurativa che consenta una gestione ex ante della pandemia».

Coronavirus: risarcimento per i medici contagiati in ospedale e non per quelli di base. Le Iene News il 02 luglio 2020. Medici, dentisti, farmacisti e tecnici sanitari (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata, se hanno preso il Covid dai pazienti, hanno diritto a un indennizzo dall’Inail che in caso di morte viene pagato ai familiari. I medici di famiglia e gli operatori che lavorano fuori da un ospedale, no. Ecco perché si fa questa incredibile differenza tra gli eroi che ci hanno salvato dalla pandemia. Esistono medici e operatori sanitari eroi di serie A e di serie B, almeno in Italia, davanti ai risarcimenti. Quelli che si sono ammalati o sono purtroppo morti di Covid in ospedale avranno diritto all'indennizzo, i dottori di famiglia no. Il Corriere della Sera racconta lo scandalo ricostruendo un’incredibile babele legislativa e assicurativa. Nella foto qui sopra vedete uno dei simboli di tutti questi veri eroi, ospedalieri o di base: è Elena Pagliarini, infermiera del Pronto soccorso dell’ospedale di Cremona, premiata dal Capo dello Stato Sergio Mattarella come Cavaliere al merito della Repubblica. Lo scatto di un collega che la ritrae addormentata a fine turno ancora al suo posto, davanti al computer e con camice e mascherina, riassume l’impegno straordinario di tutto il personale sanitario che ha fatto uscire il nostro Paese per ora dall’emergenza più grave dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. In tantissimi sono stati inevitabilmente contagiati dal Covid, in tanti sono morti: questi veri eroi non sono però tutti uguali almeno davanti ai risarcimenti. Medici, dentisti, farmacisti e tecnici sanitari (infermieri, terapisti, radiologi ecc.) che lavorano con regolare contratto in una struttura sanitaria pubblica o privata e che si sono ammalati dopo essere stati contagiati da un paziente, possono contare sulla copertura assicurativa dell’Inail che lo considera un infortunio sul lavoro. Hanno diritto a un indennizzo in caso di un’invalidità permanente. In caso di morte, il risarcimento viene versato ai familiari. Il lavoro dei medici di medicina generale, quelli di base, quelli di famiglia per intenderci, è un servizio pubblico in convenzione con il Servizio sanitario. Non possono rifiutarsi di visitare i pazienti e se si ammalano di Covid anche per loro si dovrebbe pensare a un infortunio sul lavoro. Stessa cosa per farmacisti, per dentisti e per tutti gli altri operatori sanitari che svolgono un’attività libero-professionale a contatto con il pubblico. Tutti questi di solito pagano volontariamente una polizza assicurativa che copre i danni da infortuni, con contributi tra i mille e i duemila euro l’anno. A differenza dell’Inail, però, le compagnie assicurative private escludono che il contagio possa essere considerato un infortunio e non coprono i danni. Lo fanno solo se l’assicurato ha stipulato una polizza specifica anche contro le malattie: una cosa molto rara perché in Italia c’è il Servizio sanitario nazionale già gratuito. Sul Corriere della Sera troviamo anche i numeri dall’inizio della pandemia dell’Inail, l'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, spiegati da Patrizio Rossi, sovrintendente sanitario nazionale dell’Istituto, aggiornati al 15 giugno: “L’Inail ha ricevuto 49.021 denunce di infortuni sul lavoro da parte degli operatori del settore della sanità e dell’assistenza sociale, tra tutte la categoria più colpita con 236 decessi”. La percentuale più alta di contagiati si è verificata tra i tecnici della salute (40,9%), seguiti dagli operatori socio-sanitari (21,3%), dai medici (10,7%) e dagli operatori socio-assistenziali (8,5%). Anche i morti si sono concentrati di più tra i tecnici della salute (12%, di questi il 60% sono infermieri), seguiti dai medici (9,9%) e dagli operatori socio-sanitari (7,8%): “Questi sono solo gli operatori infettati sul lavoro che sono assicurati dall’Inail e sono tutelati da questi rischi”. Gli esclusi? Migliaia di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, farmacisti, dentisti, tecnici sanitari. In 171 sono morti. Sono morti e contagiati di serie B che non hanno diritto al risarcimento? Dov’è finito il grazie agli eroi della pandemia? “Sulla qualificazione dell’infezione come infortunio c’erano orientamenti opposti tra mondo assicurativo pubblico e mondo assicurativo privato già prima della pandemia”, spiega Rossi al Corriere della Sera. “Dal punto di vista tecnico-giuridico non c’è alcuna differenza tra il sistema assicurativo pubblico e quello privato sull’interpretazione dell’infezione come infortunio. Le assicurazioni private hanno sempre escluso tutte le malattie infettive dall’indennizzo, a meno che non siano collegate direttamente a una lesione subita in precedenza”. In molti sono già pronti a rivolgersi alla magistratura. Noi speriamo che la politica possa intervenire, perché non possono esserci eroi di serie A e di serie B: dobbiamo a tutti loro tantissimo.

Coronavirus e la beffa dei medici di base non risarciti: “Mio padre è morto, anche il suo sacrificio deve essere riconosciuto”. Le Iene News il 07 luglio 2020. Ilenia, figlia di Giovanni Tommasino, ci racconta gli ultimi giorni di suo padre, medico di base a Castellammare di Stabia morto per il coronavirus. Oltre al dolore, la beffa dell’ingiusta “classificazione tra medici”, di cui noi di Iene.it vi abbiamo parlato. “Non posso pensare che ci siano eroi di serie A e eroi di serie B. Mio padre ha fatto il suo dovere fino alla fine”. Il papà di Ilenia, Giovanni Tommasino, che vedete nella foto qui sopra assieme alle due figlie, è uno dei 171 operatori sanitari che hanno perso la vita a causa del coronavirus. “Mio papà aveva 61 anni ed era un medico di base”, racconta Ilenia a Iene.it. La ragazza ci ha contattato dopo aver appreso che i medici ammalati o morti per il coronavirus in ospedale avranno diritto a un indennizzo, mentre i dottori di famiglia no: una notizia che noi di Iene.it vi abbiamo raccontato. Giovanni lavorava a Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli: “Agli inizi di marzo ha cominciato ad avere i primi sintomi”, racconta Ilenia. “Abbiamo subito chiesto il tampone ma nel frattempo la situazione è peggiorata. Mio padre è stato ricoverato in vari ospedali, fino a che il 4 aprile, mentre era in terapia intensiva, non ce l’ha fatta”. Un dolore enorme, a cui si aggiunge la beffa del caso dei risarcimenti: “Io e la mia famiglia siamo consapevoli che nessuno potrà ridarcelo, ma a tre mesi dalla sua morte sentire che ci sono diverse classificazioni tra medici di base e medici ospedalieri fa davvero male. Li chiamano eroi e poi li classificano? Mio padre ha sacrificato se stesso, per lui il lavoro era un imperativo morale: ha combattuto in prima linea finché ha potuto, senza abbandonare i suoi pazienti. Per questo ha lasciato un vuoto non solo nella nostra famiglia, ma tra i suoi pazienti, in tutto Castellammare”. “Noi non vogliamo nulla”, continua Ilenia. “Non è per il risarcimento che ho deciso di parlare di lui, è perché mio padre e tutti i medici di base devono essere messi sullo stesso piano di quelli che lavorano in ospedale. La medicina di base è il primo contatto con il paziente e mio padre per lavorare si è anche dovuto arrangiare quando è scoppiato tutto questo: solo dopo qualche giorno è riuscito a procurarsi una mascherina chirurgica. Chi è medico è medico sempre, perché fare distinzioni? Noi vogliamo che nostro padre, come tutti i medici di base, ricevano il giusto riconoscimento”. Per questo, racconta Ilenia, un collega di Giovanni poco dopo la sua morte ha deciso di lanciare una petizione affinché sia riconosciuta una medaglia al merito a Giovanni Tommasino e a tutti gli operatori sanitari vittime del Covid19, senza distinzione. “Sono già state raccolte 30mila firme”, dice Ilenia. “Io ho deciso di parlare di mio padre perché il sacrificio che lui ha fatto non può restare senza un riconoscimento, per lui come per tutti gli altri medici”. Se volete contribuire anche voi a rendere omaggio a chi ha lottato e dato la propria vita per proteggere tutti noi, cliccate qui per firmare la petizione. 

Coronavirus, i contagi di medici, infermieri e operatori delle strutture sanitarie tutelati come infortuni sul lavoro. Inail il 17/03/2020. Come chiarito in una nota, la tutela Inail copre l’intero periodo di isolamento domiciliare o quarantena e quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta. I contagi da nuovo Coronavirus di medici, infermieri e altri operatori dipendenti del Servizio sanitario nazionale e di qualsiasi altra struttura sanitaria pubblica o privata assicurata con l’Inail, avvenuti nell’ambiente di lavoro o a causa dello svolgimento dell’attività lavorativa, sono tutelati a tutti gli effetti come infortuni sul lavoro. Si presume il nesso causale con le mansioni svolte. A chiarirlo è una nota della Direzione centrale rapporto assicurativo e della Sovrintendenza sanitaria centrale dell’Istituto, nella quale è precisato che la tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l’identificazione delle specifiche cause e modalità lavorative del contagio si presenti problematica. Si presume, infatti, che il contagio sia una conseguenza delle mansioni svolte. Sono tutelati, inoltre, anche i casi di contagio da Covid-19 avvenuti nel percorso di andata e ritorno dal luogo di lavoro, che si configurano quindi come infortuni in itinere. Copertura Inail anche per quarantena e isolamento domiciliare. Gli operatori che risultino positivi al test di conferma del contagio sono ammessi alla tutela dell’Istituto, che si estende a tutte le conseguenze dell’infortunio. Nei casi di infezione da nuovo Coronavirus, in particolare, copre l’astensione dal lavoro dovuta a quarantena o isolamento domiciliare per l’intero periodo e quello eventualmente successivo, dovuto a prolungamento di malattia che determini una inabilità temporanea assoluta. Per il datore di lavoro resta l’obbligo di denuncia/comunicazione all’Istituto. L’Azienda sanitaria locale o la struttura ospedaliera/sanitaria privata di appartenenza del personale infortunato, in qualità di datori di lavoro pubblico o privato, come per gli altri casi di infortunio sono tenute a effettuare la denuncia/comunicazione di infortunio all’Inail. È confermato, inoltre, l’obbligo da parte del medico certificatore di trasmettere all’Istituto il certificato medico di infortunio.

Coronavirus, il sindacato dei medici: “Duemila positivi tra i sanitari: senza mascherine e tamponi gli ospedali diventano un pericolo”. In una petizione su Change.org, Anaao Assomed chiede più sicurezza per chi è in prima linea: altrimenti le strutture destinate alla cura rischiano di diventare focolai a loro volta. Beatrice Manca il 16 marzo 2020 su Il Fatto Quotidiano. L’allarme era stato dato da giorni, ma ora parlano i numeri: duemila operatori sanitari – tra medici, infermieri – sono già stati contagiati dal coronavirus sul luogo di lavoro. “Sono circa il 10-12% del totale dei positivi – spiega Carlo Palermo, segretario del sindacato medico Anaao Assomed – Ma quello che ci preoccupa soprattutto è che non vengono effettuati i tamponi agli operatori che siano stati a contatto con i soggetti Covid-19 finché non mostrano i sintomi”. Per questo è stata lanciata una petizione su Change.org, indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro della Salute Roberto Speranza, che in un paio di giorni ha superato le 37mila firme. “Siamo in una situazione paradossale: il territorio è stato messo al riparo con chiare istruzioni con istruzioni chiare di distanziamento sociale, gli ospedali no e rischiano di diventare sedi di contagio“. La politica in questi giorni ha ricordato spesso le condizioni durissime in cui lavora il personale ospedaliero: ieri il premier Giuseppe Conte ha sottolineato che la “priorità è la sicurezza di medici e infermieri”, e che il governo è impegnato a “a procurare in tempi brevissimi i dispositivi di protezione che consentano loro di lavorare in massima sicurezza”. Eppure per chi lavora in corsia spesso è difficile ottenere perfino un tampone, nonostante il contatto continuo con pazienti potenzialmente infetti. L’articolo 7 del decreto legge entrato in vigore il 9 marzo prevede che i sanitari entrati in contatto senza protezioni con pazienti di Covid-19 – che magari hanno scoperto dopo di essere contagiati – non siano più posti obbligatoriamente in quarantena. Se il tampone è negativo e non mostrano sintomi, possono tornare a lavorare: “Per essere sottoposti al test devono sorgere sintomi respiratori importanti, o la febbre. Ma passa troppo tempo da un contatto a rischio alla risposta: nel frattempo vivono nell’angoscia di essere un rischio per i colleghi, per i familiari, per i genitori”. Una possibile soluzione, suggerisce Palermo, è in campo una procedura condivisa: “Chiediamo almeno 72 ore in isolamento e poi il tampone, magari con un ulteriore tampone di controllo a distanza di giorno, in questo modo mettiamo in sicurezza medici e infermieri, e soprattutto i pazienti: in ospedale ci sono immunodepressi, trapiantati, oncologici. Bisogna pensare a loro, che rischiano moltissimo”. Un altro problema è la cronica mancanza di dispositivi di protezione individuale, continuamente segnata in diverse Regioni. Servono soprattutto le mascherine FFp2 FFp3, perché, a differenza delle chirurgiche, filtrano l’aria che si respira. “Sono indispensabili per manovre come le intubazioni e le gastroscopie, che generano un aerosol, e sono queste goccioline, il famoso droplet, a diffondere il virus”, spiega ancora Palermo. Il sindacato chiede anche che venga abolito immediatamente il divieto, che alcune aziende ospedaliere hanno imposto, di indossare le mascherine negli spazi comuni. Ormai, sottolinea, i contagiati non sono confinati nei reparti di pneumologia e malattie infettive, ed è impossibile riconoscere un asintomatico. “I medici e gli infermieri – scrivono – potrebbero diventare fonte loro stessi di infezione, per cui deve essere obbligatorio indossare mascherine chirurgiche, guanti e visiere”. Altrimenti quelle strutture che dovrebbero assistere i malati, rischiano al contrario di diventare dei focolai. Prima di assumere nuovi medici, prosegue, bisogna proteggere al meglio il personale esistente: “Adesso tutti parlano della mancanza di medici, che noi denunciamo da dieci anni – conclude Carlo Palermo – Ora pagano il prezzo più elevato, perché non possono mettersi in isolamento né essere sostituiti”. Da un lato c’è ovviamente bisogno di medici – mai come in questo momento – ma dall’altro lato c’è il diritto alla salute, che va garantito sempre e comunque. “In caso contrario – scrive il sindacato dei medici – gli ospedali diventeranno l’unica area di contagio del paese, anziché di cura”.

Coronavirus, boom di contagi tra i sanitari: colpa dei pochi tamponi e delle mascherine inadatte. Redazione Nurse Times. Fonte: Il Sole 24 Ore il 25/03/20200. Lo sostiene la fondazione Gimbe. Un contagio su dieci riguarda medici, infermieri e altri operatori. Il dato è eclatante e non ha eguali all’estero. Nel nostro Paese ormai quasi un contagiato su dieci indossa il camice bianco: è un medico, un infermiere o un altro dei tanti operatori sanitari impegnati nella battaglia contro il Covid-19. Secondo i dati diffusi dall’Istituto Superiore di Sanità, in Italia dall’inizio dell’epidemia sono 5.211 i professionisti sanitari che hanno contratto un’infezione da coronavirus, pari al 9% del totale delle persone contagiate, una percentuale più che doppia rispetto a quella cinese del 3,8%. Senza parlare delle vittime, salite ora a 20. Alla base di questo boom di contagiati, secondo la fondazione Gimbe, che ha appena realizzato un’analisi è sottostimato, c’è molto probabilmente la mancata esecuzione dei tamponi a tutti gli operatori sanitari. Ma Gimbe nella sua analisi sottolinea anche l’utilizzo non adeguato delle mascherine, in particolare il ricorso a quelle chirurgiche, che non proteggerebbero a sufficienza gli operatori a contatto con i pazienti Covid-19. La denuncia del presidente Gimbe, Nino Cartabellotta (foto) è molto netta: «Un mese dopo il caso 1 di Codogno i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (Dpi), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti sanitari all’informazione alla popolazione». Tutte queste attività, inclusa la predisposizione dei piani regionali, erano previste dal “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale”, predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006. «È inspiegabile – continua il presidente – che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio». Ma l’altro nodo è quello dei tamponi. In un primo momento le regole decise dall’Iss prevedevano il tampone solo agli operatori sanitari con sintomi. Da qualche giorno il cambio di rotta: i tamponi vanno estesi – secondo il Comitato tecnico-scientifico – anche agli operatori sanitari asintomatici che sono venuti a contatto con pazienti Covid-19. Ma questo potrebbe non bastare e infatti diverse Regioni (dal Veneto alla Toscana) hanno deciso di estendere i tamponi a tutto il personale sanitario senza distinzioni. Intanto il contagio nelle corsie si è diffuso: «La mancanza di policy regionali univoche sull’esecuzione dei tamponi agli operatori sanitari – spiega Cartabellotta –, conseguente anche al timore di indebolire gli organici, si è trasformata in un boomerang letale. Infatti, gli operatori sanitari infetti sono stati purtroppo i grandi e inconsapevoli protagonisti della diffusione del contagio in ospedali, residenze assistenziali e domicilio di pazienti». C’è poi un problema mascherine, dovuto al fatto oggettivo che c’è una carenza sopratutto di quelle che proteggono di più (Ffp2 e Ffp3). Le linee guida Iss per gli operatori sanitari del 14 marzo, che riprendono quasi interamente le raccomandazioni pubblicate dall’Oms il 27 febbraio 2020, suggeriscono anche il ricorso alle mascherine chirurgiche per quei medici che assistono e accedono alle stanze con pazienti Covid (quelle Ffp2 e Ffp3, invece, sono indicate per chi compie operazioni direttamente sui pazienti). Un’impostazione, questa, che secondo Gimbe ha una distorsione di fondo: le raccomandazioni si basano sul presupposto che le scorte mondiali sono insufficienti, ma tarando al ribasso le protezioni si mettono a rischio contagio gli operatori. «Le evidenze scientifiche – sottolinea Claudio Beltramello, medico igienista e membro Gimbe ed ex collaboratorte Oms – dimostrano che in setting assistenziali le mascherine chirurgiche non proteggono adeguatamente professionisti e operatori sanitari. Infatti, sin dall’inizio dell’epidemia Istituzioni ed esperti indipendenti ribadiscono che la mascherina chirurgica non conferisce sufficiente protezione ai soggetti sani che vengono a contatto con un soggetto infetto».

Coronavirus. Stabile (FI): “Iss renda noto numero sanitari infettati”. Quotidianosanita.it il 20 aprile 2020. "Sembra manchi la volontà di rendere noti i dati completi sugli operatori sanitari contagiati, o meglio che vi sia la volontà di non renderli pubblici. Ora l'Istituto ha pubblicato un 'focus' sugli operatori sanitari, non dettagliato a livello regionale, ma solo con le percentuali per quanto riguarda ruolo e qualifica. È inaccettabile negare un'informazione fondamentale". Così la senatrice di Forza Italia. "L’Istituto superiore di Sanità renda noto il numero esatto dei sanitari contagiati nelle varie regioni". Lo chiede in una nota la senatrice di Forza Italia, Laura Stabile. "Sembra manchi la volontà di rendere noti i dati completi sugli operatori sanitari contagiati, o meglio che vi sia la volontà di non renderli pubblici- prosegue la parlamentare azzurra - visto che fino al 3 aprile l'Iss ha pubblicato, nei suoi report bisettimanali, il numero degli operatori sanitari contagiati regione per regione salvo poi smettere. Ora l'Istituto ha pubblicato un 'focus' sugli operatori sanitari, non dettagliato a livello regionale, ma solo con le percentuali per quanto riguarda ruolo e qualifica (medici, infermieri, Oss) e contesto assistenziale (assistenza ospedaliera, territoriale, 118). A titolo di esempio, ora sappiamo che i medici ospedalieri infettati in Friuli Venezia Giulia sono meno del 10%, infermieri e ostetrici circa il 20% e gli Oss il 40%. Ma se le persone positive siano 10, 100 o 10mila non è dato di sapere". "È inaccettabile negare un'informazione fondamentale come questa tanto da far sorgere il sospetto che si voglia nascondere una realtà che non si è in grado di gestire", conclude Stabile.

Il 68% degli operatori sanitari infettati in corsia sono donne, i dati choc del Ministro della Salute. Franca Giansoldati su ilmessaggero.it Giovedì 23 Aprile 2020. Senza contare i danni collaterali, come ansia, stress, insonnia, le donne che lavorano negli ospedali e sono a stretto contatto con la malattia sono anche quelle più contagiate. «Il 10,7% del totale dei casi di Covid-19 sono stati diagnosticati tra gli operatori sanitari. Il 68% degli operatori colpiti sono donne. Le categorie più colpite: ostetrici e infermieri (43,2%); medici ospedalieri (19%) e operatori socio sanitari (9,9%)». A dare queste cifre è il ministero della Salute su Twitter, fotografando impietosamente un quadro pesantissimo sotto il profilo professionale che medico. Le donne in corsia – infermiere o medico – sono quelle che finiscono per essere attaccate maggiormente dal micidiale virus, nonostante che il covid-19 - è stato accertato - colpisca più soggetti di sesso maschile. Un indicatore che ora dovrà essere ulteriormente analizzato ma che offre già la cifra dell'impegno che grava sulle donne in prima linea negli ospedali, spesso costrette a dovere anche gestire a distanza una famiglia, i figli con l'ansia di rientrare a casa e contagiare i famigliari. All'inizio della pandemia una fotografia che ha subito fatto il giro del mondo ha mostrato l'attaccamento al lavoro, il senso del dovere, l'amore per il prossimo delle infermiere. Mostra una infermiera con ancora addosso la mascherina crollata sulla tastiera di un computer. Elena, la protagonista di questa foto, è stata successivamente trovata positiva al tampone ed è dovuta andare in quarantena e sottoporsi alla terapia. A guarigione fortunatamente avvenuta, la prima cosa che ha detto Elena era di voler tornare a lavorare in corsia.  In queste settimane drammatiche Elena ha raccontato di aver «perso degli amici e il papà di uno di loro. Quando tutto questo finirà, dovremo guardarci intorno e vedere chi è rimasto. Ho paura - ha aggiunto - che mancherà qualcuno di cui non mi sono accorta».

Simona Ravizza per il ''Corriere della Sera'' il 10 maggio 2020. Alle 8 di sera del 6 marzo Miriam Villani, 53 anni, caposala di Pronto soccorso e rianimazione, 30 anni di carriera sulle spalle, smonta da 12 ore di turno dopo l’ennesima giornata in cui vede ammalarsi i colleghi uno dopo l’altro: «Solo nel mio ospedale siamo a quota 110 operatori sanitari con il Covid-19 — si sfoga con il Corriere della Sera —. Per aiutarci adesso sono dovute arrivare le forze dell’esercito: medici e infermieri dei carabinieri e dell’aeronautica militare». L’ospedale di Lodi, di cui fa parte anche il presidio di Codogno — dove la sera del 20 febbraio viene trovato positivo al tampone il 38 enne Mattia Maestri, il «Paziente Uno», e che poi viene praticamente chiuso — rappresenta la prima trincea in Europa nella lotta al coronavirus. A due mesi di distanza da quei giorni drammatici i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. È il dato aggiornato all’8 maggio contenuto nei report riservati di Regione Lombardia. Ma per capire quanti operatori sanitari si sono davvero ammalati, bisogna incrociare un altro numero, ossia quanti sono gli operatori sanitari che sono venuti a contatto con il maledetto virus indipendentemente dalla diagnosi. Un ruolo importante a tal proposito lo gioca il test sierologico che, cercando gli anticorpi IgM e IgG, può rivelare chi si è contagiato anche senza saperlo. Ebbene, risultati alla mano, i positivi salgono da 296 a 373. Vuol dire che 77 operatori sanitari finora sono sfuggiti alle rilevazioni. Sommersi. In sintesi: il 20% dei medici e degli infermieri ha avuto il coronavirus senza saperlo prima d’ora. Uno su cinque. È il dato che, più d’ogni altro fino ad adesso, può essere anche la spia della percentuale di operatori sanitari asintomatici che hanno continuato a lavorare in corsia anche se con il Covid-19. E una stima sull’intera Regione porta a una cifra ancora più alta: uno su tre. Un po’ di pazienza e capiremo il perché.

I numeri (riservati) sui casi sommersi. L’ospedale di Lodi è il primo in Lombardia ad avere completato l’effettuazione del test sierologico su tutti i dipendenti, 2.243. Uno sforzo dettato anche dalla volontà di andare a caccia proprio degli asintomatici. È un’informazione fondamentale per ragionare su come comportarsi nella Fase 2 e, soprattutto, in vista di una possibile ondata di ritorno del virus. La lezione imparata è che gli ospedali, che scontano l’accusa di essere stati diffusori del contagio, almeno d’ora in avanti non possono più esserlo. Così a Lodi vengono contati per la prima volta, lì nell’ospedale di trincea della Regione più colpita, i medici e gli infermieri sfuggiti al tampone. Uno dei motivi dei malati sommersi è sicuramente legato all’impossibilità (o incapacità) durante l’apice dell’epidemia di fare a tutti la diagnosi: a quell’epoca è probabile che chi si è ammalato a casa — senza ricovero in ospedale — sia rimasto senza tampone. Tra i 77 operatori sanitari contagiati scoperti con il test sierologico, dunque, sicuramente ci sono coloro che sono rimasti a domicilio perché con la febbre o altri sintomi senza mai avere avuto la prova di essersi contagiati. Ma non può non essere preso in considerazione il fatto che, per altri, si tratta di asintomatici. Chi rientra nella prima categoria, chi nella seconda al momento è impossibile da sapere. Negli scorsi giorni, ancora una volta in vista della Fase 2, e sempre all’ospedale di Lodi, che oltre a Codogno conta altri due presidi (Casale e Sant’Angelo), sono eseguiti a tappeto anche i tamponi. I 2.243 lavoratori tutti testati. Caso unico per la Regione. Così sono scovati altri 38 contagiati. Al lavoro. Si tratta di 22 infermieri, 3 operatori socio-sanitari, 2 ausiliari, 2 medici, 2 amministrativi, gli altri tecnici. È un’altra informazione preziosa e che non può essere ignorata per decidere il da farsi nel futuro. In modo da riuscire a tutelare al meglio chi è in corsia e chi è ricoverato.

Cosa dicono le stime per tutta la Lombardia. Dal 23 aprile il governatore Attilio Fontana e l’assessore alla Sanità Giulio Gallera decidono di utilizzare il test sierologico per screening di massa sugli operatori sanitari. Finora i medici e gli infermieri testati sono 25.331: quelli che risultano essere venuti in contatto con il virus sono 3.506 (il 14% del totale). Oltre a Lodi, i positivi agli anticorpi IgM e IgG sono 1.110 a Bergamo (24,1%), 903 a Brescia (11,2%), 656 a Mantova e Cremona (15,5%), 337 a Pavia (8,4%), 110 a Monza (6,2%), 27 positivi a Sondrio (9,5%). Il dato a prima vista fornisce semplicemente l’indicazione che la percentuale di sanitari contagiati è in linea con la diffusione del virus nelle varie province. Ma è possibile andare oltre la lettura superficiale. Per addentrarci nelle stime. La proiezione di questi numeri sull’intera Lombardia, tenendo conto anche degli ospedali di Como, Varese e Milano che al momento non hanno fornito dati, ci dice che verosimilmente i medici e gli infermieri che sono venuti a contatto con il virus sono almeno 11 mila, ossia il 10% dei 110 mila operatori sanitari pubblici della Lombardia. I casi Covid-19 accertati tra gli operatori sanitari all’8 maggio sono 6.664. All’appello ne mancano oltre 4.300. Ecco, allora, l’indicatore a livello lombardo: oltre il 35% dei sanitari che si è ammalato di coronavirus non risulta tamponato. Una percentuale che, come per Lodi, può essere una spia importante per quantificare i potenziali asintomatici. Del resto, i conti tornano con quanto rilevato nell’azienda ospedaliera di Padova dal virologo Andrea Crisanti, il teorico dei tamponi a tappeto e della sorveglianza attiva, che hanno fatto del Veneto un modello internazionale: «Fin dall’inizio in ospedale abbiamo testato tutti: ben ottomila tra medici e infermieri. Li abbiamo sottoposti al tampone a cadenza fissa: addirittura ogni sette giorni per chi lavorava nei reparti Covid-19 — ricorda Crisanti —. Il risultato è che il 35% dei sanitari con il Covid-19 è risultato asintomatico».

Le decisioni (obbligate) delle autorità sanitarie. In un momento in cui gli ospedali stanno riaprendo anche agli altri malati, i no Covid-19, la consapevolezza è che medici e infermieri non possono tramutarsi in bombe di virus che rischiano di contagiare colleghi e pazienti ricoverati. In una circolare del 10 marzo Regione Lombardia stabilisce: «Per l’operatore asintomatico che ha assistito un caso probabile o confermato di Covid-19 senza che siano stati usati gli adeguati dispositivi di protezione individuali (Dpi) per rischio droplet o l’operatore che ha avuto un contatto stretto con caso probabile o confermato in ambito extralavorativo, non è indicata l’effettuazione del tampone, ma il monitoraggio giornaliero delle condizioni cliniche. In assenza di sintomi non è prevista l’interruzione dal lavoro che dovrà avvenire con utilizzo continuato di mascherina chirurgica». Queste linee guida sono dettate dalla difficoltà, davanti all’elevato numero di sanitari, di fare tamponi di massa. Da non dimenticare neppure l’esigenza di non sguarnire le corsie di personale davanti alle migliaia di pazienti. Ma i risultati di Lodi e dei test sierologici in corso devono far riflettere su come proseguire. La Lombardia riuscirà a potenziare le diagnosi? Quel che è certo è che in assenza di screening a tappeto, nessuno potrà più farsi trovare impreparato nell’uso delle protezioni individuali, a cominciare dalle mascherine. Stavolta non bisogna farsi cogliere di sorpresa.

Lodi, l’ospedale record per casi di coronavirus sommersi: 20% dei sanitari positivo senza sintomi. Un operatore sanitario su cinque all’ospedale di Lodi ha avuto il coronavirus senza rendersene conto. È il risultato delle analisi effettuate all’interno del presidio sanitario del territorio al centro dell’emergenza in Italia. Secondo quanto riporta il Corriere della Sera, i medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. Quelli che hanno gli anticorpi salgono a 373. Ne risulta che 77 lavoratori dell’ospedale sono stati infettati pur non avendo i sintomi. Redazione Milano milano.fanpage.it il 10 maggio 2020. Un operatore sanitario su cinque positivo al coronavirus senza aver mai avuto i sintomi. È l'indicazione arrivata dai test sierologici a tappeto eseguiti all'ospedale di Lodi, la provincia epicentro del primo focolaio italiano. Dopo due mesi in trincea con centinaia di malati in gravi condizioni, ora che la situazione è tornata sotto controllo, il presidio sanitario lodigiano è il primo in Lombardia ad avere completato le analisi su tutti i dipendenti, 2.243.

All'ospedale di Lodi un operatore sanitario su cinque positivo al virus senza sintomi. Come riportato dal Corriere della Sera, esiste una discrepanza tra i risultati dei tamponi eseguiti sui sanitari che avevano sintomi della malattia e i test a cui tutti sono stati sottoposti. I medici e gli infermieri con un tampone positivo sono 296. Quelli che hanno gli anticorpi (che rivelano il contagio avvenuto o in corso) sono invece 373. Ne risulta che 77 lavoratori dell'ospedale sono stati infettati senza saperlo. Un risultato che fa sorgere dubbi sul numero di operatori malati che hanno continuato ad andare in corsia rischiando inconsapevolmente di diffondere il contagio.

I risultati dei primi 33mila test sierologici in Lombardia. Regione Lombardia ha diffuso qualche giorno fa i risultati dei primi 33mila test sierologici effettuati tra operatori sanitari e persone in quarantena. Il dato più significativo rispetto alle persone entrate in contatto con il virus arriva dalla provincia di Bergamo, dove 6 persone in quarantena su 10 sono positive. Tra medici e infermieri bergamaschi invece su 4.609 test i positivi sono 1.110 (24,1%), 3.391 i negativi (73,6%). Nel territorio dell'Ats di Milano tra gli operatori sanitari 2.343 sono stati sottoposti ai test, di cui 373 positivi (15.9%) e 1933 negativi (82,5%). Un tasso di pazienti con gli anticorpi prossimo al cinquanta per cento si rileva a Brescia, dove su 937 soggetti in quarantena i positivi sono 504 (53,8%) e i negativi 418 (44,6%). Tra gli operatori sanitari, su 8.093 sono positivi 903 (11,2%), negativi 7.102 (87,8%). Per quanto riguarda l‘Ats Valpadana (che copre le province di Cremona e Mantova) su 2.161 persone in quarantena i positivi sono 1.016 positivi (47%), 1.065 negativi (49,3%).

Inail. Piemonte seconda per “Infortuni sul lavoro”: 15mila contagiati e 14 morti per Covid. Mole24.it il 9 maggio 2020. Inail, Piemonte seconda per "infortuni sul lavoro": 15mila contagiati e 14 morti per Covid (fonte foto: ilfattoquotidiano.it). L’Inail equipara il contagio da Coronavirus agli infortuni subiti sul posto di lavoro. La panoramica è tragica: i più esposti sono i lavori con costante contatto con il pubblico e il settore socio-sanitario. L’Inail incorona il Piemonte come seconda regione d’Italia con più infortuni sul lavoro dovuti al Covid-19. Il triste primato lo detiene ancora una volta la Lombardia , ma la nostra regione non se la passa di certo meglio. Sono 15mila i contagiati e 14 i morti. A dirlo sono i dati raccolti dall’Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro, che equipara il contagio da Coronavirus a qualsiasi altro infortunio subito sul posto di lavoro. In totale in Italia le denunce arrivate all’Inail – tra fine febbraio e il 4 maggio – sono più di 37mila. Di questi, 129 sono deceduti. La maggior parte provengono dalla zona Nord Ovest (il 34,2% dalla Lombardia, il 14,9% dal Piemonte). Un quarto (25,2%) proviene dal Nord Est, via via a scalare per quanto riguarda Centro (12,5%), Sud (6%) e Isole (2,4%). Secondo il report, il 71,5% di casi positivi sono donne, mentre il 28,5% sono uomini. Dato che si ribalta se contiamo i decessi. Il Piemonte è seconda anche per numero di morti bianche. Mentre in Lombardia il 42,9% delle denunce totali si sono rivelate fatali, in Piemonte sono il 9,5%. Segue l’Emilia Romagna con il 8,7% e il Veneto con il 5,6%. Quattordici le vittime in Piemonte, di cui solo quattro protocolli sono stati chiusi con il risarcimento alle famiglie. Gli altri dovranno ancora seguire ulteriori procedure, vista l’eccezionalità del contesto mai vissuto prima. L’età media delle vittime è di 59 anni, in linea con la media nazionale. Quali sono le categorie più a rischio? Senza dubbio medici, infermieri, operatori socio-sanitari e tutti coloro che lavorano nel comparto medico o nel settore sociale e stanno a stretto contatto con i pazienti infetti. Il 73% delle denunce arriva proprio da questo ambito. Di queste, il 40% dei casi sono poi deceduti. In secondo luogo, ci sono tutti i lavoratori che hanno contatti con il pubblico: gli addetti al front-office, i cassieri, gli addetti alle vendite, il personale addetto alle pulizie e i soccorritori delle ambulanze. Il report, tuttavia, non tiene conto di tutte quelle categorie non assicurate, ma ugualmente esposte ad alto rischio. Sono i medici di famiglia, i medici liberi professionisti e i farmacisti.

Coronavirus in Puglia, sono almeno 121 i sanitari contagiati dall'inizio dell'emergenza. Medici: per fase 2 bisogna garantire sicurezza. È il dato parziale raccolto dagli Ordini dei medici. Richiesto incontro urgente con Emiliano. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Maggio 2020. Sono almeno 121, ma il dato è per difetto, gli operatori sanitari pugliesi che sono stati contagiati dal Covid-19 durante l’emergenza. Lo sostengono i sei ordini dei Medici pugliesi che hanno inviato una lettera al presidente della Regione, Michele Emiliano, per chiedere un incontro urgente per la «Fase 2». Alla lettera è allegata una scheda riepilogativa dei casi di contagio tra il personale sanitario, ma si tratta di episodi «noti oggi agli Ordini», quindi l’elenco è parziale. In provincia di Brindisi sono almeno 70 i dipendenti che si sono ammalati: da fine aprile, «ovvero dall’attivazione dello screening all’ospedale Perrino, su 1.100 tamponi effettuati agli operatori sanitari sono 70 quelli risultati positivi», riferiscono i sei ordini professionali. In provincia di Foggia, i casi tra gli operatori sanitari sono almeno 25, tra cui 20 medici ospedalieri e 5 di medicina generale e continuità assistenziale. A Lecce si contano almeno 11 contagiati; in provincia di Bari non ci sono dati sugli ospedali ma solamente sul 118 e risultano sette gli operatori che si sono ammalati, 2 medici, di cui uno ancora ricoverato, e 5 infermieri. Infine vengono segnalati anche 6 casi a Taranto e provincia e due nella Bat. 

L'APPELLO DEI MEDICI - In Puglia continuano a ripetersi «condizioni di lavoro che non garantiscono la sicurezza degli operatori sanitari». Lo evidenziano gli ordini dei medici provinciali della Puglia che, attraverso una lettera, oggi hanno chiesto «un incontro urgente» al presidente della Regione Michele Emiliano. I sei presidenti degli ordini provinciali fanno notare alla Regione Puglia di aver avviato la «fase 2" senza aver prima «affrontato in maniera esaustiva il tema della sicurezza, soprattutto per l’avvio delle attività ambulatoriali e l’assistenza dei malati». Altra questione che viene posta è quella dell’attivazione delle Usca, le Unità di assistenza domiciliare ai pazienti Covid: «Un elemento preoccupante - sostengono i medici - sono le difficoltà di avvio delle Usca, che dovrebbero assistere a domicilio i pazienti Covid-19 e che rappresentano un tassello importante per il contenimento dell’epidemia sul territorio. Benché la Regione abbia pubblicato i bandi per l’assunzione del personale, manca ancora un preciso quadro logistico e organizzativo, e mancano quindi le garanzie sul piano della sicurezza per gli operatori». «Inoltre - proseguono - molti medici pugliesi di continuità assistenziale sono al momento impiegati in altre regioni, dove le Usca sono già operative da tempo». Infine, i medici segnalano il mancato «utilizzo sistematico dei tamponi e dei test sierologici, che sono invece fondamentali per garantire la sicurezza e salvaguardare la salute dei medici e degli altri operatori sanitari».

Puglia, oltre 120 medici e infermieri contagiati. Appello a Emiliano: “Più sicurezza per evitare nuovi focolai”. Redazione borderline24.com il 9 Maggio 2020. “Preoccupano, in questa fase di allentamento delle misure di lockdown, i possibili nuovi focolai che potrebbero favorire la ripresa dell’epidemia, nonché la situazione in cui continuano a lavorare gli operatori sanitari, sia sul territorio sia all’interno delle strutture ospedaliere. L’avvio della Fase 2 da parte della Regione, a parere degli Ordini, non ha affrontato in maniera esaustiva il tema della sicurezza, soprattutto per l’avvio delle attività ambulatoriali e l’assistenza dei malati”. Lo scrivono in una lettera al presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, gli Ordini dei medici di Puglia. Secondo i dati noti agli Ordini provinciali , a oggi risultano contagiati numerosi medici ed altri operatori sanitari che svolgono la loro attività nei vari settori dell’assistenza, come i reparti ospedalieri, gli ambulatori, l’emergenza territoriale e la Medicina Generale. Un ultimo elemento preoccupante sono le difficoltà di avvio delle USCA  – Unità speciali di continuità assistenziale, che dovrebbero assistere a domicilio i pazienti COVID-19 e che rappresentano un tassello importante per il contenimento dell’epidemia sul territorio. “Benché la Regione abbia pubblicato i bandi per l’assunzione del personale destinato alle USCA – si legge nella lettera –  manca ancora un preciso quadro logistico e organizzativo, e mancano quindi le garanzie sul piano della sicurezza per gli operatori. Inoltre, molti medici pugliesi di continuità assistenziale sono al momento impiegati in altre regioni, dove le USCA sono già operative da tempo. Benché disponibili al rientro sul nostro territorio, non hanno ricevuto alcuna garanzia circa le modalità contrattuali e operative, nonché sulla presenza di idonei dispositivi di protezione individuale e di adeguate condizioni di sicurezza”. “Infine, la Cabina di Regia regionale sembra sottovalutare l’utilizzo sistematico dei tamponi e dei test sierologici, che sono invece fondamentali per garantire la sicurezza e salvaguardare la salute dei medici e degli altri operatori sanitari, come più volte ribadito dagli Ordini e confermato della Scuola di Medicina dell’Università di Bari”.

DATI MEDICI CONTAGIATI PER PROVINCIA. Di seguito si riportano i dati dei casi noti a oggi agli Ordini, relativi a medici e altri operatori sanitari contagiati.

Dati Provincia di Bari. Nel servizio 118 dell’ASL Bari dall’inizio dell’epidemia tra gli operatori sanitari (medici, infermieri,  e autisti di auto medica, esclusi quindi gli autisti soccorritori) sono risultati positivi 2 medici, di cui 1 ancora ricoverato, e 5 infermieri, di cui 3 ancora in quarantena domiciliare. Su 470 operatori del 118 della ASL Bari, dall’inizio dell’epidemia sono stati effettuati circa 300 tamponi (un numero che include anche il secondo tampone di controllo). Benché il 118, nell’attesa di attivazione delle USCA, sia l’unico che interviene a domicilio sui casi di sospetto Covid-19, non vengono infatti effettuati tamponi di routine a tutti gli operatori, ma solo a chi è entrato in contatto negli ultimi due turni con un collega risultato positivo.

Dati Provincia di Brindisi. Dalla fine di Aprile, ovvero dall’attivazione dello screening ospedaliero all’Ospedale Perrino, su 1100 tamponi effettuati agli operatori sanitari sono 70 quelli risultati positivi.

Dati Provincia di BT. 1 medico di medicina generale e 1 medico dell’Ospedale di Bisceglie attualmente positivi.

Dati Provincia di Foggia. 10 medici positivi, di cui 3 ricoverati, nella Azienda ospedaliera universitaria. 5 medici di medicina generale e continuità assistenziale nella Asl. Circa una decina di medici risultati positivi di Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo.

Dati Provincia di Lecce. 11 contagiati, tra medici ospedalieri e medici del territorio. Il cluster più importante tra i sanitari è risultato in chirurgia toracica al Vito Fazzi (con un titolo anticorpale altissimo).

Dati Provincia di Taranto. Contagiati dall’inizio epidemia: 2 medici di medicina generale di Manduria; 1 ORL Osp. Moscati (Hub Covid); 3 Osp. San Pio di Castellaneta (1 Direzione Sanitaria, 1 PS, 1 Oncologia)

Tutti al momento guariti.

·        Onore ai caduti in battaglia.

Covid, il tributo di sangue dell'Arma: 8 militari morti e 605 infetti. Claudio, Fabio, Massimiliano e gli altri carabinieri uccisi dal Covid-19. I volti e le storie dei militari contagiati dal virus. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Claudio Polzoni, appuntato scelto di stanza a Bergamo. Fabio Cucinelli, appuntato scelto addetto allo stabilimento militare Ripristini e recuperi del munizionamento di Noceto (Parma). Fabrizio Gelmini, 58 anni, maresciallo maggiore della stazione di Pisogne (Brescia). Mario D'Orfeo, luogotenente carica speciale di 55 anni, comandante della Stazione di Villanova d'Asti. Mario Soru, appuntato scelto impegnato al reparto Servizi Magistratura di Milano. Raffaele Palestra, carabiniere in servizio presso il Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Salerno. Massimiliano Maggi, 53 anni, maresciallo maggiore della caserma provinciale de La Spezia. Sono nomi, gradi, età. Sono le storie degli otto militari dell'Arma uccisi in due mesi di coronavirus. Il loro decesso è il prezzo di sangue versato della Benemerita alla pandemia, il più alto tra le forze dell'ordine. Forse nel fiume in piena di notizie non se ne è parlato abbastanza, dunque vale la pena almeno ricordare i loro nomi. Oltre agli otto morti, l'Arma conta anche 605 contagi dall'inizio dell'emergenza, di cui 481 ancora positivi, 47 ricoverati in ospedale e 434 in isolamento domiciliare. Come riporta l'Adnkronos, il trend nelle varie Regioni segue quello del totale dei contagi in tutta Italia. La Lombardia è al primo posto, con 119 militari positivi, poi a seguire ci sono Piemonte e Valle d'Aosta con 50 casi, Emilia Romagna con 46, Veneto con 43 e il Lazio con 37 carabinieri contagiati. Come ovvio che fosse, anche nell'Arma non sono mancate le polemiche per i pochi tamponi, per le mascherine contate, per i Dpi scaduti arrivati alle volanti schierate per strada. Alla fine era scontato (o forse no?) che anche gli uomini in divisa si contagiassero. Tra loro c'è anche Marco Billeci, maresciallo capo operativo nel Battaglione di Firenze. Quando tutto esplode, il 22 febbraio, viene spedito a Lodi per chiudere le strade delle cittadine trasformate in zona rossa. Poi il 10 marzo si sposta a Bergamo, uno dei focolai più drammatici di questa emergenza. Ed è lì che, mentre i camion dell'Esercito portano via le bare dalla Val Seriana per alleggerire i forni crematori ormai saturi, Marco inizia il suo "calvario" con "una fortissima crisi respiratoria". Il film della sua malattia lo ha affidato ai social, poi condiviso da alcuni colleghi, e al quotidiano online Notizie di Prato. "Stavo ridendo con un mio collega – racconta – uno di quei momenti che aiutano a stemperare la tensione. Improvvisamente mi è mancato il respiro, il fiato non bastava più". Inizia così la degenza e l'isolamento. Il polmone del marescialo viene "danneggiato e funziona solo al 50%". I medici provano una terapia sperimentale. Poi il 25 marzo la crisi respiratoria: quella tremenda fame d'aria, la sensazione di morire. "In piena notte sono stato assalito da altre quattro crisi respiratorie", spiega. Il saturimetro scende fino ad 88, un inferno lungo 40 minuti. Poi "dopo le cure mi sono ripreso". La stranezza è che perché per quattro volte il tampone di Billeci risulterà negativo al Sars-Cov-2. Il maresciallo sta male, i polmoni non funzionano, eppure il test dice che lui non è da annoverare tra i contagiati. Solo una volta tornato a Firenze la ricerca degli anticorpi indicherà che quel virus, il carabiniere, l'ha avuto e sconfitto. Aveva fatto una promessa ai suoi figli: sarebbe tornato. E così è andata. Ha avuto paura di morire, certo. Quando ti manca l'aria, il terrore di non riuscire a riabbracciare la moglie e i bambini è tremendo. Lui ce l'ha fatta, i suoi otto colleghi meno fortunati no. Altri ancora oggi continuano a combattere. È il tributo dell'Arma.

Flavia Amabile per "lastampa.it" il 15 aprile 2020. Tra frasi impietose, condoglianze istituzionali solo via Facebook (ma tanto calore da parte dei colleghi medici), ecco che cosa può voler dire essere la figlia di un medico di famiglia caduto sul campo nella battaglia contro il coronavirus.

Da Antonio a Reanna  Il sacrificio dei farmacisti sempre in prima linea. Sempre al lavoro, anche loro in prima linea. In tutta Italia i contagiati sono più di quattrocento. Ecco le storie degli otto che non ce l’hanno fatta. Giusi Fasano il 16 aprile 2020 su Il Corriere della Sera.

Francesco De Donno, 76 anni, il galantuomo generoso con tutti. Fancesco De Donno aveva 76 anni ed era iscritto all’albo dei farmacisti dal 1967. La sua farmacia, a Maglie (Lecce), è sempre stata una specie di luogo di ritrovo. Non c’è nessuno in paese che non si sia fermato almeno una volta a fare due chiacchiere con lui, «galantuomo d’altri tempi», come lo definiscono in tantissimi nelle centinaia di messaggi d’addio affidati alla pagina Facebook della stessa farmacia. Anche se in questi ultimi anni sono stati i figli Donatella e Antonio a gestirla, lui non aveva mai smesso di essere presente, un punto di riferimento per tutti. Paziente, affabile, uno che aveva sempre una parola gentile o un sorriso da spendere e che aveva il dono del saper aiutare gli altri, anche se sconosciuti. Sua moglie è stata la prima contagiata di Maglie, con lei il virus non ha vinto la partita della vita. Lui è morto il 2 aprile.

Patrizio Forti Paolini, dietro al bancone per 40 anni. Patrizio Forti Paolini, classe 1941, aveva vita e farmacia a Santa Vittoria in Matenano (Fermo). Conosciuto anche come figlio di uno storico medico di base della zona, Patrizio ha messo assieme più di 40 anni di lavoro. Sua figlia Francesca racconta che «è stato curato a casa nonostante richiedesse il tampone e un eventuale ricovero dopo giorni di malattia». Alla fine, ricoverato, è morto in pochi giorni. «Qualcuno dovrà renderne conto... se non alla società umana, sicuramente a Dio» dice Francesca. Che lo ricorda con un lungo messaggio su Facebook: «Ciao papà, questo è un saluto non un addio, padre ammirevole, uomo d’onore, amico e missionario di pace e di speranza, sia nella vita che nel tuo lavoro. (...) Voglio ricordarti felice, voglio che tu sorrida di lassù, sapendoti in buone mani. Mi mancherai tantissimo».

Antonio Perani, 84 anni: «papà, hai lottato». Antonio Perani aveva 84 anni e la sua farmacia, a Paratico (Brescia), era aperta dal lontano 1962. Da qualche anno era in pensione ma i suoi pensieri erano sempre lì, nel posto che porta il suo nome da 58 anni e che adesso gestisce suo figlio Alberto. «Fino all’ultimo ha avuto la forza di lottare, di sperare con grande serenità» ha scritto proprio Alberto su Facebook annunciando la morte del padre, il 5 aprile, all’ospedale di Brescia. La farmacia è rimasta aperta malgrado il lutto «perché in quest’emergenza lui c’è stato fino all’ultimo e anche noi ci siamo», ha fatto sapere Alberto alla piccola comunità di Paratico. Suo fratello Marco ha postato dal suo profilo social una fotografia in cui è abbracciato al padre. Il messaggio è accanto a un cuore rosso e dice: «Ciao papà!... da quello che non ha voluto fare il farmacista ma il tecnico del suono».

Antonio Tilli, 58 anni, Pontassieve: «Era in via di guarigione». Antonio Tilli aveva 58 anni e da quattro era il direttore della farmacia comunale di Pontassieve (città metropolitana di Firenze). Il virus lo ha sorpreso a metà marzo e dopo i primi sintomi era stato ricoverato al Santa Maria Annunziata di Ponte a Niccheri (sempre in provincia di Firenze). Le sue condizioni erano gravi, certo, ma c’è stato una parentesi di grande speranza. «Antonio è in via di guarigione, presto potrà lasciare l’ospedale» ha postato a un certo punto sua moglie Claudia su Facebook. Il destino aveva invece scritto una pagina diversa, drammatica. Dopo aver lasciato la terapia intensiva e aver respirato da solo per pochi giorni, Antonio si è improvvisamente aggravato, un crollo verticale e irreversibile. Non è bastato a salvarlo il fatto che non fumasse e avesse uno stile di vita sano. Il virus è stato più forte.

Reanna Casalini, 63 anni: «Fino all’ultimo ha fatto il suo dovere». Reanna Casalini è la vittima più recente fra i farmacisti. È morta l’11 di aprile e aveva 63 anni. La sua vita era a Romano di Lombardia (Bergamo), accanto al marito Augusto Zaninelli, professore specializzato in cardiologia ma anche medico condotto del paese. Madre di due figli ormai grandi, Reanna era originaria di Castelfranco Emilia, in provincia di Modena. Aveva lavorato a lungo in farmacia a Fontanella, un comune non lontano da Romano, ma da anni aveva lasciato il lavoro dietro il bancone per diventare responsabile della distribuzione di farmaci veterinari per una società che serve allevatori e aziende agricole. Gran lavoratrice, «ha operato fino all’ultimo ed è da lodare per la sua abnegazione come gli altri colleghi che ci hanno lasciati» ha detto il presidente della federazione degli Ordini dei Farmacisti, Andrea Mandelli.

Una città in lutto saluta Raffaele Corbellini, 68 anni. Raffaele Corbellini avrebbe compiuto 69 anni pochi giorni dopo la sua morte. Se n’è andato il 21 di marzo e il presidente di Federfarma, Marco Cossolo, ha commentato quella notizia drammatica dicendo che « è un grande dolore per tutti noi». Raffaele era la seconda vittima di coronavirus della sua categoria e Cossolo ha parlato della «perdita di un farmacista come perdita per l’intera comunità». Professionista stimato e affidabile, è ricordato come «un uomo benvoluto da tutti», persona perbene e sempre attento ai bisogni della gente, per dirla con i suoi colleghi di Lodi, dove si trova la Farmacia Perbellini. È morto nel Reparto rianimazione del San Matteo di Pavia, anche lui come migliaia di altri senza il conforto di una parola d’addio, né il calore di una carezza o di una stretta di mano.

Lorenzo Ilario Repetto, 63 anni, metteva in guardia chi sminuiva i rischi. Lorenzo Ilario Repetto ha lasciato questo mondo che aveva quasi 64 anni, primo fra i farmacisti. È morto nella Rianimazione dell’ospedale Parini di Aosta, solo e senza un saluto, come tutti. Aveva famiglia e farmacia a Saint Vincent, sposato con l’architetto Maria Grazia Rosa e padre di tre figli, tutti decisi a seguire le sue orme. Due, Nicola e Matteo, sono già farmacisti e Francesco, il più giovane, lo sarà a breve (è laureando). Lorenzo era originario di Castelletto d’Orba, in provincia di Alessandria, città nella quale i suoi genitori, Bruno e Maria, avevano una panetteria. Nel 1982 il trasferimento a Saint Vincent e il lavoro nell’unica farmacia del paese. Cesare Quey, il presidente dei farmacisti valdostani, ricorda la sua irritazione nei primi giorni della pandemia: lo infastidiva soprattutto il fatto che si stesse sottovalutando il rischio.

Paolo D’Ambrogi, 74 anni, insegnava alle nuove leve. Paolo D’Ambrogi era nato nel 1946 ed era iscritto all’albo dei farmacisti dal 1978. È morto il 24 marzo dopo aver vissuto una vita a occuparsi degli altri e dopo aver gestito con orgoglio la sua parafarmacia sanitaria a Nettuno (Roma). Da più di vent’anni era collaboratore della Croce Rossa e il Comitato di Anzio e Nettuno ha scritto per lui un commovente messaggio d’addio sulla sua pagina Facebook: «Paolo era un uomo buono, onesto, amato e stimato da tutti. Collaborava nell’insegnamento alle nostre allieve Infermiere con pazienza e dedizione. Lascia tracce luminose del suo ricordo. Mancherà alla nostra comunità la sua straordinaria umanità, la sua profonda sensibilità, il suo affetto generoso. Tutti noi gli volevamo davvero bene, chi gli era amico, chi lo conosceva appena perché era nobile d’animo, sensibile, gentile».

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 10 aprile 2020. Il centesimo medico morto di coronavirus in Italia (mentre scrivo sono già saliti a 105) era una signora di sessantadue anni e si chiamava Samar. Samar Sinjab. Era arrivata dalla Siria una vita fa, inseguendo l’amore per un pediatra di nome Omar. Nella provincia veneta in cui abitavano, erano un’istituzione. Samar aveva aperto un ambulatorio, che risultava sempre il più affollato della zona, perché tutti, potendo scegliere il medico di base a cui rivolgersi, sceglievano lei. Con il contributo di Omar aveva messo al mondo altri due dottori, un medico legale e una pediatra così tosta da darsi alla carriera accademica e così dolce da rinunciarvi, per andare a occuparsi dei piccoli pazienti di suo padre, quando lui li aveva lasciati all’improvviso a causa di un infarto. Privata del grande amore della sua vita, Samar si era dedicata ancora di più ai figli e ai malati. Fino alla mattina del 6 marzo 2020, quando aveva intuito di essersi presa «quella» polmonite e si era ricoverata nel reparto di terapia intensiva di Treviso, dove ogni giorno chiedeva ai colleghi notizie dei suoi pazienti. Era convinta di tornare in prima linea, invece è caduta sopra una collina di altri camici bianchi. Medici e infermieri mandati allo sbaraglio con armature sforacchiate, dentro ospedali che si sono trasformati nelle loro tombe, talvolta per decisioni improvvide prese da altri. Quando tutto sarà finito, non basterà una medaglia alla memoria per farcelo dimenticare.

Lucia Scopelliti e Margherita Lopes per adnkronos.com il 10 aprile 2020. Sembra non finire mai l'aggiornamento della lista dei medici italiani uccisi dal coronavirus. A segnalare altri due decessi è la Fnomceo (Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri), che porta a 105 il totale dei camici bianchi che hanno perso la vita. Gli ultimi nel triste elenco sono l'odontoiatra Giunio Matarazzo e il chirurgo ospedaliero Emilio Brignole. C'è chi ha perso la sua personale battaglia contro Covid-19 dopo giorni e giorni spesi in prima linea contro il virus, a curare i pazienti. Chi è stato colpito a tradimento, vittima 'collaterale' di un'emergenza, e chi aveva indossato di nuovo il camice bianco per tornare in corsia a dare una mano. Medici nel pieno della carriera, a un passo dalla pensione o già in pensione da tempo. Tra i 105 dottori portati via da Covid-19 spicca Adelina Alvino De Martino, classe 1926, cardiologa in pensione ed ex primario a Torino, morta a 94 anni di coronavirus in una casa di riposo di Milano. Ma anche Ivano Garzena, odontoiatra torinese di soli 49 anni che è anche il primo dentista morto per coronavirus in Italia. Finora la più anziana e il più giovane fra i dottori vittime di Sars-CoV-2. Scorrendo i nomi vengono a galla le storie nella 'Spoon River' dei camici bianchi. A inaugurarla Roberto Stella, presidente dell'Ordine dei medici di Varese. La sua morte, l'11 marzo, suona come un campanello d'allarme nel mondo della sanità. I caduti inizialmente si concentrano sul fronte più ampio: la Lombardia. Giuseppe Lanati, pneumologo di Como e il suo collega Raffaele Giura; Giuseppe Borghi, medico di famiglia di Casalpusterlengo; Carlo Zavaritt che aveva 80 anni e a Bergamo nella sua carriera di pediatra e neuropsichiatra aveva curato tanti bimbi. Luigi Frusciante, medico di famiglia in zona Como, in pensione ma ancora operativo. E guardando all'elenco globale, fa riflettere che in oltre il 50% dei casi i caduti siano proprio i camici bianchi di fiducia dei cittadini, i medici di famiglia. Nella prima metà di marzo i numeri cominciano a crescere. Bergamo, fra le città più colpite, dice addio anche al medico di base Mario Giovita. Alla sua scomparsa segue quella dell'epidemiologo Luigi Ablondi, storico manager della sanità lombarda, ex direttore generale dell'ospedale di Crema. Poi, ancora due medici di medicina generale, Franco Galli (Mantova) e Ivano Vezzulli nel Lodigiano. Non è passata neanche una settimana dalla morte del primo camice bianco e la lista ha già più di 10 voci. Napoli spezza l'elenco lombardo delle vittime, con la perdita di Massimo Borghese, specialista in Otorinolaringoiatria e Foniatria. Ma si torna subito in quello che è stato il primo epicentro dei contagi da nuovo coronavirus in Italia, con Marcello Natali, medico di famiglia dell'area di Codogno nel Lodigiano, morto a 56 anni dopo giorni in prima linea, in cui si è speso anche per sostituire colleghi malati. "Io purtroppo non vado bene, desaturo parecchio, in mascherina con 12 litri di ossigeno arrivo a 85. Prevedo un tubo nel breve/medio termine", aveva scritto con lucidità Natali in un sms all'amico e collega Irven Mussi. Il suo è un ricordo commosso ma anche pieno di rabbia. "Siamo stati mandati in guerra senza nessuna protezione; almeno i fanti portavano l'elmo", scrive Mussi nella sua lettera di addio al camice bianco, "una quercia". E in un'intervista all'AdnKronos Salute Natali aveva raccontato proprio delle difficoltà che fronteggiavano i medici di famiglia nella prima zona rossa, fra i quali figuravano già da subito contagiati, ricoverati e colleghi in quarantena. Era dirigente medico in un'Agenzia di tutela della salute, invece, Vincenza Amato. Lavorava all'Ats di Bergamo, in una delle province più martoriate. Lei è uno dei camici rosa stroncati dal virus. Le voci al femminile nell'elenco dei caduti, fra cui c'è per esempio anche Bruna Galavotti, psichiatra e decana dell'Associazione Donne Medico di Bergamo, sono meno numerose rispetto a quelle maschili ma anche le donne pagano il loro tributo a Covid-19. La malattia non fa distinzioni geografiche né di discipline. Colpisce specialisti di ogni settore. Nel Lazio la prima vittima del virus è stato un ginecologo, Roberto Mileti, 60 anni. Romano, si era trasferito da più di 20 anni nel capoluogo pontino. Lì lavorava alla clinica San Marco. A essere colpito è anche un medico termale, Ghvont Mrad. C'è poi il caso di Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, che non rientra nel conteggio. E' infatti morta - spiega la Fnomceo - a causa di una malattia allo stadio terminale, pur essendo risultata positiva al coronavirus. Il primo decesso in Campania tra i medici di famiglia si è registrato a Napoli: Gaetano Autore, 69 anni, operava al quartiere Vomero ed era a un passo dalla pensione. Pensione che non ha fermato Gino Fasoli, 73 anni, abruzzese d'origine e operativo a lungo nel Bresciano, che a 4 anni dal suo 'ritiro' non ha esitato a tornare in ambulatorio per evitare che restassero buchi nella presa in carico dei malati, con tutti i camici bianchi impegnati sul fronte dell'emergenza. Anche Anna Maria Focarete, 70 anni, tecnicamente sarebbe dovuta essere in pensione. Medico di famiglia nel Lecchese, aveva deciso di restare ancora qualche mese per affiancare la tirocinante. Aveva invece appeso il camice bianco al chiodo da un mese Andrea Carli. Iscritto a Imperia, lavorava come medico di medicina generale nel Lodigiano. Non è riuscito a godersi la pensione. Era partito per un viaggio in India, dove è morto (l'infezione verosimilmente sarebbe avvenuta prima della partenza). Per Ivan Mauri, 69 anni, l'addio alle attività sarebbe arrivato a settembre. "Era in studio fino a qualche giorno prima" della sua morte, ha raccontato l'amico e collega Roberto Mantica. Un altro camice bianco della medicina di gruppo di cui faceva parte "ha visto che aveva cominciato a non sentirsi bene, gli ha misurato la saturazione e gli ha consigliato di andare in ospedale". Nel giro di poco "Ivan non c'era più". Si piangono camici bianchi da Nord a Sud. Era siciliana la prima dottoressa morta in Trentino: Gaetana Trimarchi, 57 anni di S. Teresa di Riva in provincia di Messina, era medico di medicina generale in servizio all’Azienda provinciale per i servizi sanitari e operativa a Pozza di Fassa. Si era trasferita in Trentino una ventina di anni fa. Il primo morto per Covid-19 tra i medici di famiglia in Sardegna è Nabeel Khair, 62 anni, in servizio da pochi mesi a Tonara ma anche storica Guardia medica di Aritzo, entrambi nel Nuorese. Kahir, palestinese, viveva da molti anni in Sardegna ed è stato uno dei primi medici di famiglia contagiati da Covid-19 nell'isola. A Firenze il primo medico morto è stato Giandomenico Iannucci, che operava a Scarperia e San Piero (Firenze). Il dottore di famiglia era risultato positivo al Covid-19 a metà marzo scorso. Antonio Maghernino, guardia medica di 59 anni di San Severo (Fg), è invece il primo dottore ucciso in Puglia dal virus. In servizio a Torremaggiore, è morto nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo. L'ultimo medico morto in Campania, regione in cui il virus è emerso in piccoli ma allarmanti focolai che hanno portato a blindare alcuni paesi, e in cui si piangono 7 camici vittime del nuovo coronavirus, è Antonio De Pisapia, medico di famiglia molto conosciuto a Cava de' Tirreni, in provincia di Salerno. Aveva scoperto di essere positivo dopo aver visitato un suo paziente a Cava, morto poi per il virus. Aveva 69 anni il siciliano Calogero Giabbarrasi, medico di medicina generale di Riesi (Caltanissetta), ucciso dal virus dopo un ricovero al Sant'Elia. Molto noto per il suo impegno politico Pippo Vasta, medico di famiglia di Belpasso (Catania), pianto da pazienti e concittadini. Un'altra segnalazione arriva ancora una volta da Bergamo: si tratta del medico di medicina generale Mario Rossi, classe 1944, il 99mo camice bianco ucciso da Sars-Cov-2. E poi la notizia della morte di Samar Sinjab, medico di medicina generale di Mira (Ve), 62 anni e mamma di un medico. E, ancora, Antonio De Pisapia, medico di medicina generale e odontoiatra di Salerno; Massimo Bosio, medico di medicina generale di Brescia, e Francesco Cortesi, specialista in chirurgia generale e oncologia di Roma. "Una tragedia", ha commentato all'Adnkronos Salute Walter Ricciardi, membro del Comitato esecutivo dell'Organizzazione italiana della sanità (Oms) e consigliere del ministro della Salute, Roberto Speranza, per l'emergenza Covid-19.

ANELLI (FNOMCEO): "ORA RIFLETTA CHI DOVEVA TUTELARLI" - "E' una ferita sulla pelle di tutti i medici. Mai avremmo pensato di arrivare a tanto. Questi numeri devono far riflettere chi doveva tutelarci". Non nasconde la sua amarezza all'Adnkronos Salute il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri (Fnomceo), Filippo Anelli. "La sicurezza sul lavoro è un diritto dei cittadini, ma anche dei medici. E' opportuno riflettere su quanto questo virus ci abbia colti impreparati e sul fatto che garantire la sicurezza sul lavoro è un dovere dello Stato", aggiunge Anelli, sottolineando "che i medici di famiglia hanno pagato il tributo più pesante". "Sono stati lasciati soli a combattere a mani nude contro il virus - denuncia il presidente della Fnomceo - Se i medici si sono ammalati, questo è accaduto perché sono stati contagiati visitando i loro pazienti". In Italia "c'è una paura diffusa, ma non posso tacere l'esigenza di tutelare un diritto, quello alla sicurezza sul lavoro. I medici garantiscono la salute e le cure agli italiani, ma hanno a loro volta il diritto di agire in sicurezza. Chi non li ha messi in condizione di farlo deve riflettere - sottolinea Anelli - e riflettere molto. Perché quello che abbiamo sotto gli occhi non si ripeta mai più".

PALERMO (ANAAO ASSOMED): "RABBIA E DOLORE PER I TANTI COLLEGHI MORTI" - "Numeri terribili e angoscianti, che salgono continuamente in una scala del dolore che sembra non finire. Ma anche tanta rabbia: perché molte di queste morti potevano essere evitate, come pure molti degli oltre 13mila contagi fra gli operatori sanitari". Così Carlo Palermo, segretario nazionale del sindacato di medici e dirigenti sanitari Anaao Assomed, analizza con l'Adnkronos Salute il bilancio dei camici bianchi uccisi dal virus. Oltre cento colleghi, "molti in prima fila contro il virus, altri pensionati che però continuavano ad essere un riferimento per amici e familiari, perché non smetti mai di essere un medico, anche dopo la pensione". E il tragico bilancio è in continuo aggiornamento. "Fa male - confida Palermo - vedere una percentuale di contagiati così alta fra gli operatori sanitari: operatori che in alcuni casi hanno perso la vita, in altri porteranno il segno di questa esperienza. E che comunque non potranno più darci una mano nella battaglia contro questo virus. E' stato dimenticato l'insegnamento di Carlo Urbani - evidenzia Palermo - il medico italiano che aveva combattuto la Sars in Vietnam e poi è morto a causa dell'infezione il 26 marzo 2003 raccomandandoci due cose: di isolare strettamente i pazienti contagiati e di proteggere con ogni mezzo gli operatori sanitari. Ebbene, abbiamo segnalato la carenza di dispositivi di protezione individuale il 24 febbraio scorso, e ancora oggi le mascherine Ffp2 non sono disponibili in tutta Italia. I piani pandemici non sono stati aggiornati per tempo, e lo stoccaggio dei dispositivi sconta colpevoli ritardi. Spero - conclude Palermo - che resti memoria degli errori fatti e di quello che invece occorre fare per combattere una pandemia".

SCOTTI (FIMMG): "MEDICI DI FAMIGLIA I PIÙ COLPITI, SOLI E SENZA DIFESE" - "Solo adesso sta arrivando la fornitura di mascherine dalla Protezione civile agli Ordini dei medici. Ma dovevamo essere protetti fin dall'inizio". A dirlo all'Adnkronos Salute è il segretario generale della Fimmg (Federazione italiana medici di medicina generale), Silvestro Scotti, nel giorno in cui i medici morti a causa del virus sono ormai più di 100. "Fra loro c'erano tanti amici e colleghi: penso a Marcello Natali di Lodi, un amico vero, oltretutto mio coetaneo. La sua scomparsa è stata un grandissimo dolore, e mi ha portato a riflettere sulla fortuna di essere nato e di vivere a Napoli. Lui era a Lodi, e ha pagato con la vita l'aver fatto il suo dovere in una delle zone più colpite d'Italia". "Dovevamo essere protetti - insiste Scotti - come i colleghi che lavorano nelle strutture Covid. Invece i medici di famiglia faticano anche a trovare i detergenti per sanificare gli studi", aggiunge il segretario Fimmg. Una categoria, quella dei medici di medicina generale, "che è stata la più duramente colpita, anche perché siamo avanti negli anni: molti colleghi sono vicini alla pensione, come abbiamo detto più volte paventando nei prossimi anni una carenza di 15mila operatori". Le tante morti fra i dottori di famiglia italiani sono dunque il frutto di un tragico mix: "Siamo stati lasciati in prima linea senza dispositivi, con un'età spesso avanzata e dunque più vulnerabile e nel disinteresse anche organizzativo. Il triage telefonico - aggiunge - lo abbiamo inventato noi, quando ci siamo resi conto che tanti, troppi colleghi si infettavano". "Bisogna dire che una grossa mano - rileva Scotti - ce l'hanno data i nostri pazienti, che di buon grado hanno accettato le misure adottate e, dove possibile, ci hanno persino aiutato con le mascherine. Ora siamo in attesa di quelle inviate agli Ordini dalla Protezione civile, ma mi chiedo: se con il terremoto sono state realizzate tende di emergenza attrezzate per assicurare le visite dei medici, come mai in questa emergenza è mancata ogni assistenza ai medici di famiglia?". Scotti già in passato si è detto pronto a chiudere gli studi. "Assicureremo i livelli che il Garante dei servizi essenziali conosce benissimo e che non riguardano l'apertura degli ambulatori medici, ma solo disponibilità telefonica e visite urgenti", conclude.

Coronavirus, muore medico delle carceri di Brescia: “Ha lottato come un guerriero”. Redazione de Il Riformista il 6 Aprile 2020. Ancora una vittima tra i medici italiani colpiti dal coronavirus.  È morto nel primo pomeriggio Salvatore Ingiulla, medico sessantenne di origini siciliane in servizio due carceri bresciane, quelle di Verziano e di Canton Mombello. Il medico era risultato positivo nelle scorse settimane. “È stato ricoverato, per alcune settimane, presso gli Spedali Civili di Brescia – ha detto il coordinatore regionale del sindacato Fp CGIL Polizia Penitenziaria Calogero Lo Presti -. Ha lottato come un guerriero contro un nemico invisibile e nonostante tutti gli sforzi dei sanitari per strapparlo alla morte, nelle ultime ore, la situazione clinica si era aggravata fino all’epilogo finale”. “Il dottor Salvatore Ingiulla, medico stimato per le sue capacità umane e professionali, persona di grande animo, sempre disponibile e sensibile, viene ricordato con commosso cordoglio dal personale di Polizia Penitenziaria, dei due Istituti bresciani, che si stringe al dolore che ha colpito la famiglia”, conclude Lo Presti.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 4 aprile 2020. È salito a 77 il numero dei medici deceduti, ad oltre 10mila quello degli operatori sanitari contagiati ed ammalati a causa del Coronavirus, e la cifra è destinata ad aumentare, sommandosi all' elenco di una strage nazionale che sembra non avere fine. I medici ancora esenti dall' infezione virale sono disorientati ed hanno paura, paura di sbagliare, paura di essere infettati e di non farcela ad andare avanti nelle condizioni in cui si trovano, con ritmi impossibili da reggere, dettati da un' emergenza inaspettata e ingannevole, di cui nessuno conosce la durata e al cui cospetto non ci sono strumenti considerati sicuri per proteggersi e difendersi. Lavorano da settimane senza sosta, tra i letti di rianimazione di ammalati che arrivano con gli occhi fuori dalle orbite, sbarrati per la fame d' aria, che chiedono aiuto perché non riescono a respirare, che vengono da loro sedati, tracheotomizzati, intubati e attaccati al respiratore, mentre gli infermieri posizionano i cateteri arteriosi, venosi, naso-gastrici, vescicali e rettali, in un fermento e una frenetica corsa contro il tempo, con i minuti contati, tutti attorno a persone moribonde che invece di migliorare peggiorano, che muoiono a grappoli, una dopo l'altra, si spengono a centinaia tra lo sconforto generale dei sanitari consapevoli di prestare soccorso operando senza armi efficaci, senza farmaci mirati, impotenti contro una malattia aggressiva e devastante, che non lascia scampo ai più fragili e li uccide uno ad uno. Tutti i medici e i loro assistenti sono da settimane costretti a modificare i propri schemi cognitivi e di ragionamento, oltre alle personali difese psicologiche, sopraffatti da tensioni emotive ingravescenti che non danno tregua, che li obbligano ad assumere responsabilità senza precedenti, con picchi emotivi destabilizzanti che invadono l'anima e la riempiono di angoscia, inquietudine e sofferenza, la stessa che provano ogniqualvolta sono costretti ad arrendersi, coprendo con il lenzuolo il volto del loro ennesimo paziente appena deceduto, fino a pochi minuti prima tenuto forzatamente e inutilmente in vita, ventilato da tre settimane, in una lotta impari contro un killer invisibile che porta a morte quando decide lui, che spegne le vite beffardo, insensibile ad ogni farmaco provato contro, e dotato di una intelligenza molto superiore a quella dell' uomo. La paura più ricorrente tra medici e infermieri, nonostante tutte le precauzioni assunte, è quella di essere infettati e quella, ancora più grande, di essere portatori sani del virus, e quindi di poter contagiare inconsapevolmente i propri familiari, per cui molti di loro vivono da settimane lontano da coniugi e figli, in intima solitudine nel caotico mormorio dei reparti di degenza, dormono su improvvisati giacigli in ospedale, con tutto quello che questa scelta comporta a livello emotivo e personale, gravati come sono da una responsabilità tripla, verso loro stessi, verso le loro famiglie e verso i malati che hanno in cura, dei quali ascoltano tutta la notte il respiro rantolante che proviene dalla stanza accanto, il soffio costante e martellante dei ventilatori, mentre leggono, prima di addormentarsi, il bilancio dei colleghi deceduti in giornata, una lista che gli arriva quotidianamente, nella cui intestazione i morti sul campo vengono definiti "vittime professionali" del Covid19, tra le cui righe cercano con gli occhi stanchi e lucidi i nomi di amici e conoscenti con i quali hanno condiviso anni di professione e di vita. Sul portale della Fnomceo, la federazione nazionale dell' Ordine dei medici, da settimane listata a lutto, si aggiorna quotidianamente l' elenco dei colleghi che hanno pagato con la vita il loro impegno, specificando la loro specializzazione, tra pneumologi, anestesisti, otorinolaringoiatri, cardiologi, anatomopatologi , microbiologi, medici di base e infermieri, un triste e lungo epitaffio con tanto di foto sorridenti di quando erano in vita ignari del loro destino, un bollettino di morte destinato a crescere in linea con l' andamento dell' epidemia. E mentre nei palazzi della politica si discute sulla carenza dei dispositivi di protezione individuale, sulle scorte annunciate e in arrivo, dalle ormai famose mascherine ai caschi, alle tute protettive, ai guanti e alle loro forniture, e si litiga sui test tampone e sugli altri esami da validare, sui protocolli indicati dall'Organizzazione mondiale della Sanità e dai numerosi comitati scientifici, in maniera sistematica negli ospedali pubblici e privati gli operatori sanitari continuano ad essere infettati in modo inaccettabile, e ad ammalarsi e morire mentre lavorano nell' epicentro dei focolai, respirando aria infetta mentre infondono farmaci "ad uso compassionevole", molecole sperimentali antivirali, anti artrite, anti malaria, anti infiammatorie, antibiotiche e anti-tutto, che fanno presagire pesanti effetti collaterali, dalla diarrea profusa alla cardio ed epato tossicità, dalla dialisi all' indebolimento del sistema immunitario, e tutto questo avviene a stretto contatto con il sangue e le secrezioni infette di soggetti positivi al virus, che lo disperdono nell' aria ad ogni respiro in un malefico aerosol, continuando a diffonderlo anche da morti. Sottoposti a una prova durissima, senza una sola ora di decongestione emotiva, infilati in tute da palombaro che mozzano il respiro, che fanno sudare e impediscono anche di andare in bagno, precipitati in un' emergenza epocale che li sfida personalmente e professionalmente, i medici si trovano in balia di sentimenti alternanti di impotenza ed onnipotenza, un mix micidiale di sconforto e di coraggio, un' altalena che scuote le coscienze, un impegno dal quale nessuno si sottrae nonostante il pericolo evidente, per dedizione e deontologia, pur con la consapevolezza di mettere a rischio la propria vita ogni giorno e ogni minuto, perché qualunque attimo di distrazione o di stanchezza può essere loro fatale e segnare la propria fine. Ma se continuano ancora a soccombere, ad essere schiacciati come mosche dal virus, a perire allo stesso modo dei pazienti che assistono, a vedere i loro colleghi scomparire ogni giorno nella agghiacciante solitudine e disperazione di questa malattia, se vedranno vanificati i loro sforzi mentre fuori la popolazione ancora fortunatamente sana si lamenta e frigna per non poter andare a fare jogging, ci sarà qualcuno che si tirerà indietro, che si sfilerà maschere e guanti, butterà nel cesto il camice e i dettati deontologici, per salvarsi, per sfuggire alla morte, spinti dall' istinto alla vita, dall' esaurimento delle forze morali, e dal richiamo irresistibile degli affetti rimasti a casa in fiduciosa attesa di un bacio e un abbraccio in cui rifugiarsi. Tutti gli operatori sanitari impegnati in questa epidemica tragedia avrebbero fatto volentieri a meno di essere definiti "eroi", di essere applauditi dai balconi di ogni città, o di essere incoraggiati con l' hashtag virale #andrátuttobene, perché quello che sta andando male ce l' hanno sotto gli occhi ogni minuto che passa, negli ospedali dove non ci sono più posti letto disponibili, negli obitori che non riescono più a contenere le migliaia di salme che arrivano puntuali ogni giorno e nei forni crematori che bruciano cadaveri e vite perdute dall' alba a notte fonda senza interruzioni. Il numero dei medici e degli infermieri è da anni inferiore alle necessità sanitarie del Paese, quelli in ruolo lavorano il doppio del normale, ed attualmente il triplo, per cui lo Stato deve dare un segnale forte e chiaro per intervenire immediatamente a garantire tutti gli strumenti di protezione individuale e di screening per questa valorosa categoria, e soprattutto, nel decreto "Cura Italia", deve essere introdotta la norma che assicuri loro la protezione legale, per difenderli dal rischio cause, poiché il 30% di quelli che non muoiono vengono perseguiti nelle aule di tribunale per i decessi inevitabili che avvengono sotto la loro diretta responsabilità. Ed anche perché, se dovesse diminuire ancora il numero dei professionisti della salute, a rischio ci sarebbe la vita di tutti noi, anche quella degli avvocati e dei magistrati, dei sani e dei negativi, e pure di quelli che si lamentano di restare chiusi in casa al sicuro dal Corona, mentre fuori il virus continua a fare strage di infettati. Medici inclusi.

Coronavirus, muore il primo medico "eroe" italiano. Le Iene News l'11 marzo 2020. Roberto Stella, medico 67enne varesino, si è spento nell'ospedale di Como per complicazioni respiratorie dopo aver contratto il virus. Continuiamo a sostenere la battaglia di questi eroi, donando il nostro contributo all'ospedale Papa Giovanni XXIII, in primissima linea contro il coronavirus. Il primo dei medici eroi, che in questi giorni bui stanno combattendo una lotta disperata contro il coronavirus, è caduto "in battaglia". È appena arrivata la notizia drammatica della morte, per complicazioni legate al contagio del virus, di Roberto Stella, 67enne presidente dell’ordine dei medici della provincia di Varese e medico di base a Busto Arisizio. Stella, ricoverato da qualche giorno per insufficienza respiratoria, è morto all’ospedale di Como. "Il servizio sanitario nazionale e lombardo – spiegano i suoi colleghi più stretti in un comunicato - ha perso una guida attenta, un amico sicuro, un lavoratore appassionato, acuto, instancabile. I suoi pazienti hanno perso un amico e un uomo capace di curare e prendersi cura senza limiti”. Suo figlio Massimo, 24 anni, quest'anno si laureerà in Medicina. Di suo papà ha detto: "Ho sempre avuto il sogno di renderlo fiero di me al momento della laurea, sognavamo insieme il momento in cui lui stesso mi avrebbe proclamato. Per me e mio fratello è sempre stato il nostro punto di riferimento. Siamo orgogliosissimi di avere un papà così, speriamo di poter essere grandi almeno una briciola di quanto è stato grande lui". E per un eroe che se ne va, altri stanno ancora lottando contro il coronavirus nei reparti ospedalieri e nelle strutture dedicate di tutta Italia. Come i medici dell’ospedale di Bergamo, che ci hanno raccontato la situazione drammatica in cui continuano a salvare vite.

Morto Marcello Natali, medico di base di Codogno che ha lavorato fino all’ultimo. Aveva 57 anni. Pubblicato mercoledì, 18 marzo 2020 su Corriere.it da Francesco Gastaldi. È stato nel suo ambulatorio a Codogno fino all’ultimo momento, quando mercoledì 11 marzo lo hanno ricoverato in terapia intensiva a Cremona, trasferendolo poi al Città di Milano con un quadro clinico compromesso. Marcello Natali, 57 anni, e segretario per la provincia di Lodi della Federazione dei Medici di medicina generale (Fimmg) è il quarto medico di famiglia del territorio stroncato dal coronavirus. Già martedì era circolata la notizia della sua morte, poi smentita, a testimonianza comunque di una situazione clinica molto grave. La notizia della morte è stata ufficializzata mercoledì mattina, a Milano. Natali, originario di Bologna dove si era laureato in medicina, viveva nel Lodigiano da tanti anni a Caselle Landi con la moglie, anche lei operatrice sanitaria, e i due figli. Era medico di famiglia di Codogno, dove aveva un ambulatorio, Caselle Landi, Corno Giovine, Cornovecchio e Castelnuovo Bocca d’Adda. Soltanto pochi giorni prima del ricovero aveva rilasciato un’intervista radiofonica in cui sosteneva come fossero ancora «troppo lunghi» i tempi per i tamponi e come ci fossero tanti casi che i medici di famiglia gestivano a domicilio. Un problema, quello della tutela dei medici di base, che il presidente dell’ordine della provincia di Lodi Massimo Vajani ha sollevato in più di un’occasione. Non è da escludere che il segretario provinciale dei medici di base abbia contratto il virus da un suo paziente. Non risulta che il dottor Natali avesse patologie pregresse. Il suo ambulatorio di Codogno ha lavorato senza sosta fino al martedì prima del ricovero d’urgenza a Cremona. «Queste persone sono davvero i nostri eroi – lo ricorda il sindaco di Caselle Landi Piero Luigi Bianchi -, lui e la moglie hanno continuato a visitare e ricevere pazienti fino all’ultimo». «Oggi dobbiamo dire addio a un altro collega, punto di riferimento non solo per i suoi pazienti ma per tutta la provincia – scrive Paola Pedrini, segretaria della Fimmg della Lombardia -: questa notizia arriva nel silenzio assordante di regione Lombardia, mentre altre regioni rispondono come possono alle nostre richieste. Ora permetteteci di tutelare chi è ancora in prima linea sul fronte di questa battaglia».

Coronavirus, morto il segretario dei medici di famiglia di Lodi. Marcello Natali aveva 57 anni, era ricoverato a Milano in terapia intensiva per una grave polmonite bilaterale. La Repubblica il 18 marzo 2020. Sale il numero dei medici deceduti per il coronavirus. E' morto oggi il segretario della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg) di Lodi, Marcello Natali. La notizia è stata confermata dalla stessa Fimmg. Natali aveva 57 anni e non aveva particolari gravi patologie pregresse. Dopo il ricovero a Cremona, era stato trasferito a Milano e ricoverato intubato in terapia intensiva per una grave polmonite bilaterale. Natali esercitava la sua attività di medico di famiglia nell'area di Codogno nel Lodigiano. L'epidemia in Italia e nel resto del mondo di Covid-19, la malattia causata dal coronavirus Sars-Cov-2, prosegue. In Italia i contagiati sono oltre 20mila e stanno mettendo in ginocchio le zone più colpite. L'Italia è il paese più colpito dopo la Cina e anche quello che per primo in Occidente ha messo in campo misure straordinarie, decidendo la chiusura di tutti gli esercizio commerciali non essenziali e chiedendo alla popolazione di limitare gli spostamenti. Un modello che, a partire dalla Spagna, stanno pensando di imitare in tutto il mondo.

Coronavirus, muore il medico Gino Fasoli: era rientrato dalla pensione per aiutare i colleghi. Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Alessandro Fulloni. «Gino, puoi darci una mano? Gli ambulatori sono sguarniti perché tanti di noi sono andati in ospedale a dare un mano ai colleghi in prima linea o perché si sono ammalati. Ma i pazienti hanno bisogno di qualcuno che li ascolti. Puoi farlo tu?...». Quando gli hanno chiesto di rimettere il camice bianco non ha esitato un istante. Rispondendo sì alla chiamata alle armi. Del resto non avrebbe mai potuto rifiutarsi uno come Gino Fasoli, 73 anni, abruzzese, mai sposato, una gioventù trascorsa indossando la tonaca francescana lasciata per laurearsi in medicina. E diventando così un dottore dal curriculum sconfinato, arricchito da esperienze di volontario in Africa. Gino è rimasto contagiato dal Covid-19. Ed è morto alle 5.45 del 14 marzo all’Istituto clinico San Rocco a Ome, l’ospedale più vicino a Passirano, nel Bresciano, dove abitava. «Il 6 mi aveva detto di non stare troppo bene, ma niente di grave, solo un mal di testa e una febbricciola» racconta da Sulmona (nell’Aquilano) il fratello Giuseppe, 70 anni, ex sottufficiale dell’Esercito e poi bancario adesso in pensione. Ma le condizioni di Gino sono rapidamente peggiorate. «Gli ho telefonato il 10 per chiedergli come stesse e lui, con un filo di voce, mi ha risposto così: “Non riesco a parlare”. E ha riappeso. Da allora non sono più riuscito a sentirlo. All’indomani degli amici lo hanno fatto trasferire in ospedale. Dopo che è risultato positivo al tampone lo hanno intubato. E alle 8 in punto del 14 mi hanno chiamato dall’ospedale per dirmi che era morto». L’ex francescano è un altro medico che va ad aggiungersi all’elenco dei colleghi caduti, già 20. Camici bianchi che davanti al coronavirus non sono indietreggiati, restando tra malati e pazienti che hanno continuato ad assistere, visitare, operare. «Una lotta impari a mani nude» è stato il grido accorato di Filippo Anelli, presidente della «Federazione nazionale dell’ordine dei medici chirurgi e degli odontoiatri». E ora Giuseppe Fasoli piange nel raccontare che «a fine febbraio mio fratello mi disse che gli avevano dato finalmente una mascherina. “Una al giorno?”, gli chiesi. “No, una e basta”». L’ex frate per molti anni è stato medico di famiglia a Cazzago San Martino. Aveva ricoperto anche l’incarico di direttore sanitario del pronto soccorso di Bornato, sempre nel Bresciano. Attivo sostenitore di Emergency e di «Msf», aveva avuto esperienze all’estero e in Somalia era stato addirittura rapito. «Accadde anni fa — ricorda Giuseppe —, lui era il medico di una ditta italiana che aveva un cantiere al confine con l’Eritrea. Fu prelevato per fargli curare dei malati in un villaggio, poi lo rilasciarono». Una volta in pensione «voleva tornare in Africa ma io obiettai: “non ti è bastato quello che è successo?” Gino però era così, un generoso. Per questo è tornato in ambulatorio, entusiasta di dare una mano ai colleghi in un momento terribile». Sui social, i suoi pazienti lo ricordano dicendo che «quando c’era da aiutare gli altri, era sempre in prima fila». «Sì, era proprio così — mormora il fratello corso a prelevare la salma per i funerali a Sulmona —, ma io so solo che ora Gino non c’è più».

Coronavirus, fratello medico morto per Covid:"Aveva solo una mascherina". Gino Fasoli, medico in pensione, è morto in trincea contro il coronavirus. Il fratello Giuseppe racconta i suoi ultimi giorni: "Aveva solo una mascherina". Rosa Scognamiglio, Lunedì 23/03/2020 su Il Giornale. "Gino puoi darci una mano? Gli ambulatori sono sguarniti perché tanti di noi sono andati in ospedale a dare una mano ai colleghi in prima linea o perché si sono ammalati. Ma i pazienti hanno bisogno di qualcuno che li ascolti. Puoi farlo tu?". E il dottor Fasoli, 73 anni, ex direttore sanitario del pronto soccorso di Bontornato e medico condotto a Cazzago San Martino (Brescia), non si è fatto attendere: ha subito rimesso il camice bianco ed è tornato in trincea. Dopo una vita spesa tra i malati di Ebola, in Africa, il medico originario di Sulmona aveva deciso di dare il suo contributo alla task force bresciana contro il coronavirus. L'ho ha fatto per due lunghe settimane, fino a quando il Covid-19 non gli ha strappato l'ultimo respiro. È morto alle 5.45 del 14 marzo all'Istituto clinico San Rocco Ome di Passirano, dove abitava. "Il 6 marzo ha detto di non stare troppo bene, ma niente di grave, solo un mal di testa e una febbricciola", racconta il fratello Giuseppe, 70 anni, ex sottoufficiale dell'Esercito e poi bancario adesso in pensione. "Gli ho telefonato il 10 per chiedergli come stesse - spiega Giuseppe al Corriere della Sera -e lui, con un filo di voce, mi ha risposto così: 'Non riesco a parlare'. E ha riagganciato. Da allora non sono più riuscito a sentirlo. All'indomani, degli amici lo hanno fatto trasferire in ospedale. Dopo che è risultato positivo al tampone, lo hanno intubato. E alle 8 in punto del 14 marzo mi hanno chiamato dall'ospedale per dirmi che era morto". Gino Fasoli, in men che non si dica, si è aggiunto all'elenco dei 20 medici morti per aver contratto il virus in corsia. "Angeli in camice bianco", come qualcuno li ha definiti, che hanno sfidato il nemico a mani nude arrischiando la loro stessa vita, ogni dannato giorno. Una guerra disarmata quella di rianimatori, infermieri e operatori del 118, talvolta sprovvisti di protezioni sanitarie individuali. "A fine febbraio, mio fratello mi disse che gli avevano dato una mascherina. - continua tra le lacrime il racconto di Giuseppe Fasoli - 'Una al giorno?', gli chiesi. 'No, una e basta'". Attivo sostenitore di Emergency e di Msf, il medico missionario il Eritrea, fu rapito da alcuni dissidenti somali per curare i malati di un villaggio. Un'esperienza che lo aveva segnato nel profondo ma non al punto di abbandonare la sua professione: si era ripromesso di tornare in Africa una volta in pensione. Ma quel sogno si è infranto al cospetto di un nemico subdolo e invisibile, fagocitato in un secondo che non lascia scampo. "Era un generoso. - ricorda Giuseppe - Per questo era tornato in ambulatorio, entusiasta di dare una mano ai colleghi in un momento terribile. I pazienti dicono di lui che era sempre in prima lina per gli altri quando c'era da aiutare. Ed è proprio così. Ma io solo che mio fratello Gino non c'è più".

Morto un operatore del 118  di Bergamo: aveva 46 anni. Pubblicato sabato, 14 marzo 2020 su Corriere.it da Fabio Paravisi e Gianni Santucci. Era molto malato e lo aveva capito: «Mi sento come se mi avesse tirato sotto un camion», aveva detto a un collega. Ma era ottimista: «Ce la faremo», ripeteva. Diego Bianco, 46 anni, morto ieri mattina nella casa di Montello dove viveva con la moglie e il figlio di 8 anni, aveva trascorso le ultime settimane nei lunghi snervanti turni al telefono nella centrale del 118 per cercare di affrontare l’ondata della malattia. La stessa che ha colpito una dozzina di suoi colleghi e ha infine stroncato anche lui. La volontà di prestare soccorso a chi stava male lo aveva accompagnato per tutta la vita. Aveva iniziato a lavorare come conducente di ambulanze alla Casa di riposo di via Gleno a Bergamo dove aveva prestato servizio anche il padre, poi aveva svolto il compito di soccorritore a bordo delle automediche prima per l’Azienda ospedaliera di Seriate e poi per quella di Treviglio. Quando il 118 si era organizzato in Servizio regionale di emergenza urgenza, Bianco aveva vinto il concorso diventando uno dei primi operatori tecnici ad essere assunti intorno al 2011, quando il servizio si trovava ancora all’interno degli Ospedali Riuniti di Bergamo. «Era sempre molto tranquillo anche nelle emergenze — lo ricorda Oliviero Valoti, all’epoca a capo del 118 bergamasco —. La sua esperienza sul campo lo aiutava meglio a capire come muoversi. E ogni tanto tornava a fare il soccorritore». A Montello era anche a capo del nucleo comunale di Protezione civile. Diego Bianco era uno dei tecnici che rispondono al telefono al Soreu delle Alpi, che ha sede al Papa Giovanni e riceve chiamate anche da Brescia e Sondrio: si ascoltano le voci concitate di chi segnala l’emergenza e poi le si smista a chi deve intervenire. Sabato 7 marzo ha avuto all’improvviso febbre a 39 e negli stessi giorni altri otto operatori, sei infermieri e quattro medici, che sono stati mandati a casa. Il tampone è stato effettuato giovedì. Intanto nella notte tra martedì e mercoledì gli operatori attivi sono stati trasferiti a Milano mentre la centrale di Bergamo veniva sottoposta a sanificazione. Con i colleghi che lo chiamavano, Bianco alternava momenti di ottimismo in cui raccontava di tosse e febbre alta ma si diceva sicuro di guarire, ad attimi di disperazione in cui temeva di lasciare soli moglie e figlio. La morte è avvenuta ancora prima che arrivasse l’esito del tampone. «Era una persona molto preparata, che sapeva sempre come muoversi», lo ricorda il responsabile del 118 di Bergamo Raniero Frizzini. Il dirigente cerca di prendere una pausa dal lavoro di ogni giorno ma è difficile togliersi di dosso la cappa di fatica e disperazione. Ogni giorno si tratta di smistare fino a 1.3o0 richieste di aiuto. Per tenere dietro alle chiamate parte delle telefonate vengono smistate ad altre province, collegate a Bergamo da remoto. Le settanta ambulanze non bastano più, ne sono state fatte arrivare altre quaranta dal resto della Lombardia. Nella centrale del 118 all’interno del Papa Giovanni ci sono ottanta operatori che si alternano su tre turni. «Ma c’è gente che i turni li fa doppi, che resta al suo posto alla fine del lavoro, che salta giorni di riposo, e sempre senza che ci sia bisogno di chiederlo — mormora il dirigente facendo lunghe pause fra una frase e l’altra e lottando per non farsi sopraffare dall’emozione —. Non ho più parole per ringraziare tutti gli operatori per il lavoro straordinario che stanno facendo». Ognuno di loro riceve fra 70 e 80 chiamate a turno, ed è un lavoro che lascia pesanti conseguenze. «Per tutti noi si tratta di una fatica più psicologica che fisica — spiega Frizzini —. Siamo abituati a lottare contro la malattia e l’emergenza, ma una cosa del genere non l’aveva vissuta nessuno, sembra di non riuscire mai a starle dietro. Sembra che a una certa ora le telefonate si calmino ma poi tutto ricomincia. È ancora peggio quando al telefono ti rendi conto che, come diciamo noi, il paziente ti sta scappando di mano». Fa una pausa. Deglutisce, cerca le parole: «E alla fine della giornata l’angoscia è davvero tanta per tutti».

Paolo Berizzi per ''la Repubblica'' il 15 marzo 2020. «Vai a dormire, tanto non muoio. Devo solo trovare la posizione ». Diego era uno di quelli che chiamiamo "eroi". O angeli. Quelli delle foto che sui social ci fanno piangere a vederli così, che arrivano a sera distrutti: il volto segnato dalla mascherina, gli occhi gonfi di strazio. A maggio Diego Bianco avrebbe compiuto 47 anni. Chi lo conosce è sicuro che, dopo aver portato la famiglia a mangiare una pizza, sarebbe tornato al suo posto. Che per gli operatori del 118 è un fronte sempre incandescente. Ma la guerra del coronavirus l' ha strappato via dalla trincea. In quattro giorni. Mercoledì il tampone. Venerdì l' esito. Ieri all' alba una crisi respiratoria improvvisa. «Vai a dormire, devo solo trovare la posizione», dice alla moglie alle 3,30. Alle 5,30, lei - volontaria della Croce Rossa di Seriate - torna in camera, e lo trova in fin di vita (inutile il massaggio cardiaco). Diego abitava a Montello. Robusto, sano, i capelli rossi pettinati col gel, le cuffie del 118 calcate sulla nuca perché l' ultima immagine di lui al lavoro è questa. Autista e operatore tecnico. C' erano turni in cui guidava l' ambulanza, e altri nei quali stava al desk della centrale operativa dell' ospedale Giovanni XXIII. Ultimo turno in strada il 23 febbraio. Da venti giorni Diego era fisso lì, ai telefoni dell' emergenza Covid-19 che nel presidio ospedaliero cittadino ha fatto finire oltre 400 ricoverati. Prendeva le telefonate e "formava" l' equipaggio dell' uscita. «Era un lavoratore preparato, che ha sempre utilizzato i dispositivi di protezione - raccontano i colleghi in lacrime - . Non era anziano e non aveva altre malattie». Nei giorni scorsi gli era salita qualche linea di febbre. Lo stesso era successo ad altri operatori. Qualcuno era stato a casa. Motivo per cui la sala della centrale era stata chiusa e sanificata, e le chiamate dirottate ad altre centrali lombarde. Mercoledì gli hanno fatto il test: positivo. Ma non stava male. Anche dopo l' esito, era tranquillo. La calma fatalista di chi ha a che fare ogni giorno coi malati. Venerdì sera Diego scherzava col fratello. Diceva che, rispetto a questa battaglia atroce contro il nemico invisibile, le notti sulle strade a soccorrere i feriti degli incidenti erano acqua fresca. «Prima di smontare all' alba ci fermavamo a mangiare le brioche da Joseph Mary, un forno aperto tutta la notte in via Grumellina - ricorda un collega barelliere - . È tutto assurdo, incredibile». Quasi certo che l' operatore abbia contratto il coronavirus sul posto di lavoro: chi sta in centrale operativa entra in contatto continuamente con infermieri e medici. Perché prima di uscire per il soccorso il personale sanitario si interfaccia con i colleghi che organizzano l' intervento. «Era uno dei 700 operatori sanitari, medici, infermieri, soccorritori, già contagiati - dice Riccardo Germani, Adl Cobas Lombardia - . Per gli operatori della sanità misure straordinarie di protezione». A Bergamo gli ospedali sono allo stremo. I 2.864 contagi concentrati nella provincia stanno mettendo a dura prova il sistema. È vero che proprio il Giovanni XXIII ha una delle terapie intensive più avanzate d' Europa. Ma degli 88 posti letto a disposizione, «60 sono tutti per i malati Covid, e sono pieni», dice Luca Lorini, direttore del dipartimento di emergenza. Un altro problema è la consegna del materiale sanitario. La scorsa notte il comandante provinciale dell' Arma, Paolo Storoni, ha messo in campo una decina di pattuglie dei carabinieri per 90 consegne urgenti agli ospedali della provincia.

Coronavirus, morto un altro medico: è il neurologo Riccardo Zucco. Riccardo Castrichini il 04/04/2020 su Notizie.it. Per il coronavirus è morto un altro medico, si tratta del famoso neurologo Riccardo Zucco di 66 anni. Alla lunga lista di medici morti a causa del coronavirus si è purtroppo aggiunto anche Riccardo Zucco, famoso neurologo di Reggio Emilia. Era ricoverato da oltre due settimane nella Terapia intensiva del Santa Maria Nuova ed è mancato per insufficienza multiorgano da ipossia grave. Aveva 66 anni ed era responsabile di Alta Specialità “Cefalee e patologia neurologica complessa” al Dipartimento di Neurologia dell’Ausl Irccs di Reggio Emilia e responsabile del Settore Degenza Uomini nello stesso reparto. Era molto conosciuto nel comune emiliano sia per la sua attività di neurologo, sia per essere stato socio attivo del Rotary Club Reggio Emilia dal 2004 e per esserne stato il presidente. I suoi colleghi ed amici lo ricordano come una persone molto affabile, sempre gentile ed estremamente competente nel suo campo, tanto da essere considerato un punto di riferimento del settore e aver scritto una cinquantina di articoli scientifici su temi neurologici. Il ricovero per coronavirus non è stato l’unico episodio di questo tipo nella vita del Dottor Zucco che già nel 2015 era riuscito a superare una polmonite bilaterale massiva con grave insufficienza respiratoria da virus H1N1. Era stato intubato e sottoposto a tracheotomia, rimase ricoverato quasi 80 giorni ed uscì molto provato dalla malattia e dimagrito di una quindicina di chili. Già allora rischiò la vita, tuttavia riuscì a superare la malattia. Non così questa volta.

Elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici e degli Odontoiatri) il 03/04/2020. Roberto Stella, responsabile dell’Area Formazione della FNOMCeO, e presidente dell’OMCeO di Varese. E poi, oggi, Marcello Natali, Segretario Fimmg di Lodi. Ieri, Ivano Vezzulli, Medico di Medicina Generale nel lodigiano. Lunedì 16, Mario Giovita, medico di Medicina Generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di Medicina Generale a Casalpusterlengo.

Il 7 marzo, Chiara Filipponi, anestesista di Portogruaro, deceduta però a causa di una malattia allo stadio terminale. Si allunga purtroppo il triste elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19. E mentre aumenta il dato ufficiale degli operatori sanitari contagiati, diffuso ogni sera dall’Istituto Superiore di Sanità (ieri ammontava a 2629), molti sono i medici che muoiono improvvisamente, anche se la causa della morte non è direttamente riconducibile al virus, perché il tampone non viene effettuato. Da oggi, riporteremo i loro nomi qui, sul Portale FNOMCeO, che resterà listato a lutto in loro memoria, in un triste elenco che verrà via via aggiornato. In allegato, i dati sui contagi. Un monito, una lezione per tutti.

1.       Roberto Stella † 11 03 2020 Presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, Responsabile Area Strategica Formazione FNOMCeO, Presidente nazionale della SNAMID

2.       Giuseppe Lanati † 12 03 2020 Pneumologo

3.       Giuseppe Borghi † 11 03 2020 Medico di Medicina Generale

4.       Raffaele Giura † 13 03 2020 Ex primario del reparto di Pneumologia

5.       Carlo Zavaritt † 13 03 2020 Pediatra e neuropsichiatra infantile

6.       Gino Fasoli † 14 03 2020 Medico di medicina generale già in pensione richiamato per l’emergenza Covid-19

7.       Luigi Frusciante † 15 03 2020 Medico di Medicina Generale

8.       Mario Giovita † 16 03 2020 Medico di Medicina Generale

9.       Luigi Ablondi † 16 03 2020 Epidemiologo, ex direttore generale dell’Ospedale di Crema

10.   Franco Galli † 17 03 2020 Medico di Medicina Generale

11.   Ivano Vezzulli † 17 03 2020 Medico di Medicina Generale e medico dello sport

12.   Massimo Borghese † 18 03 2020 Specialista in Otorinolaringoiatria e Foniatria

13.   Marcello Natali † 18 03 2020 Medico di Medicina Generale, segretario della Federazione dei medici di Medicina generale di Lodi

14.   Antonino Buttafuoco † 18 03 2020 Medico di Medicina Generale

15.   Giuseppe Finzi † 19 03 2020 Ematologo e docente a contratto di Malattie vascolari all’Università di Parma

16.   Francesco Foltrani † 19 03 2020 Medico di Medicina Generale

17.   Andrea Carli † 19 03 2020 Medico di Medicina Generale

18.   Bruna Galavotti † 19 03 2020 (data segnalazione) Psichiatra, Decana dell’Associazione Donne Medico di Bergamo

19.   Piero Lucarelli † 19 03 2020 (data segnalazione) Anestesista

20.   Vincenzo Leone †  21 03 2020 Medico di medicina generale, vicepresidente SNAMI

21.   Antonio Buonomo †  21 03 2020 Medico legale

22.   Leonardo Marchi †  21 03 2020 Medico infettivologo, direttore sanitario Casa di Cura San Camillo

23.   Manfredo Squeri †  23 03 2020 Già medico ospedaliero, attualmente responsabile del reparto di Medicina nella Casa di Cura Piccole Figlie di Parma convenzionata con SSN

24.   Rosario Lupo †  23 03 2020 Medico legale, dirigente del Centro Medico Legale INPS di Bergamo

25.   Domenico De Gilio † 19 03 2020 Medico di medicina generale

26.   Calogero Giabbarrasi † 24 03 2020 Medico di medicina generale

27.   Renzo Granata † 23 03 2020 Medico di medicina generale

28.   Ivano Garzena † 23 03 2020 Odontoiatra

29.   Ivan Mauri † 24 03 2020 Medico di medicina generale

30.   Gaetano Autore † 25 03 2020 Medico di medicina generale

31.   Vincenza Amato † 24 03 2020 Dirigente Medico Responsabile U.O.S. Igiene Sanità Pubblica del Dipartimento di Igiene e Prevenzione Sanitaria

32.   Gabriele Lombardi † 18 03 2020 Odontoiatra

33.   Mario Calonghi † 22 03 2020 Odontoiatra

34.   Marino Chiodi † 22 03 2020 Oculista

35.   Carlo Alberto Passera † 25 03 2020 Medico di medicina generale

36.   Francesco De Francesco † 23 03 2020 Pensionato, già medico ospedaliero, scultore e pittore

37.   Antonio Maghernino † 25 03 2020 Medico di continuità assistenziale

38.   Flavio Roncoli † 03 2020 Pensionato

39.   Marco Lera † 20 03 2020 Odontoiatra

40.   Giulio Titta † 26 03 2020 Medico di medicina generale, ex-segretario FIMMG

41.   Benedetto Comotti † 26 03 2020 Ematologo

42.   Anna Maria Focarete † 27 03 2020 Consigliere Provinciale FIMMG, Presidente SIMG e già consigliere dell’Ordine Prov. dei Medici di Lecco

43.   Dino Pesce † 26 03 2020 Medico internista, per vent’anni primario del reperto di medicina generale dell’ospedale Villa Scassi di Sampierdarena

44.   Giulio Calvi † 26 03 2020 Medico di medicina generale

45.   Marcello Ugolini † 27 03 2020 Pneumologo, consigliere dell’Ordine dei Medici

46.   Abdel Sattar Airoud † 16 03 2020 Medico di medicina generale

47.   Giuseppe Maini † 12 03 2020 Medico di medicina generale

48.   Luigi Rocca † 26 03 2020 Pediatra

49.   Maurizio Galderisi † 27 03 2020 Cardiologo e professore di Medicina Interna all’Università Federico II di Napoli

50.   Leone Marco Wischkin † 27 03 2020 (data segnalazione) Medico internista

51.   Rosario Vittorio Gentile † 22 03 2020 Medico di medicina generale, specialista in allergologia ed ematologia

52.   Francesco Dall’Antonia † 24 03 2020 Ex-primario della Chirurgia I di Vicenza

53.   Abdulghani Taki Makki † 24 03 2020 Odontoiatra

54.   Aurelio Maria Comelli † 28 03 2020 (data segnalazione) Cardiologo

55.   Michele Lauriola † 28 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

56.   Francesco De Alberti † 28 03 2020 Ex presidente OMCeO Lecco

57.   Mario Luigi Salerno † 28 03 2020 Fisiatra

58.   Roberto Mario Lovotti † 28 03 2020 Medico di medicina generale

59.   Domenico Bardelli † 20 03 2020 Odontoiatra

60.   Giovanni Francesconi † 30 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

61.   Valter Tarantini † 19 03 2020 Ginecologo

62.   Guido Riva † 30 03 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

63.   Gaetana Trimarchi † 30 03 2020 Medico di medicina generale

64.   Norman Jones † 27 03 2020 Cardiologo, ex primario della cardiologia del centro di riabilitazione “Trabattoni-Ronzoni” di Seregno

65.   Roberto Mileti † 30 03 2020 Ginecologo

66.   Marino Signori † 01 04 2020 (data segnalazione) Medico del lavoro

67.   Gianpaolo Sbardolini † 26 03 2020 Medico di medicina generale

68.   Marcello Cifola † 01 04 2020 (data segnalazione) Otorinolaringoiatra

69.   Gennaro Annarumma † 03 04 2020 (data segnalazione)

70.   Francesco Consigliere † 03 04 2020 (data segnalazione) Medico legale e docente universitario

71.   Alberto Paolini † 03 04 2020 (data segnalazione)

72.   Riccardo Paris † 03 04 2020 (data segnalazione) Cardiologo

73.   Dominique Musafiri † 03 04 2020 Medico di medicina generale 

74.  Italo Nosari † 03 04 2020 (data segnalazione) Diabetologo

75.  Gianroberto Monti † 21 03 2020 Odontoiatra

76.  Luciano Riva † 28 03 2020 Pediatra, ex primario all’Ospedale di Desio

77.  Federico Vertemati † 31 03 2020 Medico di medicina generale

78.  Giovanni Battista Tommasino 04 04 2020 medico di famiglia

79.   Giandomenico Iannucci 02 04 2020 medico di famiglia

80.  Paolo Peroni 30 03 2020 oftalmologo.

81.  Riccardo Zucco † 03 04 2020 (data segnalazione) Neurologo

82.  Ghvont Mrad † 29 03 2020 Medico termale

83.  Gianbattista Bertolasi † 02 04 2020 Medico di medicina generale

84.  Silvio Lussana † 13 03 2020 Medico internista, ex primario medicina

85.  Giuseppe Aldo Spinazzola † 31 03 2020 Cardiologo

86.  Vincenzo Emmi † 04 04 2020 Rianimatore

87.  Carlo Amodio † 05 04 2020 Radiologo, ex primario di radiologia

88.  Adelina Alvino De Martino † 30 03 2020 Cardiologa in pensione, ex primario

89.  Giancarlo Orlandini  † 06 04 2020 (data segnalazione)

90.  Luigi Ravasio † 06 04 2020 (data segnalazione)

91.  Antonio Pouchè † 31 03 2020 Ex professore

92.  Lorenzo Vella † 29 03 2020 Medico del Lavoro

93.  Salvatore Ingiulla Medico penitenziario † 06 04 2020 (data segnalazione)

94.  Mario Ronchi † 20 03 2020 Odontoiatra

95.  Giuseppe Vasta † 06 04 2020 Medico di medicina generale

96.  Nabeel Khair † 08 04 2020 Medico di medicina generale

97.  Marzio Carlo Zennaro † 08 04 2020 Medico di medicina generale

98.  Tahsin Khrisat † 19 03 2020 Medico di medicina generale

99.  Mario Rossi † 09 04 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

100.                        Samar Sinjab † 09 04 2020 Medico di medicina generale

101.                        Antonio De Pisapia † 06 04 2020 Medico di medicina generale e odontoiatra

102.                        Massimo Bosio † 01 04 2020 Medico di medicina generale

103.                        Francesco Cortesi † 09 04 2020 (data segnalazione) Specialista in Chirurgia generale e Oncologia

104.                        Giunio Matarazzo † 07 04 2020 Odontoiatra

105.                        Emilio Brignole † 09 04 2020 Medico ospedaliero

106.                        Edoardo Valli † 09 04 2020 Ginecologo

107.                        Nabil Chrabie † 09 04 2020 Medico di medicina generale

108.                        Gianfranco D’Ambrosio † 30 03 2020 Ginecologo e medico di medicina generale

109.                        Gaetano Portale † 08/04/2020 Specialista in Chirurgia Generale, in Chirurgia Vascolare e in Chirurgia Toracica, ex Primario di Chirurgia Generale

110.                        Fabio Rubino † 13 04 2020 Terapista del dolore e palliativista

111.                        Giovanni Stagnati † 22 03 2020 Odontoiatra

112.                        Giovanni Delnevo † 02 04 2020 Cardiologo

113.                        Luigi Ciriotti † 26 03 2020 Medico di medicina generale in pensione, non in servizio

114.                        Sebastiano Carbè † 06 04 2020 Medico pensionato non in servizio, ex dirigente medico pronto soccorso

115.                        Maurizio Bertaccini † 14 04 2020 Medico di medicina generale

116.                        Domenico Fatica † 13 04 2020 Odontoiatria

117.                        Patrizia Longo † 13 04 2020 Medico di medicina generale

118.                        Enrico Boggio † 07 04 2020 Odontoiatra

119.                        Eugenio Malachia Brianza † 08 04 2020 Medico del Serd

120.                        Elisabetta Mangiarini † 15 04 2020 (data segnalazione) Medico di medicina generale

121.                        Marco Spissu † 15 04 2020 Chirurgo

122.                        Arrigo Moglia † 15 04 2020 Neurologo

123.                        Alberto Guidetti † 15 04 2020 Ginecologo, ex primario

124.                        Alberto Omo † 04 04 2020 Direttore sanitario casa di riposo

125.                        Giancarlo Buccheri † 07 aprile 2020 Medico antroposofo

126.                        Pietro Bellini † 21 03 2020 Medico di medicina generale

127.                        Renzo Mattei † 16 04 2020 (data segnalazione) Medico in pensione

128.                        Eugenio Inglese † 21 03 2020 Ex primario di Medicina nucleare

129.                        Vincenzo Frontera † 17 04 2020 Medico di medicina generale

130.                        Elfidio Ennio Calchi † 09 04 2020 Medico chirurgo

131.                        Carmine Sommese † 17 04 2020 Medico ospedaliero

132.                        Carmela Laino † 25 03 2020 Medico specialista in pediatria e stomatologia

133.                        Nicola Cocucci † 08 04 2020 Medico specialista in odontoiatria e medicina legale

134.                        Alessandro Preda † 22 03 2020 Medico di medicina generale

135.                        Italo D’Avossa † 18 03 2020 Virologo e immunologo

136.                        Renato Pavero † 19 04 2020 Medico del 118

137.                        Antonio Lerose † 20 04 2020 (data segnalazione) Otorinolaringoiatra

138.                        Andrea Farioli † 16 04 2020 Medico epidemiologo impegnato nella ricerca su Covid-19 (ancora da accertare se le cause del decesso siano da ricondursi a Covid-19)

139.                        Luciano Abruzzi † 20 04 2020 Neurologo

140.                        Silvio Marsili † 21 04 2020 (data segnalazione) Pediatra, in pensione

141.                        Oscar Ros † 20 04 2020 Specialista in igiene e medicina preventiva

142.                        Manuel Efrain Perez † 20 04 2020 Medico di medicina generale e medico della continuità assistenziale

143.                        Alberto Santoro † 19 04 2020 Medico di medicina generale

144.                        Pasqualino Gerardo Andreacchio † 20 04 2020 Chirurgo specializzato in urologia, in pensione

145.                        Maddalena Passera † 22 04 2020 (data segnalazione) Anestesista

146.                        Carlo Vergani † 23 04 1938 Geriatra in pensione iscritto all’OMCeO

147.                        Tommaso Di Loreto † 13 04 2020 Odontoiatra

148.                        S. F. † 22 04 2020 Geriatra

149.                        Guido Retta † 14 04 2020 Primario emerito, ortopedico, consulente tribunale, in pensione

150.                        Gianbattista Perego † 23 04 2020 Medico di medicina generale

151.                        Maura Romani † 26 04 2020 Medico ospedaliero

152.                        Luigi Macori † 27 04 2020 Ematologo

153.                        Ermenegildo Santangelo † 12 04 2020 Ex Professore Ordinario di Anestesiologia e Rianimazione, in pensione

154.                        Raffaele Pempinello † 29 04 2020 Infettivologo, epatologo, internista ed igienista, componente del Consiglio direttivo della Società scientifica italiana di malattie infettive, primario emerito. In pensione, ma tornato a esercitare per l’emergenza Covid-19

155.                        Oscar Giudice † 07 05 2020 Medico in pensione ma tornato in attività per l’emergenza Covid-19

156.                        Alberto Pollini † 08 05 2020 Anestesista e pneumologo

157.                        Guglielmo Colabattista † 25 03 2020 Medico ospedaliero, in pensione

158.                        Alfredo Franco † 09 05 2020 Medico legale

159.                        Angelo Gnudi † 17 04 2020 Ex ordinario di endocrinologia, in pensione

160.                        Marta Ferrari † 05 05 2020 Medico del lavoro

161.                        Antonio Costantini † 08 05 2020 Neurologo

162.                        Davide Cordero † 12 05 2020 Anestesista

163.                        Luigi Paleari † 23 03 2020 Ex primario di Anestesia e Rianimazione ed ex coordinatore sanitario dell’allora USSL, in pensione

164.                        Leonardo Panini † 21 05 2020 Medico di medicina generale

165.                        Cesare Landucci † 26 05 2020 Medico internista in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero-professionista

166.                        Ugo Milanese † 02 05 2020 Cardiologo in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

167.                        Roberto Zama † 12 04 2020 Urologo in pensione, ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

168.                        Vincenzo Saponaro † 10 04 2020 Medico di medicina generale

169.                        Jesus Gregorio Ponce † 29 05 2020 Medico di medicina generale in pensione, ma continuava a esercitare la professione medica come libero professionista

170.                        Paolo Paoluzi † 26 04 2020 Gastroenterologo ed endoscopista, in pensione

171.                        Fiorlorenzo Azzola † 27 06 2020 Medico e direttore sanitario RSA

172.                        Josef Leitner † 12 04 2020 Medico di medicina generale, in pensione

173.                        Gianfranco Conti † 15 05 2020 Medico di medicina generale

174.                        Pierluigi Cecchi † 16 07 2020 Medico pediatra

175.                        Davoud Ahangari † 25 07 2020 Medico di medicina generale

176.                        Nello Di Spigno † 23 07 2020 Medico anestesista rianimatore

177.                        Paolo Marandola † 01.08.2020 Urologo, lavorava in Zambia per studiare Covid-19

178.                        Luigi Erli † 08 05 2020 Neurologo, in pensione

179.                        Giuseppe Ascione † 01 10 2020 Anestesista

180.                        Ernesto Celentano † 18 10 2020 Medico di medicina generale

181.                        Giovanni Briglia † 14 10 2020 Otorino

182.                        Salvatore Arena † 20 07 2020 Endocrinologo

183.                        Mirko Ragazzon † 24 10 2020 Medico di medicina generale

184.                        Paolo Melenchi † 01 11 2020 Oculista

185.                        Vittorio Collesano † 31 10 2020 Odontoiatra e professore universitario

186.                        Alberto Gazzera † 30 10 2020 medico di medicina generale in pensione

187.                        Domenico Pacilio † 10 11 2020 Medico di medicina generale

188.                        Giorgio Drago † 10 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione ma ancora attivo come libero professionista

189.                        Luigi Picardi † 13 11 2020 Pediatra

190.                        Annibale Battaglia † 13 11 2020 Medico di medicina generale

191.                        Giuseppe Sessa † 14 11 2020 Anestesista

192.                        Massimo Ugolini † 16 11 2020 Fisiatra

193.                        Marco Pugliese † 16 11 2020 Pediatra

194.                        Antonio Casillo † 15 11 2020 Chirurgo e medico di pneumatologia

195.                        Augusto Vincelli † 16 11 2020 Medico di medicina generale

196.                        Maria Addolorata Mangione † 11 11 2020 Geriatra e bioeticista

197.                        Pierantonio Meroni † 17 11 2020 Ginecologo, in pensione ma attivo come volontario

198.                        Luciano Bellan † 18 11 2020 Medico di medicina generale

199.                        Mauro Cotillo † 19 11 2020 (data segnalazione) Odontoiatra

200.                        Giovanni Bissanti † 19 11 2020 (data segnalazione) Medico di continuità assistenziale

201.                        Antonio Antonelli † 19 11 2020 Diabetologo, in pensione

202.                        Alessandro Fiori † 19 11 2020 Medico di medicina generale

203.                        Edgardo Milano † 19 11 2020 Medico di medicina generale

204.                        Stefano Brando † 20 11 2020 Medico di medicina generale

205.                        Antonio Contini † 16 11 2020 Medico di medicina generale e pneumologo, in pensione ma ancora in attività come volontario

206.                        Giovanni Annaratone † 15 11 2020 Ortopedico

207.                        Luigi Pappalardo † 21 11 2020 Diabetologo

208.                        Raffaele De Iasio † 21 11 2020 Medico legale

209.                        Luigi Cova † 21 11 2020 Dermatologo, in pensione

210.                        Gian Franco Forzani † 20 11 2020 Cardiologo

211.                        Carmelo Piscitello † 23 11 2020 Ortopedico

212.                        Piero Parietti † 22 11 2020 Medico di medicina generale, esercitava come libero professionista di psichiatria

213.                        Cosimo Russo † 23 11 2020 Ortopedico

214.                        Roberto Ciafrone † 23 11 2020 Medico di medicina generale

215.                        Antonio Amente † 23 11 2020 Medico di medicina generale

216.                        Daniele Cagnacci † 23 11 2020 Medico di medicina generale

217.                        Luciano Giorgi † 26 11 2020 Psichiatra

218.                        Michele Urbano † 27 11 2020 Direttore sanitario

219.                        Nazzareno Catalano † 27 11 2020 Medico di medicina generale

220.                        Bartolomeo Borgialli † 29 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione

221.                        Vito Roberto De Giorgi † 27 11 2020 Anestesista, in pensione

222.                        Lucia Prezioso † 23 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione

223.                        Paola De Masi † 30 11 2020 Anestesista, in pensione

224.                        Carla Verri Girardi † 24 11 2020 Medico di medicina generale, in pensione da tempo

225.                        Modesto Iannattone † 02 12 2020 Dirigente Medico ASL

226.                        Gianluigi Rocco † 03 12 2020 Psichiatra

227.                        Luciano Paolucci † 02 12 2020 Otorinolaringoiatra

228.                        Natale Mariani † 03 12 2020 Medico di medicina generale

229.                        Stefano Gandini † 04 12 2020 Medico di medicina generale, in pensione ma continuava a esercitare la professione come libero professionista

230.                        Mario Claudio Magliocca † 03 12 2020 Specialista in Malattie infettive

231.                        Giuseppe Grosso † 06 12 2020 Medico ASL responsabile medicina specialistica e protesica

232.                        Michele Cicchelli † 06 12 2020 Pediatra

233.                        Kassem El Malak † 23 11 2020 Odontoiatra

234.                        Giuseppe Miceli † 08 12 2020 Medico di medicina generale

235.                        Sergio Pascale † 07 12 2020 Primario di rianimazione

236.                        Giuseppe Minchiotti † 07 12 2020 Medico di medicina generale

237.                        Francesco Antonio Barillà † 08 12 2020 Medico di medicina generale

238.                        Antonio Pugliese † 08 12 2020 Medico dell’ufficio vaccinazioni

239.                        Pier Luigi Crivelli † 19 11 2020 Anestesista

240.                        Roberto Governi † 11 10 2020 Odontoiatra

241.                        Roberto Di Fortunato † 25 11 2020 Oculista

242.                        Claudio Noacco † 08 12 2020 Diabetologo, in pensione

243.                        Pier Luigi Bettinelli 05 12 2020 Già medico ospedaliero, in pensione ma attivo come libero professionista

244.                        Francesco Vista † 04 12 2020 Medico di medicina generale

245.                        Matteo Rinaldi † 15 11 2020 Medico di medicina generale e geriatra, in pensione ma tornato esercitare per l’emergenza Covid

246.                        Roberto Zambonin † 10 12 2020 Odontoiatra

247.                        Mohammad Alì Zaraket  † 02 12 2020 Medico di medicina generale e odontoiatra

248.                        Roberto Ronci † 09 12 2020 Medico di medicina generale

249.                        Domenico Mele † 10 12 2020 (data segnalazione) Anestesista, ex primario di anestesia e rianimazione

250.                        Francesco Gasparini † 11 12 2020 Anestesista, in pensione ma rientrato in servizio per l’emergenza Covid-19

251.                        Flavio Bison † 10 12 2020 Medico di medicina generale

252.                        Gianpaolo Pellicciari  † 04 12 2020 Medico di medicina generale

253.                        Paolo Duso † 09 12 2020 Odontoiatra

254.                        Valter Adamo † 10 12 2020 Ex primario di ginecologia e ostetricia, in pensione

255.                        Daniele Rizzi † 06 12 2020 Medico di medicina generale

256.                        Giovanni Alberto Piscitelli † 11 12 2020 Medico di medicina generale

257.                        Antonino Cataldo † 11 12 2020 Medico di medicina generale

258.                        Giovanni Ferraro † 12 12 2020 Medico di medicina generale

259.                        Wilmer Boscolo † 15 12 2020 Medico di medicina generale

260.                        Armando Cesari † 05 12 2020 Pediatra

261.                        Sergio Saccà † 15 12 2020 Oculista

262.                        Giovanni Battista Meloni † 16 12 2020 Radiologo

 

Non gridate più – Giuseppe Ungaretti

Cessate d’uccidere i morti,

Non gridate più, non gridate

Se li volete ancora udire,

Se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

Non fanno più rumore

Del crescere dell’erba,

Lieta dove non passa l’uomo.

Ecco la verità sul numero dei medici deceduti per Covid. Nell'elenco dei medici morti per Coronavirus anche uno di 104 anni. Il presidente dell'ordine degli infermieri di Bari: "Molti dei deceduti non erano in servizio". Il presidente della Fnomceo: "Sono nostri morti". Emanuela Carucci, Sabato 25/04/2020 su Il Giornale. È un tema molto dibattuto quello del numero reale dei decessi per Covid. E lo è ancora di più quello dei medici deceduti per Coronavirus perché contagiati, durante l'attività lavorativa, da pazienti positivi all'infezione polmonare. Stando ai dati pubblicati dagli organi di stampa al momento sono 150 i medici deceduti per Coronavirus (dato aggiornato al 24 aprile). Il numero è reso pubblico dal sito della FNOMCeO, la federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri. Il presidente commenta il lungo elenco con un verso del poeta Giuseppe Ungaretti: "I morti non fanno rumore, non fanno più rumore del crescere dell’erba". Gli ultimi medici a perdere la vita sono Roberto Stella, responsabile dell’area formazione della Fnomceo, e presidente dell’ordine dei medici di Varese. E poi, Marcello Natali, segretario Fimmg di Lodi. Ivano Vezzulli, medico di medicina generale nel Lodigiano. Mario Giovita, medico di medicina generale della provincia di Bergamo. Prima di loro, Raffaele Giura, primario di pneumologia a Como. Carlo Zavaritt, ex assessore e medico bergamasco. Giuseppe Borghi, medico di Medicina Generale a Casalpusterlengo. I loro nomi sono in cima ad una tragica lista. "Questo dato che assomiglia a un bollettino di guerra, mi ha incuriosito" ha commentato Saverio Andreula, presidente dell'ordine degli infermieri di Bari che, con un gruppo di lavoro, ha analizzato l'elenco dei medici deceduti apparsi sul sito della Fnomceo. "C'è l'elenco dei medici deceduti per Covid, ma non ci sono solo quelli che sono stati contagiati perché svolgevano l'attività professionale nei Covid Hospital o comunque nelle aree di cura Covid. Tra i deceduti ci sono anche i pensionati non tornati al lavoro durante l'emergenza in corso o medici che sono deceduti a causa del Coronavirus, ma non perchè assistevano pazienti positivi". Tra i nomi dei deceduti, infatti, c'è anche quello di un medico di 104 anni. Sul sito in questione accanto al nome del deceduto c'è solo la data di morte, ma non di nascita. "Noi siamo andati sull'anagrafica dei medici e abbiamo scoperto che nell'elenco c'erano anche persone non più iscritte all'albo perché in pensione da tempo" ha specificato Andreula. "Nell’elenco – spiega in una nota il presidente della Fnomceo – si è deciso di includere tutti i medici, pensionati o ancora in attività, perché per noi tutti i medici sono uguali e uguale è il cordoglio per la loro perdita". Questo dettaglio, però, ha creato un po' di confusione. I medici deceduti a causa del Coronavirus contratto durante l'attività lavorativa sembrerebbe non essere, quindi, 150 "ma intorno ai sessanta" specifica Andreula. "Il dato specifico non ce l'abbiamo, lo dovrebbe fornire l'istituto superiore di sanità" dice, dal canto suo a ilGiornale.it, Filippo Anelli, presidente della Fnomceo. Andreula, insieme ai coordinatori del gruppo di ricerca dell’Opi Giovani di Bari (Opi sta per ordini professioni infermieristiche), Francesco Molinari e Cinzia Papappicco, sono andati a fondo sulla vicenda. Nella nota inviata agli organi di stampa sono riportati i dati esatti sui deceduti. "Risultano 60 medici nella fascia di età 32-69 anni, 24 medici deceduti nella fascia di età 70-79 anni, 16 medici deceduti che supera gli 80 anni, infine, 42 nominativi di medici deceduti non ricompresi dell’anagrafica della Fnomceo, probabilmente per errori o refusi dei compilatori dell’elenco, senza ulteriori controlli prima della pubblicazione, o si tratta (ma la cosa è tutta da verificare), di professionisti che hanno esercitato l’arte medica, ma da tempo pensionati e non più iscritti all’ordine " scrivono gli infermieri nella nota. "Siamo andati a fondo a questa cosa, ma per un semplice spirito di verità" ha dichiarato a ilGiornale.it, Saverio Andreula. "Io non ho volutamente risposto alla nota degli infermieri e non vorrei rispondere perché non c'è nessuna ragione al mondo che la giustifichi" ha risposto Filippo Anelli, continuando "Noi pubblichiamo l'elenco dei medici deceduti, punto. Sono tutti nostri iscritti o sono stati nostri iscritti. Abbiamo il diritto di piangere i nostri morti, noi tutti i medici li consideriamo 'nostri' morti, non vedo cosa ci sia da dire in merito a questo". Insomma, il numero dei medici deceduti non fa riferimento solo ai medici "caduti in prima linea", ma anche a medici in pensione e non tornati a lavorare durante questa pandemia. D'altronde sullo stesso sito della Fnomceo c'è scritto semplicemente "Elenco dei Medici caduti nel corso dell’epidemia di Covid-19". Il discorso, alla fine, finisce sulla piaga più grande: la sicurezza. I medici in servizio contagiati avevano i dispositivi individuali adeguati? Quei contagi e, quindi quei decessi, si potevano evitare? "Bella domanda - risponde Anelli - I medici di famiglia non avevano assolutamente i dispositivi di sicurezza individuale. Questa è una polemica che abbiamo fatto dal primo giorno. Il tema della sicurezza oggi è un tema che viene percepito con fastidio, soprattutto dalle Regioni. Il diritto all'integrità psicofisica di ogni lavoratore è sancito dalle norme costituzionali e non rispettarlo significa violare la Costituzione e non è possibile oggi che la pretesa dei medici di lavorare in sicurezza sia considerata un fastidio e non come una legittima pretesa, da chi gestisce oggi la Sanità. Tutti gli organi della Repubblica devono garantire il diritto alla sicurezza. Quei decessi (dei medici che hanno contratto il virus sul posto di lavoro, ndr), se ci fossero stati i dispositivi adatti, non si sarebbero verificati. Il tema della sicurezza è stato sottovalutato e ha determinato l'esplosione dell'epidemia, soprattutto in Lombardia, Piemonte ed Emilia. Ancora oggi si discute se i medici devono usare le FFP2 (che sono le più adeguate) o le FFP3 o le chirurgiche, per esempio. O ancora si discute se è opportuno o no fare i tamponi negli ospedali. Ma di che parliamo?" conclude amareggiato Anelli.

Coronavirus. Ecco tutti gli Infermieri morti per Covid-19. Redazione AssoCareNews.it il 29 Ottobre 2020. Emergenza Coronavirus. Ecco tutti gli Infermieri e le Infermiere morti per Covid-19. Il 30% di loro lavorava in strutture per anziani, il resto nell’Emergenza o in Area Critica, molti erano liberi professionisti. Un elenco in continuo aggiornamento. Volevamo non scrivere mai questo servizio, ma oggi siamo costretti a farlo anche per omaggiare i tanti colleghi Infermieri e Infermiere morti a causa del virus e mostrare tutta la nostra vicinanza alle loro famiglie. Alcuni di loro erano in servizio presso strutture per anziani, altri nell’ambito dell’Emergenza-Urgenza, altri ancora in Area Critica. Alcuni erano in pensione, due di loro si sono suicidate. 

L’elenco sarà in continuo aggiornamento (speriamo non ci siano più vittime di questo bastardo virus).

Sulla carta ci sarebbero ben 43 casi, tra cui 1 Infermiere Generico (che comunque consideriamo un collega alla stregua degli altri) e 2 suicidi, così come condiviso anche dalla FNOPI. Al momento sarebbero oltre 8.800 i colleghi infetti da Covid-19.

I numeri degli Infermieri in Italia. Nel nostro Paese ci sono circa 445.000 colleghi iscritti agli Ordini provinciali delle Professioni Infermieristiche e all’Albo nazionale detenuto dalla Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Sanitarie. Ecco i numeri:

12.000 sono Pediatrici, circa 4000 lavorano in Polizia o nelle Forze Militari;

64.000 sono i Liberi Professionisti in attività;

270.000 quelli che lavorano nel Servizio Sanitario Nazionale pubblico;

130.000 quelli che lavorano in ambito privato (molti di loro sono Liberi Professionisti).

Purtroppo la privacy ci costringe a non fare tutti i nomi dei morti. Non possiamo farvi tutti i nomi, soprattutto perché ci è stata chiesta estrema riservatezza, ma noi li vogliamo ricordare ugualmente abbracciando forte i loro figli, i loro mariti, le loro mogli, i loro padre e le loro madri, i loro fratelli e le loro sorelle. Qui di seguito elencheremo alcuni dei loro nominativi (o la loro storia) man mano che realizzeremo servizi sulle loro vicende professionali e umane.

Addio ad Annamaria Corapi, infermiera della brest unit dell’ospedale Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. Il fratello: Ha dovuto attendere 9 giorni il primo tampone! Addio ad Annamaria, 43° infermiera italiana deceduta per Covid. La collega, apprezzata da tutti, lavorava presso la Brest Unit del Pugliese-Ciaccio di Catanzaro. La tragedia porta la denuncia del fratello, che ha rilasciato pesanti dichiarazioni alla testata Calabrianews.it: “Fino a venerdì 2 ottobre mia sorella è stata al lavoro. Domenica 4, nella sua abitazione di Girifalco, Annamaria ha cominciato ad avvertire i primi sintomi di malessere: febbre alta e tosse. Lunedì 5, secondo protocollo, ha contattato il suo medico curante per segnalare questi sintomi”.  In quel momento la donna ha comunicato lo stato di malattia all’Azienda. Sempre lunedì 5 ottobre il medico curante ha spedito una PEC al servizio di prevenzione dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Catanzaro, richiedendo “un tampone Sars Covid per Corapi Annamaria, soggetto immunodepresso con virosi respiratoria e febbricitante, infermiera presso l’Ospedale di Catanzaro”. “9 giorni di attesa in cui il virus – aggiunge addolorato il fratello – si è mangiato i polmoni di mia sorella. Lei mi ha scritto  sul telefono alle 17 di giorno 15 ottobre e dopo due ore ho perso i contatti con lei. Alle 21 il medico, dopo tanta insistenza, mi ha riferito che il quadro clinico era gravissimo. Dopo poco tempo è arrivato il decesso”. La redazione tutta si stringe attorno al dolore della famiglia.

Addio a Francesco, ennesimo infermiere morto di Covid. E’ il 42° dall’inizio della Pandemia. Addio a Francesco, infermiere del 118 romano, spentosi alcuni giorni fa in una terapia intensiva di Roma. Si era contagiato da Coronavirus durante il servizio. La notizia è dolorosa: il collega Francesco, professionista 60enne del Pronto Soccorso romano si è spento i giorni scorsi. A darne notizia attraverso un post social, la collega e amica Rosanna Balzerani. “Lui era Francesco ed era un un’infermiere del 118…Un uomo sano…Ho lavorato con lui in UTIC all’ospedale San Giovanni di Roma, anni fa… eravamo in turno assieme… era un’esplosione di energia e di simpatia…Un romano verace, soprannominato “er Catena”…Francesco non c’è più!!! È morto ieri mattina, in una terapia intensiva Covid…È morto perché è stato contagiato mentre svolgeva il suo lavoro sull’ambulanza del 118…Ricordatevelo, voi negazionisti del cavolo… Francesco era li a soccorrere anche merdosi come voi!!! Da domani state tutti a tre metri da me… e se non indossate la mascherina anche a otto…Il primo che mi dice che il virus ha ridotto la sua aggressività, giuro “lo sputo in faccia“. La collega conferma poi il contagio durante il servizio. Si tratta del 42° infermiere morto da contagio Covid. Addio a Javier, Infermiere morto di Coronavirus. Lavorava a Como. Ammalatosi in reparto.

Addio a Javier Chunga, infermiere comense che da diversi mesi lottava intubato contro il Coronavirus. Il suo cuore ha cessato di battere qualche ora fa. A darne l’annuncio della morte sono stati i colleghi sui social e la Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi). Javier Chunga, iscritto all’Opi di Como, non ce l’ha fatta ed è spirato qualche ora fa. Si era ammalato di Covid-19 mesi addietro ed era finito in rianimazione. E’ il 41° Infermiere deceduto in Italia di Coronavirus dall’inizio della Pandemia fino ad oggi. Javier non ce l’ha fatta. È stato un infermiere che sino all’ultimo ha assistito con passione, gentilezza e professionalità i tanti malati di Covid dell’ospedale Valduce di Como. In prima linea, sempre. Il maledetto virus non lo ha risparmiato e dopo 3 mesi in terapia intensiva il suo cuore si è fermato. Quel cuore che i colleghi e i pazienti hanno avuto il privilegio di conoscere e ascoltare. Javier, 59 anni, di origini peruviane, è il primo infermiere caduto in battaglia a Como. I suoi colleghi hanno scritto: “Le persone che lasciano il segno non conoscono l’oblio, tu Javier sei una di queste”. Due pensieri più di tutti ci hanno colpito scorrendo i commenti del post che i colleghi hanno scritto su Facebook per ricordarlo. Il primo di una paziente guarita: “Ciao R. I. P. La sera prima che uscissi dalla stanza “pre morte” io la chiamo così, mi hai tenuto la mano sinistra nelle tue mani. Hai fatto un discorso di incoraggiamento, per questa seconda vita e che i miei mi aspettavano. Grazie per avermi accudita in quella stanza, eri sempre presente. Ho appreso il tuo percorso con grande tristezza”. E poi questo ultimo saluto: “Un piccolo grande uomo, un italiano di cui andare fieri. Grazie Javier” Un piccolo grande uomo, un italiano, peruviano di origini, di cui andare fieri. Buon viaggio Javier!

Addio ad Enrica Favali, Infermiera di 51 anni. Non avrà un funerale per le norme attuali anti-Covid. Addio ad Enrica Favali, Infermiera di 51 anni deceduta l’altro giorno. Non avrà un funerale, perché lo impongono le norme anti-Coronavirus. Era per molti una persona molto generosa ed appassionata al suo lavoro. Ora non c’è più, strappata alla vita da una morte improvvisa. Si tratta della collega Infermiera Enrica Favali, 51 anni, originaria di Campolungo di Castelnovo Monti, ma domiciliata ad Albinea (Reggio Emilia). Si occupava di assistenza domiciliare. La compiangono i suoi cari, tra cui l marito, la mamma e la sorella, oltre ai numerosi colleghi che hanno avuto modo di conoscerla e apprezzarla dal punto di vista professionale e umano. Era di stanza presso il Servizio Infermieristico Domiciliare (SID) dell’AUSL reggiana. Sarà seppellita a Campolungo, ma non avrà un funerale, così come prevedono le norme anti-Covid.

Muore Infermiera di 49 anni. Addio a Giuseppina, non avrà un funerale per le disposizione anti-Coronavirus. E’ morta improvvisamente Giuseppina Villano, 49 anni, Infermiera iscritta all’OPI di Caserta. All’addio seguirà un funerale solatio, per le disposizione anti-Coronavirus. La comunità dell’agro aversano è sgomenta per la morta di Giuseppina Villano, 49 anni, mamma, moglie e Infermiera iscritta all’OPI di Caserta. Una terribile tragedia che diventa più grave se si pensa che la collega non potrà avere un funerale, ma dovrà essere seppellita dopo la benedizione per i dispositivi di legge legati al Coronavirus. La collega era residente a Cesa (nei pressi di Aversa). Si è spenta prematuramente gettando nello sconforto familiari, colleghi ed amici. La salma arriverà al Cimitero di Cesa proveniente dall’ospedale di Aversa domani mattina alle ore 11.00. La sua morte ha lasciato sgomenti tutti, tanti i messaggi postati su Facebook, tra cui quello del figlio Andrea: “Mamma sarai sempre nel mio cuore. Ti ricorderò per sempre come la persona speciale che eri. Insieme per sempre”. Buon viaggio Giuseppina!

Coronavirus. Si uccide Infermiera a Milano. Mary Monteleone non ce l’ha fatta a resistere allo stress. La terza collega in due mesi. Emergenza Coronavirus. Si è suicidata in casa una Infermiera a Milano. Mary Monteleone non ce l’ha fatta a resistere allo stress. La terza collega in due mesi. Prestava la sua opera di Infermiera presso un reparto Covid-19. Mary Monteleone, di Milano, non ce l’ha fatta a resistere allo stress e si è tolta la vita. Di recente era stata assegnata ad un reparto dedicato ai positivi, presso la pneumologia dell’Ospedale San Carlo. Nella notte tra martedì 28 e mercoledì 29 aprile 2020 ha compiuto l’estremo gesto, impiccandosi. Lo comunica Notizie.it. Mary è stata ritrovata morta dai due figli adolescenti, in casa. Nelle ultime settimane si occupava principalmente dei pazienti affetti da Coronavirus, in base ad una riorganizzazione del personale operata dalla direzione. Spostata in pneumologia, è rimasta in servizio sino all’ultimo giorno che ha vissuto “in un reparto di quelli brutti, dove molti vanno a morire”, ha riferito un collega. Non si conosce però la motivazione che ha spinto l’infermiera a compiere un tale tragico gesto, tutti la definiscono come una persona molto riservata ma sempre gentile e sorridente, una grande lavoratrice. “Sono vent’anni che mi occupo di Pronto Soccorso, ma una cosa così non l’avevo mai vista”, ha confessato un collega alla testata Tpi. Nessuno insomma si sarebbe mai aspettato che Mary Monteleone avrebbe posto fine alla sua vita, soprattutto i suoi familiari. All’Ospedale San Carlo gira voce che ci sia grande preoccupazione circa la riapertura delle attività in Lombardia, come avverrà gradualmente dal 4 maggio 2020. L’ASST Santi Paolo e Carlo, però, non lascia da soli i suoi dipendenti e già dall’inizio della pandemia ha attivato un servizio a loro dedicato: presso una stanza ci si può rilassare, con musica soft di sottofondo e luci soffuse, per staccare dal caos del lavoro in emergenza. Inoltre il gruppo offre consulto psicologico dedicato a chiunque ne faccia richiesta, sempre riservato allo staff impegnato nel lavoro quotidiano in ospedale.

Coronavirus. Polemiche a Genova, l’Infermiera Anna Poggi morì di Covid-19, ma nessuno le fece un tampone. Emergenza Coronavirus. L’esame autoptico ha stabilito che l’Infermiera Anna Poggi di Genova è deceduto per Covid-19, ma l’azienda sanitaria non aveva eseguito il tampone in vita. Grave negligenza? Scatta indagine Procura. E’ polemica a Genova per la morte dell’infermiera Anna Poggi l’Infermiera dell’ASL 3 morta da sola in casa in circostanze sospette. Ora il tampone ha dato esito positivo: era affetta da Coronavirus. Lavorava a Villa Scassi, dove è deceduto anche un noto Medico. Avevamo dato la notizia della sua morte qualche giorno fa. Lei era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Genova ed aveva 63 anni. Le mancavano 2 anni per la pensione, ma non ce l’ha fatta a chiudere la sua carriera infermieristica come voleva.

L’ha trovata morta in casa il figlio, da giorni stava male, ma non si pensava ad una morte così atroce e in solitudine. Nessuno le aveva fatto un tampone, eppure era in malattia per segni e sintomi proprio di Coronavirus.

Ora sul caso indaga la Procura della Repubblica genovese. Sul caso si sta muovendo il Pubblico Ministero Valentina Grosso, ne sapremo di più nelle prossime ore. Coronavirus. E’ morta Anna Poggi, Infermiera affetta da Covid-19. L’Azienda frena sulla sua positività, i colleghi no. Emergenza Coronavirus. Addio ad Anna Poggi, 64 anni, deceduta da sola in casa. L’Azienda per cui lavorava, l’ASL3 di Genova, riferisce che l’esame sierologico era risultato negativo. A trovarla agonizzante il figlio, che ha lanciato l’allarme poi risultato vano.

Sarà l’autopsia a stabilire se la collega Anna Poggi, 64 anni, è deceduta per Coronavirus o meno. Lei era una Infermiera iscritta da anni all’Opi di Genova ed era prossima alla pensione. Per i colleghi, visti anche i segni e sintomi che mostrava, la donna era affetta da Covid-19. Tant’è che risulta inspiegabile la sua morte. L’Azienda Villa Scassi (Asl 3) conferma che l’esame sierologico aveva dato esito negativo. E’ stato il figlio, preoccupato per il suo silenzio prolungato, a trovarla agonizzante in casa e a dare l’allarme. Il suo corpo è stato trasportato all’Istituto di Medicina legale dell’Università di Genova per l’eventuale esame autoptico. E’ deceduta alla vigilia di Pasqua nella sua abitazione. La sua attività lavorativa la portava a continui contatti con Pazienti affetti da Coronavirus. Dal 10 aprile era in malattia; tre giorni prima l’esito del test sierologico aveva negato la positività al Covid-19. Forse, però, la sua infezione era nella fase iniziale ed è noto che a volte questo tipo di test può dare esito negativo pur in presenza della malattia. Il 9 aprile era deceduto, sempre a Genova, il direttore dei servizi di chirurgia dello stesso ospedale. Si chiamava Emilio Brignole e aveva 68 anni. Inoltre ci sono altri Infermieri e OSS positivi al Coronavirus nella medesima struttura. “L’AZIENDA DESIDERA ESPRIMERE LE PIÙ SENTITE CONDOGLIANZE ALLA FAMIGLIA PER IL GRAVE LUTTO. CONTESTUALMENTE SI SOTTOLINEA CHE AL MOMENTO NON È CERTA LA CAUSA DEL DECESSO – SI LEGGE IN UNA NOTA DI VILLA SCASSI – LA PERSONA SI ERA FERMATA IN MALATTIA VENERDÌ 10 APRILE ED ERA RISULTATA NEGATIVA AL COVID TEST SIEROLOGICO IL GIORNO 7 APRILE”. Eppure ci sono molti infetti anche tra i pazienti e diversi operatori della Chirurgia sono a casa o hanno segni e sintomi che fanno pensare al Covid-19. Anna era prossima al pensionamento, ma non riceverà mai quei soldi perché deceduta prima.

Coronavirus. Muore Francesco, Infermiere di 60 anni. Lo ha strappato alla vita il Covid-19. Emergenza Coronavirus. Muore Francesco De Berardino, Infermiere di 60 anni, iscritto all’OPI di Pescara. Non ce l’ha fatta a superare l’infezione da Covid-19. Era sindacalista di Nursing Up. Prima vittima del coronavirus all’ospedale di Popoli in provincia di Pescara. Addio a Francesco Di Berardino, Infermiere sessantenne iscritto all’OPI pescarese. L’uomo che già era in condizioni gravi non è riuscito purtroppo a superare la crisi. Lo riferiscono i colleghi di ReteAbruzzo.com. Era nato in Venezuela e lavorava come professionista sanitario in Abruzzo.

L’infermiere era risultato positivo insieme ad altri colleghi, in tutto sei, tra i quali un’infermiera di Pratola Peligna, dopo aver contratto il virus da una paziente che era stata trasferita a Popoli, proveniente dall’ospedale di Pescara, per essere operata ad un piede. La donna al suo arrivo all’ospedale popolese era risultata negativa al virus, ad un primo test. Nel corso degli esami clinici ed ematologici ai quali è stata sottoposta per essere operata è venuto fuori la positività al virus. Contemporaneamente sono rimasti contagiati altri sei operatori sanitari, tra infermieri e medici del reparto di Chirurgia, dove la donna era ricoverata. Nonostante le richieste pressanti da più parti per una chiusura del reparto e successiva sanificazione la divisione ha continuato ad accogliere pazienti e a proseguire nella normale attività come se nulla fosse successo. Ora anche alla luce del decesso dell’infermiere sarebbe opportuno andare fino in fondo ad una storia che ha dell’incredibile e che ha acceso uno dei focolai più pericolosi sul territorio. Il dolore dei colleghi fin dalle prime ore di questa mattina è stato espresso anche in alcuni post sui social. Francesco è compianto dalla famiglia, dai colleghi e dagli amici: “ci mancherà il suo sorriso e la sua professionalità, da sempre al servizio di chi soffriva”. Il cordoglio di Nursing Up.

Il coronavirus ha mietuto un’altra vittima tra gli operatori sanitari: è morto Francesco Di Berardino, infermiere di 60 anni che prestava servizio presso l’ospedale di Popoli (Pe). L’uomo, residente a Scafa e iscritto al Nursing Up, è deceduto la notte scorsa nell’ospedale di Pescara, dove era ricoverato in condizioni gravi in seguito al contagio. L’infermiere era risultato positivo insieme ad altri sei colleghi, dopo essere stato infettato da una paziente trasferita dall’ospedale di Pescara a quello di Popoli per un’operazione di routine. Alla donna, sottoposta ad un test in entrata, non era stato riscontrato il virus, ma in seguito a ulteriori esami prima di essere operata è emersa la positività. A quel punto ad aver contratto la malattia era già una mezza dozzina di infermieri e medici del reparto di Chirurgia, dove la donna era ricoverata. Inascoltate sono rimaste le ripetute richieste di chiusura del reparto per effettuarne la sanificazione, all’unità di Chirurgia sono continuati ad arrivare pazienti per le nomali attività elettive. Di Berardino, 35esimo infermiere a morire per coronavirus, è anche la prima vittima del Sars-Cov-2 nello staff dell’ospedale di Popoli. In seguito al contagio, le sue condizioni erano peggiorate fin quando non si è reso necessario il trasferimento nella Rianimazione di Pescara. Tra le ultime battaglie del Nursing Up Abruzzo, di cui faceva parte, quella per ottenere i dispositivi di protezione individuale per garantire la sicurezza agli operatori sanitari in prima linea. Proprio la scarsità di mascherine e altri dpi costituisce un serio rischio per gli infermieri impegnati in reparti cosiddetti Covid free, con gravi ricadute su tutta la popolazione, come in questo ultimo tragico caso. Un’evenienza che in epoca di pandemia andrebbe largamente prevista ed evitata. Molti i messaggi di cordoglio che in queste ore si stanno diffondendo sui social, soprattutto dopo il post di Patrizia Bianchi, segretaria regionale del sindacato infermieristico abruzzese, anche lei infermiera, che ha pubblicato la notizia con l’ultimo saluto: “Questa notte è deceduto in seguito a Covid-19 un nostro collega nostro iscritto, il professionista Francesco Di Berardino. Esercitava a Popoli ed era un grande infermiere. Nursing Up regione Abruzzo è in lutto perché ha perso un valido elemento. RIP”. Al post hanno risposto molti dei colleghi e di quelli che conoscevano l’infermiere deceduto, ognuno per lasciare il proprio ricordo e parole di vicinanza e di sostegno per la famiglia. A loro si unisce la sede nazionale Nursing Up. Ciao, Francesco. Che la terra ti sia lieve. Addio collega!

Coronavirus. Morto Roberto Maraniello, Infermiere e sindacalistsa. Il Covid-19 lo ha ucciso. Emergenza Coronavirus. Muore Roberto Mariniello, Infermiere e segretario provinciale della FIALS di Napoli. Il Covid-19 non lo ha risparmiato. Non ce l’ha fatta Roberto Maraniello, Infermiere e sindacalista della FIALS, di cui era anche segretario provinciale. I colleghi lo definisco un “leone” della professione infermieristica e della lotta sindacale. Aveva 62 anni. Lavorava da una vita all’ospedale “Cardarelli” di Napoli. E’ il terzo infermiere napoletano a morire per Coronavirus nell’ultimo mese. Maraniello era ricoverato nel Reparto di Terapia Intensiva e Rianimazione del Cotugno dopo essere stato colpito dal Covid-19. Tanti gli amici, i colleghi, i familiari e gli oppositori sindacali che oggi piangono la sua morte. Si trattava di un sindacalista sempre trasparente e convinto delle sue idee. Era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Napoli. Addio Roberto.

Coronavirus. Morta Annamaria, Infermiera a Napoli, uccisa dal Covid-19. Il cordoglio dell’OPI. Emergenza Coronavirus. E’ morta un’altra Infermiera a Napoli, uccisa dal Covid-19. Addio ad Annamaria Di Giacomo. Il cordoglio dell’OPI e del presidente Ciro Carbone. Si registra una seconda Infermiera deceduta a Napoli per Coronavirus. Lo annuncia sul proprio portale l’Ordine delle Professioni Infermieristiche, che esprime tutto il suo cordoglio per quanto accaduto e per la morte di una collega molto preparata e sempre disponibile. Si chiamava Annamaria Di Giacomo. Aveva 56 anni. Poco fa, sentito il presidente dell’OPI di Napoli, Ciro Carbone, ci ha confermato l’accaduto ed ha voluto esprimere tutta la sua vicinanza alla famiglia della collega defunta. Era iscritta all’Ordine infermieristico napoletano dal 1985. Si tratta, come dicevamo, della seconda collega morta per Covid-19 nella città partenopea. Lavorava in Neuropsichiatria Infantile presso l’ospedale Vanvitelli. Prima ancora aveva operato presso il CTO. Era ricoverata in Rianimazione all’ospedale Monaldi, dove è deceduta la prima Infermiera. Buon viaggio Annamaria.

Coronavirus. Muore Angela, Infermiera. Il Covid-19 l’ha stroncata in Piemonte. Emergenza Coronavirus. Muore Angela Vinci, 68 anni. Infermiera in pensione. Il Covid-19 l’ha stroncata in Piemonte. Non è riuscita a godersi la pensione Angela Vinci, Infermiera di 68 anni, molto conosciuta in Piemonte e in special modo nelle realtà di Troina e Tortona (in provincia di Alessandria), presso il cui ospedale lavorava. La piangono i colleghi, i parenti e tutti gli amici che l’hanno potuta apprezzare sul lavoro e nella vita quotidiana. Se n’è andata dopo una esistenza intera passata ad aiutare chi stava male. Dapprima in Medicina, poi al Pronto Soccorso. E’ morta lo scorso 16 aprile. Lei si voleva ancora mettere in gioco e tornare in reparto per aiutare gli ex-colleghi nella guerra al Covid-19. Il sindaco di Tortona, Federico Chiodi, ha voluto ricordarla su Facebook nel corso di un apposito video messaggio ai cittadini: “oggi vorrei ricordare in particolar modo una persona deceduta a causa del Coronavirus. Lo faccio anche per venire incontro a una richiesta fatta espressamente dagli infermieri che stanno lottando nei nostri ospedali. Purtroppo si è ammalata di Covid-19 ed è deceduta Sicuramente è una situazione difficile quella che stanno affrontando i nostri medici, i nostri infermieri e anche i pazienti”. Sulla stessa scia si è espresso il primo cittadino di Troina, Fabio Venezia: “un’altra tragica notizia per la nostra comunità. La nostra concittadina Angela Vinci, da molti anni residente a Tortona (Piemonte), nonostante fosse andata in pensione da qualche anno, per dare una mano ai colleghi in questo momento di grave emergenza ha deciso di rientrare a lavoro in ospedale ed è morta eroicamente dopo aver contratto i/ Covid-19 nel tentativo di curare gli altri malati. La comunità di Troina si stringe al dolore dei familiari e non dimenticherà il grande gesto di abnegazione e altruismo della cara Angela”. Addio Angela, che la terra ti sia lieve.

Coronavirus. Morta Infermiera di 55 anni. Addio a Lidia Liotta, lavorava in RSA dove si è infettata. Il Covid-19 l’ha uccisa. Emergenza Coronavirus. Morta Infermiera di 55 anni. Addio a Lidia Liotta, lavorava in RSA dove si è infettata. Il Covid-19 l’ha uccisa. Si chiamava Lidia Liotta, e aveva 55 anni. Saccense, ma residente in provincia di Bergamo, faceva l’Infermiera una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA). È deceduta oggi dopo essere stata contagiata da Covid-19. Lascia il marito, dipendente del comune di Villongo, e una figlia di 20 anni. Lo ha annunciato con cordoglio il portale corrieredisciacca.it. Lei era originaria dell’Agrigentino, ma aveva lasciato la Sicilia per lavoro. Lidia lavorava in una RSA di Predore. La donna si è contagiata o è stata contagiata, si è poi ammalata ed è stata ricoverata d’urgenza nel nosocomio di Ome in provincia di Brescia: «La sua situazione è di ora in ora peggiorata, con gravi conseguenze polmonari ma anche ad altri organi, che hanno costretto i medici a sottoporla anche a dialisi». La donna è morta nella giornata di giovedì 16 aprile. «Stava lottando con tutte le sue forze» hanno raccontato i familiari. Purtroppo la collega lascia una figlia di 20 anni e il marito, anche lui di origini siciliane. Lidia era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Agrigento.

Coronavirus. Muore Edi Maiavacchi, Infermiera a Parma. Era affetta da Covid-19. Emergenza Coronavirus. Muore prima Infermiera all’Ospedale “Maggiore” di Parma, era affetta da Covid-19. Deceduta prima Infermiera a Parma, lavorava presso l’Ospedale “Maggiore”. Si era infettata di Covid-19 probabilmente sul lavoro. La compiangono i colleghi della neurologia. Edi Maiavacchi aveva 62 anni ed era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Parma. Purtroppo per lei non c’è stato nulla da fare. Era nata nel 1958 a Montecchio Emilia ed era diventata infermiera generica, poi infermeria professionale e infine aveva beneficiato dell’equipollenza. Era una persona squisita, una collega che tutti amavano e che tutti stimavano. La sua morte ha lasciato sgomenti un po’ tutti coloro che la conoscevano sul campo, ma anche di nome. E’ la prima Infermiera deceduta a Parma per Coronavirus. Addio Edi, che tu possa riposare in pace ovunque ti trovi in questo momento.

Coronavirus. Morto di Covid-19 Infermiere di 58 anni. Era risultato negativo al primo tampone, ma poi successivamente positivo. Emergenza Coronavirus. Morto di Covid-19 in Sicilia un Infermiere di 58 anni. Era risultato negativo al primo tampone, ma dai segni e sintomi non ci sarebbero dubbi relativamente al motivo del decesso. Il 9 aprile risultò positivo. Deceduto Infermiere in Sicilia per probabile infezione da Coronavirus. I suoi colleghi parlano di presenza di segni e sintomi evidenti, ma il tampone aveva dato esito negativo. I dubbi restano. A quanto pare il collega, nei giorni scorsi, si era recato in ospedale ad Acireale accusando dei forti dolori addebitabili ad una presunta lombosciatalgia, ma poi avrebbe avuto dei disturbi respiratori. Usare il condizionale in questi casi è d’obbligo. Il medico di turno, avendo riscontrato nell’uomo un certo affanno, lo ha sottoposto ad un esame radiografico ai polmoni poiché in passato lo stesso era stato ricoverato per patologie riguardanti l’apparato respiratorio. Il medico che ha stilato il referto – confermano dall’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) – avrebbe, per scrupolo, effettuato anche un test rapido al Coronavirus, la cui attendibilità – precisano dall’azienda sanitaria – è inferiore a quella del tampone tradizionale e, il 9 aprile scorso, sarebbe risultato positivo. Il paziente sarebbe stato dimesso su sua pressante richiesta. L’Infermiere era originario di Giarre, aveva 58 anni, lavorava in una nota azienda sanitaria messinese e viveva con l’anziana madre ultra novantenne e una badante di nazionalità romena. Ambedue saranno sottoposte a tampone in caso di segni e sintomi, al momento sono in isolamento coatto domiciliare. Il sindaco di Giarre Angelo D’Anna è intervenuto in video parlando di “perplessità”, ma ha aggiunto di aver saputo di nuovi casi in città. La certezza si avrà solo con l’autopsia del cinquantottente. In fibrillazione tutti i colelghi Medici, Infermieri e OSS che lavoravano con lui.

A quanto si è capito dovrebbe essere iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Messina.

Coronavirus. Morta Nicoletta, Infermiera di 41 anni. Aveva scelto di rimanere con i suoi pazienti in Casa di Riposo. Emergenza Coronavirus. Addio a Nicoletta Corina Berinda (41 anni). Era una delle Infermiere della Casa di Riposo di Beinasco che aveva deciso di rimanere al fianco dei suoi pazienti ammalati forse di Covid-19. Scatta la denuncia contro il datore di lavoro. Si chiamava Nicoletta Corina Berinde, aveva 41 anni ed era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Torino. Lavorava come Infermiera presso la Casa di Riposo “Consolata” di Beinasco, nell’hinterland metropolitano di Torino. È stata ritrovata defunta dal fratello George che aveva allertato le autorità competenti. I vigili del fuoco hanno dovuto sfondare la sua porta di casa per entrare nel suo appartamento di Via Brindisi nel capoluogo torinese. Era di origini rumene, ma viveva in Italia da oltre 4 lustri. Da sei anni lavorava nella Casa di Riposo, una RSA ubicata nella cittadina di Beinasco. Da alcuni giorni era in malattia a casa, come altre sue colleghe, con chiari segni e sintomi di Covid-19, ma saranno il tampone e l’autopsia a stabilire la causa della morte. A nulla sono servite le insistenze del suo medico di famiglia, la dottoressa Nadia Leanza, l’azienda sanitaria non le ha mai eseguito un test di controllo. La tosse era fortissima, non riusciva a respirava e desaturava. Quando il fratello ha dato l’allarme era ormai troppo tardi. I vigili del fuoco e il personale sanitario non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. E’ l’ennesima vittima di Stato, uno Stato che l’ha ospitata e poi lasciata sola di fronte alla malattia. La sua famiglia ha provveduto a denunciare la struttura dove lavorava. Il loro legale ora vuole capire se ci siano state negligenze da parte del datore di lavoro. Seguiremo gli sviluppi del caso.

Infermiera si uccide a Monza. Daniela Trezzi non ha retto alla guerra contro il Coronavirus. Daniela Trezzi, Infermiera di 34 anni, si è uccisa a Monza. La Federazione degli infermieri piange la scomparsa di una giovane collega. Al fronte di COVID-19 non si muore purtroppo solo per il virus. La Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche esprime tutto il dolore e la costernazione degli infermieri alla notizia di una giovane collega che non ce l’ha fatta più e tutti i 450mila professionisti presenti in Italia si stringono uniti e con forza attorno alla famiglia, agli amici e ai colleghi. Si chiamava Daniela Trezzi e aveva solo 34 anni. Assegnata alla terapia intensiva del San Gerardo di Monza, uno dei maggiori fronti italiani della pandemia, ha deciso di togliersi la vita. Ciò che Daniela ha vissuto nell’ultimo periodo, anche se non sono ancora note tutte le cause del gesto, ha pesantemente contribuito come la goccia che fa traboccare il vaso. Lo affermano anche i colleghi che le sono stati vicini nei momenti in cui, trovata positiva e messa in quarantena con sintomi, viveva un pesante stress per la paura di aver contagiato altri. L’episodio terribile, purtroppo, non è il primo dall’inizio dell’emergenza COVID-19 (analogo episodio era accaduto una settimana fa a Venezia, con le stesse motivazioni di fondo) e anche se ci auguriamo il contrario, rischia in queste condizioni di stress e carenza di organici di non essere l’ultimo. Ma non può certo nemmeno essere commentato ora. È sotto gli occhi di tutti la condizione e lo stress a cui i nostri professionisti sono sottoposti e di questo e di quanto sarebbe stato possibile fare in tempi non sospetti e che ora riteniamo sia non solo logico e doveroso, ma indispensabile fare, riparleremo quando l’emergenza sarà passata. Ora non è il momento, ora è il momento solo di piangere chi non ce l’ha fatta più. Non facciamo la conta dei positivi e dei decessi per COVID-19, che non sono davvero pochi. Ognuno di noi ha scelto questa professione nel bene e, purtroppo, anche nel male: siamo infermieri. E gli infermieri, tutti gli infermieri, non lasciano mai solo nessuno, anche a rischio – ed è evidente – della propria vita. Ora però basta: non si devono, non si possono, lasciare soli gli infermieri.

Coronavirus. Il ricordo di Marco, 61 anni, Infermiere: “era un angelo straordinario, ucciso dal COVID-19”. Emergenza Coronavirus. Il ricordo di Marco Offredi, 51 anni, Infermiere. I colleghi: “era un angelo straordinario, ucciso dal COVID-19”. “Era uno degli Infermieri più buoni che abbiamo mai conosciuto”. Così i colleghi hanno descirtto Marco Offredi, Infermiere di 61 anni, deceduto nella sua Genova qualche giorno fa per COVID-19. Era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche (OPI) del capoluogo ligure. Lo piangono anche i colleghi dell’OPI di Genova. Dal suo profilo Facebook aveva avvisato moglie e figlia che stava bene, ma non era così. Lui stava male, se n’è andato sapendo che non avrebbe più rivisto la sua famiglia, anche se ci sperava. Era un collega di gran cuore, professionista esperto. Probabilmente si è infettato nel Centro anziani dove lavorava nel quartiere di Ponedecimo (Genova Ponente). In passato aveva prestato la sua opera anche nell’Azienda sanitaria di Chiavari. Lascia un vuoto attorno a se e soprattutto lascia la giovane moglie Veronica Rodriguez (Ecuador) e la figlia Aurora, di soli 8 anni. Era patito della Sampdoria, che seguiva da anni. Ora la seguirà da lassù. Buon viaggio eroe!

Coronavirus. Morto altro Infermiere, addio a Oualid: “morto per Covid-19, lascia moglie e 4 figli”. Emergenza Coronavirus. Morto altro Infermiere, addio a Oualid Mohamed Ayachi: “morto per Covid-19, lascia moglie e 4 figli”. In Italia da 3 lustri, era di origini tunisine. Addio all’infermiere Oualid Mohamed Ayachi. Lavorava alla RSA Sant’Erasmo di Legnano da anni ed era uno dei professionisti più amati ed apprezzati. Parlava un italiano perfetto, ma era di origini tunisine. Era un marito modello. Lascia la moglie e 4 figli, strappato alla vita dal COVID-19. La Fondazione Sant’Erasmo di Legnano, che gestisce la struttura dove lavorava Oualid, ha fatto sapere qualche giorno fa che: “dalle informazioni in nostro possesso, risulta che Oualid è l’unico dei lavoratori in malattia che è stato ricoverato in terapia intensiva. Altri sono stati ricoverati a seguito del tampone effettuato in ospedale e poi dimessi. Alla data odierna (2 aprile 2020) la metà dei 31 assenti per malattia (16 per la precisione) non ha effettuato il tampone. Dei 15 che invece sono stati sottoposti al test: 8 hanno avuto esito positivo (fra cui Oualid Mohamed Ayachi) e 7 hanno avuto esito negativo. Nei prossimi giorni l’ATS ha garantito che sottoporrà a tampone anche il restante personale”. Oulalid era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Novara, che si unisce al lutto e che si stringe attorno alla sua famiglia.

La moglie, ex-Infermiera pediatrica in Tunisia e oggi casalinga: “è un lutto inaspettato, un dolore atroce, non so come riuscirò a portare avanti la famiglia e non so come dovrò dirlo ai nostri figli, che al papà erano tremendamente legati. Addio Oualid, sei venuto in Italia per trovare lavoro ed hai trovato la morte a soli 50 anni per un Coronavirus che ha messo in ginocchio il nostro Paese e il mondo intero.

Coronavirus. Morto Salvatore, Infermiere e Coordinatore del 118. Stroncato dal Covid. Emergenza Coronavirus. Il Coordinatore Infermieristico della Centrale Operativa 118 di Benevento, Salvatore Calabrese, è deceduto nei giorni scorsi per COVID-19. Continuano i decessi tra gli Infermieri in prima linea. Gli Infermieri in prima linea nella lotta al COVID-19 sono quelli che rischiano di ammalarsi prima. E’ accaduto anche a Salvatore Calabrese, Coordinatore Infermieristico della Centrale Operativa 118 di Benevento, infettatosi nei giorni scorsi e poi deceduto per complicanze respiratore irreversibili. Ecco qui come lo ricorda Ivan Pastore, collega e amico del professionista defunto. Grazie di cuore per l’insegnamento che mi hai dato, perfetto in ogni piccolo gesto.

Addio Salvatore, Infermiere sacrificato al COVID-19. Grazie di cuore – scrive Pastore – per l’insegnamento che mi hai dato, un insegnamento sempre discreto e delicato che trovava riscontro in ogni tua azione, in ogni tuo piccolo gesto. Sei stato non solo il coordinatore della Centrale Operativa 118, per me sei stato un vero amico.

Con te potevo parlare liberamente di ogni cosa perché sapevo che non avresti mai giudicato. Avevi sempre pronta una risposta positiva per tutti, anche quando la situazione sembrava veramente difficile. Quante volte discutevamo e mi accusavi amichevolmente di essere razzista. Ti piaceva provocarmi per innescare una discussione che poi sfociava sempre con delle risate iper-galattiche. Ancora sento riecheggiare la tua frase “sei un razzistone”. Non tocchiamo il tasto della tua fede calcistica. Era il motivo del nostro perenne scontro. Per non parlare della bottiglia d’acqua che portavi sempre dietro (da noi chiamato biberon). Vogliamo parlare di quando ti abbottonavi la camicia col bottone sbagliato, o di quando eravamo sempre pronti ad aggiustarti la camicia fuori dai pantaloni? Eravamo noi a dirti “Salvatore devi andare alla casa del cane (barbiere) perché hai i capelli troppo lunghi, eravamo noi a ricordarti mille e mille altre cose. Il tuo modo di ricambiare era unico, perché unico e speciale sei tu. Bastava farti una telefonata per dirti che avevo problemi a lavoro e tu rispondevi immediatamente, tranquillo, ti sostituisco io. Per te non esistevano domeniche, non esistevano festività perché eri con noi a lavoro anche a Natale e Pasqua. E’ proprio vero le persone semplici e buone, anche inconsapevolmente, diventano un pilastro sul quale grava il peso di un intero sistema. Purtroppo quel pilastro è venuto meno ed io rivedo in ogni cosa la tua presenza. Ti vedo nei fogli che hai lasciato in giro, ti vedo in quel piccolo ufficio del lavoro che non hai avuto nemmeno il tempo di sistemare. Ti vedo sbarazzino che entri in centrale col tuo “sorrisino” pronto ad offrire il caffè per meglio cominciare la giornata. Ti vedo ancora con i tuoi mille fogli tra le mani, le tue mille ricette mediche pronte per essere consegnate al Centro Unico Prenotazione (Cup) del Rummo allo scopo di aiutare sempre i più deboli ed indigenti. Non puoi immaginare il vuoto che lasci. Ognuno di noi sente nel suo animo un magone, un’assenza incolmabile e solo il citare il tuo nome scatena una fuoriuscita di lacrime dai nostri occhi. Ricordo quel giorno che son venuto in ospedale (senza la possibilità di vederti)  a lasciarti dei generi di conforto (dolciumi e schifezze in particolare) e dal telefono mi dicesti che avevi lasciato una cosa per me. Mi hai lasciato la tua delega e la tua pen drive (con i file del lavoro) e ti sei raccomandato di fare tutto il lavoro al tuo posto. Mi hai incoraggiato chiedendomi di stare vicino ai nostri colleghi e al nostro dirigente in questo momento di grosse difficoltà. Come potrò mai essere all’altezza della fiducia che hai riposto in me? Come potrò mai affrontare le piccole e grandi sfide che quotidianamente mi si pongono davanti? Non illuderti perché lo sai molto bene che ogni qualvolta mi sentirò solo e non saprò che strada prendere, chiederò e pretenderò da te un aiuto. Sì proprio così, ti romperò le scatole anche adesso, sarò il tuo persecutore. Ho chiesto al nostro dirigente di intitolare la nuova centrale operativa col tuo nome. Credo sia solo un piccolo gesto di gratitudine per te che sei stato colui che ha istituito il 118 nel Sannio. Avrei ancora tante cose da dirti. Preferisco dirtele alzando gli occhi al cielo per vederti e parlarti nell’infinito cielo azzurro. Ti voglio un mondo di bene. Invan Pastore, Infermiere

Addio a Manuela, Infermiera di 43 anni deceduta per un male incurabile ai tempi del Covid-19. La sua vicenda probabilmente non è legata strettamente al Coronavirus, ma in passato aveva lavorato nel 118 e in Terapia Intensiva. Addio a Manuela Sacchini. Non sappiamo se sia morta anche per il Covid-19, ma è deceduta sicuramente ai tempi del Coronavirus. Manuela Sacchini non ce l’ha fatta a battere la malattia che la stava flagellando da tempo. A renderle omaggio l’altra mattina, presso l’Ospedale di Pescara, una intera flotta di amici, di colleghi del Servizio 118 e di volontari della Croce rossa, della Misericordia, della Life e dell’Asso Onlus. A salutarla anche tanti agenti di Polizia. L’estremo saluto a Manuela Sacchini, infermiera deceduta a Pescara. Aveva 43 anni Manuela ed era molto conosciuta per i suoi impegni sociali e istituzionali. Al passaggio dell’auto funebre i colleghi l’hanno salutata per l’estremo viatico con uno scrosciante applauso. Lavorava dalla fine del 2017 nel Servizio 118, dopo essere stata impiegata nel pronto soccorso e nel reparto di Terapia Intensiva del “Santo Spirito”. Viveva a Montesilvano (PE). Non era sposata, ma ha lasciato un grande vuoto nella sua famiglia e tra i professionisti e pazienti che la conoscevano. Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Pescara dal 2001.

Coronavirus. Lucetta, l’Infermiera deceduta di Covid-19 assieme al marito. Una delle storie più tristi di questa emergenza. Emergenza Coronavirus. Ecco la storia di Lucetta Amelotti, l’Infermiera deceduta di Covid-19 assieme al marito. Una delle vicende più tristi di questa battaglia impari contro il virus cinese. Lucetta Amelotti aveva 64 anni ed era di Garlasco (PV), città nota per il delitto di Chiara Poggi. Lavorava in un centro analisi e in case di riposo. Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Pavia, che ne ha dato notizia dicendosi vicino alla famiglia e a quanti l’hanno conosciuta. E’ deceduta assieme al marito di 66 anni, Carlo Morandotti. Entrambi erano affetti dal Covid-19. Sono morti assieme, lo stesso giorno (19 marzo 2020) al Policlinico San Matteo di Pavia. E’ deceduto prima lui, poi lei a distanza di qualche ora. La loro è una storia di strazio, legati nella vita dal matrimonio e separati solo per un breve periodo dal Coronavirus, per poi riabbracciarsi post-mortem durante il loro ultimo viatico terreno. “Chissà se ora le loro anime stanno ancora assieme” – si è chiesto una collega di Lucetta che lavorava da tempo come Libera Professionista in un centro prelievi e in una casa di riposo, l’Istituto “Sassi” di Gropello Cairoli (PV). Probabilmente si è infettata stando a perenne contatto con gli Assistiti. Con loro si sono infettati anche la filia Clelia (28 anni), ricoverata al San Matteo, e il figlio. Quasi sicuramente è stato il suo lavoro a portare il contagio a casa sua dove si sono ammalati non soltanto lei e suo marito ma anche la figlia (28 anni), ricoverata, mentre il figlio 38enne, attualmente in Toscana. “Non posso che parlare bene di lei – ha riferito una sua ex-collega in pensione, Luisa Santafede – era una lavoratrice infaticabile, non si risparmiava mai per nessuno, era sempre pronta a cambiare i turni, a lavorare il fine settimana, a dare le sue disponibilità. Aveva degli stupendi occhi azzurri, che mi rimarranno per sempre un mente. Il suo sorriso e la sua grinta riuscivano a trasmettere gioia e tranquillità agli Assistiti”. Addio Lucetta, che tu possa ora riposare finalmente in pace dopo una vita di lavoro.

Coronavirus. Muore Infermiera di 61 anni a Napoli per Covid-19. Il cordoglio dell’OPI. Emergenza Coronavirus. Muore Infermiera di 61 anni a Napoli per Covid-19. Il cordoglio dell’Ordine e del presidente Ciro Carbone: “siamo in guerra, ma non doveva accadere”. Muore Infermiera a Napoli per Covid-19. Aveva 61 anni, lascia un grande vuoto attorno a sé. Non diremo il suo nome, ma ricorderemo il suo sorriso. Anche per questo la chiameremo Serena, nome fittizio creato da noi per proteggere la privacy della collega e sei suoi affetto. Attorno alla sua famiglia si stringe tutta la famiglia professionale partenopea, campana e italiana. Era una persona fantastica, un vero leone, ma non è riuscita a sconfiggere il Coronavirus. Cordoglio in segno di lutto e di vicinanza alla famiglia è stato espresso dal presidente dell’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Napoli, Ciro Carbone. “Siamo in guerra, lo sappiamo, ma non doveva accadere, siamo affranti, tutti quanti gli Infermieri lo sono a Napoli come nel resto della nazione” – ha spiegato. In questi giorni sono morti tanti Infermieri e professionisti sanitari e socio-sanitari, a Napoli però siamo al primo decesso che riguarda la famiglia Infermieristica. Da giorni di ripetono le proteste sia dell’Opi, sia dei sindacati, sia degli stessi Infermieri: tutti all’unisono chiedono Dispositivi di Protezione Individuale idonei a proteggersi e a proteggere da questo virus bastardo, che sta mietendo vittime in Italia e nel resto del mondo. Addio Serena!

Coronavirus. Deceduta l’Infermiera Daniela Bergamaschi, esperta in lesioni cutanee. Emergenza coronavirus. Addio alla collega Infermiera Daniela Bergamaschi, una delle guerriere dell’ospedale Oglio Po. “Mi sembrava quasi impossibile che con tutti i tuoi “acciacchi” riuscissi a reggere certi ritmi, eppure ce la facevi; da qualche mese ormai stavi combattendo e tanti di noi chiedevano tue notizie nella speranza di poterti rivedere al solito posto; purtroppo rimarrà solo il ricordo di una guerriera che mancherà tanto a tutti noi” la ricorda il collega Superchi. Lo riferiscono i colleghi di Oglioponews.it. Si è arreso il sorriso di Daniela Bergamaschi, infermiera presso l’ospedale Oglio Po e residente a San Martino dall’Argine. Classe 1972, era infermiera ai Poliambulatori, specializzata nella cura delle lesioni cutanee. L’ha voluta ricordare con un bel post su Facebook il collega Stefano Superchi: “Cara Daniela, ci hai lasciato in questo giorno di primavera quando il cielo così azzurro sembra una contraddizione con un dolore così grande; ricorderò per sempre il tuo sorriso e le nostre chiacchierate in pausa sigaretta sulla comune malattia, la complicità quando mi dicevi “noi lo sappiamo”, gli studi per arrivare ai livelli altissimi di professionalità e l’impegno caparbio nel “tuo” ambulatorio di vulnologia, dove centinaia di pazienti entravano un po’ malconci ed uscivano rigenerati. Mi sembrava quasi impossibile che con tutti i tuoi “acciacchi” riuscissi a reggere certi ritmi, eppure ce la facevi; da qualche mese ormai stavi combattendo e tanti di noi chiedevano tue notizie nella speranza di poterti rivedere al solito posto; purtroppo rimarrà solo il ricordo di una guerriera che mancherà tanto a tutti noi, e del tuo sorriso perduto per sempre”.

Coronavirus. Deceduta Infermiera di 41 anni. Addio a Elena, uccisa dal Covid-19. Emergenza Coronavirus. E’ deceduta a Milano una collega Infermiera di 41 anni. Addio a Elena Nitu Rodica. Non è riuscita a sconfiggere il Covid-19. Morta in solitudine. Elena Nitu Rodica è una delle Infermiere più giovani decedute per Coronavirus. Si è spenta da sola a Milano. Tutti muoiono un po’ soli, in questo periodo, è vero, perché a chi se ne va non viene concessa la possibilità di un funerale cristiano. La storia di Elena Nitu Rodica è però ancora più drammatica, perché lei è una di quelle che ha combattuto in prima linea il Coronavirus prima di arrendersi. Lo comunica il collega Giovanni Gardani di Cremona Oggi. Elena, nata nel 1979, era iscritta dal 2014 all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Asti. Quarant’anni appena, originaria della Romania, da 15 anni era in Italia e lavorava come infermiera: all’Oglio Po era arrivata molto presto, nel reparto di Dialisi dell’ospedale, dove si curano situazioni spesso molto delicate e occorre come sempre la massima professionalità, ed è qui che quasi certamente ha contratto il virus. E’ accaduto un mese fa, dopo di che le condizioni di Elena si sono presto aggravate e la donna è stata trasferita a Milano, continuando a lottare per riuscire a guarire o quantomeno a migliorare. Questo non è accaduto: se n’è andata martedì e lo ha fatto purtroppo senza un famigliare vicino, perché Elena in Italia viveva da sola, da quando si era trasferita dalla sua Romania. I genitori e il fratello sono infatti rimasti in patria e hanno preso contatti con l’Ambasciata rumena in Italia per poter riavere la salma. E’ un’amica di Elena a tenere i rapporti, per così dire, diplomatici, sperando di fare in modo che il blocco delle frontiere di queste settimane possa essere superato, quantomeno per poter fare tornare il corpo della 40enne a casa. “Era una ragazza simpatica e allegra, sempre ligia al lavoro, che amava davvero: si dedicava infatti anima e corpo ai suoi pazienti, non si fermava mai” la ricordano i suoi colleghi e le sue colleghe infermiere dell’Oglio Po, che hanno rappresentato, di fatto, la sua famiglia in Italia. Si tratta dell’ennesima vittima tra il personale medico o infermieristico, quello che sta pagando – a livello di categoria professionale – il dazio più alto, essendo sovraesposto al rischio: un particolare che nessuno dovrebbe mai scordare. Buon viaggio Elena!

Coronavirus. Concetta, Infermiera, deceduta per Covid-19. L’ASST le fece il tampone solo post-mortem. Emergenza Coronavirus. Oggi vogliamo ricordare Concetta Lotti, Infermiera alla soglia della pensione, deceduta per Covid-19. L’Azienda sanitaria non valutò di farle il tampone, poi eseguito post-mortem. Lei era a casa in auto-quarantena. E’ deceduta mentre era casa in auto-quarantena per febbre alta, tosse e dolori diffusi. Lavorava all’Ospedale “Asilo Vittoria” di Mortara (Pavia) ed era alla soglia della tanta agognata pensione. Concetta Lotti, 62 anni, non percepirà mai quei soldi perché se n’è andata senza nemmeno poter capire se si era infettata o meno di Covid-19. E’ deceduta qualche giorno fa, l’Asl ha scoperto la sua infezione da Coronavirus solo post-mortem.

Era iscritta all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Brindisi ed era Infermiera dal lontano 1983. L’OPI oggi esprime il suo pieno cordoglio nei confronti della famiglia della scomparsa. Perde una delle professioniste più anziane, la cui morte crea sgomento per come è avvenuta. Lei lavorava presso la Riabilitazione specialistica dell’Ospedale “Asilo Vittoria”. E’ deceduta da sola in casa, senza un aiuto, senza il conforto di nessuno in un momento assai difficile per tutta la nazione. Aveva un sorriso sempre per tutti, sapeva come trasmettere serenità. Era una Infermiera che partita dal Sud era riuscita ad affermarsi al Nord, in quel nord pavese che l’ha accolta come una figlia e che non l’ha saputa proteggere dal virus che uccide e che non guarda in faccia a nessuno. Lei era sempre disponibile con tutti, ecco perché vederla morire da sola ha riempito di tristezza i cuori di chi l’ha conosciuta come persona e come professionista. “Ci lascia un grande vuoto come persona e come collega – spiega Patrizia Capra, coordinatrice infermieristica del suo Reparto – ci rattrista ancora di più sapere che la sua morte è avvenuta in solitudine e così improvvisamente; siamo veramente affranti, non riusciamo ad accettarlo, era così buone e sempre disponibile con tutti”. Come dicevamo Concetta era di origini pugliesi. Approdò a Mortara nel 2000, anche se era cittadina di Parona Lomellina (PV). Il 18 marzo si era messa in malattia, stava male, aveva la febbre. Sette giorni dopo il decesso. A trovarla i vigili del fuoco che erano stati avvisati da familiari e colleghi: era morta, riversa nel suo giaciglio, l’ultimo prima dell’estremo viatico ultra-terreno. Buon viaggio Concetta!

Coronavirus. Infermiera si uccide gettandosi nel Piave. Lavorava in una Rianimazione con Pazienti COVID-19. Emergenza Coronavirus. Una Infermiera di 49 anni si è suicidata gettandosi del fiume Piave. Lavorava in una Terapia Intensiva con Pazienti affetti da COVID-19. Il suicidio è sempre una cosa di inatteso, di inspiegabile, di innaturale. E lo è quando a compiere il gesto è una Infermiera che in questi giorni si stava battendo contro il Coronavirus. Lavorava in Rianimazione, era in malattia a casa ed era in attesa dell’esito del tampone. Forse lo stress e la disperazione l’hanno spinta verso il folle gesto. Sul caso è stata aperta una inchiesta e indaga la Procura veneziana. Un evento che mette i brividi e che aggiunge morte a morte. Una infermiera di 49 anni, che lavorava da poco in un reparto con pazienti da Covid-19, si è suicidato gettandosi nel Piave, a Cortellazzo (Venezia). La donna lavorava all’ospedale di Jesolo divenuto da alcuni giorni una delle strutture in campo per la lotta al coronavirus. L’infermiera, che viveva sola, era a casa da due giorni, perché febbricitante. Era stata anche sottoposta a tampone, ma non le era stato ancora comunicato l’esito. E’ quanto riferiscono i colleghi di La Repubblica nelle edizioni di Jesolo. Ha creato sconcerto e dolore in tutta l’Azienda sanitaria l’improvvisa scomparsa dell’infermiera di 49 anni che prestava servizio all’ospedale di Jesolo. “Era una persona dedita al lavoro, una risorsa insostituibile per i colleghi e per questa Azienda sanitaria – ricorda il direttore generale dell’Ulss 4, Carlo Bramezza – non a caso, non appena appreso la notizia della sua scomparsa, i colleghi dell’ospedale di Jesolo che in questi giorni sono impegnati sul fronte coronavirus sono rimasti profondamente colpiti e scossi dall’accaduto. A nome dell’Azienda sanitaria che rappresento esprimo il più profondo cordoglio e vicinanza alla famiglia della “nostra” infermiera” S.L., queste le sue iniziali, era stata assunta nel 1991 all’Ulss4. Sino al 2012 aveva lavorato nel reparto di Chirurgia all’ospedale di Jesolo poi, alla luce della riorganizzazione dell’ospedale, era stata trasferita nella chirurgia di San Donà di Piave. Dal 2016 era ritornata a prestare servizio all’ospedale del litorale, nella Medicina Fisica e Riabilitativa, e pochi giorni fa si era offerta di lavorare nel nuovo reparto malattie infettive dove aveva collaborato all’allestimento e all’avvio delle attività.

Nell’unità operativa in cui attualmente sono ricoverati 25 pazienti coronavirus positivi S.L. aveva partecipato con i colleghi alla formazione per la gestione in sicurezza dei pazienti e aveva già svolto tre turni lavorativi.

Coronavirus. Nel Bergamasco si piange per la morte di Luciano Mazza, infermiere generico. Lo ha ucciso il Covid-19. Emergenza Coronavirus. Nel Bergamasco si piange per la morte di Luciano Mazza, 65 anni, infermiere generico. Lo ha ucciso il Covid-19, di cui si era ammalato probabilmente in corsia. Aveva 65 anni e un gran sorriso. Era un Infermiere Generico, di quelli che hanno preferito il lavoro all’impegno formativo, ma non per questo non era considerato un professionista della salute. E’ deceduto per Coronavirus. Si chiamava Luciano Mazza. Essendo un Infermiere Generico non era iscritto all’Ordine delle Professioni Infermieristiche di Bergamo, come noto presieduto da Gianluca Solitro, che ribadisce tuttavia tutta la sua vicinanza e il suo cordoglio alla famiglia del Mazza. La figlia si era appena laureata, ma non ha potuto festeggiare con l’amato papà. Lavorava al Policlinico San Marco di Zingonia (BG). E’ deceduto di Coronavirus proprio ed era vicino alla pensione. Buon viaggio Luciano.

·        Gli Eroi ed il Caporalato.

Coronavirus, la verità sulla missione dei medici cubani in Italia. Glauco Maggi, Giornalista a NYC per Libero Quotidiano, il 26 marzo 2020. Che vergogna vedere che grandi giornali e giornalisti in Italia hanno esaltato la missione dei medici cubani, presentati come “volontari” spinti solo dalla solidarietà umana, e senza alcun ricavo se non il vitto e l’alloggio. Non ci voleva molto a googulare e scoprire la verità, ma perchè smontare il mito caro a Bernie Sanders?  “L’ “esercito di solidarietà dei camici" che Cuba vende, maschera una moderna forma di sfruttamento del lavoro. Le testimonianze e le lamentele al riguardo ci consentono di stimare che il regime trattenga tra il 70 e il 90% dello stipendio pagato ai medici dai paesi di accoglienza”, si legge nell’articolo pubblicato il 21 novembre 2019 da ADNCuba, un sito di stampa libera in spagnolo curato da esuli cubani. “Anche sotto queste condizioni, i cubani rispondono all'appello del governo perché il loro reddito sull'isola è di soli 60 dollari al mese e qualsiasi importo superiore può sembrare un sogno. "Andare all’estero", nell'immaginario sociale cubano, implica sempre la possibilità di prosperare economicamente”.  Chi non ci crede può andare a leggere la lunga inchiesta di denuncia della BBC, il 14 maggio 2019, sullo stesso argomento. Trovate il link alla fine della traduzione completa dell’articolo di ADN Cuba, il cui titolo è: "Lo sfruttamento dei medici cubani: un business che si sta sgretolando”. “L'esportazione di servizi professionali”, scrive ADNCuba, “ha contribuito a Cuba oltre 10 miliardi di dollari nel 2018, secondo un rapporto dell'Organizzazione mondiale del commercio. Dal canto suo, l'Annuario statistico di Cuba, relativo al 2018, riporta circa 6 milioni e 400 mila di "pesos" entrati nel bilancio sotto la voce "Servizi di salute umana e servizi di assistenza sociale". La cifra indicava più della metà delle esportazioni totali di servizi di quell’anno. In aprile, i medici cubani hanno lasciato El Salvador, dopo che il sindacato locale ha presentato una denuncia alla Procura, sostenendo che i cubani esercitavano lì senza le necessarie autorizzazioni. A novembre il governo ecuadoriano ha annullato l'accordo sanitario con Cuba e ha rimandato sull'isola i 400 cubani che facevano parte della brigata medica. La Bolivia, dopo le dimissioni di Evo Morales, ha chiesto alle autorità cubane di ritirare gli oltre 700 professionisti dal settore. L'espansione dell'accesso a Internet a Cuba ha portato sempre più cittadini cubani a prendere coscienza di questi fatti e cresce l'impatto sociale delle notizie sui "disertori medici" che non possono rientrare nel paese per 8 anni come punizione; sui medici rapiti dai terroristi in aree pericolose e sulla morte di medici lontani dalla loro terra. Juan Manuel Obana, ad esempio, è morto l'11 settembre in un bagno dell'aeroporto Charles de Gaulle di Parigi, dopo essere stato espulso dalla Brigata medica cubana in Mauritania. Il 29 ottobre, 200 giorni dopo il completamento del rapimento di Landy Rodríguez e Assel Herrera in Kenya, i due dottori sono stati trasferiti in Somalia dai terroristi jihadisti di Al Shabbab. Da allora, la loro condizione fisica è sconosciuta e il governo cubano ha emesso solo un paio di timide dichiarazioni. Molti medici sono sfuggiti alle missioni e denunciano un tipico schema di “tratta di esseri umani”: minacce, mancato pagamento, conservazione dei passaporti e restrizioni ai movimenti. La tratta di esseri umani è spesso più associata alla prostituzione coatta, ma la categoria copre tutte le imprese basate sul furto della libertà altrui a scopo di lucro. In effetti, gli esperti ritengono che il traffico di lavoro sia molto più frequente nel mondo rispetto al traffico di sesso. Solo nel Brasile, Cuba ha guadagnato oltre 330 milioni di dollari all'anno tra il 2013 e il 2018, a spese dei professionisti della salute. Mentre ciò avviene, il sistema sanitario a cui i comuni cubani hanno accesso all'interno dell'isola si sta progressivamente deteriorando. Persistono reclami per le cattive condizioni dei centri ospedalieri. Fotografie di servizi igienici sporchi, lenzuola strappate e folle di pazienti circolano sempre più sui social network accompagnati da messaggi di indignazione. La mancanza di medicine e forniture colpisce le persone, che perdono la paura di rivelare pubblicamente il loro dolore e le loro necessità di base. Cuba è una “potenza medica" in grado di offrire assistenza di prim'ordine a personalità come Hugo Chávez, Diego Armando Maradona, Florencia Kirchner o David Granger; ma incapace di parlare onestamente delle epidemie di Dengue (virus portato dalle zanzare) che colpiscono i cubani. Una gestione trasparente delle informazioni contribuirebbe a percepire il rischio, il che equivale a salvare vite umane. Oltre al vantaggio economico, la tratta di medici travestiti da lavoro umanitario ottiene simpatia e sostegno internazionali per il governo cubano. È il volto seducente di un regime totalitario che reprime pacifici avversari, limita le libertà individuali dei cittadini e mantiene una stretta vigilanza sulla società civile”.  Il COVID 19 è venuto a fagiolo. Non ci voleva molto, comunque, prima di pubblicare foto e interviste a medici sfruttati da un regime comunista e, va da sè, politicamente imbavagliati, descrivere la verità, il contesto del fenomeno. Ma il pubblico italiano ama ancora Che Guevara e Fidel, perchè svegliarlo dal sogno?   E questo è il link all’articolo della BBC. Così anche i reporter fluenti in inglese che amano la BBC, e che snobbano gli esuli cubani di Miami filo Trump, si possono dare una mossa e ristabilire un minimo di decenza informativa.

"Siamo incazzati", l'urlo dei medici sfruttati. Da adnkronos.com il 22/11/2017. Qualche spicciolo, pochi euro, o un pasto veloce e magari freddo. E' quello che si ritrovano in mano i giovani medici italiani "ridotti a paghe da fame". Una situazione allarmante denunciata sui social network, con molta rabbia, nei gruppi che danno voce alla frustrazione di una generazione di laureati e specializzati 'under 30' che non riesce a mettere insieme uno stipendio decente. Avevano sognato il camice bianco e si ritrovano ad elemosinare la paga dopo una giornata passata in ambulanza a salvare vite. Precari di lusso potrebbe dire qualcuno, ma questi ragazzi non hanno molta voglia di scherzare. Si parla della loro professione, che amano, e della loro vita che sfugge via. Su Facebook il gruppo "Giovani medici anti sfruttamento", 2.800 utenti iscritti, raccoglie le storie e gli sfoghi dei dottori e delle dottoresse, spesso under 35. Di chi ancora non è strutturato in ospedali o Asl, oppure sta aspettando per il posto nella scuola di specializzazione e cerca di lavorare e studiare. Sono tante le prime esperienze negative con il mondo del lavoro e le difficoltà nel sopravvivere tra offerte assurde e evidenti sfruttamenti spacciati come impieghi. "I social - spiega all'AdnKronos il presidente del Segretariato italiano giovani medici Andrea Silenzi - raccontano tante realtà c'è un limbo nel passaggio dalla laurea al primo impiego. Nelle grandi città per i giovani medici alla ricerca di un lavoro ci sono molte trappole e situazioni poco chiare nelle cooperative che gestiscono alcuni servizi di emergenza urgenza. In molti ospedali -aggiunge - lavorano fianco a fianco camici bianchi strutturati e altri a contratto pagati per le ore di prestazioni. Fanno le notti e le guardie entrambi, ma sono pagati in modo diverso". "Il becchino e il medico - aggiunge Silenzi - non sono più lavori sicuri come una volta. C'è una grave crisi anche nel nostro settore. Colpa della mancata programmazioni a livello nazionale. Si straparla di mancanza di medici e poi ci sono tanti disoccupati o sfruttati. Le storie di colleghi pagati con pizza, birra o qualche altra cosa le conosciamo e capiamo la rabbia che sta montando sui social". Nel mondo dello sport, ad esempio, è diffusa l'abitudine di pagare pochi euro l'ora, quando la presenza di un medico in una struttura o sul campo di gara può essere determinante in caso di arresto cardiaco. La generazione degli 'sfiorati' non ci sta ad essere messa nell'angolo. Lotta, denuncia e cerca una visibilità che può smuovere l'apatia della politica verso i giovani. Qualcosa sembra muoversi. La Commissione Bilancio del Senato ha approvato l’emendamento alla legge di conversione del decreto fiscale che stabilisce il diritto a un compenso minimo al di sotto del quale non si potrà scendere che deve essere "proporzionato alla qualità e quantità del lavoro". I giovani medici hanno aderito e "il 30 novembre saremo a Roma alla manifestazione per l'equo compenso - afferma Silenzi - si deve fermare lo sfruttamento delle partite Iva anche nel settore sanitario. Poi stiamo lavorando ad un Codice di comportamento per il giovane medico che potrò essere d'aiuto per muoversi nelle tante realtà locali e potrà dare dei punti di riferimento per evitare di cadere in situazioni anomale o al limite della legalità". Perché dopo una giornata in ambulanza non arrivi la proposta di una pizza e di una birra ma un assegno.

Torino, la protesta degli infermieri vestiti con i sacchi dell'immondizia: "Altro che eroi, siamo sottopagati". Pubblicato mercoledì, 20 maggio 2020 da Mariachiara Giacosa su La Repubblica.it I sanitari si incatenano sotto la sede della Regione: "Abbiamo lavorato in condizioni pessime, 40 di noi sono morti: pretendiamo rispetto". I camici a terra, i corpi protetti con i sacchi dell'immondizia, le mani incatenate. Gli infermieri in prima linea nell'emergenza covid protestano sotto la Regione per chiedere il giusto riconoscimento dopo mesi di lavoro nei reparti degli ospedali. "Avevamo mascherine contate, pochi dispositivi di sicurezza, abbiamo avuto paura" raccontano gli operatori sanitari che denunciano le condizioni di lavoro in questi mesi e la mancanza ora di un giusto riconoscimento economico, che era stato promesso dalla Regione e che finora non è arrivato. In mattinata saranno ricevuti dal presidente Alberto Cirio che ha previsto 37 milioni di euro, da aggiungere ai 18 del governo, per finanziare il bonus in busta paga per gli operatori sanitari impegnati nell'emergenza coronavirus. A Torino gli infermieri si incatenano: "Siamo eroi dimenticati" "Ci hanno anche escluso dal tavolo che dovrebbe organizzare il bonus in busta paga per i sanitari perché non abbiamo firmato il contratto nazionale" attacca Francesco Coppolella segretario piemontese del Nursind che rappresenta 4mila infermieri. "Oggi siamo qui per chiedere conto delle vostre promesse - si legge nella lettera letta in piazza mentre i partecipanti al sit in erano sdraiati a terra - questi che vedete alle mie spalle e rappresentano i 40 infermieri morti: hanno perso la loro vita per salvarne altre. I nostri sono stipendi inadeguati, nessun bonus e nessun premio sanerà le nostre perdite ma un segnale di rispetto lo pretendiamo".

Lodovico Poletto per “la Stampa” il 21 maggio 2020. Le questioni sono due, e coincidono: la prima è legata al portafoglio, che è mezzo vuoto. La seconda l'hanno battezzata la «memoria corta». «E da eroi, quando la gente moriva in corsia siamo diventati dei rompiscatole cosmici. Vi ricordate le foto dei colleghi con i sacchi della spazzatura addosso al posti dei camici? Ecco: quello dice esattamente come è ridotta la nostra sanità». Nella città che ha ritrovato il traffico, i mercati pieni, i bar mezzi aperti e la gente che prende il sole sul lungo Po, la rivolta degli infermieri che si sentono spremuti e abbandonati stride con le lenzuola ancora appese ai balconi: «Grazie ai medici e agli infermieri». E sembra di avere a che fare con due città diverse, che fanno a botte tra loro. Da una parte ci sono le vagonate di cibo portate in ospedale per rinfrancare lo spirito e il corpo di chi lavorava nei reparti Covid e non Covid, le montagne di uova di Pasqua regalate ai lavoratori della sanità nei giorni della festa e della grande paura, e dall' altra i ricordi: «Ci dicevano di non usare le mascherine. Perché non ce n' erano. E le Ffp2 dovevamo lasciarle ai malati gravi» ricorda Daniele, fratello di un' altra infermiera che ha fatto la sua guerra. E adesso si sente abbandonata. E delusa. Anzi, più ancora tradita dopo aver dato tutto nei momenti dell' emergenza. «Eh sì, la gente ci applaudiva. Poi chi aveva promesso prebende e compensi, ci ha fatto l' elemosina. Un aumento nello stipendio di marzo e di un euro per ogni turno fatto. Le sembra normale? Prima ti dicono bravo, eroe, fantastico. Poi ti umiliano con un' elemosina» dice Claudio Delli Carri, sindacalista ed infermiere. Già questa storia dell' euro in più a turno è uno scandalo che rimbalza in ogni chat, in ogni discussione, in ogni pausa caffè dove c' è un infermiere presente. Tradotto in soldoni quell' euro in più vuol dire una pizza al mese extra: 20 euro su per giù. Anche se poi alla fine qualche soldo in più arriverà. Perché alcune Asl del Piemonte hanno capito che non era così giusto. E hanno fatto scelte diverse. Ora, è vero che nessuno si aspettava una pioggia d' oro. Che tutti avevano ben chiaro che la Sanità regionale ha il fiato corto dopo tutti soldi spesi in questo periodo. E che a fine anno sarà anche peggio. Perché quando saranno presentati i bilanci al Ministero - con gli obiettivi non raggiunti - i trasferimenti diminuiranno. Ma un aumento così piccolo è davvero un' offesa. E Claudio Delli Carri, infermiere alle Molinette, ma anche segretario regionale di un sindacato che si chiama Nursing Up chiede giustizia. Perché, alla fine, su 24 mila e rotti infermieri ed Oss del Piemonte, il 14 per cento è rimasto contagiato dal Coronavirus. E sono 3 mila e 300 cristiani. Un esercito. Che guadagna - quando va bene, ha 30 anni di anzianità e lavora in terapia intensiva - 1800 euro al mese. Ecco la rabbia nasce da lì. E investe tutti. La Regione in primis. Poi lo Stato. Il ministero. Il premier Conte e tutti quanti. E non solo da ieri che sono scesi in piazza i lavoratori della sanità del sindacato Nursind per denunciare altre carenze, ma da più lontano. Da quel silenzio terribile con gli infermieri e i medici muti nel cortile del più grande, il più organizzato ospedale del Piemonte: le Molinette di Torino. Era il 30 di aprile. «Il nostro silenzio è per sottolineare come dalla Regione, in questi mesi di emergenza, abbiamo avuto soltanto silenzi» dicevano. Puntando il dito sulle stesse cose di ieri in piazza Castello: la mancanza di Dpi, le mascherine che non c' erano, i turni massacranti, la paura di infettarsi, i colleghi malati, e via elencando. L' euro in più - da incassare come extra nei mesi di marzo e aprile (ma poi anche maggio e fino a fine emergenza) è soltanto un' ennesima beffa. Che non riguarda direttamente la Regione, la sfiora «e arriva giù giù, fino a Roma», come dice il signor Delli Carri. Le catene ai polsi degli infermieri, i corpi riversi sull' asfalto sono invece la rappresentazione del disagio, che ha a che vedere con tutte le carenze riscontrate in questo periodo. I soldi, per quelli del Nursind sono solo un dettaglio. E il signor Francesco Coppolella, che è il segretario di questo sindacato, non ha dubbi: «Ci hanno trasformati negli untori degli ospedali. Hanno abolito la quarantena preventiva e ci hanno rispediti in corsia». Gli eroi sono stati accusati di essere la causa di molti mali. Ora che l' emergenza è finta arriva l' aumento. Se va bene con quei soldi si può comprare una pizza e una birra.

Inchiesta di Marilena Vinci, giornalista di ''Stasera Italia'' l'11 aprile 2020. L’infermiera Patricia, esausta dopo un lungo turno, come le accade frequentemente di fare, è amareggiata e non trattiene le lacrime: “abbiamo lavorato in condizioni difficili, anche senza dpi (dispositivi di protezione individuale), con mascherine chirurgiche e protocolli confusionari. Alla paura e all'ansia del contagio si aggiungono l'insonnia e lo stress psicoemotivo”. Igor Vannoli ha 42 anni e fa l’infermiere da dieci. Anche lui è un precario amareggiato: “ho fatto il primo ricovero per covid-19 nel turno di notte. – ci racconta - Ho una moglie e un figlio di 3 anni che non vedo da un mese perché mi sono auto isolato visti i rischi. Ora vivo da solo e li vedo soltanto sullo schermo del telefonino”. Anche Silvia Fiorito ha famiglia e due figli piccoli. Lavora con tutti casi Covid-19 positivi e si sente carne da macello. “Il nostro coraggio tra un mese varrà zero. Ci hanno comunicato che purtroppo non è possibile rinnovare i nostri contratti. – dice - Prima facevo dei ricoveri ordinari, ma per un ordine di servizio sono stata messa nelle camere di contumacia ad alto rischio infettivo. Non so con quale criterio abbiano scelto di assegnare me e i colleghi precari tralasciando i colleghi di ruolo che fino ad un mese fa chiedevano di fare gli straordinari e ora sono quelli che sono stati quasi tutti esonerati dall’area ad altro rischio”. Al loro posto arriveranno colleghi entrati in graduatoria ma moltissimi di loro sono giovani e senza la necessaria esperienza. Quello che chiedono è almeno la proroga di un anno del loro contratto per fare affiancamento a chi si troverà nel bel mezzo dell’emergenza coronavirus perché, spiega Igor, “già lavorare in terapia intensiva richiede un'alta specializzazione, figuriamoci in questo momento che il pericolo di infettarsi è cento volte maggiore. E' un paradosso all'italiana: si cerca personale e quando si ha quello formato si manda a casa”. Silvia Fiorito, e come lei i suoi colleghi, non si fa una ragione di questa illogicità e chiede “perché nel bel mezzo di una pandemia l’ASL che ha già personale sanitario competente e formato con contratti in scadenza ci manda a casa nonostante in Italia si stia reclutando personale sanitario? Noi infermieri precari non abbiamo potuto partecipare a queste procedure di arruolamento straordinario perché avevamo un contratto in corso”.

Vi sentite un po' degli eroi a scadenza?

IGOR: “il senso di frustrazione e paura è tanto perché la prospettiva di arrivare a fine turno senza infettarsi è una cosa che prima non esisteva. Quindi a livello emotivo è cambiato il modo di fare il nostro lavoro, ma non ci sentiamo degli eroi”.

SILVIA: “Nonostante tutte le belle parole nei confronti del personale sanitario lasceranno a casa gli eroi. Eppure Conte ha detto non ci dimenticheremo di voi... Ho scritto una lunga email al Ministro della Salute Speranza, non so se l'abbia letta...".

Intanto, dopo la messa in onda del servizio a Stasera Italia, Matteo Salvini ha scritto una lettera aperta al presidente della Regione Nicola Zingaretti invitandolo a stabilizzare chi “ha lottato in prima linea con spirito di sacrificio e abnegazione mettendo a rischio anche la propria vita”. 

"Noi, infermieri sfruttati a danno dei pazienti". Sono professionisti indispensabili e svolgono compiti delicati. Ma in molte strutture sono costretti a turni massacranti e rischiano il posto di lavoro se denunciano condizioni sanitarie inadeguate. Maurizio De Fazio il 5 giugno 2017 su L'Espresso. Infermieri sviliti, ricattati, ridotti a compiti da factotum. Sottopagati e alle prese con contratti 'creativi' e senza tutele. Spostati da un reparto all’altro, di giorno e di notte, e costretti a fronteggiare da soli corsie affollate da decine di pazienti. Maria (il nome è di fantasia) di origine senegalese, vive in Italia da 34 anni ed è infermiera professionista da un quarto di secolo. Laureata in Infermieristica, per sei anni ha lavorato, di notte, in una casa di riposo del Piemonte. Faceva di tutto: il giro letti, le pulizie, le medicazioni, i prelievi; somministrava le terapie, imboccava gli ospiti, apparecchiava e sparecchiava. Poi qualche settimana fa è stata licenziata. Indirettamente, da uno studio di infermieri associati a cui era iscritta. Così è cominciata la sua battaglia: ha deciso di depositare una denuncia penale per razzismo nei suoi confronti e per le violenze contro gli anziani residenti nel suo ex luogo di lavoro. Ci sono persino delle morti nella storia che ci rivela e che sta riferendo in questi giorni ai magistrati; il suo racconto è suffragato dalle parole di Massimo, anche lui infermiere professionista, un suo collega in organico da dieci anni in quella casa di riposo che sembra uscita da un racconto dell'orrore. “Ho chiesto agli inquirenti di muoversi in tempi stretti, prima che la situazione degeneri completamente. Perché gli episodi che denuncio sono poca cosa rispetto all’assurdità del quadro generale” sostiene Maria. “Ci vorrebbe una legge nazionale che istituisca l’obbligatorietà delle telecamere in tutti gli ospedali e case di riposo. Faccio un appello alla ministra Lorenzin e al Parlamento. Quello che noi segnaliamo è solo una punta dell’iceberg. Se piazzassimo le telecamere in tutti i reparti verrebbero a galla fatti ancora più drammatici” aggiunge Massimo. Nella struttura dove lavora lui e lavorava lei, non c’è nemmeno una telecamera interna.

Contratti fittizi e straordinari non pagati. Maria: “In questo studio di infermieri associati siamo in 170, assunti a tempo indeterminato, in modo fittizio. La paga è di poco più di 10 euro l’ora: con questi soldi dobbiamo pagarci l’Empapi, l’Ente nazionale di previdenza e assistenza della professione infermieristica. Io sono una mamma, ho due figli a carico e le assicuro che, versate le quote Empapi, non mi rimane granché. Per ogni nostra prestazione lo Studio incassa il doppio. Ci tiene sotto scacco”. E Massimo aggiunge: “Non abbiamo nessun tipo di garanzia né per le malattie, né per le ferie: ci vengono concesse, ma a spese nostre. E non percepiamo mai straordinari”.

Licenziata per aver rotto l'omertà. Maria: “Sono stata cacciata non per miei errori o negligenze ma perché ero diventata scomoda. Nella nostra casa di riposo gli Oss (operatori socio-sanitari) insultavano, picchiavano e maltrattavano gli ospiti. Io ho denunciato questi fatti e il risultato è che mi hanno dato il benservito. Senza nessuna lettera di licenziamento. Se parli, se rompi il patto d’omertà, sei fuori. Anni fa una mia collega, allontanata come me da un giorno all’altro dallo studio, si è suicidata”. “Davo fastidio perché controllavo tutto, come m’hanno insegnato alla scuola di Infermiera. E poi il colore della mia pelle non piaceva. Il direttore generale me lo aveva promesso: prima o poi ti faccio licenziare, non voglio neri nella mia clinica”.

Turno di notte: un'infermiera per 70 pazienti. “In tutto siamo sei infermieri, e altrettanti Oss. Di notte sono sempre stata l’unica infermiera di turno per settanta ospiti. Sono una professionista, laureata, ma ho dovuto a lungo supplire alle inefficienze degli operatori socio-sanitari che sonnecchiano e fanno squadra tra di loro” racconta Maria rievocando i turni nella casa di riposo. E aggiunge Massimo, il suo collega: “Dobbiamo idratare gli anziani, altrimenti lasciati a liquefarsi; mobilizzarli; medicarli a causa delle lesioni provocate dalla disattenzione delle operatrici. E anche il personale medico non brilla certo per l’impegno profuso. Asserire che se ne fregano è un generoso eufemismo. Occorre stimolarli a fare le cose, ricordargliele sul quaderno”. Ma non basta: “dobbiamo accendere e spegnere le luci, aprire e chiudere i cancelli, sbloccare gli ascensori quando si bloccano…”.

Anziani maltrattati nella struttura "a 4 stelle". Spiega ancora Maria: “Nella mia denuncia alle autorità giudiziarie ho vuotato il sacco sugli schiaffi, le offese, le urla disumane lanciate dagli Oss agli ospiti col silenzio-assenso del direttore. Due di loro sono deceduti: non stavano bene in salute, ma sono stati lo stesso presi a ceffoni. E pensare che dovrebbe essere una struttura a 4 stelle”. Le fa eco Massimo: “Altri hanno perso la vita perché trascurati dal punto di vista dell’assistenza: soffrivano già di patologie come il diabete o l’ipertensione ma ci si è dimenticati di loro, e quando li si è mandati al pronto soccorso non c’era più nulla da fare. Inoltre sono all’ordine del giorno le cadute rovinose e le fratture del femore”.

Manca l'igiene. “Vengono disattesi anche i precetti elementari. Gli Oss sono capaci di usare lo stesso guanto monouso per quattro o cinque pazienti alla volta, scatenando infezioni serie. Ma se provi a rimproverarli, loro sibilano stizziti che il direttore della casa di riposo è d’accordo. Il nostro Studio, dal canto suo, minaccia rappresaglie ogni volta che facciamo notare questi comportamenti. E in sindacati sono totalmente assenti.

"Si perde il legame tra paziente e infermiere". Per gli anziani il personale paramedico costituisce un po’ una seconda famiglia. Vorrebbero socializzare, condividere l’album dei ricordi, farsi confortare. In questi casi il rapporto psicologico è fondamentale. Ma gli infermieri in servizio sono sempre pochi. E non c’è tempo da perdere. “Per il troppo lavoro da svolgere, a volte non riesco neanche a guardarli in faccia. Figurarsi se riusciamo a instaurare un qualche rapporto empatico” conclude Massimo: “Siamo delle macchinette che rimbalzano da un piano all’altro, da una stanza alla successiva per fare quello che c’è da fare subito e che gli altri non fanno o fanno male”. L'autore ringrazia per la collaborazione fornita il portale nurse24.it.

Il “caporalato” infermieristico: la regione paga 25€/h, il lavoratore ne percepisce 13,50. Redazione nursetimes.org il 06/08/20160.  Gent.le Direttore, recentemente leggevo, con infinito piacere, di un piano per abolire il “caporalato nelle campagne Pugliesi e della Basilicata” (Azienda di pomodori che dice no al caporalato e assume i migranti).  Leggiamo anche e da sempre che i produttori, come nel caso delle coltivazioni di pomodori o grano percepiscono poco nonostante il fatto che il prodotto che arriva sulla nostra tavola costi molto di più.  Dalla produzione alla tavola dei consumatori ci sono degli aumenti inspiegabili. Spesso c’è stupore nel sapere che un chilo di grano viene pagato pochi centesimi al produttore, mentre il pane derivante da “quel grano”, anche lavorato in modo molto semplice, arriva alla tavola del consumatore a costi decisamente molto elevati.

Nulla da dire per la retribuzione di chi lavora il pane, ma, chi lo distribuisce probabilmente dovrebbe essere un pochino morigerato? Caporalato secondo l’enciclopedia Treccani, è una forma illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera, specialmente agricola, attraverso intermediari (caporali) che assumono, per conto dell’imprenditore e percependo una tangente, operai giornalieri, al di fuori dei normali canali di collocamento e senza rispettare le tariffe contrattuali sui minimi salariali. La politica, almeno a parole, si sta spendendo in favore dei principi di cui sopra, ma per i contadini. Perché non spendere due parole per gli Infermieri? Nel caso del caporalato, tra i contadini, sono morti alcuni lavoratori sfruttati, mal pagati e non segnati.

Qual è la differenza per le assunzioni degli Infermieri in società esternalizzate? Tra gli infermieri il gioco è molto più sottile, anche se non meno pericoloso?  Sono anni che frequento il mondo degli Infermieri. Sono anni che hanno introdotto le esternalizzazioni dei servizi. Le ragioni per giustificare tale scelta sono state diverse, tipo:

lo stato d’emergenza, negli ospedali c’era il blocco del turnover, ma gli infermieri servivano.

Lo sblocco del turnover è stato annunciato, di gran cassa, quindi gli infermieri verranno assunti? No! La regione Lazio è tra quelle che hanno numerosi debiti quindi non possono assumere, però possono spendere di più con le società esternalizzate! Ora dicono che hanno fatto un buon lavoro, sarebbero quasi rientrati dei debiti e approfittando del Giubileo, iniziato da un bel po’ si potrà assumere ma “tempo determinato” e/o stabilizzare i precari. Risultato: “nella ASL che comprende l’Ospedale Grassi di Ostia sono stati assunti 8/9 infermieri a tempo determinato e molti di più in service con società esternalizzate”. 

Aimè, sfugge a molti, il principio di risparmio utilizzato? I politici coinvolti e chiamati in causa, più e più volte non rispondono, o comunque autorizzano l’uso degli infermieri in service.

Perché essere contrari all’assunzione d’infermieri in Service? Per cominciare l’assunzione d’infermieri in service vuol dire che una società che può essere una cooperativa, società interinale o qualcosa di simile assume gli infermieri, il cui stipendio  può variare dagli euro 13.50 l’ora (per i più fortunati), fino a pseudo generose offerte di tirocinio gratuito. I contribuenti, ignari, per il lavoro degli esternalizzati, pagano per loro, gli Infermieri in Service molto, molto di più! Alcuni colleghi, che non biasimo anche se li vorrei più coraggiosi, hanno accettato di lavorare gratuitamente, nella “speranzosa” ipotesi che prima o poi, qualcuno si accorga di loro e li assuma. Nell’attesa talune ditte, è successo con le ditte figlie del sub appalto ARES, falliscono miseramente, benché non abbiano speso un euro per i lavoratori. Certi fallimenti dovrebbero essere meritevoli di accertamenti approfonditi da parte della Guardia di Finanza. I soldi erano, soldi pubblici. I lavoratori infermieri che lavorano in service, nonostante lo sfruttamento, debbono rispondere penalmente e civilmente della loro attività, quindi debbono “autofinanziarsi” un assicurazione e i corsi di aggiornamento.

In molti hanno chiesto come mai una differenza di retribuzione così alta tra lo stipendio che percepisce l’infermiere e quello che paga la Regione? Anche in questo caso le risposte sono state diverse. La Regione pagherebbe di più perché corrisponderebbe alla ditta il “rischio imprenditoriale”. Succede però, che se per deifallace varie la Regione non paghi, la ditta esternalizzante, nonostante il riconoscimento del rischio imprenditoriale, non retribuisca gli infermieri! Quindi le differenze retributive? Gli infermieri in attesa di trasferimento, che vorrebbero poter lavorare con profitto vicino ai propri affetti, non lo possono fare.    I posti sono occupati dal personale assunto in service, che costa di più, molto di più, quindi non mi spiego come mai si debbano prediligere le assunzioni in service rispetto alle assunzioni in ruolo. Gli infermieri a tempo determinato, paradossalmente, sono più fortunati perché un domani, nel caso un concorso pubblico, possono documentare un anzianità maggiore. Ciò nonostante di concorsi si parla poco o nulla! Il lavoro degli infermieri in service non sembra essere distante, come caratteristiche, al lavoro sotto caporalato, ma reso legale. La politica dovrebbe impegnarsi per una risoluzione. Le  chiavi possibili esistono ma, le debbono volere!  Non è più possibile derogare oltre. Ci sono colleghi che lavorano nelle condizioni sopra citate da oltre 10 anni. Bandiere al vento senza diritti, senza possibilità di parola! Questi i giorni in cui due colleghe, rispettivamente, assunte presso una struttura esternalizzata e un’altra a tempo determinato, mi hanno comunicato che si sarebbero licenziate. Rinunciavano al lavoro. La stanchezza le ha rese esanimi. Loro mi hanno raccontato la stessa cosa, vale a dire che sono stufe di cambiare reparti, su reparti, ogni volta che cominciano ad inserirsi in un equipe e/o struttura debbono cambiare.

Le strutture ospedaliere, di uno stesso ospedale, non sono organizzate con criteri simili. Vale a dire che i materiali, i presidi non sono disposti nelle stesse modalità. Poca cosa? Immaginate a dover lavorare nell’assistenza, anche la semplice ricerca di un lenzuolo diventerebbe un problema. Se la necessità si creasse durante un urgenza? Una collega delle colleghe citate mi raccontava, che da quando ha iniziato l’attività nel nosocomio, dove ha deciso di licenziarsi, la prendono “bonariamente” in giro, chiedendo dove ti hanno messa oggi? Lei mi raccontava, che facendo eccezione della camera mortuaria, i reparti li aveva girati tutti. Tutto ciò le aveva generato demotivazione, sconforto e notevoli disagi. Normalmente, in passato, s’iniziava a tempo determinato, ma le prospettive erano migliori. La Politica dovrebbe riconoscere un reddito minimo di legge, oltre il quale un infermiere non può essere retribuito.  Ogni imprenditore dovrebbe attenersi. Succede per le donne delle pulizie! Le gare al ribasso hanno penalizzato i lavoratori, piuttosto che il costo del lavoro. Perché il gioco al ribasso è stato pagato, esclusivamente, dai lavoratori. Gli Infermieri dovrebbero poter lavorare senza gestori. Se si necessità di lavoratori in service e provvisori, dovrebbero essere assunti direttamente dalle strutture, ed il rischio del lavoro free dovrebbe essere corrisposto direttamente al lavoratore anziché all’intermediario di turno. Comunque il Governo dovrebbe essere genitore e non matrigna cattiva, dovrebbe preoccuparsi dei propri cittadini, anche infermieri. Il Governo dovrebbe preoccuparsi che vi sia un equiparazione, di base, tra personale sanitario pubblico e personale sanitario in service. Uno Stato di Diritto non dovrebbero consentire sperequazioni tra lavoratori. La risposta del Governo, allo stato attuale, è levare diritti a chi li ha, piuttosto che migliorare i diritti a chi ne avrebbe diritto.

Le azioni poste in essere, a tutt’oggi, nell’ipotesi di risolvere i problemi economici della Regione, hanno portato svantaggi ai lavoratori, null’altro! Alcuni esternalizzati, fino ad ora, sono costati 25 Euro l’ora, ma il lavoratore percepisce euro 13.50. Quindi con le esternalizzate dov’è il risparmio per la Regione? Gli infermieri hanno diritto a soluzioni di lavoro dignitose come nel caso dei contadini oggetto di attenzione dei “caporali”! L’infermiera indignata. #NurseTimes - Giornale di informazione Sanitaria

Quanto guadagnano medici e infermieri italiani? Secondo gli ultimi dati Ocse, gli stipendi di medici ospedalieri e infermieri di casa nostra sono tra i più bassi d'Europa. Le cifre. Redazione quifinanza.it il 14 giugno 2018. Quanto guadagnano medici ospedalieri e infermieri in Italia e in Europa? I dati Ocse mostrano una situazione disomogenea tra i vari Stati. Quelle del medico e dell’infermiere sono professioni estremamente delicate, hanno a che fare con la salute e il benessere delle persone. Orari spesso impossibili, reperibilità, sfide continue. Il percorso di studi per accedere alla professione è tra i più lunghi e difficili: senza contare i corsi di aggiornamento professionale per rimanere al passo con i progressi della medicina. Un lavoro appagante, certo, ma che comporta oneri e responsabilità elevati, non sempre sostenibili. Viene da porsi allora una domanda: quanto guadagnano? Gli stipendi di medici e infermieri che lavorano in Italia sono tra i più bassi d’Europa. Lo dicono i dati Ocse.

Partiamo dai medici: in Italia percepiscono un salario medio pari a 71.715 euro lordi annui. In Francia, lo stipendio si aggira intorno agli 80mila. Ancora meglio in Germania (133mila euro l’anno) e in Irlanda (quasi 160mila euro). Cifre da capogiro in Lussemburgo dove la media è quasi 259mila euro. Più o meno in linea con noi c’è la Spagna, dove i medici ospedalieri guadagnano 64.890 euro lordi l’anno.

Stessa cosa vale per gli infermieri: i dati Ocse, rilevano come, anche in questo caso, gli stipendi italiani siano tra i più bassi d’Europa. In Italia un infermiere guadagna mediamente 30.631 euro lordi annui. Seguono Francia (34.204 euro) e Spagna (35.489 euro). Al quarto posto c’è la Germania, dove lo stipendio annuo è di poco superiore ai 41mila euro, al quinto l’Irlanda con poco più di 50mila euro. La palma va agli infermieri dei Paesi Bassi (53.297 euro) e del Lussemburgo (83.274 euro).

Ecco qual è lo stipendio medio di un infermiere in Italia. Ecco quanto guadagna un infermiere al mese, a seconda della categoria d’appartenenza. Redazione quifinanza.it l'11 maggio 2018. Lavorare in ospedale è bello e appagante, ma com’è lo stipendio? Ecco quanto guadagna un infermiere nel settore pubblico e privato. Gli infermieri possono lavorare sia nel settore pubblico sia in quello privato. E, anche negli ospedali, non è raro trovare personale assunto tramite cooperativa. La stessa professione ha inquadramenti contrattuali diversi ai quali – a volte – non corrisponde lo stesso salario. Ma quanto guadagna in genere un infermiere? A febbraio è stato rinnovato il contratto collettivo nazionale della sanità, che ha stabilito delle nuove linee guida per la professione e un consistente aumento in busta paga. Per quanto riguarda gli infermieri inquadrati nel pubblico, lo stipendio dipende dalla categoria di appartenenza. Chi appartiene alla fascia D1 guadagna 23.919,59 euro l’anno. La D2 24.689,32 euro, la D3 25.454,35 euro, la D4 26.225,40 euro, la D5 26.225,40 euro e la D6 arriva fino a 27.990,10 euro annui. La retribuzione mensile lorda media è di circa 1.900 euro al mese. L’orario settimanale di lavoro degli infermieri è di 36 ore a settimana – obbligatorie per loro le undici ore di riposo continuato – e hanno quindici minuti a turno per la vestizione e la svestizione. Queste sono le cifre che riguardano il settore pubblico. Non troppo diverso è il privato, dove gli infermieri guadagnano circa 1500 euro netti al mese. Gli stipendi sono pressoché simili, anche se differenze considerevoli possono essere trovate da un’azienda all’altra. Ad esempio, chi lavora nelle Onlus e nelle cooperative può prendere anche solo mille euro al mese, mentre gli infermieri in pronto soccorso e in sala operatoria possono arrivare a 2mila netti. Chi occupa posizioni dirigenziali viene pagato circa 3mila euro al mese. Anche il lavoro sanitario può essere svolto come libero professionista. Iscrivendosi a Enpapi e aprendo la partita Iva, è possibile mettersi in proprio e creare da soli il tariffario (attenendosi ovviamente alle linee generali). Sono sempre di più le persone che scelgono questa soluzione, anche a fronte della difficoltà di lavorare per cooperative. Nel 2018 è stato decretato l’aumento salariale per gli infermieri dopo le numerose proteste che li hanno visti protagonisti negli scorsi mesi. Il CCNL Sanità è stato così modificato introducendo delle nuove direttive, incrementando gli stipendi e mantenendo invariato l’orario di lavoro.

Santi che pagano il pranzo non ce n’è. Infermieri. oltraggiati, sfruttati e malpagati. Anche ora. Di Andrea Bottega su infermieristicamente.it il 04/03/2020. Mi sarebbe piaciuto portare la voce degli infermieri in una trasmissione di un canale mediaset per cui ero stato contattato in qualità di segretario del maggior sindacato infermieristico italiano. Essendo saltato il collegamento (direttive aziendali hanno impedito la presenza in trasmissione in quanto provengo da una regione dove è presente un cluster infettivo) non ho potuto dire il disagio che la categoria sta vivendo. In generale nelle trasmissioni televisive degli infermieri, di quello che stanno vivendo e di quello che stanno facendo, non si parla. Autorevoli professori e medici esprimono pareri, danno consigli e previsioni ma nessuno parla dei disagi di chi sta lottando per difendere la salute dei cittadini mettendo a rischio la propria salute.

Ecco quindi cosa avrei voluto dire:

Gli infermieri italiani, stimati in tutta Europa per la loro formazione, sono abituati e pronti a gestire le emergenze sanitarie ma necessitano di direttive chiare, tempestive e coerenti. Ciò non è avvenuto soprattutto nella fase iniziale di gestione dei contagi ma ancora oggi viviamo nelle incongruenze delel direttive che cambiano di ora in ora. Ancora oggi ci sono aziende che derogano alle direttive regionali o nazionali. Infermieri in isolamento fiduciario che sono richiamati in servizio (Lodi), infermieri avvisati dopo 5-6 giorni del contagio (Savona), infermieri contagiati a cui non si è potuto fare il tampone perché esaurite le scorte (Bergamo), infermieri mandati a casa perché provenienti dal Singapore (Ravenna) pur non manifestando alcun sintomo. Nessuna informazione su come comportarsi a casa con i familiari.

Il numero di telefono messo a disposizione, irraggiungibile. Alcuni ospedali sono stati chiusi (Codogno e Schiavonia) altri no. Non tutte le aziende sanitarie hanno allestito i pre-triage che servono ad evitare che i sintomatici o i casi sospetti entrino a contatto con i sanitari e gli altri pazienti oppure come nel caso di Catania, viene bypassato non si sa come. Nel caos è difficile garantire sicurezza per sé e per gli altri.

Ancora oggi scarseggiano mascherine, tamponi e altri mezzi di protezione individuale. Per razionarli con il passare dei giorni si sono emanate norme restrittive sul corretto uso dei DPI e dei tamponi. I contagi stanno continuamente aumentando e molti sono infermieri perché vengono a contatto anche con sintomatici non diagnosticati in un primo momento. Le mascherine FFp3 non ci sono e non sono a disposizione di tutti. La difesa di sé e degli altri a questo punto è impossibile. Qualche infermiere se l’è acquistata per conto suo. Ad Alzano (Bergamo, la prossima zona rossa) le mascherine sono arrivate dopo 5 giorni.

Non si è quindi messo il personale infermieristico nelle condizioni di gestire l’emergenza. Alla cronica carenza di personale, più volte denunciata dal sindacato, già in difficoltà a dare risposta all’ordinario si è aggiunto un carico di lavoro straordinario. Alle dichiarazioni di “ammutinamento” da parte di alcuni colleghi non credo. Dalle informazioni raccolte attraverso i rappresentanti aziendali c’è stata la scelta di non tornare a casa per non infettare anche il nucleo familiare per cui si è continuato a lavorare, perché il lavoro è aumentato. Chi è a casa e non può dare il cambio ai colleghi è in isolamento fiduciario o malato. Anzi, anche chi è in isolamento fiduciario è spesso richiamato in servizio (Lodi, Padova) perché non ci sono infermieri e si dovrebbero chiudere gli ospedali proprio quando c’è il massimo bisogno per curare le persone.

La carenza di personale, Nursind la denuncia da tempo. Ironia della sorte, qualche giorno prima che scoppiasse l’epidemia, a Monza – ma prima ancora a Torino -, il sindacato infermieristico aveva acquistato degli spazi pubblicitari lungo le strade ed erano apparsi dei cartelli enormi che riportavano la seguente scritta: “L’assistenza non erogata aumenta il rischio per la salute dei pazienti. Le cure risultano incompiute se un infermiere assiste più di 6 pazienti”. In alcune regioni le dotazioni di infermieri sono fatte in base a dei minuti standard che dovremmo dedicare ai pazienti. Ora, forse, qualcuno, qualche cittadino, capirà cosa significa avere pochi infermieri nel sistema.

Quindi si cercano soluzioni urgenti, come richiamare i pensionati. Ma chi volete che risponda all’invito! Chi se n’è andato non vedeva l’ora di andarsene. Turni massacranti ed elevata responsabilità, stipendi da fame. Gli infermieri non hanno avuto riconoscimenti economici negli ultimi contratti, anzi si continuano a tagliare i fondi per il loro salario accessorio. Indennità ferme alla lira, moneta che molti giovani non l’hanno nemmeno conosciuta. Professione laureata pagata da diplomata, quella dell’infermiere. Nursind si è rifiutato di firmare il CCNL comparto sanità 2018 proprio perché non c’era nulla per la categoria e meno che meno per il personale turnista a cui sono state tagliate le indennità turno, il diritto alla mensa e il riposo tra un turno e l’altro. Se i pensionati non vengono che si fa? Allora si usano i tirocinanti che, a differenza dei medici specializzandi, non prendono un euro anzi pagano per fare il tirocinio. La nuova forza lavoro, i nuovi da sfruttare. Si anticipano le lauree degli infermieri per immetterli velocemente nel sistema, come dire “dilettanti allo sbaraglio”, mandiamo i neolaureati senza esperienza in trincea a gestire le massime urgenze e le nuove tecnologie senza un minimo inserimento. Si assumano gli infermieri in graduatoria, quelli che sono a casa che aspettano di essere chiamati. I nostri colleghi sono costretti ad andare a lavorare all’estero perché in Italia non trovano lavoro e sono malpagati. Si sta raschiando il barile. Mi chiedo: ma perché non c’è mai chi si prende la responsabilità di non averci dato ascolto quando denunciavamo la carenza di infermieri?

Anche gli infermieri hanno famiglia. Molti colleghi, soprattutto quelli che lavorano negli ospedali del nord non possono godere dell’aiuto di parenti e non sanno a chi affidare i figli quando gli asili e scuole sono chiuse. A disagio si somma disagio. Ferie e permessi non ne possiamo prendere e nemmeno possiamo chiedere di fare lo smart working.

La situazione al sud non fa ben sperare sul contenimento dei contagi. In alcune realtà non si sono ancora installate le tende pre triage, non ci sono i dispositivi di protezione o sono finiti. Si iniziano a vedere i primi contagi anche al sud e nelle isole. Il rischio è veramente di mettere in ginocchio i servizi sanitari di tutta Italia. Allora chi si prenderà cura di Voi? Senza infermieri non c’è futuro, l’abbiamo sempre detto a tutti i politici.

Che la sanità pubblica sia definanziata e prossima la collasso era così noto che nella passata legislatura anche il parlamento ha istituito una apposita commissione conoscitiva sulla sostenibilità del SSN. Dopo 37 miliardi di definanziamento in 10 anni (GIMBE da 10 anni predica ai quattro venti per salvare il SSN) si saranno accorti quanti buchi hanno creato nel sistema?

Tuttavia qualcosa di buono da questa esperienza negativa dovremo pur ricavarlo per evitare di ripetere gli stessi errori che causano danni enormi. Per non investire qualche miliardo in più nella sanità ora stiamo mandando in fallimento un intero paese. Ora si riscopre il valore del nostro SSN e agli operatori sanitari affidiamo il destino della nostra Nazione. Gli stessi operatori sanitari pubblici che sono stati tacciati per anni di essere dei fannulloni e dei furbetti da una politica che ha scatenato l’odio verso il sistema pubblico, tanto che anche i cittadini si sentono autorizzati di picchiare i sanitari e devastare i pronto soccorso.

Lo smart working funziona per molti ma non per tutti. Come può un infermiere assistere un paziente da casa? Certo anche la medicina cambierà dopo questa epidemia. Molto si farà per telefono o in video conferenza, diagnosi e terapia. Ma l’assistenza avrà sempre bisogno di un infermiere al letto del malato.

La sanità privata, dove lavorano gli infermieri che da 14 anni aspettano il rinnovo del contratto, è stata chiamata a supportare il servizio pubblico. Può sembrare marginale ma in questo momento tutto aiuta perché anche le loro strutture non sono immuni e non tutte sono preparate a rispondere come nel pubblico.

I ricchi, i privilegiati, i detentori di polizze assicurative per le cure sanitarie, le loro attività commerciali redditizie: che cosa possono fare ora per evitare il contagio? Ora sono rimasti gli infermieri a tenere aperte le rianimazioni per contagiati, ora non si può scappare perché l’epidemia prende tutti e tutto.

Fa specie leggere nel decreto delle misure urgenti per famiglie, imprese e lavoro che gli infermieri sono citati solo per prevedere delle assunzioni straordinarie. Santi che pagano il mio pranzo non ce n’è, caro Governo. Oltraggiati, sfruttati e malpagati. Anche ora. Reietti anche mediaticamente dove si parla solo di carenza di medici e di iniziative per i medici. La sanità non è solo medicina, è anche e tanto assistenza infermieristica. Qualcuno lo deve dire e io voglio dirlo: volgiamo rispetto per il nostro lavoro e il giusto riconoscimento economico. Se non ora quando?

Operatori sanitari: “Ci chiamate eroi ma siamo senza contratti stabili da 17 anni”. Ciro Cuozzo e Rossella Grasso su Il Riformista il 28 Aprile 2020. “Quando 17 anni fa un’agenzia del lavoro mi ha proposto una sostituzione da Operatrice Socio Sanitaria di due mesi al policlinico dell’Università Luigi Vanvitelli ho accettato con gioia. Non immaginavo che quella sostituzione sarebbe durata ancora oggi”. Quello di Mirjana Ugrenovic, infermiera, è un racconto di una professione fondamentale negli ospedali, sempre in prima linea accanto a medici e operatori sanitari ma spesso priva di tutele. Accade anche durante l’emergenza Coronavirus. La vicenda è stata raccontata da un gruppo di Oss del Policlinico Luigi Vanvitelli, che insieme a circa 180 altre figure tra cui infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e Oss vivono lo stesso disagio nei contratti. Ma la loro situazione è comune a centinaia di operatori, i cosidetti “somministrati”, che hanno iniziato decine di anni fa a lavorare come “sostituzioni” tramite agenzie per il lavoro, e si sono visti rinnovare il contratto per blocchi di pochi mesi o qualche anno, sempre tramite agenzia, senza mai riuscire ad ottenere un contratto stabile direttamente con l’Azienda per cui lavorano. “Per fortuna o purtroppo non lo so – spiega Antonio Viggiano – ci hanno sempre rinnovato il contratto no stop, tramite agenzia però, così facendo non abbiamo alcun tipo di diritto: nessuno scatto di anzianità, buoni pasto, buoni benzina, incentivi, lavoriamo a ore, non abbiamo ferie o malattia, non ci sono straordinari pagati anche se, quando serve, lavoriamo più ore perché c’è carenza del personale. Nonostante la delusione e il dispiacere che si rinnovano di anno in anno, di mese in mese, di non vedere mai stabilizzata la loro posizione, il gruppo di somministrati tiene molto al loro lavoro ed è riconoscente nei confronti di un’Azienda a chi hanno dato tanto ma dove hanno imparato ancora di più. “Abbiamo dato tanto e ci aspettiamo in cambio qualcosa in termini di sicurezza. Non ci siamo mai tirati indietro – dice Mirjana – io in 17 anni avrò fatto giusto 2 giorni di malattia perché stavo proprio male e mi sentivo anche in colpa perché venivo meno alla mia vocazione di risolvere i problemi”. “Ci chiamano eroi perché siamo in prima linea nell’emergenza Coronavirus – continua Antonio – Ma oggi siamo eroi e domani?”. Il Gruppo di Operatori Sanitari chiede a gran voce l’attenzione del Governatore della Campania affinchè stabilizzi i loro contratti al più presto. “Vogliamo che Vincenzo De Luca sappia che esistono anche i somministrati: sentiamo parlare solo di avvisisti, precari, vincitori di concorso, precari e a noi non pensa nessuno. Molti partecipano agli avvisi o ai concorsi, magari sono giovani e hanno la possibilità di studiare e vincere serenamente un concorso pubblico. Noi facciamo turni massacranti e tempo per studiare non ce n’è. Eppure abbiamo esperienze sul campo decennali e il nostro lavoro è apprezzato da tutti”.

Colloquio shock per Oss: Paghiamo tre euro l'ora. Redazione nurse24.it. Pubblicato il 10.04.17, Aggiornato il 27.04.18. Qui si fanno turni di 12 ore e poi 24 ore di riposo, Lo facciamo per voi, per farvi riposare, La paga è di 650 euro al mese, ma dipende tutto da te, dalla tua voglia di lavorare, dall’impegno che ci metterai. Questa è una struttura pubblica, ma non ci sono infermiere, solo operatrici. Dovete fare tutto voi, compresa la somministrazione dei medicinali. Fantascienza? No cronaca di un ordinario colloquio di lavoro, come operatore socio-sanitario, a Napoli.

Cercasi Oss, a 3 euro scarsi all’ora. Carmela, ovviamente il nome è di fantasia, ha registrato per Nurse24.it un colloquio di lavoro in una struttura pubblica. Una casa di riposo per anziani, dove cercavano un’operatrice socio-sanitaria. Il colloquio ha dell’inverosimile e lascia sbigottiti. Soprattutto la paga: 650 euro al mese per 54 ore di lavoro settimanali. Vale a dire meno di due euro all’ora. Ha già esperienze di lavoro in una casa di riposo? chiede la responsabile a Carmela. E lei: No, in realtà, come domiciliare tantissimi, ma in una casa di riposo mai. La responsabile spiega a Carmela i turni di lavoro. Tra un turno di 12 ore e l’altro ci sono sempre 24 ore di riposo – dice in tutta tranquillità, quasi fosse un favore alle dipendenti -. Ad esempio il lunedì si viene a lavorare alle 8 e si smonta 19, poi ci si riposa 24 ore e si torna alle 19 del giorno dopo per fare la notte. Si smonta alle 8 e si riposa 24 ore, poi si torna alle 8 del giorno dopo per rifare il giorno. Insomma, è un ciclo giorno-24 ore di riposo-notte-24 ore di riposo e così via. Lo facciamo – continua la responsabile della struttura – sia per avere una maggiore copertura noi, nel caso una di voi si ammalasse o non potesse venire al lavoro, sia per farvi riposare di più. Ma quante ore di lavoro sono a settimana? chiede la nostra Carmela. Ah non saprei, dipende dal turno – risponde la responsabile – è da provare. In realtà basta fare qualche conto, la matematica non è un’opinione. Dodici ore di lavoro, intervallate da 24 di riposo, significa che si va a lavorare praticamente tutti i giorni, che sia la notte o il giorno. E a conti fatti sono 54 ore settimanali. E la paga? Lo stipendio base è di 650 euro – dice la responsabile – a cui vanno aggiunte 50 euro ogni volta che si coprono turni in più, a meno che non ci si mette d’accordo con l’altra operatrice per recuperare il turno saltato. E per neanche due euro all’ora cosa dovrebbe fare l’Oss? Tutto! Qui non abbiamo infermiere – chiarisce subito la responsabile – infatti i nostri pazienti sono tutti autonomi o semi-autonomi. Nel momento in cui dovessero diventare allettati siamo costretti a chiedere il ricovero in altre strutture più idonee. Siete tre operatrici e dovete occuparvi degli ospiti, della loro igiene personale e dell’igiene delle stanze, della somministrazione delle medicine ecc…. Se sei interessata a provare ti metto in cima alla lista – dice tutta soddisfatta la responsabile, quasi come servisse una raccomandazione per andare a lavorare a due euro all’ora -. Magari, potresti iniziare dalla notte!.

L’INCHIESTA. Senza protezioni e pagati una miseria: l'esercito senza diritti dei precari della sanità. Medici, infermieri, operatori sanitari: assunti attraverso cooperative, sono essenziali per rsa e ospedali. Ma hanno paghe basse e poche tutele. «Se segnaliamo un'esposizione al Covid possiamo perdere il lavoro». Gloria Riva su L'Espresso il 08 dicembre 2020. È l’alba. Paolo indossa la mascherina chirurgica, esce di casa, raggiunge la stazione e sale sul treno che ogni giorno lo porta a Milano. Prende una metropolitana e svariati autobus fino a raggiungere le case dei suoi assistiti: una dozzina di anziani non autosufficienti dei quartieri Baggio e Quarto Oggiaro. «Spero di non aver contratto il virus su e giù dai mezzi. Spero anche che i miei vecchietti non mi contagino». Paolo è un nome di fantasia, indispensabile per permettergli di mantenere il suo contratto da 880 euro al mese, alle dipendenze di una cooperativa sociale, che ha in appalto dal comune di Milano l’assistenza domiciliare ad anziani e disabili. Ai tempi del Covid 19 ci si immagina che Paolo entri in queste case bardato di tuta, visiera, guanti, mascherina ffp2. Nella realtà la cooperativa gli fornisce una manciata di mascherine chirurgiche a settimana, e basta. Lo scorso marzo non c’erano neppure quelle: «Non ho mai smesso di lavorare, né durante il primo, né durante questo secondo lockdown. Alcuni colleghi hanno preso il Covid, qualche assistito si è ammalato. Per un po’ mi hanno messo in quarantena, ma non so se il virus l’ho preso anche io perché l’azienda non ci ha mai fatto fare alcun tampone». Eccola, la sanità di serie B: da oltre dieci anni prolifera in ospedali, rsa, servizi comunali, nidi, assistenza scolastica. Molti sono ausiliari socio-assistenziali (asa) o operatori socio-sanitari (oss), una qualifica che si ottiene con un anno di studio, guadagnano 800 euro per otto ore di lavoro, lavano schiene, assistono disabili, fanno muovere gli allettati, fanno i mestieri più faticosi, e sono alle dipendenze di cooperative. Sempre più spesso nelle coop ci lavorano anche medici gettonisti, infermieri e tecnici di laboratorio: il 118 dell’ospedale Niguarda di Milano è gestito da una cooperativa, così come i tecnici radiologi del Gruppo San Donato sono in appalto, idem per i medici del Pronto Soccorso dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo: per 12 ore di lavoro guadagnano circa 600 euro lordi. Secondo i dati Istat lavora nelle coop un esercito di 400mila lavoratori della sanità e del socio assistenziale (molti, se si considera che il Ssn ha 600mila dipendenti), costano poco – meno 40 per cento rispetto ai colleghi del Ssn –, erano già privi di diritti prima della pandemia e oggi sono ancor più allo sbaraglio: hanno meno dispositivi di protezione e zero controlli di routine contro il Covid. «Il personale sanitario e amministrativo di Asl, ospedali pubblici e privati deve effettuare un tampone ogni 15 giorni. I colleghi delle cooperative, che lavorano al loro fianco e stanno a stretto contatto con i malati, non devono fare alcun controllo, lo stesso vale per lo staff delle residenze per anziani, tutte gestite da cooperative. Si tratta di un incontrollato veicolo di contagio», avverte Isa Guarnieri della Cgil di Milano. «La sanità italiana ha figli e figliastri. I primi sono i dipendenti diretti, gli altri sono in appalto, ma devono mettere in campo la stessa intensità di risposta all’emergenza pandemia», spiega Gianluigi Bettoli, responsabile di Legacoopsociali del Friuli Venezia Giulia, che aggiunge: «Sempre nelle coop, si assiste da un lato all’extra lavoro di operatori sanitari e infermieri, costretti a tripli turni, dall’altro ci sono educatori e operatori sanitari che lavorano nelle scuole e nei centri diurni per disabili in attesa di ricevere sussidi di cassa integrazione da 400 euro al mese, perché queste strutture hanno chiuso e i comuni hanno sospeso i contribuiti per il servizio». Non va meglio per chi lavora nelle residenze per anziani, come racconta Luca Spagnol, responsabile infermieristico della Coop Itaca, duemila dipendenti, impiegati in rsa e ospedali del Nord: «Già prima della pandemia, infermieri e operatori sanitari avevano un carico di lavoro che andava ben oltre le proprie possibilità. Adesso, per rispettare i protocolli Covid, l’intensità di lavoro è cresciuta del 40 per cento. Non solo. Il Ssn ha aperto una campagna di assunzione di personale per far fronte alla pandemia: a rispondere sono stati molti dipendenti delle coop, attratti da salari più alti e maggiori diritti. Questo ha ridotto la forza lavoro nelle rsa e nei servizi socio-sanitari, intere aree di cura stanno andando in tilt, alcune strutture hanno interrotto l’assistenza notturna. Agli infermieri rimasti vengono sospese le ferie e sono richiamati in servizio anche nei giorni di riposo. In più, spesso, succede che siano forniti di meno dispositivi di protezione: poche mascherine, camici, visiere. E quando i focolai si diffondono nelle rsa, subiscono una forte pressione psicologica, perché vedono le persone morire fra grandi sofferenze: nelle case per anziani non ci sono medici in grado di affrontare il Covid, non c’è ossigeno, la morfina è scarsa». Affermazioni confermate dal Rapporto Salute 2020 di Cittadinanza attiva che fa il punto sulle maggiori criticità del sistema di salute e assistenza segnalate dai cittadini: «Il 42,8 per cento delle segnalazioni riguarda proprio le Residenze per anziani. Di queste, il 32,5 per cento segnala carenza di dispositivi di protezione sia per gli ospiti, sia per il personale», dice il rapporto. A Napoli sono gli stessi dipendenti delle cooperative a non segnalare una eventuale esposizione al Covid: «Temono di perdere il lavoro, così sottovalutano il rischio di un’infezione, i sintomi e tutte le problematiche annesse. Ma queste sono persone che lavorano a contatto con malati e soggetti fragili», spiega Gianna Serena Franzé, segretario della Funzione Pubblica Cgil in Campania, che ha avvertito comune e Prefetto, senza ricevere risposta. «Il problema vero è che le cooperative non si vogliono far carico dei 60-100 euro del costo del tampone. Così si favorisce la diffusione del virus proprio fra le categorie più fragili. In altri casi, visto che le cooperative non forniscono neppure un adeguato numero di mascherine protettive, gli operatori hanno ridotto gli interventi domiciliari: si limitano a portare la spesa sulla soglia di casa, non entrano nelle abitazioni. A lungo termine dovremo fare i conti con gravi situazioni di degrado e disagio sociale». I costi extra per l’acquisto dei dispositivi e i mancati introiti per via della sospensione dei servizi comunali porteranno molte cooperative a chiudere i bilanci in rosso, o peggio. La Cooperativa Cooss Marche, la più grande della regione, con oltre tremila dipendenti, «dopo decenni di appalti al ribasso si è indebolita al punto che, per salvarsi, gli stessi soci lavoratori si sono tagliati lo stipendio e la tredicesima. Il covid ha dato un’ulteriore spallata: i dipendenti rischiano il posto e potrebbero saltare gli indispensabili servizi che fornivano, dagli asili nido alle rsa», commenta Michele Vannini della Cgil. C’è poi chi, per mantenere il posto, è costretto a firmare stringenti protocolli di scarico di responsabilità: «I dirigenti delle case di cura, per sgravarsi di ogni colpa, scrivono complessi protocolli operativi, facendo ricadere l’intera responsabilità di eventuali focolai sugli operatori. Noi firmiamo tutto: l’alternativa è perdere l’appalto», racconta Alberto, assistente socio-assistenziale in una residenza per anziani della Brianza. A Bergamo il lavoro delle cooperative negli ospedali, nelle rsa, nella cura domiciliare è stato fondamentale nella prima ondata del Covid: «Gli operatori “di serie B” hanno assistito pazienti a mani nude, senza protezione, perché tutti i dispositivi di protezione venivano requisiti e consegnati al personale del Servizio Sanitario Nazionale. A distanza di mesi, il loro sforzo non è stato in alcun modo considerato: i colleghi del Ssn hanno avuto un riconoscimento economico, per i sanitari delle cooperative non c’è stato alcun indennizzo», dice Roberto Rossi della Cgil di Bergamo. Per loro ci sono stati soltanto rischi in più, dal fardello della responsabilità al maggiore rischio contagio. Tutto questo per 800 euro al mese.

·        USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.

Le Unità Speciali di Continuità Assistenziale (USCA) svolgono attività domiciliari per i pazienti COVID-19. Le loro funzioni sono principalmente rivolte alle cure al domicilio per pazienti COVID-19 (dimessi dalle strutture ospedaliere o mai ricoverati) con bisogni di assistenza compatibili con la permanenza al domicilio e per la cura al domicilio di pazienti con sintomatologia clinica sospetta per coronavirus, di cui non è nota l’eventuale positività e che devono essere considerati come sospetti casi COVID-19.

La finalità delle Unità Speciali è di:

assicurare il regolare svolgimento dell’attività ordinaria dei Pediatri di Libera Scelta, dei Medici di Medicina Generale e dei Medici di Continuità Assistenziale;

garantire la diagnosi, presa in carico e monitoraggio delle infezioni da COVID19.

In particolare, le USCA provvedono:

alla gestione domiciliare dei pazienti affetti da COVID19 in isolamento domiciliare e che non necessitano di ricovero ospedaliero;

alla gestione domiciliare contatti di caso certo in isolamento fiduciario;

alla valutazione domiciliare dei casi sospetti e loro gestione;

alle attività burocratiche/amministrative (cartella clinica, compilazione flussi, ecc.).

L’intervento delle USCA, per consentire un razionale utilizzo di questa funzione, è, di norma, coordinato dall’Unità di crisi di ATS, previa richiesta da parte del Medico di Medicina Generale – Pediatra di Libera Scelta o del Medico di Continuità Assistenziale. Attraverso un triage telefonico viene valutato il bisogno dell’assistito positivo per COVID-19 in isolamento domiciliare, dei contatti in isolamento fiduciario o dei casi sospetti. Le USCA, dopo opportuna valutazione, possono organizzare ecografia polmonare, ECG, tamponi nasali a domicilio o attivare una consulenza infettivologica o pediatrica telefonica.

Ad esito del proprio intervento, le USCA possono richiedere al Medico di Medicina Generale di riferimento l’attivazione di altre offerte di cura.

Il referto viene condiviso anche col medico di medicina generale. Non rientrano tra le attività delle USCA quelle certificative (ad es. certificato di malattia).

Le USCA sono composte da personale medico, svolgono un servizio attivo 7 giorni su 7, dalle ore 8.00 alle ore 20.00 e dispongono di auto aziendali esclusivamente dedicate.

Al personale USCA viene assicurata formazione, in particolare sulle problematiche clinico-assistenziali in caso di COVID-19, modalità di esecuzione tamponi nasali, tecniche ecografiche di base per esecuzione ecografia polmonare, sull’utilizzo dei Dispositivi di Protezione Individuale e sulle modalità di smaltimento dei rifiuti potenzialmente infettivi. 

Assistenza domiciliare, in ritardo le unità speciali anti-Covid. Le Usca (Unità speciali di continuità assistenziale) istituite con il decreto sanità dello scorso marzo seguono i casi sospetti o conclamati di Covid-19 direttamente a casa. Ma sono state attivate a singhiozzo in 15 Regioni. Andrea Gagliardi il 7 maggio 2020 su "ilsole24ore.com".

Fase 2: le "Unità cure a casa" coprono solo un terzo degli italiani. L’assistenza domiciliare è considerata cruciale nella fase 2 di ripartenza, anche per prevenire nuove situazioni di intasamento di ospedali e Pronto soccorso nel caso in cui nuovi ed estesi focolai epidemici dovessero riaccendersi sul territorio. Ecco perché il governo ha puntato sulle cure a casa per i malati di Covid in isolamento domiciliare che non hanno bisogno di essere ricoverati. E nel nuovo decreto maggio atteso per il fine settimana è previsto, tra l’altro, un potenziamento delle Usca (Unità speciali di continuità assistenziale, create con il decreto sanità dello scorso 9 marzo), che assistono i malati porta a porta ma che sono state attivate a singhiozzo in 15 Regioni (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d'Aosta, Sicilia, Toscana, Veneto, Lazio, Friuli Venezia Giulia e Calabria). Si tratta di piccoli team di camici bianchi, dotati di tutte le protezioni previste, seguono i casi sospetti o conclamati di Covid-19 direttamente a casa.

Circa 500 medici coinvolti. Le Unità speciali anticovid sono oltre 400 sul territorio nazionale, ma non bastano. Secondo i dati della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg), sono circa 500 i medici impegnati nelle Usca. Pochi per seguire gli oltre 70mila malati di Covid a casa e monitorare i possibili futuri casi. Le Usca, rileva la Fimmg, dovrebbero dunque essere 1200 su tutto il territorio italiano, con circa 2500 medici, ed il sistema avrebbe dovuto essere completato a livello nazionale entro aprile. Tuttavia, avvertono i medici di famiglia, «siamo ancora lontani».

Competenze non uniformi. Non si tratta solo di numeri. Un'interpretazione diversificata si ha anche rispetto al ruolo che le Usca devono avere: «In alcune Regioni vengono impiegate essenzialmente per l'esecuzione dei tamponi, in altre - afferma il segretario Fimmg Silvestro Scotti - svolgono invece una vera attività integrata di cure domiciliari insieme ai medici di famiglia».

Compiti ampliati in Lombardia. In Lombardia le Usca sono operative già da marzo ma adesso i loro compiti si apprestano ad essere ampliati: le squadre composte da medici e infermieri potranno infatti effettuare anche i tamponi a domicilio, possibilità fino ad oggi non prevista. Sono almeno 35 quelle attive in Piemonte (dato di aprile). Vi lavorano 376 medici e 21 infermieri. Sono 48 in Veneto, ed hanno attualmente in carico oltre 1.800 pazienti Covid, seguiti a domicilio anche per la somministrazione dei farmaci.

Emilia Romagna prima regione ad attivarsi. In Friuli Venezia Giulia tutte le aziende del sistema sanitario hanno messo in campo sia Covid team sia le Unità speciali di continuità assistenziale, delle quali fanno parte 72 medici. In Emilia Romagna, prima regione a dare la caccia al virus 'casa per casa', le Usca sono attive in tutte le province, con sei squadre solo a Bologna. In Valle d'Aosta sono tre, mentre nel territorio della Asl Toscana Centro, competente per Firenze, Prato e Pistoia, le Usca nel mese di aprile hanno eseguito oltre 1700 tamponi su sospetti casi Covid ed effettuato 4219 visite a domicilio. Nelle Marche sono operative 19 Usca che effettuano i controlli domiciliari dei malati o sospetti contagiati di Covid-19 e, ove necessario, i tamponi per la verifica della positività al virus.

Puglia in ritardo. Nel Lazio le Usca sono in funzione dal 20 aprile ed effettuano già circa mille tamponi al giorno con 800 professionisti, in modalità drive in anche sui camper, per 'stanare' eventuali nuovi casi. Sono invece 14, sulle 35 previste dalla Regione, le Usca in Calabria. In particolare sono già state attivate le 11 Usca previste nel territorio di competenza della Azienda sanitaria provinciale di Cosenza, e le tre di Crotone. In Sardegna su 32 previste, hanno iniziato già a lavorare quelle di Alghero, Ozieri, Sassari e Barisardo. La prossima sarà la Usca di Cagliari. Gli operatori sanitari intervengono a domicilio subito dopo la segnalazione dei casi sospetti, da parte dei medici di base o dei pediatri . In Puglia le 80 Usca previste ancora non funzionano, per un problema di reclutamento di medici che in pochi hanno aderito al bando. Nonostante tutto, le prime Usca potrebbero, secondo le previsioni della Regione, entrare in attività entro la fine della settimana.

Coronavirus. Le Unità speciali di continuità assistenziale sono attive solo in 12 Regioni. A loro il compito di assistere i positivi a casa. Indagine Fimmg per Quotidiano Sanità, Luciano Fassari il 12 aprile 2020. Le Usca, istituite col Decreto legge 14 del 9 marzo, dovevano essere attivate entro il 20 marzo da tutte le Regioni e PA per gestire la sorveglianza dei malati di Covid in isolamento domiciliare (quasi 70mila in tutta Italia secondo i dati di ieri). Ma alla loro attivazione mancano ancora molte Regioni e tra quelle che le hanno già messe in campo (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana e Veneto) si registrano molte differenze su come gestirle e sulle loro funzioni. Sono state previste dal Decreto legge 14/20 del 9 marzo e dovevano essere attivate entro 10 giorni da quella data. Ma la realtà è che le Unità speciali di continuità assistenziali (Usca) ad oggi sono state attivate da 12 Regioni su 21 e come consuetudine, ognuna ha scelto una strada diversa, come rileva il sindacato dei medici di famiglia Fimmg in una indagine sulla situazione nelle varie Regioni effettuata in collaborazione con Quotidiano Sanità. Ad oggi (dati aggiornati all'8 aprile) le Usca risultano attive in Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Campania, Liguria, Lombardia, Marche, Piemonte, Valle d’Aosta, Sicilia, Toscana e Veneto.

Ma facciamo prima un passo indietro e chiariamo cosa sono le Usca e cosa prevedeva il Decreto legge.

Le Usca vanno istituite presso una sede di continuità assistenziale già esistente e ne dev’essere costituita una ogni 50.000 abitanti (anche se le Regioni nelle loro linee guida lasciano margini di discrezionalità in considerazioni delle differenze territoriali).

Il loro compito è la gestione domiciliare (consulto telefonico, video consulto, visite domiciliari) dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero che stando agli ultimi dati sono quasi 70mila persone. Insomma, le Usca dovrebbero avere il compito di essere le sentinelle sul territorio per monitare i pazienti affetti da Covid.

L'unità speciale dev’essere costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell'unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all'ordine di competenza. In alcune regioni si è data possibilità di partecipazione anche ai Medici di Famiglia, Pediatri di Libera Scelta e medici dell’Emergenza territoriale 118.

L'unità speciale dev’essere attiva sette giorni su sette, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, e ai medici per le attività svolte nell'ambito della stessa è riconosciuto un compenso lordo di 40 euro ad ora.

L’analisi Fimmg. “La situazione nazionale appare variegata” precisa la Fimmg evidenziando come “la partecipazione dei medici, su base volontaria, vede impegnati soprattutto medici di Continuità Assistenziale (MCA), medici in Formazione (MIF) o medici abilitati (MA), reclutatati con diverse modalità dalle Regioni”.

Bandi regionali e bandi aziendali.“In alcuni casi – dalla rilevazione - è stato previsto un bando Regionale, in altri si è optato per bandi aziendali, altri ancora hanno previsto forme di adesione interna, con interpello di medici già operanti nell’ASL o tramite autocandidature”.

Copertura assicurativa differente. La Fimmg rileva che “essendo l’attività delle USCA riconosciuta come attività “convenzionata”, la copertura assicurativa in molte Regioni è quella prevista dall’ art. 73 ACN vigente (Emilia Romagna, Piemonte, Valle D’Aosta, Sicilia, Veneto). Fanno eccezione l’Abruzzo, la Basilicata, la Lombardia e la Campania nelle quali la copertura assicurativa non viene espressamente citata negli accordi e sarà, probabilmente, demandata alla contrattazione delle singole ASL/ASP. In ultimo, la bozza proposta per le Marche inserirebbe l’INAIL per infortunio sul lavoro, mentre la Regione Toscana nel bando riporta la seguente dicitura: “copertura assicurativa per i rischi di salute per il medico e verso terzi” senza ulteriore specificazione”.

Trattenute pensionistiche e fiscali. Per quanto riguarda invece la previdenza e le trattenute fiscali il sindacato rimarca come “fatta eccezione per i documenti istitutivi di Campania, Lombardia, Umbria e Valle D’Aosta, per le quali nulla non è specificato nulla negli accordi (ipotizziamo vengano lasciate alla contrattazione aziendale), in tutte le altre Regioni, essendo riconosciuta come attività convenzionale, viene remunerata esattamente come per i MCA, con trattenuta IRPEF e relativo versamento Enpam”.

Tamponi non per tutti i medici.“Tutti i bandi/accordi Regionali  -specifica l’analisi - affrontano il tema della sicurezza sul lavoro e dettagliano l’uso dei Dispositivi di Protezione Individuale, elemento previsto per altro dal D.L. n. 14 del 9 marzo 2020. Solo in una azienda è invece prevista la sorveglianza sanitaria a favore dei medici: la AUSL della Romagna ha stabilito l’esecuzione di tamponi per i medici delle USCA. In Sicilia e Lombardia viene data la possibilità dell’esecuzione dei tamponi previa verifica di fattibilità”.

Sperimentazioni protocolli farmaceutici solo in alcune Regioni. Per i medici delle USCA di Lombardia e Toscana si è altresì previsto un programma clinico-operativo molto ben dettagliato, con anche la possibilità di sperimentare protocolli farmaceutici. Si rimarca comunque la centralità del Medico di Famiglia (e del Pediatra di libera scelta) nella gestione del paziente di cui di fatto è responsabile, soprattutto in alcune Regioni, su tutte Sicilia e Campania.

Il problema di come garantire la sicurezza degli operatori sanitari.“Una criticità che ci viene spesso segnalata- dichiara Tommasa Maio, Segretario Nazionale FIMMG CA- è la scelta di prevedere la condivisione di autovetture, strumenti e ambienti con i medici della Continuità Assistenziale senza alcuna garanzia di protocolli per la sanificazione degli stessi dopo ogni turno e senza garantire il distanziamento interpersonale tra i medici. Questa fatto appare ancora più grave se si considera che buona parte di questi medici sarà quotidianamente esposto al contatto con malati Covid positivi e quindi al rischio di contagio in assenza di qualsivoglia sorveglianza sanitaria che invece dovrebbe essere garantita a tutti. In Lombardia si è arrivati a lasciare in servizio personale sanitario positivo finché asintomatico. Il prezzo che ha pagato la medicina generale in termini di decessi è evidente. Nessuno però quantificherà mai quanti pazienti siano stati contagiati da operatori sanitari positivi.”

Covid. Quanto ci costi?

QUANTO CI COSTA IL COVID. PER OGNI PAZIENTE AMMALATO SI SPENDONO DAI 9MILA AI 22MILA EURO. I CALCOLI DELL’UNIVERSITÀ CARLO CATTANEO: UNA GIORNATA DI DEGENZA COSTA 427,77 EURO PER UN MALATO A BASSA INTENSITÀ DI CURA E 582,38 PER LA MEDIA. PER L’ALTA INTENSITÀ SI ARRIVA INVECE A…

FA per “il Giornale” il 2 luglio 2020. L'epidemia di Covid 19 ha messo sotto stress il nostro sistema sanitario. Nelle regioni più colpite dal coronavirus è stato necessario riorganizzare i reparti di terapia intensiva; creare percorsi dedicati nelle accettazioni e nei pronto soccorso; smantellare interi dipartimenti per riadattarli ad ospitare i pazienti Covid. Ma quanto è costato questo sforzo? Per ogni paziente a seconda della gravità delle sue condizioni e della complessità degli interventi si va dai 9mila ai 22mila euro. A fare i conti il laboratorio Healthcare Datascience della Università Carlo Cattaneo in collaborazione con l'Azienda Ospedaliera Nazionale SS. Antonio e Biagio e C. Arrigo di Alessandria e In.Ge.San (Associazione Ingegneri Gestionali in Sanità). Insieme hanno condotto una valutazione sui costi del percorso ospedaliero del paziente Covid nel periodo che va dal 28 febbraio al 15 aprile. Lo studio ha preso in considerazione le ospedalizzazioni dividendole in tre macrogruppi a seconda del livello di assistenza e quindi di risorse richiesto: intensità di cure bassa, media ed alta. Oltre alle attrezzature di supporto necessarie per qualsiasi polmonite (ventilatori etc) sono state presi in considerazione anche le spese relative ai dispositivi di protezione individuale. Nel caso di questa struttura l'acquisto di mascherine, camici e grembiuli monouso, guanti e visiere la spesa è stata di 47.793 euro mentre per le apparecchiature tecniche per il supporto respiratorio sono stati spesi 454.375 euro. È stato poi fatto un calcolo sul costo della giornata di degenza con tre scalini: 427,77 euro per il paziente a bassa intensità di cura; 582,38 per la media intensità; 1.278,50 per l'alta intensità. In media i pazienti Covid hanno avuto in questa struttura una degenza di 19,41 giorni. Su questa base dunque è stato calcolato il costo per i pazienti con una degenza di 15,5 giorni caratterizzati da un passaggio da area a bassa intensità di cura/complessità assistenziale ad alta intensità di cura/complessità assistenziale. In questo quadro la spesa è stata di 14.873,48 euro. Per una degenza media di 17,45 giorni caratterizzata da un passaggio da un reparto a bassa intensità di cura/complessità assistenziale a un reparto a media intensità di cura/complessità assistenziale (terapia sub-intensiva), si riscontra un assorbimento medio di risorse economiche pari a 9.157 euro. Per le degenze in terapia sub- intensiva e intensiva con una media complessiva di 23,21 giorni la spesa è ovviamente molto più alta, pari a 22.210,47 euro in media. Nei periodi di picco dell'epidemia i posti di terapia intensiva occupati erano circa 4.000. Già alla fine di maggio quando negli ospedali si era abbassata la pressione causata dai ricoveri conseguenti al Covid l'Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell'Università Cattolica di Roma, aveva analizzato i dati sui costi dei ricoveri da coronavirus in Italia che in quel momento erano 144.658 stimando una spesa globale pari a 1.226.137.474 di euro. Il 33 per cento dei costi ricadeva sulla sola Lombardia la regione con il maggior numero di contagiati.  

·        La Sanità tagliata.

Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici, e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No!  No. Non perchè,  per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia,  ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

La Sanità che ci meritiamo. Né ospedali, né medici, né infermieri.

Barbara Palombelli su “Stasera Italia”, di Rete 4° del 6 novembre 2020: Si è tagliato la spesa sanitaria ed adottato il numero chiuso per l’accesso alle professioni sanitarie.

Alberto Magnani per 24plus.ilsole24ore.com l'8 dicembre 2020. Sempre più laureati e medici, sempre meno professionisti nella sanità pubblica. Il paradosso è diventato esplosivo con la pandemia di Covid-19, l’emergenza che ha messo in risalto una fragilità denunciata da anni: la carenza di risorse nel Servizio sanitario nazionale, l’insieme dei servizi e delle attività per la salute pubblica dei cittadini. Il sistema sembra già sull’orlo dell’implosione, con scenari anche più cupi sul breve termine. Secondo le stime di Anaao-Assomed, un’associazione che raccoglie i medici dirigenti, il sistema sanitario nazionale rischia di fare i conti con un deficit dai 10mila ai 24mila camici bianchi nell’arco di un quadriennio. Ma in Italia c’è davvero una «carenza di medici», o è un problema che si manifesta solo nelle strutture pubbliche? E come si è venuto a creare il gap?

Un confronto con la Ue:i medici ci sono. Iniziamo dalla prima domanda. Rispetto agli standard europei, l’Italia non è sprovvista di medici. Anzi. Una ricerca dell’agenzia Eurostat dell’agosto 2020 evidenzia che il nostro è il secondo paese con più medici in assoluto su scala Ue: circa 240mila sugli 1,7 milioni registrati nella Ue a 27, dietro solo alla Germania (357mila, il 21,1% del totale) e davanti a Francia (212mila) e Spagna (188mila). Il dato, a quanto rileva l’Istat, è andato in crescita negli anni, con un incremento di 5.370 unità rispetto ai 234.918 camici bianchi conteggiati nel 2013. Il bilancio si fa meno eclatante dando un occhio al rapporto con la popolazione: 397 medici ogni 100mila abitanti secondo Eurostat o 3,1 medici ogni 1000 abitanti secondo Istat. Una proporzione che colloca comunque l’Italia in una fascia intermedia fra i picchi raggiunti da paesi come la Grecia (610 medici ogni 100mila abitanti) e i minimi degli unici due stati Ue sotto la soglia dei 300: Lussemburgo e Polonia, rispettivamente fermi a 298 e 238 medici ogni 100mila abitanti.

La carenza di medici nella sanità pubblica. Il problema, semmai, è che la disponibilità complessiva di medici non si riflette negli organici della sanità pubblica. Nel 2017 il Ministero della Salute conteggiava 104.979 medici assunti a tempo indeterminato nel servizio sanitario nazionale fra Asl, aziende ospedaliere ed universitarie, istituti di ricovero e cura a carattere scientifico pubblici, Ares (Agenzia regionale sanitaria) ed Estav. L’equivalente di 1,7 medici ogni 1000 abitanti, con un calo di 3.401 medici rispetto ai dati del 2012. Nel 2018 l’Anaao ha registrato una carenza di circa 6.200 medici e 2mila dirigenti sanitari rispetto al 2009, l’anno di maggiore dotazione del servizio sanitario nazionale. Lo scenario si è inasprito con l’arrivo del Covid, visto che la pandemia è esplosa in coincidenza «con il punto più alto della curva pensionistica dei medici dipendenti del SSN, oramai arrivato a circa 6mila-7mila quiescenze ogni anno» dice Carlo Palermo, Segretario Nazionale Anaao Assomed. Non aiuta, in questo senso, che l’età media del personale sia fra le più elevate d’Europa. Sempre nel 2017, secondo le ultime statistiche del ministero della Salute, i medici fra i 30 e i 39 anni assunti a tempo indeterminato rappresentavano appena l’11,3% del totale, contro il 23,9% della fascia 40-49 anni, il 36,7% della fascia 50-.59 anni e il 23,6% nella fascia 60-64 anni. Un dato che assegna all’Italia il primato di medici più anziani su scala Ue, come ricorda Eurostat, evidenziando una quota di over 55 pari al 56% del totale. L’esito è che nel quadriennio 2019-2023 si potrebbe arrivare a un deficit di 10:173 medici, il frutto dello squilibrio fra 32.501 pensionamenti , scrive Anaao, e gli appena «22.328 nuovi specialisti che opteranno per il Ssn, il 66% del totale annuo». E la stima è prudenziale. Se si considerano la carenza pregressa di oltre 6.200 camici bianchi e la necessità di almeno 4mila specialisti per fronteggiare l’emergenza di Covid, l’ammanco può lievitare a 24mila medici entro il 2023.

Problema uno: l’imbuto formativo. Fin qui i numeri e l’intoppo, evidente, fra del ricambio generazionale. Ma da cosa nasce il dislivello? La prima tesi, quella di Anaao, è che il cortocircuito nasca da un «decennio fallimentare nella programmazione dei fabbisogni specialistici», con un rapporto sbilanciato fra i pensionamenti e il numero di contratti formativi finanziati (vale a dire i contratti per le specializzazioni e le borse per la Medicina generale, quelle per la formazione dei medici di famiglia). Insomma, le uscite non si sono accompagnate a un numero adeguato di contratti di formazione che tenesse conto sia del fabbisogno del sistema che del totale di neolaureati in arrivo dalle università. È quello che Anaao ha ribattezzato «imbuto formativo». «Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi circa 12mila neolaureati, rimasti imprigionati in un limbo fatto di precarietà e svilimento professionale - dice Palermo di Anaao - tanto che ogni anno circa 1.500 di loro preferisce emigrare». Il gap è destinato ad allargarsi, visto che negli anni gli accessi al numero chiuso per il corso di laurea in Medicina sono cresciuti a un ritmo decisamente superiore rispetto a quello dei contratti di specializzazione. I posti a numero programmato sono lievitati dai 7.547 del 2008 ai 13.072 del 2020-2021, mentre i contratti specialistici e le borse per la medicina generale sono cresciuti a un ritmo decisamente più blando: rispettivamente, da 5mila a 7.317 (con un incremento una tantum di 5.400 posizioni nel solo 2019-2020, portando il totale a 13.400) e da 851 a 1.500. Per il 2020-2021 si attendono almeno 22mila iscritti (12mila neolaureati e 10mila candidati che ripetono il concorso) a fronte di 10mila posti disponibili. Sempre che il «concorsone» vada in porto nei tempi stabiliti, a differenza di quanto si è verificato nell’anno in corso: gli oltre 20mila candidati per la selezione del 2019-2020 sono a tutt’ora in attesa delle proprie assegnazioni, dopo che la pubblicazione delle graduatorie è stata rinviata dal 30 novembre al 15 dicembre.

Problema due: il deflusso verso il privato. Una seconda angolatura del problema emerge già dalle stime di Anaao: “solo” il 66% degli specialisti opta per il servizio pubblico. E il resto? Una fra le destinazioni alternative è la sanità privata, industria cresciuta fino a diventare concorrenziale a quella pubblica. Secondo stime del Ministero della Salute si conteggiavano, sempre nel 2017, 12.255 medici nelle strutture «equiparate al pubblico», 24.213 medici nelle case di cura convenzionate e 3.326 medici nelle case di cura non convenzionate. In totale si parla di 39.794 professionisti operativi nel settore privato: una cifra pari a oltre un terzo di quelli assunti nel pubblico, anche se le due categorie non si escludono a vicenda. Ai medici assunti tout court in istituti privati si sommano, infatti, quelli che operano in un regime di libera professione: una condizione che permette di prestare servizio sia in strutture ospedaliere pubbliche che in realtà private, senza vincoli di esclusiva con il Ssn. Dati forniti da Anaao rivelano, ad esempio, che l’80% dei medici in servizio presso case di cura nel 2018 rientrava nelle categoria dei liberi professionisti. Raggiunta dal Sole 24 Ore, l’Associazione italiana ospitalità privata non ha potuto fornire dati aggregati sul totale di medici operativi nelle strutture equiparate al pubblico.

Problema tre: la carenza di alcune specializzazioni. Un terzo problema è che la carenza può essere, a volte, qualitativa. Nel senso che mancano all’appello alcune specializzazioni, ancora più preziose in un periodo di emergenza sanitaria come quella esplosa da quasi un anno. Il caso più evidente è quello degli anestesisti-rianimatori. L’Istat registrava nel 2018 un totale di 12.966 anestesisti, l’equivalente di 0,21 specialisti ogni 1000 abitanti. Prima della pandemia, il sindacato medico Aaroi-Emac stimava una carenza di almeno 4mila anestesisti-rianimatori negli ospedali italiani. Oggi il “buco” sembrerebbe essersi ridimensionato con le misure di emergenza, come il ricorso agli specializzandi degli ultimi due anni, ma la crisi sanitaria «rende inalterato il gap tra necessità e personale disponibile in questa specializzazione» spiega il presidente Aaroi-Emac Alessandro Vergallo. Le associazioni denunciano una carenza di posti per la specializzazione, marcata pure per un’altra categoria sensibile come quella della Medicina di urgenza. Ma anche in questo caso, l’insufficienza di borse di studio rivela solo parte di un problema più vasto: la disciplina è tutt’altro che in cima alle scelte dei neo-dottori, attratti - legittimamente - da branche più remunerativi e meno logoranti. In media, spiega Vergallo, una quota pari ad almeno il 10-15% degli specializzandi abbandona dopo il primo anno per ritentare il concorso verso altri ambiti. Lo scarso appeal della disciplina deriva da una lunga serie di fattori. «In primo luogo la tipologia di lavoro, particolarmente stressante, che richiede, oltre alle competenze professionali in senso stretto, una speciale attitudine ad affrontare quotidianamente emergenze tempo dipendenti in cui c'è di mezzo la vita dei pazienti - dice Vergallo - Ma un altro punto sono le condizioni lavorative. Lavorare per oltre dieci anni in carenza di organico ha determinato condizioni lavorative decisamente difficili, che si ripercuotono negativamente sulla vita privata e familiare più che in ogni altro ambito specialistico». Lo sforzo non è gratificato più del dovuto a livello economico, se è vero che gli anestesisti italiani sono pagati in media il 30% in meno dei colleghi europei. Per l’anno in corso, il ministero ha predisposto 1.600 borse per la specialità. Una buona notizia, se non fosse che Vergallo teme che «le implementazioni delle borse di studio vadano in gran parte deserte, così come per la specializzazione in Emergenza-Urgenza». La soluzione per attrarre nuovamente risorse è, anche, quella più pragmatica: «Operare una differenziazione contrattuale specifica anche sotto il profilo economico di professionisti che di fatto dedicano tutta la vita in ospedale al servizio dei cittadini».

DATAROOM. Covid, carenza di medici specialisti: un documento l’aveva previsto 10 anni fa. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2020. Il 30 novembre i 23.671 neolaureati in Medicina candidati per entrare in specialità sapranno chi è riuscito ad aggiudicarsi i 14.980 contratti di formazione finanziati dal Governo (e in parte minoritaria anche da Regioni ed enti privati). Il 30 dicembre i nuovi specializzandi inizieranno i corsi che dopo 4-5 anni li porteranno ad essere cardiologi, neurologi, ginecologi, virologi, ecc. Quest’anno il numero di contratti di formazione è decisamente più alto rispetto all’anno precedente: più +75%. In crescita soprattutto le specializzazioni di cui l’emergenza Covid ha mostrato la carenza. Medicina d’emergenza passa da 458 a 975 contratti di formazione (+113%), anestesisti da 929 a 1.697 (+83%), Malattie infettive da 104 a 344 (+231%), microbiologi da 25 a 122 (+ 388%), Patologia clinica, cioè medici di laboratorio, da 86 a 226 (+ 163%), e medici statistici da 3 a 29 (più 867%). Come abbiamo detto quest’esercito di medici sarà formato fra 4 0 5 anni, e quindi potrà fare ben poco in un momento così drammatico. Il dato di fatto è che i 115 mila medici al lavoro nelle corsie degli ospedali, che già erano già insufficienti negli anni scorsi, ora non riescono più a coprire i turni, perciò hanno dovuto richiamare in servizio i pensionati, ed è stata necessaria una definizione di nuove norme per l’emergenza Covid, che consenta già oggi di assumere gli specializzandi a cui mancano ancora due anni per terminare gli studi. Ma perché mancano specialisti?

L’allarme inascoltato. La pandemia ha travolto corsie d’ospedale già sguarnite. Per capirlo bisogna fare un passo indietro. È il 2011 quando l’Anaao, l’associazione di categoria che rappresenta i dirigenti medici e sanitari, lancia l’allarme rosso sulla mancanza di specialisti con un documento che purtroppo oggi si sta rivelando profetico: nel 2021 – è la previsione – mancheranno 30 mila medici ospedalieri. Il conto è presto fatto, anche se per forza di cose si tratta di stime: i medici in quel momento stanno scegliendo di andare in pensione a 62 anni di età e con 37 anni di anzianità. In base ai dati della Cassa pensioni sanitari Inpdap dal 2012 al 2021 avrebbero acquisito il titolo per andare in pensione 61.300 medici del sistema sanitario nazionale, cioè i nati tra il 1950 e il 1959. Facciamo due conti: con le borse di studio ferme a cinquemila l’anno, e considerando che poi solo il 75% dei neo-specialisti resta nel SSN (gli altri scelgono la strada della libera professione, del privato convenzionato, la carriera universitaria o quella di ricercatori), significa immettere una forza lavoro di 35 mila nuovi specialisti in 10 anni (3.500 l’anno), ossia poco più della metà dei possibili pensionandi.

L’andamento dei contratti di formazione. Una volta avvisati, coloro che negli anni si sono succeduti al governo, e soprattutto ai Ministeri della Salute e dell’Istruzione, hanno aumentato i contratti di formazione in modo da programmare gli ingressi in base alle possibili uscite? No. Fino al 2012 si rimane stabili sui cinquemila contratti di formazione. Nel 2013, con la Finanziaria del governo Monti del dicembre 2012 (anno della spending review), i posti addirittura scendono a 4.844 (- 3%). La diminuzione dei contratti di formazione va di pari passo con il taglio dei posti-letto: da 4,2 posti-letto ogni mille abitanti nel 2000 a 2,8 posti-letto nel 2013. Oggi nel nostro Paese sono 3,2 contro una media Ue di 4,7; il record è del Giappone che di posti letto per mille abitanti ne ha 13,1, seguito dalla Corea del Sud e dalla Germania con 8. Dal 2014 i contratti di formazione iniziano a salire: 5.748, che diventano 6.940 nel 2016, poi 7.078 nel 2018, e 8.583 lo scorso anno. Il loro finanziamento più che raddoppia, passando da poco più di 627 milioni di euro nel 2014 a oltre 1 miliardo nel 2019, per un incremento del totale di borse di studio del 59%. Ancora una volta gli ingressi non sono programmati in base alle possibili uscite. La domanda si ripropone: ma, allora, perché oggi gli specialisti non bastano? In quegli anni in contemporanea cambiano le regole pensionistiche. Con la riforma Fornero del 2012 si va in pensione con 42 anni e 10 mesi di contributi per i maschi, e 41 e 10 mesi per le donne. Tra pensione di anzianità (anticipata) e di «vecchiaia» escono mediamente dal sistema coloro che compiono i 65 anni. Vuol dire che nel 2015 escono i nati nel 1950, nel 2018 quelli del 1953, ecc. Ancora una volta gli ingressi non sono programmati in base alle possibili uscite.

Il saldo negativo tra pensionati e nuovi specialisti. Vediamo cosa è successo negli ultimi sei anni, ricordando sempre che un medico neolaureato che entra nella scuola di specialità sarà formato 4-5 anni dopo. Incrociando i dati dei prevedibili pensionati dal 2015 ad oggi, con il numero di specializzandi pronti nello stesso anno a prendere il loro posto, il risultato è questo: pensionabili 37.800, a fronte di 24.752 specializzati pronti per entrare nel SSN. La stima di quanti medici in meno sono stati formati rispetto a chi è andato in pensione è di 13.048. A questa cifra bisogna aggiungere il numero di contratti di formazione che vengono persi per abbandono: più o meno 500 ogni anno. Se oggi non si trovano i medici di cui ci sarebbe bisogno, altro non è che la conseguenza della programmazione sbagliata di quegli anni.

Il blocco del turnover. Possibile che in questi anni i tecnici dei Ministeri e dei governi non siano stati capaci di fare i conti e un minimo di previsione fra chi entra e chi esce? In realtà i conti li hanno fatti benissimo, e l’obiettivo è stato quello di mirare al risparmio nell’immediato. Infatti il costo per lo Stato nella formazione di ogni singolo specializzando è un investimento sul futuro, e va da 102 a 128 mila euro, ma pesa sui bilanci del momento. E allora si è scelto di scaricare su chi viene dopo la carenza di personale. Tutto questo va di pari passo con i tagli: il turnover in Sanità viene bloccato dal 2005 (art. 1 comma 198), con il governo Berlusconi 2, Prodi 2, Berlusconi 3, Monti, Letta, Renzi. Solo nel 2019, con il provvedimento voluto dal ministro Giulia Grillo, è stato possibile sbloccare il vincolo di spesa, ancora legato a un tetto fisso, pari al budget del 2004 meno l’1,4%.

Scelte controsenso. Il numero dei contratti di formazione finanziati dal Governo si è orientato al ribasso anche rispetto al numero di neolaureati in Medicina. È quello che in gergo tecnico viene definito «imbuto formativo», ovvero la differenza tra il totale dei laureati e i posti disponibili nei corsi di formazione post-laurea (specialità più corsi di formazione per medici di medicina generale). Negli ultimi dieci anni sono rimasti esclusi 11.652 neolaureati, e la beffa è che oltre a mortificare la loro professionalità, rientrano comunque nei conteggi del numero di medici che portano l’Italia ad avere 4 medici ogni mille abitanti al di sopra della media dell’Unione che è di 3,5. La buona notizia è che oggi i contratti di formazione sono in aumento, ma paradossalmente i nuovi specialisti saranno pronti nel 2024-2025, quando il numero di pensionati in uscita è destinato a scendere. Intanto oggi, nel pieno della pandemia, siamo costretti a richiamare i «soggetti fragili», facendo appello alla loro compassione e buon cuore.

Ospedali: non solo soldi, l’emergenza attuale è la mancanza di personale. Francesco Caroli, Agitatore culturale, su Il Riformista il 27 Ottobre 2020. “Soldi, soldi, soldi… sempre di più!” è questo il mood che da sempre va avanti in Italia ed in particolare sul tema sanità. Ma cosa succederebbe se scoprissimo che proprio in sanità in questo momento i soldi non sono tutto? Chi vive gli ospedali, infatti, sa bene che in queste settimane la difficoltà più grande riguarda la mancanza di professionisti, non di denaro: medici, infermieri, tecnici, Oss sono praticamente esauriti. Il collo formativo del numero chiuso delle Università e la carenza di borse di specializzazione hanno generato un deficit di disponibilità di forza lavoro qualificata (e autorizzata a compiere specifiche mansioni all’interno delle strutture sanitarie). In questo modo, i calcoli che per anni hanno determinato quanti professionisti immettere nel mercato sono andati all’aria in seguito allo shock Covid. Ma c’è di più: studiando i numeri, scopriamo che sono anni che i professionisti scarseggiano e che in tanti hanno fatto finta di non vedere un problema reale. A questo, si aggiunge una burocrazia vecchia, pesante e lenta nel percorso di reclutamento di unità lavorative oltre al mancato turnover dei pensionamenti. Così, oggi ci ritroviamo milioni di disoccupati chiusi in casa e carenza di professionisti sanitari disponibili a lavorare in ospedale da subito. Per anni ad un invecchiamento inesorabile della popolazione e quindi all’aumentare oggettivo della necessità di assistenza sono stati corrisposti tagli su tagli al personale e un’assenza totale di progettualità effettiva nel sistema formativo. E ciò è avvenuto con la scusa dell’elevato numero di dipendenti nel SSN, frutto del conteggio unitario tra personale sanitario e amministrativo (effettivamente più elevato delle medie dei grandi paesi occidentali). Ma non mancano solo medici, infermieri, tecnici e oss nei nostri ospedali, faticano a trovare spazio anche le nuove figure professionali necessarie ad un approccio medico moderno nella figura di informatici, chimici ed ingegneri biomedici. A questi deficit si aggiunge, poi, la carenza per limiti culturali delle figure organizzative sanitarie con l’illusione culturale, tutta italiana, che i gruppi di persone a lavoro si debbano autoregolamentare e autogestire. Il paradosso della carenza di professionisti sanitari “disponibili” e i tantissimi disoccupati in circolazione è frutto di un fenomeno chiamato mismatch delle competenze. Il fenomeno, che ora riguarda la sanità, nell’immediato futuro riguarderà tanti altri settori, poiché è la vera emergenza di questo secolo. A questo si aggiunge il fenomeno della mobilità dei sanitari. Spesso, infatti, per accedere alle facoltà sanitarie a numero chiuso molti si spostano per studiare e iniziano poi a lavorare lontano “da casa”. Così, la voglia di “tornare” ma, anche e soprattutto, la precarietà dei contratti portano a un walzer continuo nei gruppi di lavoro con un costo per formazione e inserimento, spesso ignorato, ma rilevante in termini economici e organizzativi. Per tutte queste ragioni, occorrere intervenire aumentando l’immissione di professionisti nel mercato attraverso l’apertura delle università, ma l’emergenza è oggi e non possiamo permetterci di aspettare. Per questo, occorrono soluzioni d’emergenza con evidenti forzature a tutto quello che è stato concepito fino ad ora. Ovvia e scontata appare la necessità di intervenire per l’estinzione del precariato in sanità e un adeguamento dei compensi dei sanitari che non possono ritrovarsi a dover affrontare moli di lavoro e rischi enormi (per sé e per i pazienti) guadagnando quanto chi si ritrova in CIG. In via eccezionale, si potrebbe proporre un “salto di mansioni al livello superiore” nelle varie prof