Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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IL COGLIONAVIRUS
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL VIRUS
INDICE PRIMA PARTE
IL VIRUS
Introduzione.
Le differenze tra epidemia e pandemia.
I 10 virus più letali di sempre.
Le Pandemie nella storia.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
La Temperatura Corporea.
L’Influenza.
La Sars-Cov.
Glossario del nuovo Coronavirus.
Covid-19. Che cos’è il Coronavirus.
Il Coronavirus. L’origine del Virus.
Alla ricerca dell’untore zero.
Le tappe della diffusione del coronavirus.
I 65 giorni che hanno stravolto il Mondo.
I 47 giorni che hanno stravolto l’Italia.
A Futura Memoria.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Sintomi. Ecco come capire se si è infetti.
Fattori di rischio.
Cosa risulta dalle Autopsie.
Gli Asintomatici/Paucisintomatici.
L’Incubazione.
La Trasmissione del Virus.
L'Indice di Contagio.
Il Tasso di Letalità del Virus.
Coronavirus: A morte i maschi; lunga vita alle femmine, immortalità ai bimbi.
Morti: chi meno, chi più.
Morti “per” o morti “con”?
…e senza Autopsia.
Coronavirus. Fact-checking (verifica dei fatti). Rapporto decessi-guariti. Se la matematica è un'opinione.
La Sopravvivenza del Virus.
L’Identificazione del Virus.
Il test per la diagnosi.
Guarigione ed immunità.
Il Paese dell’Immunità.
La Ricaduta.
Il Contagio di Ritorno.
I preppers ed il kit di sopravvivenza.
Come si affronta l’emergenza.
Veicolo di diffusione: Ambiente o Uomo?
Lo Scarto Infetto.
INDICE SECONDA PARTE
LE VITTIME
I medici di famiglia. In prima linea senza ordini ed armi.
Dove nasce il Focolaio. Zona rossa: l’ospedale.
Eroi o Untori?
Contagio come Infortunio sul Lavoro.
Onore ai caduti in battaglia.
Gli Eroi ed il Caporalato.
USCA. Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
Covid. Quanto ci costi?
La Sanità tagliata.
La Terapia Intensiva….Ma non per tutti: l’Eutanasia.
Perché in Italia si ha il primato dei morti e perchè così tanti anziani?
Una Generazione a perdere.
Non solo anziani. Chi sono le vittime?
Andati senza salutarci.
Spariti nel Nulla.
I Funerali ai tempi del Coronavirus.
La "Tassa della morte".
Epidemia e Case di Riposo.
I Derubati.
Loro denunciano…
Le ritorsioni.
Chi denuncia chi?
L’Impunità dei medici.
Imprenditori: vittime sacrificali.
La Voce dei Malati.
Gli altri malati.
INDICE TERZA PARTE
IL VIRUS NEL MONDO
L’epidemia ed il numero verde.
Coronavirus, perchè colpisce alcuni Paesi più di altri?
Perché siamo i più colpiti in Occidente? Chi cerca, trova.
Il Coronavirus in Italia.
Coronavirus nel Mondo.
Schengen, di fatto, è stato sospeso.
Quelli che...negazionisti, sbeffeggiavano e deridevano.
…in Africa.
…in India.
…in Turchia.
…in Iran.
…in Israele.
…nel Regno Unito.
…in Albania.
…in Romania.
…in Polonia.
…in Svizzera.
…in Austria.
…in Germania.
…in Francia.
…in Belgio.
…in Olanda.
…nei Paesi Scandinavi.
…in Spagna.
…in Portogallo.
…negli Usa.
…in Argentina.
…in Brasile.
…in Colombia.
…in Paraguay.
…in Ecuador.
…in Perù.
…in Messico.
…in Russia.
…in Cina.
…in Giappone.
…in Corea del Sud.
A morte gli amici dell’Unione Europea.
A morte gli amici della Cina.
A morte gli amici della Russia.
A morte gli amici degli Usa.
INDICE QUARTA PARTE
LA CURA
La Quarantena. L’Immunità di Gregge e l’Immunità di Comunità: la presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
L'Immunità di Gregge.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con isolamento collettivo: il Modello Cinese.
L’Immunità di Comunità. La Quarantena con tracciamento personale: il Modello Sud Coreano e Israeliano.
Meglio l'App o le cellule telefoniche?
L’Immunità di Comunità: La presa per il culo dell’italianissimo “Si Salvi chi Può”.
Epidemia e precauzioni.
Indicazioni di difesa dal contagio inefficaci e faziose.
La sanificazione degli ambienti.
Contagio, Paura e Razzismo.
I Falsi Positivi ed i Falsi Negativi. Tamponi o Test Sierologici?
Tamponi negati: il business.
Il Tampone della discriminazione.
Tamponateli…non rinchiudeteli!
Epidemia e Vaccini.
Il Vaccino razzista e le cavie da laboratorio.
Il Costo del Vaccino.
Milano VS Napoli. Al Sud gli si nega anche il merito. Gli Egoisti ed Invidiosi: si fanno sempre riconoscere.
Epidemia, cura e la genialità dei meridionali.
Il plasma della speranza, ricco di anticorpi per curare i malati.
Gli anticorpi monoclonali.
Le Para-Cure.
L’epidemia e la tecnologia.
Coronavirus e le mascherine.
Coronavirus e l’amuchina.
Coronavirus e le macchine salvavita.
Coronavirus. I Dispositivi medici salvavita: i respiratori.
Attaccati all’Ossigeno.
INDICE QUINTA PARTE
MEDIA E FINANZA
La Psicosi e le follie.
Epidemia e Privacy.
L’Epidemia e l’allarmismo dei Media.
Epidemia ed Ignoranza.
Epidemie e Profezie.
Le Previsioni.
Epidemia e Fake News.
Epidemia e Smart Working.
La necessità e lo sciacallaggio.
Epidemia e Danno Economico.
La Mazzata sui lavoratori…di più sulle partite Iva.
Il Supply Shock.
Epidemia e Finanza.
L’epidemia e le banche.
L’epidemia ed i benefattori.
Coronavirus: l’Europa ostacola e non solidarizza.
Mes/Sure vs Coronabond.
La Caporetto di Conte e Gualtieri.
Mes vs Coronabond-Eurobond. Gli Asini che chiamano cornuti i Buoi.
I furbetti del Quartierino Nordico: Paradisi fiscali, artifici contabili, debiti non pagati.
"Il Recovery Fund urgente".
Il Piano Marshall.
Storia del crollo del 1929.
Il Corona Virus ha ucciso la Globalizzazione del Mercatismo e ha rivalutato la Spesa Pubblica dell’odiato Keynes.
Un Presidente umano.
Le misure di sostegno.
…e le prese per il Culo.
Morire di Fame o di Virus?
Quando per disperazione il popolo si ribella.
Il Virus della discriminazione.
Le misure di sostegno altrui.
Il Lockdown del Petrolio.
Il Lockdown delle Banche.
Il Lockdown della RCA.
INDICE SESTA PARTE
LA SOCIETA’
Coronavirus: la maledizione dell’anno bisestile.
I Volti della Pandemia.
Partorire durante la pandemia.
Epidemia ed animali.
Epidemia ed ambiente.
Epidemia e Terremoto.
Coronavirus e sport.
Il sesso al tempo del coronavirus.
L’epidemia e l’Immigrazione.
Epidemia e Volontariato.
Il Virus Femminista.
Il Virus Comunista.
Pandemia e Vaticano.
Pandemia ed altre religioni.
Epidemia e Spot elettorale.
La Quarantena e gli Influencers.
I Contagiati vip.
Quando lo Sport si arrende.
L’Epidemia e le scuole.
L’Epidemia e la Giustizia.
L’Epidemia ed il Carcere.
Il Virus e la Criminalità.
Il Covid-19 e l'incubo delle occupazioni: si prendono la casa.
Il Virus ed il Terrorismo.
La filastrocca anti-coronavirus.
Le letture al tempo del Coronavirus.
L’Arte al tempo del Coronavirus.
INDICE SETTIMA PARTE
GLI UNTORI
Dall’Europa alla Cina: chi è il paziente zero del Covid?
Un Virus Cinese.
Un Virus Americano.
Un Virus Norvegese.
Un Virus Svedese.
Un Virus Transalpino.
Un Virus Teutonico.
Un Virus Serbo.
Un Virus Spagnolo.
Un Virus Ligure.
Un Virus Padano e gli Untori Lombardo-Veneti.
Codogno. Wuhan d’Italia. Dove tutto è cominciato.
La Bergamasca, dove tutto si è propagato.
Quelli che… son sempre Positivi: indaffarati ed indisciplinati.
Quelli che…i “Corona”: Secessione e Lavoro.
Il Sistema Sanitario e la Puzza sotto il Naso.
La Caduta degli Dei.
La lezione degli Albanesi al razzismo dei Lombardo-Veneti.
Quelli che…ed io pago le tasse per il Sud. E non è vero.
I Soliti Approfittatori Ladri Padani.
La Televisione che attacca il Sud.
I Mantenuti…
Ecco la Sanità Modello.
Epidemia. L’inefficienza dei settentrionali.
INDICE OTTAVA PARTE
GLI ESPERTI
L’Infodemia.
Lo Scientismo.
L’Epidemia Mafiosa.
Gli Sciacalli della Sanità.
La Dittatura Sanitaria.
La Santa Inquisizione in camice bianco.
Gli esperti con le stellette.
Epidemia. Quelli che vogliono commissariare il Governo.
Le nuove star sono i virologi.
In che mani siamo. Scienziati ed esperti. Sono in disaccordo su tutto…
Virologi: Divisi e rissosi. Ora fateci capire a chi credere.
Coronavirus ed esperti. I protocolli sanitari della morte.
Giri e Giravolte della Scienza.
Giri e Giravolte della Politica.
Giri e Giravolte della stampa.
INDICE NONA PARTE
GLI IMPROVVISATORI
La Padania si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
Il Coglionavirus ed i sorci che scappano.
Un popolo di coglioni…
L’Italia si chiude…con il dubbio. A chi dare ragione?
La Padania ordina; Roma esegue. L’Italia ai domiciliari.
Conta più la salute pubblica o l’economia?
Milano Economia: Gli sciacalli ed i caporali.
“State a Casa”. Anche chi la casa non ce l’ha.
Stare a Casa.
Ladri di Libertà: un popolo agli arresti domiciliari.
Non comprate le cazzate.
Quarantena e disabilità.
Quarantena e Bambini.
Epidemia e Pelo.
Epidemia e Violenza Domestica.
Epidemia e Porno.
Quarantena e sesso.
Epidemia e dipendenza.
La Quarantena.
La Quarantena ed i morti in casa.
Coronavirus, sanzioni pesanti per chi sgarra.
Autodichiarazione: La lotta burocratica al coronavirus.
Cosa si può e cosa non si può fare.
L’Emergenza non è uguale per tutti.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Dipende tutto da chi ti ferma.
Il ricorso Antiabusi.
Gli Improvvisatori.
Il Reato di Passeggiata.
Morte all’untore Runner.
Coronavirus, l’Oms “smentisce” l’Italia: “Se potete, uscite di casa per fare attività fisica”.
INDICE DECIMA PARTE
SENZA SPERANZA
TUTTO SARA’ COME PRIMA…FORSE
In che mani siamo!
Fase 2? No, 1 ed un quarto.
Il Sud non può aspettare il Nord per ripartire.
Fase 2? No, 1 e mezza.
A Morte la Movida.
L’Assistente Civico: la Sentinella dell’Etica e della Morale Covidiana.
I Padani col Bollo. La Patente di Immunità Sanitaria.
Fase 2: finalmente!
“Corona” Padani: o tutti o nessuno. Si riapre secondo la loro volontà.
Le oche starnazzanti.
La Fase 3 tra criticità e differenze tra Regioni.
I Bisogni.
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
L’Idiozia.
Il Pessimismo.
La cura dell’Ottimismo.
Non sarà più come prima.
La prossima Egemonia Culturale.
La Secessione Pandemica Lombarda.
Fermate gli infettati!!!
Della serie si chiude la stalla dopo che i buoi sono già scappati.
Scettici contro allarmisti: chi ha ragione?
Gli Errori.
Epidemia e Burocrazia.
Pandemia e speculazione.
Pandemia ed Anarchia.
Coronavirus: serve uno che comanda.
Addio Stato di diritto.
Gli anti-italiani.
Gli Esempi da seguire.
Come se non bastasse. Non solo Coronavirus…
I disertori della vergogna.
Tutte le cazzate al tempo del Coronavirus.
Epidemia: modi di dire e luoghi comuni.
Grazie coronavirus.
IL COGLIONAVIRUS
PRIMA PARTE
IL VIRUS
· Introduzione.
Coronavirus. Covid-19. SARS-CoV-2. Lo conosco. Li conosco. Testimonianza dall’inferno della malattia.
Intervista al dr Antonio Giangrande, sociologo storico, autore di “Coglionavirus”, libro in 10 parti che analizza gli aspetti clinici e sociologici del Virus; la reazione degli Stati e le conseguenze sulla popolazione.
Dr Antonio Giangrande, lei stesso è stato vittima del virus, essendo stato ricoverato in gravi condizioni in ospedale. Esprima, preliminarmente, la sua considerazione da vero esperto del virus.
«I nostri professoroni, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio Superiore di Sanità, fino ai componenti dei vari comitati consultivi, saranno titolati, sì, ma sono assolutamente ignoranti sul tema, essendo il Covid-19 un virus assolutamente sconosciuto. A dimostrazione di ciò ci sono i pareri e le direttive espressi nel tempo, spesso in contraddizione tra loro. Si va da “non è epidemia” dell’Organizzazione Mondiale di Sanità, al “le mascherine non servono” del Consiglio Superiore di Sanità. Per non dire delle contrapposizioni tra gli scienziati. Nonostante ciò, i pseudo esperti hanno imposto regole che si sono dimostrati essere protocolli della morte.
Il Contagio avviene per aerosol con insinuazione in ogni orifizio. O si è tutti bardati o ristretti in casa, o si è tutti a rischio di infezione: altro che mascherina e distanziamento di un metro. Basterebbe indossare il burqa con visiera e saremmo liberi di circolare.
E che dire dei medici di base che che per colpa non verificano la salute, non seguono e non assistono i malati e non denunciano i positivi, in presenza di sintomatologia specifica, lasciandoli liberi di infettare.
La gente non è morta, o ha sofferto per il Covid-19, ma per la malasanità e per i protocolli sbagliati.
I posti letto negli ospedali sono mancanti perchè il ricovero non è tempestivo e con ciò si allungano i tempi di degenza. E le degenze non sono ristrette, usufruendo della terapia domiciliare o dell'assistenza domiciliare Usca per i casi più gravi non ospedalizzabili.
I nostri governanti, poi, da incompetenti in materia, hanno delegato ai sanitari, spesso amici, per pararsi il culo, la gestione della pandemia. Dico amici perché stranamente gli esperti non allarmisti, si trovano tutti dalla parte dell'opposizione politica. La Gestione maldestra della pandemia ha comportato gravi conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Le Autorità sanitarie, a loro volta, hanno adottato dei protocolli passivi, giusto per “pararsi il culo” anche loro. Giusto per evitare azioni di tutela legale per colpa professionale.
In questo modo hanno osteggiato ogni forma di cura palliativa, sperimentale, innovativa e compassionevole. Chi lo ha fatto se n’è assunta la piena responsabilità.
I morti, poi, li hanno fatti passare per fisiologici:
E’ morto perché anziano.
E’ morto perché aveva patologie pregresse.
La verità è che il protocollo prevede la discrezionalità su chi deve vivere e su chi deve morire.
I medici come Dio, insomma.
Un giorno, forse, qualcuno dovrà rendere conto a Dio ed alla giustizia penale e civile per il male fatto alla popolazione».
Da leggo.it il 22 dicembre 2020. "Quello che ci stupisce è che durante tutta la pandemia, fino a oggi, non si è mai parlato di assistenza domiciliare e prevenzione. Ciò che andrebbe immediatamente sviluppato è il rapporto tra pubblico e privato, che al contrario non si è sviluppato al punto tale da poter fare gioco di squadra utile ai cittadini". Così la dottoressa Maria Stella Giorlandino, amministratrice dei Centri Diagnostici Artemisia Lab, intervenendo alla Camera dei Deputati alla conferenza stampa organizzata dai deputati del gruppo Misto Antonio Zennaro e Raffaele Trano per presentare, in osservanza della Costituzione, protocolli a tutela dell'universalità del sistema sanitario nazionale, sulla base della necessità di procedimenti diagnostici e terapeutici uniformi. "Le informazioni giunte dalla Cina hanno creato una grandissima confusione - ha sottolineato Giorlandino - su quella che era la reale natura del virus, là dove era stata erroneamente definita come polmonite bilaterale. Grazie alla professionalità dei nostri medici è stato rilevato che il Coronavirus parte come semplice stato influenzale per poi trasformarsi nei soggetti più deboli o affetti da patologie, in malattia immunitaria. Tralasciando le ben note difficoltà che le strutture private hanno incontrato per poter svolgere i vari test di supporto al pubblico - ha aggiunto - abbiamo delle proposte per uscire dalla pandemia". Secondo l'amministratrice di Artemisia Lab occorrerebbero "percorsi diagnostici curativi già esistenti con terapie da fare a domicilio al primo sintomo, lastre domiciliari polmonari per evitare l'intasamento dei Pronto Soccorso, ricoveri per persone a rischio o anziani immunodepressi, tampone dell'antigene quantitativo e non qualitativo". E infine, conclude Giorlandino "informazioni dettagliate dalle strutture del territorio, dei mass media non allarmistiche ma chiarificatrici e linee di condotta uniche a livello nazionale".
Quali le conseguenze per non essere omertoso come tutti gli italiani?
«Scrivere "Coglionavirus" ha comportato la mia rovina economica. Amazon, piattaforma internazionale su cui quel libro ed altri 200 testi tematici, erano distribuiti, stampati e venduti, ha cancellato il mio account e fatto cessare i miei proventi. Da questo Stato è logico non avere alcun ristoro economico. Non ho diritto a niente: bonus aziende o professionisti, indennità di disoccupazione, cassa integrazione, reddito di cittadinanza, pacchi alimentari».
Cosa pensa dell’allarmismo?
«Quando i numeri si danno a casaccio. La comparazione tra i tamponi effettuati ed il numeri dei positivi non sono veritieri. I dati ufficiali, se da una parte sono carenti, dall’altra parte sono eccedenti:
si prendono in esame i tamponi effettuati da privati, che danno solo esito positivo, escludendo quelli con esito negativo;
per ogni soggetto si effettuano più tamponi procrastinati nel tempo, quindi si rilevano più positività per un singolo soggetto positivo.
Da quotidianosanita.it il 3 novembre 2020. Gentile Direttore, ogni giorno nell’aggiornamento dei dati giornalieri sul Covid-19 tra i dati del Ministero della Salute/Istituto Superiore di sanità costantemente riportati e rielaborati in tutti i sistemi “derivati” di monitoraggio (come quelli utilizzati dai media di settore o “generalistici” o da social molto seguiti come “Pillole di ottimismo” su Facebook) ci sono quelli relativi ai nuovi casi (e quindi il numero di persone trovate per la prima volta positive al tampone riportato nella Tabella originale nella colonna “incremento casi totali”) ed al numero di tamponi effettuati (riportato nella tabella originale nella colonna “incremento tamponi”). Prendiamo i dati di ieri 2 novembre: ci sono stati in Italia 22.253 nuovi casi e 135.731 tamponi. Automaticamente viene calcolato in molti sistemi “derivati” il rapporto positivi/tamponi che sistematicamente cresce (ad esempio ieri è stato di 21,9 contro il 21,7 del giorno prima). E ovviamente questo dato viene assimilato ad un dato negativo che testimonia della maggiore circolazione del virus. In realtà si tratta di un indicatore fuorviante che così com’è non andrebbe usato o comunque molto meglio descritto ed interpretato. Perché mette in un unico calderone dati di diversa provenienza e completezza come evidenzierò tra poco. Premesso che il disciplinare tecnico che regolamenta il flusso dei tamponi è difficile da trovare (e non dovrebbe esserlo), lo si può ricostruire in base ad alcune ricostruzioni empiriche che partono da una analisi del modello organizzativo delle attività di laboratorio che “generano” il dato sui tamponi (ovviamente di quelli ritenuti validabili dai Servizi di Prevenzione e quindi eseguiti con tecnica molecolare in laboratori autorizzati dalle Regioni). I tamponi vengono per lo più eseguiti all’interno di tre percorsi: quello delle nuove diagnosi in persone con sintomi compatibili o contatti di casi, quello del monitoraggio dei casi ai fini del calcolo dei “guariti” e quello dello screening spesso su base volontaria da persone che vogliono sapere se sono infette o meno. I primi due percorsi sono gestiti per lo più da laboratori pubblici, mentre il terzo vede un coinvolgimento imponente dei laboratori privati autorizzati dalle Regioni. Cosa succede? La mia ricostruzione in base alla situazione delle Marche, che conosco bene, è che mentre i nuovi casi positivi diagnosticati dai privati finiscono appunto tra i nuovi casi e confluiscono nel numeratore del rapporto positivi/tamponi, il numero totale di persone esaminato dai privati (che comprende anche i negativi) non entra nel denominatore falsando l’andamento del rapporto. Ma non è finita qui. Il denominatore ha invece dentro anche i dati dei tamponi di monitoraggio che non c’entrano niente coi nuovi casi. Un denominatore (o un suo pezzo) che non genera numeratore non va incluso nel calcolo di un rapporto. Facciamo una verifica coi dati Ministero/ISS del 29 ottobre relativi alla Regione Marche che confrontiamo con l’elaborazione più analitica che ha fatto coi dati dello stesso giorno la Regione Marche. Scegliamo questo giorno perché sta in mezzo alla settimana e rappresenta più fedelmente la situazione. I dati di Ministero e Regione coincidono: 686 casi e 3.915 tamponi. Ma quello della Regione Marche è più analitico e ci dice che in realtà i nuovi casi sono stati “generati” da soli 2.372 tamponi (quelli relativi al cosiddetto percorso nuove diagnosi) e che quel numero 3.915 ha dentro anche i tamponi del cosiddetto percorso guariti ovvero quello che riguarda il monitoraggio dei “vecchi” casi. Ma non è finita qui. I tamponi del percorso diagnosi includono quelli dei laboratori privati solo quando positivi, mentre quelli negativi sempre più numerosi non vengono verosimilmente conteggiati.
Risultato: il rapporto positivi/tampone del monitoraggio ministero/ISS per quanto riguarda le Marche al denominatore conta tamponi in più di un tipo che non ci dovrebbero stare e dall’altra manca dei tamponi dei privati che ci dovrebbero stare. Se non si fa chiarezza è legittimo e credibile pensare che almeno parte dell’incremento quotidiano del rapporto positivi/tamponi sia sovrastimato visto il numero fortemente crescente dei tamponi fatti dai privati. Soluzione: migliore gestione del flusso. Claudio Maria Maffei, Coordinatore scientifico di Chronic-on».
Parli di come è stato infettato.
«Io vivo in Avetrana in provincia di Taranto. Per il mio lavoro e per il mio carattere ho sempre fatto vita riservata, così come mia moglie. Le uniche uscite erano il fare sport da singolo ed isolato ed il fare la spesa, con rispetto delle regole imposte: mascherine e distanziamento e rapportarsi il meno possibile con i genitori anziani. Eppure, questo mio comportamento esemplare, in ossequio alle regole sbagliate, si è dimostrato letale.
L’8 novembre 2020 mio fratello fa visita ai genitori: il giorno dopo ha la febbre.
Il 9 novembre 2020 vado a far visita ai miei genitori ultraottantenni: mascherina e distanziamento. Presente un terzo fratello. Ho notato che avevano il riscaldamento alto.
Il 10 novembre 2020, cioè giorno dopo il malessere dei miei genitori si trasforma in febbre lieve. Per questo motivo tutti i figli, tre maschi ed una donna, con altri familiari ristretti, gli fanno visita con mascherina e distanziamento.
I miei due fratelli dopo pochi giorni hanno evidenziato i primi sintomi, mia sorella asintomatica. Immediatamente, si è coinvolto il medico curante che ha provveduto al tampone per tutti. Alla fine risultano tutti infettati, compresi le loro famiglie. 15 componenti di 4 nuclei familiari. Ai primi sintomi, correttamente, tutti abbiamo adottato il confinamento domiciliare e nessuno ha infettato alcuno. Fortunatamente i genitori anziani sono stati pauci sintomatici, così come gli altri componenti della famiglia. Un fratello ricoverato in modo lieve. Solo io ho subito le conseguenze gravissime, rasentando la morte.
Si è scoperto che mio padre è stato infettato frequentando, con mascherina e distanziamento, un luogo pubblico. Egli pensava che la lieve febbre fosse dovuta al vaccino antinfluenzale.
Questo sta ha dimostrare due cose:
1. Che la mascherina ed il distanziamento non bastano, ma bisogna essere bardati con occhiali e visiera per non essere infettati. Il virus si insinua in ogni orifizio. Il virus è 100 volte più piccolo del batterio e quindi galleggia nell’aria e con essa si muove. Posso prenderlo dopo molti metri e dopo molti minuti;
2. Che spesso sono gli anziani ad infettare i giovani e non viceversa. Perché sono quelli che spesso non rispettano le regole;
3. Molti sono infetti asintomatici e non lo sanno. Ed infettano in buona fede;
4. Molti sono infetti pauci sintomatici o conviventi asintomatici o pauci sintomatici di infetti conclamati. Sanno di essere infetti, ma continuano la loro vita e da criminali infettano gli altri.
5. Ma cosa più importante che ho potuto constatare in seguito, dopo il mio ricovero, è che ci si infetta principalmente in strutture protette. Il degente C.mo C.lò è stato infettato in una RSA, quella di Villa Argento di Manduria e poi trasferito al Giannuzzi di Manduria. Il Degente V.to T.liente di Martina Franca, ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto per altre patologie, è stato refertato negativo all’arrivo nel nosocomio e poi infettato in quel reparto. Successivamente trasferito al Giannuzzi di Manduria».
Parli della reazione degli avetranesi.
« A riguardo mi riporto a al post di mio figlio, avv. Mirko Giangrande, pubblicato sulla sua pagina facebook il 18 dicembre 2020 ore 20.30: “Il Festival delle Illazioni”. Come tutti ben sanno l’intera mia famiglia è stata vittima, chi in modo più grave chi in modo più lieve, del Covid - 19. Un nemico invisibile e infido che ha colpito in modo violento, repentino e simultaneo. Un fulmine a ciel sereno che si è abbattuto su gente sempre diligente e rispettosa di ogni regola: mascherina, distanziamento, tamponi, ecc. Tutto ciò, purtroppo, non è bastato ma alla fine, uniti come sempre, ne siamo usciti più forti di prima. Combattendo anche contro la “malasanità pugliese”, ma su tale argomento ormai tanto è stato detto e scritto, sebbene ancora qualcuno, accecato dalla partigianeria politica, esalta qualcosa che esiste solo nella propria mente e continua ad inondarci di belle parole su una situazione invece tragica e sotto gli occhi di tutti. Ma cosa ci è rimasto di questa esperienza? Il letame. Esatto, tutta la “merda” che buona parte (ovviamente non tutta) del nostro paese ci ha tirato addosso. Non supportandoci ma trattandoci da “untori del paese”, che “il virus ce lo siamo meritato”, “che non dovremmo più farci vedere in giro per un bel po’”, “che ci siamo infettati partecipando a delle feste”. Ma la stronzata numero uno è che l’untore degli untori sono stato io, il principio della pandemia avetranese. Io avrei infettato i miei familiari e poi sarei scappato via. Ovviamente tralasciando il fatto che è dal primo ottobre che sto a Parma senza mai tornare e che nessuno dei miei familiari ha partecipato a nessuna festa. Tali illazioni non possono che partire dalle bocche di criminali e che non possono che far leva solo sui COGLIONI creduloni. Tutto ciò condito da un alto tasso di codardia, dato che chi mette in giro queste voci lo fa di nascosto, conscio che fa bene a non esporsi, rischiando tantissimo in termini legali...”.
In questo modo per la cattiveria e l’ignoranza della gente, i positivi non si palesano per paura della gogna, alimentando l’epidemia.»
Parli dell’evoluzione della malattia.
«Dal famoso 9 novembre 2020 ho avvertito subito sintomi di malessere e febbre, ma ho continuato a fare i miei 22 chilometri di corsa e bicicletta. Fino a che la febbre a 39 e mezzo, senza sintomi specifici, me lo ha impedito. Pensavo fosse un periodico raffreddore, dovuto alla sudorazione e le temperature anomale, curabile con la tachipirina e gli antibiotici.
Il 15 novembre 2020 chiamo il medico curante chiedendogli un antibiotico più potente, con l’ausilio della penicillina, il cortisone e la protezione. Mi prescrive tutto, meno la tachipirina che è a pagamento. Antibiotico Azitromicina da 500, cortisone Deltacortene da 25, Penicillina, protezione, Eparina e sciroppo per la tosse. Per il proseguo della malattia ha voluto essere informata ed ella stessa si informava. Ha prontamente contattato l’ASL.
Il 20 novembre 2020 il tampone effettuato risulta positivo.
Il 22 novembre 2020 alle 10.30 per il persistere della febbre e per i sintomi di asfissia chiamo il 118. Con l’ossigenazione del sangue a 82, si decide il ricovero immediato».
Parli degli altri medici di base.
«La Dr.ssa Maria Antonietta Ingarozza, mio medico di base è stato esemplare. Ha seguito l’assistito ed avvisato le autorità. Ed è lo stesso medico di mia madre: esemolare anche con lei.
Il medico di mio padre, sintomatico, ha omesso la cura del paziente, abbandonandolo a sé stesso, e non ha avvisato le autorità, alimentando l’infezione in famiglia.
Il medico dei miei fratelli sintomatici, ha omesso alcune cure ai pazienti e ha disposto il tampone solo su sollecitazione degli assistiti.
Parlando con alcuni passanti, ho scomperto, addirittura, che a Sava vi era un medico che consigliava ai suoi assistiti di nascondere i sintomi del Covid-19, dissimulandoli come sintomi influenzali, omettendo, così, il controllo del tampone».
«Parli del suo ricovero e dell’impatto con il sistema sanitario.
«Per questa malattia la tempestività è essenziale. Prima si interviene, prima si impedisce l’aggravamento, prima si guarisce e nessuno muore. Prima si interviene e meno giorni sono di degenza e più posti letto sono a disposizione. Così come più posti letto si ottengono con una degenza limitata sostenuta da assistenza domiciliare Usca. Invece il sistema sanitario, per non ingolfare gli ospedali impedisce il ricovero ai pazienti sintomatici fino a farli diventare critici ed a lunga degenza, o con conseguenze mortali.
Ergo: il protocollo sbagliato porta la morte dei pazienti e la paralisi delle strutture sanitarie.
La saturazione ottimale del sangue deve essere pari a 100 o quasi. Ogni alterazione comporta un intervento immediato. A mio fratello è stato impedito un primo ricovero, dal medico del 118, con la saturazione a 92, chiaro sintomo di sofferenza. Tanto che c’è stato l’inevitabile peggioramento ed il ricovero, con degenza di settimane.
Alle 12 del 22 novembre 2020 inizia la mia odissea. L’equipaggio del 118 misura la saturazione del sangue: 82. Mi rendo conto perché, andando in bagno, ho avuto un mancamento stando in piedi e ho sbattuto la fronte sul muro sopra il vaso. Mi caricano sull’ambulanza e partono. Sento le sirene: questa volta le sirene sono per me e sento un groppo alla gola. Legato al lettino pare che tutte le buche della strada sono centrate dalle ruote posteriori: una volta una, altra volta l’altra. E finalmente si arriva all’ospedale Giannuzzi di Manduria.
Dante Inferno, Canto III
"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna..."
11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi
Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».
Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».
Parli della sua degenza in ospedale.
«Traumatica e psicologicamente devastante. Dante Inferno, Canto III
"...Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate"...
Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: "Guai a voi, anime prave! ..."
Così sen vanno su per l'onda bruna,
e avanti che sien di là discese,
anche di qua nuova schiera s'auna..."
Il Reparto. I Reparti Covid si suddividono in: reparto ordinario Covid; reparto Medicina Covid (reparto semi intensivo con gestione diversa del paziente); reparto di terapia intensiva (Rianimazione con assistenza più pregnante per i casi più gravi), reparti post Covid per la rieducazione polmonare. Sono stato ricoverato al Reparto Ortopedia Covid dell’ospedale Giannuzzi di Manduria. Quindi curato anche da ortopedici. Mi portano in una stanza a tre letti. C’è uno di Avetrana che non vuole esser nominato ed il mio amico Damiano Messina, noto per la sua ditta di trasporti, che mi ha autorizzato a citarlo. E’ critico e con criticità, cioè grave e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse. In precedenza i suoi polmoni erano stati colpiti da una malattia simile al Covid 19 dovuta ad un virus trasmesso dai pipistrelli e debitamente curata. Era proveniente dal Moscati di Taranto, di cui racconta tutto il male possibile. E’ stato tra i primi degenti del reparto Ortopedia Covid di Manduria, con altri provenienti dal Moscati di Taranto. Arrivato sabato 14 novembre sera, ha trovato il solito balletto dell’inaugurazione. Però non c’era ancora acqua per lavarsi, né per bere. Così come mancava l’elemento essenziale: l’ossigeno. Elemento essenziale e continuativo. Poi sono sempre state insufficienti le bombolette dell’ossigeno per i degenti sufficienti che dovevano andare al bagno non accompagnati. Avevo il letto numero 2. In quella stanza c’era il letto n. 3. Postazione speciale con ossigenazione fino a 20 litri. Adeguata per necessità dopo un caso di emergenza proveniente dalle altre stanze. Alla dimissione dei miei amici mi hanno spostato nella stanza assieme a mio fratello, ricoverato al pronto soccorso il giorno prima di me, ma saliti simultaneamente in reparto. Poi sono stato spostato in un’altra stanza. Avevo il letto n. 7. Entrambe le stanze avevano un comune denominatore. Le emergenze delle seconda andavano a finire nella prima. E guarda caso solo la stanza numero 2 ha avuto emergenze, risultate, poi, mortali. La stanza è una prigione. Rispetto a noi i reclusi ostativi o del 41 bis del carcere sono in vacanza. Quando non sei costretto a letto, sei comunque costretto a letto. Non puoi aprire le finestre, né aprire la porta di entrata/uscita. Così per settimane. La stanza aveva due telecamere, affinchè i medici avessero la situazione sempre sotto controllo. In questo modo loro sanno tutto quanto succede nelle camere, anche delle emergenze. Non puoi ricevere i parenti, ne la biancheria di ricambio, quindi stesse mutande, stessa maglietta, stesso pigiama per settimane. Se non hai rasoi o strumenti della manicure diventi un licantropo.
La pulizia delle stanze. La pulizia era buona e per due volte al dì.
Il Vitto. Il vitto era decente, ma spesso freddo. Le buste ermeticamente chiuse con l’elenco del contenuto, come previsto dal capitolato d’appalto, erano sempre aperte a rischio di contaminazione e con l’acqua mancante. L’acqua era riservata al buon cuore dei sanitari, su richiesta. La distribuzione del vitto avviene:
Ore 8.00 colazione. Latte macchiato o te, quasi sempre freddo. Biscotti o fette biscottate con marmellata.
Ore 12. Pranzo. Primo, secondo, pane e frutta. Posate. Acqua mancante.
Ore 15.30. Cena. Idem come pranzo.
I pazienti. Paziente inteso come sostantivo si intende una persona affetta da malattia affidata ad un medico. Paziente inteso come aggettivo si intende una persona disposta alla moderazione, alla tolleranza ed alla rassegnata sopportazione. In questo caso verso il Covid e nei confronti dei sanitari.
Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!
Antonio Calitri per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Nella BAT che i medici chiedevano diventasse zona rossa, una mamma di 41 anni è morta di Covid dopo aver atteso 11 ore al pronto soccorso. Non ci sono posti per i ricoveri all' ospedale di Barletta, capoluogo della provincia Bat in Puglia. E così Antonella Abbatangelo, che soffriva da una settimana di sintomi da Covid-19 sempre più gravi, è costretta ad attendere ben 11 ore prima di essere visitata. Quando finalmente viene presa in carico come recita la nota della Asl, i medici si accorgono subito della gravità della situazione, in due giorni finisce in terapia intensiva ma non ce la fa e dopo altri quattro, muore. E sberleffo finale, il marito e il figlio di appena 14 mesi non possono partecipare al suo funerale perché in isolamento domiciliare nonostante siano risultati negativi al tampone.
LE FALLE. Disorganizzazione, ospedali allo stremo e tanta sfortuna hanno inciso sul destino di una donna, giovane per le statistiche della letalità del virus, ma che si scopre essere stata anche vittima di malasanità. «Ben 11 ore di attesa prima di essere visitata al pronto soccorso», ha denunciarlo il marito Massimiliano che poi ha anche scritto sui social di aver ricevuto pochissime notizie della moglie. «Siamo stati attaccati al telefono da mattina a sera solo per avere spiegazioni confuse e veloci da parte dei dottori». La storia inizia la settimana scorsa quando la donna accusa febbre e tosse che inizia a curare a casa. Quando la situazione diventa più grave, il 12 novembre Antonella si reca all' ospedale di Trani, la città dove vive, ma non essendoci un reparto Covid, viene rimandata a casa. Il giorno dopo viene accompagnata a Barletta, dove attende 11 ore, fino alla presa in carico delle 23.01.
LA NOTA DELLA ASL. Poi, seguendo la nota della Asl, la donna è stata sottoposta a visita medica alle 23.05, sono stati evidenziati dispnea e febbre elevata da due giorni curata a domicilio. Al quadro clinico acuto va aggiunta una grande comorbilità rappresentata da problemi metabolici. È stato immediatamente eseguito tampone che ha dato esito positivo. La signora è stata quindi sottoposta a ossigenoterapia e sono stati immediatamente richiesti esami ematochimici ed emogasanalisi. Poi, prosegue la ricostruzione dell' Asl, il quadro clinico è apparso già molto complesso e compromesso. La situazione è peggiorata nella mattinata del 15 novembre quando sono intervenuti i rianimatori che hanno intubato la paziente in pronto soccorso e poi l' hanno trasferita nel reparto di Rianimazione ma, conclude il comunicato, nonostante tutti gli sforzi dei clinici la paziente è deceduta in data 19.11. Per sapere se abbia inciso anche la lunga attesa prima di accedere alla struttura, il direttore generale della Asl Alessandro Delle Donne ha detto di aver «avviato indagine per verificare tutti i passaggi di quanto accaduto».
Nel reparto normale ortopedia Covid di Manduria venivano ricoverati pazienti critici, ma anche critici e con criticità, cioè gravi e con comorbidità o comorbilità, ossia patologie pregresse, che sicuramente avevano bisogno di altro reparto:
con assistenza specialistica semi intensiva ed intensiva, con interventi invasivi e non invasivi, che un normale reparto non garantisce;
strumenti specifici come per esempio il casco respiratorio per ventilazione polmonare o l’intubazione e non la semplice mascherina polmonare, o l’occhialino polmonare di un normale reparto.
La ossigenoterapia può essere sostenuta da 0 a oltre venti litri di ossigeno. Dipende dagli strumenti di erogazione. E in quel reparto non c’erano. Come non c’erano medici specialistici per ogni patologia riscontrata. Differenze di interventi che possono causare la morte.
Il mio amico Damiano Messina mi parla della sua esperienza traumatica. Ha assistito alla morte di P.tro D.ghia di Monteiasi, 64 anni. Damiano è stato ricoverato sabato 14 novembre, P.tro è portato nella sua stanza 2-3 giorni dopo. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Il pomeriggio del 16 o 17 novembre è stato spostato di urgenza dal posto n. 9 della stanza di ricovero e posto al n. 3 della stanza di Damiano. Il posto è stato adeguato successivamente come postazione speciale. Tutto il pomeriggio P.tro ha sofferto agonizzante con sintomi di asfissia. Sostenuto con il solo ausilio del casco respiratorio con ossigenazione a 20. Spesso i compagni di stanza chiamavano con il pulsante di emergenza, perché il paziente lasciato solo per molto tempo si spostava e si toglieva il casco, perchè non dava il ristoro richiesto. L’intervento dei sanitari non era immediato. L’agonia si è protratta, senza soluzione di continuità, senza che vi sia stato alcun cambio di intervento terapeutico, fino al primo mattino del giorno dopo. La morte è intervenuta per inerzia. Spesso la presenza fisica dell'assistenza dei sanitari non era garantita. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Morte di un essere umano senza il sostegno dei familiari. E’ seguita pulizia della salma e composizione della stessa in un sacco di plastica. Un uomo diventato una cosa trasferita in obitorio.
La mia seconda stanza era la camera della morte. Durante la mia decenza, tutti i morti erano ivi ricoverati. C.mo C.lò, infettato alla RSA Villa Argento di Manduria, del letto n.9 ha preso il posto di P.tro D.ghia di Monteiasi. Il degente critico e con criticità non è stato ricoverato in un reparto adeguato alle sue patologie: ne prima né dopo l’emergenza. Ho convissuto con lui per due giorni dal 3 al 4 dicembre 2020. Era un continuo chiamare seguito da non immediata risposta. Per due giorni i parametri erano intorno agli 85-90 per l’ossigenazione e un ritmo cardiaco intorno ai 135 battiti, mai al di sotto dei 125, senza soluzione di continuità. La mascherina con il sacchetto gliela hanno messa quando la saturazione era ad 88, in sostituzione di quella con la proboscide. L’ultima chiamata di allarme da parte nostra (mia e di mio fratello riuniti nella stanza) per l’evidente sofferenza del paziente è avvenuta il 4 dicembre 2020. L’intervento non è stato pronto ed immediato. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Saturazione a 85 e 135 battiti e strumentazione impazzita. Il ritardo degli interventi mi ha costretto a filmare gli eventi a fini di giustizia ed informazione. Quando con le telecamere hanno visto che filmavo con il telefonino la situazione, con i parametri anomali e gli allarmi sonori della strumentazione, sono intervenuti a spostare il paziente nella postazione speciale. Subito dopo è intervenuto un energumeno di infermiere, che con fare minaccioso mi ha intimato, su ordine del medico, di cancellare il video dal cellulare. C.mo C.lò successivamente è morto, a 56 anni, ma tutti (dagli Oss, fino agli infermieri ed i medici) omertosamente hanno tenuto nascosto la notizia. Nella postazione n. 8 della mia seconda stanza un degente non autosufficiente è andato al bagno senza bomboletta di ossigeno, mancante, così come senza accompagnamento dei preposti a farlo. Loro hanno visto tutto con le telecamere e non sono intervenuti. Il paziente uscendo dal bagno ha avuto una mancanza d'aria ed è caduto. Si è schiantato al suolo ed è morto.
Omertà o meno, peccato per loro che mi sono trovato sempre nel posto giusto al momento giusto. O sbagliato secondo i punti di vista.
L’assistenza sanitaria. E’ previsto il Bonus Covid per medici e operatori sanitari. Va da 600 euro a oltre mille euro. L’1 dicembre 2020 c’è stata un’infornata di nuove assunzioni e trasferimenti al reparto Ortopedia Covid di Manduria.
Seconda ondata Covid in Puglia, indagine della Procura sulla gestione da parte della Regione. Fascicolo senza indagati né reati: tra gli accertamenti quello sulle assunzioni del personale sanitario. La Repubblica di Bari il 28 novembre 2020. La Procura di Bari ha aperto un fascicolo conoscitivo, cioè un modello 45, senza indagati né ipotesi di reato, sulla gestione della seconda ondata di contagi Covid in Puglia da parte della Regione. Sugli accertamenti in corso gli inquirenti mantengono il massimo riserbo. Il fascicolo è coordinato dal procuratore facente funzione Roberto Rossi. A quanto si apprende, tra gli aspetti su cui si sta concentrando l'attività investigativa ci sono verifiche sull'assunzione del personale sanitario.
Gli operatori sanitari, spesso, denunciano che a loro non viene fatto il tampone di controllo.
Gli operatori della sanità sono considerati degli eroi a torto dall’opinione pubblica, sotto influenza dei media, così come le forze dell’ordine ed i magistrati. I medici, gli infermieri e gli Oss, alcuni sono gentili, altri meno. Alcuni sono capaci, altri meno. Sono tutti uguali. Tutti imbaccuccati. Qualcuno mette il nome sulle tute, altri vogliono rimanere anonimi. Gli infermieri, spesso, passano da un paziente ad un altro per le operazioni di routine (prelievi del sangue, inserimento flebo, ecc.) senza disinfettarsi le mani. Tutti sono corporativi ed omertosi. Ai richiami di allarme non c’è pronto intervento, salvo eccezioni dovuti al buon cuore dell’operatore. Ma quello che turba ed inquieta è il loro distacco ed indifferenza di fronte alla sofferenza ed alla morte. Un giudice che manda in cella un innocente, spesso dovuto ad un suo errore, è indifferente e distaccato. Ma un operatore sanitario, se ha una coscienza, non può avere lo stesso distacco di fronte alla morte, specie se è stata causata per sua colpa o per colpa di un protocollo criminale.
Comunque delle mie affermazioni sugli operatori sanitari vi è ampia cronaca di stampa di conforto.
"Tra dieci minuti muori": così il medico al paziente Covid in fin di vita. Maltrattamenti e furti ai defunti nell'inferno dell'ospedale di Taranto. Gino Martina il 4 dicembre 2020 su La Repubblica-Bari. Sono almeno sette gli episodi che riguardano pazienti ricoverati al Moscati morti dopo giorni. Sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero umanamente adeguate: indaga la procura e anche l'Asl con un'inchiesta interna. Il sindaco convoca i vertici dell'azienda per un chiarimento. Uno dei racconti più scioccanti è quello di Angela Cortese. Il padre, Francesco, positivo al Covid, la notte tra l'1 e il 2 novembre aveva fatto il suo ingresso all'ospedale Moscati di Taranto. Dal suo ricovero al giorno seguente, l'uomo, 78enne, è rimasto in contatto con la famiglia attraverso il telefonino. Ma ciò che ha comunicato in quelle ore ha allarmato tutti: "Venitemi a prendere, qui muoio". Il 3 mattina, la donna, avvocato, parla con un medico che si trova nell'Auditorium dove il padre era stato sistemato. "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". La donna racconta di urla, di una sorta d'aggressione al telefono. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili - spiega -, quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!". Cortese domanda se il padre fosse lucido, se stesse lì vicino. "Sì è qui, è qui, mi sta ascoltando, fra poco morirà!". La donna assiste in questo modo alla sua fine. "Neanche i veterinari con i cani si comportano in questa maniera", aggiunge, sottolineando come "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Affermazioni, quelle di Cortese, che dovranno trovare riscontro nella cartella clinica richiesta all'ospedale e nelle indagini che la procura ha avviato per diversi altri casi di morti nel presidio sanitario a Nord del rione Paolo VI.
Le inchieste. I procedimenti sono più d'uno, fanno seguito alle denunce dei parenti, ma sono volti anche a verificare la corretta osservanza delle misure precauzionali sanitarie da parte della dirigenza ospedaliera. Il sospetto è che l'organizzazione, le attrezzature e il numero del personale tra ottobre e novembre non fossero adeguati ad affrontare la seconda ondata della pandemia, lasciando spazio all'improvvisazione, a Operatori socio sanitari utilizzati come infermieri e personale sotto stress, portando a gravi mancanze. Al di là del lavoro della magistratura, sono almeno sette gli episodi che riguardano degenti del Moscati morti dopo giorni nei quali sarebbero venute a mancare assistenza e condizioni di ricovero adeguati, oltre che telefoni e oggetti di valore, come fedi e collane, non restituiti ai parenti. Su questi ultimi episodi l'Asl ha diffuso una nota nella quale smentisce che ci possano essere stai dei furti, ma fa emergere anche una scarsa comunicazione tra l'organizzazione del presidio e gli stessi operatori. "Nelle singole unità operative coinvolte nei percorsi assistenziali di presa in carico - scrive l'Asl - sono custoditi e repertoriati numerosi piccoli oggetti di valore ed altri effetti personali. Intanto il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha deciso di convocare i vertici Asl: "Se confermati, i fatti sono di una gravità inaudita".
"Attento, tra 10 minuti muori". Il medico rivela: "Perché l'ho detto..." Nessun provvedimento nei confronti del medico dell'ospedale di Taranto, che spiega: "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap". Federico Garau, Mercoledì 09/12/2020 su Il Giornale. Continua la polemica intorno ai fatti avvenuti all'ospedale Moscati di Taranto, dove sono state denunciate gravi lacune di assistenza ed alcuni pazienti hanno perso la vita dopo essere stati ricoverati per giorni. A finire sotto la lente d'ingrandimento il caso del signor Francesco, finito in ospedale dopo aver manifestato i sintomi del Coronavirus. L'uomo, secondo quanto riferito da "Repubblica", era arrivato al pronto soccorso nella notte fra l'1 ed il 2 novembre, e da subito aveva chiesto aiuto alla famiglia, temendo per la propria vita. A raccontare tutto la figlia del 78enne, Angela Cortese, che ha spiegato come il padre avesse chiesto di essere riportato a casa già dal giorno successivo al ricovero. Parlando con un medici per chiedere conto di quanto stava accadendo al genitore, la donna si sarebbe sentita rispondere: "Suo padre non collabora, non vuole mettersi la maschera Cpap, fra dieci minuti morirà, preparatevi!". Da qui l'allarme lanciato dalla signora Cortese, avvocato di professione. "Ci sentiamo piombare addosso d'improvviso queste parole terribili. Quel medico sembrava una bestia inferocita, contro di noi e mio padre. Ho avuto solo la forza di chiedere della saturazione e per tutta risposta ho ricevuto altre urla: non c'è saturazione, vedrete che fra poco muore!", ha raccontato la donna a "Repubblica". "Non gli è stata somministrata nessuna terapia, solo ossigeno, solo la Cpap". Parole forti, quelle dell'avvocato Cortese, alle quali hanno fatto seguito delle indagini da parte della Procura della Repubblica di Taranto. A dire il vero, le inchieste che riguardano l'ospedale sono più di una, dal momento che sono state diverse le famiglie a denunciare discutibili comportamenti nei confronti dei pazienti. Oltre ad episodi di mancata assistenza, c'è chi parla anche di oggetti rubati, cosa che la Asl ha categoricamente smentito. Per quanto riguarda il caso del signor Francesco, poi deceduto lo scorso 3 novembre, il medico accusato di aver usato parole troppo dure nei suoi confronti ha deciso di parlare. La Asl di Taranto, al momento, non ha preso provvedimenti nei suoi confronti. "Ho urlato solo per salvarlo, come un padre che urla al figlio, perché non voleva mettersi la maschera Cpap che in quel momento era fondamentale ma non voleva indossare", ha spiegato il dottor Angelo Cefalo, medico del 118 di Taranto, nel corso della conferenza stampa organizzata nell'auditorium dell'ospedale Santissima Annunziata di Taranto. "Ho conservato come in una cassaforte i messaggi su Whatsapp con la figlia, perché le ho dato la mia disponibilità per spiegarle cosa fosse accaduto e un conforto per la perdita del padre". Il 78enne, hanno spiegato i medici, aveva un livello di saturazione di ossigeno nel sangue molto basso. In più, era cardiopatico, soffriva di insufficienza renale, diabete e bronchite cronica, oltre ad avere una fistola al braccio. "Se fosse stato intubato non ce l'avrebbe fatta, perciò per convincerlo a mettere la Cpap ho utilizzato un linguaggio trasparente, come siamo abituati a fare noi medici che ci relazioniamo con pazienti e parenti", ha raccontato il dottor Cefalo. "Tra dieci minuti muori glielo dicevo solo per convincerlo a mettere la mascherina, gli ho detto se aveva voglia di rivedere i suoi nipoti. Ovviamente i dieci minuti non erano reali ma era la mia disperazione emergentista, perché il nostro lavoro si basa sui secondi che erano fondamentali per salvare la vita del paziente, che purtroppo non ce l'ha fatta dopo circa due ore", ha concluso.
Maltrattamenti e furti in ospedale a Taranto, il sindaco convoca i vertici Asl: "Fatti di una gravità inaudita". La Repubblica-Bari il 04 Dicembre 2020.
Gli oggetti smarriti. Si segnala, ad esempio, che nella cassaforte allocata nel punto di Primo intervento del 118 del presidio ospedaliero San Giuseppe Moscati, sono custoditi oggetti preziosi, mentre altri effetti personali quali valigie, telefoni e relativi carica batteria, sono conservati in aree dedicate del reparto". Nella stessa nota sono stati pubblicati i contatti e il link dell'ufficio di Medicina legale dell'azienda sanitaria attraverso il quale poter cercare le cose appartenenti ai propri cari. Ma alcuni parenti vanno avanti con la denuncia ai carabinieri, come il caso della famiglia Rotelli, sicura che il telefono del padre sia stato rubato e manomesso. Come affermano anche altri parenti di altri degenti, che parlano di video girati all'interno cancellati dai telefoni dei propri cari. "Mia madre - spiega Tina Abanese, di Massafra - è stata ricoverata in quei giorni per una crisi respiratoria. È stata maltrattata da alcuni addetti che le rispondevano in malo modo. Non è stata cambiata per ore. È rimasta anche senza cibo e dopo due giorni dalla sua morte ci siamo accorti che nella borsa mancavano la fede e un altro anello, che indossava al momento dell'ingresso in ospedale".
Il ricovero nel container. Donato Ricci, imprenditore di Martina Franca, ha perso invece il padre, ex ispettore di polizia. Ha raccolto i primi di novembre il suo grido d'aiuto. "Chiamate la polizia, portatemi via da qui", diceva. L'uomo, in salute prima di aver contratto il Covid, ha anche girato dei video nel container dov'era ricoverato con la biancheria abbandonata per terra in un angolo. Ricci ha raccolto in un gruppo Whats'app i contatti di altri parenti di chi non c'è più dopo esser passato in quei giorni nell'ospedale, durante i quali era anche difficile poter contattare i propri cari o avere notizie dal personale, per mancanza di un numero telefonico apposito (è stato attivato nelle ultime settimane). C'è chi racconta di bagni sporchi, inaccessibili, camere mortuarie con cadaveri sistemati alla peggio, addetti delle onoranze funebri che li prelevano senza alcuna protezione. "Abbiamo denunciato la sparizione di anelli, della fede nuziale e d alcune collane di mio padre - raccontano Mariangela e Pierangela Giaquinto, figlie di Leonardo, paziente Covid ricoverato il 30 ottobre e scomparso il 21 novembre - ci hanno detto che avrebbero richiamato se e nel caso avessero ritrovato qualcosa ma non abbiamo avuto alcune segnalazione. Mio padre è stato intubato e indotto due volte al coma farmacologico. La seconda, però, non ce l'ha fatta". A muoversi ora è anche il Tribunale del malato, che chiede formalmente un intervento della Regione: dall'assessore alla Sanità Pierluigi Lopalco al governatore Michele Emiliano. "La situazione è allarmante - spiega la coordinatrice Adalgisa Stanzione - non solo perché ci sono casi di morti, ma perché c'è stata una sottovalutazione delle autorità competenti. Se non si aveva personale sufficiente per assistere i pazienti bisognava agire prima, non arrivare fino ai primi di novembre, quando c'erano al Moscati 95 persone ricoverate per Covid. Gli Oss hanno dovuto sopperire al lavoro degli infermieri. Ci stiamo muovendo con le nostre strutture legali per fare chiarezza. La situazione è migliorata con l'attivazione dei posti alla clinica Santa Rita e all'ospedale Militare, ma senza personale i posti letto servono a poco. Il diritto alla salute - prosegue Stanzione - va rispettato a partire dalla qualità della prestazione che non può essere soffocata dalla pseudo carenza di infermieri e medici. E poi la gente va trattata con umanità, va ascoltata, e non attaccata come incompetente e sprovveduta, da personale sotto stress. La pandemia - conclude - non può essere affrontata senza mezzi, è come combattere una guerra senza fucili".
In ospedale la morte sospetta di un 68enne. I familiari: «Abbandonato su una sedia». C'è l'inchiesta. Francesco Casula su il Quotidiano di Puglia-Taranto Martedì 8 Dicembre 2020. La procura della Repubblica di Taranto ha disposto l'autopsia sul corpo di un uomo deceduto all'ospedale Moscati per Covid19, ma per cause ancora ignote alla famiglia dell'uomo. È stato il sostituto procuratore Remo Epifani ad aprire un fascicolo contro ignoti e a disporre l'esame autoptico: l'incarico al medico legale sarà affidato domani mattina nel Palazzo di giustizia e subito dopo il consulente eseguire gli accertamenti richiesti dal magistrati per stabilire la reale causa del decesso. Non ci sono, al momento, nomi iscritti nel registro degli indagati, ma il pubblico ministero Epifani ha ipotizzato il reato di «responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario». È stata la denuncia depositata dai familiari, alcuni dei quali si sono rivolti all'avvocato Gaetano Vitale, a spingere la procura a effettuare una serie di approfondimenti. Nella denuncia, infatti, i parenti della vittima hanno raccontato che l'uomo, dopo aver trascorso una degenza burrascosa dovuta al peggioramento delle sue condizioni, sembrava aver ormai superato la fase critica e secondo gli aggiornamenti che il medico di famiglia forniva ai congiunti, sembravano prossime le dimissioni dall'ospedale. Una mattina, però, quelle speranze insieme al resto del mondo sono crollate. I familiari hanno infatti ricevuto la telefonata da un medico del nosocomio tarantino che annunciava la morte dell'uomo. Nessuna spiegazione sulle cause, nessuna comunicazione ufficiale che informasse la famiglia di cambiamenti improvvisi del quadro clinico. Non solo. Secondo le informazioni raccolte da alcuni parenti, l'uomo di 68 anni con problemi di diabete, sarebbe stato ritrovato già cadavere nelle prime ore del 18 novembre, non nel suo letto, ma addirittura seduto su una sedia accanto al suo letto. Un dettaglio che secondo i denuncianti è la dimostrazione dello stato di abbandono al quale sarebbero stati costretti i pazienti nei reparti dell'ospedale ionico. E oltre all'elevato numero di pazienti rispetto a quello del personale sanitario, denunciato anche dai sindacati nelle scorse settimane, i familiari avrebbero anche fatto notare come in quella stessa notte in cui sarebbe avvenuta la morte del 68enne, sarebbero stati registrati anche altri 13 decessi. Per i familiari, quindi, la causa della morte potrebbe non essere stato il virus contratto dall'uomo una decina di giorni prima, ma lo stato di abbandono oppure le negligenze di chi avrebbe dovuto garantire assistenza. E dalle parole dei familiari, inoltre, sarebbero emerse anche accuse circostanziate rispetto alle modalità di sistemazione dei pazienti a cui il personale medico e paramedico è costretto a fare ricorso per affrontare l'emergenza in corso. Sulla vicenda il pm Epifani ha affidato anche una delega di indagini agli investigatori della Squadra mobile di Taranto che hanno acquisito la cartella clinica della vittima. La salma, in attesa dell'autopsia è stata trasferita nelle celle frigorifere di Bari. Gli elementi raccolti dai poliziotti e dal medico legale che sarà nominato come consulente della procura per effettuare l'autopsia, serviranno per ricostruire l'intero quadro della vicenda e poter valutare in modo chiaro e approfondito le eventuali responsabilità del personale che aveva in cura il 68enne.
Covid, preziosi scomparsi e disumanità, inchiesta sull'ospedale: «Vogliamo la verità». Le testimonianze dei familiari delle vittime: «Quando ci dissero, “faccia poche tragedie”». u il Quotidiano di Puglia-Taranto Sabato 5 Dicembre 2020. «Amore, mi stanno portando in rianimazione, forse m'intubano». È l'ultimo messaggio che Ubaldo, 62 anni, è riuscito a mandare alla moglie prima di morire. Un tenero cuoricino rosso per chiudere la frase. Questo, assieme a tanti altri strazianti messaggi audio e video, farà parte delle denunce, undici sinora quelle previste, che presenteranno i componenti del gruppo «Per i nostri parenti», mogli, figlie e figli di altrettanti pazienti deceduti per Covid nei reparti soppressi dell'ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Parenti che chiedono giustizia, spinti da cause diverse: la scomparsa di oggetti di valore indossati dai propri cari, ma anche presunti comportamenti dei sanitari al limite del disumano come anche dubbi sul trattamento e sulle terapie praticate sui pazienti. Anelli, fedi nuziali, orologi e telefoni cellulari che appartenevano a pazienti morti per Covid, nell'ospedale Moscati di Taranto, non sono mai più stati consegnati ai parenti che sospettano possano essere stati rubati. La magistratura ha aperto una inchiesta, mentre l'Asl di Taranto ha avviato una indagine interna. Ad alcuni cellulari restituiti - secondo la denuncia dei parenti - sarebbe stata cancellata la memoria che conteneva importanti ricordi. E forse anche qualcosa di strano che accadeva nell'ospedale e che era stata filmata e quindi - secondo i familiari delle vittime - doveva essere cancellata. Tra gli episodi riferiti, quello di un paziente 78enne la cui figlia ha ricevuto la telefonata di una dottoressa che, urlando, si lamentava perché l'anziano non sopportava la maschera per l'ossigeno. Davanti al paziente, che era vigile, la dottoressa avrebbe detto «se non la tiene muore, fra dieci minuti muore». Pochi minuti dopo la stessa dottoressa avrebbe chiamato la figlia del paziente dicendo «gliel'avevo detto che moriva, ed è morto». Nel suo racconto, la figlia di Ubaldo, quello del tenero e drammatico ultimo messaggio con il cuoricino rosso alla moglie, parla di «sgarbatezza e disumanità» nel descrivere le comunicazioni tra la famiglia e il personale dove è stato ricoverato suo padre. La sua storia è simile alle altre del gruppo. «Nostro padre aveva 62 anni, era pensionato Ilva e soffriva solo di pressione che controllava bene con una compressa al giorno». Poi l'incontro con il coronavirus. Otto giorni di cura a casa, il peggioramento dei sintomi e il ricovero al Moscati. «Gli hanno fatto il tampone risultato poi positivo e nell'attesa del referto è stato messo in un ufficio adibito a stanza di degenza dove è rimasto due giorni su una brandina con la borsa degli indumenti sulle gambe». Finalmente viene sottoposto ad esame Tac che rivela una grave polmonite da Covid. Viene così spostato nel prefabbricato della rianimazione modulare e da allora inizia l'odissea della famiglia che non avrebbe avuto notizie per mancanza di interlocutori. Nel bunker schermato il telefonino non sempre aveva la linea. Il seguito del racconto è ricco di telefonate senza risposta o di mezze risposte o di risposte cariche d'astio di chi dall'altra parte del telefono avrebbe dovuto tranquillizzare e informare sulle condizioni di salute del malato. E' ancora a figlia a parlare. «Infine il messaggio di papà alla mamma e poco dopo la telefonata di una dottoressa che c'informa che dovevano intubarlo. La nostra reazione si può immaginare racconta la figlia - io stessa ho richiamato subito dopo per avere più informazioni e la risposta che mi hanno dato non la scorderò mai: "Signora, poche tragedie per favore perché non posso perdere tempo con lei"». Ubaldo non ce l'ha fatta, è morto il 7 novembre scorso nella rianimazione del Moscati. Le cause del decesso, oltre ai comportamenti dei sanitari, saranno i quesiti che i familiari metteranno nella denuncia che presenteranno appena entreranno in possesso della cartella cinica. Intanto su questo e sui presunti casi di furto di oggetti di valore dai cadaveri Covid, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ha convocato il direttore generale Asl, Stefano Rossi. «Si tratta di vicende - commenta il primo cittadino - se confermate, che oltre ad essere di una gravità inaudita, vanificherebbero gli sforzi che l'intera comunità sta compiendo e che, in particolare, stanno compiendo le istituzioni di ogni genere per garantire i diritti fondamentali dei cittadini in questo particolare periodo. Nessuna emergenza, infatti conclude il sindaco - può giustificare abusi, superficialità o deroghe al corretto esercizio di qualsiasi genere di servizio essenziale, a maggior ragione dei servizi di natura sanitaria».
Da romatoday.it 21 dicembre 2020. Sciacalli o una grave disattenzione? Il San Camillo di Roma è finito al centro dei un marasma sul qualche anche la Regione Lazio chiede lumi. Tutto è nato quando un uomo di 68 anni di Fondi, ricoverato nel nosocomio perché positivo al Covid, è morto il 14 dicembre scorso, dopo aver lottato invano contro il virus. Quando la figlia ha chiesto alla struttura ospedaliera di poter riavere la fede nuziale e i pochi beni che il padre aveva con sé si è sentita rispondere che di quegli oggetti non c'era traccia. Tutto sparito. Vestiti e occhiali compresi. La storia è ricostruita da Repubblica. La figlia del 68enne ha raccontato come ha scoperto che dei ricordi di suo padre non c'era più traccia. Spariti i vestiti, spariti gli occhiali, sparita la fede nuziale. "Faccia una denuncia contro ignoti per appropriazione indebita", hanno detto alla donna dal San Camillo. La signora si è quindi rivolta ai carabinieri denunciando l'accaduto. Il Direttore Generale del San Camillo di Roma Fabrizio D'Alba, nella giornata di domenica, ha quindi annunciato l'apertura di un'inchiesta interna da parte dell'azienda ospedaliera per verificare se sia avvenuto un furto, e per ricostruire tutti i passaggi "dal ricovero, alla degenza, fino al decesso". "Ho già avviato un'inchiesta interna per ricostruire tutti i passaggi, dal ricovero, alla degenza fino al decesso dell'uomo la cui famiglia ha denunciato il furto di alcuni oggetti personali, dice D'Alba, che aggiunge: "La procedura di presa in carico dei beni e degli oggetti personali dei nostri ricoverati è ben definita e standardizzata. Per questo l'inchiesta interna dovrà chiarire se e quali passaggi sono eventualmente saltati. Va sottolineato che in molti casi prima dell'arrivo presso la struttura Ospedaliera il paziente viene preso in carico dal 118 e sono molteplici le persone che intervengono in quella fase. Dai viglili urbani, alle forze di polizia, ai semplici cittadini che assistono e chiedono aiuto. E stessa cosa accade nella fase di trasporto della salma dopo il decesdo. Un momento in cui intervengono altre realtà non ospedaliere. Per questo - conclude il direttore - prima di individuare l'ospedale come responsabile unico e certo del furto è necessario ricostruire l'intera vicenda. Una vicenda triste, inacettabile corollario della morte di un paziente". Sul caso è intervenuto anche l'Assessore alla Sanità della Regione Lazio, Alessio D'Amato: "Ho richiesto una relazione alla azienda ospedaliera per verificare l'accaduto. Se venisse confermato quanto riportato ci troviamo di fronte ad un gesto vile e irrispettoso. Ho chiesto alla direzione generale una dettagliata relazione sugli eventi".
Gli strumenti della cura. Il saturimetro è uno strumento per la misurazione dell’ossigeno del sangue e del battito cardiaco. In ospedale, questo strumento non è ad acchiappapanni, ma è adesivo al dito. Le unghie, il sudore, l'acqua ne minano l'affidabilità, ma sui parametri falsati, spesso si poggiano le terapie.
La Cura. Per i sanitari la morte di un paziente è sempre certificata come conseguenza di patologie pregresse: falso!
Carla Massi per “il Messaggero” il 22 novembre 2020. Il titolo del documento è Decisioni per le cure intensive in caso di sproporzione tra necessità assistenziali e risorse disponibili in corso di pandemia da Covid-19. Tradotto significa ecco quali sono i criteri che i medici, gli anestesisti in particolare, dovrebbero seguire nel caso in cui dovessero trovarsi a scegliere chi ricoverare prima in terapia intensiva. Solo in una situazione di estrema gravità, dunque.
IL PROTOCOLLO. È stato messo a punto dalla Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva e dalla Società italiana di medicina legale e delle assicurazioni. Un documento secondo il quale dovrebbe essere assistito prima colui che ha maggiori speranze di vita. Come avviene durante le catastrofi. Come sta avvenendo in molte terapie intensive in cui, spesso, ci si trova a dover fronteggiare uno squilibrio tra domanda e offerta di cure. Al paziente, si legge ancora, vanno comunque garantiti i suoi diritti e assicurato che sarà preso in carico con «gli strumenti possibili». «Fermi restando i principi costituzionali (diritto alla tutela della salute e all'autodeterminazione, principio di uguaglianza, dovere di solidarietà - si legge nel testo pubblicato sul sito del Sistema nazionale linee guida dell' Istituto superiore di sanità) - si rende necessario ricorrere a scelte di allocazione delle risorse». Per le due società, vista la situazione, è necessario creare un triage ad hoc negli ospedali. Un centro di valutazione finalizzato a stabilire quali pazienti hanno la priorità per essere assistiti. Che per le rianimazioni, spiegano gli anestesisti, significa accertare chi «potrà con più probabilità o con meno probabilità superare la condizione critica con il supporto delle cure intensive». L' età, dunque, non è di per sé un criterio sufficiente per stabilire chi può beneficiare delle terapie. Ovviamente sono stati individuati anche tutti i parametri, sono dodici ora all' esame dell' Istituto di sanità, e tutte le possibili condizioni da seguire prima di arrivare alla scelta. Scelta che i medici, sempre nel caso di sovraffollamento, quando possibile, intendono sottoporre anche al paziente. Alcuni, come ci ricorda l' ampio dibattito sul testamento biologico, potrebbero anche non desiderare di essere sottoposti a cure intensive. In ogni caso dovrebbero essere rispettate le volontà nel caso il paziente abbia lasciato uno scritto o, in quel momento, informi il medico che lo sta assistendo.
LE RISORSE. «Lo scenario in cui ci siamo trovati a marzo sta purtroppo tornando attuale con un' intensità e una durata ancora non quantificabili - fa sapere la presidente della Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva Flavia Petrini - Per questo si è lavorato sui criteri di scelta di fronte a una eventuale mancanza di letti in terapia intensiva. Gli anestesisti-rianimatori sono tra i sanitari maggiormente impegnati, in Italia come negli altri Paesi, nelle cure per i pazienti colpiti dal virus. La scarsità di risorse prodotta dalla pandemia ci coinvolge in modo particolare. Abbiamo fatto e stiamo facendo ogni sforzo per garantire le migliori possibilità di cura in circostanze spesso drammatiche. Come si è visto in tanti filmati». La deontologia medica, come scrive nell' introduzione del documento Carlo Maria Petrini, direttore dell' Unità di Bioetica e presidente del Comitato etico dell' Istituto superiore di sanità, pone al centro il paziente privilegiando il criterio terapeutico. «Tuttavia - sono parole di Petrini - vi sono situazioni in cui è impossibile trattare tutti. In questi casi la sola etica ippocratica risulta insufficiente. Occorre applicare il triage. E come ogni atto medico deve basarsi innanzi tutto sui criteri di appropriatezza e proporzionalità». Si cominciano, intanto, a vedere i primi effetti della generale stretta nel Paese. Frena, infatti, l' incremento dei pazienti ricoverati in terapia intensiva per Covid-19. Secondo i dati di ieri del ministero della Salute: sono dieci le persone entrate nei reparti di rianimazione, che portano il totale a 3.758. Superata invece la soglia dei 34 mila nei reparti ordinari.
In ospedale l’iter giornaliero è questo:
5.30 prelievi di sangue, a volte l’Emogas arterioso. Per sottoporsi a emogasanalisi arteriosa non è richiesto il digiuno, né la sospensione di eventuali terapie in corso. L'esame può essere moderatamente doloroso. E’ estremamente doloroso se fatto da mani incapaci. Spesso analisi dell’urine. Tre volte al giorno misurazione della febbre e misurazione della pressione.
8.30 distribuzione della protezione e del cortisone ed eventuale flebo.
16.30 somministrazione tramite flebo di antibiotici, farmaci sperimentali, liquido di lavaggio.
Si crede che rivolgendosi alle strutture sanitarie ci si possa curare dal covid. Non è così. Spesso si muore. Io posso raccontare la mia esperienza in virtù del fatto di essere Antonio Giangrande. Esperto del Virus, fortemente caparbio ed estremamente rompiballe. Io sono a detta di tutti un miracolato. Ma il miracolo l’ho anche voluto io. Dal primo momento, la degenza in ospedale è stata caratterizzata dall’essere positivo sia dal Covid, sia nello spirito. Il mio principio, data la mia esperienza, le mie traversie e le mie sofferenze, è: me ne fotto della morte. Ed è stato lo spirito giusto. Ho mantenuto il morale alto ai miei compagni ed intrattenuto ottimi rapporti con gli operatori sanitari (meglio tenerseli buoi a scanso di ritorsioni).
La mia cura prima del ricovero era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina.
La mia cura in degenza era: protezione, antibiotico, cortisone, eparina. Uguale!
In aggiunta c’era solo l’ossigenoterapia.
Loro curano la polmonite bilaterale interstiziale. La polmonite da Covid-19 è altra cosa. Perché è diversa la causa. Se non combatti la causa, l’infiammazione si aggrava, porta al collasso dei polmoni, in particolare uno, e mina la funzionalità degli altri organi: da ciò consegue la morte.
Negli ospedali si attende. Si aspetta l’evoluzione della malattia. Si aspetta il miracolo. Non c'è evoluzione positiva della malattia se non si effettua la cura adeguata. Le cure ci sono ma non le applicano per protocollo.
L’ossigenoterapia a me applicata era pari a 10 litri, con inalazione tramite mascherina con la bustina.
Tra i medicinali e l’ossigeno, la terapia nel complesso si è dimostrata inadeguata, tanto da causare l’aggravarsi della mia situazione. Hanno portato il livello della mia ossigenazione a 15, il massimo per quel reparto di ortopedia con inalazione tramite mascherina con busta. Sempre lucido e con il morale alto ho imposto la mia volontà e la mia competenza. Farmi somministrare, tramite flebo, il “remdesivir”, adottato contro l’Ebola. Farmaco osteggiato dall’elite sanitaria mondiale e nazionale.
La battaglia sul Remdesivir, il farmaco anti Covid che divide i due lati dell'Oceano. Elena Dusi su La Repubblica il 5 dicembre 2020. Per l'Oms non va usato: benefici inferiori ai rischi. Ma per il prestigioso New England Journal of Medicine a sbagliare è stata l'organizzazione mondiale per la sanità con sperimentazione su dati disomogenei. In ballo, oltre alla salute, c'è una fortuna: ogni ciclo di cura costa 2.400 dollari. C’è un farmaco che funziona in America ma non nel resto del mondo. E’ il controverso remdesivir, antivirale messo a punto per Ebola ma “riposizionato” in regime d’emergenza contro il coronavirus, usato anche per trattare il presidente americano Donald Trump. L’Organizzazione mondiale della sanità a fine novembre ha pubblicato i risultati di uno studio da lei coordinato: i benefici del farmaco non superano i rischi. «L’antivirale remdesivir non è consigliato per pazienti ospedalizzati per Covid-19, a prescindere dalla gravità della malattia, perché al momento non ci sono prove che migliori la sopravvivenza o la necessità di supporto di ossigeno». Anche i risultati dei trial precedenti non erano stati brillanti, ma lasciavano intravedere un qualche beneficio, come la riduzione dei giorni passati in ospedale (cinque in meno, in media, rispetto al placebo, secondo uno studio americano). La pubblicazione targata Oms, avvenuta sul British Medical Journal, ha spinto anche la nostra Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) a riunire un tavolo per riscrivere le indicazioni di questo antivirale, che frutta alla casa produttrice americana Gilead 2.400 dollari per ogni ciclo (5 giorni di trattamento), somministrato via flebo esclusivamente in ospedale. L’articolo del British (che mette insieme i risultati di quattro studi diversi per un totale di 7mila pazienti) ha fatto cadere le azioni dell’azienda farmaceutica, nel giorno della pubblicazione, dell’8%. Da Boston, sede del prestigioso New England Journal of Medicine, è subito arrivata la replica: a sbagliare è l’Oms, scrive la rivista in un editoriale. La sperimentazione dell’Organizzazione di Ginevra, battezzata Solidarity, è stata condotta in 30 paesi, dalla Svizzera alla Germania, dall’Iran al Kenya. Secondo il New England non avrebbe raccolto dati omogenei. “Gli standard di cura in queste nazioni sono variabili, così come la condizione dei pazienti che vengono ricoverati in ospedale”. Il remdesivir – ribadisce l’altra sponda dell’Atlantico – deve continuare a essere somministrato. Di questa opinione era, fino alla scorsa estate, anche l’Europa. Trovatasi a corto di scorte (a luglio la Casa Bianca si è accaparrata tutte le dosi prodotte da lì a settembre), la Commissione ha intavolato in tutta fretta una trattativa con Gilead per una fornitura di 500mila dosi al prezzo di 1,2 miliardi di euro. La casa farmaceutica, secondo un’indiscrezione del Financial Times, conosceva già i risultati scettici dello studio Oms, ma non li avrebbe comunicati agli europei. “L’Italia – prosegue il quotidiano inglese – ha pagato 51 milioni per un ordine di remdesivir quando i casi stavano salendo e le scorte si stavano assottigliando”. Mi hanno fatto firmare la liberatoria con assunzione di responsabilità, previa nota informativa, per l’assunzione di un farmaco, non adottato a Manduria e nella maggior parte degli ospedali italiani. E poi, in previsione di morte certa, perché non tentare con cure che possono essere anche dannose o inefficaci?
Sull’efficacia del farmaco io sono un testimone, vivente, ospedalizzato ed attendibile. Dopo due giorni di cure, sì inefficaci, che mi hanno fatto rasentare la morte con il quadro clinico compromesso ed aggravante, con 15 litri di ossigeno e saturazione insufficiente, dopo tre giorni di infusioni con una dose al dì del farmaco, la mia situazione clinica è immediatamente migliorata. Da 15 litri di ossigeno sono passato a 4, con ossigenazione a 92, e tutti gli altri valori sono immediatamente migliorati. Tanto da che il tampone effettuato il giorno 3 dicembre 2020 è risultato negativo.
Sul costo del farmaco io sono dubbioso. Se si è curata l’Africa infetta da Ebola, non penso non si possa salvare la popolazione dei paesi più ricchi. E poi con tanti soldi buttati al vento tra sprechi, regalie e sostegni economici a pioggia, non penso che si possa far morire la gente per spilorceria.
Michele Bocci per repubblica.it il 28 novembre 2020. Non vanno dati subito e in certi casi non devono proprio essere somministrati. Bisogna valutare bene la situazione prima di scegliere i farmaci per la terapia domiciliare contro il Covid. Il cortisone, ad esempio, si può prendere in considerazione dopo almeno tre giorni di sintomi e se peggiora la saturazione dell'ossigeno nel sangue. L'eparina, che tanti medici invece utilizzano, andrebbe iniettata solo a chi rimane a letto a lungo a causa del virus. Del resto non ci sono prove di un beneficio clinico dal suo uso su chi non è ospedalizzato o comunque immobilizzato. E vitamine e integratori non servono proprio a niente. Sta finendo novembre e finalmente arrivano delle linee guida nazionali per la gestione al domicilio dei malati di Covid. Le ha approvate ieri il Cts della Protezione civile anche se il documento va ancora ritoccato. Ad attenderlo sono tantissimi professionisti. Medici di famiglia (che hanno collaborato a stenderlo) e delle Usca, ad esempio, oltre a tutti gli specialisti che in questi mesi sono rimasti sommersi sotto un gran numero di protocolli. C'è quello dell'ordine dei medici della Lombardia, che ritiene utile il cortisone ma solo con problemi di saturazione e febbre che va avanti da 5-7 giorni, e c'è il primario delle malattie infettive di Genova Matteo Bassetti, che suggerisce di aspettare 4 giorni di sintomi moderati prima di avviare i trattamenti farmacologici. Poi c'è la Simg, la società scientifica dei medici di famiglia, che parla di malattia moderata quando ci sono tre giorni di febbre superiore a 38 gradi o problemi di respirazione non gravi e indica di prendere il cortisone al settimo giorno di sintomi, quando suggerisce di introdurre anche l'eparina. L'Italia è il Paese delle linee guida sanitarie e il Covid non ha fatto eccezione.(…) Il documento del Cts dovrebbe mettere le cose a posto. Intanto sottolinea l'importanza del saturimetro, che in situazione normale segna un dato superiore al 95%: "L'utilizzo diffuso di questo strumento potrebbe ridurre gli accessi potenzialmente inappropriati ai pronto soccorso". Il limite di saturazione accettabile, tenuto anche conto del margine di errore degli strumenti da casa, è comunque quello del 92%. Quando il medico assiste a domicilio persone con pochi sintomi deve appunto far misurare l'ossigenazione di frequente, trattare la febbre con il paracetamolo e assicurarsi che il pazienti si idrati e mangi. Il cortisone a domicilio "può essere considerato in quei pazienti in cui il quadro clinico non migliora entro le 72 ore, soprattutto in presenza di un peggioramento dei parametri pulsossimetrici". Come detto l'eparina non va usata "se non nei soggetti immobilizzati per l'infezione in atto". Poi ci sono gli antibiotici, che vanno dati solo se c'è febbre per oltre 72 ore e il quadro clinico fa sospettare che sul problema virale si sia innestata una infezione batterica. L'idrossiclorochina non va usata, dicono gli esperti, e non vanno fatti farmaci con l'aerosol se ci sono conviventi non colpiti dal virus, visto che quel sistema è molto contagioso. Infine "non esistono a oggi evidenze solide e incontrovertibili di efficacia di supplementi vitaminici o intengratori alimentari, a esempio la vitamina D, la lattoferrina, la quercitina, il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato".
Bassetti: "Ecco la verità su Remdesivir, eparina e cortisone". Il professor Bassetti intervistato da ilGiornale.it: "Troppa confusione, ora servono linee condivise per fermare il virus". Matteo Carnieletto e Andrea Indini, Lunedì 02/11/2020 su Il Giornale. Professor Bassetti, ad oggi il Covid-19 ha fatto oltre 38mila morti in Italia. C’è chi punta il dito contro i medici di base, che non avrebbero curato a dovere i propri pazienti, preferendo spedirli in ospedale.
È davvero così?
«Innanzitutto non è del tutto vero che i medici non vanno a visitare i pazienti a casa. C’è però una cosa da dire: la nostra organizzazione delle medicina territoriale non è fatta per gestire una pandemia. Un medico arriva ad avere 1500 assistiti. In una città come Milano, dove in questo momento c’è una grande circolazione del virus, è probabile che un medico abbia a casa anche il 10, 15 per cento dei pazienti con i sintomi del Covid-19. Un medico è in grado di gestire 150 persone insieme? Non è un problema dei medici, è un problema di organizzazione e di tagli che sono stati fatti negli ultimi trent’anni. Nessuno se n’è accorto sul momento, adesso però stiamo vedendo i risultati. Ora bisogna imparare la lezione e organizzare il futuro: ci vogliono investimenti pesanti e sostanziosi».
Cortisone ed eparina sono medicinali che potrebbero essere somministrati ai malati che sono a casa. Perché non vengono prescritti?
«Bisogna stare attenti: lo studio “Recovery” dice che il cortisone ha un beneficio nelle forme gravi, in quelle dove il paziente ha la polmonite e un deficit di ossigeno. In questo caso funziona. Nei casi medio-lievi il cortisone potrebbe anche non essere la risposta corretta. Il problema è avere protocolli condivisi. Sapere cioè cosa fare quando un paziente ha la febbre, quando ha anche tosse e sintomi respiratori, se ha una grave (ma ancora non gravissima) insufficienza respiratoria, a chi posso dare l’eparina e a chi no. Sono tutte cose che sarebbe bene fossero in un protocollo nazionale».
Che attualmente però non c’è…
«No, c’è molto disordine. Ognuno fa un po’ come gli pare. Ho saputo anche di soggetti asintomatici che sono stati trattati con eparina, cortisone e antibiotici. La gente sente questa confusione e va in ospedale, dove si presume ci sia un po’ più di ordine».
Arrivata in ospedale, come viene curata la gente?
«Dipende dal quadro che ci troviamo davanti. Entro i dieci giorni dall’emergere dei sintomi si usa il cortisone a dosi sostenute, il Remdesivir che è stato approvato per chi ha deficit respiratori, l’eparina per evitare che si formino trombi e poi, per le forme più impegnative di polmonite, si aggiunge l’antibiotico».
Perché non viene regolarmente somministrato il Remdesivir?
«Ci sono criteri molto chiari definiti dall’Aifa. Va usato solo se i sintomi hanno un esordio da meno di dieci giorni ed è quello che facciamo anche noi seguendo i criteri dell’Aifa».
Quando Trump ha preso il Covid è guarito nel giro di pochi giorni. Eppure era considerato un soggetto a rischio. Perché?
«Hanno usato una cura sperimentale che attualmente non è in commercio - l’anticorpo monoclonale Regeneron - e che probabilmente ha dato buoni risultati. Ci sono dati preliminari che dicono che questo anticorpo potrebbe funzionare. Bisogna aspettare la conclusione dello studio: una volta che ci sarà, potremo dire qualcosa di più. Indubbiamente però uno degli anticorpi monoclonali in studio sembra essere promettente. È probabile che Trump abbia avuto una forma non troppo grave, ma è anche vero che per curarlo sono stati utilizzati il Remdesivir, l’eparina e l’anticorpo monoclonale».
Torniamo alle cure in casa. Il professor Cavanna è considerato il "padre" del modello Piacenza alla base del quale c'è l'uso della idrossiclorochina. Funziona?
«C’è uno studio che dimostra che l’idrossiclorochina non funziona. Fino a che non ci saranno nuovi studi che dimostrano che il farmaco funziona, io non lo utilizzerei. C’è uno studio randomizzato che dimostra come coloro a cui è stata somministrata l’idrossiclorochina non hanno ottenuto alcun beneficio. Bisogna evitare di fare una medicina aneddotica. La medicina si fa con l’evidenza scientifica, che arriva dagli studi. L’unico modo che hai per dimostrarne l’efficacia è quello di fare uno studio randomizzato: se lo fa hai un’evidenza scientifica. Altrimenti hai solo un’opinione».
Si può dunque fare di più nella scelta dei medicinali e così diminuire il numero dei morti?
«Ci sono alcune cose che si sarebbero dovute fare e che non sono state fatte. Primo: creare protocolli condivisi a livello nazionale, una sorta di linee guida italiane a cui le società scientifiche stanno lavorando. Io sono presidente della Società italiana di terapia anti infettiva, e abbiamo messo in piedi un gruppo di studio, insieme alla Società italiana di pneumologia, per stilare delle linee guida di trattamento del Covid. Con questo gruppo di lavoro cercheremo di produrre un documento che spieghi come trattare il Covid: quali farmaci utilizzare e quali no. Secondo: uniformare i criteri di ospedalizzazione. Chi deve essere ricoverato in ospedale? Chi deve essere curato a casa? Chi deve essere ricoverato in una struttura extra ospedaliera? Ci devono essere parametri precisi, che siano utilizzati da tutti. Ci devono essere anche criteri di dimissioni condivisi: una volta che il paziente sta bene, che non ha più bisogno di presidi ospedalieri, quando lo posso dimettere? Questo è importante perché permette un turnover maggiore di posti letto. Se riusciamo a far girare al meglio i pazienti, il sistema può reggere. Terzo: collegare l’ospedale e il territorio. La gente deve sentirsi sicura e sapere che i medici di base sono collegati all’ospedale in un certo senso si porta a casa l’ospedale».
Molti hanno affermato che la lattoferrina può essere un utile alleato contro il Covid. È davvero così?
«Anche su questo non ci sono forti evidenze. La lattoferrina è un farmaco che non ha grandi effetti collaterali, quindi se uno vuole può usarlo, ma non ci sono evidenze così forti a suo favore. Ci sono delle esperienze aneddotiche, ma io lavoro con le evidenze. Se uno la vuole utilizzare può farlo, ma non credo entrerà nelle linee guida come farmaco che cambierà la storia del Covid».
Da leggo.it l'11 dicembre 2020. La III Sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio scorso di AIFA che vietava la prescrizione off label (ossia per un uso non previsto dal bugiardino) dell' idrossiclorochina per la lotta al Covid. «La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa AIFA a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nell'ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale». Gli appellanti, nella loro qualità di medici che avevano sino a quel momento prescritto l'idrossiclorochina ai pazienti, hanno proposto ricorso contro la nota di AIFA sostenendo in sintesi che l' idrossiclorochina, sulla base di studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate, sarebbe efficace nella lotta contro il virus, censurando il difetto di istruttoria che inficerebbe le determinazioni di AIFA, e hanno lamentato la lesione della loro autonomia decisionale, tutelata dalla Costituzione e dalla legge, nel prescrivere tale farmaco sotto la propria responsabilità, ai pazienti non ospedalizzati che acconsentano alla sua somministrazione per la cura domiciliare del SARS-CoV-2. Nella prima fase della pandemia AIFA, così come del resto altre Agenzie nazionali europee ed extraeuropee, ha inizialmente consentito all'utilizzo off label - e, cioè, al di fuori del normale utilizzo terapeutico già autorizzato - dell'idrossiclorochina e ha reso prescrivibili a carico del Servizio Sanitario Nazionale alcuni farmaci, tra i quali la clorochina e, appunto, l'idrossiclorochina. Ma successivamente AIFA ha disposto la sospensione dell'autorizzazione all'utilizzo off label dell' idrossiclorochina per il trattamento del Sars-Cov-2, se non nell'ambito di studi clinici controllati, e la sua esclusione dalla rimborsabilità a carico del Servizio sanitario nazionale. Alla base di questa determinazione AIFA ha posto alcune evidenze sperimentali che avrebbero rivelato un profilo di efficacia assai incerto del farmaco nel contrasto al virus e un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi. «La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia - si legge nell'ordinanza del Consiglio di Stato - deve essere rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico» «in scienza e coscienza» e con l'ovvio consenso informato del singolo paziente. Rimane fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L'ordinanza - è la n.7097/2020 ed è stata pubblicata oggi - precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di AIFA di escludere la prescrizione off label dell' idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità
Covid, via libera all'idrossiclorochina: "Irragionevole vietarne l'uso". Colpo di scena in Italia: il Consiglio di Stato accoglie il ricorso dei medici di base. "Dati clinici non univoci". Ma non può essere rimborsato. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 11/12/2020 su Il Giornale. Colpo di scena. Esultano i medici che da tempo sostengono l'uso dell'idrossiclorochina contro la malattia Covid-19. Il Consiglio di Stato, infatti, ha accolto il ricorso di alcuni medici contro la decisione dell'Aifa di vietarne la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino. Il medicinale finito al centro della polemica politica per "colpa" di Trump, Bolsonaro e (soprattutto) dei loro detrattori rientra in campo dalla finestra dopo essere stato messo alla porta senza tanti complimenti. Una decisione, quella dell'Aifa, che aveva diviso (e che ancora divide) la comunità scientifica tra chi ritiene l'Hcq pericolosa e chi la considera una valida arma contro il coronavirus. L'ordinanza del Consiglio di Stato, la numero 7097/2020, è stata pubblicata questa mattina ed è destinata a far discutere. Per i giudici amministrativi l'idrossiclorochina può essere usata come terapia per Covid-19, previa prescrizione di un medico e comunque, come previsto dall'Aifa, senza la rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale. La III Sezione ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio del 2020 con cui l'Aifa aveva impedito ai medici di prescrivere l'Hcq al di fuori degli studi clinici autorizzati dall'Ente. "La perdurante incertezza circa l'efficacia terapeutica dell'idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell'ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati - si legge nella corposa ordinanza - non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l'irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti". E ancora: "La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica, sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all'autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico in scienza e coscienza". Ovviamente ci deve essere il consenso informato del paziente e il medico deve monitorare il progresso clinico: ma non può essere vietato. La battaglia su questo farmaco è ormai di vecchia data. Come raccontato nel Libro nero del coronavirus, tra i primi ad utilizzarla fu Luigi Cavanna, primario di oncologia e padre del "Metodo Piacenza", decantato anche dai media stranieri. L’Hcq contro il Covid ha dimostrato di funzionare - ci raccontò - Anche tanti medici l'hanno assunta. Non farà testo, ma vuol dire che ci credevano. E poi ci sono centinaia se non migliaia di pazienti che l'hanno presa e sono guariti”. Per un certo periodo l'Aifa ha dato il via libera all'uso dell'Hcq a discrezione dei medici, autorizzando pure il rimborso da parte del Ssn. In fondo si tratta di un farmaco già usato contro diverse malattie. E costa pochissimo. Oggi però la molecola antimalarica è osteggiata e motivo di scontro sia medico che politico. Dopo uno studio pubblicato su Lancet sui rischi cardiaci e l'aumento di mortalità (poi ritirato con non poco inbarazzo), lo scorso maggio sia l'Oms che le agenzie del farmaco mondiali ne hanno sospeso l'utilizzo. Diversi medici ritengono che sul tema non ci sia un sereno dibattito scientifico, probabilmente anche per colpa delle prese di posizione di leader mondiali: diventato il farmaco "sovranista", è stato fatto quasi di tutto per dichiararlo inutile. "Purtroppo gli editori di riviste importanti sono molto riluttanti a pubblicare qualcosa di positivo sull’idrossiclorochina (chiamo questa riluttanza effetto Trump-Bolsonaro), mentre pubblicano immediatamente anche paper deboli quando non funzionano”, disse Antonio Cassone, già direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Iss e membro dell’American Academy of Microbiology. Certo sull'efficacia dell'idrossiclorochina i dubbi permangono. Alcuni studi randomizzati realizzati, tra cui il "Solidarity" dell'Oms, non hanno trovato effetti benefici, sottolineando pure "un rischio di tossicità, in particolare cardiaca, rilevante ad elevati dosaggi". Per L'Aifa alla base della decisione di bloccare l'Hcq ci sono "evidenze sperimentali, emergenti dagli studi clinici randomizzati e controllati", ma diversi medici ritengono che ancora non si sia arrivati all'ultimo capitolo. “Questi trial - disse Cassone - hanno usato dosi alte di Hcq nell’idea che queste dosi fossero quelle giuste per una diretta attività antivirale”. I favorevoli all'Hcq ritengono infatti che puntando sulla capacità anti-infiammatoria e anti-trombotica del farmaco sia sufficiente usare una dose inferiore, incapace di provocare controindicazioni. A quelle dosi uno studio dell'European Journal of Internal Medicine riteneva che l'Hcq potesse ridurre il rischio morte per Covid del 30%. Chi ha ragione? Il Consiglio di stato, va detto, non dà una risposta a questa domanda. I giudici si sono solo espressi sul ricorso presentato da un folto gruppo di medici di base che "nella prima fase della pandiemia" hanno "esercitato la loro attività somministrando" ai pazienti l'Idrossiclorochina. "Da decenni - si legge nell'ordinanza - l’Hcq viene usata non solo per curare la malaria, ormai debellata in Italia, ma contro l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso in virtù della sua efficace azione di riduzione dei livelli di anticorpi fosfolipidi, tanto da essere somministrato in Italia a circa 60.000 pazienti affetti da tali malattie autoimmuni". I ricorrenti ritengono che le decisioni dell'Aifa siano superate da "studi clinici pubblicati su riviste internazionali accreditate" e che sia stata lesa la loro autonomia decisionale "nel prescrivere tale farmaco, in scienza e coscienza sotto la propria responsabilità" ai pazienti che acconsentono a farsi curare così. Le toghe danno loro ragione: via libera dunque all'uso dell'idrossiclorochina.
Una decisione che scatena polemiche. Idrossiclorochina, il Consiglio di Stato "sospende" l’Aifa e da l’ok al farmaco contro il Coronavirus. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Dicembre 2020. Una decisione destinata a scatenare sicure polemiche. Il Consiglio di Stato ha dato il via libera all’uso dell’idrossiclorochina per la cura del Covid-19, solo su prescrizione e non rimborsabile. La terza sezione del Consiglio di Stato ha accolto, in sede cautelare, il ricorso di un gruppo di medici di base e ha sospeso la nota del 22 luglio 2020 di Aifa che vietava la prescrizione off label, cioè per un uso non previsto dal bugiardino, dell’idrossiclorochina per la lotta al Covid 19. Si legge nell’ ordinanza che “la perdurante incertezza circa l’efficacia terapeutica dell’idrossiclorochina, ammessa dalla stessa Aifa a giustificazione dell’ulteriore valutazione in studi clinici randomizzati, non è ragione sufficiente sul piano giuridico a giustificare l’irragionevole sospensione del suo utilizzo sul territorio nazionale da parte dei medici curanti”. “La scelta se utilizzare o meno il farmaco, in una situazione di dubbio e di contrasto nella comunità scientifica – è scritto nell’ordinanza – sulla base di dati clinici non univoci, circa la sua efficacia nel solo stadio iniziale della malattia, deve essere dunque rimessa all’autonomia decisionale e alla responsabilità del singolo medico“, “in scienza e coscienza” e con l’ovvio consenso informato del singolo paziente. Fermo il monitoraggio costante e attento del medico che lo ha prescritto. L’ordinanza precisa che non è invece oggetto di sospensione (né a monte di contenzioso) la decisione di Aifa di escludere la prescrizione off label dell’idrossiclorochina dal regime di rimborsabilità.
LE DIVISIONI SUL FARMACO – Lo sblocco dell’idrossiclorochina sancito oggi dal Consiglio di Stato riapre il dibattito sul farmaco e sui metodi scientifici per contrastare il virus. L’idrossiclorochina, va ricordato, è un farmaco genericamente utilizzato nel trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide e il lupus eritematoso discoide e disseminato. Tra i primi sponsor del suo utilizzo contro il Covid-19 c’era stato il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, un entusiasmo che non aveva trovato grande sponda nella comunità scientifica, con più studi che avevano in realtà evidenziato i suoi effetti minimi, se non nulli o dannosi, contro il Coronavirus. Recentemente anche l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha pubblicato uno studio in cui “boccia” l’utilizzo del farmaco contro il virus, mentre a luglio l’Aifa ne aveva sospeso l’autorizzazione “per il trattamento dell’infezione da Sars-CoV-2, al di fuori degli studi clinici, sia in ambito ospedaliero che in ambito domiciliare”. La decisione odierna del Consiglio di Stato ha provocato la reazione contrariata di Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, che su Twitter ha attaccato la decisione dei giudici: “Idrossiclorochina: le evidenze confermano che il profilo rischio-beneficio nella Covid-19 è sfavorevole, le linee guida e le autorità sanitarie raccomandano contro il suo utilizzo, il Consiglio di Stato sovverte la scienza”. Di tutt’altro parere uno sponsor "nostrano" del farmaco, il segretario della Lega Matteo Salvini, secondi cui il sì del Consiglio di stato “è una notizia che molti medici stavano attendendo. Tra gli altri, ricordiamo il dott. Luigi Cavanna che a Piacenza somministrando precocemente questo farmaco ha trattato con successo molti pazienti affetti da Covid, casa per casa, riducendo gli accessi all’ospedale e guadagnandosi anche fama internazionale per il suo impegno medico e umano”.
Così l’idrossiclorochina finisce al Consiglio di Stato. Gioia Locati il 7 dicembre 2020 su Il Giornale. Cos’è l’idrossiclorochina? Fa bene o fa male? Come si affronta oggi il Covid? Ci si può curare a casa? Proviamo a rispondere con l’aiuto di un medico, l’oncologo e professore Luigi Cavanna, che ha seguito centinaia di malati di Covid, trattandoli con questo farmaco al loro domicilio. Da maggio però non si può più prescrivere né somministrare idrossiclorochina (vedremo perché). Il 10 dicembre il Consiglio di Stato si esprimerà sull’esposto presentato da alcuni medici che chiedono il via libera al farmaco e di poter prescrivere in scienza e coscienza.
L’ antefatto. L’idrossiclorochina si usa da oltre 50 anni per curare la malaria e alcune malattie autoimmuni. Per le sue proprietà immunomudulanti, anti trombotiche e anti virali è stata impiegata anche per contrastare alcune importanti infezioni, dall’HIV all’Ebola, dalla Sars alla Mers. Costa poco. Durante la prima ondata del Sars-Cov-2, l’idrossiclorochina era presente nelle linee guida dei Paesi occidentali colpiti dall’infezione (approvata, dunque, anche da Aifa ed Ema) per trattare i malati, sia in ospedale che a domicilio. A maggio però esce uno studio su Lancet – rivelatosi poi fallace – che richiama le attenzioni delle agenzie regolatorie. Si afferma che l’idrossiclorochina era stata causa di un aumentato numero di decessi, a riprova si millanta l’analisi di 96mila cartelle di pazienti in 970 ospedali nel mondo. Ma, a una prima seria verifica, le basi di quel lavoro, crollano. Nessuno aveva esaminato quelle cartelle e la società che eleborò i dati falsi finì indagata. Cliccate qui. Tuttavia l’idrossiclorochina è rimasta inaccessibile ai malati di Covid. Sospesa la somministrazione nei Paesi occidentali già a poche ore dalla pubblicazione dello studio fallace. A giustificazione, oggi, Aifa cita la posizione dell’OMS che “per prudenza ne ha sospeso i trial”. Sarebbe pericolosa per il cuore e potrebbe aumentare i decessi. La situazione oggi. In mezzo mondo, i medici che, nei mesi di marzo aprile hanno trattato i malati con quel farmaco, hanno raccolto e pubblicato i loro dati. Secondo chi l’ha prescritta, “soprattutto nei primi giorni di malattia”, l’idrossiclorochina ha contribuito a contenere i decessi. Sono stati fatti numerosi confronti sia con con gruppi di pazienti ricoverati sia con chi si è curato a domicilio. Qui uno studio osservazionale belga su 8.075 partecipanti. Si sono poi studiati i decorsi dei pazienti che non hanno usato quel farmaco e si è giunti alle conclusioni che sintetizza Luigi Cavanna, oncologo, primario all’ospedale di Piacenza e ricercatore: “La mia esperienza con l’impiego di quel farmaco è più che buona, ho seguito personalmente a casa oltre 300 malati, dei quali il 30 per cento con forme severe e un altro 30 per cento con forme moderate. Di questi nessuno è morto e i ricoverati sono stati meno del 5 per cento”. E poi. “Mi sono sentito ringraziare con queste parole, ‘dottore, stavo così male che pensavo di non farcela, dopo 3 giorni di terapia la mia vita è cambiata”. Lo staff del professor Cavanna ha raccolto i dati in due pubblicazioni sui malati di tumore che hanno avuto il Covid e un terzo lavoro verrà spedito nei prossimi giorni per essere pubblicato. Intanto, altre ricerche sono state pubblicate, dapprima una metanalisi, ossia una summa di 26 studi che riferiscono dell’impiego di idrossiclorochina su 44.521 malati di Covid e che mostrerebbero una riduzione di mortalità con il farmaco a basse dosi. Cliccate qui. Poi un altro lavoro tutto italiano che riunisce le esperienze di 33 ospedali della Penisola in uno studio osservazionale multicentrico che trovate qui. Sono stati seguiti i decorsi di 3.451 pazienti non selezionati, ricoverati dal 19 febbraio al 23 maggio. Ed è emersa una mortalità ridotta del 33% in chi ha usato quel farmaco. In luglio, 13 Regioni italiane hanno chiesto di poter usare l’idrossiclorochina off label nei trattamenti domiciliari, cliccate qui. Ma Aifa è rimasta ferma sulla sua posizione. Nel frattempo ci sono stati ricorsi al Tar e si attende il verdetto del Consiglio di Stato del 10 dicembre.
Per l’Ema è un farmaco che “se preso in dosi elevate induce al suicidio”. Il 30 novembre Ema pubblica una nota. Si dice che “a seguito di una revisione dei dati sono emersi 6 casi di disturbi psichiatrici in pazienti Covid a cui erano state somministrate dosi di idrossiclorochina superiori a quelle autorizzate”.
Professor Cavanna ha osservato anche lei la tendenza al suicidio? “Qualsiasi farmaco preso a dosi da cavallo fa male…che dico farmaco, anche la pastasciutta…Penso che ci si debba avvicinare ai dati con umiltà e senza pregiudizi. Invito a guardare a ogni terapia in termini di costi e benefici, tenendo presente gli effetti collaterali e la situazione di ciascuno. A Piacenza ci sono stati oltre 900 morti nella prima ondata, in quel periodo, dei pazienti che noi seguimmo a domicilio trattati con idrossiclorochina – all’incirca 300 – i ricoveri sono stati inferiori al 5% e nessuno è morto”.
Per quanti giorni va somministrata l’idrossiclorochina?
“Per una settimana, non di più. Si ottenevano miglioramenti dopo due-tre giorni. Abbiamo osservato che è importante dare il farmaco ai primi sintomi, ed è sufficiente un basso dosaggio”.
Cosa pensa del fermo divieto delle agenzie regolatorie?
“Che per onestà sia necessario spiegare ai pazienti che hanno ricevuto l’idrossiclorochina nei primi mesi e sono guariti che cosa è successo; se hanno rischiato, che cosa hanno rischiato, e come hanno fatto a rimettersi in piedi. Una spiegazione è dovuta. Prima il farmaco era ammesso e lo è stato per tre mesi, ora è vietato. Perché Aifa non va vedere come stanno queste persone?”.
Aifa sostiene che non esistono studi randomizzati sui pazienti Covid.
“Abbiamo molti dati, non solo noi di Piacenza, ma da tutta Italia, penso alla provincia di Alessandria, a Novara, a Milano, e a Bologna. Sono stati pubblicati gli studi osservazionali (vedi sopra), una metanalisi che mostra la riduzione di mortalità su 40mila malati. Questi report vanno messi sul tavolo. Si tratta di uomini e donne, non di esperimenti in vitro. Sono un sostenitore dello studio randomizzato (si dividono i pazienti in due gruppi omogenei, a uno si somministra la miglior cura esistente più il farmaco da testare, all’altro la miglior cura più il placebo) ma lo studio è sempre un mezzo, non un fine. I malati bisogna guardarli in faccia e, in mancanza di studi randomizzati utilizzare farmaci di provata efficacia ‘sul campo’, di facile somministrazione, di costo contenuto e con pochi effetti collaterali.
Cosa farebbero all’Aifa se qualcuno di loro o dei loro familiari si ammalasse di Covid e si ritrovassero con una febbre alta che non passa dopo tre giorni, tosse e fiato pesante? Si accontenterebbero dell’antipiretico e del saturimetro (sono le indicazioni per curarsi a casa) aspettando forse di peggiorare per essere ricoverati d’urgenza? È come se misurassimo la pressione alta senza dare alcun farmaco ma consigliando di tenere a casa l’apparecchio per la pressione…”
Il Covid si può curare a casa?
“Assolutamente sì, la cura precoce, fatta cioè nei primi giorni di febbre alta, tosse e affanno, consente ai pazienti di evitare il ricovero in ospedale e di guarire. La mia esperienza coincide con quella di centinaia di medici in Italia e migliaia nel mondo che hanno curato a casa i pazienti”.
Cosa prendere ai primi sintomi?
“Chi non ha sintomi o ne ha pochi non deve fare nulla, isolarsi con le precauzioni per non infettare gli altri. Chi ha sintomi può assumere un antinfiammatorio. Se sopraggiunge tosse o se la febbre non passa in 24-30 ore bisogna rivolgersi al medico di famiglia che può attivare le Usca, Unità mediche territoriali che, a domicilio, possono visitare, fare un’ecografia ai polmoni, fare un tampone e valutare il livello dell’ossigeno” (nel Piacentino funziona così).
Insomma, è importante agire subito?
“Sì. Durante la pandemia abbiamo visto arrivare in ospedale persone con alle spalle 10 e più giorni di febbre, tosse, dispnea, non va bene”.
Ma oltre all’antinfiammatorio? Antibiotico o cortisone?
“Decide il medico. Se c’è il sospetto che l’infiammazione abbia intaccato i polmoni l’antibiotico va consigliato. Il cortisone va dato non subito ma nei giorni successivi per evitare il picco infiammatorio. L’eparina se il paziente è allettato o fatica a muoversi. Fondamentale è misurare la saturazione di ossigeno”.
Come mai un oncologo cura i malati di Covid a domicilio?
“L’oncologo ha come background culturale la presa in carico del malato, lo segue nel suo percorso di cura e nei successivi controlli fino alla guarigione o alle cure palliative. Ricordo un paziente che ci disse che avrebbe dovuto interrompere la terapia perché il figlio non lo poteva più accompagnare in ospedale poiché avrebbe rischiato di perdere il lavoro. Era 20 anni fa. Decidemmo di istituire una rete territoriale che funziona ancora oggi: nelle zone senza ospedale ci sono i nostri presidi, portiamo le cure oncologiche vicino al domicilio del paziente e siamo stati i primi in Italia a eseguire le terapie nella Casa della Salute, in una vallata del Piacentino priva di ospedali”.
Con l’inizio del Covid vi siete comportati così?
“Un nostro paziente, malato di tumore, ci avvisò di avere tosse e febbre. Siamo andati a domicilio. È cominciata così…Poi sono stati trattati tanti altri malati, anche, e soprattutto, non oncologici”.
Guariti con idrossiclorochina?
“Esattamente”.
Oggi in ospedale a Piacenza avete tanti malati Covid?
“Molti meno che a marzo, grazie anche alla nostra rete di assistenza domiciliare”.
Ora cosa farete?
“Cercheremo di convincere Aifa a cambiare le linee guida con la forza degli argomenti ma anche con la determinazione che ci trasmettono i malati”.
Ci sono speranze?
“C’è un assoluto bisogno di cure precoci. Ci sono tanti dati, c’è un’interrogazione parlamentare presentata dal senatore Armando Siri che ha a cuore la nostra causa e c’è il Consiglio di Stato”.
Coronavirus, il farmaco targato Latina che funziona e non usiamo. Latina - Il monoclonale “Cov555”, sviluppato dalla società statunitense Eli Lilly e prodotto dalla nostra Bsp Pharmaceuticals Spa, ha guarito Trump. Alessandro Marangon il 18/12/2020 su Latina Oggi. Un farmaco "targato" Latina che funziona ma che noi, in Italia, non usiamo. Si tratta del monoclonale "bamlanivimab", o "Cov555", sviluppato dalla multinazionale statunitense Eli Lilly e prodotto nello stabilimento pontino dell'Appia Bsp Pharmaceuticals dell'imprenditore Aldo Braca. Lunedì, salvo imprevisti, è attesa una delegazione della Eli Lilly a Latina per incontrare il ministro della Salute Roberto Speranza e per lanciare il farmaco. Farmaco che qui da noi è ancora in fase di sperimentazione, e quindi non in commercio, ma che negli Usa ha già guarito l'ex presidente Donald Trump. Una terapia a base di anticorpi monoclonali che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. «Abbiamo "pallottole" specifiche contro il Covid-19, potremmo salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle», è l'ennesimo sfogo del virologo del San Raffaele di Milano Massimo Clementi, il quale ha spiegato che i colleghi degli Stati Uniti, da alcune settimane, somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. «Dopo due, tre giorni - ha sottolineato Clementi - guariscono senza effetti collaterali apparenti». E questo al costo di circa mille euro per un trattamento completo contro gli 850 di un ricovero giornaliero. Un paradosso, dunque, che la nostra Bsp, oltre seicento dipendenti, un fatturato da centinaia di milioni di euro e definita da più parti una sorta di miracolo che lavora tra Stati Uniti e Giappone (l'80% dell'export con i primi e il 20% con il secondo), non veda il proprio prodotto utilizzato per guarire gli italiani che, per ora, aspettano il via libera alla sperimentazione.
Plasma iperimmune contro il coronavirus: funziona? Le Iene News il 19 novembre 2020. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. Alessandro Politi e Marco Fubini accendono di nuovo i riflettori sul tema. “Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”. Alessandro Politi e Marco Fubini tornano a parlarci del plasma iperimmune contro il coronavirus. A oggi, non esiste ancora una cura certificata e standardizzata per combattere il coronavirus. Per aiutare i malati di Covid viene usato un mix di farmaci che la scienza ha reputato essere il migliore possibile dopo le sperimentazioni fatte in questi mesi. E tra questi, nell’azienda ospedaliera di Padova, da dove vi siamo raccontando da un mese la prima linea della battaglia, c’è anche il plasma iperimmune, che sostanzialmente fornisce al paziente che lo riceve gli anticorpi per combattere il virus. “Io non ho notizia di pazienti deceduti trattati con plasma iperimmune”, ha detto alla Iena il direttore generale Luciano Flor. “I medici di questo ospedale mi dicono che i pazienti trattati col plasma vanno bene”. Oggi, dopo mille polemiche e scetticismi, molti medici da tutta Italia stanno cominciando a chiedere plasma iperimmune per aiutare i propri pazienti. “Attualmente la terapia di prima linea più efficace non solo secondo Mantova, Pavia e Padova, ma secondo tantissimi altri centri è il cortisone, l’eparina e il plasma iperimmune come agente antivirale”, dice il professor Massimo Franchini, direttore di immunoematologia e medicina trasfusionale dell’ospedale di Mantova. Ma, secondo quanto ci raccontano in alcune strutture ospedaliere, le scorte di plasma starebbero finendo. “Abbiamo dei problemi per quanto riguarda i donatori. Va fatto un appello: chi ha avuto il Covid se può donare, doni. Perché questa è un’arma importante”, ci ha detto il prof. Roberto Vettor, direttore del dipartimento di Medicina a Padova. Ma in molte parti d’Italia non avrebbero nemmeno iniziato la raccolta di sacche. E nel caso si voglia donare il plasma? In questi gironi ci sono arrivate moltissime mail da parte di persone che vorrebbero donare e non sanno come fare. E anche la cantante Nina Zilli, come potete vedere nel servizio qui sopra, ha raccontato cosa le avrebbero risposto quando si è informata per donare il plasma. Ma perché quando sentiamo parlare in tv dei rimedi contro il coronavirus, nessuno parla del plasma iperimmune? Durante la trasmissione “Otto e Mezzo” su La7, il direttore dell’Aifa Nicola Magrini, alla domanda di Lilli Gruber su quale sia oggi la cura più efficace per combattere il coronavirus, ha risposto: “Lo standard di cura attuale è basato su tre farmaci importanti come l’ossigeno, il cortisone e l’eparina. In aggiunta, ma non ha ricevuto conferme come aspettavamo, c’è il Remdesivir che andrebbe pertanto ristudiato”. Ma, mentre ristudiamo il Remdesivir, perché il plasma non viene nemmeno citato?
Siri: “I farmaci anti-covid fanno paura a chi fa business sulla salute dei cittadini”. Rec News, direttore Zaira Bartucca 1 Dicembre 2020. Il senatore: “Ci si inventa di tutto per non utilizzarli. In atto propaganda strumentale, i medici hanno già salvato un sacco di vite” Idrossiclorochina a 6 euro funziona e fa paura a chi specula e fa business sulla salute dei cittadini. Così, pur di evitare che si utilizzi sui pazienti, ci si inventa qualunque cosa per screditarla. Pongo in premessa che personalmente non ho alcuna passione per l’Idrossiclorochina e che, per me, qualunque farmaco che si riveli utile per la cura a casa dei pazienti dovrebbe avere attenzione e la giusta considerazione da parte delle Autorità Sanitarie, soprattutto se sono i medici a chiederlo”. Mi limito a rilevare il dato, ovvero: il Dottor Cavanna, medico Primario all’Ospedale di Piacenza e con lui la Dottoressa Paola Varese Primario ASL di Alessandria, il Dottor Luigi Garavelli Primario Malattie Infettive Ospedale di Novara e centinaia di altri medici del Territorio hanno salvato centinaia di pazienti curandoli a casa con questa medicina, eppure hanno contro quasi tutta la comunità scientifica e i cosiddetti organi di “controllo” statali che si rifiutano di leggere gli studi nazionali e internazionali sull’efficacia del farmaco (che io ho letto) e insistono con una propaganda strumentale e vergognosa per delegittimarne l’utilizzo. L’ultima trovata propagandistica è quella dell’EMA, l’Agenzia Europea per i medicinali (sostanzialmente la sorella europea dell’AIFA nazionale), che guarda caso, proprio mentre 13 Regioni Italiane chiedono la ripresa dei protocolli sperimentali per le cure domiciliari con Idrossiclorochina, fa uscire una notizia in cui afferma che il farmaco è pericoloso per la salute mentale. Dunque, se quello che EMA afferma fosse vero ne conseguirebbe che tutti i reumatologi del mondo dovrebbero immediatamente sospendere la somministrazione di Idrossiclorochina che da più di 50 anni prescrivono ai loro pazienti visto che l’EMA dice che altrimenti si suicideranno. I medici non hanno mai avuto evidenza di questo grave effetto collaterale? Beh, non importa, vuol dire che non saranno stati attenti. Ora (proprio perché si è scoperto che l’idrossiclorochina è efficace per curare il COVID-19) guarda caso emerge che 6 persone che prendevano il farmaco si sono suicidate (non sappiamo niente di loro, ovvero ad esempio se avessero già problemi psichiatrici). Sappiamo però che hanno abusato del farmaco prendendo dosi superiori a quelle consigliate. E questa vi pare una notizia? Sei persone dal quadro clinico sconosciuto abusano di un farmaco, si suicidano e la colpa è del farmaco? Un farmaco che prendono ogni giorno milioni di persone a cui non è mai successo nulla di tutto questo? Certo che bisogna proprio essere dei mascalzoni, oppure davvero in malafede, per fare una propaganda così smaccatamente strumentale contro una medicina solo perché si è dimostrata, se assunta a basse dosi e all’insorgenza dei sintomi, uno strumento efficace per curare a casa il COVID-19 e costa solo 6 euro. Come si fa ad accettare che Enti istituzionali, che nella coscienza collettiva godono di autorevolezza scientifica, si approfittino della buona fede dei cittadini per diffondere storie artefatte come quella sulla pericolosità psichiatrica di un farmaco che viene utilizzato da 50 anni per la cura di artrite reumatoide e altre importanti malattie del sistema immunitario? Tra l’altro, non si vuole evidenziare che il Trattamento per il COVID-19 è molto breve (massimo una settimana e a dosi molto più basse di quelle già oggi consentite). Possibile che nessun organo di controllo etico della comunità scientifica sollevi il caso? Dov’è finita la serietà di una categoria che fa un giuramento solenne “di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento rifuggendo da ogni indebito condizionamento”? Lo ripeto ancora: il Ministero della Salute e AIFA concedano la possibilità a tutti questi medici che lo chiedono, di poter riprendere la sperimentazione, con tutti i dovuti controlli e verifiche. Perché non si può negare una cura ritenuta efficace dai medici sul campo solo sulla base di storie rivelatesi false come il famoso studio di The Lancet, o suggestioni ai limiti del ridicolo come questa di EMA. Curare a casa il COVID-19 significa scongiurare l’affollamento degli Ospedali e dunque la necessità di DPCM che stanno, questi sì, incidendo negativamente sulla socialità e sulla salute mentale degli individui producendo danni incalcolabili al lavoro e all’economia”.
Coronavirus e vitamina D, l'appello di 61 prof e medici italiani: “Diamola ai soggetti a rischio”. Le Iene News il 10 dicembre 2020. Sono 61 i professori, ricercatori e medici che hanno sottoscritto un appello alle istituzioni per somministrare alle categorie più a rischio per il coronavirus la vitamina D in via preventiva: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione ai pazienti di COVID-19”. Una richiesta simile a quella fatta un mese fa dai colleghi inglesi. Un appello di 61 tra professori, ricercatori e medici sul modelli di quello firmato dai colleghi inglesi: “Diamo la vitamina D ai soggetti a rischio per contrastare il coronavirus”. Vi abbiamo raccontato di questo appello oltre un mese fa: un gruppo di scienziati inglesi guidati dal professor Gareth Davies ha indicato come circa la metà della popolazione inglese abbia una carenza di vitamina D, e secondo loro questo basso livello potrebbe comportare un maggior rischio di contrarre il coronavirus. Non solo: se ci si ammala, e si ha poca vitamina D, la possibilità di avere sintomi gravi sarebbe più alta. E per questo il gruppo di scienziati ha lanciato un appello al governo per intervenire, facendo aggiungere dosi di vitamina D ai cibi più consumati come il latte o il pane. Adesso in Italia un documento sottoscritto da 61 tra professori, ricercatori e medici propone alle istituzioni italiane un percorso simile. “Ad oggi è possibile reperire circa 300 lavori con oggetto il legame tra COVID-19 e vitamina D”, scrivono i ricercatori. Gli studi “hanno confermato la presenza di ipovitaminosi D nella maggioranza dei pazienti affetti da COVID-19, soprattutto se in forma severa, e di una più elevata mortalità ad essa associata”. Per questo i 61 studiosi suggeriscono, nel documento inviato alle istituzioni sanitarie italiane, di valutare la “somministrazione preventiva” di vitamina D “a soggetti a rischio di contagio come anziani, fragili, obesi, operatori sanitari, congiunti di pazienti infetti, soggetti in comunità chiuse”. Secondo loro non ci sarebbero, in questo contesto, “sostanziali effetti collaterali”. La motivazione di questa richiesta è chiara: “E’ stata largamente evidenziata l’utilità della somministrazione di vitamina D a pazienti COVID-19”. Un tema che noi de Le Iene stiamo approfondendo da tempo: a inizio novembre vi abbiamo raccontato dello stato degli studi sul possibile legame tra vitamina D e coronavirus, dopo che gli scienziati inglesi avevano lanciato l’appello al governo per aggiungere la sostanza al cibo “per aiutare nella lotta contro il Covid”. Una richiesta seguita dall’annuncio del ministero della Salute britannico, che ha chiesto ai propri consiglieri sanitari di fornire linee guida per utilizzare la vitamina D come possibile modo per prevenire e trattare il coronaviurs. Con Giulia Innocenzi poi abbiamo intervistato il professor Giancarlo Isaia dell’università di Torino, tra i 61 firmatari dell’appello e coautore di uno studio secondo cui le regioni italiane che ricevono meno raggi solari UV sono anche quelle dove il coronavirus ha causato più contagi e morti. I risultati dello studio, ci ha detto il professore “sono coerenti con i possibili effetti benefici della radiazione UV solare sulla diffusione del coronavirus e sulle sue manifestazioni cliniche. Risulta infatti che la radiazione UV è sia in grado di neutralizzare direttamente il virus, sia di favorire la sintesi della vitamina D che, per le sue proprietà immunomodulatorie, potrebbe svolgere un ruolo antagonista dell’infezione e delle sue manifestazioni cliniche”. Pochi giorni fa infine vi abbiamo dato conto di una circolare del ministero della Salute, per la quale “non esistono ad oggi evidenze solide e incontrovertibili (ovvero derivanti da studi clinici controllati) di efficacia di supplementi vitaminici e integratori alimentari (ad esempio vitamine, inclusa vitamina D, lattoferrina, quercetina), il cui utilizzo per questa indicazione non è quindi raccomandato". A quelle parole ha replicato a Iene.it il professor Isaia, che ci ha detto: “La circolare è discutibile perché un nostro nuovo documento riporta nuove evidenze su quanto andiamo dicendo. Chi ha scritto il documento ha accomunato la vitamina D, che è cosa ben diversa, ad altre vitamine e integratori. Le nostre evidenze, che partono dall’inizio del 2020, possono essere discutibili ma meritano almeno un approfondimento”».
Tra il ricovero e la dimissione son passati solo 16 giorni, dal 22 novembre dell'attesa del ricovero, avvenuto il 23, fino al 7 dicembre 2020, data delle dimissioni.
«La mia dimissione. Purtroppo la mia dimissione come il mio ricovero è stato traumatico. Dal 3 dicembre 2020 al 7 dicembre 2020 sono stato costretto a stare da negativo in un reparto Covid. Le linee guida raccomandano il distanziamento tra coniugi, positivi e negativi, e poi le autorità permettono la promisquità negli ospedali Covid. Non è provato scientificamente il periodo di immunità, specie in presenza di carica virale forte, però in reparto per ben due volte hanno introdotto nella mia stanza pazienti di prima positività. La seconda volta, il 5 dicembre 2020 notte, addirittura, V.to T.liente di Martina Franca, poverino, egli stesso infettato in ospedale. Ho consigliato, per impedire la promisquità, l’appaiamento in stanze separate: vecchi degenti, con vecchi degenti, a minima trasmissione del virus; nuovi ricoverati con nuovi ricoverati ad alta carica virale. Risposta: problemi organizzativi. Ergo: troppo lavoro per gli addetti. Ho detto che la mia degenza non era necessaria perché potevo essere curato a casa o tramite Usca. Giusto per liberare il letto per nuove emergenze. Insomma sono stato costretto alla dimissione volontaria, da me imposta ed anticipata da giorni. L’uscita è stata procrastinata fino alle 19.30 della sera del 7 dicembre. E non voglio pensare che sia stata una sorta di ritorsione.
Positivi e negativi insieme al Giannuzzi, è normale? Lavoceassociazioneculturaleasud.it l'8 Dicembre 2020. Finalmente negativo. Antonio Giangrande, il “famoso” paziente dell’attesa di undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato all’ospedale Giannuzzi di Manduria , è finalmente negativo. Tutto bene quel che finisce bene, direte voi. Invece no. Dopo 15 giorni di ricovero , la degenza procedeva secondo quanto auspicato, fino all’esito negativo del tampone. A questo punto ci si sarebbe aspettato uno spostamento di reparto per evitare che un negativo restasse in stanza con positivi. Ma niente. E risposta negativa è arrivata neanche alla richiesta del Giangrande di essere spostato almeno in un reparto dove i negativi non fossero “recenti ” e con altissima carica virale. Come noto, anche i negativizzati, specie chi ha avuto insufficienze respiratorie, devono rispettare le solite prescrizioni. La presenza di anticorpi neutralizzanti non d à certezza scientifica di “immunità” e, come già successo, i guariti possono essere reinfettati. Da non dimenticare la possibilità di imbattersi in un tipo di virus mutato contro cui gli anticorpi acquisiti nulla possono fare. A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare, il Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria, per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi , anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute . Con l’assurdo che, in fase di dimissione, è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi.
La denuncia di Giangrande: “guarito dal Covid nella stessa stanza con positivi”. Già protagonista della lunga attesa in ambulanza prima di essere ricoverato. La Voce di Manduria mercoledì 9 dicembre 2020. Dopo la denuncia per aver atteso undici ore in ambulanza prima di essere ricoverato in un reparto Covid del Giannuzzi, l’avvocato Antonio Giangrande, di Avetrana, si rende protagonista di un’altra vicenda. Dopo quindici giorni di ricovero, Giangrande si è negativizzato ma, racconta, è rimasto nella stanza con altri pazienti ancora positivi. Alla sua richiesta di essere trasferito in un reparto dove i positivi non fossero recenti e quindi con una carica virale alta, i responsabili del reparto si sarebbero opposti. «A questo punto, data la possibilità di curare i postumi della malattia con cure ordinarie e con assistenza domiciliare – si legge in una nota stampa -, l’avvocato Giangrande è stato costretto alla dimissione volontaria per evitare di passare altri giorni da negativo in un reparto di positivi, anche nuovi, con i relativi rischi per la propria salute». «Con l’assurdo che, in fase di dimissione – concluso il comunicato - è stato raccomandato di non tornare a casa da coniugi o parenti positivi».
Come si esce dall’ospedale.
«Se si è negativi: con le proprie gambe e con i propri mezzi: conoscenti o taxi. Anche se ti hanno sbattuto a decine di chilometri da casa.
Se si è ancora positivi: con l’ambulanza.
Se si è morti: ti puliscono; ti chiudono tutti gli orifizi con delol’ovatta; ti chiudono in un sacco di plastica così come eri vestito; mettono le tue cose in un altro sacco di plastica che verrà smaltito con procedura speciale; la salma nel sacco verrà trasferita, se ricoverato all’ospedale, dal reparto all’obitorio dell’ospedale e poi al cimitero o al crematorio, oppure da casa all’obitorio cimiteriale o al crematorio. La salma è chiusa ermeticamente nella bara, senza l’ultimo saluto dei familiari. Al cimitero verrà tumulata o inumata, spesso, senza la presenza dei familiari, obbligati al confinamento perché positivi anch’essi».
Come reagisca la gente nei confronti dei negativizzati?
«C’è la gente che ha paura e ti allontana. Poi c’è la cattiva gente: induce e convince gli altri ad allontanarti».
Cosa si sentirebbe di dire ai NoVax?
«Cazzi loro. Non sanno cosa significa veder morire la gente per mancanza d’aria, come se si stesse affogando in acqua. Non facendo il vaccino mettono a repentaglio la salute e, forse, la vita, di chi sta loro vicino».
Come conclude questa intervista.
«Il virus ha smascherato la vera natura della gente. Conoscenti, amici e parenti che ti allontanano e ti accusano, sol perché ti hanno infettato. I positivi conclamati posti alla pubblica gogna, non sono untori. Essi divenuti negativi, quindi immuni ed in un certo senso vaccinati, proprio loro devono stare attenti agli altri, che possono reinfettarli. E poi di questi tempi un contagio da Covid non si nega a nessuno, specie alla cattiva gente».
Censura da Amazon libri. Del Coronavirus vietato scrivere.
"Salve, abbiamo rivisto le informazioni che ci hai fornito e confermiamo la nostra precedente decisione di chiudere il tuo account e di rimuovere tutti i tuoi libri dalla vendita su Amazon. Tieni presente che, come previsto dai nostri Termini e condizioni, non ti è consentito di aprire nuovi account e non riceverai futuri pagamenti royalty provenienti dagli account aggiuntivi creati. Tieni presente che questa è la nostra decisione definitiva e che non ti forniremo altre informazioni o suggeriremo ulteriori azioni relativamente alla questione. Amazon.de".
Amazon chiude l’account del saggista Antonio Giangrande, colpevole di aver rendicontato sul Coronavirus in 10 parti.
La chiusura dell’account comporta la cancellazione di oltre 200 opere riguardante ogni tema ed ogni territorio d’Italia.
Opere pubblicate in E-book ed in cartaceo.
La pretestuosa motivazione della chiusura dell’account: “Non abbiamo ricevuto nessuna prova del fatto che tu sia il titolare esclusivo dei diritti di copyright per il libro seguente: Il Coglionavirus. Prima parte. Il Virus.”
A loro non è bastato dichiarare di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Amazon.
A loro non è bastato dichiarare che sul mio account Amazon non sono pubblicate opere con Kdp Select con diritto di esclusiva Amazon.
A loro non è bastato dichiarare altresì di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio account Google, ove si potrebbero trovare le medesime opere pubblicate su Amazon, ma solo in versione e-book.
A loro interessava solo chiudere l’account per non parlare del Coronavirus.
A loro interessava solo chiudere la bocca ad Antonio Giangrande.
Che tutto ciò sia solo farina del loro sacco è difficile credere.
Il fatto è che ci si rivolge ad Amazon nel momento in cui è impossibile trovare un editore che sia disposto a pubblicare le tue opere.
Opere che, comunque, sono apprezzate dai lettori.
Ergo: Amazon, sembra scagliare la pietra, altri nascondono la mano.
AMAZON. CENSURA LA CONTRO-INFORMAZIONE SUL COVID. Cristiano Mais su La Voce delle Voci il 7 Ottobre 2020. La scure della censura contro le verità che danno fastidio. L’oscuramento di tutto coloro i quali, in modo autonomo e indipendente, con i propri mezzi e sforzi personali, cercano di fare autentica controinformazione. Succede adesso, è il caso di dirlo, ad un pioniere della comunicazione, Alberto Contri. Proprio come è successo, alcuni mesi fa, ad un pioniere nel campo dei vaccini, Giulio Tarro, con il suo “Covid, il virus della paura”. Allievo di Albert Sabin che scoprì l’antipolio, per ben due volte nella cinquina del Nobel per la Medicina, Tarro è l’autore di un libro che ha subito cercato di far luce sul bollente tema del Coronavirus e la disinformazione imperante. Incorrendo subito negli strali di Amazon, che ha inserito il volume nella sua vetrina virtuale, impedendone però l’acquisto. La strategia di Amazon era il fresco frutto avvelenato di un accordo per la “non informazione” siglato addirittura con l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il super organismo internazionale controllato da Bill Gates. L’OMS, infatti, non gradiva tutto ciò che avrebbe potuto aprire gli occhi a tanti cittadini. Costretti invece ad ingurgitare montagne di fake news propinate dai media di regime. Lo stesso copione, adesso, per l’altrettanto scomodo “La sindrome del criceto”, firmato da Alberto Contri ed edito da “La Vela”, piccola casa ma coraggiosa casa editrice guidata da David Nieri. Denunciano Contri e Nieri: “Abbiamo fatto in estate una intensa campagna social per promuovere il libro, con buoni risultati di vendita. Ma non con Amazon: sappiamo che ha ricevuto molte richieste alle quali non ha dato e non dà seguito, perché dicono che stanno ristrutturando i processi di acquisizione e vendita e poi hanno problemi di algoritmo”. Un modo come un altro per boicottare in modo palese l’uscita del Criceto. Sottolineano ancora Contri e Nieri: “I monopolisti della distribuzione, oltre a distruggere intere filiere concorrenti, intervengono sulla libertà di pensiero, agevolando od ostacolando la presenza di prodotti e di libri nei loro scaffali virtuali. Semplicemente vergognoso. Ricordiamo che il nostro libro si può ordinare direttamente andando sul sito edizionilavela.it”. Contri è stato il fondatore e per anni animatore della Federazione Italiana della Comunicazione, quindi presidente di Pubblicità Progresso.
Amazon denunziata per la censura di libri sul Coronavirus. su La Voce delle Voci il 30 Giugno 2020. Amazon nega anche ad un giornalista italiano, Francesco Amodeo, la vendita on line di un libro sul coronavirus. Lo scrittore non si arrende e decide di chiedere alla giustizia l’autorizzazione alla vendita del suo testo e il risarcimento danni subiti rispetto ad altri autori, preferiti da Amazon, conferendo mandato all’avvocato Angelo Pisani di trascinare in tribunale il colosso commerciale del web per combattere ogni forma di censura. L’avvocato Angelo Pisani, nel denunciare all’Autorità Giudiziaria ogni violazione in danno del giornalista censurato e la arbitraria e fuorviante strategia commerciale di Amazon, chiede anche l’immediato intervento dell’Antitrust e massima tutela per le vittime indifese del sistema Amazon. Il caso del giornalista Amodeo non è l’unico. Anche il professor Giulio Tarro ed altri autori sono stati esclusi dalla piattaforma Amazon per il mancato gradimento da parte di qualcuno dei loro iscritti, ma non è possibile giustificare simili violazioni dei fondamentali principi di informazione legalità e democrazia. Insomma, esplode una guerra legale contro il colosso del web per porre freno a censure e discriminazioni e comprendere il perché di tanto interesse e volontà di indirizzamento. Questo l’attacco di Pisani. «Ingiustificabile e discriminatoria la strategia della società Amazon, che la comunica al giornalista Amodeo il rifiuto di vendere il suo libro-inchiesta “31 coincidenze sul coronavirus e sulla nuova Guerra Fredda USA-Cina” sulla loro piattaforma kindle, perché violerebbe le loro linee guida, spiegando che a causa del rapido cambiamento delle condizioni relative al Virus Covid19, si sarebbe deciso di indirizzare la clientela verso fonti ufficiali per ottenere informazioni sul virus, proponendo pertanto all’autore del libro l’assurda scelta di valutare la rimozione dei riferimenti al Covid19, affinchè lo stesso possa vendersi sulla piattaforma Amazon». Pare che l’algoritmo censuri in automatico i libri che fanno riferimento alla parola “coronavirus” nel titolo. Non sembra però un’ipotesi plausibile, dal momento che sul portale Amazon sono in vendita libri che contengono nel titolo la parola “coronavirus”, come il libro di Roberto Burioni, intitolato: “Virus, la grande sfida: Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l’umanità”. «Purtroppo – denuncia l’avvocato Pisani – risulta chiaro che se il libro è in linea con una certa versione sul virus, non esistano linee guida né algoritmi capaci di intercettarne le parole. Se in fase di revisione i libri fossero letti si sarebbero accorti che nel libro inchiesta di Amodeo sono pubblicate 150 foto tratte solo da fonti ufficiali, analizzando oltretutto il coronavirus non dal punto di vista sanitario, ma dal punto di vista giornalistico e geopolitico. Non vi era quindi alcuna ragione di censurarlo, ma il sistema preferisce imporre un altro sapere». Di fronte a queste condotte, al di là degli approfondimenti e di indagini su tematiche delicate e stravolgenti come quelle su mondo del coronavirus – dichiara l’avvocato Pisani – non si può far finta di nulla e non chiedere tutela per l’autore discriminato Francesco Amodeo vittima di illegittima censura e discriminazione ingiustificabile da parte del sistema Amazon che, in barba ai fondamentali principi di trasparenza, correttezza e buona fede non può escludere libri non graditi accettando invece il libro di Burioni (sul quale invece il reportage delle Iene ha dimostrato il conflitto di interessi con le case farmaceutiche). Oltre a presentare ricorso cautelare e richiesta risarcitoria alla Magistratura, ricorriamo anche dell’Antitrust e dell’Ordine dei giornalisti per la tutela dei diritti di tutti noi e la difesa del diritto di informazione, in uno alla corretta concorrenza commerciale. Dalle prime indagini emerge in realtà che proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità non voglia vedere in giro tesi contrarie sul coronavirus. Stavolta però si mina la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nell’indirizzamento dei lettori e negano la commercializzazione e diffusione di altri testi, generando anche ingiustificabile disinformazione. Così si impedisce ai cittadini di farsi una propria idea e di comprendere la vera storia del coronavirus e quali sono i motivi e gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. «Pochi lo sanno – attacca Pisani – ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno deciso di indirizzare i lettori a fonti preferenziali tramite un accordo che va sotto il nome di “Covid Policy”, con lo scopo dichiarato di “bloccare la vendita di libri che avrebbero, a dire del sistema dominante, l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che nessuno mai in democrazia si sarebbe mai sognato di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri scomodi, invece che vigliaccamente impedirne la diffusione». «Pare che a qualcuno dia fastidio la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: non si devono ricercare colpevoli della strage e capovolgimento del mondo in corso, ma fortunatamente noi continueremo sempre a scrivere per l’amore della verità e dell’informazione, garantisce l’avvocato al giornalista oscurato da Amazon».
AMAZON. BLOCCA l’USCITA DEL LIBRO-ACCUSA DI TARRO SUL COVID. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 20 Giugno 2020. L’Organizzazione Mondiale della Sanità colpisce ancora. Stavolta la libertà d’informazione, in combutta con Amazon. Per la serie: i due big boss a stelle e strisce Bill Gates, fondatore di Microsoft e grande finanziatore dell’OMS, e Jeff Bezos, in sella al colosso della distribuzione, sono oggi uniti nella lotta per la disinformazione. Impediscono ai cittadini di conoscere la vera storia del coronavirus e quali sono gli autentici responsabili della pandemia che sta mettendo in ginocchio il mondo. Pochi lo sanno, infatti, ma già ad inizio febbraio 2020 OMS, Amazon e altri book store a livello internazionale hanno sottoscritto un patto che va sotto il nome di “Covid Policy”, il cui scopo dichiarato e basilare è stato ed è quello di “bloccare la vendita di libri che hanno l’obiettivo di fomentare la paura o, peggio, di diffondere teorie di cospirazione sul Covid”. Con queste ultime, strategiche parole, in pratica viene attuata una politica di vendite editoriali che neanche i nazisti si sarebbero mai sognati di mettere in atto: meglio, a questo punto, bruciarli, quei libri eretici, invece che vigliaccamente oscurarli e con sotterfugi impedirne la diffusione. E soprattutto la conoscenza di quanto è successo per la tragedia del coronavirus: dove ci sono nomi, cognomi e indirizzi dei colpevoli della strage, fino ad oggi impuniti, a piede libero. E guarda caso, i colpevoli si possono rintracciare proprio sotto i vessilli dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e della Bill & Melinda Gates Foundation, come abbiamo documentato nell’inchiesta del 19 giugno. Ovvio, quindi, che killer e mandanti si siano ben attrezzati e premuniti – come testimonia la “Covid-Policy” – per nascondere le verità, per affossare quella contro-informazione, quei libri che spiegano e documentano la scientifica strage del Covid-19, ottimamente studiata a tavolino, mossa per mossa, azione per azione. Un esempio fresco e lampante? Amazon ha appena bloccato la vendita del libro firmato dal più autorevole virologo italiano, Giulio Tarro, intitolato “Covid, il Virus della paura”, che fa luce su una serie di fatti e vicende che la dicono lunga sulle responsabilità di Big Pharma nella coronavirus-story, su quelle dell’OMS, della Fondazione Gates, e – sul fronte di casa nostra – del governo e di tanti, troppi cialtroni travestiti da scienziati. Evidentemente un pugno nello stomaco per amici & sodali di Amazon, come appunto sancito dalla “Covid-Policy” ammazza libertà e democrazia. Così dichiara Tarro. “Invece di indossare i panni del martire, preferisco evidenziare come i condizionamenti posti dalla ‘Covid-Policy’ stanno facendo perdere credibilità soprattutto alle riviste scientifiche. Mi riferisco alla planetaria figuraccia della rivista ‘The Lancet’ sulla idrossiclorochina. Se "The Lancet" ha dovuto ritirare il suo articolo è solo perché centinaia di medici, tra i quali molti che avevano pazienti in cura con idrossiclorochina, si sono dovuti mobilitare contro quell’articolo che aveva immediatamente fatto sospendere la vendita di un farmaco efficace. Una mobilitazione che spero segni l’inizio di una presa di coscienza politica in una categoria, quale quella dei medici, che non brilla certo per coraggio. Basti pensare, ad esempio, alle vaccinazioni alle quali, come è noto, la stragrande maggioranza dei medici non si sottopone (e molti, addirittura, arrivano a redigere falsi certificati di vaccinazione per i propri pazienti). Ma quando si trattò di prendere posizione contro la radiazione del medico Roberto Gava, "colpevole" di esternare pubblicamente alcune sacrosante considerazioni sui vaccini, tra i 400mila medici italiani iscritti all’Ordine, solo pochissimi hanno sottoscritto una lettera di protesta”. Aggiunge Tarro: “Sembra normale che ‘The Lancet’, considerata la Bibbia della Medicina, non si sia degnata di verificare che gli strampalati dati sui quali si basava l’articolo erano falsi? Ma cosa c’era davvero dietro la pubblicazione di quell’articolo destinato a togliere di mezzo un farmaco che faceva svanire i guadagni legati al vaccino anti-Covid? Ma quali intrallazzi si nascondono dietro tanti articoli che pubblicati su autorevoli riviste scientifiche spianano ai loro autori una carriera accademica? Basta leggersi il libro di Marcia Angell, già direttrice del ‘New England Journal of Medicine’, ovvero ‘Farma&Co. Industria farmaceutica: storie di straordinaria corruzione’. Che ovviamente non è disponibile su Amazon”.
PER IL NUOVO COLOSSO MONDADORI-RIZZOLI IN ARRIVO L’ANTITRUST. MA ECCO COSA SUCCEDE NEGLI USA CON IL CASO AMAZON. Paolo Spiaga su La Voce delle Voci il 24 Ottobre 2015. Mondadori ingoia Rizzoli, un affare da 127 milioni di euro. Dopo sette mesi di tira e molla, di trattative, di “si dice”, manifesti anti fusione, esternazioni anti berlusconiane da parte di un nutrito gruppo di autori, ai primi di ottobre il matrimonio si fa e nasce il nuovo colosso che sfiora il 40 per cento del mercato dei libri, mettendosi alle spalle – iperdistanziate – le altri sigle (Gems al 10, Giunti al 6, Feltrinelli col 5 e De Agostini con il 2 per cento). Sconto da circa 8 milioni sulla base iniziale della trattativa, perchè Mondadori si “accolla” il rischio Antitrust: vale a dire cosa dirà, a questo punto, l’autorità di controllo circa la legittimità o meno di un colosso del genere, che – secondo alcuni addetti ai lavori – in qualche comparto (ad esempio i tascabili), arriva addirittura a detenere l’80 per cento del mercato. Minimizzano il rischio alla Mondadori: “nella scolastica – osservano – non superiamo il 25 per cento mentre nel commerciale in senso ampio non andiamo oltre il 35 per cento: quindi quote compatibili in un libero mercato”. Le cifre dei fatturati, comunque, sono elevatissime: ai circa 240 milioni di introiti della divisione libri della Mondadori, infatti, si sommeranno gli oltre 220 che arrivano dalle entrate di Rcs Libri (ossia i nuovi marchi Bompiani, Fabbri, Sonzogno, Marsilio e la stessa Rizzoli). Un’operazione fortemente voluta da Ernesto Mauri, convinto che la nascita del nuovo colosso possa dare impulso al mercato del libro in Italia, allineandoci ai trend dei paesi esteri (e anche per fronteggiare l’assalto di Amazon). Di parere opposto, ad esempio, un altro Mauri, Stefano, al timone di Gems dalla sua nascita (in tandem con Spagnol), tra i parti più riusciti quello di Chiarelettere. Ai microfoni di Lilli Gruber per Otto e mezzo, Stefano Mauri ha espresso i suoi dubbi circa la nascita del colosso-competitor: e ha denunciato l’esistenza di un vero e proprio “monopsonio”. Tecnicamente si tratta della presenza, sul mercato, di “un solo acquirente a fronte di una pluralità di venditori” (mentre il monopolio è caratterizzato da “un unico venditore che offre il suo prodotto”). E’ la stessa accusa che negli Stati Uniti tre storiche e agguerrite sigle associative – American Bookseller Association, Authors United e Authors Guild – hanno formulato nei confronti di Amazon a metà luglio, chiedendo un pronunciamento da parte dell’Antitrust a stelle e strisce, in particolare al “Justice Department of the Antitrust Division”. I promotori chiedono di verificare l’esistenza di una “posizione dominante” nel mercato editoriale ormai detenuto da Amazon, che “ha ottenuto una posizione di monopolio nella vendita dei libri e di monopsonio nell’acquisto di libri”. Il gruppo di Seattle – spiegano alcuni esperti – sarebbe cioè “venditore unico o quasi nel primo caso, compratore unico o quasi nel secondo caso”. Se il buongiorno si vede dal mattino, Amazon ha buone chance per farla franca, o quasi. Il numero uno dell’Antitrust, William J. Baer, ha “esternato” a giugno in modo “leggermente” inappropriato, celebrando – scrive il New York Times – il modello economico “selvaggio” di Amazon nel campo degli e-book: “è servito ad alimentare la competizione”, “a ravvivare il mercato”, è il parere di Baer. Qualche “conflitto” in vista anche negli Usa e nelle “sentenze”? Di parere opposto – cita ancora il New York Times – una nota firma statunitense, Peter Meyers, fresco autore di “Breaking the Page” sul passaggio dalla stampa al digitale: “Il successo di Amazon – sottolinea Meyer – ha schiacciato la competizione”. Insomma un Golia senza alcun Davide all’orizzonte capace di intimorirlo. Ma vediamo, più in dettaglio, le principali accuse contenute nel documento (24 pagine) inviato al Dipartimento di giustizia dalle tre sigle associative, “gruppi che rappresentano – scrive ancora il New York Times – migliaia di autori, agenti e librai indipendenti”. In primo luogo, viene sottolineato, “Amazon ha usato la sua posizione dominante in modi che secondo noi danneggiano i lettori americani, impoveriscono l’industria editoriale nel suo complesso, danneggiano le carriere di molti autori (generando paura fra di essi) e impediscono il libero scambio delle idee nella nostra società”. Bordate da non poco. “Non esiste un solo esempio, nella storia americana, dove la concentrazione di potere nella mani di una sola compagnia abbia alla fine portato benefici ai consumatori”. Ecco alcune fra le pratiche più “distruttive” adottate da Amazon nella sua politica iperaggressiva: “vendere alcuni libri e non altri sulla base di precise tendenze politiche; vendere alcuni libri sottocosto in modo tale da mettere in serie difficoltà, fino ad estromettere, le aziende editoriali dotate di minori mezzi economici; bloccare o ridurre la vendita di alcuni libri (per milioni di copie) per esercitare pressione sugli editori; esercitare la sua posizione dominante per ottenere una percentuale sulle vendite superiore rispetto agli altri editori”. Pratiche e tattiche commerciali che “minano alla base l’ecosistema dell’intera industria del libro negli Stati Uniti”, in una misura che risulterà molto dannosa anche per gli autori della “mid list”, quelli emergenti, le “voci delle minoranze”. Ci voleva la guerra con Amazon (che oggi controlla un terzo del mercato dei nuovi prodotti stampati e i due terzi delle vendite di e-book) per riuscire a riunire sigle storicamente mai gemellate, come ad esempio la Bookseller Association e Author Guilds, che mettono insieme 9000 autori e 2.200 punti vendita. “I nostri punti di vista fino ad oggi sembra siano stati ignorati”, lamentano, ma confidano nel fatto che “il clima sta cambiando”. E, a quanto pare, sperano (sic) nell’Europa. “Ci sono dei grossi sforzi all’interno dell’Unione Europea – Germania e pochi altri Paesi – per esaminare con più attenzione il dossier Amazon. Ciò può avere dei positivi riflessi in quello che accade qui da noi”. Nota il sito “Consumerist”: “a giugno l’Unione Europea ha annunciato che aprirà formalmente una pratica di Antitrust per quanto riguarda i particolari contratti di vendita stipulati da Amazon sul fronte degli e-book”. Saranno allora curiosi, negli States, di conoscere gli sviluppi del nostro Antitrust alle prese con la patata bollente del nuovo colosso “Mondazzoli”?
A proposito di Coronavirus.
Il parere del sociologo storico e scrittore, dr Antonio Giangrande.
Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito, informato, curato, cresciuto ed educato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Chi ci ha rincoglionito? I media e la discultura in mano alle religioni; alle ideologie; all’economie. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.
Coronavirus: idiozia ed invidia vs capacità. Mediaset ed il sistema padano non possono nascondere i meriti mondiali dei professori meridionali Ascierto, Gambotto, Ranieri. rispettivamente: Cura, vaccino e tecnica salvavita. Il razzismo territoriale dei padani contro la competenza dei meridionali. Ci chiamano Terroni, potremmo chiamarli Corona, ma li apostrofiamo semplicemente: Coglioni.
Sul Coronavirus ho scritto “Coglionavirus”, un saggio in più parti di centinaia di pagine con fonti autorevoli ed attendibili.
Il saggio scritto a futura memoria e inteso a dimostrare come l’incapacità ed inaffidabilità del passato possa affrontare un problema nel presente, e l’incompetenza, poi, ritrovarcela nel futuro.
Perché in Italia nemmeno i disastri o le rivoluzioni cambiano le cose.
Il sunto del mio saggio sono verità che dai media prezzolati e politicizzati non sentirete mai.
Il Virus italiano non è cinese: nessun cinese o comunità razziale o etnica diversa da quella italiana, stanziata nel Bel paese, è stata origine di focolaio o di paziente zero.
Il Virus italiano non è tedesco, come qualcuno a ripicca del diniego degli euro aiuti vuole far credere. Nessun focolaio tedesco è stato acceso in Germania, così come in Italia.
Il Virus italiano è padano, per la precisione è lombardo: perché lì vi è stato il paziente uno. Lì vi è stato il focolaio principale che ha causato decine di migliaia di morti. Tanti contati, altri non conosciuti. Quel Focolaio ha dato vita alla pandemia in Italia ed all’estero. Perché gli italiani dove vai vai, lì ne trovi sempre qualcuno, chi per vacanza, chi per lavoro.
Il Virus italiano è simile, non uguale, a quello cinese ed ama umidità ed inquinamento. Attraverso le particelle dello smog o le goccioline della nebbia si trasporta per vari metri e per lungo tempo.
Il fattore principale di propagazione in tutta Italia è stata la partita a Milano tra l’Atalanta ed il Valencia, con quarantamila bergamaschi in trasferta, originari del focolaio principale. Così come è stato strumento di propagazione ogni partita che l’Atalanta ha giocato a porte aperte fuori casa, compresa quella col Lecce, in Puglia.
Per il resto si è permesso di infettare il Sud Italia, al momento immune, per alleggerire il carico sulla sanità padana. Qualche coglione padano, cosiddetto giornalista, si rallegrava del fatto che ora sì, siam diventati tutti “Fratelli d’Italia”!
Oltretutto, e non lo dicono, oltre alla mascherina omologata ci vuole l’occhiale che protegge gli occhi. Perchè se è vero, come è vero, che il virus viaggia nell’aria, può entrare da ogni pertugio del corpo umano.
La Sanità Lombarda, prima, e quella nazionale, poi, ha mostrato tutti i suoi limiti, essendo gli operatori sanitari i principali untori della pandemia. Si andava per cure e si usciva infettati.
Gli operatori sanitari, qualcuno vero eroe, altri meno, tra cui coloro che hanno preso decisioni scellerate o i disertori dalla malattia facile, hanno pensato bene di proporre la loro immunità penale, facendo leva sull’indignazione e cavalcando l’onda del momento a loro favore.
Il sistema lombardo centrico non ha avuto remore, in tempo di crisi, a privare la sanità meridionale dei macchinari salva vita per devolverli agli ospedali del nord, requisendo i respiratori già consegnati in Calabria ed in Puglia.
L’eccellenza riconosciuta all’estero, ma come al solito denigrata in Italia, è stata quella dell’ospedale napoletano: il Cutugno per mezzo del prof. Ascierto, che ha scoperto la cura testata su tanti pazienti già guariti.
I media prezzolati e politicizzati, poi, con i soliti ciarlatani, hanno allarmato il popolo per prepararlo al peggio, con decisioni risibili.
Il popolo italiano, inoltre, ha combattuto la guerra come è usuale farlo: fuggendo.
Chi di dovere, anziché relegare pochi migliaia di malati ed il proprio nucleo familiare in strutture protette, ha rinchiuso 60 milioni di sani, privandoli di libertà e ricchezza, senza soluzione di continuità e senza barlume di speranza. Non li ha rinchiusi tutti, però. Nel contempo hanno permesso a chi, infettato, era autorizzato a girare per le città su autobus e metrò e così a continuare a contagiare ed a diffondere l’epidemia.
Bastava poco ad arginare l’emergenza. Tamponare o analizzare il sangue a tutti, o perlomeno, uno per nucleo familiare, considerato che dove lo è uno lo sono tutti quelli a lui vicino. Di conseguenza monitorare i suoi spostamenti, passati, presenti e futuri, con gli strumenti tecnologici.
Invece se coglioni eravamo prima del disastro, lo siamo durante o lo resteremo in futuro.
Per provare quello che dico, basta fare mente locale su quello che si è detto e fatto durante tutto questo periodo: il tutto ed il contrario di tutto. E nulla si sa del futuro.
Antonio Socci cinguetta: "Siccome non erano capaci di procurare le mascherine, ci dicevano che non servivano alla gente comune. Di questa splendida informazione sanitaria firmata dal governo chi risponde?"
Maria Giovanna Maglie punta il dito contro il secondo presunto fronte della menzogna, quello relativo ai tamponi. "E siccome non hanno tamponi ci dicono che i test agli asintomatici non servono. Quante bugie di Stato! Qualcuno pagherà?”
Toni Capuozzo, cosa non torna sulla foto dei Navigli pieni. "Ecco l'osso gettato alla gente". Fase 2, un grosso dubbio. Libero Quotidiano il 09 maggio 2020. Non s'allinea all'indignazione generale per la troppa gente a passeggio sui Navigli milanesi il giornalista e scrittore Toni Capuozzo. Che, in un post su Facebook, definisce il caso «un osso gettato da mordicchiare a un' opinione pubblica nervosa». Provocatoriamente, Capuozzo si chiede se sia colpa di questi se le mascherine non si trovano, l'app di tracciamento non si è vista, i tamponi sono pochi, le banche non erogano prestiti alle imprese in difficoltà. Domanda retorica: no, con tutte queste questioni - le vere questioni - i Navigli non c' entrano. Ma così la gente ha qualcuno con cui prendersela.
Qualcuno dice che tutto questo ci cambierà: sì, in peggio.
Dr Antonio Giangrande
Il Lockdown (confinamento) visto con gli occhi di un bambino. Di Antonio Giangrande
Bimbo: papà, perché siamo reclusi in casa come i carcerati?
Padre: per non farci ammalare…
Bimbo: ma non ci sono gli ospedali per curarci?
Padre: non ci sono posti per tutti…
Bimbo: papà, tu ti lamenti che paghi tante tasse, perché non fanno i posti per tutti?
Padre: i posti c’erano, poi li hanno tolti, perché dicevano che i soldi non bastano.
Bimbo: perché se i soldi non ci sono, tutti li vogliono senza lavorare e poi li ottengono?
Padre: perché ne vogliono di più…e tanti campano così.
Bimbo: papà, se io mi ammalo e vado in ospedale e non ci sono posti, muoio?
Padre: Non ti preoccupare, i posti disponibili li danno ai malati più giovani, mentre i malati più vecchi li fanno morire, o li mandano in quei posti dove ci sono altri vecchi.
Bimbo: ma papà, ma così fanno ammalare e morire anche quelle persone anziane che sono sane! Meno male che io sono giovane. Se vado in ospedale mi curano…
Padre: no! Se tu vai all’ospedale ti ammali. Quasi tutte le persone si sono infettate all’ospedale, dove c’erano anche i medici e gli infermieri senza mascherine.
Bimbo: papà, allora perché non chiudono gli ospedali e ci fanno uscire a noi?
Papà: non dire queste cose, perché alla tv dicono che chi lavora in ospedale sono eroi e non untori e poi sono i medici che decidono che dobbiamo essere reclusi. Per loro se andiamo in ospedale e ci ammaliamo è colpa nostra!
Gli affari della Sanità privata padana a danno di quella del Sud, sotto tutela dello Stato.
Con il principio della spesa storica (riferimento a quanto percepito negli anni precedenti), il Nord Italia si “fotte” più di quanto dovuto, a spese del Sud Italia.
In virtù, anche, di quel dipiù la Sanità padana spende di più perché è foraggiata dallo Stato a danno della Sanità meridionale, che spende di meno perchè vincolata a dei parametri contabili prestabiliti.
Poi c’è un altro fenomeno sottaciuto:
Nelle strutture private del Nord, costo pieno di rimborso;
Nelle strutture private del Sud, costo calmierato di rimborso.
Con questa situazione si crea una contabilità sbilanciata e un potere di spesa diversificato.
In questo modo i migliori chirurghi del meridione sono assoldati dalle strutture settentrionali e pagati di più. Questi, spostandosi, con armi, bagagli e pazienti meridionali affezionati, creano il turismo sanitario.
Con una finanza rinforzata la Sanità padana è pubblicizzata dalle tv commerciali e propagandata dalla tv di Stato.
Ergo: loro diventano più ricchi e reclamizzati. Noi diventiamo sempre più poveri e dileggiati.
Poi arriva il Coronavirus e ristabilisce la verità:
la presunta efficienza crea morte nei loro territori;
la presunta arretratezza contiene la pandemia, nonostante, artatamente, dal Nord per salvare la loro sanità, siano stati fatti scappare i buoi infetti con destinazione Sud.
Michele Emiliano a Stasera Italia su Rete4 (Rete Lega) del 3 maggio 2020. «Innanzitutto noi abbiamo aumentato di millecinquecento posti i posti letto autorizzati da Roma. E abbiamo subito approfittato di questa cosa. Devo essere sincero: il sistema sanitario pugliese è un sistema sanitario regolare. Noi non abbiamo mai avuto problemi sulle terapie intensive. Quindi però, Pomicino evidentemente è intuitivo, capisce che questo è il momento per cui le sanità del Sud…siccome i nostri non possono più andare al Nord per curarsi perché è troppo pericoloso, devono essere rinforzate per limitare la cosiddetta mobilità passiva. Quindi io l’ho detto chiaro: io non terrò più conto dei limiti, posti letto, assunzioni, di tutta questa roba, perché non siamo in emergenza. Farò tutte le assunzioni necessarie, assumerò tutte le star della medicina che riuscirò a procurarmi, cercherò di rinforzare i reparti. Manterrò i posti letto in aumento. Anche di più se possibile. Chiederò ai grandi gruppi privati della Lombardia per i quali c’è una norma che li tutelava in modo blindato. Immaginate: io potevo pagare senza limite i pugliesi che andavano in Lombardia presso queste strutture, se queste strutture erano in Puglia c’era un tetto massimo di spesa fatto apposta…Siccome questo tetto deve saltare, io sto proponendo a questi grandi gruppi di venire e spostarsi al Sud per evitare il rischi Covid, ma soprattutto per evitare il rischio aziendale per loro. Perché è giusto che questa mobilità passiva: 320 milioni di euro di prestazioni sanitarie che la Puglia paga alla Lombardia in prevalenza, solo perché quel sistema è stato supertutelato. Adesso tutti dovremmo trovare il nostro equilibrio e la nostra armonia».
Marino Niola per “la Repubblica” il 18 aprile 2020. Il baco del millennio è arrivato. Ma vent' anni dopo. Il suo nome è Covid 19 e non ha niente a che fare con l' apocalisse digitale. Lo aspettavamo tra l' ultima notte del Novecento e il primo giorno del Duemila. E invece si è presentato adesso, profondamente mutato e mutante come ogni virus che si rispetti. Allora avevamo un timore quasi superstizioso della tecnologia e invece la bordata è arrivata dalla biologia. Credevamo che il vulnus del sistema fosse nell' immateriale e invece era nella materia vivente. Eravamo certi che la fine del mondo incubasse nei circuiti dell' intelligenza artificiale, nel moderno logos. Invece era nell'antico bios, nella forma di vita più arcaica e primordiale che ci sia. Temevamo il default dei sistemi complessi ed evoluti e invece il colpo da "ko" è arrivato da un organismo semplice e involuto. In quei giorni, che sembrano ormai lontani anni luce, eravamo convinti che il battito elettronico che comanda il bioritmo del villaggio globale si sarebbe arrestato all' improvviso precipitandoci in un vuoto elettronico ed esistenziale, un enorme buco nero capace di inghiottire in un istante ogni nostro avere e ogni nostro essere. Abbiamo vissuto nell' attesa millenaristica del black out della civiltà. Che l' economia si bloccasse, che gli aerei rimanessero a terra, che i sistemi scolastici si impallassero, che le Borse implodessero, che le fabbriche si fermassero, che la logistica impazzisse, che i consumi si arrestassero. E che il sistema sanitario andasse in tilt. Allora non è successo niente. Ma è successo tutto adesso. E per ragioni completamente diverse. Non informatiche ma epidemiche. E paradossalmente, in questo momento a reggere è proprio l'informatica, che al tempo del baco ci appariva il nostro tallone d' Achille, quello che avrebbe rivelato la fragilità del mondo iperconnesso, che avrebbe fatto coincidere il crollo dei nostri nervi con l' encefalogramma piatto dei nostri processori. E invece la Rete non solo sta tenendo botta, ma è diventata l' antidoto contro il male, l' anticorpo comunicativo che ci sorregge e ci protegge. Relazioni e transazioni. Formazione e informazione. Contatti e contratti. Interventi e coordinamenti. La connessione permanente ha salvato la salute dell' organismo sociale e sanitario. E, in assenza dei nostri corpi fisici, remoti e reclusi, ha liberato dalla quarantena le nostre anime. Ha permesso ai nostri volti di riconoscersi e ritrovarsi, di non smarrirsi in un buio affettivo, emotivo e comunicativo. All' alba del millennio, certi di averla sfangata, ci eravamo sentiti al sicuro. E siamo ripartiti a manetta senza più chiederci il senso della nostra corsa verso lo sviluppo infinito, che ormai sembrava inarrestabile. Invece a mettere il paletto nella ruota della globalizzazione ci ha pensato un agente patogeno microscopico. Non so se il virus abbia allungato il secolo breve o accorciato il nostro. Fatto sta che adesso, quello che verrà sarà il vero inizio del Millennio. Allora credevamo di avere un problema di impostazione. Invece abbiamo scoperto che era un difetto di visione. Perché vent' anni fa a spaventarci era solo il fantasma incorporeo dei parassiti virtuali che avrebbero messo a nudo la vulnerabilità della società comunicante. E invece a darci scacco matto è stato un parassita fisiologico. Un veleno nel senso letterale della parola, visto che virus deriva da un termine indoeuropeo che significa proprio veleno, umore venefico, ma anche saetta, vettore, qualcosa che vola nell' aria, proprio come le frecce divine che nell' Iliade spargono la peste nel campo dei Greci. E che ci ricorda la fragilità della condizione umana. Insomma, per noi la parola virus era diventata solo una metafora, per designare un contagio informatico propagato da hacker-untori. Da combattere con antivirali digitali. Quasi che la materialità delle cose e il peso dei corpi fossero stati azzerati dalla società liquida e dalla sua insostenibile leggerezza. A spaventarci era lo spettro del malware, vale a dire malicious software, l' algoritmo del male. E adesso che la pandemia ci ricorda che siamo prima di tutto carne e sangue, ci rifugiamo sotto l' ala del welfare, il sistema del bene, che molti consideravano un costoso rottame del secolo scorso. E che invece resta il solo farmaco in grado di curare corpi e anime.
· Le differenze tra epidemia e pandemia.
Allarme coronavirus, quali sono le differenze tra epidemia e pandemia. Redazione de Il Riformista il 25 Febbraio 2020. L’epidemia di coronavirus ha accelerato in tutto il mondo, tanto che l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha alzato il livello di rischio a una potenziale pandemia. “Dobbiamo concentrarci sul contenimento (della nuova epidemia di coronavirus, ndr), mentre facciamo tutto il possibile per prepararci a una possibile pandemia”, ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. In particolare, l’Oms ha giudicato “molto preoccupante (…) l’improvviso aumento” di nuovi casi in Italia, Corea del Sud e Iran. L’Italia è il terzo paese al mondo per numero di contagi (oltre 200 i casi confermati e 7 decessi). Tuttavia, ha osservato un rallentamento della diffusione in Cina, il paese di origine del virus, dall’inizio di febbraio.
QUALI SONO LE DIFFERENZE TRA EPIDEMIA E PANDEMIA – Entrambe le parole epidemia e pandemia riguardano malattie infettive causati da agenti che entrano in contatto con l’individuo, come può essere appunto il coronavirus. La differenza sta non nella gravità della malattia, ma nella sua diffusione geografica. Come ricorda infatti l’Istituto Superiore della Sanità le malattie infettive possono essere più o meno contagiose, potendo diffondere in forma sporadica, epidemica, endemica o pandemica. Un caso sporadico si manifesta si manifesta in una popolazione in cui una certa malattia non è sempre presente, mentre una malattia può essere definita endemica quando l’agente, che può essere un virus, è stabilmente presente e circola tra la popolazione con un numero di casi più o meno elevati, ma distribuito uniformemente nel tempo.
L’epidemia invece si manifesta quando il numero di casi infetti aumenta in breve tempo esponenzialmente, interessando in una particolare un numero elevato di persone, superiore alla media, per una certa comunità.
Per parlare di pandemia (dal greco pan-demos, “tutto il popolo”), l’OMS parla di un agente patogeno per il quale le persone non hanno immunità e che si diffonde con grande rapidità e facilità in una zona più vasta rispetto a quella solitamente interessata da una semplice epidemia.
· I 10 virus più letali di sempre.
Qual è la differenza tra batteri e virus. Da farmaciauno.it. Piccola guida per capire qual è la differenza tra batteri e virus e come prevenirli.
Perché è importante conoscere la differenza tra batteri e virus. Entrambi sono invisibili all’occhio umano, possono essere trasmessi per via aerea, alimentare o tramite dei rapporti sessuali causando malattie e infezioni anche gravi: stiamo parlando dei virus e batteri. Questi due termini, molto spesso, vengono utilizzati in maniera confusionaria e, a volte, erroneamente anche come sinonimi. Ma qua è la differenza tra virus e batteri? Cosa sono i virus e quali malattie portano?
I virus (che dal latino significa “veleno”) sono dei microorganismi in grado di riprodursi solamente all’interno di un altro organismo perché al di fuori di esso possono sopravvivere solo per un lasso di tempo limitato. Sono pertanto definiti parassiti obbligati perché per moltiplicarsi devono entrare nella cellula ospite, vivendo da “parassita”. A differenza dei batteri, i virus sono molto più piccoli ed esiste una quantità innumerevole, che varia in base alla specie virale e ai meccanismi con i quali agisce. I virus sono all’origine di malattie, come poliomielite, influenza, rabbia, AIDS, vaiolo e anche del nuovo Coronavirus: un nuovo ceppo che non è stato precedentemente mai identificato nell'uomo, la cui malattia è il “COVID19” (dove "CO" sta per corona, "VI" per virus, "D" per disease e "19" indica l'anno in cui si è manifestata).
Cosa sono i batteri? I batteri sono dei microrganismi unicellulari che, a differenza dei virus, sono una presenza fissa per il nostro organismo. Infatti, convivono con noi e sono presenti negli organi che hanno un contatto con l’esterno, come: la bocca, la pelle o alcuni organi dell’apparato respiratorio e ci aiutano a svolgere alcune funzioni vitali. Questa tipologia di batteri è quindi innocua per l’uomo. Tuttavia esistono anche dei batteri detti “patogeni” che invece possono far sviluppare all’individuo delle infezioni a carico di un determinato organo. Inoltre i batteri, sia innocui che patogeni, non hanno bisogno necessariamente di un organismo per riprodursi e sopravvivere ma possono farlo anche nell’ambiente circostante.
Differenza tra batteri e virus: come si combattono? I virus e i batteri hanno dei trattamenti specifici ben diversi che saranno efficaci per eliminarli dal nostro organismo o prevenirne la comparsa. Sono delle terapie farmacologiche che vanno iniziate in accordo con il vostro medico che elaborerà quella più adatta alla vostra condizione fisica. Ecco però alcune informazioni su questi farmaci:
Antibiotici: gli antibiotici sono efficaci solamente per i batteri e invece non risultano efficaci sui virus.
Farmaci antivirali: bloccano la moltiplicazione del virus, ma vanno assunti dietro prescrizione medica solo in caso se ne presenti uno e non sono da considerare dei farmaci preventivi.
Vaccini: sono dei farmaci che contengono una piccola quantità di virus resa però innocua per l’uomo, ma che è in grado di farci sviluppare gli anticorpi necessari per combattere il virus stesso. I vaccini prevengono la comparsa di un virus nell’organismo e per questo non sono efficaci per la cura contro i batteri. Quando si presenta un nuovo virus, come per esempio il Coronavirus, ha inizio la fase di ricerca e di sperimentazione di un vaccino per evitarne la propagazione. Ciò che possiamo fare in attesa del vaccino, è mantenere le distanze e rispettare rigidamente le norme igieniche.
La banca dei virus. Report Rai PUNTATA DEL 04/05/2020. Quella di Covid-19 è solo l’ultima delle numerose gravi epidemie che hanno scandito la storia dell’uomo. Solo negli ultimi 25 anni si sono succedute influenza aviaria, Sars, A H1N1, Mers. Come procede la ricerca? Un’inchiesta del network franco-tedesco Arte, di cui Report propone un estratto, mostra alcune tecniche sperimentate in laboratori europei che hanno suscitato dispute all'interno della comunità scientifica.
“LA BANCA DEI VIRUS” Tratto da “ÉPIDÉMIES: LA MENACE INVISIBLE” – Arte France.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, la crisi provocata dalla pandemia potrebbe ispirare la mente perversa di qualche bioterrorista che potrebbe essere tentato dall’utilizzare il virus quale arma invisibile, vista la capacità che ha avuto di mettere in ginocchio anche le più grandi potenze mondiali. Ora. Nel mondo ci sono una quarantina di laboratori ad alta sicurezza nei quali vengono in qualche modo anche creati dei virus. E la ricerca si è spinta ad un livello tale da utilizzare anche delle tecnologie molto controverse, molto spinte. Si arriva addirittura a modificare un virus, per renderlo più letale o più virulento, per verificare e valutare la capacità di sviluppo di una malattia. Ma soprattutto per sviluppare delle cure, sviluppare dei vaccini. Ora la questione è: qual è il compromesso tra la sicurezza e la conoscenza? Quando uno scienziato viene in possesso di informazioni così importanti, deve condividerle o mantenerle segrete? Ecco, insomma, siamo entrati in uno dei laboratori più importanti del mondo: in una banca dei virus, dove conservano i virus dal 1800.
VOCE NARRANTE C’è un’evoluzione importante nel campo della ricerca: alcuni scienziati hanno messo a punto una forma di virus aviario che potrebbe portare una malattia mortale trasmissibile tra umani. Se i bioterroristi riuscissero a impossessarsi di questo virus potrebbero usarlo per colpire milioni di persone.
LUIS ENJUANES – CENTRO BIOLOGIA MOLECOLARE UNIVERSITÀ AUTONOMA DI MADRID C’è un grande deposito dipendente dall’Unione Europea o dal governo americano, che contiene già tutte le strutture necessarie e gli strumenti per creare un nuovo virus.
FUORICAMPO VOCE NARRANTE Per creare nuovi virus e conservarli, gli scienziati utilizzano metodi sempre più controversi. In questo ospedale olandese nel 2011 è stata creata la mutazione del virus H5N1. È la mutazione che temiamo tanto in natura; il passaggio dall’animale all’uomo questa volta l’hanno fatto i ricercatori laboratorio.
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM In queste latte ci sono delle scatoline, in ogni scatola c’è una fiala e in ogni fiala il principio di un virus. Ma i virus pericolosi per umani o animali non li conserviamo qui. Ora ve li faccio vedere. Ecco. Qui c’è una stanza a -20 gradi, in ognuna di queste fialette c’è il plasma. È l’archeologia di un virus. È il sangue di qualcuno che è nato nel 1857. Contiene gli anticorpi dei virus che circolavano in quegli anni.
GIORNALISTA E dove conservate il nuovo ceppo?
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM H5? Ovviamente non lo dirò. Se ci fossero persone che volessero il virus, potrebbero volere anche la mappa per trovarlo. Se ve lo rivelassi al vostro programma potreste dare una mano ai terroristi.
VOCE NARRANTE Ci vietano di avvicinarci ai ceppi dei virus mutanti o avvicinarci a quei laboratori dove fanno esperimenti sulle cavie e animali come i furetti. Tuttavia incontriamo i ricercatori che lavorano sui virus. Chiediamo se nelle condizioni attuali c’è un rischio che il super virus possa uscire dal laboratorio.
THEO BESTEBROER – RICERCATORE CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM Per l’H5 c’erano 3 ricercatori che aspettavano a ogni esperimento i risultati. A un certo punto avevamo verificato la mutazione ed era contagioso. Se uscisse ora dal laboratorio avremmo un bel problema.
ALBERT OSTERHAUS – VIROLOGO CENTRO ERASMUS - ROTTERDAM Dobbiamo essere consapevoli del fatto che questo lavoro genera critiche. È un mestiere pericoloso e se non lo fai nel modo giusto il rischio c’è. Anche se non è facile che un bioterrorista usi le nostre informazioni, usi il nostro “difficile” sistema molecolare per gestire questi virus… Ma dobbiamo tener presente che noi stiamo combattendo una guerra benefica e abbiamo un obbligo morale verso la comunità.
VOCE NARRANTE Questo tipo di ricerca non convince e molti scienziati si sono mobilitati per fermarla. Aveva subito uno stop, ma l’anno scorso l’OMS ha revocato la sospensione e questo preoccupa uno specialista di bioterrorismo come Patrick Berche.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI Significa giocare all’apprendista stregone. Perché rendere super contagioso un virus che non lo è? E se ci scappasse un morto nel laboratorio? Cosa diremmo? Che hanno creato, un mostro, come Frankenstein, che può addirittura creare una pandemia? Tutto questo è assurdo.
VOCE NARRANTE Ma non sarebbe la prima volta. In Gran Bretagna per due casi di vaiolo, duecento persone sono state messe in quarantena a Birmingham. Janet Parker, un’abile fotografa, è morta dopo essere rimasta contagiata con il virus del vaiolo che era sfuggito dal frigorifero di un laboratorio.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI Janet Parker aveva 40 anni. Ha contratto il virus attraverso l’impianto di aerazione. È morta dopo tre settimane. Ma prima ha contagiato la madre, che è sopravvissuta, poi suo padre che invece è morto. Ma questo è solo un esempio. Ci sono stati incidenti con la SARS nei laboratori cinesi. Gli incidenti anche se si tratta di laboratori ad alta sicurezza, ci sono sempre stati. Ne abbiamo contati 450 negli ultimi 30 anni.
VOCE NARRANTE C’è il rischio di incidenti, ma quello che più preoccupa è un attacco di bio terrorismo. I terroristi potrebbero avere accesso in modo fraudolento o attraverso la corruzione, alle banche dei Virus. Quelle che conservano un nuovo virus o semplicemente uno vecchio, contro il quale non ci si vaccina più come il vaiolo. Virus che oggi si potrebbero riprodurre da zero.
PATRICK BERCHE – DIRETTORE CENTRO MICROBIOLOGIA OSPEDALE NECKER – PARIGI I luoghi dove si conservano i virus come Ebola sono praticamente inaccessibili, ma ci si può entrare tramite scienziati di buon livello che sappiano sintetizzarli a partire dalla sequenza. È complicato, ma è possibile. Non esistono santuari.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’ex direttore dell’Istituto Pasteur di Lille, Patrick Berche, insomma bisogna agire con una certa prudenza perché l’uomo non è immune a nulla. Del resto anche lo scienziato a cui è intitolato il suo Istituto Louis Pasteur, aveva in qualche modo considerato i batteri come un arma, visto che li ha usati per eliminare i conigli che avevano infestato alcune regioni. Ecco però per un bioterrorista non è semplice andare a rubare e gestire dei super virus. Non è cosa da principianti. Piuttosto la ricerca per come è arrivata oggi impone delle riflessioni oltre che bioetiche, anche di biopolitica se vogliamo. Le geopolitica attuale offre un panorama molto più frammentato rispetto al passato. E quello che ci insegna la pandemia è quello che bisogna sicuramente investire sulla fiducia. C’è la necessità per prevenire delle minacce che non verranno sicuramente, non potrebbero venire sicuramente in realtà nazionali o sovrannazionali, c’è la necessità di governare la ricerca. Dovrebbe farlo qualche ente istituzionale, dedicato a questo e dovrebbe anche diventare una casa di vetro, come non lo è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È l’argomento di lunedì prossimo.
I 10 virus più letali di sempre. Paolo Remer - La Legge per Tutti. Data di pubblicazione: 11 Marzo 2020. Riprodotto da radiomaria.it. Le infezioni più pericolose della storia fino ad oggi: pandemie che hanno sterminato popolazioni, tutte con effetti più devastanti del coronavirus. Il coronavirus è solo l’ultimo, il più recente di una lunga serie di infezioni che hanno colpito l’umanità nel corso della sua storia. La maggior parte sono state molto più letali dell’attuale Covid-19, hanno provocato enormi stragi e alcune di esse continuano a mietere tuttora vittime. È bene quindi sapere che non esiste solo il coronavirus, ma che l’uomo ha fatto e continua a fare ancor oggi i conti con altri virus ancor più pericolosi. Ecco la classifica dei 10 virus più letali di sempre dalla peste alla Sars, passando per il morbillo, una malattia dimenticata in un’epoca di vaccini ma provoca ancora centinaia di migliaia di morti all’anno. Così come non è confortante sapere che ad oggi i morti per l’influenza della stagione invernale superano ampiamente quelli per coronavirus. Inoltre, in un’epoca di globalizzazione come quella che stiamo vivendo è utile conoscere quali malattie esistono ancora oggi e non sono state definitivamente debellate; proprio il Covid-19 insegna come un virus emerso in Cina si sia diffuso in pochi giorni in tutto il mondo, diventando subito – quando era ancora molto lontano dall’Italia – un allarme mondiale grazie alle sue capacità infettive e alla circolazione delle persone, spesso radunate in ambienti chiusi e affollati. Una circostanza che ha favorito la diffusione del contagio, insieme al fatto che, trattandosi di un’infezione nuova, il nostro sistema immunitario non ha ancora sviluppato adeguate difese.
La peste. Risale agli albori della storia ed è la pandemia più letale che l’umanità abbia mai conosciuto: si stima che abbia ucciso 200 milioni di persone. Celebre la grande peste nera del XIV secolo, che nel 1300 colpì l’Europa intera sterminando il 60% della popolazione. Da qui però sorsero il Rinascimento e le basi dell’economia moderna: il capitale umano era diventato troppo scarso e costoso in termini di forza lavoro, e così furono inventati nuovi metodi produttivi, con l’impiego delle macchine in ausilio e in sostituzione dell’uomo. Ora noi la conosciamo soprattutto dal racconto manzoniano della peste milanese del 1630 contenuto ne I Promessi sposi, ma devi sapere che ancora oggi la peste esiste in alcune zone dell’Africa, dell’Asia e dell’America centro-meridionale.
Il vaiolo. Il virus del vaiolo è letale nel 30% dei casi e in coloro che riescono a sopravvivere lascia tracce permanenti. Questa malattia, che ha sterminato quasi totalmente le popolazioni native americane venute in contatto con i colonizzatori, provocava ancora 400mila morti all’anno nella sola Europa fino alla prima metà del Novecento. Poi, è diventata il simbolo del vaccino, che fu scoperto nel 1796 da Edward Jenner, incuriosito dal fatto che gli allevatori di bovini non si ammalavano di vaiolo. Le vaccinazioni applicate su larga scala hanno portato alla completa eradicazione della malattia, cioè alla sua pressoché completa scomparsa nel mondo; l’ultimo caso registrato è del 1977, ma le autorità sanitarie mantengono alta la vigilanza, in caso di ripresa del virus, come nel caso di propagazione dovuta ad un attacco bioterroristico. Non è fantascienza: lo puoi leggere sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità, nella pagina dedicata al vaiolo.
La rabbia. È la malattia più antica di cui si ha notizia, ed esiste ancora oggi. Si trasmette all’uomo dagli animali infetti attraverso la saliva, soprattutto con i morsi. Provoca un’encefalite (infiammazione del cervello) che molto spesso risulta mortale. Tutt’oggi, è responsabile di un numero di morti che varia tra i 25mila ed i 50mila all’anno. Il Paese più colpito è l’India. Esiste un vaccino antirabbico che negli Stati occidentali aiuta molto a contenere la diffusione della malattia e a prevenire l’esito letale.
Il morbillo. Nonostante le vaccinazioni disponibili da oltre 50 anni, il morbillo rimane una delle principali cause di morte dei bambini piccoli: ne muoiono più di 130 mila all’anno, soprattutto nelle zone del Terzo mondo, come il Congo, l’Etiopia, l’India, la Nigeria e il Pakistan. Resta a tutt’oggi un allarme mondiale: tra le malattie vaccinabili è quella che provoca ancora il maggior numero di decessi. Gli studi indicano che il morbillo è nato dalla peste bovina, un’altra grave malattia che solo di recente è stata eradicata, come il vaiolo. Questo dimostra anche le capacità dei virus di evolversi, mutare e adattarsi all’ambiente, colpendo in modo diverso gli altri esseri viventi.
L’Aids. Il virus dell’Hiv, che causa l’immunodeficienza acquisita, è un “retrovirus”, che colpisce la cellula infettata in un modo diverso da quello dei virus tradizionali: si va a insediare nel Dna e da lì inizia a replicarsi. Il suo bersaglio sono le cellule del sistema immunitario, che si indeboliscono; così in chi ne è affetto aumenta enormemente il rischio di infezioni da altri virus o batteri, o di tumori. La malattia continua a mietere vittime: nel 2018 sono state 770 mila, erano più del doppio nel 2004. Ma soprattutto continua a serpeggiare: sempre nel 2018 (gli ultimi dati ufficiali aggiornati) ci sono state 1,7 milioni di nuove diagnosi. Si stima che quasi 40 milioni di persone nel mondo vivono con l’infezione di Hiv, soprattutto nei Paesi dell’Africa Sub-Sahariana, dove, secondo l’Oms, quasi 5 persone su 100 sono sieropositive.
Ebola. Il virus Ebola è recente: appena 6 anni fa, nel 2014, è esploso nell’Africa occidentale, provocando una febbre emorragica che ha ucciso più dei tre quarti delle persone infettate. Nonostante la pericolosità, il numero dei morti è sotto le 2.000 persone. Questo accade perché il virus ha un’azione così veloce che uccide la maggior parte degli ospiti prima di poterne contagiare altri. Inoltre, in Africa, le popolazioni colpite vivono prevalentemente nei villaggi, non in grandi città, e questo ha limitato la sua diffusione, insieme al fatto che l’ammalato non è in grado di muoversi. Ma la malattia rimane pericolosissima e molte cose rimangono difficili da spiegare: “non esiste ancora un trattamento provato”, avverte l’Istituto Superiore di Sanità, così come non si può prevenirla efficacemente perché “il serbatoio naturale della malattia non è stato identificato con certezza”. Sappiamo solo che si trasmette attraverso il contatto con sangue, secrezioni, organi o altri fluidi corporei di animali o di altre persone infette. L’Oms la ritiene l’epidemia più complessa della storia dei virus.
Le influenze. Parliamo al plurale perché quelle letali sono più di una. Nel ventesimo secolo, si sono verificate tre pandemie di influenze che hanno provocato vere e proprie stragi: la Spagnola, l’Asiatica e la Cinese. Ma non bisogna dimenticare che anche le comuni influenze stagionali provocano più morti di quelli attribuibili al coronavirus: solo quest’anno ci sono già stati 5 milioni di casi in Italia, che hanno colpito il 9% della popolazione, con 300 decessi collegati all’influenza e alle complicanze che ne sono derivate.
La Spagnola. L’influenza Spagnola nel 1918, fu chiamata così perché le prime notizie giunsero dalla Spagna, che non era sottoposta alla censura che coinvolgeva tutti gli Stati partecipanti alla prima Guerra mondiale. Si stima che provocò più di 50 milioni di morti (il quintuplo di quelli cagionati dalla stessa guerra), di cui almeno 375.000 in Italia. È la pandemia che ha cagionato il maggior numero di morti della storia umana, superando ampiamente la peste.
L’Asiatica. L’influenza Asiatica del 1958 è stata l’erede della Spagnola; nei precedenti quarant’anni, le influenze erano state “normali” fino all’esplosione di questa nuova pandemia. Anche in questo caso si trattava di un virus innovativo, del tutto diverso dai ceppi fino a quel momento conosciuti; provocò 2 milioni di morti ma ben presto, grazie a un vaccino fu contenuta, e scomparve dopo 11 anni.
La Cinese. I meno giovani la ricorderanno: venne chiamata così perché scoppiò nella colonia cinese della città di Hong Kong nel 1968. Tra le pandemie del XX Secolo fu la meno letale: provocò “solo” un milione di morti, di cui 20mila in Italia. Era altamente contagiosa e associata a polmoniti. Fortunatamente, l’anno dopo scomparve, velocemente così come era apparsa.
Il Rotavirus. È una pericolosissima gastroenterite infantile che colpisce soprattutto i neonati e i bambini al di sotto dei 5 anni. Provoca una forte diarrea che porta alla disidratazione. È responsabile di 200mila morti all’anno, circa 500 o 600 al giorno, e l’Oms la considera una delle più gravi emergenze sanitarie attuali.
La Dengue. È una febbre endemica e insidiosa, che si trasmette solo con le punture di zanzara, dunque non da uomo a uomo. Colpisce dai 50 ai 100 milioni di persone ogni anno ed è particolarmente diffusa in Thailandia, in India e nel Sud Est asiatico, ma è presente in tutto il mondo, soprattutto nelle regioni tropicali. Non esiste contro di essa un vaccino o un altro trattamento specifico efficace; il suo tasso di mortalità è piuttosto basso ma non trascurabile e si attesta al 2,5%, quasi come per il coronavirus.
La Sars. La Sars, acronimo di “Sindrome acuta respiratoria grave”, è una forma atipica di polmonite, molto contagiosa. Compare in Cina nel 2003 e inizia a mietere vittime (anche se meno di quel che si pensa: 770 persone); da quel momento è declinata, ma non del tutto scomparsa. È associata al Covid-19, sia per la famiglia di origine del ceppo virale (entrambe appartengono al coronavirus) sia per le manifestazioni sintomatiche (febbre, tosse e difficoltà respiratorie) e le zone colpite. Secondo l’Oms, però, Covid-19 non è mortale come altri coronavirus come Sars e Mers: nel Covid-19 oltre l’80% dei pazienti ha una forma moderata e guarisce e solo nel 2,5% circa risulta letale, mentre per la Sars il tasso di letalità è almeno del 9%.
E il coronavirus? Dopo questa lunga rassegna sulle emergenze passate, sembra opportuno fare un cenno a quella in corso: il coronavirus, che ancora non è stata classificata come pandemia dall’Oms, anche se forse siamo alle soglie. Intanto rimane un’epidemia con un livello di allarme e di emergenza molto alto, come ben sappiamo.
Se rapportato alle altre malattie virali (abbiamo visto che anche la Sars appartiene al ceppo dei coronavirus) gli studiosi hanno verificato che il Covid-19 “nell’80% dei casi nel suo genoma è più o meno uguale a quello della Sars del 2002 – 2003”, come spiega Massimo Ciccozzi, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. Ma quello che fa la differenza sono le mutazioni del virus, che lo rendono, da un lato,” estremamente più contagioso rispetto alla Sars” e, dall’altro lato, “meno letale”. “Quindi fa più casi. Ma è meno pericoloso, almeno tre volte meno pericoloso della Sars”, sottolinea l’esperto.
· Le Pandemie nella storia.
Giulio Tremonti per il ''Corriere della Sera'' il 15 dicembre 2020. 1720, 2020: la peste e la bolla. Certo, la storia non si ripete mai per identità perfette, ma a volte ne emergono coincidenze quasi perfette, spesso fatali. Quanto segue non ha pretesa storica: solo una suggestione che viene dal passato per arrivare ad oggi. Nel 1720 la Francia — se non il cuore dell’Europa, certo già allora una sua gran parte e centrale — fu investita tanto da una devastante pestilenza, quanto da una catastrofe finanziaria. La peste bubbonica, detta nel caso «peste levantina» perché portata da una nave che veniva dal levante, esplose a Marsiglia e da qui, terribile, si estese verso nord, bloccando i commerci, fino al Regno Unito. Nel 1720, e dunque nello stesso anno, sempre in Francia crollò il cosiddetto «Sistema di Law»: una finanza per allora super moderna, basata su banconote e su azioni emesse dalla «Compagnia» cui il Re aveva concesso lo sfruttamento della super reclamizzata, ma inesistente, ricchezza della «Louisiana». Il «Sistema» crollò quando, nonostante il ricorso a sempre nuovi artifici contabili, la realtà ebbe a prevalere sull’illusione, quando la povertà (ri)prese il posto della ricchezza (inventata). Ma, se la peste levantina ebbe più o meno presto termine, non fu così per la peste finanziaria: prima la lotta per le farine e per il pane, poi nel popolo crescente rabbia, mentre proseguivano le tristi feste dei reali, infine la «Rivoluzione». Si badi, qui non si sostiene che nel 1720 l’arrivo della peste causò la catastrofe finanziaria: solo una coincidenza. Ma certo, in un mondo già allora in qualche modo pre-globale, i due fenomeni hanno comunque anticipato i tratti del mondo globale che oggi vediamo e in cui viviamo. E qui in specie: se la pandemia del 2020 avrà un prossimo termine, vinta dalla scienza e dai vaccini, non è detto che sia lo stesso per la gigantesca bolla finanziaria che già ci stava sopra e che la pandemia ha ingigantito. Ma, se è permesso, prima di proseguire facciamo un passo indietro. Torniamo al ’700, quando infine e non per caso proprio in Francia prese forma e sostanza la triade rivoluzionaria «Liberté, Égalité, Fraternité». Una triade che sarebbe poi venuta ad esprimersi nella forza delle leggi. Non per caso ma pour cause, nei loro «Quaderni di doglianza», i rivoluzionari chiedevano: «un Re, una Legge, un Ruolo di imposta». Questa la base dei «Grandi Codici» che nei successivi due secoli hanno retto la nostra civiltà e la nostra economia. È stato solo trenta anni fa che, con la globalizzazione, tutto è cambiato. Quella vecchia è stata sostituita da una triade nuova: «Globalité, Marché, Monnaie». Questa basata sull’idea che, in un mondo globale e perciò automaticamente progressivo e positivo, la regola giusta fosse quella che non dovevano esserci regole. Caduti i confini nazionali ed estesa sul mondo la «Rete», questo è stato l’habitat in cui è venuta a crearsi una finanza nuova e super moderna, basata su di una «moneta» che viene dal nulla e va verso il nulla, che cresce per tutto il mondo senza controlli e senza limiti, con debiti che si fanno ma non si pagano. Contata in trilioni (i nuovi fantastiliardi) questa finanza è già più di tre volte superiore a quanto è prodotto dall’economia. Si dice che, con tutto questo, si va verso la Mmt («Modern Monetary Theory»). Questa una teoria che per la verità non è affatto nuova, ma vecchissima: è la formula base del metafisico e catastrofico «Sistema di Law», solo con il mondo digitale al posto della «Louisiana». Ciò che si vuole qui dire è che, se già c’è il vaccino contro il coronavirus, non c’è ancora il vaccino contro questo tipo di peste. Un vaccino questo che può essere prodotto solo in un laboratorio politico. Per esperienza personale, dopo la (prevista) crisi finanziaria del 2008, ricordo tanto un’immagine quanto un’utopia. L’immagine era quella del videogame: è come esserci dentro, batti un mostro, ti rilassi, ma poi arriva un altro mostro diverso e ancora più grande. La crisi, portata dalla globalizzazione, non era (e non è) infatti finita: muta e ritorna in altre forme, se si sta fermi, se non si fa qualcosa. E poi l’utopia: la sostituzione del «Free Trade» (nessuna regola) con il «Fair Trade»: regole estese a monte sulla produzione dei beni e dei servizi, così da superare l’asimmetria tipica del mondo globale, dove sopra la regola è l’anarchia, sotto — a livello nazionale — all’opposto ci sono fin troppe regole, spesso inutili, anzi paralizzanti. Il Gls («Global Legal Standard») che incorporava l’utopia fu approvato dall’Assemblea dell’Ocse, ma fu battuto dalla finanza e in specie dall’Fsb («Financial Stability Board»): nessuna regola per l’economia, solo qualche criterio per la finanza e questo definito dalla finanza stessa. Solo un curiosum (si fa per dire): già dieci anni fa, all’articolo 4 del Gls, si prevedevano... «regole ambientali e igieniche»! Oggi, con la pandemia e con le sue tragedie sanitarie, ma soprattutto mentali e sociali, politiche e geopolitiche, è tornato il tempo della responsabilità e della legalità. Oggi, crollata la «Torre di Babele», nello spirito del nuovo mondo, quello che allora (nel 2009) era troppo presto può e deve tornare e prendere forma in una nuova «Bretton Woods». Questo il «Trattato», se non globale certo internazionale che, pensato sul finire della guerra (1943-4), regolò per decenni i cambi e le valute. Oggi nuove regole potrebbero, anzi dovrebbero essere estese alla produzione dei beni, questo il vero vaccino per evitare l’arrivo altrimenti certo di nuove crisi.
Lettera di Antonio Fadda a “il Giornale” il 17 novembre 2020. Il professore americano Sigmund Ginzburg ne La Repubblica del 10 novembre ha affermato che la spagnola è responsabile della crisi economica degli anni Venti. Tra l' altro raddoppia i morti che risultano 50 milioni affermando che siano stati 100 milioni. Mi pare che sia stata una ulteriore forzatura quella di Roberto D' Agostino a Stasera Italia Speciale condotto da Barbara Palombelli far riferimento alla Repubblica di Weimar e Maria Giovanna Maglie si è accodata. Voler attribuire al malessere causato dalla spagnola l' andata al governo del partito Nsdap nella Repubblica di Weimar non trova riscontro in quanto hanno scritto gli storici esperti della materia. Che il Covid-19 possa provocare una crisi economica ora è vero, ma che c' entra fare riferimento alla spagnola che si è estinta nel 1920 per l' ascesa del nazismo? Nella Repubblica di Weimar, assillata dalle durissime misure imposte dai vincitori della Grande guerra, su indicazione soprattutto della Francia, vi fu una inflazione fortissima nel 1923, ma successivamente, grazie al buon governo di Stresemann ed al trattato di Locarno vi fu una notevole ripresa economica favorita anche dai prestiti degli Stati Uniti. Fu la crisi del '29 che rimise in difficoltà la Germania e il partito nazista che nel 1928 aveva solo 12 deputati al Bundestag salì a 107 nel 1930. Ma la spagnola non c' era più. Antonio Fadda
Dagospia il 17 novembre 2020. Riceviamo e pubblichiamo: Avrei un altro paio di precisazioni da aggiungere alla lettera pubblicata col titolo “Falsità storiche”, oltre al fatto che il Parlamento tedesco a quei tempi si chiamava Reichstag, non Bundestag. Mi chiamo Siegmund Ginzberg e non Sigmund Ginzburg. Non sono professore ma giornalista. Non sono americano ma italiano. Non sono io ad affermare che la Spagnola ebbe effetti sull’ascesa degli estremismi negli anni ‘30, ma uno Staff report della Federal Reserve Bank di New York a firma Kristian Blickle (lui sì americano) pubblicato il 20 maggio 2020. Si intitola Pandemics Change Cities: Municipal Spending and Voter Extremism in Germany, 1918-1933. Circa la caduta della democrazia di Weimar Il vostro lettore signor Fadda potrebbe voler dare uno sguardo al mio Sindrome 1933, recentemente raccomandato come lettura da Papa Francesco. Siegmund Ginzberg
Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 16 novembre 2020. Peste ad Atene, 430 a.C. , 27 secoli fa. Leggendo la descrizione dello storico Tucidide sembra di leggere i giornali di questi giorni. Peste o forse tifo petecchiale (epidemia originata dal morso di un pidocchio). Fu una strage che durò alcuni anni ad Atene. Intere famiglie furono distrutte. Ne morì anche Pericle, uno dei più grandi statisti di tutti i tempi. Tucidide, politico e generale ateniese e poi storico fra i più antichi, descrive cosa accadde ad Atene in quei mesi. Siamo nel libro 2, capitolo 47, delle sue Storie. I medici erano impreparati, perché era la prima volta che il male si manifestava. In prima linea nella lotta alla peste, allora, come oggi col covid, erano i primi a morire. Lo stesso Tucidide se la cavò. Così fu in grado di descrivere i sintomi in dettagli che ancora oggi fanno accapponare la pelle. “Non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte una peste talmente estesa né una tale strage di uomini”.
I medici non l’avevano mai vista. I medici non erano di nessun aiuto, a causa della loro ignoranza, poiché curavano la malattia per la prima volta. Ma anzi loro stessi morivano più di tutti, in quanto più di tutti si avvicinavano ai malati; né serviva nessun’altra arte umana”. Oggi nemmeno il Papa attribuisce il covid a qualche punizione divina. Si limita a pregare e a fare il sociologo. A quei tempi la religione era vita quotidiana per tutti, ma con risultati anche allora modesti. “Tutte le suppliche che facevano nei templi o l’uso che facevano di oracoli e cose simili, tutto ciò era inutile; e alla fine essi se ne astennero, sgominati dal male”.
Il morbo arrivò dal mare, ora con l’aereo. Probabilmente la peste arrivò dal mare, come nel ‘300 la peste portata dalle navi genovesi dal Mar Nero. Oggi si è diffuso con gli aerei. Secondo lo storico, l’epidemia scoppiò in Etiopia, “nella parte al di là dell’Egitto. Poi scese anche nell’Egitto, nella Libia. Nella città di Atene piombò improvvisamente, e i primi abitanti che attaccò furono quelli del Pireo”. Il porto di Atene, appunto. Poi arrivò anche nella città alta, e da allora i morti aumentarono di molto.
Come un buon giornalista, sempre, anche Tucidide obbedisce a un obbligo professionale: “Dirò in che modo si è manifestata e mostrerò i sintomi. Osservando i quali, caso mai scoppiasse un’altra volta, si sarebbe maggiormente in grado di riconoscerla, sapendone in precedenza qualche cosa”. Testimonianza diretta di un cronista: “Io stesso ho avuto la malattia e io stesso ho visto altri che ne soffrivano”.
Il morbo arrivò senza preavviso. “Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie”. Poi però accadde che sempre più numerosi gli ateniesi, “senza nessuna causa apparente, mentre erano sani improvvisamente venivano presi da violente vampate di calore alla testa. E da arrossamenti e infiammazioni agli occhi. E tra le parti interne la faringe e la lingua erano subito sanguinolente ed emettevano un alito insolito e fetido. “Poi, dopo questi sintomi, sopravveniva lo starnuto e la raucedine, e dopo non molto tempo il male scendeva nel petto, ed era accompagnato da una forte tosse. E quando si fissava nello stomaco lo sconvolgeva. E ne risultavano vomiti di bile di tutti i generi nominati dai medici. E questi erano accompagnati da una grande sofferenza. “Alla maggior parte dei malati vennero conati di vomito che non avevano esito. Ma producevano violente convulsioni. Per alcuni ciò si verificò dopo che i sintomi precedenti erano diminuiti, per altri invece dopo che era trascorso molto tempo.
Pustole e ulcere. “Esternamente il corpo non era troppo caldo a toccarlo, né era pallido, ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole e di ulcere. L’interno invece bruciava in modo tale che i malati non sopportavano di esser coperti da vesti o tele di lino leggerissime. Né sopportavano altro che esser nudi. E ciò che avrebbero fatto con il più gran piacere sarebbe stato gettarsi nell’acqua fredda. Questo in realtà lo fecero molti dei malati trascurati, che si precipitavano alle cisterne in preda a una sete inestinguibile. Eppure il bere di più o di meno non faceva differenza”. Non riuscivano a riposare. Soffrivano di insonnia. “Il corpo per tutto il tempo in cui la malattia era acuta non deperiva. Ma resisteva inaspettatamente alla sofferenza. Così la maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno a causa del calore interno, ma aveva ancora un po’ di forza”.
Diarrea liquida. “Se si salvavano, la malattia scendeva ancora nell’intestino, si produceva in esso una ulcerazione violenta. Insieme sopraggiungeva un attacco di diarrea completamente liquida. E a causa della debolezza che essa provocava i più in seguito decedevano”. “Il male colpiva anche gli organi sessuali e le punte delle mani e dei piedi. Molti scampavano con la perdita di queste parti, alcuni anche perdendo gli occhi. Altri, quando si ristabilivano, sul momento furono anche colti da amnesia. Che riguardava tutto, senza distinzioni, e perdettero la conoscenza di sé stessi e dei loro familiari”. “Alcuni morivano per mancanza di cure. Altri anche curati con molta attenzione. Non si affermò nemmeno un solo rimedio, per così dire, che si dovesse applicare per portare a un miglioramento. Infatti proprio quello che giovava a uno era dannoso a un altro”. “Nessun corpo si dimostrò sufficientemente forte per resistere al male, fosse robusto o debole, ma esso li portava via tutti, anche quelli che erano curati con ogni genere di dieta”. “Ma la cosa più terribile di tutte nella malattia era lo scoraggiamento quando uno si accorgeva di essere ammalato. I malati si davano subito alla disperazione, si abbattevano molto di più e non resistevano). E il fatto che per aver preso la malattia uno dall’altro mentre si curavano, morivano come le pecore. Questo provocava il maggior numero di morti”.
Social distancing non prescritto ma decisivo. “A quel tempo non si parlava di mascherine né di social distancing. Ma le regole sono sempre quelle. Così quelli che si recavano dai malati perivano, soprattutto coloro che cercavano di praticare la bontà. Grazie al loro senso dell’onore non si risparmiavano nell’entrare nelle case degli amici. Dato che alla fine addirittura i familiari interrompevano per la stanchezza anche i lamenti per quelli che morivano, vinti come erano dall’immensità del male”. “Tuttavia, più degli altri coloro che erano scampati avevano compassione per chi stava morendo o era malato. Perché avevano già avuto l’esperienza della malattia. E perché loro ormai erano in uno stato d’animo tranquillo”. Immunità di gregge. “Il morbo infatti non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla. E gli altri si congratulavano con loro. Ed essi stessi, nella gran gioia del momento, avevano un po’ di vana speranza che anche in futuro nessuna malattia li avrebbe mai più potuti uccidere”.
Vittorio Feltri, il libro di Melania Rizzoli che vi spiega come non ammalarsi: la guida "scansa-malattie". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 21 ottobre 2020. Per gentile concessione dell’editore Baldini+Castoldi e dell’autore pubblichiamo la prefazione del libro di Melania Rizzoli «La salute prima di tutto» scritta dal direttore Feltri. Questo libro di Melania Rizzoli, se solo proverete a leggere le prime pagine e a sfogliarlo, non finirà infilato nella pila di libri atti a gonfiare gli scaffali della libreria per far vedere che siamo gente di cultura. Il suo posto di combattimento naturale sarà in prima linea, sul tavolino accanto alla poltrona, indi si sposterà sul comodino vicino all'abat-jour, persino nella classica casamatta fortificata del bagno. Angelo custode con la spada in mano, guardia del corpo in senso letterale. Scendendo sul pratico, ritengo che questo tomo abbia due funzioni, la prima delle quali è bene illustrata dal titolo: è un manuale per scansare le malattie e i malanni, o comunque per affrontare quelli più seri e che inducono timore e tremore senza andare nel pallone, venendo quindi, una volta che si cerchi di farsi interpretare i sintomi da spavento, affogati nel gergo di luminari che di solito ci tengono molto a oscurare il loro dire per essere presi maggiormente sul serio, a costo di essere indecifrabili come la Sfinge o come le centurie di Nostradamus. Ovvio: la consultazione del volume rizzoliano non è sostitutivo di visite mediche e consultazioni devote del proprio cerusico di fiducia, ma fornisce la stele di Rosetta per decifrarne diagnosi e terapie. La seconda utilità di questo libro è l'essere un talismano, garantito dall'esperienza di chi sta scrivendo questa nota. Per cui va toccato, carezzato, se del caso palpato, oltre che letto. Aprite, leggete, poi chiudetelo con familiare delicatezza. Sembra un gatto egizio, di quelli adorati dai faraoni: porta bene. Io ne sono un buon testimonial, avendo assistito al suo concepimento, e poi avendolo visto crescere, di settimana in settimana, sempre più bello, vispo, intelligente, con unghie tese a graffiare la malattia indirizzando l'attenzione non solo sui rimedi posteriori al suo insorgere, ma con indicazioni atte a mandarla a ramengo, preservando e prevenendo. Confesso di essere il primo fruitore e oserei dire ostetrico di questa sapienza di Melania qui raccolta in un grosso tomo. (A proposito la ponderosità di un libro di solito ha un effetto deleterio di allontanamento. Non in questo caso. Il peso ci fa intuire d'emblée che abbiamo schierato dalla nostra parte un pezzo da 90, un cannone di gran calibro, e non le palline di carta da cerbottana delle rubriche mediche di qualche camice alla moda). Il volume raccoglie infatti, catalogati in sezioni e capitoli così da renderne agevole la consultazione, gli articoli che in questi anni recenti la dottoressa - che è un fior di clinico - ha scritto con penna straordinariamente fluente per Libero. L'idea è stata mia. Avevo ammirato le due opere della Rizzoli dedicate al cancro. L'autrice l'aveva raccontato splendidamente da un doppio punto di vista: quella del clinico e quella del malato. Ha avuto il privilegio (meritato) di osservarlo e vincerlo stanno sul lettino del paziente ma anche "sopra" quel lettino. Le ho chiesto di insistere. Non di fornire ai lettori un materiale preordinato, quasi che dovesse partire dalla a di alluce valgo per finire con la zeta di zombie. Si attaccasse piuttosto alla cronaca, illustrando i dubbi e scombinando certezze riguardo a questa o a quella malattia che avesse turbato la vita o accompagnato al camposanto qualche protagonista della scena pubblica. Oppure proponendo ai lettori le scoperte o le ricerche promettenti sui malanni che gremiscono la vita delle famiglie. Detto fatto. Mi bastava sfiorare lo schermo dell'iPad su cui erano appena apparsi freschi di scrittura i suoi servizi, e già mi passava il formicolio alle mani, la pressione si sistemava. Giuro. Credo abbiano qualcosa di magico queste pagine. E la magia consiste nella semplicità e nell'umiltà. Melania non trasmette nozioni polverose, con paternalistica condiscendenza. Macché. Studia le più accreditate riviste mediche del pianeta. E quando trova qualcosa di davvero utile non solo per gli specialisti o per i laboratori di ricerca, ma per le persone comuni, dotate tutte di un corpo soggetto alle malattie più serie e ai malanni più frequenti, ma sempre antipatici, spezza il pane della scienza così che possano masticarlo anche coloro che non hanno i denti del laureato in medicina e chirurgia. E lo fa senza in nessun modo svilire o banalizzare quel sacro sapere in origine impastato, infornato e destinato alle tavole regali di aspiranti Nobel o azzimati baroni. Non mi stupisco che questo possa suscitare qualche nervosismo tra i custodi del tempio chiuso a chiave, ma noi diciamo grazie. Negli anni Sessanta, anche tra le famiglie dove non abbondavano libri, oltre all'enciclopedia Vita Meravigliosa oppure alla sua concorrente Conoscere che si compravano volume per volume ad uso degli scolari, indispensabile per copiare le cosiddette "ricerche", non mancava mai un volumone di Enciclopedia medica, la più popolare era quella di selezione per la famiglia del Rider' s Digest. I nostalgici dei tempi del boom ne possono ancora acquistare delle copie usate su ebay a 5 euro. Si cercava la voce cancro, oppure tosse. Sono opere con un loro perché e un valore di abbecedario. Le mamme e le nonne andavano alla "v" di varicella, oppure alla "o" di orecchioni (delusione, non c'era, bisognava guardare alla "p" di parotite) per capire se figlioletti o nipotini ce l'avessero sul serio. I ragazzi si curvavano, pronti a cambiare capitolo, sulle pagine e specie sulle figure dell'apparato riproduttivo. Quei libri erano curati da medici e usavano un linguaggio popolare sì ma non troppo, perché altrimenti avrebbero svilito la considerazione che era dovuta ai medici che (allora) arrivavano sul serio anche di notte, per appoggiare le loro calde mani sulle pance dei ragazzini con l'appendicite, o appoggiare il freddo stetoscopio sul petto vizzo della nonna. Quella stirpe antica l'abbiamo vista rinascere negli ospedali e nei reparti di terapia intensiva da Covid-19. Tanti ne sono morti per servirci. Un milione di volte meglio loro di quei presunti geni frequentatori di talk-show televisivi che litigano senza sapere quasi salvo farci conoscere la propria presunzione. Questo libro di Melania Rizzoli sta dalla parte dei medici condotti del tempo che fu e di quelli che hanno passato e passano i giorni e le notti al capezzale di chi non riusciva e non riesce a respirare. Ripristina la fiducia verso la scienza medica, insegna ad accettarne i limiti. Rispetto a quelle gloriose enciclopedie mediche rappresenta una magnifica evoluzione adeguata ai tempi del coronavirus.
IMPARIAMO DALLA STORIA. Circolo Culturale Excalibur. Come fece il Fascismo a sconfiggere la Tubercolosi (TBC) senza mascherine e distanziamento? Silvio Berlusconi a 84 anni ha contratto il virus del Covid19 e, nonostante l'elevata carica virale che l'ha colpito, dopo due settimane è uscito dalla clinica allegro e pimpante come il presidente Americano Trump (74 anni) dopo due giorni di degenza. Questi due esempi ci dimostrano che chiunque abbia contratto il virus può guarire. Le migliaia di morti che abbiamo registrato nel pieno della pandemia (e che speriamo di non rivedere), sarebbero state infinitamente meno se quelle persone fossero state curate adeguatamente. Non è il Virus che uccide, ma la mancanza di cure, a parte il caso di pazienti affetti da gravi patologie poi aggravate dal Covid. Negli anni venti, prima dell'avvento del Fascismo, in Italia la Tubercolosi (TBC) infettava ogni anno 600mila persone e causava oltre 60mila vittime, soprattutto fra i bambini. Eppure nel giro di pochi anni il Regime riuscì a depotenziarlo fino a sconfiggerlo del tutto. Come fece? Prendendolo a manganellate o annegandolo nell'olio di ricino? Battute a parte, la risposta è semplice: costruendo ospedali e dotandoli delle più moderne strumentazioni tecnico-scientifiche e applicando procedure mediche all'avanguardia nella cura delle malattie infettive. Furono realizzate negli anni del Fascismo quelle eccellenze in campo ospedaliero che tutto il mondo guardava con ammirazione e che ancora oggi rappresentano l'ossatura del sistema sanitario pubblico: a Roma lo Spallanzani, il San Camillo e il Forlanini, a Napoli il Cardarelli, a Genova il Gaslini solo per citare i più noti, cui si aggiunsero le centinaia di ospedali minori e le molteplici strutture specializzate per la cura delle patologie polmonari come, ad esempio, il Villaggio Sanatoriali di Sondalo. In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...Per saperne di più è disponibile il libro di Gianfredo Ruggiero: In pochi anni dal 1929 al 1936 furono creati oltre 20mila posti letto in sessantuno nuovi ospedali. In ogni località termale sorgevano le Colonie Elioterapiche per la cura delle patologie polmonari e tutti gli anni i bambini potevano andare a respirare aria salubre al mare o in montagna grazie alle colonie estive. In quegli anni nessuna nazione europea investì nella sanità pubblica come l'Italia fascista. Altro che mascherine, distanziamento sociale e banchi a rotelle nelle scuole...
Sul fascismo molto si è scritto, ma poco si è compreso a causa del conformismo degli storici che pur sapendo come realmente si svolsero i fatti, tacciono e si adeguano. In questo libro, chiaramente di parte, di quella parte di storia sul fascismo volutamente ignorata, sono affrontate le maggiori colpe attribuite a Mussolini e al suo regime: dalla presa del potere con la violenza al delitto Matteotti, dalla morte di Gramsci all'omicidio dei Fratelli Rosselli, dall'uso dei gas nella guerra d'Abissinia alle leggi razziali, dall'entrata nel secondo conflitto mondiale ai crimini della guerra civile. Fatti e circostanze descritti con rigore storico che, di conseguenza, fanno vacillare molte delle certezze che ci sono imposte fin dai banchi di scuola. Nella seconda parte sono descritte e documentate le principali realizzazioni del fascismo. Opere, istituzioni e leggi (molte delle quali ancora in vigore a conferma della loro validità) che nei libri di testo sono ignorate o sminuite nella loro portata. Nella terza parte, quella dedicata agli approfondimenti, si parla di come il regime, senza mascherine e distanziamento sociale, ha sconfitto la tubercolosi, una malattia infettiva che ogni anno mieteva molte più vittime del Coronavirus di oggi, soprattutto tra i bambini. Di come l'industria chimica italiana si è imposta a livello mondiale e un capitolo sul rapporto tra fascismo e turismo, sport e cultura. Sono infine smentite molte delle cosiddette "bufale sul fascismo". Il fascismo, piaccia o no, è parte integrante della nostra storia e non può essere racchiuso tra due parentesi come fosse una sorta d'incidente e sbrigativamente relegato in un angolo della nostra memoria collettiva, salvo poi riprenderlo per usarlo come spauracchio o come etichetta per denigrare l'avversario politico. I suoi meriti e le sue colpe vanno dibattuti con distacco e serenità. Solo così potremmo togliere spazio al fanatismo delle frange estreme e alla strumentalizzazione della politica. Historia Magistra Vitae, affermava Cicerone. Quella vera aggiungiamo noi.
Coronavirus, quando finirà la pandemia? Che cosa dice la storia. Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2020. Le malattie infettive nate milioni di anni fa sono ancora tra noi. L’unica debellata con il vaccino è il vaiolo. Il nuovo coronavirus probabilmente diventerà endemico. Quando finirà la pandemia di coronavirus e quando riusciremo a tornare a una vita normale? Dal mese di febbraio nel mondo si sono registrati 40 milioni di casi da coronavirus con oltre un milione di morti ed è normale sentirsi stanchi ed esasperati avendo ancora di fronte un periodo di incertezza di cui non si vede la fine. Dall’inizio della pandemia epidemiologi ed esperti di salute pubblica hanno utilizzato modelli matematici per prevedere che cosa succederà suggerendo, in base alle previsioni, le adeguate misure di contenimento. Ma i modelli matematici, specie quando riguardano le malattie infettive, non sono sfere di cristallo, e anche i modelli più sofisticati difficilmente ci diranno quando finirà la pandemia o quante persone moriranno. Chi studia la storia delle malattie suggerisce di guardare indietro piuttosto che azzardare previsioni future. Analizzando come si sono concluse le epidemie passate forse si potrà almeno intuire come andrà a finire questa.
Le prime previsioni. Durante i primi giorni di pandemia molte persone speravano che il coronavirus sarebbe semplicemente svanito (come era successo con la Sars che è tornata nel bacino animale). Alcuni scienziati hanno ipotizzato che sarebbe scomparso con il caldo estivo. Altri hanno immaginato che la salvezza sarebbe arrivata con l’immunità di gregge. Nulla di tutto questo è accaduto. Il virus ha continuato a circolare anche in piena estate (alcuni degli Stati più caldi degli Usa sono stati duramente colpiti durante la stagione calda) e l’immunità di gregge, oltre a essere ritenuta pericolosa e immorale perché il virus non sarebbe comunque sconfitto, è ben lontana dall’essere raggiunta.
Una malattia endemica. È stato dimostrato che una serie di sforzi messi in atto per mitigare la pandemia sono di grande aiuto. Distanziamento sociale, indossare la mascherina, lavaggio frequente delle mani e tracciamento dei contatti sono molto utili, ma probabilmente non sufficienti a porre fine alla pandemia. Tutti stanno guardando allo sviluppo dei vaccini, le sperimentazioni proseguono spedite come mai era successo. Eppure alcuni esperti sostengono che anche con un vaccino sicuro ed efficace e un farmaco di successo Covid-19 potrebbe non scomparire mai. Potrà succedere, ed è successo, che l’epidemia rallenti in una parte del mondo continuando invece in altre zone . «Sono ormai molti i virologi e gli epidemiologi a sostenere che il coronavirus diventerà probabilmente endemico, cioè circolerà nella popolazione e dovremo farci i conti in tutte le stagioni, più di quanto succede con l’influenza e i raffreddori che colpiscono prevalentemente in inverno» scrive Nükhet Varlik , professore di storia all’Università della South Carolina . Insomma, potrebbe non andarsene mai, come l’Hiv, il virus che causa l’Aids che però oggi, grazie ai farmaci non è più una condanna a morte perché con le terapie attuali l’infezione può diventare cronica senza evolvere verso l’Aids.
Il vaiolo unica malattia debellata con il vaccino. Purtroppo, salvo poche eccezioni le malattie infettive difficilmente se ne vanno. Qualunque patogeno, che sia un batterio, un virus o un parassita è ancora tra noi anche se magari è comparso migliaia di anni fa. È molto difficile eliminarli. L’unica malattia che è stata debellata con la vaccinazione è il vaiolo. Le campagne di vaccinazioni di massa guidate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto successo, e nel 1980 il vaiolo è stato dichiarato debellato. È per ora la prima malattia umana (e per ora unica) ad essere stata sconfitta completamente. Ma la storia del vaiolo è un’eccezione: le malattie purtroppo di solito restano.
Le malattie infettive mai scomparse. La malaria ad esempio, dovuta a un protozoo e trasmessa da zanzare è antica quasi come l’umanità. Nonostante gli sforzi con il DDT e l’uso della clorochina abbiano portato a un certo successo, la malattia in molti Stati del Sud del mondo è ancora endemica. Nel 2018 ci sono stati circa 228 milioni di casi di malaria e 405 mila decessi in tutto il mondo. Malattie come la tubercolosi, la lebbra e il morbillo ci accompagnano da molti millenni e nonostante l’impegno con farmaci e vaccini l’eradicazione non c’è stata. Anche il virus dell’influenza spagnola non è mai scomparso del tutto. Dopo tre ondate (la seconda più letale della prima) e almeno 50 milioni di morti la malattia è praticamente scomparsa. Gli accademici concordano che la fine della pandemia arrivò nel 1920 quando la società sviluppò un’immunità collettiva Secondo Benito Almirante, responsabile delle malattie infettive dell’ospedale Vall d’Herbon di Barcellona «L’influenza spagnola ha continuato ad apparire, mutando e acquisendo materiale genetico da altri virus».
I decessi per malattie infettive. La ricerca sul carico globale delle malattie evidenzia che la mortalità annuale causata dalle malattie infettive (la maggior parte delle quali si verifica nei Paesi in via di sviluppo) è quasi un terzo di tutti i decessi a livello globale. Oggi in un mondo così globalizzato, dove gli spostamenti intercontinentali sono la normalità, e i cambiamenti climatici sempre più pressanti siamo più esposti a malattie infettive emergenti che si aggiungono alle vecchie patologie, ancora vive e vegete.
Il caso della peste. Anche la peste, che molti di noi pensano scomparsa, in realtà è ancora tra noi. La peste è tra le malattie infettive più letali nella storia umana (60%) . Ci sono stati innumerevoli focolai locali e almeno tre pandemie di peste documentate negli ultimi 5.000 anni che hanno ucciso centinaia di milioni di persone. La più nota delle pandemie fu la peste nera, nella metà del XIV secolo. La peste per almeno sei secoli si è ripresentata con diversi focolai colpendo anche le società più evolute. Ogni focolaio nel corso dei mesi, talvolta degli anni, si è attenuato in modo graduale a causa dei cambiamenti nei vettori, alla disponibilità di ospiti , al numero di individui suscettibili. Alcune società si sono riprese dall’epidemia, altre non ci sono riuscite. Questo batterio, Yersinia pestis, veicolato dai roditori, è ancora tra noi e ogni anno non mancano segnalazioni specie nelle zone più remote del mondo (l’Oms segnala dai 1.000 ai 3.000 casi ogni anno soprattutto tra Africa, Asia e Sudamerica). Oggi, grazie alla terapia antibiotica somministrata in modo tempestivo, la peste è curabile ed epidemie non sono più possibili. Ma la peste non è comunque mai sparita.
Futuro incerto. Cosa succederà con Sars-CoV-2? C’è da augurarsi che non persista per millenni ma senza un vaccino tenerlo a bada non sarà facile. E anche quando il vaccino arriverà le campagne vaccinali saranno fondamentali. Basta guardare il morbillo e la poliomielite che si ripresentano ogni volta che gli sforzi per le vaccinazioni vacillano un po’. «La previsione che alcuni scienziati fecero negli Anni Sessanta del secolo scorso riguardo ad un mondo in cui le malattie infettive sarebbero state definitivamente sconfitte ed eliminate grazie al progresso scientifico si è rivelata una irrealistica utopia» riflette Paolo Bonanni, epidemiologo e professore ordinario di Igiene all’Università di Firenze. «Un approccio saggio al problema - aggiunge - deve partire dalla coscienza della nostra scarsa comprensione dei meccanismi che portano all’emergenza delle pandemie. Socraticamente, solo l’essere consapevoli “di non sapere” ci può mettere nella posizione di umiltà e impegno a conoscere e ricercare necessario a combattere con la nostra intelligenza, la scienza e la tecnologia l’eterna battaglia contro i microbi e i virus, che sono i nostri veri “predatori”».
Quando finirà davvero il Covid? Che cosa ci insegna la Storia. Matteo Carnieletto su Inside Over il 20 ottobre 2020. Il 17 novembre del 2019, si registra in Cina il primo contagio di Covid-19. I media iniziano a parlare di una “strana polmonite” che, poco a poco, colpisce la popolazione dello Hubei. Nessuno può immaginare ciò che accadrà nei mesi a venire. Il virus si muove velocemente, troppo. Xi Jinping dichiara guerra al “demone” del coronavirus, ma gli sforzi cinesi – arrivati dopo ritardi e mancanze – non bastano a fermare il contagio. In pochi mesi, il nuovo coronavirus è in Germania, Italia, India e Stati Uniti. La peste del XIV secolo ci mise 16 anni per arrivare in Europa. Il Covid-19 riesce a fare lo stesso percorso in pochi mesi. I tempi sono cambiati, gli scambi tra Paesi, anche lontanissimi, sono sempre più frequenti e, soprattutto, veloci. E così il virus è libero di correre. L’11 marzo del 2020, l’Oms dichiara la pandemia: “Nei giorni e nelle settimane a venire, prevediamo che il numero di casi, il numero di decessi e il numero di paesi colpiti aumenteranno ancora di più – annuncia il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus – L’Oms ha valutato questo focolaio 24 ore su 24 e siamo profondamente preoccupati sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Abbiamo quindi valutato che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia. Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o disattenzione”. Il Covid-19 diventa così un problema globale. Questo è ciò che, ad oggi, sappiamo del virus. Questo e poco altro. Riusciamo a ripercorrerne la nascita e la diffusione, ma non sappiamo ancora quando uscirà dalle nostre vite. La Storia, però, può esserci d’aiuto. Un articolo del New York Times del 10 maggio scorso (qui la traduzione di Internazionale) individuava due momenti fondamentali per dichiarare conclusa una pandemia: “La fine sanitaria, quando crollano l’incidenza e la mortalità, e quella sociale, quando sparisce la paura dovuta alla malattia”. A che punto siamo adesso? Difficile dirlo con certezza. Durante la scorsa estate, sembrava che in Italia il virus avesse perso la propria spinta e fosse meno pericoloso. Da metà maggio fino alla fine di settembre, infatti, i contagi sono stati nell’ordine di poche centinaia/migliaia al giorno, le terapie intensive erano stabili e i decessi al minimo. Nelle ultime settimane, seguendo il trend europeo, il numero delle persone contagiate in Italia è però schizzato oltre gli 11mila (di cui il 95% asintomatiche, come ha affermato il virologo Giorgio Palù), le terapie intensive si stanno lentamente riempiendo e il numero di morti risulta stabile. La situazione attuale non è paragonabile a quella dello scorso inverno, come ha spiegato anche il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: “Non siamo a marzo, dobbiamo adottare scelte proporzionate e ponderate”. Ad oggi, l’obiettivo del governo è quello di contenere il virus in modo tale che l’impatto sulle strutture sanitarie sia come un’onda piccola e costante e non come uno tsunami che tutto travolge. Perché forse, la cosa migliore da fare è imparare a convivere con il virus, smorzandolo il più possibile e riducendo al minimo l’impatto sugli ospedali. Il secondo modo, forse un po’ brutale, per dichiarare la fine di una pandemia è rappresentato dalla popolazione che, stanca dell’epidemia, decide di convivere con il virus. Secondo Allan Brandt, storico di Harvard citato dal New York Times, questo scenario potrebbe avverarsi con il Covid-19: “Come evidenzia il dibattito sulla riapertura, le discussioni a proposito della cosiddetta fine della pandemia non sono determinate dai dati medici e sanitari, ma dal processo sociopolitico”. La prima cosa da fare per accelerare la fine del coronavirus è raccontare ciò che sta accadendo in modo chiaro, senza però cedere a inutili allarmismi. Ci troviamo certamente di fronte a un virus complesso, ma il Covid-19 non è la peste. A proposito: questo morbo, che in diverse occasioni ha decimato la popolazione mondiale, ci insegna una cosa molto importante: le malattie vanno e vengono. A volte in modo misterioso. La “morte nera” non è infatti sparita, ma si è solo momentaneamente ritirata: “Negli Stati Uniti – riporta il New York Times, la malattia è endemica tra i cani della prateria, roditori che vivono nel sudovest, e può essere trasmessa agli essere umani”. Recentemente, alcuni casi si sono registrati anche in Cina. “La peste” – fa notare Giuseppe Pigoli ne I dardi di Apollo (Utet) – “non è mai stata debellata in modo radicale. In un rapporto dell’Oms del 2000 sono stati elencati oltre 34mila casi in 24 nazioni nell’arco di 15 anni. Soprattutto dagli anni Novanta si è assistito ad una recrudescenza del male, al punto che è stata fatta rientrare nel novero delle malattie ri-emergenti”.
L’influenza spagnola. Molti hanno paragonato il Covid-19 all’influenza spagnola che, tra il 1918 e il 1920, infettò 500 milioni di persone, uccidendone (secondo alcune stime) 50 milioni. A distanza di cento anni, non si sa ancora dove sia nato questo virus. Le ipotesi sono le più disparate: c’è chi ritiene che si sia inizialmente diffuso nella contea di Haskell in Kansas e portato dai soldati americani in Europa e chi sostiene che, a far da super diffusori, furono 96mila lavoratori cinesi infetti inviati sul fronte occidentale durante la Prima guerra mondiale per aiutare le truppe inglesi e francesi. Come fa notare Pigoli nel volume citato, “la malattia si presentava come una ‘banale’ influenza: febbre, dolori alle articolazioni e debolezza. Nel volgere di pochi giorni però il quadro clinico subiva un peggioramento drammatico: la febbre conosceva un brusco rialzo e comparivano muco e sangue nei bronchi che ‘annegavano’ le persone colpite portando rapidamente a morte individui sino a poco prima sani”. Una descrizione, questa, che ricorda molto il Covid-19. Contrariamente a quanto si possa pensare, però, ad essere colpiti non furono le persone più fragili e gli anziani, come il coronavirus, ma uomini tutto sommato giovani. Stanchi, sporchi e sfiniti dal fango delle trincee, i militari furono il bersaglio preferito del morbo, che infatti ne inghiottì a migliaia. Nel maggio del 1918, i tassi di mortalità toccarono il 70%. Fu l’inizio del massacro: tornando a casa, i reduci portarono con sé il morbo, che colpì anche i loro parenti: “Le cronache parlano di funerali celebrati di continuo, di persone che portavano mascherine protettive e di intere famiglie colpite, segregate in case di cui le forze dell’ordine sorvegliavano le porte”. Dopo due anni, la “spagnola” sparì all’improvviso. Fa notare Pigoli che “i virus trovano la propria ragione di sopravvivenza camuffandosi per sfuggire agli anticorpi. La storia di queste mutazioni è ricca di episodi che ci rendono chiaro come questo agente infettivo sia pressoché invincibile e di come, nonostante ogni anno le autorità sanitarie approntino nuovi vaccini, saltuariamente si verifichino epidemie virulente, difficilmente controllabili, come quelle avvenute nel 1957, 1968 e 1977”. I virus, dunque, vanno e vengono. E sono, come ha scritto Andrew Nikiforuk ne Il quarto cavaliere, “un promemoria mutante di come è la vita”.
Coronavirus, seconda ondata peggiore della prima? Il confronto con l'influenza spagnola. Le Iene News il 12 ottobre 2020. Con l’arrivo dell’autunno in tutta Europa è arrivata anche la seconda ondata di coronavirus: anche l’Italia, ultima tra i paesi del Vecchio continente, sta vedendo i suoi casi esplodere. Ma questa seconda ondata sarà peggiore della prima, come è stato per l’influenza spagnola? Ecco le similitudini e le differenze con la pandemia di cento anni fa. La seconda ondata della pandemia di coronavirus si rivelerà peggiore della prima? La domanda, di fronte alla crescita verticale dei contagi in tutta Europa, comincia a circolare insistentemente, insieme alla paura di ripiombare nell’incubo vissuto a marzo. E anche perché si cominciano a fare paragoni con la seconda ondata pandemica dell’influenza spagnola, che in pochi mesi uccise oltre cinquanta milioni di persone. Ma quali sono le similitudini, le differenze e le lezioni che possiamo imparare da quanto successo cento anni fa? Nel caso dell’influenza spagnola, come detto, la seconda ondata fu molto più grave della prima. Dopo una prima crescita nella primavera del 1918, con l’estate sembrò che il virus fosse sparito. Ma tra settembre e ottobre i casi esplosero improvvisamente, causando in tutto il mondo un numero di morti stimato tra i 50 e i 100 milioni dall’autunno di quell’anno fino alla fine della terza ondata pandemica nel 1920. Uno scenario che suona, per certi aspetti, simile come scadenze temporali e ovviamente molto diverso come numero di morti: per fortuna il coronavirus si è mostrato finora molto meno letale dell’influenza spagnola. I numeri sono così diversi da risultare difficili da comparare, ma il comportamento simile dei due virus è stato sottolineato anche dal direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra a fine giugno: la spagnola infatti “si comportò esattamente come il Covid, andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata”, ha detto Guerra il 27 giugno parlando della possibilità che ci fosse una seconda ondata. Seconda ondata che puntualmente è arrivata, prima dai nostri vicini come Spagna e Francia, e adesso anche in Italia. Un’importante lezione che poteva essere imparata e che invece sembra sia stata ignorata. Un’opinione non nostra: "È stato sottovalutato il fatto storico che tutte le pandemie hanno una seconda ondata, più pericolosa della prima". Queste parole, pesanti come macigni, sono state pronunciate da Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute per la pandemia del coronavirus. Resta comunque aperta una domanda: come nel caso della spagnola anche la seconda ondata di coronavirus sarà peggiore della prima? E’ ancora presto per poterlo dire, anche perché i numeri dei contagiati sono inevitabilmente influenzati dalla capacità di test: oggi siamo molto più pronti che a marzo, e se i nuovi positivi salgono rapidamente è anche perché siamo più attrezzati per scovarli. Tuttavia non bisogna sottovalutare la diffusione del virus: ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Il giorno record è stato il 21 marzo, con 6.557 positivi. Nell’ultima settimana, i nuovi casi sono stati 29.621 contro la settimana record del 22/28 marzo in cui se n’erano registrati 38.551. Cifre sempre più simili e che probabilmente sono destinate a essere superata, visto l’andamento ascendente della curva epidemica in questo periodo. Dobbiamo insomma aspettarci che in questa seconda ondata il numero di casi registrato sia ampiamente superiore a quello della prima ondata, anche se come detto gioca un ruolo chiave la migliorata capacità di scovare i contagiati. Per quanto riguarda il numero di decessi, invece, siamo fortunatamente molto lontani dai picchi della prima ondata: ieri se ne sono registrati 26, contro il triste record di 919 del 27 marzo. La scorsa settimana sono stati 180, contro i 5.303 registrati dal 22 al 28 marzo. Qui i numeri sono ancora lontanissimi, sebbene in crescita, a ulteriore testimonianza del fatto che oggi scoviamo molti più casi asintomatici o con pochi sintomi grazie alla migliore capacità di effettuare e analizzare i tamponi. Insomma, si può concludere che nella seconda ondata il numero di nuovi casi registrati probabilmente supererà - e non di poco - quello della prima. Esattamente come avvenuto, si stima, nella seconda ondata dell’influenza spagnola. Le vittime invece, se le strutture ospedaliere reggeranno il peso dei numeri crescenti e continueremo a rispettare il distanziamento sociale e l’uso delle mascherine, non dovrebbero tornare a toccare quei picchi. Nel caso della spagnola invece le vittime furono molte di più nella seconda ondata, anche a causa della scarsa preparazione sanitaria comparata a quella odierna e alle conseguenze della Prima guerra mondiale. Con un’ultima avvertenza: l’influenza spagnola ebbe anche una terza ondata, meno forte della seconda ma più forte della prima. In attesa dei vaccini, la raccomandazione è sempre la stessa: usare le mascherine, stare a distanza, lavare spesso le mani. E’ la nostra migliore arma per non dover tornare come a marzo. Con una nota di speranza: Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha dichiarato al Corriere che entro un “paio d’anni presumibilmente saremo tornati a una normalità”. Teniamo duro.
Scopri tutte le epidemie della storia, in Italia e nel mondo. Redazione OK Salute il 18 Maggio 2020. Dalla pesta di Atene al coronavirus, la scienza ha fatto passi da gigante. Non si può dire altrettanto del comportamento degli uomini.
Peste di Atene (430 a.C.). Una delle prime epidemie della storia fu descritta da Tucidide. Lui ne fu testimone in prima persona, essendo anche colpito dal morbo, e scoppiò durante l’assedio di Atene da parte di Sparta durante la seconda guerra del Peloponneso. Portò alla morte, tra gli altri, della guida politica ateniese, Pericle. Diverse le ipotesi sul tipo di malattia. Dal morbillo al vaiolo fino all’influenza. Per Powel Kazanjian, medico e docente esperto di storia delle malattie infettive, potrebbe trattarsi di ebola. In netto anticipo sui tempi rispetto al primo focolaio riconosciuto del 1976 in Congo.
Peste Antonina (165 d.C.). Dal nome della dinastia imperiale allora regnante, è conosciuta anche come la peste di Galeno, il famoso medico dell’antichità che la descrisse. Portata all’interno dell’impero romano dalle legioni dopo la spedizione nel regno dei Parti, durò per una trentina di anni, mietendo almeno 5 milioni di persone. Tra le quali, forse, l’imperatore Lucio Vero, associato al trono a Marco Aurelio. Vaiolo, morbillo o peste bubbonica le ipotesi più accreditate sul virus responsabile.
Epidemia di San Cipriano (251 d.C.). Dal nome del padre della Chiesa e vescovo di Cartagine che la descrisse, nella sola Roma sarebbe arrivata a uccidere fino a 5mila persone al giorno. Compreso l’imperatore Claudio II detto il Gotico. E, forse, un suo predecessore, Ostiliano. I ricercatori ipotizzano che sia stata generata dal virus del vaiolo o del morbillo, anche se Kyle Harper della University of Oklahoma (Usa), basandosi sulle cronache antiche, parla di un contagio da febbre emorragica diffusa da un roditore.
Peste di Giustiniano (541 d.C.). Dal nome dell’imperatore regnante, che secondo Procopio di Cesarea ne sarebbe anche stato colpito, passò dal delta del Nilo a tutto l’Egitto, la Siria e la Palestina, approdando a Costantinopoli e al resto dell’impero, sconvolto per circa un secolo. Lo storico bizantino riporta come al culmine dei suoi effetti l’epidemia uccidesse 10mila persone al giorno nella sola capitale. Ma i ricercatori dell’Università del Maryland parlano di dati assai sovrastimati. Dall’esame del Dna di un uomo morto nel 570 d.C., i cui resti sono stati ritrovati ad Altenerding (Germania), è emerso come causa del decesso il batterio Yersinia pestis.
Epidemie della storia: peste nera (1347). Responsabile della morte di un abitante su tre dell’Europa (20-25 milioni di vittime circa, quindi), fa da sfondo al Decameron di Giovanni Boccaccio e ha avuto un’onda lunga che si è protratta fino al ’700. Provocata dallo Yersinia pestis, secondo i ricercatori delle università di Ferrara e Oslo (Norvegia) la causa della sua diffusione non furono i topi ma l’uomo. Attraverso un contagio diretto avvenuto probabilmente tramite i pidocchi.
Scambio colombiano (XVI secolo). I conquistadores e i coloni europei portano nelle Americhe influenza, tifo, morbillo e vaiolo, malattie nei confronti delle quali gli indigeni sono privi di difese immunitarie, così le epidemie in alcune regioni sterminano fino al 90% della popolazione autoctona. A spazzare via la civiltà degli Aztechi, secondo uno studio dell’Istituto Max Planck dell’università tedesca di Jena, è la salmonella.
Peste del 1575. A Milano chiamata «Peste di San Carlo» per l’assistenza data ai malati dal vescovo Carlo Borromeo, a Venezia stermina un abitante su quattro a porta alla decisione di far costruire ad Andrea Palladio una chiesa dedicata al Redentore, ove ancora oggi ci si reca annualmente in processione.
Peste del 1630. Descritta nei suoi risvolti milanesi da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi e nella Storia della colonna infame, fu portata dai mercenari lanzichenecchi assoldati da Venezia per la guerra di successione al ducato di Mantova. Onda lunga del morbo del 1347, a Milano fece 60mila morti. Dall’analisi chimica dei registri dei morti e di una grida dell’epoca è emerso come, oltre allo Yersinia pestis, fossero presenti anche carbonchio o antrace, a spiegare un 5% di morti di febbre violenta.
Peste del 1656. Partita da Algeri in Tunisia, passa in Spagna e, quindi, in Sardegna. Dall’isola, probabilmente portata da un veliero, sbarca a Napoli, all’epoca una delle città più popolose d’Europa, e si diffonde in tutto il regno, in pratica l’Italia meridionale, causando, si stima, un milione e 250mila morti (il 43% della popolazione).
Grande peste di Londra (1665). Arrivata in Inghilterra probabilmente sulle navi da commercio provenienti da Amsterdam (Olanda), si stima che a Londra fece tra le 75 e le 100mila vittime in due anni, cioè oltre un quinto dell’intera popolazione, e si spense definitivamente con lo scoppio del grande incendio che devastò la capitale britannica. Tra i testimoni un piccolo (5 anni) Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe che nel 1722 pubblicherà il Diario dell’anno della peste.
Vaiolo (XVII-XIX secolo). Malattia contagiosa di origine virale rilevata in Cina fin dal 1122 a.C., dal ’600 flagella più volte tutti i Paesi del mondo, diventando endemica. In due secoli colpisce all’incirca l’80% dell’intera popolazione europea con una mortalità tra il 20 al 40%: a Napoli nel 1768, per esempio, perdono la vita 60mila persone. Dopo un ultimo caso nel 1977, è dichiarato ufficialmente eradicato nel 1980 dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Sette pandemie di colera (dal 1817 a oggi). Causato dal batterio Vibrio cholerae, a partire dal XIX secolo si diffonde più volte nel mondo a partire dalla sua area originaria, attorno al delta del Gange in India, dando origine a sei pandemie che uccidono milioni di persone. La settima è ancora in corso: iniziata nel 1961 in Asia meridionale, ha raggiunto l’Africa nel 1971 e l’America nel 1991. In Italia coinvolge nel 1835 Genova e Torino e nel 1854 prima Genova e il Piemonte, poi il Sud Italia, con 15mila morti a Napoli e 20mila a Messina.
Epidemie della storia: influenza russa (1889). La prima vera pandemia d’influenza ha probabilmente origine tra l’Asia e la Russia, poi, grazie allo sviluppo delle vie di comunicazione, coinvolge velocemente tutta l’Europa, arrivando in dicembre in America e nel gennaio 1890 in Australia. I morti accertati nel mondo sono poco più di un milione, di cui 11.771 in Italia.
Influenza spagnola (1918). Causata dal virus H1N1, inizia probabilmente negli Stati Uniti (anche se c’è chi ne sostiene l’origine asiatica), con i militari americani che la portano sui campi di battaglia europei nella I Guerra Mondiale. Infetta circa 500 milioni di persone in tutto il mondo, causando tra i 50 e i 100 milioni di morti, di cui 600mila in Italia, il 99% dei quali con meno di 65 anni. È chiamata «spagnola» perché i primi a parlarne sono i giornali spagnoli, mentre la stampa degli altri Paesi, sottoposta alla censura di guerra, la minimizza a lungo.
Epidemie della storia: influenza asiatica (1957). Causata dal virus H2N2 (scomparso dopo 11 anni), viene identificata per la prima volta nella Cina Orientale. È ritenuta responsabile da uno a quattro milioni di decessi nel mondo, colpendo soprattutto le persone affette da malattie croniche.
Influenza di Hong Kong (1968). Causata dal virus H3N2 (lo stesso che da allora circola come virus stagionale), proviene dal Sud Est Asiatico. In Italia provoca circa 20mila decessi, un milione in tutto il mondo (particolarmente colpiti gli Stati Uniti). È la meno letale delle pandemie del XX secolo.
Epidemie della storia: il colera a Napoli (1973). Tra l’agosto e il settembre si accertano 277 casi, con 24 morti a Napoli e nove in Puglia. Responsabile dell’infezione una partita di cozze all’interno delle quali si annidava il batterio Vibrio cholerae, importata dalla Tunisia.
AIDS (dal 1981 a oggi). È lo stadio clinico terminale dell’infezione causata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV). I primi casi vengono scoperti negli Stati Uniti tra giovani omosessuali, anche se già negli anni 70 ne erano stati segnalati di isolati in numerose aree del mondo. A oggi i morti stimati a livello globale sono circa 35 milioni, di cui oltre 45mila in Italia con picchi negli anni 90.
SARS (2003). La Severe Acute Respiratory Syndrome, comparsa nella provincia cinese meridionale del Guangdong negli ultimi mesi del 2002, costringe per la prima volta nella sua storia l’Oms a lanciare un allarme mondiale. Il numero complessivo delle vittime ammonta a circa 800.
Epidemie della storia: influenza suina (2009). Causata da un virus A H1N1, che fino a quel momento provocava la malattia solo nei maiali, in Italia contagia oltre un milione e mezzo di persone, ma il tasso di mortalità risulta inferiore a quello della normale influenza.
MERS (2012). Il coronavirus della Sindrome respiratoria medio-orientale ha probabile origine nei pipistrelli, che in un’era remota l’hanno trasmesso ai dromedari, responsabili del contagio all’uomo. I Paesi maggiormente colpiti, in cui esistono ancora focolai di epidemia, sono Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Corea del Sud.
Ebola (2014). I primi casi si segnalano in Africa occidentale e la scienza attribuisce probabilmente a un contatto con cacciagione infetta l’insorgenza dell’epidemia, la cui trasmissione, poi, diviene interumana. I morti accertati sono 11.325 in dieci Paesi, tra cui anche l’Italia.
Coronavirus, da Apollo alla peste nera: ciò che la storia (e l’epica) delle epidemie non ci hanno insegnato. Pubblicato martedì, 19 maggio 2020 su Corriere.it da Giuseppe Curigliano. «Quando uno storico racconterà la storia di questa epidemia, cosa pensi che scriverà?» mi ha chiesto mia moglie. Ho riflettuto su cosa la storia racconta sulle epidemie del passato. Ogni epidemia ha la sua storia e ha la sua epica. Queste storie diventano memoria collettiva per i significati che ne derivano, o almeno per i ricordi che ne conserviamo nel tempo. Le epidemie del passato «contaminano» le arti e la letteratura e cambiano il corso della storia. Chiamiamole «Storie di Epidemie». Il primo a utilizzare la parola epidemia, dal greco epi (su) e demo (popolo), ovvero «sul popolo», fu Omero. Nell’Iliade, Agamennone, re degli Achei in guerra contro Troia, rapisce la figlia del sacerdote Chrise. Quest’ultimo si reca dai nemici con le insegne del dio Apollo, ed implora la restituzione della figlia Criseide. Agamennone, risoluto, rifiuta. In risposta alle preghiere di Chrise, il dio Apollo, infuriato per il sacrilegio, punisce gli Achei con una epidemia. Molti Achei moriranno nelle navi ormeggiate sulle rive vicino a Troia. Quelle navi e quei morti mi ricordano la Diamond Princess, ormeggiata nel porto di Yokohama, e posta in quarantena con i suoi 3.700 passeggeri a bordo. Era il 4 Febbraio 2020 ed il Sars-CoV-2 viaggiava dalla Cina sulle navi da crociera. Tucidide ne «La storia della guerra del Peloponneso» ha dedicato un’ampia sezione all’epidemia che ha devastato Atene nel 430 a.C., indebolendo fatalmente la prima democrazia e togliendo la vita al suo grande leader Pericle. Il «Decamerone» di Giovanni Boccaccio venne scritto pochi anni dopo che la Peste Nera in Europa, tra il 1347 e il 1353, uccise almeno un terzo della sua popolazione (25-30 milioni di morti su 75-80 milioni di persone). Quella epidemia veniva da lontano. L’esercito mongolo, assediando un avamposto genovese sul Mar Nero, fu contrastato da una forte difesa e da forti mura. Quell’esercito aveva portato la peste bubbonica dalle steppe asiatiche e stava morendo fuori dalle mura. I comandanti mongoli ebbero l’idea di catapultare i cadaveri delle vittime della peste nella fortezza. In pochissimo tempo, i difensori iniziarono a morire per la «morte nera». Uomini d’affari genovesi impacchettarono le loro merci, salirono sulle loro navi e fuggirono, portando con sé il bacillo della peste a Costantinopoli e in Italia, e infine in tutto il bacino del Mediterraneo e in tutta Europa. Allora come oggi le epidemie amano la globalizzazione, amano i viaggi a lunga distanza. Il «Journal of the Plague Year» di Daniel Defoe prende vita diversi decenni dopo l’ultima peste bubbonica che afflisse l’Inghilterra nel 1665-66. Esso è una straordinaria rappresentazione di come fosse vivere un simile evento. I londinesi irresponsabili evitarono l’isolamento sociale, acquistarono false cure contro la peste dai truffatori che si arricchirono nel panico generale. Allora, come ora, i medici in prima linea «hanno fatto il loro lavoro con brutale coraggio», per citare Defoe. Una Storia di Epidemia racconta di John Snow, l’ostetrico britannico che studiò un focolaio di colera nella Londra del 1854. Aveva notato che il focolaio nel quartiere di Soho si era concentrato nelle abitazioni intorno a una pompa pubblica (Broad Street Pump) per l’erogazione dell’acqua. La metafora della «Broad Street Pump» è molto amata dai medici: quando conosci la causa di una malattia (sigarette per il cancro ai polmoni), rimuovi i rubinetti delle pompe dell’acqua (come Snow convinse le autorità riluttanti a farlo) e puoi porre fine all’epidemia. È una grande metafora che ha funzionato per il colera, ma non per Covid-19. Cosa dire de «La peste» di Albert Camus, il grande romanzo che racconta dell’epidemia che uccise migliaia di abitanti e paralizzò la vita civica della città algerina di Orano. Uno dei principali eroi del libro, il dottor Rieux, cerca di convincere le autorità che questa malattia deve essere presa sul serio, che non è un affare come al solito, ma senza risultati. Uno dei temi ricorrenti delle «Storie di Epidemie» è che non impariamo mai, non affrontiamo mai efficacemente la malattia epidemica fino a quando non ci travolge. L’epidemia di Aids, naturalmente, ha sviluppato una sua vasta letteratura, con opere teatrali come «Angels in America» di Tony Kushner e il film «Philadelphia» che valse il premio Oscar a Tom Hanks. L’Aids è stata un’epidemia al rallentatore e la vediamo in un modo diverso rispetto a un focolaio acuto come il Covid-19. Nel 2012 David Quammen raccontava in «Spillover: Animal Infections and the Next Human Pandemic» di come una zoonosi originata in un wet market cinese potesse dare origine ad una pandemia. La prima pandemia che ho vissuto risale al 2003: era la Sars (Severe acute respiratory syndrome). La causa era un nuovo coronavirus (Sars-CoV). Il primo focolaio si era sviluppato tra il novembre 2002 ed il gennaio 2003 a Guangzhou, in Cina. Nel settembre 2012 l’Oms riportava i primi casi di polmonite causati dalla nuova sindrome respiratoria associata a un coronavirus (Mers-CoV). Il Sars-CoV2 (responsabile dell’attuale pandemia Covid-19) presenta molte analogie con i suoi «cugini», tutti di origine animale. Siamo stati ingannati da Sars, Mers ed Ebola nel pensare che queste malattie infettive appartenessero essenzialmente ad altri luoghi, come se, in qualche modo, fossimo protetti dalla distanza e dal nostro modo di vivere. Ci sono molti virus animali che attendono pazientemente il loro turno per «contaminare» la specie umana. Ciò che mi colpisce come oncologo, medico abituato a trattare malattie che si sviluppano negli anni o nei decenni, è l’importanza della tempestività con cui si deve reagire ad una epidemia. Se troppo presto le conseguenze economiche sono devastanti. Se troppo tardi ti ritrovi con gli scenari della Lombardia o di New York City nel 2020. Dobbiamo imparare ad agire con tempestività, sulla base di informazioni incomplete e modelli imperfetti. Navigando su PubMed (il motore di ricerca della scienza) e digitando la parola Covid-19, scopro che negli ultimi tre mesi la ricerca biomedica ha prodotto 13.400 lavori scientifici. Penso che sia straordinario come medici e ricercatori di tutto il mondo abbiamo reagito all’emergenza dando prova di grande capacità di collaborazione, senza barriere geografiche e senza limiti nella condivisione dei dati. Abbiamo imparato che la scienza del ventunesimo secolo ha svolto un ruolo marginale nel controllo dell’attuale pandemia. È innegabile che l’abbiamo contenuta con le norme del XIX secolo: lavaggio delle mani, confinamento sociale e quarantena. Su questo dovremmo riflettere. Ora è il momento di tornare a prendersi cura dei miei malati di cancro, e dei malati di malattie cardiovascolari, neurologiche, degenerative e dell’invecchiamento. Tornando alla domanda di mia moglie... quando scriveranno la storia di questa epidemia, le storie saranno sempre le stesse vecchie storie e ci insegnano che la storia non insegna nulla.
Quando il generale Tifo sconfisse Napoleone. La Grande Armée di Bonaparte invade la Russia a giugno del 1812. Mezzo milione di effettivi per una guerra lampo che si trasforma in un calvario di cinque mesi. Ma sono i pidocchi a distruggere l'esercito francese. Poche migliaia tornano a casa. Gianfrancesco Turano il 26 maggio 2020 su L'Espresso. Nei libri di storia suonerebbe peggio ma il vero vincitore sulla Grande Armée napoleonica in Russia non è il Generale Inverno ma il Generale Tifo. Come nel caso delle zanzare, un insetto ha ragione della potenza tecnica dell'uomo. Il pidocchio (pediculus humanus) succhia il sangue di un malato e avvia un processo di contagio devastante che si rivela molto più letale di ulani e cosacchi durante la campagna militare iniziata nel giugno 1812 e durata poco più di cinque mesi. Il tifo petecchiale o esantematico, da non confondere con la febbre tifoide o Salmonella enterica, prende il nome dalla parola greca typhos (stupore) perché ha fra i suoi sintomi caratteristici l'ebetudine e lo stato di confusione mentale che in Italia sono ritenuti tipici dell'appassionato di calcio. Il rash cutaneo accompagnato da febbre altissima è provocato dall'aggressione dei pidocchi che diffondono il batterio gram negativo della Rickettsia Prowazekii. In combinazione con le condizioni climatiche della spedizione militare in Russia, dall'estate torrida alla neve e al gelo, il tifo ha raggiunto indici di letalità elevatissimi, superiori al 40% dei casi. Alla fine le truppe della coalizione francese conteranno centinaia di migliaia di morti.
L'illusione della guerra lampo. La campagna di Russia è concepita da Bonaparte per mettere in ginocchio lo zar Alessandro I. Nel 1807 la Francia aveva imposto allo zar, e alla Prussia, la pace di Tilsit dopo avere sconfitto i russi nella battaglia di Friedland. Fra le altre clausole, l'accordo vietava ai russi ogni rapporto commerciale con l'Inghilterra provocando nel Regno Unito la recessione aggravata dal fenomeno luddista (1811) della distruzione delle macchine tessili da parte degli operai. Ma il monarca della dinastia Romanov non si mostra ligio agli accordi di embargo e Napoleone decide che il pretesto commerciale è buono quanto un altro. Il 22 giugno 1812 il Corso passa in rivista le sue truppe accampate sul Niemen, il fiume al confine tra Prussia e Russia dove era stata firmata la pace cinque anni prima. L'esercito comandato in prima persona da Bonaparte è poderoso: mezzo milione di effettivi di cui 265 mila francesi e 235 mila soldati messi a disposizione dagli alleati, soprattutto austriaci e i prussiani. Tutto sembra organizzato alla perfezione. Alle spalle del corpo di spedizione ci sono sei ospedali da campo allestiti in territorio prussiano. In omaggio al principio napoleonico per cui le guerre si vincono con la pancia, è stata organizzata un'imponente struttura di rifornimenti. Nessuno dubita che l'impresa sarà portata a termine in brevissimo tempo. Il 24 giugno, l'Armée attraversa il ponte sul Niemen e punta su Vilna. La maggiore città della Lituania viene raggiunta il 28 giugno, dopo quattro giorni di marcia indisturbata. Il ministro della guerra zarista, Mikhail Barclay de Tolly, e il comandante delle forze russe Mikhail Kutuzov (qui accanto) hanno deciso di non affrontare in campo aperto un esercito che appare invincibile. Indietreggiano e applicano la tattica della terra bruciata. La stessa dimensione dell'invasore diventa presto uno svantaggio. Durante la marcia verso est, i reparti di vettovagliamento perdono contatto e i soldati sono costretti ad approvvigionarsi saccheggiando le fattorie risparmiate dalle truppe zariste. È una pessima idea perché i contadini lituani e bielorussi vivono in condizioni igieniche terrificanti. Nella torrida estate continentale i pidocchi sono dovunque e, insieme a loro, si diffondono i batteri del tifo e del morbo delle trincee (Bartonella quintana). Non è il primo incontro fra le truppe napoleoniche e le epidemie. Durante la campagna d'Egitto contro il sultano turco, i grognards (brontoloni) come vengono chiamati i veterani dell'Armée, devono affrontare la peste bubbonica. Per sopprimere la rivolta degli schiavi di Haiti, guidati da Toussaint Louverture, i francesi perdono migliaia di uomini per la febbre gialla. Nell'insieme, prima della campagna di Russia, alcune centinaia di migliaia di soldati sono morti di malattie. Napoleone lo ha imparato talmente bene che ama dire: «Meglio affrontare la battaglia più cruente che mettere le truppe in un luogo malsano». Ma il tifo non gli lascia scelta e si diffonde con una velocità spaventosa. Nel mese di luglio sono già morti o indisponibili per il morbo ottantamila soldati. Nel frattempo, lo zar Alessandro I vede che l'invasore è sempre più vicino alle porte di Mosca e pretende che i suoi strateghi accettino lo scontro. La città del Cremlino non è più capitale da un secolo ma è pur sempre la più grande dell'impero. Kutuzov, di mala voglia, deve piegarsi agli ordini del sovrano e il 17 agosto affronta il nemico nella prima battaglia in campo aperto davanti a Smolensk (400 km da Mosca). Non è una vittoria chiara per i francesi che perdono molti uomini. I russi, prima di indietreggiare, incendiano la città. Il 7 settembre c'è un nuovo scontro nei pressi del villaggio di Borodino (125 km da Mosca). La battaglia è la più dura della campagna, con cinquantamila morti russi e trentamila francesi. Le truppe di Kutuzov non possono fare altro che ripiegare ancora.
L'incendio di Mosca. Una settimana dopo, il 14 settembre 1812, Napoleone entra a Mosca. Sembra il sigillo dell'ennesimo trionfo militare ma in meno di tre mesi l'esercito bonapartista si è ridotto a centomila effettivi, un quinto di quelli iniziali. Il tifo è di gran lunga il maggiore responsabile di queste perdite, molto prima che arrivi l'inverno. Il processo del contagio, piuttosto ripugnante, è il seguente. Il pidocchio morde un uomo che è già infettato dal batterio. Una volta passata nell'insetto la rickettsia si riproduce così freneticamente da colonizzare le feci del pidocchio fino a farne esplodere le interiora. Altri uomini si infettano grattandosi e facendo passare il batterio nella pelle o nelle mucose. La campagna di Russia è una delle prime a lasciare abbondante materiale diaristico da parte dei reduci anche al di sotto degli ufficiali in comando. Scrive il sergente Bourgogne: “Avevo dormito per un'ora quando ho sentito un prurito insopportabile in tutto il corpo. Con orrore ho scoperto di essere coperto di insetti. Sono balzato in piedi e in meno di due minuti ero nudo come un neonato, dopo avere buttato nel fuoco camicia e pantaloni. I pidocchi scoppiettavano nella fiamma”. Per tre giorni, dal 15 al 18 settembre, Mosca è avvolta dagli incendi appiccati dai russi in ritirata. L'artigliere di Ajaccio diventato imperatore nel 1804 si rende conto di essere arrivato alle soglie di un inverno che si annuncia precoce e rigido. I problemi di vettovagliamento e di sanità dell'Armée sono drammatici. Bonaparte offre ad Alessandro un negoziato. Lo zar rifiuta e Kutuzov riorganizza le truppe in modo da aggirare l'ex capitale e chiudere i francesi in una sacca. Napoleone tenta la carta della disperazione. Tornato per calcolo tattico ai suoi esordi rivoluzionari, cerca di sobillare i contadini e di convincerli a ribellarsi al tiranno Romanov come aveva fatto Emeljan Pugačëv nel 1773. L'operazione fallisce. Il 19 ottobre 1812 Napoleone ordina la ritirata verso Smolensk.
La catastrofe della Beresina. Fa già molto freddo. La fame mette a durissima prova le truppe in marcia che subiscono gli attacchi dalle retrovie della cavalleria leggera cosacca mentre i servi della gleba che Napoleone voleva emancipare infieriscono sullo straniero che fugge. I servizi logistici sono totalmente disgregati e i reparti da combattimento faticano a mantenere l'ordine. Il grosso dell'Armata ormai è composto da sbandati, compresi molti civili e anche donne e bambini, che tentano di sopravvivere alla fame, al ghiaccio, ai pidocchi, alla dissenteria e allo scorbuto. Ai primi di novembre i francesi rientrano in Smolensk o in quel poco che rimane di Smolensk dopo l'incendio di agosto. Ma non c'è riparo né tempo da perdere e il 9 novembre la marcia riprende. Kutuzov non è lontano e si accinge a completare la manovra di aggiramento che significherebbe distruzione. Napoleone punta con decisione verso ovest e il fiume Beresina. È la fase più terribile della ritirata, segnata da episodi di cannibalismo. Dal 26 novembre per circa due giorni si concentrano sulle rive del fiume ventottomila superstiti in grado di combattere e circa altrettanti sbandati. Quando le truppe zariste capiscono che il nemico sta per mettersi in salvo, cercano di chiudere il passaggio. Ma vengono ingannate dal diversivo dei francesi che fanno credere di volere passare in un punto presidiato dai russi mentre costruiscono il vero passaggio con due ponti quindici chilometri più a nord. Mentre il battaglione del maresciallo Nicolas Oudinot blocca 40 mila nemici sulla riva destra, Napoleone passa il fiume il 28 novembre. Per coprire la ritirata, ordina di incendiare i ponti mentre migliaia di sbandati non sono ancora riusciti a passare. È una scena apocalittica. I disperati vengono respinti dai soldati francesi. Molti si buttano nell'incendio, altri affogano nel fiume gelido. La catastrofe della Beresina, che pure poteva avere come esito l'annientamento totale, viene accolta a Parigi come una tragedia nazionale, la prima vera sconfitta della Grande Armée. Gli oppositori di Napoleone organizzano un colpo di Stato che obbliga l'imperatore ad abbandonare la Russia in fretta il 5 dicembre per tornare in Francia. Il comando passa al re di Napoli, e cognato di Napoleone, Gioacchino Murat che aveva deciso la battaglia di Borodino in settembre. L'8 dicembre 1812 l'Armata rivede Vilna dopo oltre cinque mesi. Del mezzo milione di effettivi arrivati in Lituania a giugno sono rimasti settemila soldati in grado di combattere e ventimila sbandati, in larga parte malati di tifo. Almeno altri tremila di loro vengono abbandonati all'agonia in Lituania. Gli scheletri saranno trovati nell'autunno del 2001 durante l'abbattimento di un'ex caserma sovietica. In un primo tempo, si penserà a un ossario più recente riempito dalle truppe naziste con corpi di ebrei. Ma i franchi trovati nei portamonete indirizzeranno sulla strada giusta l'archeologo Rimantas Jankauskas e l'infettivologo dell'università di Aix-Marsiglia Didier Raoult (foto sopra), specializzato in Rickettsia e tornato d'attualità con il Covid-19 per la sua contestata terapia a base di antibiotici e clorochina. La spedizione della Grande Armée in Russia si conclude lì dove era incominciata. Gli storici calcolano fra diecimila e ventimila i superstiti che attraversano il fiume Niemen il 13 dicembre 1812. Poche imprese militari della storia hanno avuto un bilancio così pesante. Per fare un paragone, il corpo di spedizione italiano (Armir) che invade l'Urss durante la Seconda guerra mondiale perde centomila uomini su 230 mila durante la durissima ritirata. Napoleone riesce a salvarsi dal colpo di Stato in Francia ma la campagna di Russia segna l'inizio del suo declino. Meno di un anno e mezzo dopo, il 6 aprile 1814 l'imperatore destituito va in esilio all'Elba.
Il tifo oggi. L'Oms-Who segnala nel suo sito che il tifo petecchiale ha avuto manifestazioni epidemiche recenti in Rwanda, Burundi ed Etiopia. Le premesse sono scarsa igiene e sovraffollamento ossia le caratteristiche dei campi di rifugiati e delle prigioni. Non esiste profilassi. Proprio per questo il tifo è stata l'epidemia dei lager nazisti e dei gulag staliniani. Nel campo di Bergen Belsen muore Anna Frank (1945). Sette anni prima (1938) il tifo petecchiale aveva ucciso il poeta russo Osip Mandelṡtam in un campo di smistamento nei pressi di Vladivostok.
Lo sbarco degli americani in Sicilia del 1943 va incontro a una potenziale epidemia di tifo ma l'esercito Usa ha grandi scorte di Ddt e riesce a distruggere i parassiti.
Febbre gialla sul Canale di Panama: quando l'epidemia batte l'economia. Dopo avere costruito il passaggio di Suez, il francese De Lesseps ci riprova in America e coinvolge 85 mila piccoli risparmiatori. Una zanzara li porterà al disastro uccidendo 34 mila lavoratori finché il progetto sarà ripreso dagli Usa e inaugurato nell'estate 1914, all'inizio della Grande Guerra. Gianfranco Turano il 19 maggio 2020 su L'Espresso. Epidemia contro economia è una partita dal risultato scontato. Ma poche volte nella storia l'impatto è stato così distruttivo come quello che ha avuto la febbre gialla nella costruzione del canale di Panama. Alla fine dell'Ottocento il taglio dell'istmo di terra che divide Atlantico e Pacifico è un'impresa concepita per cambiare volto agli scambi commerciali. In pieno positivismo, il progresso della tecnologia sembrava già in grado di vincere ogni ostacolo della Natura. Le rocce che tenevano separati due oceani sarebbero state spazzate via dalla potenza delle macchine e del denaro necessario a costruirle. Questo calcolo non peccava di arroganza salvo un particolare minimo: la presenza nella foresta centroamericana di un animale quasi invisibile ma appartenente alla specie più letale per l'uomo. Questo insetto avrebbe trasformato la cavalcata trionfale in un calvario. Come per la malaria, il veicolo del contagio da febbre gialla è la zanzara, nelle varianti Aedes Aegypti e Haemagogus, che diffonde un virus della famiglia Flaviviridae a singolo filamento di Rna, con un genoma simile schematicamente al Cov-Sars-2. L'infezione, dagli effetti simili ad altre portate dalla zanzara come zika, dengue e chikungunya, si presenta in forma grave nel 15% dei casi. La metà dei malati gravi muore in 7-10 giorni.
Il sogno della scorciatoia. L'avventura della costruzione del canale di Panama inizia a concretizzarsi nel 1876 quando la Società geografica di Parigi e la Società civile internazionale del canale interoceanico di Darién si affidano nelle mani ritenute sicure di Ferdinand de Lesseps, l'imprenditore e diplomatico che appena sette anni prima (1869) era riuscito a realizzare il canale di Suez su progetto dell'ingegnere italiano Luigi Negrelli. Ma l'idea di aprire una varco fra Atlantico e Pacifico nella lingua di terra più stretta delle Americhe, l'istmo di Panama o Panamá nella pronuncia locale, è di poco successiva alle prime esplorazioni di Cristoforo Colombo e dei conquistadores spagnoli. All'inizio del Cinquecento viene costruita la strada detta Camino Real fra le cittadine di Panamá (Pacifico) e di Nombre de Dios (Atlantico). Nel 1529 viene proposta per la prima volta l'escavazione di un canale che eviti alle navi di seguire la lunghissima rotta di Magellano con la circumnavigazione di Capo Horn in Patagonia. Nel secolo successivo (1690) la Company of Scotland tenta di costituire una colonia nella provincia del Darién, al confine con l'attuale Colombia, con lo scopo di sfruttare l'istmo. Il tentativo si conclude in un disastro finanziario e politico che porta, nel 1707, ai due Acts of Union fra Inghilterra e Scozia e alla nascita del Regno Unito. Da lì in avanti la zona diventa una terra di nessuno in mano ai pirati fino all'idea francese di replicare l'impresa ingegneristica egiziana in terra d'America.
Il progetto francese. Il 20 ottobre 1880 viene costituita la Compagnie universelle du canal interocéanique de Panama, presieduta da De Lesseps con un budget di 600 milioni di franchi da raccogliere attraverso successivi prestiti obbligazionari destinati a investitori istituzionali e piccoli risparmiatori. La concessione francese è osteggiata dal governo statunitense che ritiene di avere voce in capitolo nell'istmo in applicazione della dottrina Monroe, il principio di supremazia continentale Usa definito circa mezzo secolo prima. Politicamente Panama è una provincia colombiana dopo avere fatto parte della Grande Colombia di Simón Bolívar con gli attuali Venezuela ed Ecuador fino allo scioglimento nel 1880. Washington non riesce a sfruttare la situazione perché negli Stati Uniti la situazione è resa instabile da un'elezione presidenziale fra le più incerte e contestate della storia. In più il vincitore, il repubblicano James Garfield, sarà assassinato dopo pochi mesi in carica alla Casa Bianca (settembre 1881). I lavori del Canale iniziano il 10 gennaio 1881. A giugno del 1881 c'è il primo morto di febbre gialla. La diffusione dell'epidemia è molto rapida e già nel marzo 1882 a Colón, la cittadina di partenza dei cantieri sulla sponda atlantica, le suore di San Vincenzo attrezzano il primo ospedale dedicato a quello che in inglese è chiamato Yellow Jack. Nella prima fase dell'epidemia i francesi commettono errori catastrofici che trasformano la febbre gialla in un morbo nosocomiale come il Covid-19. Basandosi sulla teoria miasmatica, la stessa che tentava di spiegare malaria, colera e peste bubbonica con gli effluvi malsani, i primi reparti vengono riccamente addobbati di piante che, con il ristagno d'acqua da irrigazione, diventano vivai per le larve degli insetti. Le finestre degli stanzoni, tenute aperte con l'intenzione di garantire il ricambio dell'aria, favoriscono soltanto l'andirivieni delle zanzare che pungono i malati nel ricovero per poi uscire a diffondere il virus all'esterno. Eppure proprio nel 1881 il medico cubano Carlos Finlay ha ipotizzato che la febbre gialla sia diffusa dalle zanzare. La sua scoperta rimane ai margini della profilassi di un morbo di difficile interpretazione e impossibile trattamento.
Champagne terapeutico. La malattia si presenta con dolori articolari e muscolari, mal di testa, febbre, vomito ed emorragie interne. Il tratto più caratteristico è il colorito giallognolo che fa pensare a un paziente colpito da itterizia. Il quadro sintomatologico è di difficile diagnosi perché si confonde con altre malattie come la leptospirosi, l'epatite virale e la malaria che, con l'anofele, è presente a Panama ma risulta meno letale. I rimedi sono praticamente inesistenti. Ai malati è prescritto riposo a letto, anche perché non riuscirebbero a stare in piedi. Ai privilegiati viene somministrata la fenacetina, un antipiretico brevettato dalla Bayer nel 1887, e qualche sorso di champagne per contrastare la disidratazione. Chic ma poco efficace. Il bilancio è pesantissimo. Nel periodo francese dei lavori (1881-1889) vengono colpiti dalla febbre gialla l'85% dei lavoratori impegnati nello scavo del Canale. I morti sono 22 mila e a questi si aggiungono 12 mila decessi fra la manodopera impegnata nella costruzione della ferrovia attraverso la giungla pluviale. La Compagnie du Canal, di fronte al panico delle maestranze che fuggono dai cantieri al primo caso di contagio, cerca di rimediare migliorando le condizioni di lavoro durissime in un clima che alterna piogge torrenziali a caldo infernale. Il personale tecnico qualificato è accolto in casette di legno. Gli operai finiscono ammassati in tende ai bordi della giungla fra nugoli di zanzare. La manodopera è composta soprattutto da afroamericani ingaggiati, se non si vuole dire deportati, dalle vicine isole del Caribe, le Indie occidentali. La maggior parte viene dalla Giamaica, colonia della corona britannica dove la schiavitù è stata abolita solo nel 1834 e sostituita dall'apprentice system, una schiavitù vagamente attenuata. Ma la febbre gialla non condivide il classismo della Compagnie du Canal e infierisce a tutti i livelli. Quando nel 1883 Jules Dingler (primo seduto da sinistra nella foto) accetta il posto di direttore generale della Compagnia e arriva a Panama con Charles de Lesseps, figlio del presidente, non immagina la tragedia personale che lo attende. Nel 1884 perde prima la figlia, un mese dopo il fratello, poi il genero e, nel 1885, al picco dell'epidemia, la moglie. Dingler rimane al suo posto e tenta di portare avanti l'opera, appesantita dai ritardi e dai carichi finanziari crescenti. Nel 1888 si inizia a introdurre il sistema di chiuse progettato da Gustave Eiffel che, l'anno prima, ha avviato in riva alla Senna la costruzione di una strana torre metallica che i parigini guardano con disgusto. Ma l'avventura francese a Panama sta arrivando alla conclusione, insieme ai soldi dell'investimento che da 600 milioni di previsione sono più che raddoppiati (1,33 miliardi). Il 4 febbraio 1889 il parlamento francese nega un ennesimo finanziamento. Nell'anno dell'Expo universale di Parigi, la Compagnie du Canal viene sciolta, messa in liquidazione e 85 mila risparmiatori mettono una croce sul loro investimento. Il vecchio De Lesseps finisce sotto processo per corruzione e malversazione di fondi. Nel 1893 è condannato a cinque anni di prigione che non sconta perché ha già 89 anni. Vincitore a Suez e perdente a Panama, muore poco dopo nel 1894.
Le brigate di Roosevelt. Per quindici anni rimane tutto fermo. Gli Stati Uniti rafforzano il loro controllo sull'America centrale sconfiggendo la Spagna nella guerra del 1898, quando ai mille soldati Usa morti in combattimento se ne aggiungono cinquemila uccisi da Yellow Jack. Per un po' si parla di costruire un nuovo canale in Nicaragua ma la secessione degli indipendentisti di Panama dalla Colombia, fomentata dagli Stati Uniti, ripropone la soluzione percorsa dai francesi. Il progetto e la concessione passano agli Usa guidati dal presidente Theodore Roosevelt.
Il 4 maggio 1904 i cantieri riaprono. Nel frattempo, la teoria miasmatica è finita nella spazzatura della storia e il maggiore Walter Reed ha mostrato, servendosi di cavie umane, che sono le zanzare a diffondere il virus. Gli Stati Uniti hanno già avuto in casa la febbre gialla. Fra il 1839 e il 1860 la malattia è stata endemica a New Orleans con 22 mila casi e centinaia di morti. A Panama William Gorgas, chief sanitary officer, dichiara guerra all'Aedes Aegypti, all'Haemagogus e all'anofele. È una guerra di nome e di fatto. Le “Mosquito brigades” sono composte da quattromila sanificatori che rovesciano su larve e insetti 120 tonnellate di piretro, 300 tonnellate di zolfo, prosciugano le superfici allagate e, quando non è possibile, le cospargono di olio per impedire alle uova di schiudersi. Solo per la messa in sicurezza dell'ambiente si spendono 20 milioni di dollari (576 milioni ai valori di oggi). I risultati sono eccellenti. A novembre 1906 si conta l'ultimo morto di febbre gialla. Il canale viene aperto al traffico delle navi il 5 agosto 1914, otto giorni dopo la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria al regno di Serbia che dà il via al primo conflitto mondiale.
La febbre gialla oggi. Diffusa tremila anni fa nelle foreste pluviali africane e passata in America con i conquistadores e gli schiavisti, la febbre gialla sarà bloccata dal vaccino nel biennio 1937-1939, dopo anni di ricerche dell'Institut Pasteur e di scienziati Usa finanziati dalla Rockefeller Foundation, la stessa che si impegna a debellare la malaria in Sardegna negli anni Cinquanta. Il vaccino, prodotto con una versione indebolita del virus, è opera del medico sudafricano Max Theiler che nel 1951 riceve il premio Nobel. Oggi la febbre gialla è ancora letale benché il vaccino nel 2016 si sia evoluto da una durata di dieci anni a una copertura a vita senza richiami. I dati Who-Oms del 2013 riferiscono di 200 mila casi nelle 47 nazioni (34 in Africa e 13 in Latinoamerica) dove ancora il contagio è endemico. I decessi sono valutati fra 29 mila e 60 mila all'anno. Nel 2016, quando viene portato a termine il raddoppio del canale di Panama, l'Oms denuncia un'epidemia in Angola e nella Repubblica democratica del Congo con migliaia di casi. L'anno dopo è lanciato il programma Eye (eliminate yellow fever epidemics) strategy con la partecipazione dell'Unicef e di altri cinquanta partner privati. Molto attiva nella lotta con 1 miliardo di dollari di finanziamenti è la Bill and Melinda Gates Foundation. I ricchissimi di oggi seguono le tracce dei ricchissimi di ieri, i Rockefeller, affinché si possano vaccinare i poverissimi di oggi, gli stessi di ieri.
Racconti dell’era atomica. Alessandro Tesei, Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 20 aprile 2020. L’era atomica iniziò ufficialmente il 6 agosto 1945 con la prima esplosione di un ordigno nucleare a scopi militari: la bomba atomica di Hiroshima. Tutto, ovviamente, era iniziato molto prima, con la scoperta della fissione nucleare nel 1938 e lo sviluppo della prima bomba atomica degli Stati Uniti nei laboratori di Los Alamos che fu fatta detonare in gran segreto nel “test Trinity” il 16 luglio 1945 nel poligono di Alamogordo, in Nuovo Messico. Da allora, il nucleare, più che risorsa, diventò un incubo per l’umanità, tra lo sviluppo degli armamenti atomici e la costruzione di centrali nucleari. L’utilizzo delle due bombe atomiche da parte degli Stati Uniti sul Giappone, il 6 agosto 1945 sulla città di Hiroshima e il 9 agosto sulla città di Nagasaki, oltre a causare circa 250mila morti, pose fine alla Seconda guerra mondiale e fece iniziare due eventi epocali: l’era atomica e la Guerra fredda. La Guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti iniziò subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale, intorno al 1947, e si concluse con la caduta del muro di Berlino, quando Mikhail Gorbačëv e George H. W. Bush, in occasione del vertice di Malta, il 3 dicembre 1989, dichiararono la fine di un’epoca di tensioni. Furono, quelli della Guerra fredda, anni che segnarono indelebilmente il mondo intero. In questo periodo le due superpotenze, per poter primeggiare l’una sull’altra, svilupparono le armi atomiche. La Guerra fredda si concretizzò di fatto nelle preoccupazioni riguardanti le armi nucleari; entrambe le parti auspicavano che la loro semplice esistenza fosse un deterrente sufficiente a impedire una guerra vera e propria. Ma lo sviluppo delle armi atomiche portò con sé un’eredità tremenda e spaventosa in entrambi i Paesi: i poligoni di tiro di Semipalatinsk, in Kazakistan, e il Nevada Test Site negli Stati Uniti, dove vennero sperimentate rispettivamente 456 e 1021 testate atomiche. Oltre alla contaminazione causata dagli esperimenti nucleari, si aggiunse negli anni un altro tipo di contaminazione: quella causata dagli incidenti alle centrali nucleari civili. Per poter costruire le testate atomiche c’era bisogno di materiale fissile come plutonio e, per produrre questo materiale, l’unica modo possibile erano le centrali nucleari. L’8 dicembre 1953 il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower fece un discorso chiamato “Atomi per la pace” all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Fu un discorso che servì a fare accettare alla popolazione del mondo la costruzione di centrali nucleari, facendole passare per “nucleare civile”, per produrre energia per l’umanità. Incurante dei rischi e dei problemi che queste avrebbero portato di lì a poco con gli incidenti nucleari e le loro conseguenze, fra tutti quello di Chernobyl. L’era atomica era iniziata, con tutte le sue terribili conseguenze.
Chernobyl. Una ferita ancora aperta. Testo e foto Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 26 aprile 2020. Il 26 aprile del 1986, nella centrale atomica di Chernobyl situata in Ucraina, furono inviati da tutta l’Unione Sovietica i cosiddetti “liquidatori”, per contenere il disastro e liquidare le conseguenze dell’incidente. Dal 1986 al 1988 furono mandate 600mila persone e il Kazakistan fornì 60mila uomini. Di questi oggi ne rimangono vivi solo 3mila. A Semey c’è un piccolo museo dedicato a Chernobyl e a quegli eroi dimenticati. Il libro che raccoglie le fotografie dei liquidatori partiti dal Kazakistan e morti a causa di Chernobyl. È stato fatto proprio dall’associazione dei liquidatori di Chernobyl del Kazakistan, per non dimenticare quella tragedia. Inoltre in Kazakistan i liquidatori di Chernobyl sono due volte vittime delle radiazioni: non solo di Chernobyl ma anche del poligono di tiro di Semipalatinsk. Il primo liquidatore lo incontriamo a Semey, in una piccola stanza del museo che raccoglie ricordi e le reliquie di chi ha vissuto direttamente quella tragedia e che adesso non c’è più. Ci riceve Kaisanov Soviet, vice direttore dell’associazione di volontariato in favore degli invalidi di Chernobyl della città di Semey, e anche lui liquidatore. “A quel tempo nessuno ne sapeva nulla perché dopo quanto accaduto l’argomento era stato immediatamente secretato. Io ne sono venuto a conoscenza soltanto dopo il 9 maggio. All’epoca prestavo servizio nell’esercito e tutti i militari furono inviati laggiù. O meglio, non soltanto i militari, ma anche unità civili specializzate. Io ho partecipato all’operazione nel 1988, anno in cui sono stato inviato a Chernobyl per tre mesi. Sono rimasto a Chernobyl per 83 giorni consecutivi, vivevamo a 13 – 15 chilometri di distanza dalla centrale nucleare. Lavoravamo giorno e notte senza sosta, a nessuno era permesso andarsene, e tutti gli accessi erano regolati da un rigoroso sistema di lasciapassare. C’erano divieti ovunque, ogni luogo era interdetto. In questo modo ho trascorso a Chernobyl 83 giorni della mia vita. Dopo Chernobyl, nel 1990, ho iniziato ad avvertire i primi sintomi della malattia. Inizialmente mal di testa, poi ho avuto un attacco di cuore. Però all’epoca ero giovane, non gli ho dato il giusto peso e ho continuato a lavorare senza neppure consultare un medico. Poi, verso la fine del 1990, tutti coloro che presero parte alle formazioni inviate a Chernobyl furono convocati nei locali dell’ospedale distrettuale, sottoposti a una visita e messi al corrente della situazione. Ma io volevo considerarmi sano con tutte le mie forze, tanto da rifiutare l’invalidità che mi era stata riconosciuta. Finché, nel 1997, ho dovuto accettare lo status di invalido.” Il secondo liquidatore lo incontriamo proprio a Kurchatov, la città militare che serviva il poligono dei test delle armi atomiche di Semipalatinsk. Juri Berezuev vive qui: “Nel 1986 siamo stati i primi incaricati alla liquidazione dei danni provocati dall’incidente di Chernobyl. Appena arrivati a Pripyat ci siamo spaventati, perché tutti indossavano maschere e camici bianchi. Certo era agghiacciante, ma l’essere umano finisce per abituarsi a tutto. Ci siamo guardati attorno e abbiamo capito il senso del nostro lavoro. Inizialmente è stato uno choc, poi tutto si è normalizzato e abbiamo iniziato a lavorare Volevamo essere d’aiuto, perché si era verificata un’enorme disgrazia, era terribile, nessuno sapeva cosa fare e come farlo. Io ho voluto farlo. I primi a partire lo hanno fatto volontariamente, come noi”. Nel villaggio di Znamenka, uno dei villaggi più colpiti dal fallout del poligono di tiro di Semipalatinsk ci accoglie il sindaco del villaggio, Abusana Karsakbaev anche lui liquidatore di Chernobyl. “A quel tempo, il 26 aprile del 1986, avevo quasi trent’anni. Quando arrivammo, la legge marziale era già in vigore, noi eravamo stati richiamati in qualità di personale militare, indossavamo l’uniforme, e soltanto allora ci spiegarono quello che era successo. Da quel momento tutto ci fu chiaro. Ci illustrarono i nostri compiti, esattamente com’era in uso nell’esercito. Si usciva al mattino e si rientrava alla sera, tutto secondo una tabella di marcia prestabilita. Fummo tutti dotati di speciali uniformi militari, impregnate di una qualche sostanza sconosciuta, e fino all’inverno lavorammo alla dismissione dei centri abitati, di villaggio in villaggio. Tutti gli abitanti erano già stati evacuati, non era rimasto nessuno, i villaggi erano completamente deserti, delle vere e proprie città morte. Alcuni ragazzi dovettero entrare nel quarto blocco, furono impiegati là dentro. A me non capitò mai, grazie a Dio non mi ci mandarono, perché sicuramente chiunque abbia lavorato là non è sopravvissuto. Sono rimasto di stanza laggiù per due mesi e mezzo. Poi, nel mese di novembre del 1986, ci hanno rimandati a casa. Molti di coloro che hanno prestato servizio assieme a me oggi non ci sono più. Alcuni sono rimasti invalidi, altri si sono ammalati gravemente. Oggi ho la possibilità di raccontarvi questa storia, una storia inusuale per le giovani generazioni. Perché non ci siamo accorti di niente, nessun odore, nessuna traccia, nulla tranne la polvere. È stato terribile…è stato terribile…”. Terribile come tutta l’era atomica e le sue conseguenze per l’intera umanità.
Il crimine dei test nucleari. Testo e foto Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 27 aprile 2020. La strada per arrivare a Semipalatinsk-21 è una lunga striscia di asfalto nero e ricoperta di buche, quasi crateri, circondata da steppe infinite e villaggi che compaiono dal nulla. I cartelli stradali, che indicano Semipalatinsk-21, non esistono, perché la città non esiste. O meglio, Semipalatinsk-21 era il nome in codice di una delle città più segrete dell’ex Unione sovietica: la città di Kurchatov. Non compariva nelle mappe ed era conosciuta solo da chi partecipò allo sviluppo del nucleare militare sovietico. Fu costruita nel 1947 e rinominata in onore del fisico nucleare Igor Kurchatov, il padre del programma nucleare sovietico. In quest’area, situata nelle steppe desolate del Kazakistan, fu sviluppata e fatta esplodere, il 29 agosto 1949, la prima bomba atomica dell’Urss. A quella esplosione ne seguirono altre 456, fino al 1989. Oggi la strada arriva a Kurchatov e non è più una zona segreta. Chiunque può accedervi, non esistono più filo spinato e check-point. Perché tutto è finito nel 1991 quando il poligono di tiro fu dismesso. Ma nulla è finito qui. Il poligono di tiro di Semipalatinsk è infatti una tragedia dell’era nucleare che andrà avanti, con le sue terribili conseguenze sulla popolazione e sull’ambiente, per oltre 24mila anni. Durante tutto il periodo degli esperimenti la popolazione locale fu totalmente tenuta all’oscuro di quello che stava succedendo. Gli abitanti locali venivano avvisati dai militari delle esplosioni imminenti, anche perché erano talmente evidenti che potevano essere viste e sentite a decine di chilometri di distanza. I locali erano obbligati a uscire dalle proprie abitazioni e aspettare l’ordine dei militari per poter rientrare, ma non erano messi al corrente che fossero esplosioni nucleari, con rilascio di massicce quantità di radiazioni. Tutto era taciuto. Tutto era nascosto. Come ci conferma Roman Vassilienko, vice ministro degli esteri del Kazakistan. Ci riceve nel suo ufficio, nella capitale Nur-Sultan per raccontarci di questa tragica eredità che il Kazakistan si è ritrovato sulle spalle al crollo dell’Unione sovietica. “Nel 1991 il Kazakistan ereditò il sito per i test nucleari di Semipalatinsk dall’Unione Sovietica e il presidente del Kazakistan Nur-Sultan Nazarbayev decise di chiuderlo il 29 agosto del 1991. Per molti decenni le conseguenze dei test sulle armi atomiche non furono conosciute dagli abitanti locali e dal governo locale. Fu tenuto tutto segreto e nascosto durante il periodo sovietico. Solamente all’epoca della Glastnost e Perestrojka, l’informazione sulle conseguenze dei test nucleari, o addirittura a proposito del dato di fatto che i test nucleari fossero condotti in questo o quell’altro giorno, furono dati al governo della repubblica socialista del Kazakistan. In base alle nostre informazioni governative, attraverso i 40 anni dei test nucleari sovietici in Semipalatinsk, circa un milione e 800 mila persone furono colpite. A tutt’oggi la maggior parte di quelle persone è morta, ma adesso stiamo affrontando il problema con la seconda e terza generazione, sopravvissuti ai test sulle armi nucleari. Questi sono i figli e i nipoti di quelli che furono esposti alle radiazioni”. L’area del poligono di tiro era di 18.500 chilometri quadrati (quasi come il Veneto), ma la contaminazione fu rilevata in un’area di 300mila chilometri quadrati (una superficie paragonabile a quella della Germania). Una gran parte di terra è stata contaminata pesantemente e non potrà essere toccata per i prossimi 24mila anni. Villaggi come Znamenka, Sarzhal e Kaynar, che si trovano praticamente ai margini del poligono di tiro, non furono mai evacuati e tuttora la popolazione vive con le conseguenze della contaminazione. Ma anche città più grandi come Kurchatov e soprattutto Semey, con i suoi 320mila abitanti, situata a meno di 100 chilometri dal poligono, furono sistematicamente investite dai venti radioattivi. In termini di danni alla salute delle persone, in base a diverse stime, oggi ci sono attualmente 200mila persone che vivono in terre altamente contaminate e soffrono di un aumento notevole di tumori, deformazioni alla nascita e, naturalmente, tutti gli altri tipi di patologie correlate alle radiazioni. E quasi due milioni di persone sono state colpite, negli anni degli esperimenti, dai venti radioattivi. Ma la problematica maggiore sta iniziando adesso e sono le malformazioni genetiche che stanno aumentando esponenzialmente nelle nuove generazioni, nei figli dei testimoni della Guerra fredda. Una eredità che continuerà nelle generazioni future per migliaia di anni.
Noi, sopravvissuti alla bomba atomica. Testo Pierpaolo Mittica su Insideover.com il 30 aprile 2020. Hiroshima è un nome che non si dimentica. Un nome entrato nella storia a causa di uno degli eventi più tragici che l’umanità abbia mai vissuto: l’uso di un ordigno nucleare contro la popolazione civile. Il 6 agosto 1945 gli Stati Uniti, per cercare di piegare la resistenza del Giappone e porre fine alla seconda guerra mondiale, decisero di utilizzare la prima bomba atomica, soprannominata “little boy”, e sviluppata nei laboratori di Los Alamos. La scelta dell’obiettivo ricadde sulla città di Hiroshima, situata a sud del Giappone e con una popolazione di 255mila abitanti. L'isola di Miyajima si trova a pochi km di navigazione da Hiroshima. Mentre Hiroshima è considerata luogo di sofferenza, l'isola di Miyajima è uno dei luoghi della spiritualità più importanti in Giappone, dove si crede che gli uomini convivano con gli dei. Lui quel giorno c’era. Il 6 agosto 1945 Kunihiko Bonkohara era a Hiroshima, dove viveva insieme alla sua famiglia. Quel giorno sua madre e sua sorella non tornarono a casa perché furono inghiottite dall’esplosione. “All’epoca avevo cinque anni. Vivevamo in quattro in famiglia: mio padre, mia madre e mia sorella più grande”, ricorda Kunihiko Bonkohara. “Abitavamo a due chilometri dal centro della città. Quel giorno di agosto, prima delle otto di mattina, mia sorella era andata alla scuola superiore, e mia madre andò in centro. All’improvviso arrivò una luce accecante. Mio padre subito mi spinse sotto la scrivania e mi coprì con il suo corpo. In quel momento ci avvolse il tuono di una esplosione e, a seguire, un vento fortissimo. La casa tremava, le finestre e la porta furono distrutte. Tutti i mobili caddero per terra, il tetto volò via. Quando la polvere si depositò, mio padre si alzò e mi tirò fuori da sotto gli oggetti che ricoprivano la scrivania. Vedevo la schiena di mio padre che sanguinava tantissimo e diventava rossa. Nelle mie braccia e nelle mie gambe c’erano conficcati vetri ovunque. Subito dopo con mio padre ci recammo al fiume Teman per lavarci. In quel momento la città di Hiroshima era avvolta dalle fiamme, il fumo aumentava e il cielo diventava nero. E dal cielo iniziò a cadere una pioggia nera. Iniziai a vedere tante persone vagare tra le macerie con le braccia piegate, con i capelli e la pelle bruciati. I loro volti erano arrossati, quasi diventati neri. Indimenticabile la vista del fiume dal ponte "Aisho" i cadaveri portati via dalle onde giacevano… Non so come dire, se esistesse una parola…direi…l’inferno…”. La mattina dopo il padre di Kunihiko Bonkohara andò a cercare la moglie e la figlia tra le macerie della città spazzata via dall’onda d’urto della bomba, rovesciando i cadaveri bruciati che trovava per strada. Non le trovò mai. Purtroppo la sorella e la mamma di Kunihiko Bonkohara fanno parte di quelle 80 mila persone che la bomba di Hiroshima si portò via all’istante. Kunihiko Bonkohara è sopravvissuto alla bomba atomica di Hiroshima ed è uno di quei pochi “hibakusha”, letteralmente “coloro che sono stati colpiti dal bombardamento”, ancora vivi e che possono raccontare quei tragici momenti. Come Rsaybaev Koksubai Umurtaevich. Il 29 agosto 1949 abitava a Znamenka, un villaggio di 2mila anime situato in Kazakistan, al confine con il poligono di tiro dei test delle armi atomiche dell’ex Unione sovietica. Quel giorno fu testata la prima bomba nucleare dell’Urss a Semipalatinsk-21. Semipalatinsk-21 era il nome in codice di una delle città più segrete dell’ex Unione sovietica: la città di Kurchatov. Non esisteva nelle mappe ed era conosciuta solo da chi partecipò allo sviluppo del nucleare militare sovietico. Fu costruita nel 1947 e così rinominata in onore del fisico nucleare Igor Kurchatov, il padre del programma nucleare sovietico. In quest’area, situata nelle steppe desolate del Kazakistan, fu sviluppata e fatta esplodere, il 29 agosto 1949, la prima bomba atomica dell’Urss. A quella esplosione ne seguirono altre 456, fino al 1989. Rsaybaev Koksubai Umurtaevich ha visto e sentito centinaia di esplosioni. “Ovunque volgessi lo sguardo, ovunque girassi gli occhi potevo scorgere i funghi generati dalle detonazioni”, ci racconta Rsaybaev Koksubai Umurtaevich, sprofondato nel suo divano. “Di questi ordigni terrificanti la gente ha cominciato ad accusare la situazione, ad ammalarsi, a svegliarsi ogni giorno con gli occhi rossi come dopo notti trascorse insonni…Uno stato d’animo che influiva sulla vita delle persone. Un’arma mostruosa puntata sul nostro popolo, che ha generato un disastro nei confronti di tutte le popolazioni residenti nella regione di Semipalatinsk: tutti esposti a questa terribile contaminazione. Questo era il modo in cui venivano condotti i test sperimentali, ogni anno sempre più intensi, ogni anno sempre più forti. Dopo il 1956 le esplosioni si sono talmente intensificate da ricoprire l’intero territorio di polvere bianca, persino il grano ne era completamente cosparso. Erano esplosioni di diverso tipo, quasi delle ondate. Capitava, a volte, che non ci trovassimo in casa e fossimo costretti a trovare riparo da qualche parte, magari di là dal fiume, finché non ci davano il segnale di via libera. Le finestre di tantissime case esplodevano, la gente era esasperata e un odore terribile pervadeva le strade del Paese. La contaminazione ha colpito tutti. Basta visitare il cimitero accanto per rendersene conto. Quando mi sono trasferito qui non ospitava neppure una tomba, e il camposanto più vicino, peraltro di piccole dimensioni, si trovava a 14 chilometri di distanza. Eppure guardate adesso… Il fatto più significativo è che si tratta soprattutto di giovani, tutti coloro che abbiamo perso nell’ultimo anno non avevano più di quarant’anni. Ecco cosa ci hanno portato gli esperimenti…”.
Il coronavirus non è una delle maggiori pandemie di sempre: lo studio. Laura Pellegrini il 27/04/2020 su Notizie.it. Il coronavirus non sarebbe una delle maggiori pandemie della storia: i dati sulla mortalità a partire dalla peste analizzati in uno studio. Rispetto ad alcune delle maggiori pandemie degli ultimi millenni, il coronavirus si colloca tra gli ultimi posti. In uno studio della Deutsche Bank vengono infatti analizzati i tassi di mortalità delle 27 pandemie: i risultati sono sconvolgenti. Un’analisi che parte dal secondo secolo d.C. con la peste antonina e si conclude con il nemico invisibile del 2020: il Covid-19. Pare che l’epidemia che ha mietuto il numero di vittime maggiori sia invece la peste nera descritta nel celebre Decameron di Boccaccio, mentre la ricerca rivela anche che a contenere il contagio da Covid-19 è stato anche il rigoroso lockdown.
Coronavirus, le maggiori pandemie mondiali. Nella classifica delle maggiori pandemia mondiali realizzata dalla Deutsche Bank, l’attuale emergenza coronavirus si colloca tra gli ultimi posti. Sarebbero infatti la peste nera del XIV secolo e la successiva peste di Giustiniano, nel sesto secolo d.C. a essere state le più letali. La prima, descritta dal Boccaccio, sterminò il 40% della popolazione dell’epoca, mentre la seconda causò la morte del 28% della popolazione allora attuale. Il tasso di mortalità del Covid-19, invece, è dello 0,002% e pare che il rapporto malati/morti superi il 12%. Alcuni fattori da tenere in considerazione rispetto al coronavirus sono innanzitutto il rigoroso lockdown, che ha permesso di contenere in modo efficace i contagi. Importante anche l’aumento della popolazione a livello globale ( attualmente 7,7 miliardi), il progresso del sistema sanitario e il miglioramento delle condizioni igieniche ed alimentari. Lo studio ha anche evidenziato come, senza lockdown, il tasso di mortalità sarebbe salito a 0,23% registrando 17,6 milioni di vittime su tutto il pianeta. “L’attuale pandemia diventerebbe così – scrivono i ricercatori – la quinta più letale della storia; in termini relativi, la 13esima”.
Da affarinternazionali.it il 27 marzo 2020. Riproponiamo un articolo di Filippo di Robilant sull’emergenza Ebola, pubblicato su AffarInternazionali il 13 ottobre 2014. Questo scritto, estremamente attuale oggi durante la crisi da pandemia di Covid-19, spiega profeticamente la pericolosità delle minacce virali e la nostra difficoltà di risposta. L’esperienza ultradecennale della pandemia dell’Aids ci avrebbe dovuto rendere più vigili rispetto ai virus emergenti. Non è stato così. Ancora oggi, governi e istituzioni sanitarie mondiali preferiscono aspettare di essere travolti dalla valanga di pandemie prima di prendere provvedimenti seri. Finché si continuerà a considerare le emergenze pandemiche come problema sanitario solamente, e non come questione da affrontare anche dal punto di vista politico-istituzionale e dello sviluppo umano, la nostra risposta rimarrà inadeguata.
Dall’Aids a Ebola. Sono passati più di vent’anni da quando autorevoli membri della comunità scientifica internazionale esortavano i decisori politici a guardare al di là del fenomeno dell’Aids. Ammonivano che da troppo tempo troppe persone violavano troppi ecosistemi. Avvertivano, per esempio, degli effetti allarmanti della graduale distruzione della biosfera tropicale: la foresta pluviale, essendo il serbatoio del pianeta più capiente di specie vegetale ed animale, lo è anche di varietà di virus. E quando un ecosistema viene degradato, virus sconosciuti sono sfrattati dai loro ambienti naturali e sottoposti a una pressione selettiva estrema: alcuni reagiscono scomparendo, altri mutando rapidamente e cambiando habitat. Gli scienziati si domandavano se il virus dell’Hiv fosse solo un caso emblematico e non il culmine di un disastro che invece avrebbe potuto prendere il nome di altri virus letali come Ebola, Dengue, Marburg, Junin, Lassa, Machupo, Guanarito, O’nyong’nyong.
Virus che ignorano le frontiere. Non c’è dubbio che i programmi nazionali contro l’Aids degli inizi degli anni ’90 erano troppo rigidamente concepiti come programmi governativi anziché come frutto degli sforzi congiunti degli organi esecutivi, dei centri di ricerca, delle associazioni e del settore privato. La sfida posta alla comunità internazionale richiedeva invece una cooperazione coordinata, sostenibile, transnazionale e complementare. Altrimenti detto, il fatto che il virus ignorasse le frontiere rendeva essenziale stabilire una politica comune tra gli stati. Invece, la visione “globale” della pandemia, paradossalmente, anziché allargarsi, si è ristretta: i paesi donatori hanno dimostrato una crescente predilezione a lavorare indipendentemente e su base bilaterale con i paesi del Terzo mondo, con il risultato che Unaids, l’agenzia Onu che dal 1996 concentra su di sé le attività anti-Aids, non ha sviluppato la necessaria credibilità per assegnare ruoli e creare meccanismi di coordinamento. L’esperienza accumulata in questi anni dall’agenzia dovrebbe tuttavia essere messa al servizio dell’emergenza Ebola; anzi, c’è da chiedersi se l’urgenza non imponga di estendere il suo mandato a tutti i virus letali. Questa nuova emergenza è infatti un’occasione per creare uno strumento transnazionale permanente, con poteri vincolanti, in grado di garantire l’attuazione di regole comuni in caso d’insorgenza di qualsiasi pandemia. Con la deflagrazione della bomba Ebola – che il Presidente statunitense Barack Obama ha definito una minaccia alla sicurezza globale – interesse collettivo è quindi evitare gli errori compiuti nel passato all’interno del dispositivo predisposto dall’Onu: disarmonia tra politiche accettate a livello globale e azione a livello nazionale, indicazioni tecniche contraddittorie, diverse interpretazioni dei mandati e delle aree di competenza delle varie organizzazioni, insufficiente coordinamento degli input dati ai singoli paesi, risposte lente all’evoluzione della pandemia. In Europa, per esempio, non esiste l’equivalente del Centers for Disease Control and Prevention statunitense (Cdc): il European Center for Disease Prevention and Control (Ecdc), creato sull’onda dell’epidemia Sars nel 2004 e di base in Svezia, svolge un ruolo di coordinamento degli esperti sanitari nazionali, ma non ha una sua unità che risponde alle urgenze.
Un Mission for Ebola Emergency Response. L’istituzione, il 19 settembre scorso, della Un Mission for Ebola Emergency Response (Unmeer), ad Accra, e la nomina di un Inviato speciale delle Nazioni Unite per la lotta al virus, vanno quindi nella buona direzione. Per la prima volta nella sua storia l’Onu crea una Missione per un’emergenza di salute pubblica. Vedremo se seguirà anche un flusso di fondi tale da garantire continuità al suo operato. Anche la Emergency Response Unit dell’Unione europea, che abitualmente monitora conflitti armati e disastri naturali, ora segue l’andamento dell’epidemia 24 ore su 24. Tutto questo rischia però di non essere sufficiente se gli sforzi non saranno moltiplicati. Ieri come oggi dobbiamo prendere atto che: a) le risposte alle emergenze vengono effettuate sostanzialmente su basi ad hoc; b) non esiste una procedura ufficiale per determinare quali organizzazioni a livello internazionale devono assumere la responsabilità amministrativa, tecnica e finanziaria, per non parlare di responsabilità politica, e con quale catena di comando; c) manca una valida rete di comunicazione per garantire una risposta operativa efficace e tempestiva da parte di autorità nazionali. E poi: esistono strategie per scoprire e prevenire epidemie dovute a nuovi virus o alla riapparizione di vecchi? Siamo in grado di inventare efficaci contromisure per circoscrivere epidemie prima che facciano il “salto di qualità” e diventino fenomeno globale? Un quadro giuridico-istituzionale da attuare su scala globale può essere previsto per i virus, che per definizione non conoscono né limiti di tempo né di spazio? In questi venti anni si è dormito il sonno dei giusti. Si è lavorato più alla “conservazione delle catastrofi” che alla loro prevenzione. Occorre invece lavorare alla riduzione del rischio, introducendo regole comuni anche per aggirare gli effetti frenanti delle tradizioni religiose e culturali che portano i virus a essere accettati come tragica fatalità. Infine, un appello alle case farmaceutiche: evitiamo milioni di morti come è stato per l’Aids solo perché chi poteva non aveva interesse e chi non poteva non aveva scelta.
Coronavirus, una "pandemia ogni 7 anni". Dalla Spagnola al Covid, l'accelerazione dei contagi: ecco lo studio. Libero Quotidiano il 31 marzo 2020. Le pandemie sono sempre più frequenti, e il mondo si mostra sempre impreparato. Il coronavirus rappresenta un nuovo capitolo nella storia, sanguinosa, delle epidemie e segna una accelerazione inquietante: come ricorda Alberto Brambilla su Libero, si sta accorciando "il ciclo della malattia". Fino al 1800 c'era una pandemia ogni 300 anni, dalla peste nera del 1300 a quella del 1510 fino alla influenza russa del 1889. Poi, nel 1918, la famosa influenza spagnola affrontata grossomodo come oggi: mascherine, negozi chiusi, quarantena forzata: fece tra i 50 e i 100 milioni di vittime. Nel 1957, l'asiatica causò 2 milioni di decessi, fu trovato un vaccino ma nel 1968 si propagò una sua variante, la Hong Kong: altri 2 milioni di morti, 20mila in Italia. Dagli anni Duemila il ritmo aumenta: la Sars nel 2002, nel 2009 l'influenza suina (H1N1) che probabilmente sta ancora circolando come influenza stagionale, nel 2012 la Mers. Ora, 7 anni dopo, il coronavirus: "Effetto globalizzazione?", si chiede Brambilla. Di sicuro, come in passato, per le pandemie non è mai stato trovato un vaccino e le autorità politiche e sanitarie rispondono nell'unico modo conosciuto: isolamento. "Certo - conclude Brambilla - oggi abbiamo la terapia intensiva che probabilmente, se regge, salverà molte vite ma abbiamo anche meno medici e meno posti letto di 20 anni fa".
Le epidemie sono davvero più frequenti rispetto al passato? Paolo Mauri su Inside Over il 31 marzo 2020. L’attuale pandemia da coronavirus Covid-19 ha fatto riemergere nell’uomo l’atavico timore delle malattie infettive, che, forse troppo sbrigativamente, è andato dimenticato soprattutto in Occidente. Al netto delle origini dell’attuale malattia, ovvero dei meccanismi che hanno permesso il salto di specie da animale a uomo al virus diffusosi a partire dalla Cina, è interessante cercare di capire se le epidemie che hanno accompagnato la storia umana recente siano più frequenti rispetto al passato e per quale motivo. Prima di addentrarci nella trattazione diventa però interessante fornire qualche cenno di carattere scientifico che ci permetterà di trarre delle conclusioni che non siano esclusivamente basate sulle cronache degli ultimi cento anni di storia dell’umanità. Il primo ad affrontare il tema della “storia delle epidemie” è stato lo storico francese Mirko Grmek che alla fine degli anni ’60 del secolo scorso ha proposto di leggere in chiave ecologico-evolutiva le trasformazioni che hanno subito le malattie, soprattutto quelle infettive, che nelle diverse epoche hanno colpito l’uomo. Utilizzando come modello la nozione di biocenosi, che nell’ecologia definisce l’insieme di tutti gli organismi presenti in un ecosistema, Grmek ha proposto il concetto di patocenosi, inteso come l’insieme di stati patologici presenti all’interno di una data popolazione in un determinato momento. Più in dettaglio la patocenosi si articola su tre punti fondamentali: l’insieme degli stati patologici presenti in una determinata popolazione a un momento storico dato; il principio secondo cui la frequenza e la distribuzione di ogni malattia dipendono, oltre che dai fattori endogeni ed ecologici, dalla frequenza e dalla distribuzione di tutte le altre malattie che possono ostacolare, favorire o essere indifferenti nella diffusione; infine il principio che la patocenosi tende verso uno stato di equilibrio, in particolare in una situazione ecologica stabile. Avendo in testa questo principio risulta interessante dare uno sguardo alla storia dell’uomo sin dai suoi albori. I nostri antenati ominidi avevano diversi “patogeni di famiglia”, cioè parassiti, condivisi con gli antenati dell’ordine dei primati, come pulci, vermi, protozoi, enterobatteri, stafilococchi e streptococchi. Le punture di insetti, i morsi di animali, la lavorazione e il consumo di cibo contaminato sono stati all’origine di zoonosi come tubercolosi, leptospirosi, schistosomiasi, tetano, tripanosmiasi e trichinosi. Fintanto che l’uomo aveva una vita ed una società articolate sull’essere cacciatore/raccoglitore alcuni patogeni, come il morbillo o il vaiolo, non riuscivano a trovare terreno fertile e a diventare quindi endemici nella popolazione. Il passaggio da un’economia di caccia e raccolta a una basata sull’agricoltura ha però stravolto l’equilibrio. Questo importantissimo cambiamento, anche conseguente ai cambiamenti climatici cominciati 18mila anni fa quando avvenne quello che in geologia si chiama Lgm (Last Glaciation Maximum), ha modificato non solo la nostra società ma anche la nostra biologia. La transizione all’agricoltura e l’addomesticamento e allevamento degli animali espongono l’uomo a nuovi agenti infettivi, e a nuove cause di malattia anche non trasmissibili, modificando quindi per la prima volta nella storia dell’umanità la nostra patocenosi. Gli insediamenti umani costituiscono una nuova nicchia ecologica per gli agenti patogeni per tutta una serie di motivi che spazia dall’aumento della densità di popolazione, all’impatto delle coltivazioni e degli allevamenti sull’ecosistema. Inoltre l’economia agricola primordiale non dava il corretto apporto energetico all’uomo rendendolo debole e quindi più esposto ai contagi di malattie infettive anche in considerazione della mutata biocenosi data dagli insediamenti urbani con insetti e roditori che hanno cominciato a vivere “in simbiosi” con le nostre città e villaggi. Grazie agli allevamenti e agli animali domestici poi, decine di malattie effettuano il salto di specie e si diffondono nell’uomo proprio a partire dal 6000 a.C. Tra di essi si ricordano: scabbia, morbillo, vaiolo, tubercolosi, carbonchio, influenza e la terribile peste. La rapida urbanizzazione conseguente al nascere di civiltà ed imperi ha accelerato questo fenomeno tanto che le prime società organizzate del Medio Oriente, dell’Egitto e dell’Asia (sud-est e centrale) acquisiscono ognuna una distinta serie di malattie infettive, ma soprattutto, ed è il fattore più interessante, quando tra queste si stabiliscono i primi contatti, si creano le condizioni per la nascita di gravi epidemie, soprattutto nel caso di campagne di conquista o guerre, quando si scontrano le diverse patocenosi. Insomma già nell’antichità l’uomo doveva fare i conti con pestilenze ed epidemie, e uno studio condotto su testi greci che raccolgono casi di malattie ha mostrato che i tipi e le proporzioni tra esse presenti in quel tempo sono già grosso modo quelli che caratterizzeranno la storia dell’Europa fino alla metà del diciannovesimo secolo. Esistono chiaramente delle differenze: per esempio il morbillo, la rosolia e diverse malattie virali che caratterizzano l’età moderna sono assenti nell’antichità, così come la sifilide, il vaiolo, la lebbra, il colera e soprattutto l’influenza. Quello che è importante sottolineare è che con l’intensificarsi di viaggi e guerre tra civiltà contigue dell’Eurasia, le malattie infettive che hanno origine nell’Asia cominciano a diffondersi ma ancora a fasi alterne che, non casualmente, dipendono dalla storia degli imperi: dalla metà del quinto secolo d.C. gli scambi commerciali in Europa diminuiscono e le grandi città cominciano a spopolarsi con l’arrivo dei popoli invasori, che portano nuove malattie ma che troveranno meno terreno fertile proprio perché la società urbana era in crisi.
Fino al sesto secolo, infatti, ci sono meno epidemie, ma a partire dal 541 ricompare in Europa il vaiolo, e nel 542 per la prima volta le peste bubbonica, che da Costantinopoli, dove è arrivata dal Mar Rosso, giunge a Roma nel 543. Circa 20 ondate si susseguono dal 541 al 767, quanto la malattia scompare sia dall’Europa che dall’Asia e dall’Africa. Malattie e carestie, dipendenti da fattori esterni come cambiamenti climatici o strutturali come il rinascere delle città nell’epoca comunale, hanno continuato ad accompagnare l’umanità sino ad arrivare a quella che è forse la pestilenza più conosciuta in Europa: la peste nera che ha devastato un intero continente dal 1347 al 1352, sterminando tra il 25 e il 50% della popolazione e portando con sé grandi cambiamenti nell’economia, nella geopolitica e anche nella religione. Peste che ritornerà, famosissima essendo stata consegnata alla letteratura da Alessandro Manzoni, quasi tre secoli dopo tra il 1629 ed il 1633, e che, solo in Italia settentrionale, si stima che uccise un milione e centomila persone su 4 milioni di abitanti. Era un mondo molto diverso, ma la corsa della malattia, che in cinque anni, nel quattordicesimo secolo, fece il giro d’Europa, sarebbe stata sicuramente più lenta se la società fosse stata ancora quella primitiva, ovvero senza quella frequenza di scambi commerciali che la caratterizzavano.
Oggi le malattie infatti corrono, anche grazie al tipo di società in cui viviamo caratterizzato da grandi assembramenti di popolazione nelle città. Venendo a tempi recenti e limitandoci alle pandemie influenzali del ventesimo secolo, possiamo vedere come ci sia una differenza di velocità e maggiore diffusione spaziale delle epidemie rispetto ai secoli scorsi: la “spagnola”, uccise tra i 50 e i 100 milioni di persone in due anni, tra il 1918 e 1919, portata in giro per il mondo dai soldati che rientravano in Patria dopo la Prima Guerra Mondiale; la “asiatica”, nata forse a Singapore, uccise due milioni di persone in un periodo più o meno simile tra il 1957 e il 1958; l’influenza di Hong Kong nel 1968 uccise tra le 750mila ed i 2 milioni di persone nell’arco di un anno, infine la Sars e la Mers si sono diffuse in pochissime mesi ma sono state contenute grazie ad efficaci politiche sanitarie. Anche l’attuale pandemia di coronavirus ha fatto il giro del mondo in pochissime settimane. Le cause di questa rapidità nella diffusione sono molteplici ma principalmente possono essere ridotte a due: la prima di carattere sociale causata da un sentimento di falsa sicurezza tecnologica, la seconda data dalla globalizzazione spinta e dallo stesso progresso che ci permette di viaggiare da una parte all’altra del globo in poche ore. Per quanto riguarda quella che è stata chiamata “illusione tecnologica”, possiamo dire, riassumendo, che l’avvento dei vaccini, il progresso della scienza medica dai tempi di Jenner passando per Pasteur e la genetica, ma soprattutto l’eradicazione del vaiolo ha diffuso un falso sentimento di sicurezza non solo tra la popolazione, ma anche tra i vertici scientifici: alla fine degli anni sessanta l’Oms organizzava delle riunioni di esperti ponendo domande del tipo “le malattie infettive sono ancora importanti?” ed anche se la risposta era stata positiva il fatto stesso che la domanda fosse stata posta mostra la prevalente atmosfera di ottimismo. La globalizzazione ha poi un ruolo fondamentale, anche se duplice: se da un lato lo sviluppo ed implementazione delle relazioni internazionali e quindi lo scambio e la condivisione di informazioni di tipo medico grazie alla stipula di apposite convenzioni sanitarie internazionali e all’organizzazione di congressi e riunioni scientifiche, ha permesso di affrontare le malattie in modo uniforme mettendo a sistema le eccellenze dei singoli Stati, dall’altro la stessa società globalizzata ha permesso alle patologie di “correre” ben al di là della loro patocenosi e diffondersi molto più rapidamente rispetto al passato. Del resto se oggi per fare da Pechino a Roma bastano poco più di 17 ore di volo, cento anni fa ci sarebbero volute settimane, e trecento anni fa il viaggio avrebbe richiesto mesi: una malattia, a seconda della virulenza, avrebbe quindi potuto fermarsi molto prima della destinazione uccidendone il portatore o dandogli tempo di guarire. Quindi, per rispondere alla domanda di partenza, forse le epidemie non sono più frequenti rispetto al passato se le guardiamo dal punto di vista dell’intera umanità, ma si muovono più velocemente e quindi arrivano con più facilità in tutti i punti del globo rispetto solamente ad un secolo fa.
Ogni 100 anni precisi un’epidemia sconvolge il mondo, la verità sulla maledizione del ’20. Redazione de Il Riformista il 13 Marzo 2020. Sul web circola la foto di un foglio di carta con su scritto a penna “1720: peste, 1820 colera 1920: influenza spagnola, 2020: coronavirus”. Agli amanti del complotto deve essere piaciuta a molti perché la foto è ovunque. Tuttavia è una congettura sbagliata. Tutto probabilmente è partito dalla curiosa coincidenza che una delle più grandi epidemie di peste si verificò nel 1720. Si tratta solo all’ultima grande epidemia che ha devastato una grande città dell’epoca come Marsiglia. In quell’occasione morì quasi metà della popolazione. Una delle ultime epidemie di peste che colpì tutto il mondo, però, è stata nel 1855. Altra influenza legata al secolo successivo sarebbe il Colera. Ma questa iniziò nel mondo nel 1817 e terminò quasi del tutto alla fine del secolo. Poi nel ‘900 l’Influenza Spagnola che portò alla morte di centinaia di milioni di persone. Iniziò nel 1918 e finì solo nel 1920. Dunque poco a che fare con la “coincidenza” con il Coronavirus del 2020.
Dal Sars al Covid, così i virus attaccano (e come la scienza li può sconfiggere). Il libro con il Corriere. Pubblicato lunedì, 09 marzo 2020 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Fra un virus dentro a una cellula che lo ospita e uno fuori da una cellula c’è la stessa differenza che passa fra una mucca e una bistecca. Il paragone a cui Roberto Burioni ricorre per spiegare la natura di questi parassiti intracellulari obbligati farà forse arricciare il naso a qualcuno ma è efficacissimo. Sarebbe come dire che dentro una cellula il virus è qualcosa di vivo e fuori è «qualcosa» e basta, senza vita. Apparentemente può essere difficile da capire ma le pagine del nuovo libro del microbiologo del San Raffaele di Milano, scritto assieme a Pier Luigi Lopalco, ordinario di Igiene all’Università di Pisa, rendono molto semplice questo concetto, accompagnando il lettore in un percorso ricco di esempi elementari e chiarissimi, accessibili a chiunque. Il risultato è un saggio che si legge come una storia. E in effetti è una storia anche nel senso stretto del termine, perché il volume è scandito proprio da storie di epidemia, a partire da quella della peste nera, ripercorsa prendendo l’avvio dalle pagine di Tucidide, che descrive quella di Atene del 430 a.C, per arrivare alle sue manifestazioni più recenti, passando per quella che probabilmente fu decisiva per la caduta dell’Impero romano. Dalla narrazione emerge come gli aspetti medici ed epidemiologici del morbo si siano intrecciati in modo inestricabile con quelli economici, politici e culturali essendone in parte determinati. All’analisi della peste fanno seguito capitoli in cui vengono analizzate altre epidemie importanti, più vicine a noi nel tempo, come l’influenza spagnola, l’Aids, la Sars-1, Ebola, per finire con uno sguardo sull’attuale di coronavirus. Tutte queste infezioni diffondendosi hanno «contaminato», in senso buono, lo sviluppo scientifico, stimolando ricerche che hanno portato a progressi nella medicina di cui ancora oggi beneficiamo. L’analisi chiara, sintetica ma non superficiale dell’andamento di queste epidemie e delle loro caratteristiche è infatti svolta anche attraverso le vicende umane di scienziati come per esempio Alexandre Yersin, a cui si deve l’identificazione del batterio responsabile della peste, oppure di Carlo Urbani al quale moltissimo si deve nel caso della Sars-1, di cui, fra l’altro, morì. Ma anche politici o «untori», e non solo, fanno da cornice alle pagine che illustrano cos’è e come funziona un virus, di cui viene svelata la strategia di fondo a partire dall’esempio paradigmatico fornito da quello della rabbia. Ogni virus ha il solo scopo di replicarsi e diffondersi. Per farlo ha bisogno di una cellula che sfrutta e mette al proprio servizio, lasciandola morire non prima di averne esaurito le risorse a proprio favore. Verrebbe da pensare quindi che il virus sia un essere crudele e intelligentissimo, ma in realtà è solo un filamento di acido nucleico (Dna o Rna) circondato da un involucro di proteine, certamente non dotato di volontà propria, anche se sembra quasi averne per come si comporta. Paradossalmente deve pure la sua fortuna in termini evolutivi al fatto di essere sciatto e impreciso nella replicazione, compiendo molti errori in questo passaggio fondamentale. Talvolta, infatti, alcuni di questi errori lo dotano, per puro caso, di capacità straordinariamente utili ai fini della sua sopravvivenza e della sua diffusione. Ed è proprio da questi «sbagli» che possono nascere le sue varianti più pericolose per l’uomo, che quasi sempre provengono da uno spillover, cioè da un «salto» o «tracimazione» da una specie animale. Un libro che si legge di getto, senza nessuna difficoltà, e che contribuisce a chiarire molti dei dubbi di fondo che si possono essere creati negli ultimi tempi non tanto sull’epidemia in corso (trattata solo marginalmente) ma su ciò che, in termini generali, può averla prodotta, fornendo elementi utili per decrittare le molte parole che in questo periodo si spendono su virus, infezioni ed epidemie.
INVASIONI CHE NON SI VEDONO. Coronavirus e altri germi e batteri che hanno cambiato la storia. L’Inkiesta 14 febbraio 2020. L’impatto dell’epidemia in questi giorni sulla Repubblica Popolare Cinese. Ma dalla peste all’aids, le pandemie da sempre seguono i principali eventi storici. Davvero il Coronavirus potrebbe avere per il regime della Repubblica Popolare Cinese lo stesso impatto che Chernobyl ebbe sul regime dell’Unione Sovietica? Che lo scenario sia temuto dallo stesso Xi Jinping lo dimostra la notizia che, proprio per evitare il paragone, il suo governo ha fatto rimuovere dai palinsesti televisivi la acclamata serie Hbo sul famoso disastro nucleare. C’è infatti un sito di recensioni su film e libri che si chiama Douban, e che è uno dei rari angoli di web cinese dove è consentito di esprimersi con relativa libertà. E lì, a quanto pare, i paragoni tra Wuhan e Chernobyl si stavano sprecando. Qualcuno ha addirittura pensato che il regime avesse lasciato aperta apposta quella valvola di sfogo appunto per usare come capro espiatorio la dirigenza locale: salvo poi spaventarsi quando si è visto che il livello del mugugno inventiva anche i vertici nazionali. Non bisogna però dimenticare che di “Chernobyl sanitaria cinese” si era già parlato nel 2009 all’epoca della epidemia di polmonite atipica che portò alle dimissioni del ministro della Sanità e del sindaco di Pechino. Né il regime ha traballato: anche se forse può esserci stato un rivolgimento interno a favorire l’ascesa di Xi Jinping, che non a caso si presenta come fustigatore di corrotti e inefficienti. Né la Cina ha smesso di crescere: anche se effettivamente il +6,2% del 2019 è stato la crescita più bassa da 27 anni, ed è meno della metà rispetto allo spettacolare +14,2% del 2007. Pure vero che il progetto di sorpassare il Pil Usa nel 2017 è rimasto un sogno: in quell’anno invece gli Stati Uniti registrarono un Prodotto interno lordo di ben 19,39 migliaia di miliardi, che era oltre un terzo in più rispetto alle 12,24 migliaia di miliardi della Cina. Ma ancora più fantapolitica si rivelò l’ipotesi di alcuni esperti che se l’epidemia non fosse stata circoscritta nel più breve tempo possibile il mondo intero avrebbe potuto rischiare un “inverno nucleare elettronico” per scarsità di hardware. Una immagine opera del think tank di analisi finanziarie Aberdeen, che sottolineava come, nelle città di Guangzhou e Shenzen, si producesse all’epoca il 50% di tutti i chip del pianeta, si assemblasse l’85% delle componenti di computer e si fabbricasse quasi il 100% degli adattatori di corrente Ac-Dc per computer portatili. Chi fa stime adesso è invece Standard & Poor’s, che dopo aver valutato l’impatto sul Pil cinese in una riduzione dal 5,7 al 5% ne traduce il contraccolpo sul Pil globale in un -0,3%. Secondo questa previsione gli effetti economici del Coronavirus si faranno “sentire maggiormente sui settori esposti alle spese cinesi legate alle famiglie come il traffico aereo, gli aeroporti, i giochi, la vendita al dettaglio e le strade a pedaggio. Chiusure temporanee di impianti in Cina possono causare interruzioni della catena di approvvigionamento in alcuni settori, tra cui automobili, tecnologia e materie prime industriali. In Cina, sono probabili misure di soccorso” all'emergenza, “tra cui riduzioni fiscali e sussidi, così come sostegno alle banche”. Sono sempre scenari: non profezie. Ma che virus e batteri possano influenzare la storia e addirittura modificarla non è una fantasia. Gli storici, infatti, da tempo hanno cominciato a rileggere le vicende del passato secondo questa particolare chiave di lettura. Sarebbero state, ad esempio, le epidemie di colera del primo Ottocento a provocare la caduta dell’Impero austro-ungarico. La rapida decimazione della borghesia di lingua tedesca in città come Budapest, Praga o Zagabria non avrebbe infatti dato il tempo al sistema scolastico di formare in tempi adeguati “ricambi germanofoni” tra i figli dei contadini acculturati, dando così spazio a un nuovo ceto medio di lingua magiara, ceca e croata, sensibile alle sirene dei nuovi nazionalismi. L’Impero, indebolito dal vibrione del colera, non poté così ostacolare il Risorgimento, a sua volta “ritardato” per secoli dal plasmodio della malaria. Sarebbe stato infatti l’effetto micidiale delle punture di anofele sui non italiani a convincere i Sacri Collegi dei Cardinali a riservare il soglio pontificio ai soli nativi della penisola, dopo il fallimento del tentativo di una “leva” di papi francesi di allontanare il papato dalle paludi pontine spostandolo ad Avignone. E lo Stato Pontificio si era così frapposto all’unità nazionale. Ma come aveva potuto, a sua volta, la Chiesa spodestare da Roma i Cesari, se non con l’aiuto della Yersinia pestis? Sarebbero state le epidemie di peste del periodo del Basso Impero ad aprire la via alle invasioni barbariche. E sarebbe stata un’altra pestilenza, che infuriò nel Medio Oriente nel VII secolo d.C., a infiacchire i due imperi rivali, bizantino e sasanide, rendendoli incapaci di reagire all’ondata di guerrieri a dorso di cammello provenienti dal deserto arabo, resi fanatici dalla nuova fede annunciata dal profeta Maometto. Esploso grazie alla peste, però, l’Islam implode di fronte all’espansione europea proprio a partire dal XVIII secolo, in coincidenza sospetta con la conversione delle tribù del Bengala orientale. I bengalesi portano infatti con loro, durante i pellegrinaggi alla Mecca, i vibrioni colerici endemici nel delta del Gange. Il punto di partenza di questo nuovo filone di studi è la nozione, ormai comunemente accettata, di “genocidio preterintenzionale”, usata per dare un nome a ciò che avvenne alle popolazioni dell’America pre-colombiana dopo il 1492. La cosiddetta scuola di Berkeley ha elaborato proiezioni secondo cui gli indigeni amerindi sarebbero passati da 90-112 milioni di persone nel 1492 a 4,5 milioni a metà del XVII secolo. Stando a questi numeri, il massacro sarebbe stato superiore sia ai 50 milioni di vittime provocate dalla pandemia di febbre spagnola del 1918, sia ai 30 milioni di morti della peste nera del XIV secolo. È vero, però, che i cadaveri della spagnola si ammucchiarono in soli quattro mesi e quelli della peste nera in quattro anni, mentre il “genocidio preterintenzionale” si sarebbe spalmato nell’arco di due secoli. Le cifre della scuola di Berkeley sono contestate dalla scuola minimalista che fa capo ad Angel Rosenblat, secondo la quale il decremento demografico sarebbe stato minore, e si sarebbe passati cioè da 13,3 milioni di abitanti del 1492 a 10 milioni nel 1650. Ma anche questa seconda ipotesi ci descrive uno scenario apocalittico, non spiegabile solo con la ferocia dei Conquistadores contro cui il missionario Bartolomé de Las Casas scrisse veementi pamphlet. E non perché la violenza non fosse presente, ma perché non era qualitativamente peggiore di quella utilizzata nello stesso periodo dagli ottomani nei Balcani o dagli spagnoli durante il Sacco di Roma: per non parlare dei metodi di guerra che, nella stessa Mesoamerica, avevano avuto gli Aztechi. D’altra parte, anche la spagnola seguì la Prima guerra mondiale, e la peste nera fu un effetto “collaterale” delle invasioni mongole. Ma più che degli eventi bellici le grandi pandemie vanno considerate conseguenza dei movimenti di globalizzazione, nei quali i soldati in marcia sono per virus e batteri veicoli efficaci quanto e più di commercianti e turisti. Ma se la peste nera colpì l’Europa con la stessa violenza con cui il “genocidio preterintenzionale” avrebbe colpito di lì a un secolo e mezzo l’America, l’impatto psicologico fu ben diverso. Concentrando ingenti fortune nelle mani dei sopravvissuti, distruggendo antiche caste chiuse, migliorando il rapporto tra popolazione e risorse, annientando la vecchia “mafia intellettuale” che aveva mantenuto il latino come strumento di esclusione delle masse dalla cultura, il massacro di metà della popolazione europea, più che annichilire il Continente, valse invece a rimuovere le remore che lo tenevano ancora chiuso in se stesso, dando il via al vorticoso moto di progresso che avrebbe posto fine al Medioevo e dato inizio all’età moderna. Al contrario, le culture precolombiane furono traumatizzate per sempre da quello sterminio. Le malattie, dunque, possono modificare la storia, ma non sono indifferenti al contesto culturale in cui operano. Col loro senso – anche abnorme – di un peccato originale che dio poteva periodicamente punire a colpi di catastrofi, gli europei del Medioevo avevano comunque le risorse psicologiche per farsene una ragione e ricominciare da capo. Per i precolombiani, invece, il “silenzio degli dei” di fronte alle preghiere dei fedeli era una spinta ulteriore a rinunciare alla vita, o per lo meno alla propria cultura ancestrale, favorendo l’accettazione del nuovo dio portato dai cristiani. Su questo peculiare punto di vista dei “vinti” hanno insistito in particolare gli studi di Nathan Wachtel a proposito del Perù e quelli di Tzvetan Todorov a proposito del Messico. Ma nella costruzione di un vero e proprio modello storiografico sull’interrelazione tra malattie, cultura e storia analogo alle chiavi di interpretazioni create da Marx a partire dall’economia o da Weber a partire della religione sono da citare soprattutto lo studio dei francesi Jacques Ruffi e Jean-Charles Sormia, pubblicato in italiano col titolo Le epidemie nella storia dell’uomo, e, ancor di più, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea, dell’americano William H. McNeill. Partito dall’analisi del caso del Messico dopo la Conquista, McNeill è arrivato a costruire un’originale griglia interpretativa che affianca il “microparassitismo” degli agenti patogeni al “macroparassitismo” delle élite dominanti. Sia i parassiti “micro” che i “macro”, argomenta, hanno interesse a “spremere” risorse dalle loro vittime. Ma quando esagerano e le uccidono, finiscono per soccombere, a loro volta, per mancanza di “cibo”. La civiltà, dunque, corre lungo uno stretto sentiero, in bilico tra i condizionamenti socioeconomici che determinano il parassitismo “macro” e i condizionamenti climatici che determinano il parassitismo “micro”. Un esempio dal libro: in India, gli invasori ariani lasciarono il Sud agli aborigeni dravida proprio perché il clima di quell’area era troppo caldo per il loro sistema immunitario. Ma il loro “macroparassitismo” ha comunque creato una pressione tale sulle risorse che la cultura locale ha dovuto “inventare” le pratiche ascetiche dei fachiri e dei santoni, come “incentivo” spirituale per un’ampia fascia della popolazione, che rinuncia così a pesare sui circuiti del consumo. Ma il culmine per questi studi è stato il celebre Guns, germs and steel, scritto nel 1997 da Jared Diamond: un fisiologo e biologo con la passione dell’ornitologia che frequentando la Nuova Guinea appunto in cerca di specie di uccelli iniziò anche a interessarsi alla antropologia e geografia, per fondere poi tutte assieme queste competenze in una analisi di Storia Mondiale che a partire da que primo best-seller si è poi allargata in altri saggi anche a ecologia, archeologia e politologia. Premio Pulitzer, quell’Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, secondo il titolo italiano, partiva da una domanda: perché è stata la civiltà “europea” a conquistare il mondo? Non certo per “naturale superiorità della razza bianca”, ma perché, di tutte le aree adatte allo sviluppo dell’agricoltura, nessuna presentava una simile varietà di piante idonee all’alimentazione – in un clima temperato e in una zona vasta – come quella del Mediterraneo. Il “Mare Nostrum” dei romani, inoltre, a cavallo fra tre continenti, aveva una posizione strategica particolarmente adatta a favorire scambi di idee e conoscenze. Si aggiunga che, dei quattordici grandi mammiferi addomesticati, ben tredici sono originari dell’Eurasia o del Nord Africa, mentre le specie provenienti dall’Africa sub-sahariana rifiutano la cattività. Fu dunque l’allevamento, con l’assuefazione ai virus degli animali domestici, a dare all’uomo occidentale un vantaggio decisivo non solo dal punto di vista tecnologico ed economico, ma anche immunitario. I germi, dunque, come dice il titolo, con l’acciaio e i cannoni. Ovviamente, l’impatto continua. La mucca pazza fu interpretata come un campanello d’allarme per la deregulation di derivazione thatcheriana, e portò l’Ue a reagire a colpi di regolazioni che potrebbero aver innescato per ripicca la febbre della Brexit. Dell’Aids si è detto che potrebbe aver posto termine al modello “libertino” che si era imposto nel ’68. Ma non solo i virus possono determinare la politica: anche viceversa. Oggi si dibatte se in Cina la diffusione del Coronavirus non sia stata appunto favorita per il tentativo delle autorità di silenziare i medici che denunciavano il contagio. In Cina nel 1911 l’ultima grande epidemia di peste della Storia fu innescata da un evento squisitamente politico come la proclamazione della repubblica. Il batterio della Yersinia pestis si spande infatti coi morsi di roditori infetti, o più spesso, delle pulci che vivono addosso a questi roditori. E i roditori sono particolarmente abbondanti nelle steppe della Manciuria: terra da cui la dinastia Qing nel XVII secolo era partita alla conquista della Cina, e che gli stessi Qing avevano voluto continuare a riservare alle sole tribù locali. Ma a fine ‘800 l’occupazione russa aveva aperto la “cortina di salice”, come veniva chiamata, ai coloni cinesi, e il processo si accentuò dopo la rivoluzione repubblicana che nel 1911 abbatté i Qing. Solo che i mancesi avevano regole ataviche di adattamento ecologico, per cui ad esempio cacciavano i roditori da pelliccia solo col fucile o l’arco: nelle trappole rischiavano infatti di finire bestie intontite dal contagio. Per la stessa ragione, la tribù che vedeva una marmotta barcollante levava subito le tende per andarle a piantare da un’altra parte. I contadini cinesi, ovviamente, risero di queste superstizioni da “barbari”. E si infettarono in massa.
Da “la Stampa” il 27 febbraio 2020. L'infezione da coronavirus si sta allargando e molti esperti ipotizzano che presto non si parlerà più di epidemia ma di pandemia. La differenza può sembrare sottile, ma per epidemia si intende una patologia che si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto. Mentre per pandemia ci si riferisce a un agente infettivo che si diffonde in zone molto più vaste in diversi luoghi del mondo. Questo fa sì che la malattia superi lo stadio epidemico divenendo appunto pandemica perché raggiunge un grado di elevata trasmissibilità all' interno della specie umana e il virus viene a contatto con popolazioni che non avevano contratto l' infezione precedentemente. Il fatto che per la prima volta i nuovi contagi registrati sono maggiori nel mondo che in Cina spinge molti virologi e anche l' Oms a parlare di pandemia.
Dalla Peste al Coronavirus: come le pandemie hanno cambiato la storia dell’uomo. Pubblicato martedì, 24 marzo 2020 su Corriere.it da Milena Gabanelli e Luigi Offeddu. Ogni pandemia ha cambiato il corso della storia: accompagnando o provocando guerre, migrazioni, crolli di imperi, sistemi economici, poteri religiosi, persecuzioni ideologiche. «È come se da millenni – riflette Ernesto Galli della Loggia, professore di storia contemporanea – fosse in corso una interminabile lotta fra noi umani e il nostro luogo di provenienza, cioè la natura. Grazie al nostro cervello ci siamo distanziati o resi più liberi da lei e una pandemia, attraverso il contatto troppo vicino e pericoloso con alcuni animali, è il modo in cui la stessa natura cerca di rimpossessarsi di quello spazio. Anche noi poi abbiamo contribuito con l’inquinamento ambientale: pensiamo solo al ruolo che l’uomo ha avuto nello sterminio delle api… ma ricordiamoci anche che nessuna pandemia è stata più forte dell’uomo».
La più spaventosa è stata la Spagnola, pandemia del 1918-1920 (dilagata in due ondate, una primaverile e una autunnale, seguita forse negli Usa da due altre ondate minori fino al 1925). Esplosa alla fine della Grande Guerra, quando le popolazioni erano più debilitate e le truppe si muovevano da un continente all’altro, e trasmessa attraverso uccelli o suini dal virus H1N1. Ha ucciso fra i 50 e 100 milioni di persone nel mondo, molto di più delle vittime della stessa Grande Guerra. Arrivò fino ai confini del globo abitato, sull’Artico. Fu chiamata così perché ne parlarono per primi i giornali spagnoli e quelli americani – forse ancora influenzati dalla censura militare – preferirono evitare l’onta sul loro Paese. Perché, pare, la pandemia arrivò negli Usa con i soldati americani di ritorno dall’Europa. Non si conoscevano cure, se non rimedi empirici contro la febbre e la mascherina facciale o l’isolamento: tutto inutile o quasi. Solo nel 1938 il virologo Thomas Francis riuscì ad isolare il virus e a provare l’esistenza di altri virus influenzali, ma la strada verso il vaccino era ancora lunga e le cause dell’estinzione della pandemia sono ancor or oggi tema di dibattito.La Spagnola provocò un terremoto demografico e migratorio: molti lasciarono le proprie nazioni alla ricerca di Paesi «sani», che però non c’erano, e colpì soprattutto giovani e adulti sani che, nella normale vita civile producendo, vendendo e comprando merci, erano la spina dorsale del sistema economico. La pandemia provocò ovunque la crisi della domanda e dell’offerta, della produzione e del consumo: un vero choc per qualsiasi Paese anche economicamente sano (anche se la manodopera, diventata ricercata e rara, ottenne salari migliori). Il Pil dell’Europa occidentale calò del 7,5%. Tutto questo non poteva non avere effetti destabilizzanti sui sistemi politici e sociali interni. La repubblica di Weimar, grande «bolla» di vuoto politico e incertezza economica, nasce in Germania nel novembre 1918, in coincidenza con la fine della Grande Guerra e l’inizio destabilizzante della Spagnola. E il vuoto di Weimar preparerà l’arrivo di Hitler. Secondo alcuni storici la Spagnola, che coinvolse tutta l’Europa e gli Usa, è alla fine una delle concause indirette anche della Seconda Guerra Mondiale.
Nell’ultimo secolo, un’altra epidemia trasmessa da uccelli (anatre selvatiche dalla Cina) è stata l’influenza asiatica del 1956, provocata da un virus sottotipo dell’H1N1. Durò due anni e fece 1 milione di vittime nel mondo, ma diluita nel tempo non ebbe grandi conseguenze sul boom economico in corso. Nel 2003 arriva la Sars (prima epidemia da coronavirus del ventunesimo secolo), molto contagiosa ma poco letale (8200 vittime nel mondo). Fu portata dalle anatre selvatiche del Guangdong (l’antica provincia cinese meridionale di Canton) e il virus fu identificato dal medico italiano Carlo Urbani, che ne rimase vittima. Ma le pandemie dei millenni precedenti fecero ben altre stragi. Anni 430-426 a.C.Peste ateniese, 70-100 mila vittime durante la guerra con Sparta, politicamente importante anche perché vi muore Pericle, leader dell’egemonia ateniese. Nel 2005, nel Dna estratto dai denti di uno scheletro sepolto in un cimiltero militare dell’epoca, viene isolato un batterio di febbre tifodea. E si pensa a questo, o a un antenato del virus Ebola, come origine della pandemia.
Anni dal 130 d.C in poi, Peste antonina, con 5-10 milioni vittime, forse vaiolo o morbillo portato a Roma dalle Legioni dopo la campagna contro i Parti, per alcuni storici segna l’inizio della fine politica e militare dell’Impero. Vi muore l’imperatore Lucio Vero.Dal 1346 al 1353 e poi a ondate successive che seguono le invasioni dell’Orda d’Oro tartaro-mongola, lungo la via della Seta arriva la Peste Nera, sempre portata dalle pulci dei ratti. All’assedio di Caffa mongoli e cristiani si lanciano a vicenda i cadaveri degli appestati. La piaga colpisce popolazioni europee già defedate dalle carestie iniziate nel 1315 dopo una serie di alluvioni. Vittime mai calcolate con precisione, dai 25 ai 100 milioni. Cambia il mondo agricolo del Medioevo, alcuni storici scrivono di «fine dell’antichità«. «Se devo morire fra poco, perché andare nei campi?» è il ragionamento che spinge molti agricoltori ad abbandonare le terre, che presto diventano deserti. Ma chi sopravvive, immunizzato e trasferito nelle città, vivrà meglio: diventerà manodopera ricercata e più pagata di prima, mentre la scarsità di braccia fa crescere ovunque l’innovazione tecnico-meccanica, come la stampa e le armi da fuoco. Con meno soldati in campo, ai re e signori occorrono più armi.
La Peste Nera porta anche i pogrom antisemiti, i peggiori fino ai tempi della Shoa, con gli ebrei accusati come untori. Nel 1348 una bolla di papa Clemente VII vieta di «ascrivere agli ebrei delitti immaginari». Ma la piaga colpisce anche il prestigio della Chiesa: quella «vita e salute» chiesta nelle sue preghiere e processioni, non arriva. E si prepara indirettamente il clima morale e ideologico per l’avvento della Riforma (1517: Lutero affigge le sue tesi a Worms).Durò due anni e non si può definire pandemia perché fu circoscritta soprattutto nel nord Italia. Arriva probabilmente dal passaggio degli eserciti (lanzichenecchi) che dormivano nei fienili e si presero le pulci dei ratti. Conseguenze: più di un milione di morti, destabilizzazione sociale, carestie, campagne abbandonate, rivolte rurali, guerre sociali e civili in Italia. Negli ultimi 100 anni, la scienza ha accertato senza più dubbi l’origine zoonotica di varie pandemie (anche fuori dalla Cina: lo scimpanzé dei Laghi, in Africa, morsicando un essere umano avrebbe trasmesso nel 1980 il virus dell’HIV-Aids, circa 36 milioni di vittime nel mondo). La ricerca insegue nuovi vaccini, ma tremila anni dopo i coronavirus e i loro «parenti» arrivano lo stesso. Come cambierà il nostro mondo con il Covid-19 è ancora da scrivere. Sappiamo solo che non sarà più lo stesso.
Dalla peste al coronavirus: le pandemie nell'arte. Rita Fenini il 20 marzo 2020 Panorama. Per puro caso o per preciso disegno divino non è dato sapere, ma che nella storia ci siano delle costanti è un dato di fatto: e anche questa ultima, nuova epidemia chiamata Coronavirus, non è certo la prima pandemia virale così grave che l'umanità si trova ad arontare. Come appunto testimoniano storici e cronisti. Ma anche scrittori e pittori, che con la loro arte e con tempi e modalità diverse, hanno descritto (e descrivono tuttora) i più tragici agelli umani.
La peste nera del Trecento. Tra le pandemie più famose e nefaste della storia, la Peste Nera, tra il 1346 e il 1363, sterminò un terzo della popolazione europea. Di questo agello ne scrisse il Boccaccio nel suo «Decamerone» mentre, nell'arte pittorica, non si contano le varie versioni del «Trionfo della morte»: tra le più note, l'aresco staccato e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo.
La peste del Seicento. Epidemia di «manzoniana memoria», la Peste del XVII°secolo colpì e devastò il nostro Paese in due momenti diversi: nel 1630, portata dai Lanzichenecchi e fatale soprattutto per l'Italia settentrionale e nel 1656, quando, ad essere decimato, fu soprattutto il Regno di Napoli. È in questo periodo che molti artisti, tra cui il genovese Bernardo Strozzi (pittore e sacerdote), dedicarono opere a San Rocco, protettore degli appestati, mentre altri, da Giovan Battista Crespi ad Antonio Zanchi, passando per Micco Spadaro e uno stuolo di pittori anonimi, hanno immortalato nelle loro tele le città devastate dal morbo: Milano, Venezia, Genova, Napoli. Con i loro morti. Con i loro orrori.
L'influenza spagnola (1918-1919) Pandemia che colpì un terzo della popolazione mondiale e fece registrare circa 50 milioni di decessi, la Spagnola costò la vita anche a molti artisti di fama internazionale: di questa inuenza letale, ne morirono infatti lo scrittore Guillaume Apollinaire, Gustav Klimt, Amedeo de Souza Cardoso, Egon Schiele e la sua famiglia.
Oggi. Se per certi aspetti anche il diondersi dell'HIV e dell'AIDS può considerarsi una sorta di pandemia, in questi giorni è sicuramente il Covid-19, con le sue incognite e la sua rapidissima diusione, a preoccuparci di più. Per sdrammatizzare, ma anche per invitarci a rispettare semplici regole comportamentali, ci viene in aiuto anche l'arte: è già virale infatti il murales di TvBoy, noto street artist italiano, autore de «L'Amore ai tempi del Covid-19», versione con Amuchina e mascherina dell'iconico bacio di Hayez.
Coronavirus, l’emergenza che ricorda quella notte di 19 anni fa. Pubblicato lunedì, 16 marzo 2020 su Corriere.it da Tommaso Labate. «Sono passati diciannove anni da quella notte. Te lo ricordi?». Di fronte alle comunicazioni quotidiane del governo Conte sulla guerra al Coronavirus, alcuni dei componenti del governo Berlusconi in carica nel 2001 – alcuni, non tutti, la maggioranza di essi è rimasta all’oscuro - stanno rivivendo i traumi della clamorosa storia che andò in scena tra Palazzo Chigi, l’Ospedale Spallanzani e l’aeroporto di Ciampino ben diciannove anni fa. Una storia rimasta nascosta, coperta e secretata ai massimi livelli fino a oggi. Se fosse un film si chiamerebbe «2001, attacco batteriologico all’Italia». Ma per quanto assomigli tantissimo a un film, nulla di tutto questo è stato un film. Anche se gli ingredienti della spy story (avvertenza, a lieto fine) ci sono tutti, con tanto di personaggi che però non sono di fantasia. Ma veri, in carne e ossa. Due i protagonisti. Gianni Letta, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio, che si precipita nottetempo all’Ospedale Spallanzani per organizzare tamponi, terapie intensive e posti letto in vista di un attacco terroristico all’Italia. E Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, che compra dalla Svezia e dalla Svizzera una partita di oltre duecento milioni di euro di vaccini anti-vaiolo. Sullo sfondo, le massime cariche dello Stato che trattengono il fiato e organizzano la difesa di emergenza da un attacco terroristico al limite del fantascientifico. La storia, ricostruita dal Corriere accedendo alla testimonianza di fonti qualificate e testimonianze dirette, ha un preambolo noto a tutti. L’11 settembre 2001, l’attacco alle Torri Gemelle con Al Quaeda che tenta di mettere sotto scacco le democrazie occidentali. All’interno dei Paesi del G7, organismo nel quale l’Italia gestiva i dossier relativi a «terrorismo e flussi finanziari», si moltiplicano i segnali di allarme. Le minacce captate dai servizi segreti sono praticamente all’ordine del giorno, in quell’autunno 2001. Si esce dalla routine quando, qualche settimana dopo l’attacco alle Torri Gemelle, si materializza una minaccia concreta di attacco terroristico all’Italia. «Un attacco con il virus del vaiolo diffuso attraverso le condutture dell’acqua», ricostruiscono le fonti. La soffiata viene considerata degna di attenzione. Scatta un protocollo di difesa che, probabilmente, aveva pochissimi precedenti nella guerra al terrorismo e forse nessun precedente nella storia della Repubblica. E due protagonisti che si muovono nell’ombra sapendo che il loro tempo a disposizione è poco, pochissimo. Giulio Tremonti e Gianni Letta si dividono i compiti. Il primo riesce nell’impresa disperata di garantirsi – non senza fatica – due incredibili «partite» di vaccino contro il vaiolo, acquistate una in Svezia e l’altra in Svizzera. Il secondo esce da Palazzo Chigi e, nottetempo, si materializza in prima persona all’ospedale Spallanzani per organizzare la resistenza sanitaria nel caso qualcosa non vada per il verso giusto. Il tutto senza cedere a isterismi, tenendo presente che una fuga di notizie è in grado di paralizzare il Paese. Nell’arco di qualche ora, la resistenza del governo italiano al probabile attacco è organizzata. Due Hercules decollano dall’aeroporto di Ciampino per ritornare in patria con il carico di vaccini. Lo Spallanzani, intanto, è stato organizzato come se fosse un ospedale di guerra. I servizi di sicurezza avrebbero fatto il resto per «fermare» i terroristi. Ma quella partita di vaccini anti-vaiolo ancora nella disponibilità dello Stato italiano, oltre alla prontezza di riflessi di chi ancora oggi ricorda l’episodio, è ancora considerata un segnale di efficienza italiana nella sfida a un nemico invisibile. Anche se i protagonisti che oggi ricostruiscono quelle ore terribili si scambiano commenti partendo da una frase che sembra una frase di circostanza: «Sono passati diciannove anni da quella notte. Te la ricordi?».
Quando la malaria uccideva in Sardegna. Terzana, quartana, perniciosa. Le febbri portate dalla zanzara anofele ha fatto strage per millenni con epidemie, prima di stabilirsi in alcune aree. In Italia l'isola dei Quattro Mori ha pagato il prezzo più alto. Fino all'intervento nel 1946 della Fondazione Rockfeller, del Ddt. E della Cia. Gianfranco Turano il 05 maggio 2020 su L'Espresso. La malaria è una delle malattie infettive più antiche della storia umana. Presente almeno dal Neolitico è testimoniata nei testi cinesi di tremila anni fa, in quelli indiani di venticinque secoli fa e nell'Iliade di Omero. Colpiva in Egitto, come è stato possibile osservare dalle milze ingrossate di alcune mummie, inclusa quella del faraone Tutankhamon (1333-1323 a.C.), e in Mesopotamia dove gli astronomi la collegano all'apparizione in cielo di Sirio, la stella del Cane. Nel V secolo a.C. se ne occupa il padre della medicina, il greco Ippocrate, e in seguito diventerà un'ossessione per i romani circondati dagli stagni malsani dell'agro pontino e romano tanto da essere considerata uno dei fattori della caduta dell'Impero. È stata la malattia dei banditi e dei latitanti perché creava zone così infette da costituire la migliore difesa per chi sfuggiva la giustizia. Chiamata febbre autunnale, perniciosa, romana o paludismo, è detta anche terzana – maligna o benigna - oppure quartana, secondo una supposta ricorrenza di attacchi febbrili molto violenti ogni tre oppure ogni quattro giorni. Nella Toscana medievale viene ribattezzata mal'aria o malaria in onore della teoria miasmatica che fino alle soglie dell'età contemporanea la associa alle esalazioni provenienti in particolare dagli stagni costieri. In realtà, la malaria è una malattia zoonotica cioè si trasmette all'uomo da altre specie animali, come il Cov-Sars-2. All'origine non c'è però un virus Rna o un batterio ma una delle varietà del Plasmodium, un protozoo parassitario presente anche negli uccelli e nelle scimmie che viene diffuso dalle zanzare, in particolare dall'anofele. Arrivata dal Nordafrica, l'anofele diffonde il plasmodium falciparum, quello della terzana maligna che è la forma più letale. Inizialmente epidemica, la malaria si insedia in modo endemico nei luoghi che garantiscano all'anofele un habitat confortevole, ricco di depositi di acqua stagnante dove le zanzare proliferano con milioni di larve. La malaria ha infestato e infesta gran parte del mondo. Questa è una breve storia di come è stato debellato il morbo in Sardegna.
Antefatto. A partire dai secoli VII-VI avanti Cristo, Cartagine, una colonia fenicia nata sul territorio dell'odierna Tunisia, inizia a espandersi verso Nord nel bacino del Mediterraneo sulle rotte tracciate dai suoi fondatori, arrivati da Tiro (Libano). I cartaginesi, che si espanderanno fino a essere la maggiore potenza marittima prima dei Romani, invadono la Sardegna. È tutt'altro che una passeggiata perché le popolazioni sardo-nuragiche impegnano in due guerre la città-stato africana che deve limitarsi a un'influenza commerciale attraverso i suoi avamposti (Cagliari, Nora, Tharros). Con gli eserciti invasori arriva anche l'anofele. La zanzara inizia una convivenza mortale con l'uomo destinata a durare fino al secolo scorso e a cambiare faccia alla seconda isola più grande del Mare nostrum.
Età moderna. La vocazione agricolo-pastorale della Sardegna coincide con un'opera di deforestazione e di abbandono della linea costiera che favorisce la diffusione dell'anofele. Nei testamenti i figli minori sono quelli che ereditano le terre vicino al mare, le stesse che diventeranno una sorgente di ricchezza a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Le spiagge fra le più belle del Mediterraneo e gli stagni naturali dove svernano i trampolieri sono luoghi di morte per chi osa avvicinarsi. Il disboscamento continua a ritmo accelerato in età moderna quando l'Isola dei quattro mori diventa il principale fornitore di legno da traversine per le ferrovie che si sviluppano in continente e molto meno in Sardegna, proprio per la difficoltà di organizzare lavori nelle zone paludose. Dopo l'Unità d'Italia il senatore e ministro dell'Agricoltura (1864-1865) Luigi Torelli, valtellinese ex combattente delle Cinque giornate di Milano, inizia a occuparsi della malaria e delle bonifiche nelle aree a maggior rischio. Sono anni in cui i morti causati dal Plasmodium falciparum in Sardegna sono duemila all'anno in media. Nell'isola, dove vive un italiano su quaranta, c'è un morto su cinque del totale nazionale. Torelli prende a cuore l'endemia e nel 1882, a 72 anni, pubblica la Carta illustrata della malaria in Italia. Le zone rosse dell'isola occupano gran parte dei 1849 chilometri di costa ma anche aree interne. Il cagliaritano, l'alto Campidano, la bassa Gallura, la Nurra (Alghero-Sassari) sono le zone più infestate. Alla fine dell'Ottocento, la malaria è presente in 316 comuni della regione su 364 (87%).
L'intervento della scienza. Ma i tentativi di bonifica vanno a vuoto. Solo in quegli anni la biologia e la medicina iniziano a dare indicazioni più precise dopo migliaia di anni di strage. Nel 1880 il medico francese Alphonse Laveran, Nobel nel 1907, scopre il parassita responsabile delle febbri. Nel 1885 il bresciano Camillo Golgi (Nobel 1906) inizia i suoi studi sul ciclo del plasmodium nel sangue. Nel 1897-1898 il britannico Ronald Ross e l'italiano Giovanni Grassi arrivano contemporaneamente a scoprire il parassita nell'anofele, che lo succhia dall'uomo e lo inietta ad altri uomini. Grassi e Ross diventano rivali per il primato in un crescendo polemico che sfiora l'incidente internazionale e che si concluderà con il Nobel a Ross nel 1902. Si muove anche lo Stato italiano che nel 1884 inizia la bonifica dell'Agro romano con la manodopera ravennate che riporterà alla luce Ostia antica. Nel 1895 è messo in vendita nelle tabaccherie a prezzo politico il chinino. L'estratto della corteccia di Cinchona, albero originario del Perù che dal Seicento è l'unico argine efficace a terzana e quartana, viene prodotto dai Monopoli a Torino. La sua diffusione dimezza in un decennio i 16 mila morti del 1895.
L'età delle bonifiche. Nel 1924 Benito Mussolini rilancia il tentativo di estirpare la malaria attraverso la bonifica idraulica, ottimamente raccontata da Canale Mussolini di Antonio Pennacchi. Le terre bonificate intorno a Littoria (Latina) vengono assegnate ai contadini veneti e romagnoli. Anche in Sardegna c'è un tentativo di bonifica meno pubblicizzato perché meno efficace che lascia traccia con la fondazione di Mussolinia (oggi Arborea in provincia di Oristano) abitata dai coloni veneti e di Fertilia nel sassarese con i coloni ferraresi. Arrivano novità importanti anche dagli studi chimici. Nel 1934 in Germania la Bayer sintetizza la clorochina, potente antimalarico applicato anche nella terapia contro il Covid-19. Nel 1939 il chimico svizzero Paul Müller, in servizio ai laboratori Geigy, scopre i poteri insetticidi del diclorodifeniltricloroetano o Ddt. L'invenzione di Müller (Nobel nel 1948) attraversa subito l'Atlantico e diventa lo strumento principale per il programma di lotta alla malaria in Brasile della Rockfeller foundation, creata dalla famiglia proprietaria della Standard Oil. L'intervento nel paese sudamericano passa per l'uso combinato di insetticidi in due fasi. Nella prima vengono aggredite le zanzare con disinfestanti a base di piretro. Nella seconda fase il Ddt distrugge le larve. Alla fine del biennio 1939-1940, quando gli Usa non sono ancora in guerra con l'Asse, la Fondazione Rockfeller annuncia lo sradicamento della malaria dal Brasile con grande gioia dell'industria statunitense che trova maggiori possibilità di sviluppo nel gigante sudamericano.
Sardinia Project. Dopo l'attacco giapponese del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor, gli Usa fanno conoscenza con avversari militari temibili sul fronte del Pacifico meridionale. Su quel fronte c'è un nemico in più. È la malaria che infetta centinaia di migliaia di soldati. Per l'esercito di Washington il chinino diventa una dotazione essenziale quanto le munizioni finché nel 1942 i giapponesi strappano agli olandesi l'isola di Giava, maggiore produttore, e costringono le truppe di Roosevelt a servirsi di farmaci di sintesi: la clorochina e la quinacrina. Alla fine della guerra, la Fondazione Rockfeller ha un nuovo obiettivo sanitario e geopolitico. In collaborazione con il governo dell'Italia repubblicana, con l'Eca, la finanziaria del piano Marshall, con l'Erlaas (l'ente sardo per la lotta all'anofele) e l'Unrra, l'agenzia Onu per la ricostruzione, viene lanciato il Sardinia Project con lo slogan “today Sardinia, tomorrow the world”. Oltre all'obiettivo umanitario, gli Stati Uniti hanno inquadrato la Sardegna come punto d'appoggio strategico nel Mediterraneo anche se l'isola era rimasta ai margini nell'ultima fase della Seconda guerra mondiale e le forze tedesche della 90 Panzer Division avevano abbandonato l'area il 17 settembre 1943, nove giorni dopo l'armistizio. A gennaio del 1944, con l'isola liberata dai nazifascisti, viene nominato commissario governativo il generale Pietro Pinna Parpaglia che rimarrà in carica anche dopo la fine della guerra. Nello stesso anno l'esercito Usa fa i suoi primi test a base di Ddt nell'agro romano, alla foce del Tevere, e più a sud verso la zona pontina, a Castel Volturno. Sono esperimenti di breve durata perché la guerra contro la Wehrmacht infuria. Il Sardinia Project è avviato nel 1946, l'anno dopo l'armistizio, con la doppia fase (zanzare prima, larve poi) già sperimentata in Brasile. I finanziamenti sono considerevoli, nell'ordine di qualche decina di miliardi di euro, attualizzati ai valori di oggi. Il generale e commissario Pinna Parpaglia è affiancato dal malariologo Alberto Missiroli dell'Istituto superiore di sanità (Iss). La campagna antimalarica, documentata dal fotografo Wolf Suschitzky, dura cinque anni contro i due impiegati in Brasile su un'area molto più ampia. Fra le difficoltà ci sono le prime avvisaglie degli effetti collaterali sull'ambiente e sugli esseri umani del Ddt, che negli anni del dopoguerra viene impiegato dovunque in Italia e quantità enormi. A rallentare i lavori contribuiscono i banditi sardi che si vedono sottrarre terreni un tempo inaccessibili e che rapinano spesso i mezzi di carico e i portavalori dell'Erlaas.
Nel 1951 la Rockefeller Foundation dichiara estirpata la malaria dalla Sardegna.
Un anno dopo accade un fatto destinato a rimanere ignoto al pubblico fino alla metà degli anni Ottanta.
Nel 1952 il generale Ettore Musco viene nominato alla guida del Sifar, il servizio segreto unico della Repubblica. L'ufficiale è l'animatore dell'Armata italiana della libertà, nata pochi anni prima nel contesto della Guerra fredda e in funzione anticomunista.
Nel 1953 Musco e due soci iniziano a rallestrare i terreni nella zona di Torre Poglina a sud di Alghero, in una zona che nella mappa della malaria del senatore Torelli era segnata con un rosso acceso.
È un'operazione riservatissima condotta su disposizione della Cia che finanzia e realizza su quei terreni la base militare segreta di Capo Marrargiu. Se ne farà cenno a proposito dei 731 “enucleandi” del Piano Solo (1964), il golpe tentato dal generale Giovanni De Lorenzo, successore e rivale di Musco.
Nel 1985 si saprà che la base è il punto di riferimento operativo dell'organizzazione Stay behind meglio nota come Gladio.
Vittime illustri. La malaria vanta un elenco di vittime illustri che ha pochi rivali fra le malattie infettive. Il primo e forse il più famoso che soccombe alle febbri è Alessandro il Macedone (323 a.C), anche se esistono varie ipotesi sulla causa del suo decesso a soli 33 anni sulle rive dell'Eufrate. La presenza dell'infezione nei dintorni di Roma, dove falcidia i pellegrini arrivati dalle consolari e dalla Francigena, ne fa una sterminatrice di papi, molti dei quali convinti dai medici che l'aglio e il vino siano rimedi efficace.
Muoiono Innocenzo III (1216), organizzatore della crociata contro catari e albigesi, Leone X de' Medici (1521), il papa delle indulgenze, di Martin Lutero e di Niccolò Machiavelli. Nel 1590 muoiono prima Sisto V, che aveva tentato una bonifica delle paludi pontine, e poi il suo successore Urbano VII, che conserva l'infelice record del pontificato più breve della storia (12 giorni).
Nel 1558 la terzana uccide Carlo V, monarca asburgico alla guida del Sacro Romano Impero.
Muore di malaria durante il suo esilio a Ravenna il più grande poeta italiano, Dante Alighieri (1321). Non lontano, a Mandriole, l'anofele che infesta il delta del Po e le valli di Comacchio uccide a 27 anni Anita Garibaldi (1849), la moglie brasiliana dell'Eroe dei due mondi che sta fuggendo dal disastro della Repubblica romana. È un dramma storico-sentimentale che segna l'epopea dell'unificazione d'Italia.
Sessant'anni fa, il 2 gennaio 1960, i giornali raccontano la tragedia di un altro eroe popolare. Si spegne in pochi giorni Fausto Coppi, il più grande ciclista italiano.
Il 13 dicembre 1959 il “campionissimo” è andato in Africa per correre il criterium dell'Alto Volta (oggi Burkina Faso). Coppi, che corre per una squadra diretta dall'amico-rivale Gino Bartali, ha 40 anni e ha già annunciato il ritiro a fine stagione.
Alla fine della gara, vinta da Jacques Anquetil, Coppi si ritira nella stanza d'albergo dove dorme con il compagno Raphäel Géminiani. Anche l'italofrancese contrae la malaria quella notte ma a Parigi se ne accorgono e lo ricoverano immediatamente. Coppi non accusa grandi sintomi fino a dopo Natale, quando è costretto a letto dalla febbre altissima.
Quando Géminiani si sveglia, dopo otto giorni di coma il 5 gennaio, il suo capitano è già morto.
La lotta continua. Cinque anni prima, nel 1955, mentre Coppi dà scandalo ai bigotti per la sua relazione adulterina con la “Dama Bianca”, l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms-Who) lancia la campagna mondiale definitiva contro la malaria. Nel 1969 deve annunciare la rinuncia alla vittoria su scala globale ma nel 1970 dichiara la Sardegna libera dalla febbre delle paludi. Oggi la battaglia contro la malaria è tutt'altro che finita. Il morbo si è concentrato nelle zone più povere dell'Africa, con effetti disastrosi. I dati più aggiornati dell'Oms risalgono al 2018. I casi di malaria nel mondo sono stati 228 milioni contro 3,3 milioni di casi di Covid-19 a oggi. I morti causati dal Plasmodium sono 405 mila e il 2018 è andato quasi bene rispetto a punte di 600 mila morti annuali. Il 93% dei casi e il 94% dei decessi sono avvenuti in Africa. Al contrario di quanto accade con il Corona virus, il 67% dei morti (272 mila) sono bambini al di sotto di cinque anni. Dopo essersi immunizzata al Ddt, l'anofele ha mostrato capacità straordinarie di immunizzarsi ai farmaci. Il resto lo fa povertà.
1918 LA GRANDE PANDEMIA. Elena Fontanella il 25 aprile 2020 su Il Giornale.
11 novembre 1918. Riuniti all’interno di un vagone ferroviario i rappresentanti delle nazioni vincitrici siglano le condizioni di pace della Grande Guerra. In quei mesi l’Europa è già stretta nella morsa di un virus influenzale che di lì a poco avrebbe scatenato una pandemia universale. Il focolaio che nel 1918 ebbe luogo nella neutrale Spagna – da cui prese il nome – dimostrò fin da subito un potere invasivo mai visto prima causando tassi di mortalità impensabili. Dalla Spagna (che contò 8 milioni di morti) il virus si diffuse subito al fronte di guerra attraverso l’invio di animali da soma e da macello, propagandosi prima nelle trincee francesi, poi negli accampamenti militari sovraffollati. I soldati che lasciavano le linee nell’ultimo anno di guerra facilitò il diffondersi della pandemia alla popolazione civile. La velocità di diffusione del virus e l’intensità non permisero mai di valutare con precisione l’origine del contagio. Chi ritenne provenisse dalla Cina, chi da laboratori batteriologici attivi durante la guerra sul fronte tedesco, chi dai 9 mila soldati del campo americano di Funston in Kansas che, decimati dall’influenza, il 29 settembre raggiunsero ugualmente il porto di Brest in Francia a bordo del Leviathan. In ogni caso già nell’agosto del 1918 il virus era comparso pressoché simultaneamente in Europa, negli Stati Uniti e sulla costa occidentale dell’Africa sfruttando il contagio tra soldati, mentre in altre zone del mondo arrivò attraverso le imbarcazioni commerciali. In un solo mese, comunque, raggiunse i due terzi della popolazione del mondo uccidendo il 3% dei contagiati. Un quinto della popolazione di tutto il mondo fu colpita dalla malattia che si propagò in due ondate nel 1918 e nel 1919 con un tasso di mortalità tra lo 0,5 e l’1,2 % (circa 22 milioni di morti o forse molti di più vista la difficoltà di registare i morti in alcune parti del mondo). Si diffuse con maggior virulenza nei territori in cui non era mai comparsa una malattia influenzale: in USA moriva lo 0,5 % mentre a Samoa il 25% e interi villaggi di eschimesi in Alaska furono decimati. L’apice del contagio fu nel settembre del 1918: in Italia nel solo mese di settembre morirono 375 mila persone (Torino epicentro con 400 morti al giorno). Come oggi il numero di bare e luoghi di sepoltura non era sufficiente. Il lavoro già danneggiato dalla guerra si fermò. L’economia mondiale entrò in crisi. Il resto è storia. Anche se il virus è universalmente presente in natura con bassi tassi di mutazione, l’esperienza lasciò radicato un timore di attacco batteriologico che si protrasse fino alla Seconda Guerra Mondiale. Lo sviluppo su entrambi i fronti di laboratori epidemiologici usati come arma contro il nemico fecero prendere coscienza del potere dei virus. Dal 1946 – estendendo una precedente organizzazione militare per il controllo della malaria – fu creato ad Atlanta il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) in stretta relazione con il timore post-bellico di un attacco biologico. Nel 1951, durante la Guerra Fredda, fu creato l’Epidemic Intelligence Service (Servizio segreto epidemiologico), una specie di CIA della medicina che formava medici e funzionari sotto il controllo del CDC assegnati a ospedali e dipartimenti sanitari americani per fronteggiare eventuali attacchi. Nel corso del XX secolo due epidemie su virus identificati impegnarono gli organismi mondiali sul rischio pandemia: l’H2N2 che uccise un migliaio di persone in Asia nel 1957 e l’H3N3 che nel 1968 colpì Hong Kong. Nel 1997 sempre Hong Kong si trovò a che fare con un nuovo virus influenzale di tipo H5N5 (influenza aviaria) che non corrispondeva a ceppi conosciuti. Nel novembre di quell’anno l’umanità si trovò nuovamente di fronte al rischio di rivivere la pandemia del 1918. L’episodio virale rimase circoscritto ma dimostrò il rischio che correva l’umanità.
L’enigma Spagnola: ne uccise 50 milioni e poi sparì nel nulla. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 9 maggio 2020. L’INFLUENZA ARRIVÒ ALLA FI NE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE, COLPÌ I PIÙ GIOVANI E PIÙ SANI, PER I VIROLOGI E I BIOLOGI RIMANE UN MISTERO ASSOLUTO. In questo periodo, si fa spesso riferimento alla Sars (Severe Acute Respiratory Syndrome, tra il 2002 e il 2003) e alla Mers ( Middle East respiratory syndrome, tra il 2012 e il 2014), entrambe causate da un coronavirus, come questa pandemia che in realtà non ha ancora un suo nome proprio, ma solo l’individuazione dell’agente patogeno, il covid- 19 ( COronaVIrus Disease 19), e dall’associazione con la precedente Sars questa sarebbe la SARS- CoV- 2, e perciò dovremmo anche rinominare quella come SARS- CoV- 1.
Però, pure la Mers era una sindrome respiratoria acuta ( anzi, con un tasso di letalità fino a quasi il 50 percento – alcuni dicono del 65 percento – benché appunto geograficamente circoscritta e colpisse anche, ma non sempre, l’apparato digerente) mentre, per dire, la Sars 1 ce l‘ aveva del 10 percento. La nostra quindi, più propriamente, dovrebbe essere la SARS- CoV- 3. I nomi sono importanti. Per dire: l’aviaria, la mucca pazza, la suina, l’asiatica, la spagnola – questi sono nomi. Pur essendo un virologo di chiara fama ( oh, non è vero), come molti miei colleghi però nulla so con assoluta certezza riguardo il meccanismo della trasmissione – per la Sars 1 si presuppone, ripeto: si presuppone, un passaggio dal pipistrello agli zibetti e poi all’uomo e poi intra-umana, per la Mers il passaggio da pipistrelli a datteri e cammelli ( alcuni dicono i dromedari – magari è solo un problema di traduzione, dato che “camel” indica sia il cammello propriamente detto che il dromedario) e poi all’uomo e poi intra- umana, ma sono ipotesi – e non è stato sviluppato alcun vaccino né per l’una né per l’altra, e si è tentato eh ma senza successo. Per questo nostro virus c’è chi parla di una zoonosi tra pipistrello e serpente prima di saltare addosso all’uomo. La Sars si estinse da sola nel luglio del 2003, invece la Mers è ricomparsa in Corea nel 2015, provocando morti. Per la Mers, peraltro, si avanza l’ipotesi che fosse in circolazione da almeno sette- otto anni prima di assumere un carattere di forte virulenza. Ma la Mers contagiò solo 842 persone nel mondo e ne uccise 322. E la Sars 1 ne contagiò 8.465 e fece 801 morti. Si dice che proprio questi numeri piccoli non abbiano consentito la scoperta di un vaccino – troppi pochi riscontri, troppi pochi gli studi. Sarà. Ma qui ora siamo su altre “economie di scala”. Sarebbe piuttosto il caso di riflettere su quella che è stata la prima vera pandemia del XXI secolo, e cioè l’influenza suina ( Swine flu), sviluppatasi nel 2009, benché derivante da un virus H1N1, quello della “normale” influenza A – che dovrebbe, ripeto: dovrebbe, essere nata in un piccolo villaggio del Messico con un’alta concentrazione di allevamenti di maiali, dove avrebbe, ripeto: avrebbe, infettato un bambino e via così: ci furono più di un milione e mezzo di casi nel mondo ( soprattutto in America) e quasi ventimila morti. Secondo l’università di Pittsburgh il virus della Swine flu sarebbe una riedizione del virus del 1918 (in verità c’è chi dice che tutte le pandemie dell’influenza A, eccetto i virus dell’aviaria H5N1 and H7N7 discendano dal virus del 1918, inclusi H2N2 e H3N2 – anche se la comparsa dell’H2N2 responsabile dell’asiatica nel 1957 aveva “tolto dai radar” l’H1N1, almeno nella circolazione umana mentre sopravviveva nei maiali, ricomparso poi nel 1977). E ci accompagna ormai dagli anni settanta con regolarità. Non abbiamo un vaccino specifico, ma il vaccino contro l’influenza del 2010- 11 sembra funzionare. Vi inviterei perciò a questo punto a ragionare sull’unica pandemia con la quale possiamo riscontrare elementi storici – storici, non eziologici – comuni, che è la cosiddetta “spagnola” – ora è un secolo dalla sua esplosione – che qualcuno ha definito “la madre di tutte le pandemie”: 50 milioni di persone morte in tutto il mondo e almeno mezzo miliardo di contagiati – eravamo due miliardi, al tempo. La spagnola peraltro si chiamò così, come è noto, non perché ebbe origine in Spagna o perché lì ebbe particolare virulenza, ma perché la Spagna fu la prima nazione a dare notizie dettagliate del contagio e dell’epidemia ( anche il re Alfonso XIII ne fu colpito) non partecipando alla prima guerra mondiale, mentre tutte le altre nazioni si guardavano bene dall’informare temendo che potesse in qualche modo denunciare la propria debolezza ( possiamo dire che i ritardi nel comunicare sono una costante storica? possiamo dirlo) e così si pensò che l’origine fosse stata la Spagna. Come tutte le balordità spicce, rimase. Bene, cosa sappiamo della spagnola sulla quale si è misurato il fior fiore delle accademie scientifiche del mondo – a oltre un secolo? La risposta è questa di qua: « Many questions about its origins, its unusual epidemiologic features, and the basis of its pathogenicity remain unanswered » [ Jeffery K. Taubenberger ( Armed Forces Institute of Pathology, Rockville, Maryland, USA) and David M. Morens ( National Institutes of Health, Bethesda, Maryland, USA): 1918 Influenza: the Mother of All Pandemics]. Unanswered. Siamo senza risposte certe. La mattina del 4 marzo 1918 l’addetto al rancio Albert Gitchell si presentò nell’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con mal di gola, febbre e mal di testa. All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero di malati crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo dovette requisire un hangar per sistemarli tutti. A distanza di 100 anni dalla pandemia, non è assolutamente certo che Gitchell sia stato effettivamente il primo uomo a ammalarsi. C’è chi ritiene che l’infezione abbia avuto origine in America, nella contea di Haskell, altri in Francia, all’ospedale di Étaples, in Austria, altri ancora in Cina. Altri ancora che avesse viaggiato “dentro” un centinaio di migliaia di cinesi che arrivarono a lavorare dietro le linee del “fronte occidentale” ( possiamo dire che le ricerche sul “paziente zero” abbiano sempre una costante storica di natura geopolitica?). L’epidemia esplose più o meno simultaneamente in tre ondate in tre distinti distretti geografici ( Europa, America, Asia) e sia l’analisi storica che epidemiologica non permette con certezza di identificare l’origine geografica del virus e anche la mappatura del genoma del virus responsabile dell’epidemia del 1918 non lo colloca in un contesto geografico preciso. Le tre ondate – la prima del marzo 1918, la seconda, più fatale, dell’autunno, la terza nell’inverno 1918- 1919 – erano state precedute da influenze nel 1915 e 1916, che non produssero mortalità così gravi anche se furono molto estese. È possibile che il virus del 1918 fosse una “deviazione” dei virus precedenti? Il contro- argomento è che se così fosse – data l’estensione delle precedenti epidemie – molte persone sarebbero già state immuni del tutto o parzialmente. Così non fu. Ulteriori analisi ci dicono che la cosa curiosa è che sia gli umani che i suini furono colpiti contemporaneamente – Camp Funston, in Kansas, era in una località zeppa di allevamenti di maiali – e che il genoma lascia trasparire una somiglianza con le influenze aviarie. In breve, non si ha alcuna certezza sull’origine. Da dove arrivò quel virus? Ancora più sorprendente è la vicinanza delle ondate, una cosa senza precedenti nello sviluppo “normale” delle influenze, considerando anche che la prima esplosione accadde in un tempo sfavorevole ( primavera- estate) al contagio. Un’influenza che si sarebbe dovuta “spalmare” su due- tre anni, quindi tre influenze concentrate invece in 12 mesi. E poi: perché la prima ondata – non letale come la seconda, ma diffusissima – non creò immunità tale da resistere alla seconda e alla terza? Forse, il virus responsabile della seconda ondata era una mutazione del primo? Mistero. La cosa ancora più unica della pandemia del 1918 fu che colpì soprattutto, per mortalità, la fascia d’età tra i 20 e i 40 anni – giovani e adulti in piena forza vitale – quando l’andamento delle influenze ha in genere una forma a U, colpendo i più piccoli e i più anziani. Come è potuto accadere? Si è avanzata l’ipotesi che precedenti pandemie intorno al 1880 abbiano creato forme di immunità in chi era già nato, lasciando così “scoperti” quelli che erano nati negli anni successivi. Ma se fosse vero, come è possibile che un virus scompaia letteralmente per tre decenni e poi riappaia all’improvviso dopo più di trent’anni? Mistero. La riproduzione in laboratorio delle caratteristiche genetiche del virus responsabile della spagnola sorprendentemente risulta sensibilissimo ai normali farmaci da influenza. E allora, perché fu così letale? Quelle tre caratteristiche uniche – una particolare aggressività rispetto il tratto respiratorio ( con tempesta di citochine), la fascia di età particolarmente giovane e in salute, le ricorrenze di ondate così concentrate in un periodo abbastanza ravvicinato piuttosto che in due, tre anni – fanno della pandemia spagnola del 1918 davvero una storia “straordinaria”. Potrebbe ripresentarsi? Se accadesse, secondo calcoli e proiezioni, nonostante si sia molto più avanzati ( sic!) tecnicamente – ma il vaccino Pfeiffer che veniva inoculato non serviva assolutamente a nulla, benché intere schiere di medici fossero convinti della sua efficacia – farmacologicamente – è stabilito come certo che una parte dei decessi della spagnola è da attribuire all’abuso di aspirina, che veniva somministrato anche in dosi da un grammo l’ora, dose che ora sappiamo letale – e come capacità sanitaria ( ari- sic!), ci sarebbero cento milioni di morti. I dati di mortalità della spagnola sono impressionanti: solo in India, si stima che morirono circa 17 milioni di persone. Fu per le scarse condizioni igieniche? Non lo credo, credo piuttosto alle grandi concentrazioni umane – proprio come accadde per le trincee e gli ospedali militari da campo che si rilevarono luoghi d’ecatombe – e nel caso dell’India, dell’Iran, delle isole nel Pacifico o dell’Africa, è possibile pensare a una minore risposta immunitaria. Fu per le condizioni di regime alimentare, di povertà? Beh è difficile pensarlo, quando la curva dei decessi si stabilì in fascia d’età sana e vigorosa e soprattutto tra i militari che, di sicuro, godevano di razioni non proprio miserabili. Dopo la letale seconda ondata verso la fine del 1918, il numero di nuovi casi diminuì bruscamente, fino a quasi annullarsi. L’ipotesi più ragionevole – accantonando quello della migliore risposta medica nella prevenzione e cura, che non sta in piedi – è che il virus del 1918 abbia subito una mutazione rapida verso una forma meno letale, un evento comune nei virus patogeni, poiché gli ospiti dei ceppi più pericolosi tendono a estinguersi. Il virus aveva fatto troppi morti e rischiava di morire con noi. Che cosa possiamo imparare in termini storici, che ci torna ancora utile? La chiusura, il lockdown, il blocco totale funzionò dove il virus non era mai arrivato – all’isola di Sant’Elena, nelle Samoa americane, nel Rio delle Amazzoni. Ma dove il virus già circolava – e forse da anni – era una misura assolutamente inutile ( se non si sa quando tutto è cominciato, che senso ha chiudere le porte della casa quando l’assassino è già entrato?) I dispositivi sanitari hanno un ruolo relativo: il personale medico morì a iosa – e seguivano tutti le minime regole ancora oggi vigenti: lavarsi le mani, indossare mascherine e guanti, praticare una certa distanza. Non è assolutamente detto che arriveremo a produrre un vaccino – e probabilmente non ce ne sarà più bisogno al momento in cui si riuscisse. Non è possibile immaginare se il virus produrrà una seconda o una terza o una quarta ondata: paradossalmente, più gli impediamo di circolare più diventa aggressivo e sta in agguato. Anche l’immunità di gregge può essere una chimera – una volta raggiunta, niente impedisce al virus di mutare e tornare più aggressivo di prima, anche se a conti fatti è l’unica vera resistenza umana contro i virus. I virus sono più forti di noi: come ognuno sa, nel nostro codice genetico ci sono intere sequenze virali, “memoria” di terribili pandemie trascorse fin dall’alba dell’uomo. Quello su cui possiamo agire sono le strutture sanitarie, la cura degli uni verso gli altri, l’attenzione e la sensibilità all’ambiente e alla natura, di cui siamo parte integrante. Ma “la natura” non è la salvezza. La salvezza sta in una presenza responsabile dell’uomo dentro la natura. Di cui, anche i virus – e i loro diversi ospiti – fanno parte. Eradicare i virus è un po’ come pensare di eradicare l’umano.
Coronavirus, il precedente di San Francisco che gettò le mascherine e riaprì troppo presto dopo la “Spagnola”. Il Corriere della Sera il 19 aprile 2020. Quel 21 novembre del 1918 a San Francisco non lo hanno mai dimenticato. La Grande Guerra era terminata da una decina di giorni e tutti avevano una gran voglia di festeggiare. Alle dodici in punto, con il potente fischio della sirena di una nave, il sindaco James Rolph diede il segnale tanto atteso a tutta la popolazione della baia. La terribile influenza spagnola che aveva fatto meno vittime nella città californiana rispetto a qualsiasi altra metropoli degli Stati Uniti era passata. Fine delle restrizioni, delle chiusure, delle sospensioni di spettacoli e corse dei cavalli. Alle 12 in punto gli abitanti di San Francisco si affollarono in tutte le strade del centro per gettare via tutti assieme le mascherine che avevano portato per settimane. Si liberarono degli odiati presidi medici e iniziarono a ballare nelle strade. Una festa che non si vedeva da parecchio tempo, ma che era del tutto prematura, come si accorsero le autorità sanitarie nel giro di poche settimane. Alla fine dell’inverno, la città della baia risultò essere stata la più colpita dal micidiale morbo che in tutti gli Stati aveva fatto registrare quasi settecentomila morti. Il lockdown a San Francisco era stato quasi immediato, dopo il primo caso (importato da Chicago, pare) attorno al 20 settembre del 1918. Il 18 ottobre venivano mandati a casa gli alunni di tutte le scuole; furono chiusi tutti i locali pubblici, proibiti balli e qualsiasi assembramento. Tre giorni dopo arrivarono le mascherine che ben presto diventarono obbligatorie per tutti. La polizia faceva rispettare le regole con zelo maniacale. Perfino il sindaco Rolph, fotografato mentre assisteva a un incontro di boxe, fu multato dai suoi agenti: cinquanta dollari, cifra non indifferente per l’epoca.
Fino al fatidico 21 novembre, San Francisco aveva avuto 23.639 casi di influenza con 2.122 morti. E le autorità decisero a quel punto, visto il calo drastico di nuovi casi, di riaprire tutto. Scuole, teatri, ristoranti, l’ippodromo. Dopo le dodici, scrisse il San Francisco Chronicle, «i marciapiedi furono coperti dai relitti di un mese di torture», vale a dire le mascherine che tutti gettavano via, come segno della liberazione e della fine di un incubo. Ma l’euforia durò poco e già il 7 dicembre il sindaco fu costretto a dichiarare ufficialmente che l’epidemia era tornata. Questa volta però, la popolazione non accettò di buon grado le nuove restrizioni, come aveva fatto la prima volta con «spirito di guerra», come aveva scritto il Chronicle. Nacque perfino una «Lega anti-mascherine» che tentò di far abolire l’obbligo di indossare strisce di garza su naso e bocca. Una manifestazione pubblica contro le odiate protezioni vide scendere in piazza oltre duemila persone. In poche settimane il totale dei casi d’influenza salì a più di trentamila e i morti arrivarono a tremila. A conti fatti, quando a metà febbraio l’Health Board degli Stati Uniti pubblicò i dati nazionali, venne fuori che la città sul Pacifico aveva pagato il prezzo più alto dell’intero Paese.
Coronavirus, seconda ondata peggiore della prima? Il confronto con l'influenza spagnola. Le Iene News il 12 ottobre 2020. Con l’arrivo dell’autunno in tutta Europa è arrivata anche la seconda ondata di coronavirus: anche l’Italia, ultima tra i paesi del Vecchio continente, sta vedendo i suoi casi esplodere. Ma questa seconda ondata sarà peggiore della prima, come è stato per l’influenza spagnola? Ecco le similitudini e le differenze con la pandemia di cento anni fa. La seconda ondata della pandemia di coronavirus si rivelerà peggiore della prima? La domanda, di fronte alla crescita verticale dei contagi in tutta Europa, comincia a circolare insistentemente, insieme alla paura di ripiombare nell’incubo vissuto a marzo. E anche perché si cominciano a fare paragoni con la seconda ondata pandemica dell’influenza spagnola, che in pochi mesi uccise oltre cinquanta milioni di persone. Ma quali sono le similitudini, le differenze e le lezioni che possiamo imparare da quanto successo cento anni fa? Nel caso dell’influenza spagnola, come detto, la seconda ondata fu molto più grave della prima. Dopo una prima crescita nella primavera del 1918, con l’estate sembrò che il virus fosse sparito. Ma tra settembre e ottobre i casi esplosero improvvisamente, causando in tutto il mondo un numero di morti stimato tra i 50 e i 100 milioni dall’autunno di quell’anno fino alla fine della terza ondata pandemica nel 1920. Uno scenario che suona, per certi aspetti, simile come scadenze temporali e ovviamente molto diverso come numero di morti: per fortuna il coronavirus si è mostrato finora molto meno letale dell’influenza spagnola. I numeri sono così diversi da risultare difficili da comparare, ma il comportamento simile dei due virus è stato sottolineato anche dal direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra a fine giugno: la spagnola infatti “si comportò esattamente come il Covid, andò giù in estate e riprese ferocemente a settembre e ottobre, facendo 50 milioni di morti durante la seconda ondata”, ha detto Guerra il 27 giugno parlando della possibilità che ci fosse una seconda ondata. Seconda ondata che puntualmente è arrivata, prima dai nostri vicini come Spagna e Francia, e adesso anche in Italia. Un’importante lezione che poteva essere imparata e che invece sembra sia stata ignorata. Un’opinione non nostra: "È stato sottovalutato il fatto storico che tutte le pandemie hanno una seconda ondata, più pericolosa della prima". Queste parole, pesanti come macigni, sono state pronunciate da Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute per la pandemia del coronavirus. Resta comunque aperta una domanda: come nel caso della spagnola anche la seconda ondata di coronavirus sarà peggiore della prima? E’ ancora presto per poterlo dire, anche perché i numeri dei contagiati sono inevitabilmente influenzati dalla capacità di test: oggi siamo molto più pronti che a marzo, e se i nuovi positivi salgono rapidamente è anche perché siamo più attrezzati per scovarli. Tuttavia non bisogna sottovalutare la diffusione del virus: ieri sono stati registrati 5.456 nuovi casi. Il giorno record è stato il 21 marzo, con 6.557 positivi. Nell’ultima settimana, i nuovi casi sono stati 29.621 contro la settimana record del 22/28 marzo in cui se n’erano registrati 38.551. Cifre sempre più simili e che probabilmente sono destinate a essere superata, visto l’andamento ascendente della curva epidemica in questo periodo. Dobbiamo insomma aspettarci che in questa seconda ondata il numero di casi registrato sia ampiamente superiore a quello della prima ondata, anche se come detto gioca un ruolo chiave la migliorata capacità di scovare i contagiati. Per quanto riguarda il numero di decessi, invece, siamo fortunatamente molto lontani dai picchi della prima ondata: ieri se ne sono registrati 26, contro il triste record di 919 del 27 marzo. La scorsa settimana sono stati 180, contro i 5.303 registrati dal 22 al 28 marzo. Qui i numeri sono ancora lontanissimi, sebbene in crescita, a ulteriore testimonianza del fatto che oggi scoviamo molti più casi asintomatici o con pochi sintomi grazie alla migliore capacità di effettuare e analizzare i tamponi. Insomma, si può concludere che nella seconda ondata il numero di nuovi casi registrati probabilmente supererà - e non di poco - quello della prima. Esattamente come avvenuto, si stima, nella seconda ondata dell’influenza spagnola. Le vittime invece, se le strutture ospedaliere reggeranno il peso dei numeri crescenti e continueremo a rispettare il distanziamento sociale e l’uso delle mascherine, non dovrebbero tornare a toccare quei picchi. Nel caso della spagnola invece le vittime furono molte di più nella seconda ondata, anche a causa della scarsa preparazione sanitaria comparata a quella odierna e alle conseguenze della Prima guerra mondiale. Con un’ultima avvertenza: l’influenza spagnola ebbe anche una terza ondata, meno forte della seconda ma più forte della prima. In attesa dei vaccini, la raccomandazione è sempre la stessa: usare le mascherine, stare a distanza, lavare spesso le mani. E’ la nostra migliore arma per non dover tornare come a marzo. Con una nota di speranza: Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, ha dichiarato al Corriere che entro un “paio d’anni presumibilmente saremo tornati a una normalità”. Teniamo duro.
Le Pandemie del Novecento e il Coronavirus. Carlo Franza su Il Giornale il 7 ,marzo 2020. Con la pestilenza del Coronavirus che ammorba il mondo, l’Europa e l’Italia, tutti parlano, tutti sanno, tutti hanno da dire la loro. Pochi guardano dentro la storia del passato per capirne di più. Proviamo a declinarne una breve storia. Anzitutto l’epidemia che è stata chiamata “la Spagnola”. Siamo al 1918, e dentro la Prima Guerra Mondiale. Con data 24 ottobre 1918 appariva sul “Il Corriere della Sera” del tempo il titolo “Circolare di Orlando contro le voci false ed esagerate sull’epidemia”; Orlando era il siciliano Vittorio Emanuele Orlando Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno. Il politico italiano nei mesi successivi presentava la grave situazione sanitaria nel Paese Italia che viveva anche gli ultimi mesi della Grande Guerra e intorno alle voci di una più larga e intensa manifestazione della forma morbosa epidemica che era apparsa da noi fin dalla primavera 1918 così annotava: “Si parlò di una malattia terribile, misteriosa, ignota nella sua causa e invincibile nei suoi effetti, e di fronte a qualche caso eccezionale di complicanze polmonari particolarmente gravi (…) si è voluto poi identificare l’affezione, così come in altri Paesi provati prima del nostro si era fatto, con la peste cinese (…). Ora si tratta di voci arbitrarie, assurde, frutto di incompetenza e di fantastica sovreccitazione – prosegue Orlando -. Le osservazioni cliniche come le indagini di laboratorio hanno escluso ed escludono, in modo assolutamente indubbio, l’origine esotica della malattia e la attribuiscono a quella forma morbosa che è conosciuta sotto il nome di “influenza” . Ecco cos’era quella pestilenza che fu la Spagnola. Scienziati e studiosi che ebbero modo di analizzare la pandemia nei tempi successivi, stabilirono che fu una forma virale con complicanze batteriche, notata già nell’estate del 1918 nel Mid-West americano (passava con facilità dalle persone ai suini), e presente già fin dalla primavera 1918 a Canton (oggi Guangzhou), in Manciuria e a Shanghai. La Spagnola infettò mezzo miliardo di persone, vale a dire ben un terzo dell’umanità. Impropriamente fu chiamata “spagnola”, anche se l’origine non avvenne in Spagna. E’ certo che avesse un tasso di riproduzione simile a quello del coronavirus – perché ogni contagiato la trasmetteva a altri due – ma in quegli anni non vi erano né antibiotici nè ossigenoterapia, e per di più l’Europa viveva gravissime difficoltà per via della terribile Guerra che l’aveva messa in ginocchio; la Pandemia della Spagnola fu la prima catastrofe della storia medica recente, perché morirono ben cento milioni di persone. L’Italia del tempo si mobilitò come potè. Sul Corriere della Sera di domenica 29 settembre 1918, a pagina due, compariva “il programma pratico del Governo per combattere la malattia attuale”: “È chiaro che un programma di misure d’igiene pubblica non può essere fissato e svolto in via razionale” se non risponde a due domande: “Qual è la natura della malattia infettiva che si è diffusa in Italia? Qual è la gravità reale che una tale epidemia presenta?”. Si nota che l’agente patogeno si trasmette “mediante le particelle di muco che vengono emesse coll’aria di espirazione durante il parlare e il tossire”. Stesse formulazioni che vanno a coincidere con quanto circola nell’Italia di oggi stretta dal Covid-19 detto Coronavirus. Ecco cosa si disse allora: “Si raccomanda di cautelarsi contro il pericolo di inquinarsi: converrà ch’essi (medici e infermieri, ndr) portino a quest’uopo una maschera di garza o qualche altro consimile mezzo di protezione”. Anche allora si raccomandò alla popolazione - certo come si potè - di non baciarsi, non dare la mano, non andare al cinema e tenersi a un metro gli uni dagli altri. E ancora, il governo chiedeva di “ridurre al minimum gli affollamenti in genere e i contatti dei sani coi malati (ad esempio nelle visite agli ospedali)”. Fu notato anche un interessante esperimento:” In un accampamento, dove l’epidemia infieriva, bastò ampliare il terreno occupato dalle truppe, e in questo modo diradare l’affollamento dei soldati, per veder subito la malattia scomparire del tutto”. Tutto questo avvenne nel 1918, quando i nostri nonni e bisnonni combattevano nelle trincee della Grande Guerra, ben descritte dal dall’illustre poeta Giuseppe Ungaretti.
Poi si arrivò alla Pandemia detta “Asiatica” del 1957. Data memorabile che ben ricordo, perché ne fui anch’io contagiato nell’ottobre del 1957 . In quell’anno le primissime televisioni erano entrate nelle case degli italiani. Ci fu il lancio dello Sputnik sovietico nello spazio e persino la nascita di Carosello. Ma in quell’anno ci fu anche una pandemia chiamata “Asiatica” che uccise più di un milione di persone, dopo averne contagiate fra 250 milioni e un miliardo nel mondo. A voler raffrontare le due pandemie, l’Asiatica e il Coronavirus di oggi, Covid-19 per ora è stato diagnosticato in 94 mila persone e ne ha uccise 3.220 (dati aggiornati al 4 marzo): l’Asiatica del ‘57 fu oltre trecento volte più letale, eppure pochi oggi sembrano serbarne il ricordo. Io certo lo ricordo bene. Il 17 aprile del 1957 sul “New York Time” compare giusto una notiziola dall’allora colonia britannica di Hong Kong: «La stampa popolare riferisce che circa 250 mila residenti hanno ricevuto delle cure. La popolazione della colonia è di circa 2,5 milioni. L’afflusso di 700 mila rifugiati dalla Cina comunista ha creato un pericolo costante di sovraffollamento. Migliaia di malati aspettano cure in lunghe file, molte donne portano sulle spalle bambini dallo sguardo vitreo». Anche “Il Corriere della Sera” del 20 settembre ‘57 parla della pandemia, in una pagina interna: “Ventidue morti in Inghilterra per l’influenza asiatica” e 250 mila persone colpite “in Germania occidentale” con “oltre seicento scuole chiuse nella sola Bassa Sassonia”. Allora il “Corriere dell’Informazione” la chiamò “la nuova spagnola”, e verso metà dicembre si rivelò “rincrudita a Roma”. Badate bene che l’epidemia dell’Asiatica non conquistò quasi mai le prime pagine dei giornali e la sola volta che quell’anno il “Corriere dell’Informazione” dedicò un titolo grande in prima a un virus, fu quando il Milan di Schiaffino – campione d’Italia a metà giugno – dovette andare “in quarantena” e rinviare varie partite. Ma quello fu “morbo giallo”, ovvero “epatite ittigerina” presa da tutta la squadra nella vasca da bagno di uno spogliatoio.
E ancora l’influenza di Hong Kong del ’68-’69. Anche la cosiddetta e successiva “influenza di Hong Kong” che si ebbe nel 1968-’69 (più di 250 milioni di contagiati, quasi un milione di morti nel mondo) non conquistò mai grandi spazi sui media. Era già andata così anche per la pandemia di poliomelite del 1952, che solo negli Stati Uniti infettò 58 mila persone e ne uccise tremiladuecento. Il 10 agosto del 1952 Il Corriere della Sera registrava con poche righe “duemila casi di poliomelite registrati quest’estate in Germania”; a settembre del ’52 scriveva la giornalista italiana Hedi A. Giusti da New York, che le famiglie colpite dalla drammatica paralisi dei bambini hanno “una tranquilla fiducia” grazie alla “meravigliosa certezza del popolo americano che nessuna precauzione sarà trascurata”.
La Pandemia A H1N1 detta “influenza suina” del 2009. La prima e finora unica pandemia influenzale del XXI secolo arriva nel 2009 quando arrivò e fu chiamata “influenza suina”, causata da un virus A H1N1. Si trattava di un virus con caratteristiche piuttosto uniche. Infatti, conteneva una combinazione di geni influenzali che non erano mai stati identificati nelle persone o negli animali. L’Iss ha sottolineato che “mentre la maggior parte dei casi di influenza pandemica sono stati lievi, a livello mondiale si stima che la pandemia ha causato tra i 100.000 e i 400.000 morti nel solo primo anno”.
Passano gli anni, passano i decenni, e le Pandemie ritornano a tambur battente, specie oggi che il mondo si è globalizzato. E’ possibile oggi che a seguito del Coronavirus la globalizzazione sarà ormai messa in quarantena, poi in soffitta. Ritorneremo a status precedenti. E forse sarà la nostra salvezza. Se ciò non avverrà Pandemie come il Coronavirus le avremo ogni tre-quattro anni. La politica, i sociologi, e gli scienziati dicano la loro in tal senso e si prendano le opportune misure, finchè si è in tempo. Carlo Franza
Storia dell’Asiatica, l’influenza che uccise i giovani. Paolo Guzzanti de Il Riformista il 6 Marzo 2020. Si crepava parecchio con l’Asiatica, un’influenza feroce che arrivò nel 1957 e che poi si ritirò, tornò a ondate e dopo una lunga immersione ebbe un sobbalzo nel 1969, ribattezzata col nome di Spaziale, visto che la Luna era appena stata conquistata, ma anche influenza di Hong Kong, per dire da dove veniva. Era, quello, un mondo più arcaico che antico e oggi occorrerebbe un documentario in bianco e nero per ricostruire in un grande set quell’atmosfera. Non c’era informazione. Si sapeva però che “quando Mao starnutisce l’Europa si ammala”. Mao, lo dico per i più giovani era il mitico presidente rivoluzionario cinese di cui mezzo mondo era pazzo, tanto che a quei tempi molti andavano in giro fingendo di leggere il suo “libretto rosso” contenente massime indecifrabili o di sconcertante banalità. Si crepava, dunque. Più di ventimila ci lasciarono la pelle con la prima ondata e in otto milioni si misero a letto con febbri altissime.
L’Asiatica sembrava molto esotica. Un tocco di magia, sempre cinese. Tutti i maschi facevano prima o poi battutine del genere: “Sono stato a letto con un’asiatica”, ma era un’amante che – diversamente da questa che imperversa adesso – attaccava e uccideva i giovani perché i più vecchi, sia nel 1957 che più tardi nel 1969, avevano nel loro sistema immunitario anticorpi ereditati dalle influenze precedenti e dalle generazioni precedenti, tutte comunque di origine suina o aviaria (pollame e anatre), tutte sbarcate dalla Cina e da Hong Kong, allora colonia britannica, o dal Sud Est asiatico. Le frontiere erano chiusissime. Nessuno andava in Cina perché prima dell’apertura provocata dal presidente americano Richard Nixon che andò a Pechino nel 1972, dopo aver inviato una squadra di giocatori di ping-pong, si contavano sulla punta delle dita i viaggiatori per la Cina. Io riuscii ad ottenere il visto per essere ammesso a un colloquio preliminare a Roma per andare a Pechino passando per Tirana (l’Albania di Enver Oxa era curiosamente un bastione cinese e gli albanesi di Calabria e Sicilia si sentirono subito maoisti) ma mi fu chiesto di tagliarmi la barba e io rifiutai, niente Cina. Allora esistevano i medici di famiglia che suonavano alla porta con una curiosa valigetta panciuta e ottocentesca, contenente un grande stetoscopio, il macchinario per prendere la pressione e un bollitore di alluminio in cui sterilizzare siringhe di vetro opaco e aghi d’acciaio che venivano usati più volte e che ti sfondavano la pelle del sedere. I medici sedevano ai piedi del letto e chiacchieravano, prendevano il caffè e poggiavano spesso il cappello sulla coperta, cosa che ha reso infausta quella circostanza: cappello sul letto, uguale medico in casa, uguale morte in agguato. Ancora, si moriva in casa. Oggi muoiono tutti in ospedale. Soli, abbandonati, tiriamo le cuoia al terzo piano e poi veniamo spediti col montacarichi nel seminterrato della morgue per una autopsia all’alba. Li ti aprono col trinciapollo, ti ricuciono con lo spago e torni a casa per le esequie. Allora, anche quei ventimila morti della vera Asiatica (prima ondata) morirono per lo più in casa. In genere, di polmonite. La polmonite è in genere causata da una bestia che si chiama “pneumococco” contro cui ci si può vaccinare, ma quando arriva quella virale, allora puoi soltanto pregare il tuo Dio o sostituti laici. Anche se gli antibiotici non servivano a nulla contro i virus, a quei tempi i medici erano molto generosi in antibiotici perché si sapeva che dove il virus apre il solco, batteri e bacilli avrebbero festeggiato. E poi, qualcosa bisognerà pur fare. Quell’influenza ammazzava con una percentuale sacrificale inferiore all’uno per cento. Quella che abbiamo adesso fra di noi è una divinità più esosa: esige il tre per cento, forse 3,4. Se sappiamo far di conto, ciò vuol dire che ogni milione contagiati ne pretende 34 mila in vestito d’abete, le borchie sono optional. L’Asiatica fece otto milioni di contagi e se dovessimo fare i confronti a parità di infettati, quella che gira adesso si porterebbe via un quarto di milione. C’è di buono che nessuno lo sa. C’è di cattivo che nessuno lo sa. Onestamente, nessuno sa molto, con precisione. Però tutti ci aggrappiamo alla storia e – orientalmente parlando – anche alla geografia: io ricordo, tu non c’eri e non sai, noi dovremmo ricordare. La pandemia delle pandemie fu la terrificante febbre detta Spagnola, che dal 1918 si portò via fra i 50 e i 100 milioni di persone nel mondo intero: più che nelle due guerre mondiali messe insieme. Mia madre, nata nel 1912 se la ricordava benissimo e mi raccontava degli intrugli magici che in ogni famiglia si illudevano di trovare l’antidoto: aglio a tonnellate, peperoncino, bevande bollenti, impiastri, purghe, digiuni, regimi di sola carne, di solo pesce, di solo formaggio, tutti all’aria aperta, tutti blindati al buio di una casa dalle finestre sbarrate. Panico e allegria allo stesso tempo. Dopo la grande Asiatica del 1957 ci fu la Asiatica-2, detta Hong Kong sul finire dei Sessanta, quando ancora la tv era in bianco e nero e tutto era – per poco – nelle venti e più sfumature di grigio. Non si percepiva l’epidemia e la parola pandemia era ignota. Un motivo c’era. L’uso dell’aereo nell’economia globale. La Spagnola impiegò mesi a diffondersi nel mondo, mentre ai nostri giorni ciò che accade in una lontana provincia cinese è subito in Europa e in America. Le compagnie aeree imbarcano miliardi di virus oltre che passeggeri. L’idea della grande pestilenza appartiene ad un passato remoto e fa parte della letteratura ma di fronte alle ondate influenzali che si sono scatenate su di noi (tutte invariabilmente nate in Cina per le contaminazioni tra i virus che abitano negli animali allevati e macellati in condizioni igieniche infernali) ci siamo addestrati a pensare che un flagello biblico come un’epidemia mondiale non sia possibile. Che sia uno scherzo. Una esagerazione. Capita spesso in questi giorni di leggere o udire: “Non è che un’influenza! Ma avete idea di quanta gente muore ogni anno di una semplice influenza?”. È vero. E quel che successe alla fine degli anni Cinquanta lo dimostra. Tuttavia, non è una gara. Il poeta Georges Brassens scrisse una canzone in cui diceva che se c’era una guerra che davvero a lui piaceva moltissimo, era quella del 1914-1918 perché mai carneficina fu più atroce e insensata. La nostra Asiatica di oltre sessanta anni fa, fu la nostra prima grande guerra e la prendemmo con filosofia. “Mamma, ho l’asiatica”. Oppure: “mamma ha l’Asiatica”. Tutti abbiamo avuto l’Asiatica. A casa. Sia chi ce la faceva, sia chi soccombeva, circondato da amici e parenti. E chi moriva, moriva alla vecchia maniera, come nel 1928 Italo Svevo le cui ultime parole ai figli e ai nipoti nell’enfasi dell’agonia, furono: «Fijòi, vardè come se mòr» (“Figli, guardate come si muore”). La morte come momento privato, eroico, perfino didattico. Non ricordo ospedali presi d’assalto nel 1957, quando sembrava che stesse per scoppiare la terza guerra mondiale, quando i carri armati sovietici avevano da poco fatto a polpette gli insorti ungheresi, gli anglofrancesi erano stati cacciati dall’ultima impresa colonialista a Suez e Nikita Krusciov sconvolgeva il mondo comunista con la sua relazione segreta al XX congresso del partito comunista sovietico rivelando i crimini di Stalin. Era un’epoca buia, disciplinata, militarizzata benché fossero da poco sbarcate due novità epocali: i blue jeans (col risvolto) e il Rock ‘n Roll che diventò subito la cura contro l’angoscia, contro il mal di vivere, contro la paura. C’era paura di tutto, e non si poteva avere paura di una banale, per quanto forte, influenza che ti lasciava annichilito, quasi stecchito, in piedi per miracolo: “Ha avuto l’asiatica”. Oh, diomio, ha bisogno di una cura ricostituente. L’Europa era comunista, esistenzialista, filoamericana, e antiamericana, fiuori dalla guerra, dentro la guerra. Tutto era serio e plumbeo, ai tempi dell’Asiatica. C’era Doris Day che faceva impazzire noi adolescenti maschi perché ballava e cantava in quel modo sensuale e c’era Marilyn e tutte le grandi donne dello schermo e gli uomini attori intemerati, gli eroi di allora: se un’influenza ti sdraiava a letto, tutto era ridotto di intensità, anche l’angoscia: vai con la camomilla e l’aspirina, borsa di giaccio o borsa dell’acqua calda, tanto erano sbagliate tutte e due. Ma non esisteva il concetto dell’isolamento e della quarantena. Il virus festeggiava vittorie su vittorie, ma veramente la promiscuità era tanto sciagurata quanto vitale. Si poteva curare chi stava male e poi ammalarsi. Non tutti, non sempre. Ma come cantava Frank Sinatra in My Way: “Regrets, just a few”, quasi nessun rimpianto. Preferiamo la sanità eccellente di oggi, se e quando c’è. E adoriamo la conoscenza di tutti i virus e il controllo su quel che accade. Ma non siamo nati ieri. Abbiamo dentro di noi, nel genoma e nella memoria remota, il ricordo delle battaglie mitologiche precedenti, delle sconfitte precedenti e dei virus precedenti. Nei pochi anni che passai studiando medicina imparai questa straordinaria verità: ognuno di noi, dal momento del suo concepimento e finché non viene al mondo, ricapitola tutto il passato della vita nella sua evoluzione. Le parole sono auliche: l’ontogenesi ricapitola la filogenesi. Ma il concetto è magnifico. Significa che non siamo i primi, non siamo i soli. In fondo, siamo quel tipo di eroe che piace agli americani: siamo i surviver, siamo quelli che ce l’hanno fatta, figli dei figli dei più tosti, dei più resistenti, dei più vitali. I Platters cantavano Only You e noi ballavamo sulla mattonella, le ragazze erano belle e scostanti e avevano gonne lunghe e scozzesi che facevano volteggiare ballando il rock. I virus ronzavano fra di noi, ma ci baciavamo lo stesso.
Coronavirus, così l'Istituto Luce raccontava agli Italiani un'epidemia arrivata da Hong Kong nel 1969. Repubblica Tv il 3 marzo 2020. "Una vera epidemia. Le strade, le fabbriche, gli uffici, i mercati sono mezzi vuoti": sembra un resoconto di quanto sta accadendo oggi in Italia per l'emergenza coronavirus, ma queste parole vengono da un servizio televisivo di oltre 50 anni fa. Nel 1969, infatti, una nuova influenza partita da Hong Kong colpì l'Europa e Italia. "Ha impiegato 18 mesi per arrivare in Italia ma ci ha colti del tutto impreparati", sono le parole di un video dell'Istituto Luce diffuso in quei mesi. Una differenza però c'è: i numeri elencati nel vecchio servizio sono molto più gravi di quelli odierni: "13 milioni di italiani a letto, 1 italiano su 4, e 5mila sono passati a miglior vita". Oggi questi numeri non sono stati raggiunti nemmeno su scala mondiale ma il video è diventato virale nelle chat in questi giorni, proprio per le analogie con la situazione attuale.
Influenza “spaziale”: l’epidemia che colpì l’Italia prima del Coronavirus. Cecilia Lidya Casadei il 02/03/2020 su Notizie.it. Prima del Coronavirus, l'influenza Asiatica H2H2 e quella "spaziale", sviluppatasi a Hong Kong, hanno fatto la storia. Il Coronavirus non è la prima epidemia asiatica sconosciuta che colpisce il nostro Paese. Nel 1969 il virus della cosiddetta influenza “spaziale” proveniente da Hong Kong, l’H3N2, afflisse 13 milioni di italiani.
L’influenza spaziale arriva in Italia. L’H3H2 causò 5mila morti. Fu la stampa a dare l’allarme, precisamente il Times di Londra, un anno prima rispetto all’arrivo del virus nel nostro Paese. La pandemia si diffuse inizialmente in Oriente con epidemie saltuarie di dimensioni contenute fino alla fine del 1968, per poi viaggiare verso gli Stati Uniti, dove il tasso di mortalità schizzò alle stelle. Per nostra fortuna non si registrarono gli stessi numeri in Europa, in Italia la principale causa di morta era attribuibile a polmonite e influenza.
Anticorpi dall’Asiatica. Ci furono tra i 750mila e i 2 milioni di morti, ma dalle stime si colloca fra le influenze virali con meno vittime nella storia dell’umanità. Il virus di Hong Kong aveva un antigene in comune con l’Asiatica del 1957: il neuraminidasi. Per questo motivo si pensò che il suo minore impatto sulla popolazione fosse attribuibile ad un’immunità acquisita nel tempo.
Ancora prima dell’epidemia da Hong Kong, nel 1957, c’è stata la H2N2 meglio conosciuta come influenza Asiatica. La popolazione non aveva sufficienti difese per contrastarla, tranne le persone con più di 70 anni, al contrario di quanto stia accadendo con il Coronavirus.
Polmonite come per il Coronavirus. Anche in questa occasione, furono principalmente le polmoniti virali a risultare fatali per chi contraesse il virus, i meno colpiti furono i soggetti sani. L’epidemia coinvolse circa 250mila persone nella sola Hong Kong. Dopo undici anni, l’H2N2 scomparve e venne sostituito dall’H3N2. Eppure, il Coronavirus che tanto ci spaventa ha fatto meno morti di epidemie importanti come SARS e MERS, che negli anni 2000 hanno seminato il panico a livello mondiale.
Dagospia il 2 marzo 2020. “QUANDO MAO STARNUTA IL MONDO SI AMMALA” – IL VIDEO STRACULT DAGLI ARCHIVI DELL’ISTITUTO LUCE (1970) SULL’INFLUENZA 'SPAZIALE' DI HONG KONG CHE COLPÌ L’ITALIA – A SENTIRE IL SERVIZIO DELL’EPOCA SEMBRA CHE FOSSE PEGGIO DEL CORONAVIRUS: “13 MILIONI DI ITALIANI A LETTO. E CINQUEMILA SONO PASSATI A MIGLIOR VITA” - “BISOGNA PREVENIRE, NON SOLTANTO REPRIMERE. STAREMO A VEDERE: FRA DUE ANNI, FRA TRE, IL GIROTONDO RICOMINCIA…”
Trascrizione: E adesso una domanda: Cosa ci ha portato il Natale? Le solite cose: festoni colorati, pioggia e influenza. Una vera epidemia: 13 milioni di italiani a letto, un italiano su 4. E cinquemila sono passati a miglior vita. Le strade, le fabbriche, gli uffici, i mercati, si sono mezzi vuotati. A riempirsi sono stati gli ospedali: doppi letti dunque, anche se le cliniche sono sempre le stesse. Quando Mao starnuta, dice un proverbio inglese coniato da poco, il mondo si ammala. Infatti l’epidemia di quest’inverno è nata a Hong Kong nel luglio del 1968, un anno e mezzo fa. Ha impiegato 18 mesi per arrivare in Italia ma in compenso ci ha colti del tutto impreparati. Adesso che è quasi passata, è risalita al nord, ha varcato le Alpi, possiamo fare il bilancio. Negativo, senz’altro. L’influenza non è pericolosa? E chi lo dice? Non bastano sciroppi e supposte, gocce e iniezioni che vengono dopo. Occorre fermare il virus prima che arrivi. Ma come? Col vaccino, che c’è: in qualche paese fuori d’Italia è stato distribuito, tenuto conto che il ceppo dell’infuenza è quasi sempre lo stesso. Prevenire insomma, non soltanto reprimere! Senza contare il pericolo di ricadute. Staremo a vedere: fra due anni, fra tre, il girotondo ricomincia. Pensiamoci in tempo…
Dalla terribile «spagnola» alla poliomelite del ‘52, le altre epidemie (che ci facevano meno paura). Pubblicato giovedì, 05 marzo 2020 su Corriere.it da Federico Fubini. Era la spagnola. Studi di decenni successivi avrebbero stabilito che fu una forma virale con complicanze batteriche, notata già nell’estate del 1918 nel Mid-West americano (passava dalle persone ai suini), ma già fin dalla primavera a Canton (oggi Guangzhou), in Manciuria e a Shanghai. Colpì mezzo miliardo di persone, un terzo dell’umanità. In Europa la si chiamò «spagnola» perché si credeva che l’origine fosse quella. Si stima che avesse un tasso di riproduzione simile a quello del coronavirus - ogni contagiato la trasmetteva a altri due - ma in assenza di antibiotici e ossigenoterapia, in un’Europa prostrata dalla guerra, fu il più grande olocausto nella storia medica: si stima abbia portato alla morte fra venti e cento milioni di persone. L’Italia corse ai ripari come poteva. Sul Corriere di domenica 29 settembre ‘18, sempre a pagina due, compariva «il programma pratico del Governo per combattere la malattia attuale». Si leggeva: «È chiaro che un programma di misure d’igiene pubblica non può essere fissato e svolto in via razionale» se non risponde a due domande: «Qual è la natura della malattia infettiva che si è diffusa in Italia? Qual è la gravità reale che una tale epidemia presenta?». Si nota che l’agente patogeno si trasmette «mediante le particelle di muco che vengono emesse coll’aria di espirazione durante il parlare e il tossire». Di qui un consiglio che suona familiare nell’Italia al tempo del Covid-19: «Si raccomanda di cautelarsi contro il pericolo di inquinarsi: converrà ch’essi (medici e infermieri, ndr) portino a quest’uopo una maschera di garza o qualche altro consimile mezzo di protezione». Plus ça change. Quanto poi alla popolazione in genere, anche qui le tecniche non sono molto cambiate. Oggi si consiglia di non baciarsi, non dare la mano, non andare al cinema e tenersi a un metro gli uni dagli altri. Allora agli italiani il governo chiedeva di «ridurre al minimum gli affollamenti in genere e i contatti dei sani coi malati (ad esempio nelle visite agli ospedali)». Si era notato infatti un interessante fenomeno: «In un accampamento, dove l’epidemia infieriva, bastò ampliare il terreno occupato dalle truppe, e in questo modo diradare l’affollamento dei soldati, per veder subito la malattia scomparire del tutto». Ma, appunto, correva il 1918. I padri, nonni e bisnonni degli italiani di oggi affondavano in trincee piene di fango e si stava consumando una catastrofe europea. Indimenticabile. Che dire invece del 1957? Di quell’anno oggi si ricordano il lancio dello Sputnik sovietico nello spazio e magari la nascita di Carosello. Ma ci fu anche una pandemia che uccise più di un milione di persone, dopo averne contagiate fra 250 milioni e un miliardo nel mondo. L’Asiatica. Per confronto, Covid-19 per ora è stato diagnosticato in 94 mila persone e ne ha uccise 3.220 (dati aggiornati al 4 marzo): l’Asiatica del ‘57 fu oltre trecento volte più letale, eppure pochi oggi sembrano serbarne il ricordo. Il 17 aprile di quell’anno sul New York Times compare giusto una notiziola dall’allora colonia britannica di Hong Kong: «La stampa popolare riferisce che circa 250 mila residenti hanno ricevuto delle cure. La popolazione della colonia è di circa 2,5 milioni. L’afflusso di 700 mila rifugiati dalla Cina comunista ha creato un pericolo costante di sovraffollamento. Migliaia di malati aspettano cure in lunghe file, molte donne portano sulle spalle bambini dallo sguardo vitreo». Anche il Corriere del 20 settembre ‘57 parla della pandemia, in una pagina interna: «Ventidue morti in Inghilterra per l’influenza asiatica» e 250 mila persone colpite «in Germania occidentale» con «oltre seicento scuole chiuse nella sola Bassa Sassonia». Allora il Corriere dell’Informazione la chiamò «la nuova spagnola», verso metà dicembre in verità «rincrudita a Roma». Ma appunto l’epidemia non conquistò quasi mai le prime pagine e la sola volta che quell’anno il Corriere dell’Informazione dedicò un titolo grande in prima a un virus, fu quando il Milan di Schiaffino - neo-laureato campione d’Italia a metà giugno - dovette andare «in quarantena» e rinviare varie partite. Ma quello era «morbo giallo», cioè «epatite ittigerina» presa da tutta la squadra nella vasca da bagno di uno spogliatoio. Del resto persino la cosiddetta e successiva «influenza di Hong Kong» del 1968-’69 (più di 250 milioni di contagiati, quasi un milione di morti nel mondo) non conquistò mai grandi spazi sui media. Era già andata così anche per la pandemia di poliomelite del 1952, che solo negli Stati Uniti infettò 58 mila persone e ne uccise tremiladuecento. Il 10 agosto il Corriere registra in un pezzetto di due frasi a proposito di «duemila casi di poliomelite registrati quest’estate in Germania». E a settembre scrive la collaboratrice Hedi A. Giusti da New York, senza enfasi, che le famiglie colpite dalla drammatica paralisi dei bambini hanno «una tranquilla fiducia» grazie alla «meravigliosa certezza del popolo americano che nessuna precauzione sarà trascurata». Forse erano tempi in cui il rapporto con l’infermità e la morte era diverso. Non regnava la pretesa di oggi che il corpo fosse indistruttibile, o giovanile almeno per sei decenni. Il deperimento umano e la fine non erano un tabù, uno sconcio da tenere privato e quasi segreto. Fu per questo forse che non facevano granché notizia decenni fa - e restano poco impresse nella memoria oggi – pandemie molte volte più spaventose del coronavirus. O forse c’era anche dell’altro, che oggi conta e allora non contava. Lasciamo stare il 1918. Ma quello degli anni ’50 o degli anni ‘60 un modo meno interconnesso, meno interdipendente, meno veloce, sistemato in un equilibrio meno precario, meno scricchiolante ghiaccio sottile di mercati finanziari gonfiati dal debito dei fondi d’investimento. Era dunque, almeno in questo, un mondo meno fragile e più capace di fare i conti con l’incertezza e cioè con il sale della vita. Ma di certo un domani, fra mezzo secolo, qualcuno leggerà negli archivi dei giornali del Covid-19. E scoprirà, come in tutti i casi precedenti, che alla fine il vaccino fu trovato.
Domenico Quirico per “la Stampa” il 2 marzo 2020. E se la Paura, questo immateriale potere, fosse in fondo un lusso, un lusso che solo noi, nel mondo della sicurezza, di favole pulite, terse, confidenti, amabili, possiamo permetterci? Insomma: nel contempo è maledizione e privilegio, che si insinua nelle pause in cui le nostre certezze, salute, Pil, frontiere aperte, per una improvvisa, insidiosa affezione respiratoria di massa, sembrano sfilarsi tra le dita. Affondano in dubbi, sconforti, afflizioni, lacrime, clamore di voci dispari. Così la Paura si fa universalmente visibile in giornate lombardo-venete di gente in quarantena e intristita, una nebbia sporca attorno alla vita quotidiana. Come per gli attentati: che ci portano a domicilio la guerra che noi non conosciamo, e soprattutto non vogliamo vedere. Abituati a specchiarci in un avvenire radioso, dove la Morte è sgradevole argomento di conversazione, da evitare nel ''bon ton'', e sulla sofferenza non indugiamo mai, ci sembra che il mondo si sia addirittura capovolto: per un virus. Ma appena la pressione atmosferica della modernità e della sicurezza scompare, in Africa per esempio, tutto diventa tragicamente più semplice. Il panico si fa appunto lusso, come gli ospedali asettici e attrezzati, i virologi, i vaccini che prima o poi si troveranno, le ambulanze, le quarantene precauzionali, il turismo, i supermercati da svuotare. Che loro non hanno. Se la sgrondano di dosso, gli uomini che vivono lì, perché non possono permettersela, la Paura. La sicurezza di sopravvivere, restar sani, non morire di fame o di kalashnikov e machete, nell' usura di quelle esistenze, nel mondo che percorro io, non è in dotazione. La Peste è permanente, come la vita, e la morte. Dopo una settimana di "peste'' nostrana, le frasi si confondono, i discorsi di politici, epidemiologi, catastrofisti tenaci e immarcescibili "candide'' sono ormai caricati a carta, esaurite anche le facezie sfiancate sulla amuchina, il lavarsi le mani e le mascherine; stenta anche la ricerca delle coincidenze, a costo di qualche sbandamento filologico, con i morbi ben scritti di Manzoni Tucidide Defoe Boccaccio e perfino la metafisica peste di Camus, una sorta di grottesco antidoto da letteratura. Allora è il momento di un viaggio concepito come esame di coscienza, nell' altro mondo che ci sta intorno. Solo così ci libereremo dalla Paura: che è fatta del guardate solo me, non distogliete lo sguardo, proibito evocare altre vittime. Per esempio: ho attraversato da poco il Sahel, dove quattro milioni di uomini, donne e bambini sono esposti alla denutrizione e alla immediata possibilità della carestia. Dietro c' è un micidiale impasto di insicurezza causata dalle guerre etniche e del fanatismo islamista che nelle zone rurali costringe contadini e allevatori a farsi profughi, abbandonando bestiame e campi; a cui si aggiunge la desertificazione. La fame, la più primitiva delle angosce, endemica, ricorrente a vampate, nei luoghi del mondo in cui la geografia simboleggia il travaglio della vita. Guardo negli occhi le file degli affamati che si allungano nei luoghi dove sperano di trovare cibo. Non c' è paura ma quel tanto di indomito fatalismo che entra nel sangue dei popoli abituati a strappare davvero la vita al nulla. Allora capisco quello che mi scrive un amico che vive in Niger replicando alla mia dettagliata descrizione del virus, delle vittime anziane, delle attività economiche impacciate: «Beati voi che avete solo il problema del coronavirus, qui non riusciamo nemmeno a contarli, i problemi...». Già: continenti interi dove la vita è appesa a fili insignificanti, un abisso quotidiano in cui si può precipitare senza avere l' impressione di ferirsi, un abisso madre, un precipizio di ombra antico come l' uomo e appunto la peste, un imbuto infinito in cui, se ci vivi, ti infili ogni giorno come per un viaggio qualsiasi. Il mondo delle maledizioni bibliche, fame guerre epidemie, dove un ospedale, quando c' è, ha un bacino di utenza di 350 mila persone; dove puoi vedere statistiche di bambini che muoiono di morbillo (nel terzo millennio!) o per il morso di un cane rognoso che come lui rovistava tra i rifiuti (non c' è l' antidoto contro la rabbia). Dove non usa che gli uomini piangano. E nessuno può aver paura. Un virus in più non fa crescere certo il loro affanno di tagliati fuori.
Guardare gli invisibili. Forse ci aiuterà, ad affrontare i nostri guai epidemici e avere meno paura, consultare le cifre della Sanità in Africa, che, purtroppo, non è quella dei villaggi vacanza e degli economisti che si fregano le mani per le cifre della Crescita del continente. Ma non si accorgono che la ricchezza aumenta, sì, ma va nelle mani di una quarantina di manigoldi, i presidenti, con cui facciamo affari. Si scopre che migliaia di persone muoiono ogni anno di colera, dengue, listeriosi, febbre di lassa. Che in Madagascar c' è stata una micidiale epidemia di peste, quella vera, davvero manzoniana. E c' è ebola: ricordate ebola nel 2014, la fiammata brutale di febbre che in Africa occidentale causò la morte ventimila persone? In Congo l' epidemia non è mai finita, sonnecchia, guizza, uccide. Dalla Nigeria al Sudan, dallo Zambia al Centrafrica, il timore di infettarsi, di morire, non è che un immenso fatale disturbo. La paura è una faccenda tra noi e noi; gli altri, quelli del terzo mondo, non compaiono nella fotografia. Forse guardarli ci aiuterà ad avere più coraggio.
Il Mes e i Malavoglia. Pier Francesco Borgia il 19 aprile 2020 su Il Giornale. Nei dilatati tempi casalinghi di questi giorni mi è capitato di riordinare alcuni scaffali della libreria. E tra le mani mi è finita una copia dei Malavoglia di Giovanni Verga. Non ricordavo di averla. Almeno non quell’edizione. Si tratta infatti di una vecchia edizione scolastica (Mondadori editore), curata da Romano Luperini. Incuriosito dal ritrovamento mi sono messo a rileggere il capolavoro del Verismo. E sono precipitato in fretta nella vita della famiglia Malavoglia. Non è una storia molto leggera. Non certo il modo più allegro di passare la quarantena. Però mi ha impressionato la sua attualità. E chissà se anche i ragazzi che lo stanno affrontando come compito scolastico vedono la singolare attualità del suo messaggio. Se non vado errato – i miei ricordi scolastici sono vaghi – lo si consigliava come modello esemplare di una poetica (il verismo) della quale l’autore catanese era un maestro riconosciuto. Interrogati bisognava soprattutto ricordare quelle caratteristiche che ne facevano un manifesto. In tempi di pandemia, però, non mi ha colpito tanto l’ideologia letteraria sottesa al testo. Piuttosto le coincidenze con la situazione che molti si trovano a vivere oggi. Fatta di dolore, morte, pandemia, tragedie annunciate, e sacrifici. Il lockdown è stata una vera tragedia economica per tante categorie produttive e per tanti lavoratori. E gli Stati, a iniziare dal nostro, già fanno i conti con i debiti futuri. I governi mettono in circolo denaro, gli interessi del quale poi si accumuleranno nel nostro debito pubblico. Insomma molti sopravviveranno grazie a queste misure economiche che poi tutti quanti saremo chiamati a pagare. Come non vedere nel naufragio della Provvidenza (la barca dei Malavoglia) una metafora del virus che sta assediando le nostre vite. Come non vedere nel debito contratto da padron ‘Ntoni un’allegoria del nostro destino. La famiglia dei Malavoglia si rimette ogni volta a capo chino a raccogliere le forze e i denari necessari per riscattare una sorte avversa. Lo fa con gli esempi nobili dello stesso capofamiglia, della Mena e di Alessi. L’usura di zio Crocifisso sembra quasi un inevitabile aspetto della vita economica del paese di Trezza. La sua implacabile legge è accettata istintivamente dallo stesso padron ‘Ntoni che in questo si rivela quasi un filosofo dell’economia di mercato. L’economia va avanti soltanto se c’è speculazione sembrano dire tutti, dal sensale Piedipapera, agli stessi protagonisti del contratto economico che porterà alla fine i Malavoglia fuori dalla vecchia casa del nespolo nel momento più duro della loro parabola. Che poi è anche quello che coincide – altra analogia con la nostra attualità – con la diffusione del colera nella Sicilia orientale negli stessi anni in cui è ambientato il romanzo. Un’epidemia che taglierà le gambe ai piccoli padroncini, ai piccoli imprenditori agricoli e a coloro che volevano fare del commercio una fonte di arricchimento. Malgrado ciò, la piccola formica dalla schiena piegata di padron ‘Ntoni riuscirà a riportare la famiglia (o meglio quel che ne rimane) nella casa avita. E il romanzo si chiude proprio nella corte dominata dal nespolo. Con il giovane ‘Ntoni che offre le spalle ai fratelli e se ne va via per l’ultima volta, per sempre. Perché, in fondo, ci sono giovani che non riescono a convivere con la regola del sacrificio, con la norma del mettere da parte giorno per giorno un “grano” alla volta nelle speranza di garantirsi un futuro meno incerto. Ci sono giovani, come ‘Ntoni e Lia che non accettano un destino già segnato ed è per quello che scappano nella grande città. A meravigliarmi non è poi soltanto la coincidenza con la nostra attualità. C’è quella lingua “grassa” e ricca che Verga si è studiato di riproporre tale e quale quella parlata dalle classi popolari nella Sicilia del XIX secolo. Ci sono meravigliose espressioni popolari e dialettali che sono come incastonate nel tessuto di un vigoroso italiano ottocentesco. Sono il vanto di padron ‘Ntoni. Attraverso di loro il vecchio pescatore mostra la forza della saggezza popolare, la forza di un buon senso che non disdegna un approccio animistico alla vita. Tra tutte, una sua espressione mi è rimasta impressa a fine lettura. “Lo sfortunato ha i giorni lunghi” dice a un certo punto padron ‘Ntoni. Come non dargli ragione, soprattutto in questi giorni.
Estate 1916: l’epidemia di poliomielite si abbatte su New York e parte la caccia all’italiano. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 aprile 2020. Si era sparsa la voce che la colpa fosse dei “macaroni”: di chi altri sennò? Stanno tutti ammassati nelle loro topaie di Little Italy ( che all’epoca non si chiamava ancora così), in otto, dodici, anche venti persone per appartamento, sono sporchi, indisciplinati, non si vogliono integrare, dice la gente. Il focolaio, poi, pare fosse proprio lì, tra le viuzze del misero quartiere che ospitava le migliaia di immigrati italiani sbarcati in America a cercar fortuna. Non ci vuole molto a diventare gli untori e il bersaglio della psicosi di massa. Come narrano le cronache si moltiplicano gli atti di razzismo, case marchiate con la vernice, insulti, aggressioni fisiche da parte di gruppi organizzati e qualche volta ci scappa pure il morto. Estate 1916: un’epidemia di poliomielite si abbatte su New York come un flagello, nessuno sa da dove venga quella malattia che si sta portando via migliaia di bambini, nessuno sa come curarla, le uniche misure messe in campo dalle autorità sono la quarantena, la chiusura dei luoghi pubblici e l’uso di disinfettanti chimici nelle strade. Fino ad allora l’unica ondata di polio che aveva colpito l’America risaliva a una ventina d’anni prima, appena un centinaio di casi nel Vermont. Vengono aperti reparti specializzati per isolare i malati ma non bastano, i medici possono solo tamponare gli effetti e sperare che i pazienti vincano da soli la battaglia contro il morbo. Se negli adulti la mortalità è molto bassa, per i bambini dagli uno ai dieci anni il decorso è quasi sempre fatale e chi riesce a salvarsi porterà per sempre i segni dell’infezione, il più delle volte una paralisi motoria. Il panico si diffonde rapidamente in città, gli ospedali sono travolti, la rete sanitaria di New York, la più avanzata e all’avanguardia di tutti gli Stati Uniti, collassa in pochi giorni, molte persone muoiono di altre patologie, in particolare crisi respiratorie, perché non ci sono più posti letto. La popolazione terrorizzata si affida ai rimedi casalinghi, come sempre in questi casi proliferano le leggende metropolitane e i ciarlatani. Centinaia di persone perdono la vita dopo aver assunto stricnina, un potente veleno che non si sa per quale motivo si pensava potesse fermare l’avanzata della polio. Gli stessi medici si affidano a tentativi casuali: «In molti passavano la giornata a sperimentare qualcosa, perché fare qualcosa è meglio di non fare niente, ma questo qualcosa poteva rivelarsi estremamente pericoloso», racconta Gareth Williams, autore di Paralysed with Fear: The Story of Polio. Si ipotizza che la causa siano gli stranieri ma nulla lo può confermare, anzi dev’essere proprio una falsa pista visto che l’epidemia è presente anche nei quartieri più ricchi Allora l’attenzione viene dirottata verso i prodotti animali o vegetali come il latte andato a male, lo zucchero, persino i mirtilli. Qualcuno suggerisce che il vettore dello strano male siano invece le mosche, e il sindaco John P. Mitchel ordina che ogni finestra venga munita di zanzariera e che rimanga chiusa per tutto il giorno. È un estate torrida con quel caldo continentale che ti prende alla gola e non ti lascia mai in pace: il calore alla fine ne ucciderà più della polio. Infine arriva il turno dei gatti e in due settimane si consuma un’autentica strage: circa 70mila felini vengono abbattuti con i metodi più brutali, la gran parte a colpi di bastone, le vie dalla metropoli sono sommerse dai cadaveri degli animali con evidenti conseguenze igieniche. Un massacro inutile, alimentato dalla fake news che le autorità avrebbero regalato dollaro per ogni gatto ucciso. C’è chi prova a rifugiarsi in campagna ma nel New Jersey, nel Connecticut, in Massachussett la popolazione si ribella e impedisce l’accesso alle seconde case “ From New York? Keep Going!” si può leggere nei pannelli affissi nelle cittadine di provincia. Insomma, quel virus mortifero sembrava invincibile e destinato a cambiare le abitudini e la vita sociale di milioni di americani per chissà quanti anni. Poi, verso metà settembre i casi di contagio precipitano misteriosamente e in qualche settimana la poliomielite scompare con la stessa rapidità con cui era apparsa, una caratteristica comune a molti virus, in particolare quelli più letali e meno contagiosi. Il vaccino contro la polio fu scoperto 40 anni più tardi, l’annuncio il 12 aprile del 1955 da parte virologo statunitense Jonas Salk. Due anni dopo Albert Bruce Sabin, un medico polacco naturalizzato americano sviluppa la versione orale del vaccino. Il lavoro dei due scienziati fu accelerato dalla seconda ondata di polio che nel 1944 uccise 3mila bambini sempre nell’area di York, un’epidemia che fa da sfondo alla trama di Nemesis, l’ultimo romanzo dello scrittore Phlip Roth, ambientato nell’hinterland di Newark: «Erano gli spaventosi numeri che certificavano l’avanzata di un’orribile malattia ed, equivalevano ai numeri dei morti, feriti e dispersi della vera guerra. Perché anche quella era una vera guerra, una guerra di annientamento, distruzione, massacro e dannazione, una guerra con tutti i mali della guerra: una guerra contro i bambini di Newark» Oggi la poliomielite è quasi del tutto debellata: rimane ancora acceso un focolaio in Pakistan e si registrano contagi nel vicino Afghanistan, ma si tratta di qualche decina di casi. Secondo l’Oms nei prossimi anni il virus sarà completamente eradicato dal pianeta e conoscerà lo stesso destino del terribile vaiolo.
Mirella Serri per “la Stampa” il 19 aprile 2020. A maggio del 1348 le strade di Parigi avevano un' aria spettrale: le case erano tutte sbarrate e grandi fuochi ardevano ovunque. La peste nera venuta dalla Cina stava decimando l' Europa. Gli studiosi della Sorbona, come il medico Guy de Chauliac, credettero di aver trovato l' origine della patologia: a causa della congiunzione astrale tra Saturno, Giove e Marte si erano diffusi miasmi tossici nell' atmosfera. Per disinfettare le città si accesero enormi falò, si sparsero per le vie e le piazze aceto, acqua di rose e profumi. Vennero anche preparate e distribuite ai medici e alla popolazione maschere imbevute di sostanze aromatiche che coprivano bocca e naso: erano le antenate dell' odierna mascherina, proprio quella che oggi siamo costretti dal coronavirus a usare quotidianamente. Anche i veneziani si attrezzarono per bloccare l' espansione del maledetto virus - era la yersinia pestis trasmessa dai ratti agli uomini per mezzo delle pulci, come si scoprì nel 1894 - e nominarono tre tutori della Salute pubblica incaricati di mettere in «quarantina», dicevano così in dialetto, gli equipaggi delle navi. La quarantena lagunare fu una delle prime, drastiche misure di controllo. A raccontarci l' avventura dei rimedi e delle barriere che furono erette nei momenti di grande difficoltà, molto prima dell' epoca della profilassi attraverso la vaccinazione di massa, è il ricco volume del medico ungherese Stefan Cunha Ujvari Storia delle epidemie (ed. Odoya). Una storia che oggi si propone più attuale che mai. I Greci non conoscevano la parola contagio ma durante la guerra del Peloponneso furono afflitti, come racconta Tucidide, da un morbo micidiale che contribuì a indebolire Atene. Pur inconsapevoli di quali fossero le vie di trasmissione del virus, portavano gli infetti fuori casa, in spazi riservati nei templi dedicati ad Asclepio, patrono della medicina. Mettevano così in atto la pratica dell' isolamento sociale, precauzione oggi ineludibile. E si affidavano anche alla figlia di Asclepio, Igea, che si occupava della prevenzione delle malattie e per la tutela della salute ordinava abluzioni e lavaggi (dal suo nome, la parola «igiene»). L' abitudine del lavacro preventivo si diffuse in Grecia e poi a Roma durante le pandemie ma venne completamente dimenticata nel periodo medievale (si dovette arrivare all' Ottocento e alla rivelazione del dottor Ignaz Semmelweis, il pioniere della teoria del lavaggio delle mani, per capirne scientificamente il ruolo essenziale nella difesa dalle epidemie). Ippocrate, considerato il padre della medicina, paragonò le infezioni spesso mortali all' invasione da parte degli epídemoi (da cui «epidemia»), individui che non abitavano nella città ma che, ospiti non graditi, vi sostavano e poi se ne andavano. Queste invasioni portavano malattie e Ippocrate raccomandava la pulizia e la bonifica degli ambienti malsani. Come faceva pure Galeno, medico di corte dell' imperatore Marco Aurelio morto per una pestilenza (forse si trattava di morbillo), che proponeva di «detergere» sempre le mani. L' uso dei guanti, oggi reputati fondamentali per arrestare la penetrazione del coronavirus, venne imposto nel Medioevo. Erano costretti a indossarli i malati di lebbra per preservare le persone sane dal temibile contatto. Dalla Cina arrivò invece la cosiddetta vaiolizzazione, che fu la prima forma di vaccino. Nel Celeste Impero si era soliti prendere le croste delle lesioni provocate dal vaiolo, triturarle e farle inalare ai bambini con una cannuccia di bambù: s' introducevano così negli organismi i virus indeboliti o morti che stimolavano il sistema immunitario. Il metodo della vaiolizzazione passò in Turchia, dove il virus veniva inoculato tramite piccole lesioni sulla pelle, e poi intorno al 1700 arrivò in Europa e fu molto apprezzato da Voltaire. Mentre gli studiosi della Royal Academy di Londra valutavano i pro e i contro, nel 1718 la moglie dell' ambasciatore inglese a Costantinpoli, Lady Mary Wortley Montagu, lo sperimentò con successo sui propri figli. Nel 1790 il dottor Edward Jenner nato a Berkley fece un ulteriore passo in avanti, utilizzando, per immunizzare i pazienti, il virus del vaiolo che proliferava sulla cute delle mucche (per questo fu chiamato vaccino): lo inoculò nel suo bambino che così sfuggì all' epidemia. Era iniziata l' era della prevenzione collettiva, che salvando il mondo da tante pandemie mandava in cantina i vecchi rimedi come le mascherine, il distanziamento sociale, la quarantena, l' uso dei guanti e così via. Che oggi tornano in auge come preziosi compagni salvavita.
Gianni Oliva per “il Fatto Quotidiano” il 14 aprile 2020. Esattamente un secolo fa il mondo usciva dalla più grave pandemia della storia, l'"influenza spagnola", che tra il 1918 e il 1920, in ondate successive, provocò un numero di morti calcolati con l' approssimazione di milioni (20 milioni? 30? certamente più di quanti caddero nelle trincee della Grande Guerra). La prima curiosità è che la denominazione "spagnola" non ha nulla a che vedere con il luogo di prima diffusione del contagio. Il virus compare per la prima volta nell' autunno 1917 in un campo di addestramento militare americano, Fort Riley, nel Kansas, dove sono concentrate 50 mila reclute in attesa di essere mandate a combattere in Europa: sono loro a importare il contagio nel vecchio Continente e a diffonderlo rapidamente per la grande concentrazione di uomini sui campi di battaglia. Dall' inizio del 1918 ci sono morti in Francia, negli Stati Uniti, in Austria, in Inghilterra, tutti vittime di un' influenza subdola, che provoca polmoniti fulminanti e colpisce una fascia di età relativamente giovane (in media sotto i 40 anni): in Italia il primo caso letale si registra a Sossano (Vicenza), all' inizio di settembre 1918. I giornali non riportano, però, nessuna notizia di quanto sta accadendo: la stampa è sottoposta alla censura di guerra e i governi non vogliono allarmare un' opinione pubblica già sufficientemente provata dal conflitto. Nel novembre 1918, quando si verificano alcuni casi a Madrid, i quotidiani spagnoli danno invece la notizia, perché la Spagna non è entrata in guerra e l' informazione non è censurata. Per qualche settimana, sono solo gli spagnoli a parlare del virus, dando la sensazione che tutto sia partito dalla penisola iberica: per questo nei mesi successivi, quando la pandemia diventa troppo evidente per poterla nascondere, i giornali di tutto il mondo cominciano a parlare di "influenza spagnola". La seconda curiosità riguarda le vittime e i contagiati illustri. Una delle prime vittime è il pittore Gustav Klimt, massimo esponente della "secessione viennese": colpito da ictus l' 11 gennaio 1918 al rientro da un viaggio in Romania, viene ricoverato a Vienna e lì si contagia, morendo il 6 febbraio a 56 anni per l' infezione polmonare provocata dalla "spagnola". In autunno è la volta del suo allievo Egon Schiele, 28 anni, già artista celebre e acclamato: muore il 31 ottobre, tre giorni dopo che l' influenza gli ha portato via la moglie, Edith Harms, incinta di sei mesi (gli ultimi schizzi di Schiele sono ritratti di Edith nel letto d' ospedale). Il 9 novembre viene trovato morto nel suo attico parigino il poeta Guillaume Apollinare, 41 anni, e a fare la scoperta è l'amico Giuseppe Ungaretti, andato ad annunciargli la resa dei tedeschi. Una delle ultime vittime è Max Weber, padre della sociologia moderna: muore a Monaco di Baviera nel giugno 1920, 56enne come Klimt. Probabilmente il contagio risale a qualche mese prima, quando a Parigi ha partecipato come delegato tedesco alla conferenza di Pace. In occasione delle trattative parigine si contagia un politico illustre, il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, che riesce però a guarire (anche se, tornato a Washington dalla Francia, viene colpito da due ictus che di fatto lo esautorano dall' esercizio delle funzioni). Tra i guariti celebri ci sono i romanzieri americani Ernest Hemingway (che scopre di essere malato durante la navigazione verso New York, di rientro dalla guerra) e John Dos Passos , il futuro presidente Franklin Delano Roosevelt, l' appena ventenne Walt Disney, il romanziere praghese Frank Kafka (che avrà comunque i polmoni compromessi e morirà pochi anni dopo di tubercolosi), il sovrano Alfonso XIII di Spagna, e un personaggio legato alla successiva storia italiana, l' etiope Tafari Maconnen, che nel 1930 diventerà "negus neghesti" (imperatore) d' Etiopia col nome di Hailé Selassiè. Forse ammalatosi durante un viaggio in Europa, quando ha cercato appoggi internazionali per far accettare il suo Paese nella Società delle Nazioni, il futuro Negus viene curato da medici britannici che operano in Kenya e si salva. L' ultima curiosità riguarda le contromisure: cent' anni fa, come oggi, l' unica difesa è stata la quarantena. In molti Paesi è stata applicata senza rigore (gli Stati del 1918-20 non avevano comunque la forza per essere più incisivi): in Italia si è sconsigliato di viaggiare (ma i treni hanno continuato a funzionare), si è stabilito il coprifuoco nelle città dopo l' ora di chiusura dei locali (ma i locali sono stati lasciati aperti), si sono invitati i cittadini a evitare i contatti (ma il successo è stato dubbio, visto che nel maggio 1919 Mussolini tuona sul "Popolo d' Italia": "basta con questa sudicia abitudine della stretta di mano"). Scarso effetto: i morti italiani sono stati oltre 700 mila, qualche decina di migliaia in più dei caduti del Carso. L' unico paese al mondo senza vittime è stata una colonia francese, la Nuova Caledonia, in Oceania: mentre Paesi vicini come Nuova Zelanda e Australia sono stati contagiati, in Nuova Caledonia la diligenza di un funzionario coloniale ha imposto da subito una quarantena rigorosa e nessuno è stato portato via dalla "spagnola". Ricordiamocene. E se ne ricordino i "decisori" che allora hanno perso qualcuno (Friedrich Trump, "minore non accompagnato" emigrato dalla Germania, morì nel maggio 1918 nel Queens: aveva 49 anni, imprenditore di dubbia moralità e sicuro successo; era il nonno di Donald Trump).
L’encefalite letargica: ne uccise 5 milioni è poi sparì per sempre. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 21 marzo 2020. Il misterioso virus apparve nel 1916 ma fu ignorato per via dell’epidemia di influenza spagnola. Ancora oggi rimane uno dei più grandi enigmi medici del XX Secolo. «Sono come vulcani spenti» commentò sconsolato un medico che tentava di guarire quei malati ancora vivi ma sprofondati in uno stato di totale apatia e prostrazione. Erano stati colpiti dall’encefalite letargica, un virus misterioso che apparve in Europa e negli Stati Uniti intorno al 1916- 1917. Venne chiamata anche “malattia del sonno europeo”, in opposizione alla Trypanosomiasi africana, trasmessa dalla celebre mosca “tse- tse”. Il “paziente zero” è stato un sopravvissuto della battaglia di Verdun, ricoverato nel gennaio 1917 nella clinica Wagner- Jauregg di Vienna. I malati mantenevano un barlume di lucidità, si ricordavano chi fossero e dove fossero ricoverati, ma in pratica trascorrevano le loro giornate dormendo. Si svegliavano per brevi periodi solo se sollecitati dagli infermieri, avrebbero potuto morire di inedia nel sonno. La gran parte di loro non riuscì a sconfiggere il morbo che in pochi mesi compiva un decorso fatale. E anche chi sopravvisse restò per tutta la vita in uno stato di sopore e permanente astenia «simile a una statua». Alcuni di loro erano attraversati da continui tremori, altri ancora scivolarono verso la psicosi e la follia. La gestione dei traumi post- encefalici era tutt’altro che facile e fino agli anni 60 non si trovarono terapie efficaci per alleviare la vita dei malati. La piaga durò circa dieci anni, uccise 5 milioni di persone e poi scomparve per sempre. Mai più nessuna epidemia, nessun focolaio soltanto qualche caso isolato. L’encefalite letargica fu scoperta quasi contemporaneamente da due neurologi, il francese Jean- René Cruchet e l’austriaco Constantin von Economo e per questo nei manuali medici appare con il nome di Sindrome di von Economo- Cruchet. Entrambi descrivevano un «forte rigonfiamento delle pareti cerebrali che conduce a un profondo letargo». Il virus però venne pressoché ignorato dall’opinione pubblica ma anche dalla comunità scientifica perché dalle trincee della Prima guerra mondiale arrivò l’Influenza spagnola, un flagello che portò all’altro mondo cinquanta milioni di persone ( ma secondo alcuni esperti potrebbero essere state il doppio). La cause mediche della sindrome sono ancora incerte, avvolte da una nuvola di ipotesi e supposizioni: le più accreditate evocano un’origine autoimmune o comunque una reazione autoimmune a altre infezioni virali o batteriche, come per esempio l’influenza che si combina molto bene con le encefaliti. Si manifesta con una febbre molto alta che provoca in seguito cefalea, stati catatonici, l’inversione del ciclo sonno- veglia e persino la visione doppia nei casi più avanzati con l’inevitabile decorso verso la paralisi e il coma. Di sicuro diversi sintomi sono molto somiglianti a quelli provocati dal morbo di Parkinson, ma il rapporto tra le due patologie è tutto da stabilire. C’è anche chi ha supposto che la più celebre vittima dell’encefalite letargica fosse Adolf Hitler, che come è noto, negli ultimi anni di vita era percorso da bruschi tremori e aveva perso il controllo della mano sinistra; sarebbe stato in tal senso lo stato confusionale provocato dal morbo a spingerlo ad attaccacre la Russia nel 1941. Ma questa rimane poco più di una suggestione. Nel 2010 la Oxford University press pubblicò un lungo articolo consacrato all’encefalite letargica definendola «il più grande enigma o medico del 20esimo Secolo», aggiungendo che. sostanzialmente, le conoscenze odierne non sono molto diverse da quelle che la medicina aveva negli anni 30, concludendo che l’eziologia e gli agenti causali del virus sono «ancora del tutto oscuri». Gli epidemiologi, gli storici e anche gli scrittori si sono sbizzarriti nel ricercare la prima apparizione di questo misterioso virus. L’austriaca Laurie Winn Carlson ha avanzato una tesi affascinante: la malattia sarebbe nata in alcune comunità della Nuova Inghilterra intorno alla fine del 17esimo Secolo, il focolaio sarebbe stata la cittadina di Salem, teatro tra il 1692 e il 1693 nel più celebre processo alle “streghe” della storia americana, che portò all’esecuzione di 14 donne e sei uomini. Una psicosi collettiva che individuò nei comportamenti “bislacchi” di diverse giovani donne affette da mutismo, allucinazioni, crisi psicotiche una chiara testimonianza di stregoneria. Ecco cosa scrive Winn Carlson nel suo A fever of Salem: «Comparando i sintomi descritti dai coloni americani con quelli dei pazienti colpiti da enchephalitis lethargica all’inizio del 20esimo Secolo, una combinazione che accredita le ipotesi secondo cui la caccia alle streghe della Nuova Inghilterra fu una risposta ai comportamenti inesplicabili dovuti all’epidemia di encefalite». Uno dei lavori più noti sull’argomento e senza dubbio Risvegli del neuropsichiatra newyorkese Oliver Sacks che, alla metà degli anni 60 prese in cura alcuni pazienti vittime del virus nell’ospedale Beth Abraham del Bronx. La vicenda è raccontata anche dall’omonimo film interpretato da Robert De Niro e Robin Williams. Erano stati contagiati trenta anni prima e il loro stato vitale era poco più che vegetativo. Il dottor Sacks, oltre a utilizzare con profitto la musicoterapia, somministrò ai malati un farmaco che ebbe effetti davvero notevoli ( secondo alcuni «miracolosi» ), il L-Dopa ( o Levedopa), restituendo parzialmente alla vita quei “vulcani spenti”. Peraltro si tratta stesso che viene utilizzato per alleviare gli effetti del morbo di Parkinson, il che fornirebbe un’ulteriore prova della correlazione tra le due patologie. Un autore che si è interessato agli effetti dell’encefalite letargica è il drammaturgo britannico Harold Pinter ( premio Nobel per la letteratura nel 1985) che nel 1982 mise in scena la pièce teatraleA Kind of Alaska interpretata da un’intensa Judy Dench, liberamente tratta proprio dall’opera di Sacks. La pièce illumina la vita di Deborah, una donna affetta da encefalite letargica che si risveglia dopo 16 anni di coma, un risveglio brutale, non riconosce più il suo corpo, non riconosce più i suoi cari. Come le spiega il medico che l’ha curata: «La tua mente non è stata danneggiata, Era rimasta solo sospesa, aveva preso temporanea dimora in una specie di Alaska».
La malattia, la quarantena, i funerali solitari: la lettera del 1918 (che sembra scritta oggi). Pubblicato lunedì, 23 marzo 2020 su Corriere.it da Goffredo Buccini. «Carissima Adele». È una voce lontana, che però ci parla al cuore: «Io e mammà siamo scampati per molto poco alla morte e siamo restati sofferenti…». È l’eco delle nostre paure che torna dal passato: «Il giorno dopo papà era preso da tosse violenta e febbre, dopo qualche ora anche mammà aveva la febbre a 39…». È uno specchio molto distante eppure terribilmente prossimo dei nostri orrori quotidiani: «Dopo tre giorni si fece il funerale, tristissimo, senza accompagno, poiché non si poteva prevedere l’ora e perché mi avevano detto proibiti gli accompagni… dopo sette giorni io malfermo sulle gambe dovetti andare al Verano e avere lo strazio di cercare fra 40 o 50 feretri ammonticchiati quello da me adorato».
3 novembre 1918. A villa Giusti, Padova, si firma l’armistizio con Vienna che, dal giorno dopo, metterà fine alla Prima guerra mondiale, causa solo in Italia di più d’un milione di morti tra militari e civili. Da Roma un trentenne segnato nel corpo e nell’anima racconta alla sorella un’altra guerra, quella della loro famiglia e di tante altre famiglie italiane contro la febbre spagnola, la micidiale pandemia che tra il ’18 e il ’20 provocherà solo da noi 400 mila vittime. Lo fa con una lunga lettera (che qui riproduciamo) densa di lessico familiare ma anche di sgomento per quei momenti convulsi d’angoscia all’incalzare del morbo, così simili ai nostri un secolo dopo. «Il 9 o il 10 mi ammalai e presto mi aggravai. Papà corse dal medico e per fortuna, dati i tempi, ne trovò uno mediocre e carico di lavoro. Dopo due giorni, io cominciavo a vaneggiare, e povero papà alla mamma disse che pregava perché fosse sacrificata la sua vita invece che la mia».
Italo Libero Garibaldi La Torre. Nella lettera ad Adele quel giovane appena convalescente si firma «tuo affezionatissimo Italo». Ma Italo è tale solo in famiglia e il suo nome è una storia nella storia: è quello che suo padre, Paolo La Torre, professore di latino e greco a Roma immerso nelle passioni risorgimentali di quell’Italia, gli avrebbe voluto imporre alla nascita, nel 1889. «In realtà l’Italo della lettera avrebbe dovuto chiamarsi Italo Libero Garibaldi, ma il sacerdote che doveva battezzarlo si rifiutò di mettergli quel nome e nel sacramento gli impose quello del suo padrino, Michele, per l’appunto», spiega Augusto D’Angelo, il docente di Storia contemporanea del dipartimento di Scienze politiche della Sapienza che ha recuperato il carteggio attraverso una nipote di Michele, Antonella Palmieri. E forse davvero il destino di ciascuno è segnato dall’inizio. Perché Michele La Torre, già testimone involontario alla nascita delle divisioni profonde della nostra patria, attraverserà stagioni di segno assai dissimile, in una sorta di caleidoscopio della travagliata vicenda nazionale. «Sarebbe divenuto giurista di fama, esperto in diritto amministrativo e autore di testi di rilievo, consigliere di Stato nel 1935, iscritto al partito fascista e collaboratore del ‘Diritto razzista’ con posizioni antisemite; dopo il 25 Luglio collaboratore dell’ufficio legislativo del ministero degli Interni del governo Badoglio, nel ’53 candidato dc e nel ’58 del partito monarchico: sempre senza successo», spiega ancora il professor D’Angelo. Almeno tre o quattro vite in una, la lunga storia d’un italiano. Per noi è e resta l’Italo dei suoi trent’anni, il cronista dolente dello sconquasso che si abbatté nella sua casa romana in quello scorcio del 1918.
Caterina La Torre Satriani. Dopo il 10 ottobre, dunque, tutti sono già contagiati. Ma la madre Caterina, divorata dalla febbre, si alza per accudire lui e il padre. La quarantena che oggi sopportiamo con insofferenza era già imposta allora dal terrore, identica la solitudine dei reclusi. «In casa nostra nessuno, nessun amico, solo il portinaio cominciò a comprarci qualche medicina, sempre con ritardo. Intanto papà peggiorava, non parlava più ed aveva un affanno, quasi un rantolo». Allora come ora, non sembra esserci altra cura che la compassione: «Il medico ordinò a tutti noi iniezioni di olio canforato, e si trovò un infermiere che venisse a farle di tanto in tanto. Io ebbi la forza di scrivere un biglietto ad una signora mia amica, che per fortuna disinteressatamente venne con suo pericolo di vita, e per parecchi giorni e parecchie notti è stata al mio capezzale facendo anche qualche cosa per papà». Allora come ora, il morbo non riesce a spezzare l’unico autentico legame al mondo, l’amore della famiglia. «La mattina del 13 io mi sentivo presso alla fine, avevo dei periodi di coma in cui desideravo la morte e incrociavo le mani, quando di tratto in tratto avevo un risveglio di soprassalto con un colpo al cuore e chiedevo un cucchiaio di caffeina che per un minuto mi dava il senso della vita. In un momento di crisi essendovi stato un allarme per me, il mio povero adorabile papà ebbe la forza sovrumana di levarsi dal letto e venire avanti al mio, non potette dirmi una parola, né fare un gesto, ma le lagrime agli occhi erano eloquenti. Lo riaccompagnarono a letto e non si mosse più, non chiedeva ne voleva nulla». Infine, sentiamo su di noi lo strazio di Italo per il padre, lo stesso dei tanti figli che hanno visto scomparire i genitori dietro le porte di una terapia intensiva per non riabbracciarli mai più. «Il rantolo era divenuto continuo e forte ed io dalla stanza a lato lo sentivo e mi opprimeva nel mio vaneggiamento il cuore ed il cervello. Mammà stava al suo fianco a letto, ma più in sentimento gli domandò: ‘Ti senti male?’. Egli accennò solo di sì con la testa. Quel giorno il tempo fu orribile, diluviava, ed il medico non venne; ha detto dopo di essersi sentito male, ma non lo credo… Verso le 8 l’infelice ebbe un breve grido soffocato, destandosi dal letargo della notte, ed il rantolo cessò: l’avevamo perduto per sempre. Mammà venne trascinata da me, e fu molto forte, perché temeva molto per me. Io la sera avevo riacquistato la lucidità, e potetti dare le disposizioni per il funerale; ma quale disastro! Quei ladri lasciarono l’infelice salma per più di 48 ore senza una cassa, con noi sempre gravi vicino».
Paolo La Torre. L’abbandono del corpo alla camera mortuaria, poi la ricerca del padre nel cimitero romano del Verano tra decine di feretri «ammonticchiati»: un identico sgomento trasforma questi centodue anni nel sussulto d’un attimo, lo choc del corteo funebre di camion militari a Bergamo. Infine, e ce ne dovremo ricordare, la vita sempre rinasce, persino con le piccole vanità di cui siamo intessuti: «Intanto sappi che ora (proprio ora) mi hanno nominato ufficiale di sussistenza (non combattente) e ho messo la divisa. Il povero papà non ha potuto avere questa consolazione, né avere quell’altra di sentire l’attuale grande vittoria e la pace, che tanto lo avrebbero rallegrato». E la pace, sì, la pace sempre ritorna, sui campi di battaglia e tra noi: «Qui l’epidemia pare in diminuzione; ora, 100 decessi al giorno: al culmine erano 200». Così le ultime righe di Italo alla sorella ci appaiono di rivoluzionaria normalità, adesso come allora: «Mandaci tue notizie di tanto in tanto anche con cartolina; come farò io; e consoliamoci se almeno la nostra salute non sarà minacciata, avendo tutti dei doveri reciproci di mantenerci in salute. Intanto abbraccio te e Nino e bacio le bambine». Perché sì, nel mondo dopo l’orrore, restano sempre loro: i baci e i bambini.
Nel 2015 quasi 5mila morti per influenza, ma nessuno ne parlò. Aldo Torchiaro de Il Riformista il 27 Febbraio 2020. Salgono a dodici le vittime del Coronavirus, mentre i contagiati arrivano a 400. Risultano ricoverate 116 persone, altre 36 in terapia intensiva, 209 in isolamento domiciliare. Snoccioliamo il bilancio di questa guerra sanitaria davanti agli occhi di Beatrice Lorenzin. La parlamentare è giovane ma ne ha già viste tante. Lorenzin è stata tra i ministri della Salute più longevi, essendo rimasta in carica dal 28 aprile 2013 al 1º giugno 2018 prima nel Governo Letta e successivamente riconfermata sia nel Governo Renzi sia nel Governo Gentiloni. Ha passato indenne più di un virus, ma rimane contagiosa: la passione per la politica anima da vent’anni questa ragazza di Ostia, mezzosangue fiorentino e mezzo istriano, e le viene riconosciuta dai diversi compagni di viaggio. È per questo vissuto che può guardare al passato con qualche parametro di riferimento. Correva l’anno 2015 quando l’ondata “No vax” investì in pieno l’opinione pubblica. Lo shitstorming su Burioni, contro i virologi, è stato travolgente. E ha impedito persino il diritto di replica. «Nell’anno clou dell’ondata No Vax, l’Istituto Superiore di Sanità ha registrato un netto calo delle vaccinazioni su tutta la popolazione», riassume per Il Riformista l’ex ministro Lorenzin, che oggi siede sui banchi del Pd a Montecitorio. «L’esito fu drammatico. Ci furono in un solo anno 4650 vittime dell’influenza, perché i soggetti protetti dalla vaccinazione stagionale erano bruscamente calati. Normalmente gli anziani debilitati che purtroppo soccombono all’influenza, ogni anno, sono circa 1200-1400 nel nostro Paese. In quell’anno furono il quadruplo. Ma la cosa non destò affatto scompiglio, anzi. Non molti diedero peso a quei numeri, che invece a me colpirono e molto». E adesso siamo alla psicosi. «L’altro giorno sono stata al supermercato di quartiere, in vista di una serata con amici a casa mia. Ho riempito il carrello con decine di bottiglie e di snack», ci racconta. «L’esito è stato paradossale: una persona mi ha visto e ha iniziato a telefonare agli amici, dicendo che l’ex ministro della Salute, evidentemente al corrente di qualche verità nascosta, stava facendo provviste per la quarantena a casa. Ed è scoppiata una psicosi di quartiere, con tanti vicini di casa che si sono precipitati nello stesso supermercato per riempirsi i carrelli». Sorride. «se avessero guardato bene nel mio, avrebbero visto che avevo soprattutto bottiglie di Coca Cola e di vino per gli invitati della sera». E rivolge un appello a «rimanere informati, adottare le corrette misure di cautela, ma non cedere al panico, che non aiuta mai». Medesimo appello («Niente panico né psicosi», hanno rivolto ieri all’Italia l’Unione europea e l’Oms, nelle vesti della commissaria europea per la Salute Stella Kyriakides e del direttore dell’Oms Europa Hans Kluge, a Roma insieme alla direttrice dell’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie) Andrea Ammon per fare il punto della situazione col ministro della Salute Roberto Speranza. «Nell’Unione europea siamo ancora in una fase di contenimento», ha spiegato Kyriakides, «vista la velocità con cui si evolve la situazione, bisogna essere pronti in tutta l’Unione ad affrontare questa situazione, anche perché abbiamo avuto un numero elevato di infezioni. E stiamo lavorando per un coordinamento». Coordinamento invocato anche dal ministro Speranza che ha detto: «il virus non ha frontiere». Kluge dell’Oms ha fatto il punto su cure e vaccini: «Il tasso di mortalità al 2%, ma è sceso all’1% in Cina», ha detto, sottolineando che «anche una sola persona che muore è una persona di troppo». Kluge ha spiegato che «tutt’oggi non c’è cura efficace per questo virus, abbiamo solo trial clinici con farmaci antivirali», mentre «per sviluppare un vaccino ci vuole circa un anno e mezzo». Infine ha evidenziato l’importanza di quello che sta facendo l’Italia: «Non sappiamo tutto del virus, tutto quello che verrà fatto in Italia sarà molto importante per l’Oms e il resto del mondo per aggiornare le proprie politiche».
Roberto D’Agostino per Vanity Fair il 2 marzo 2020. A giudicare dal turbine mediatico, il Coronavirus deve avere sviluppato, per motivi di competizione con il cancro, l'infarto, l'ictus, un senso delle pubbliche relazioni abnorme, capillare, da multinazionale del virus. Non c'è giorno, giornale e telegiornale che non lanci allarmi ed emergenze. Se ne vaneggia con apprensione, spavento, scandalo, moralismo, agitando cornetti rossi e mascherine bianche; enfatizzando titoli, inventando slogan, profetizzando centinaia di milioni di appestati. Si intervistano scienziati sinistri e medici con l'occhio a forma di bara, vescovi folli e politici che ragionano col didietro; gente che prova al pensiero di una epidemia quello che noi proviamo per un viaggio a Tahiti. Si accumulano cifre terrorizzanti, serial-tivù apocalittici e immaginari, eventi tragici, storie esemplari, pettegolezzi imbarazzanti, spot macabri, superstizioni, scemenze, volgarità, smarrimenti, paranoie. Il Coronavirus ha fatto evitare addirittura la crisi del governo Conte e messo mezza Italia in quarantena, correndo il rischio di distruggere un paese già in difficoltà economiche. E fioccano i dubbi più angosciosi: "E' vero che si può prenderlo anche in tram, come il digestivo Antonetto? Ho letto che il Coronavirus si manifesta con la tosse? Ho leccato un francobollo: devo fare il test del tampone?". Che un virus abbia un debole per il presenzialismo di massa negli ospedali, un evidente entusiasmo per la conquista di schiere sempre più folte di "ammalandi", e un certo acre gusto dell'orrore nel battere la concorrenza di disgrazie enormemente più fatali come "la fame nel mondo", la mortalità infantile, l'alcolismo e il cancro, è non solo comprensibile, ma professionalmente corretto. Tuttavia, chi non è medico, prete o giornalista, ma un semplice lettore "laico", prova un pesante senso di depressione. Perché, scriveva acutamente Susan Sontag, "La nostra è un'epoca in cui si persegue la salute, e che tuttavia crede solo nella realtà della malattia". E' vero, "denunciare il problema" è importante, lancia l'allarme, aiuta a riflettere sul mondo globalizzato, dove i germi di uno colpo di tosse in Cina te li ritrovi a due passi da Milano. E' vero, però, che dall'altro lato si crea un micidiale circolo vizioso tra emozione e sdegno come capita sempre quando le informazioni sono sovrabbondanti, eccesive e contraddittorie, a una fase di interesse, poi di irrazionale paura, seguirà certamente l'indifferenza, che, quella sì, potrebbe essere pericolosa come o più della insensata paura. Ma è giusto - considerato il modesto numero dei morti - continuare a dipingere il virus come la "peste del Duemila"? E' giusto creare un macabro circolo vizioso tra l'emozione e la paura del pubblico e la volontà della stampa e della televisione di assecondarle in omaggio alla tiratura e all'audience? Il numero dei malati e dei morti di Coronavirus è senza dubbio inferiore a quello dei morti di alcolismo o di incidenti d'auto. Ogni anno in Italia muoiono 11 mila persone di polmonite. Cioè 30 al giorno. Ma sono morti “silenziose”, a luci spente, che non destano l’attenzione dei media. La causa? I classici virus influenzali che direttamente o indirettamente, cioè per complicanze respiratorie o cardiovascolari, non sono poi così tanto meno insidiosi del Covid-19 E' evidente che il Coronavirus si trovi in un periodo di ciclo vitale, perché fa parte di quei virus che hanno dei periodi di esuberanza per entrare poi in uno stato di letargo. E' come la lebbra, la peste bubbonica, il cosiddetto "cancro dei cipressi" - una specie di ondata infettiva che, ogni 8O anni, elimina gli alberi più deboli. Sono malattie cicliche; quindi può essere che del Coronavirus ci fosse stata un'altra epidemia tre secoli fa, che veniva chiamata intorcimento delle budella oppure peste viperina. Nel corso della storia ci sono sempre state delle terribili pestilenze, alcune delle quali hanno avuto delle conseguenze esiziali per l'apparato politico. Si dice che l'epidemia che colpì il regno degli Antonini, nel secondo secolo a Roma, fosse l'arrivo del morbillo; invece, la natura della famosa peste nera, che si abbatté su Bisanzio e sul Medio Oriente nel sesto secolo, è ancora avvolta dal mistero. Insomma, se ne parla poco con esattezza scientifica, ma è vissuto come l'attesa del castigo dopo il delitto, una punizione morale come la peste che colpisce Don Rodrigo nei "Promessi Sposi" o il vaiolo di Madame Merteuil in "Les liasons dangereuses".
Da L. MAR. su La Stampa il 2 marzo 2020. La peggiore catastrofe del Novecento? «Se si chiede all' uomo della strada quale sia stata, indicherà la prima o la seconda guerra mondiale. E invece no, l' influenza spagnola fece molti più morti». A parlare è Laura Spinney (nata nel Regno Unito, ma vive a Parigi), autrice del libro 1918, l' influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, pubblicato in Italia da Marsilio (da questo mese anche come tascabile, pp. 348, 11). Il grosso di quella tragedia si consumò in appena un anno, a partire dalla primavera del 1918, con un totale di morti stimato tra i cinquanta e i cento milioni, mentre quelli della Grande guerra, che allora si stava concludendo, furono in tutto diciassette milioni. Il ricordo della Spagnola scatena paure ataviche in questi tempi di Coronavirus.
Perché aveva quel nome, ebbe origine in Spagna?
«No, assolutamente. In quel momento i principali Paesi combattevano la guerra e non volevano che l' annuncio di un' epidemia avesse riflessi negativi sul morale delle truppe. A lungo non si disse nulla. La Spagna, invece, era neutrale e già nella primavera del 1918 i giornali cominciarono a scriverne. Poi il re Alfonso XIII si ammalò e questo dette una certa visibilità alla malattia».
Ma allora dove s' iniziò la contaminazione?
«Sono trascorsi cent' anni e non si è individuato il paziente zero. Alcuni ricercatori vi lavorano ancora oggi. Ci sono tre ipotesi principali: in una base militare del Kansas, in un' altra britannica nel Nord della Francia (a Etaples). Oppure la Spagnola sarebbe arrivata dalla Cina, ma c' è il sospetto che quest ipotesi, affiorata già ai tempi, sia giustificata da una buona dose di razzismo».
Colpì proprio tutto il mondo?
«Si ammalò un terzo della popolazione del pianeta, come dire 500 milioni di persone. Furono pochissimi i territori che non furono interessati dalla contaminazione. Avveniva soprattutto attraverso le navi, quelle che trasportavano le truppe della Prima guerra mondiale e ancora di più quelle postali».
Quali aree furono risparmiate?
«Alcuni luoghi sperduti come l' isola di Sant' Elena, una nel delta del Rio delle Amazzoni e l' Antartide. E soprattutto l' Australia».
Come fece un Paese così grande a difendersi?
«Si resero conto che l' influenza si propagava verso di loro dall' emisfero Nord e applicarono una quarantena marittima rigorosa. Così evitarono la seconda ondata della Spagnola, la più terribile, a partire dall' agosto 1918 fino a novembre. Ma tolsero la quarantena troppo presto e così l' epidemia arrivò in Australia con la terza ondata, nei primi mesi del 1919. E provocò 12 mila morti».
È incredibile come la Spagnola, sconvolgente, sia stata dimenticata.
«È vero, ad esempio rispetto ai grandi conflitti. Ma una guerra è più facile da raccontare: ci sono i cattivi e i suoi eroi. Anche se, pure nel caso dell' influenza spagnola, gli eroi ci furono, i medici che s' impegnarono a combatterla».
Cosa dice il ricordo della Spagnola ai nostri tempi, quelli del Coronavirus?
«L' Oms non ha ancora dichiarato la pandemia, anche se resta possibile. In ogni caso il virus della Spagnola è di una famiglia diversa rispetto a quello del Covid-19, che invece fa parte dello stesso gruppo di quello della Sars. Diciamo che un virus può sempre avere un' evoluzione e mutare: cambiare e adattarsi. L' esempio della Spagnola è interessante. La prima ondata non fu così forte, simile a un' influenza stagionale particolarmente virulenta. Ma poi il virus mutò e la seconda ondata fu molto peggiore, terribile. Nel caso di un virus, bisogna sempre stare attenti all' evoluzione».
Cosa successe allora? Alla seconda ondata i medici erano più preparati?
«No, per niente. Anzi, inizialmente pensarono che non si trattasse dello stesso ceppo, dato che era molto più letale. In tanti la scambiarono per un' epidemia di tifo».
Diciamo comunque che oggi diversi centri di ricerca sono già al lavoro per arrivare a un vaccino anti-coronavirus.
«Sì, ma esiste anche un' avversione da parte di alcuni nei confronti della vaccinazione. Il fenomeno dei No Vax, tipico dei nostri tempi, sebbene minoritario, potrebbe comportare grossi problemi, nel caso il coronavirus diventasse una vera epidemia».
Oggi, rispetto alla Spagnola, l' informazione circola e questo è un bel vantaggio.
«Sì, sicuramente, grazie soprattutto a Internet. Il fatto che per l' influenza spagnola, almeno agli inizi, certi governi fecero finta di nulla e non presero le misure necessarie fu un errore madornale. Oggi, però, oltre all' informazione vera circolano anche le fake news. E la prima spesso è a pagamento, le seconde gratuite».
Morte sull'Acropoli: la peste ad Atene. Nel quinto secolo a. C. lo statista Pericle e il suo amico scultore Fidia furono le vittime più illustri di un'epidemia misteriosa che seminò strage intorno al Partenone da poco inaugurato. La morte di centomila cittadini dell'Attica segnò le sorti della guerra contro Sparta. Gianfranco Turano il 29 aprile 2020 su L'Espresso. Nel 430 avanti Cristo si combatte il secondo anno della guerra del Peloponneso. È la fase iniziale di una guerra feroce fra la democratica Atene e l'oligarchica Sparta, che spacca in due schieramenti la Grecia per 28 anni. È uno scontro di civiltà e di modelli politici. Nel 403, quando gli Ateniesi si arrendono, decenni di distruzioni mettono fine all'età dell'oro delle città-stato, della politica, della filosofia, delle arti. Nel 430 Atene è ancora all'apice della sua potenza. A guidarla è uno dei politici più geniali del mondo antico, Pericle di Santippo, discendente dalla nobile famiglia degli Alcmeonidi ma convertito al credo rivoluzionario della democrazia che prescrive uguaglianza di fronte alla legge per tutti i cittadini. Nella polis ateniese il sessantenne Pericle occupa la carica elettiva e collegiale di stratego e ha stabilito le linee guida della guerra contro Sparta. Le descrive il suo concittadino Tucidide. Il padre della storia moderna ha trent'anni nel 431-430 ed è inquadrato nell'esercito, costituito integralmente da cittadini e dagli alleati-tributari di Atene raccolti nella Lega delio-attica, un modello di tipo imperialistico che sarà grosso modo imitato secoli dopo dal Commonwealth britannico. La condotta bellica decisa da Pericle, che Tucidide ammira profondamente, è semplice. Atene, potenza marittima, non deve accettare lo scontro in campo aperto con gli opliti spartani che, in quel momento, sono la forza militare di terra più temibile del mondo conosciuto, come hanno imparato a loro spese i re di Persia qualche decennio prima al tempo della grande alleanza panellenica. Atene quindi abbandona l'interno dell'Attica alle forze di invasione peloponnesiache, guidate dal re spartano Archidamo di Zeuxidamo. Gli abitanti dell'entroterra attico (mesogheia) sono invitati a rifugiarsi in città dove sono protetti dalle Lunghe Mura, una fortificazione insuperabile realizzata cinquant'anni prima da Temistocle che unisce la città alta con il porto del Pireo (10 chilometri circa). La strategia di Pericle non si limita alla difensiva. Nel 431, mentre gli spartani devastano l'Attica, dal Pireo parte una spedizione navale che porta le stesse distruzioni a casa dell'avversario, nel Peloponneso. L'impossibilità di sopravvivere a lungo nella terra bruciata e la necessità di difendere le proprie città inducono gli spartani a ritirarsi alla fine della prima estate di conflitto (431) nei quartieri invernali di Corinto. Nell'estate del 430, però, l'invasione dell'Attica ricomincia. Pochi giorni dopo, nella città affollata di profughi, si diffonde un contagio che nessun medico riesce a comprendere o a curare e che presto riempie case e strade di morti. La descrizione del loimós, la pestilenza che si abbatte su Atene, occupa la parte centrale del secondo libro della storia della guerra del Peloponneso di Tucidide, appena dopo l'epitaffio che Pericle dedica ai morti del primo anno di battaglia e che lo statista trasforma in una straordinaria esaltazione del sistema democratico ateniese. L'origine del contagio è forse Lemno, isola egea alleata di Atene, o più probabilmente l'Africa. Di sicuro, la porta d'ingresso è il Pireo. Tucidide riporta, senza abbracciare la tesi, la voce che gli spartani avrebbero avvelenato i pozzi della zona portuale scatenando la guerra batteriologica. La paranoia dell'untore si presenta per la prima, ma non per l'ultima volta, fra gli ateniesi in guerra. La città non potrebbe essere in una situazione peggiore rispetto a un'epidemia. I suoi abitanti sono arrivati a circa 300 mila a causa dell'enorme afflusso di sfollati dalle campagne. I contadini che gli ateniesi di città prendono in giro per il loro accento occupano baracche e alloggi di fortuna in condizioni igieniche pessime. La trasformazione dei civili in soldati ha conseguenze pesanti per tutte le attività economiche e commerciali sulle quali Atene prosperava e che sono in piena recessione. I principali raccolti estivi, a incominciare dal grano, sono persi o distrutti dal nemico. La fuga dal focolaio dell'epidemia, una delle costanti storiche di ogni pestilenza, è resa impossibile dalla presenza dell'esercito invasore a breve distanza dalle Lunghe Mura. Non è un assedio in senso proprio anche perché gli Spartani vengono presto a sapere del morbo. Si tengono a debita distanza e preferiscono dedicarsi al saccheggio delle miniere di argento del Monte Laurio, circa cinquanta chilometri a sud di Atene. Per alleggerire la pressione Pericle ordina e spesso guida operazioni di disturbo. Una spedizione composta da quattromila opliti (fanteria pesante) e trecento cavalieri caricati su centocinquanta navi attacca senza successo Epidauro nel Peloponneso mentre un altro stratego, Agnone, assedia Potidea nella penisola Calcidica. Agnone ottiene la resa ma a carissimo prezzo. Le truppe di rinforzo arrivate da Atene portano il contagio che fa più strage del nemico uccidendo 1050 opliti, circa un quarto delle truppe. Di nuovo, bisogna sottolineare che i caduti sono tutti cittadini e che gli eserciti dell'epoca non prevedono la partecipazione dei mercenari. Quando le truppe ateniesi rientrano, gli spartani hanno abbandonato l'Attica dopo quaranta giorni di occupazione, pronti a una nuova invasione l'anno seguente. È troppo alto il rischio di rientrare nei quartieri invernali con la pestilenza al seguito.
Il mistero della peste. Il morbo che passa alla storia come la peste di Atene è un mistero della patologia. Le ipotesi degli studiosi sul loimós tucidideo riempiono volumi. Si è pensato alla peste bubbonica, al tifo petecchiale, alla salmonella enterica (febbre tifoide), al vaiolo, al morbillo, all'ergotismo sviluppato da granaglie infette, al cimurro, a malattie epizootiche varie, a febbri emorragiche di provenienza africana (Ebola, Lassa), all'influenza e, infine, a una combinazione fra alcune delle malattie elencate. Il motivo dell'incertezza è nella descrizione sintomatologica offerta da Tucidide che non solo è il padre della storia moderna con il suo metodo dell'autopsia (osservazione diretta dell'evento attraverso documenti e testimonianze) ma nel caso del loimós è egli stesso parte della ricostruzione autoptica poiché è un sopravvissuto del morbo (“io stesso ne fui affetto”). Purtroppo i sintomi che descrive sono così vasti e caotici da non rientrare con esattezza in nessun quadro clinico preciso. Si va dallo squilibrio mentale alla depressione, dalle emorragie alla diarrea, dalla cancrena all'amnesia. Altri sintomi distintivi, come i bubboni del batterio Yersinia pestis o come le macchie tipiche del vaiolo, sono invece assenti. Senza troppo addentrarsi nel dibattito scientifico ancora molto controverso, si possono segnalare un elemento archeologico e uno storico. Nel 1995 gli scavi delle fosse comuni nel quartiere ateniese del Ceramico, a nord dell'Acropoli, hanno consentito l'esame di alcuni cadaveri risalenti all'era del grande loimós. Gli esami delle gengive e dei denti hanno mostrato tracce compatibili con la salmonella enterica o la febbre tifoide, da non confondere con il tifo. Della letalità della Salmonella enterica si è già parlato nell'articolo sulla conquista delle Americhe dove l'epidemia di febbre tifoide, a metà del Cinquecento, fece milioni di morti fra i nativi. L'elemento storico che rende probabile l'origine africana del loimós, oltre alla ricostruzione dello stesso Tucidide, è la frequenza dei rapporti fra Atene e paesi come l'Egitto, la Libia, l'Etiopia che spediscono merci preziose introvabili in Europa. Nel 438, otto anni prima della peste, Fidia aveva realizzato e installato nella cella interna del Partenone la colossale statua crisoelefantina di Atena Parthenos combinando l'oro e l'avorio delle zanne degli elefanti. Due anni dopo (436), il genio della scultura e amico di Pericle diede il bis con la statua di Zeus a Olimpia. Le due statue, che non esistono più in originale, erano alte oltre 12 metri e hanno richiesto tonnellate di materiali contribuendo a intaccare pesantemente il tesoro delio-attico, in teoria cassa comune della Lega, in pratica deposito fiduciario degli alleati gestito da Atene e investito per le architetture religiose monumentali dell'Acropoli. Il legame degli ateniesi con il divino è contraddittorio ed estremistico come tutto in Atene. Tucidide il razionalista non prende in considerazione, se non per la cronaca, profezie, presagi, scongiuri e altre pratiche che per lui sono superstizioni. L'eclisse solare che molti ateniesi accolgono come annuncio di sventura viene scientificamente spiegata dal filosofo razionalista Anassagora, il precettore di Pericle che la cittadinanza ringrazierà, in modo molto tipico, con l'accusa di empietà e l'esilio. Fidia viene invece accusato di malversazione dei fondi statali e di blasfemia per essersi raffigurato sullo scudo di Atena. Assolto dalla corruzione, viene condannato per il secondo reato e muore in carcere nel 430, probabilmente vittima del morbo che non risparmia i prigionieri. Di fronte alla catastrofe gli Ateniesi non lasciano nulla di intentato per placare l'ira degli dei. Il governo della città decide una delle più grandi sanificazioni del mondo antico. Il luogo prescelto non è Atene, dove la situazione del contagio è disperata. La purificazione consigliata dall'oracolo di Delfi si svolge a Delo, l'isola delle Cicladi dove viene custodito il tesoro della Lega delio-attica. Prima di essere un simbolo politico, Delo ha un significato religioso. È sede del maggiore santuario panellenico dedicato al culto di Apollo, il dio che nel primo libro dell'Iliade scatena la sua ira sull'esercito acheo che assedia Troia e che ha mancato di rispetto al suo sacerdote Crise. Apollo, attraverso il suo arco letale, manda la pestilenza: “lanciò sugli Achei mala freccia, così gli uomini morivano gli uni sugli altri, volavano i dardi del dio da tutte le parti”. Secoli dopo, per sfuggire a un altro contagio, gli Ateniesi riesumano tutti i sepolti a Delo e li portano nell'isoletta vicina di Renea insieme agli ammalati. “Proclamarono”, scrive Tucidide (III, 104), “che da allora in poi nessuno morisse e nessuna donna partorisse a Delo”. Di qualunque patologia si trattasse, Tucidide non si limita a descriverne gli effetti corporei. La peste è presentata come un disgregatore formidabile del tessuto sociale, dei costumi e delle leggi. Lo scoraggiamento di fronte alla totale mancanza di una cura e alla mortalità elevatissima che colpisce i medici, i cittadini mostrano di non avere più “nessun timore degli dei o della legge umana”. Le infrazioni e i reati si moltiplicano perché nessuno si aspettava di vivere fino a rendere conto dei suoi misfatti e pagarne il fio”. Si allentano i rapporti di una società dove la dimensione pubblica era essenziale. “Per timore non volevano recarsi l'uno dall'altro, morivano abbandonati e molte case furono spopolate”. Alla mente razionale greca non sfugge il concetto che oggi è definito immunità anticorpale: “Il morbo non colpiva la stessa persona una seconda volta in modo mortale”. Quelli che sopravvivevano e acquisivano l'immunità “erano considerati felici dagli altri e loro stessi per la gioia del momento avevano la vana speranza di non essere più uccisi da nessun'altra malattia”. Ma la letalità rimane altissima. “Molti usavano metodi di sepoltura indecenti” prosegue Tucidide, “mentre un cadavere ardeva, vi gettavano sopra quello che portavano e se ne andavano”. I contagiati sembrano impazziti. Vengono presi da un tale bruciore interno che circolano nudi e si tuffano nell'acqua gelida. I morti abbandonati per strada vengono divorati da cani e uccelli che dopo poco spariscono, sterminati dalle tossine dei cadaveri infetti. Fiducia confermata. La peste del 430 sembra dare un colpo definitivo al potere di Pericle che si presenta in assemblea a perorare la sua linea bellicista contro chi vuole trovare un accordo di pace con gli spartani. Tucicide riporta anche questo discorso subito dopo avere raccontato la strage del morbo che uccide “come le pecore” (osper ta pròbata) almeno un terzo dei residenti in Atene e che si spegnerà soltanto nel 426. Pericle rischia di finire sotto processo e viene multato. “Poco dopo”, scrive Tucidide, “come di solito fa il popolo, lo rielessero stratego e gli affidarono tutti gli affari pubblici perché erano stati resi più miti per quanto riguarda le sciagure private”. Ma i lutti privati non hanno finito di colpire Pericle. Muoiono in successione sua sorella e i due figli legittimi Santippo e Paralo. Nel 429 lo stesso Pericle soccombe al contagio. Sopravvive alla pestilenza soltanto il suo terzo figlio, Pericle il giovane, che al tempo è un bambino di dieci anni. Lo statista lo ha avuto dalla sua compagna, l'etera Aspasia, dopo la separazione dalla moglie. Pericle junior ottiene la cittadinanza pur non essendo, come la legge prescrive, figlio di due ateniesi (Aspasia è di Mileto in Asia minore). Sopravviverà alla peste, crescerà nella città in guerra e diventerà navarco (ammiraglio). La sua vittoria alle Arginuse nel 406 costerà a lui e ad altri ufficiali un processo per avere abbandonato i naufraghi. Pericle il giovane sarà condannato a morte in uno degli episodi più sconcertanti nella storia della democrazia ateniese. Ma già vent'anni prima la morte di suo padre e la peste avevano indirizzato le sorti della guerra del Peloponneso. Prima di risentire parlare di democrazia nel mondo passeranno un paio di millenni.
Cosa può insegnarci la peste nera del ‘300 sulle conseguenze economiche globali di una pandemia. Adrian R. Bell, Andrew Prescott, Helen Lacey, The Conversation il 22 marzo 2020 su it.businessinsider.com. Le preoccupazioni suscitate dalla diffusione del nuovo coronavirus si sono tradotte in un rallentamento dell’economia. Le borse hanno accusato il colpo: il britannico FTSE 100 ha visto i suoi peggiori giorni di contrattazioni in molti anni e lo stesso è valso per il Dow Jones e S&P negli USA. I soldi devono andare da qualche parte e il prezzo dell’oro – considerato un prodotto sicuro in occasione di periodi estremi – ha raggiunto il livello massimo degli ultimi sette anni. Rileggere la storia può aiutarci a considerare gli effetti economici delle emergenze di salute pubblica e il modo migliore per affrontarle. Nel farlo, è importante ricordare che le pandemie del passato erano molto più letali del coronavirus, che ha un tasso di mortalità relativamente basso. Senza la medicina moderna e istituzioni quali l’Organizzazione mondiale della sanità, le popolazioni del passato erano molto più vulnerabili. Si è stimato che la Peste di Giustiniano del 541 abbia ucciso 25 milioni di persone e la Influenza spagnola del 1918 circa 50 milioni. Il peggior tasso di mortalità in assoluto nella storia è stato inflitto dalla Peste nera. Provocata da diverse forme di peste, durò dal 1348 al 1350, uccidendo in tutto il mondo tra i 75 e i 200 milioni di persone, e forse metà della popolazione inglese. Anche le conseguenze economiche furono gravi.
"Rabbia, antagonismo, creatività". Potrebbe sembrare controfattuale – e non dovrebbe comunque minimizzare la crisi psicologica ed emotiva causata dalla Peste nera – ma la maggioranza delle persone che sopravvissero godettero di standard di vita migliori. Prima della Peste nera, l’Inghilterra soffriva di grave sovrappopolazione. In seguito alla pandemia, la scarsità di manodopera portò a un aumento dei salari giornalieri dei lavoratori, che potevano lavorare dal miglior offerente. E la dieta dei lavoratori migliorò includendo più carne, pesce fresco, pane bianco e birra. Anche se i latifondisti faticavano a trovare contadini, le variazioni delle forme di conduzione migliorarono la produzione delle terre e la sua redditività. Ma il periodo seguente alla Peste nera fu, secondo lo storico dell’economia Christopher Dyer, un periodo di “agitazione, esaltazione, rabbia, antagonismo e creatività”. L’immediata reazione del governo fu di frenare la tendenza economica di domanda e offerta. Era la prima volta che un governo inglese cercava di microgestire l’economia. Lo Statuto dei lavoratori fu approvato nel 1351 nel tentativo di riportare i salari ai livelli precedenti l’epidema e di limitare la libertà di movimento dei lavoratori. Furono introdotte altre leggi per controllare il prezzo del cibo e addirittura per limitare il numero di donne che potevano indossare tessuti costosi. Ma questo tentativo di regolare il mercato non funzionò. L’applicazione della legislazione sul lavoro portò al suo aggiramento e a proteste. Sul lungo periodo, i salari reali aumentarono perché il livello della popolazione ristagnava a causa dei periodici focolai di peste. I proprietari terrieri faticarono a venire a patti con i cambiamenti nel mercato fondiario derivanti dalla perdita di popolazione. In seguito alla Peste nera si verificò una migrazione di massa, dato che le persone approfittarono delle opportunità di spostarsi in terre migliori o d’intraprendere attività commerciali nelle città. La maggior parte dei latifondisti fu costretta a offrire patti più vantaggiosi affinché i contadini si occupassero delle loro terre. Emerse una nuova classe media di uomini (praticamente sempre uomini). Si trattava di persone che non erano nate tra i proprietari terrieri ma che riuscivano a guadagnare abbastanza ricchezza in eccedenza da acquistare appezzamenti di terreno. Ricerche recenti hanno mostrato come la proprietà dei terreni si aprì alle speculazioni di mercato. Il drammatico cambiamento nella popolazione causato dalla Peste nera portò anche a un’esplosione nella mobilità sociale. I tentativi del governo di limitare questi sviluppi seguirono e provocarono a loro volta tensioni e risentimento. Nel contempo, l’Inghilterra era in guerra contro la Francia e aveva bisogno di grandi eserciti per le sue campagne d’oltremare. Questi necessitavano sovvenzioni e provocarono in Inghilterra una maggiore tassazione su una popolazione diminuita. Il parlamento del giovane Riccardo II escogitò l’innovativa idea di un’imposta punitiva sulle persone, il testatico, nel 1377, 1379 e 1380, portando direttamente a disordini sociali che sfociarono nella Rivolta dei contadini del 1381. Questa rivolta, la più grande mai vista in Inghilterra, fu una diretta conseguenza dei periodici focolai di peste e dei tentativi da parte del governo di rafforzare il controllo sull’economia e perseguire le proprie ambizioni internazionali. I ribelli affermavano di essere gravemente oppressi e che i propri signori li “trattavano come bestie”.
Lezioni per oggi. Anche se la Peste nera fu davvero molto diversa dal coronavirus che si sta diffondendo oggi, ci sono alcune importanti lezioni da trarre per la futura crescita economica. Primo, i governi devono fare molta attenzione a gestire le ricadute economiche. Mantenere lo status quo per gli interessi acquisiti può innescare disordini e volatilità politica. Secondo, restringere la libertà di movimento può provocare una reazione violenta. Per quanto tempo la nostra moderna e mobile società acconsentirà alla quarantena, anche se per un bene maggiore? Inoltre, non dovremmo sottovalutare la reazione psicologica impulsiva. La Peste nera vide un amento di aggressioni antisemite e xenofobe. La paura e il sospetto verso gli stranieri cambiarono i modelli commerciali. Col volgere al termine dell’attuale emergenza di salute pubblica ci saranno vincitori e sconfitti da un punto di vista economico. Nel contesto della Peste nera, le élite cercarono di rafforzare il proprio potere, ma il cambiamento della popolazione sul lungo periodo impose un certo riequilibrio a vantaggio dei lavoratori, sia in termini di salari e mobilità, sia nell’apertura di nuovi mercati per la terra (la principale fonte di ricchezza dell’epoca) a nuovi investitori. Il declino della popolazione incoraggiò anche l’immigrazione, pur se per lavori poco qualificati o malpagati. Sono tutte lezioni che rafforzano la necessità di reazioni misurate e attentamente studiate da parte dei governi attuali. Questo articolo è tradotto da The Conversastion.
L’oracolo Manzoni. Gigi Brandonisio su odysseo.it l'8 Aprile 2020. La letteratura è finzione e, come tale, menzogna. Tuttavia, attraverso la menzogna, essa indaga a fondo l’animo umano evidenziandone alcune inclinazioni che sembrano non patire il passare del tempo. In queste settimane, in cui l’epidemia monopolizza l’informazione, non sono mancati continui riferimenti a testi letterari incentrati sul tema, come il Decameron di Boccaccio o La peste di Albert Camus. Ma è nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, in particolare nei capitoli trentuno e trentadue dedicati alla peste, che si possono rilevare una serie di interessanti analogie con l’esperienza attuale che sorprendono non tanto per la similitudine dei fatti quanto dei comportamenti umani. Manzoni racconta la peste del XVII secolo a Milano. La peste arriva in Lombardia con le bande alemanne, in perfetta analogia con il presunto arrivo dalla Germania del primo caso di contagio da Covid-19, per poi diffondersi: invase e spopolò buona parte d’Italia. Scorrendo le pagine del romanzo si scopre che il morbo viene dai più inizialmente sottovalutato e scambiato per un male di stagione senza che vengano adottati gli opportuni provvedimenti di contenimento. Tra i pochi che si accorgono della gravità dell’infezione c’è il protofisico Lodovico Settala, stimato esperto in materia, una sorta di Roberto Burioni ante litteam. Come Burioni, che per tempo si era affrettato a dire “meglio sopravvalutare il problema che sottovalutarlo”, anche Settala prova a far capire alle autorità la gravità della situazione ma nessuno lo ascolta. Come allora anche oggi si è parlato di una banale influenza. Il tempo passa e i contagi aumentano in un clima di totale menefreghismo che non può non rimandare la memoria alle sciagurate immagini della campagna #milanononsiferma con i vari Zingaretti, Salvini e Sala immortalati in pose non propriamente inneggianti al distanziamento sociale. A secoli di distanza i governanti peccano dunque nuovamente di superbia, contribuendo in maniera decisiva alla diffusione del virus: incentivano gli assembramenti invece di vietarli, nel vano tentativo di inseguire ill mito dell’eterno profitto, commettendo un tragico errore al pari del racconto manzoniano quando il governatore Ambrogio Spinola organizza pubblici festeggiamenti per la nascita del principe Carlo, figlio del re Filippo IV infischiandosene del pericolo, come se non gli fosse stato parlato di nulla. Manzoni sottolinea come le autorità sanitarie e politiche di Milano mostrassero un’incredibile negligenza nell’applicare le minime misure di prevenzione per evitare che il contagio si propagasse alla città, al punto che la grida che imponeva il cordone sanitario non fu emanata che il 29 novembre, oltre un mese dopo i primi casi riconosciuti, quando ormai la peste era già entrata a Milano. Un film che sembra essersi ripetuto anche nell’epidemia (oramai pandemia) del Covid-19, con una serie di repliche anche a livello internazionale. A dirla tutta, Manzoni annota con sorpresa anche il comportamento dei cittadini che, soprattutto nei luoghi in cui il contagio non è ancora arrivato, appaiono per nulla spaventati, perpetrando comportamenti tutt’altro che avveduti, nonostante le notizie della vicina pestilenza e domandandosi incredulo: chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Sembra di ascoltare l’ormai ultra noto Burioni che blasta la gente: “Ho la sensazione che molta, troppa gente non abbia capito con che cosa abbiamo a che fare. Forse alcuni messaggi troppo tranquillizzanti hanno causato un gravissimo danno inducendo tanti cittadini a sottovalutare il problema. Non va bene, non va bene, non va bene. La gente in questo momento deve stare a casa”. Le misure restrittive, pur tardive, infine arrivano per entrambe le epidemie ma il contagio appare inarrestabile. Le persone fuggono in campagna (oggi al sud) per sfuggire alla pestilenza che avanza inesorabile; le vittime giornaliere sono oltre cinquecento come quelle comunicate nel quotidiano bollettino pomeridiano a reti quasi unificate; i posti nei lazzaretti non bastano e occorre costruirne di nuovi come oggi è necessario costruire nuovi ospedali e nuovi reparti di terapia intensiva; non ci sono medici a sufficienza e se ne cercano altri proprio come avvenuto con la call del Dipartimento di Protezione Civile per medici e infermieri; le fosse comuni non bastano più per seppellire i morti e se ne scavano di nuove proprio come il forno crematorio di Bergamo non riesce a smaltire i cadaveri costringendo l’esercito a trasportare in altre città le bare da cremare, con l’immagine dei mezzi militari in fila, in silenziosa processione che si trasforma nell’immagine della tragedia. L’epidemia porta con sé anche numerosi esempi di carità cristiana ed esempi di malvagità. Tra i primi rientrano sicuramente i parroci, preti e cappuccini, che, in assenza di medici, si distinguono per l’infaticabile lavoro nei lazzaretti al capezzale degli ammalati pagando un prezzo altissimo: più di sessanta parrochi morirono di contagio. Numeri che impressionano perché pressoché identici non solo a quelli dei medici scomparsi a causa del Covid-19 ma, anche, ai sacerdoti deceduti e rimasti a guidare le proprie comunità. Ma la paura genera sospetto e il popolo spaventato, in un periodo pieno zeppo di superstizioni come il seicento, cerca i colpevoli del contagio, gli untori. Si moltiplicano gli episodi di malvagità e di violenza gratuita come nel caso, descritto nel romanzo, dei tre francesi malmenati per aver accarezzato in modo sospetto il marmo di una delle pareti del Duomo e che fa perfettamente il paio con i numerosi episodi di violenza registrati nelle scorse settimane nei confronti di cittadini di origine cinese accusati di essere portatori, e quindi untori, del virus. Ancora, nel racconto della pestilenza seicentesca non meno assurde e fantastiche sono le teorie riguardanti la responsabilità delle stelle comete o dei pianeti come Saturno e Giove, nello scoppio dell’epidemia, o circa i veleni, gli unguenti, le pozioni e stregonerie varie che si possono usare per diffondere il morbo e che ben si possono paragonare con le odierne fake news che circolano incontrollate, facendo disinformazione sull’origine del virus e la sua presunta creazione in laboratorio, sui motivi economici della sua diffusione, sull’efficacia dell’aglio per tenerlo lontano, sull’efficacia della vitamina C, della vitamina D, delle bevande calde e chi più ne ha più ne metta. Una vera e propria infodemia in grado di generare solo confusione. Il gioco delle analogie – perché di questo si tratta, un gioco – potrebbe essere ancora lungo oppure rovesciarsi per analizzare le tante differenze che, per ovvie ragioni, sussistono tra le due vicende. Ma, affinché tutte queste parole non rimangano un mero esercizio di stile, occorre puntualizzare che il gioco vale la candela solo se si impara che siamo fatti di memoria labile e ballerina. Mai come oggi ci sentiamo fragili, soli ed esposti alle intemperie che la vita ci riserva. L’invisibile ammanta di incertezza il futuro. Bisognerà ricordare tutti gli errori, le paure e le analogie col passato con lo stesso spirito con cui si istituiscono le giornate della memoria o del ricordo: affinché gli anticorpi siano già pronti al primo segnale di malattia.
Vengono da Manzoni le nuove sindromi psico-caratteriali da Coronavirus. Hanno i nomi dei personaggi dei Promessi Sposi perché è il più grande romanzo italiano e in esso riconosciamo noi stessi e le persone che ci stanno attorno. Stefano Albertini su lavocedinewyork.com il 31 Marzo 2020. Questo divertimento letterario mi ha distratto dalla tragica cronaca quotidiana di un assedio sempre più vicino, mi ha fatto rileggere alcune delle pagine più belle del romanzo e mi ha convinto sempre di più della grandezza di Manzoni non solo nel produrre la prosa più alta della nostra letteratura moderna, ma anche nell’analizzare le pieghe più recondite dell’animo umano. Oggi non parlerò di Coronavirus. Di questi tempi, anche le soubrettes dicono la loro sul virus, la sua genesi e le sue cure; quindi io mi asterrò. Vi parlerò invece di sindromi che secondo la definizione del Dizionario della Salute sono “complessi di sintomi che si presentano associati in modo da configurare un quadro [morboso] caratteristico”. Le sindromi che vi presenterò sono di tipo psicologico o caratteriale e le ho visto svilupparsi in maniera esponenziale in queste settimane. Le ho chiamate col nome dei personaggi dei Promessi Sposi perché è il più grande romanzo italiano e in esso riconosciamo noi stessi e tante delle persone che ci stanno vicino. Sono sicuro che anche voi diagnosticherete una o più di queste sindromi a voi stessi e ai vostri parenti e amici. Se me ne sono dimenticata qualcuna, fatemelo sapere e verrà aggiunta al nostro manuale. Avvertenza: il presente testo non ha alcun valore scientifico. Si tratta di un divertissment da clausura ed è il risultato di una collaborazione tra l’autore, una consulente letteraria, manzoniana sfegatata (Bianca Mussini), e un brillante grafico creativo (Francesco Maria Mussini).
Sindrome di don Ferrante. Il pedante con le fette di salame sugli occhi che ha letto molti libri, ma ha imparato poco della realtà. L’uomo a cui una cultura libresca fa da schermo e impedisce di vedere le cose come sono. Don Ferrante è un personaggio secondario, ma Manzoni ci tiene a descrivere dettagliatamente la sua fine. Con l’avvicinarsi della pestilenza, don Ferrante, deride i suoi contemporanei preoccupati e facendosi forte dell’autorità di Aristotele sostiene che non essendo la peste né sostanza, né accidente, essa non esiste e così che “non prese nessuna precauzione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle.” (cap. 37) Gli individui affetti da sindrome di don Ferrante, detti anche negazionisti, erano quelli che, soprattutto agli inizi dell’epidemia di Coronavirus sostenevano che si trattasse di comune influenza o che fosse frutto di una gigantesca montatura mediatica. Gli affetti da questa sindrome sono rimasti pochi, ma rimangono molto agguerriti.
Sindrome di don Rodrigo. Di don Rodrigo, il cattivo del romanzo, Manzoni ci dice che, durante la pestilenza, passava il tempo con “amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo” (cap. 33). È il gaudente impenitente che esorcizza la paura con il vino e la crapula. Sono severamente affetti da sindrome di don Rodrigo i fighetti milanesi che hanno affollato i navigli nelle precedenti settimane e i dabben giovani che hanno riempito le piazze e i bar di tutta Italia sbevazzando spritz e aperitivi, spiattellattondoli su Instagram, fino a quando non è stato espressamente proibito dalle autorità, anche se era stato già vivamente sconsigliato dai sanitari. Non si sa se per effettiva guarigione degli individui affetti o come conseguenza delle misure restrittive, ma fortunatamente la sindrome di don Rodrigo è quasi scomparsa oggi in Italia.
Archetipo di fra Cristoforo. Quella di fra Cristoforo non è una sindrome e non è una patologia, è piuttosto un archetipo, cioè un modello, un esemplare. Il personaggio manzoniano, forse basato su un personaggio storico realmente esistito (fra Cristoforo Picenardi da Cremona), rappresenta la dignità, il coraggio, l’eroismo cristiano. Dopo una giovinezza di agi conclusa da un duello per futili motivi in cui uccide l’avversario, Ludovico si fa frate cappuccino e dedica la sua intera vita ad aiutare, confortare, sostenere i poveri che incontra sul suo cammino. Morirà prendendosi cura degli appestati del lazzaretto di Milano. Senza ironia e senza retorica, direi che fra Cristoforo rappresenta il modello per tutte le infermiere, gli infermieri, gli operatori sanitari e i medici che stanno facendo fronte all’epidemia di Coronavirus con turni massacranti, settimane di isolamento volontario e un livello di rischio altissimo nonostante le misure di protezione. A loro va la nostra ammirazione e la nostra gratitudine. E Manzoni sarebbe d’accordo.
Sindrome di Don Abbondio. Il curato fifone è l’ecclesiastico che sta agli antipodi di fra Cristoforo. Il suo rifiuto di celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, per paura di rappresaglie da parte di don Rodrigo, è l’inizio di tutte le disavventure della giovane coppia. La paura è la condizione esistenziale di don Abbondio: ha paura delle minacce dei bravi, ha paura dell’ira di Renzo, ha paura del rimprovero del Cardinale, ha paura del contagio della peste. Le sue paure si trasformano spesso in fobia, “pauraccia” la chiama Manzoni. La paura di per sé è una reazione normale e umana ad un pericolo imminente, ed è spesso indispensabile per far scattare l’istinto di sopravvivenza. Per fare un esempio di oggi, se la paura del contagio da coronavirus ci spinge a stare in casa, è saggia consigliera e va ascoltata. Ma la “pauraccia” (o fobia) di don Abbondio lo spinge a prendere decisioni egoistiche e irrazionali, che spesso comportano conseguenze disastrose per gli altri. Gli effetti da sindrome di don Abbondio nell’attuale situazione di emergenza possono essere identificati tra gli accumulatori compulsivi (hoarders) che ritroviamo in fila nei supermercati coi carrelli straripanti di carta igienica e bottiglie d’acqua, due generi che non hanno nessun legame specifico con l’epidemia da coronavirus. Tutti ormai sanno, anche gli affetti da sindrome di don Abbondio, che dissenteria e diarrea sono sintomi del colera, ma non del Covid19, e tutti sappiamo che l’acqua delle città italiane è controllatissima, sicura, spesso buona da bere e può tranquillamente sostituire quella in bottiglia. Le pauracce e le fobie ,però, a differenza della paura, causano comportamenti egoistici che danneggiano gli altri. Come il pavido rifiuto di don Abbondio di celebrare il matrimonio è la causa diretta di tutte le sventure dei fidanzati, l’accumulazione insensata di merce nei supermercati fa sì che gli altri ne restino completamente sprovvisti.
Sindrome di Perpetua. La domestica di don Abbondio è diventata così famosa da aver dato il suo nome ad una professione. È una donna del popolo, saggia e dotata di grande buon senso, le piace chiacchierare e dare pareri mai richiesti e raramente ascoltati. È una variante della sindrome di Cassandra che è stata identificata dagli psicologi come un comportamento ossessivo maniacale che porta a prevedere sempre per il futuro eventi disastrosi sia per sé che per gli altri (attenzione, questa è una sindrome vera e studiata, non inventata da me). La Cassandra del mito era una principessa troiana così bella che il dio Apollo si innamorò di lei e le donò la capacità di profetizzare il futuro. Indispettito dal suo rifiuto, Apollo non le tolse il dono che le aveva già fatto, ma la condannò a non essere creduta. Cassandra avvertì i suoi concittadini che il cavallo di legno era pieno di soldati greci e, come si sa, il loro rifiuto di ascoltarla ebbe come conseguenza ultima la distruzione di Troia. Perpetua è una donna umile, non profetizza, ma è in grado di prevedere cosa succederà e di suggerire come evitarlo con consigli basati su ragionamenti semplici e diretti. Ma il destino della principessa troiana e della domestica lombarda è lo stesso: non essere credute e ascoltate. Perpetua spiega esattamente al suo ‘padrone’ cosa dovrebbe fare dopo le minacce di don Rodrigo: rivolgersi al suo Cardinale Arcivescovo che sta sempre dalla parte degli umili e sa come tenere a bada i prepotenti. Sono oggi affetti da sindrome di Perpetua tutti gli individui – non specialisti di virologia, infettivologia etc.- che fin dalle prime notizie sulla diffusione del coronavirus annunciavano scenari apocalittici, simili a quelli che, purtroppo, abbiamo sotto i nostri occhi. La realtà ha finito col dar loro ragione ancor prima di quanto pensassero e adesso possono cavarsi la soddisfazione di fare screenshots delle loro profezie e di ripetere soddisfatti “l’avevo detto io”.
Sindrome di Gertrude. La Gertrude dei Promessi Sposi è basata sulla storia vera di una nobile ragazza di Monza costretta dal padre a farsi monaca di clausura per non disperdere il patrimonio avito. Finirà col violare tutti i suoi voti e col rendersi complice di delitti raccapriccianti per i quali sarà condannata e punita. Mai come in queste settimane di clausura forzata, tutti possiamo solidarizzare con Gertrude perché ci sentiamo, come lei “destinati a struggerci in un lento martirio” e anche noi invidiamo “in certi momenti qualunque donna [o uomo], in qualunque condizione, con qualunque coscienza, [che] potesse liberamente godersi nel mondo” (cap. X). La sindrome di Gertrude è, in questo periodo di isolamento imposto per legge, largamente diffusa tra la popolazione, ma si manifesta con diversi gradi di gravità a seconda dell’indole e dello stile di vita al quale i soggetti sono abituati. I casi più acuti si registrano tra joggers, ciclisti e sportivi di tutti i tipi che entrano in una sorta di crisi d’astinenza dovuta al mancato rilascio di endorfine, normalmente stimolato dall’esercizio. Oltre all’irrequietezza e al nervosismo (vedi sindrome del Leone in Gabbia), gli individui colpiti in maniera più acuta dalla sindrome di Gertrude sono particolarmente insofferenti di quanti danno segno di essersi adattati tranquillamente alla clausura. Parafrasando Manzoni: l’apparenza di pietà e di contentezza dei ‘reclusi felici’ suona ai “gertrudiani” come un rimprovero dell’inquietudine e dei loro portamenti bisbetici; ed essi non lasciano sfuggire occasione di deriderli dietro le spalle come pinzocheri, di morderli come ipocriti (cfr. cap. X).
Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale). Due personaggi secondari dei Promessi Sposi, ai quali, però, Manzoni affida uno dei dialoghi più riusciti e memorabili, al centro del capitolo XIX. Durante il colloquio, il Conte, zio di don Rodrigo, chiede al Padre Provinciale dei Cappuccini di trasferire fra Cristoforo lontano dal convento di Pescarenico per evitare che il rancore del signorotto nei confronti del frate, che ha protetto e aiutato a fuggire Renzo, Lucia ed Agnese, possa degenerare in un conflitto pericoloso sia per l’ordine religioso che per la nobile famiglia. Con le consuete pennellate essenziali, Manzoni descrive così il loro confronto: “Due potestà, due canizie, due esperienze consumate si trovavano a fronte.” E la conclusione, leggendaria, del loro dialogo è tutta racchiusa in due verbi, ripetuti a chiasmo per rendere il messaggio ancora più chiaro e memorabile: “Sopire, troncare, padre molto reverendo: troncare, sopire.”, Sono affetti da Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale) i politici di qualunque partito e nazionalità che, una volta avvisati da scienziati di ogni disciplina sul potenziale devastante del Coronavirus hanno pensato solo a “troncare e sopire” per paura delle reazioni dei mercati, della produttività industriale dei loro paesi o per semplice sfiducia nella scienza. Tra i casi più gravi a livello mondiale, vale la pena ricordare il Premier Britannico Boris Johnson che nella conferenza stampa del 13 febbraio, pur riconoscendo la gravità della pandemia (a quel punto già classificata come tale dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) decise di non prendere misure drastiche e si affidò alla cosiddetta “immunità di gregge”, criticando e quasi irridendo i paesi che avevano deciso diversamente. Anche l’inquilino della Casa Bianca, è stato seriamente affetto dalla sindrome a partire da gennaio quando, in risposta alla domanda di un giornalista, rispose che sul fronte Coronavirus era “tutto sotto controllo”. La sindrome si riacutizzò durante un comizio a Charleston, il 28 febbraio, dove Trump dichiarò che il Coronavirus non era altro che l’ennesima truffa (hoax) ordita dai Democratici per sconfiggerlo. Entrambi i leader gemelli stanno dando segni di superamento della Sindrome del Conte Zio (o del Padre Provinciale. Il contagio subito da Johnson stesso e l’impressionante numero di vittime negli Stati Uniti per Trump, sembrano averli fatti ricredere sull’opportunità di rispondere all’emergenza planetaria col troncare e il sopire. Anche se I Promessi Sposi offrirebbero spunto per la definizione di altre sindromi; si pensi ad Azzeccagarbugli, ai governanti inetti…, io mi fermerei qui. Questo divertimento letterario, diventato piccola impresa di famiglia, mi ha distratto dalla tragica cronaca quotidiana di un assedio che sembra farsi sempre più vicino, mi ha fatto rileggere alcune delle pagine immortali del romanzo e mi ha convinto sempre di più della grandezza multiforme di Manzoni non solo nel produrre la prosa più alta ed elegante della nostra letteratura moderna, ma anche nell’analizzare le pieghe più recondite dell’animo umano.
Stefano Albertini. Sono nato a Bozzolo, in provincia di Mantova 53 anni fa. Mi sono laureato in lettere a Parma per poi passare dall'altra parte dell'oceano dove ho conseguito un Master all'Università della Virginia e un Ph.D. a Stanford. Dal 1994 insegno alla New York University e dal 1998 dirigo la Casa Italiana Zerilli Marimò dello stesso ateneo. Alla Casa io e la mia squadra organizziamo un centinaio di eventi all'anno tra mostre, conferenze, concerti e spettacoli teatrali. La mia passione (di famiglia) rimane però l'insegnamento: ho creato un corso sulla rappresentazione cinematografica della storia italiana e uno, molto seguito, su Machiavelli. D'estate dirigo il programma di NYU a Firenze, ma continuo ad avere un rapporto stretto e viscerale col mio paese di origine e l'anno scorso ho fondato l'Accademia del dialetto bozzolese proprio per contribuire a conservarne e trasmettere la cultura.
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2020. Per il Sabato santo, la Curia di Torino terrà un' ostensione della Sindone in diretta tv mondiale. Tradizionalmente, il Lino veniva esposto per invocare la fine delle epidemie. Ma nel 1630, l' anno della peste manzoniana, i Savoia e il sindaco Giovanni Francesco Bellezia concordarono di tenere la Sindone nel Duomo, per evitare assembramenti in piazza che avrebbero esteso il contagio. Solo alcuni privilegiati - forse antenati di coloro che oggi riescono a fare tampone e cura virale in casa - poterono venerarla. Non è noto, ma non è escluso che alla popolazione sia stato raccomandato di lavarsi spesso le mani, cantando per due volte un ritornello augurale. Il morbo infuriò, raggiunse il picco, defluì. La vita riprese. Quasi quattro secoli dopo, i provvedimenti che l' Italia ha preso contro la pandemia Covid-19 sono gli stessi. In sintesi: non uscire, aspettare, eventualmente pregare. Tutto giusto. Ma non basta. Perché nel frattempo la tecnologia e la ricerca ci hanno resi molto diversi da come eravamo nel Seicento. Perché non usarle? Ci sarà tempo per verificare meriti e responsabilità. È evidente che sono stati commessi errori: non prepararsi all' arrivo del virus, non predisporre scorte di mascherine, non proteggere medici e infermieri, lasciare che molti ospedali diventassero focolai, non fare della Val Seriana una zona rossa. Va riconosciuto che l' Italia è stato il primo Paese occidentale a chiudere, ed è riuscita a evitare il contagio di massa al Sud. Ma ora occorre fare di più. Molto di più. Non basta ripetere che bisogna stare a casa e promettere denaro a tutti, ritoccando la cifra ogni giorno; occorre creare le condizioni per ricominciare a vivere e a lavorare. Il modello è evidente: le nazioni che meglio hanno frenato il virus e organizzato la ripresa. Non solo Corea del Sud e Giappone; anche la Germania. I tedeschi fanno quasi centomila tamponi al giorno, isolano i positivi, distinguono le fasce d' età e le aree geografiche da proteggere con maggiore attenzione; e fanno ripartire la macchina produttiva - mai spenta del tutto - affidandola a chi non può trasmettere il Covid-19. L' Italia di oggi non è la Germania, d' accordo. Ma non è neppure l' Italia del Seicento, dei monatti e di don Ferrante che va a letto a morire «prendendosela con le stelle». Le cose da fare non sono facili, però sono ineludibili: uno screening di massa, con un test rapido come potrebbe essere la ricerca di anticorpi nel sangue; un' app che consenta di tracciare i positivi; misure per proteggere gli anziani; e la ripartenza della produzione, garantendo la sicurezza dei lavoratori. Non sono cose che si fanno in pochi giorni; vanno programmate per tempo, e quindi bisogna cominciare a predisporle subito, con un piano operativo che coinvolga istituzioni pubbliche, laboratori privati da riconvertire ai test sulla pandemia, hotel da requisire per la quarantena dei positivi senza sintomi o con sintomi lievi e delle persone dimesse ma ancora in grado di trasmettere il virus. Qualcuno si è già mosso: fuori dall' ospedale di Cinisello Balsamo, per fare un solo esempio, il tampone si fa in auto; sono pratiche che devono diventare di uso comune. Gli italiani, con rare eccezioni, si sono comportati bene. Siamo consapevoli che non torneremo subito alla normalità. Il telelavoro continuerà. Fino a settembre le lezioni probabilmente proseguiranno on line (va dato atto agli insegnanti e a molti studenti di non essersi fermati). Sarà un' estate strana. Eviteremo gli assembramenti: concerti, spettacoli, stadi aperti purtroppo non saranno per domani. Ma il lavoro deve riprendere. Finanziamenti e prestiti sono importanti, però servono a rilanciare la produzione, non a sostituirla. Molti imprenditori e manager denunciano che le loro fabbriche in Italia sono le uniche a restare chiuse, mentre quelle dello stesso gruppo in Francia, Germania, Inghilterra funzionano regolarmente. Così si perdono quote di mercato e si creano disoccupati. Occorre affrontare l' emergenza immediata, certo; ma l' inedia, se oggi inevitabile, domani può diventare mortale. Non dobbiamo avere fretta di ripartire tra pochi giorni; ma non possiamo pensare di avere davanti a noi un orizzonte infinito, illudendoci che la Bce possa stampare soldi per tutti.
DAGOREPORT il 7 aprile 2020. Vedere il capo della Protezione civile che con un certo rigorismo calvinistico-sadico annuncia che staremo in quarantena anche il primo maggio, o sentire (chi li ascolta, veramente, ancora?) l’assembramento dei virologi in televisione (proiettati alla ribalta dall’epidemia) che discettano, porta a un’amara riflessione. Fossi in loro sarei più cauto, non mostrerei tanta orgogliosa presenza perché – e mettiamoci anche il mondo della comunicazione – due tra i primi grandi sconfitti del Coronavirus sono proprio loro: la protezione civile e la scienza medico-virologica. “State a casa”, “Stare a casa” è una doverosa scelta assunta da una politica poliziesca in vista del minor danno per tutti, ma viene assunta perché né la medicina né la Protezione civile hanno saputo offrire una benché minima risposta alternativa. Di virus - abbiamo visto - parlò Bill Gates cinque anni fa. Di Coronavirus (i coronavirus, in generale, si studiano da sempre) si sa dall’esplosione in Cina…Gómez Suárez de Figueroa y Córdoba, conosciuto come il Gran Duca di Feria, governava Milano nel 1631. Viene citato dal Manzoni nel Capitolo I de “I promessi sposi” come autore della grida del 6 ottobre 1627 con la quali si bandivano da Milano i "bravi", l'ultima che precedette l'inizio del romanzo. Prima di lui, dal 20 settembre 1630 all’aprile 1631 governatore spagnolo di Milano fu Don Alvaro II de Bazán, marchese di Santa Cruz: sono quei nobili spagnoli che vediamo con pizzetto e gorgiera nei quadri alla Van Dyck o alla Velazquez. Ebbene, se andiamo a leggere le loro grida assunte dal Capitano di Città Ambrogio Spinola e altri sotto i loro governatorati – al netto della caccia all’untore - sono uguali all’oggi: “vietati assembramenti”, vietato lasciare le abitazioni, “si fa divieto..” ecc ecc. Nei lazzaretti, anziché i ventilatori (ne abbiamo pochi) si usavano i ventagli e le lenzuola a profusione per separare i malati e far aria. Anziché le mascherine (ne avevamo poche) i fazzoletti. Le capre per assicurarsi il latte. Sugli stanziamenti erano meno complicati: miniere d’oro e nuove conquiste, possibili (noi il Mes). Per ragguagliarsi su queste cose basta leggere Alessandro Tadino, Raguaglio dell'origine et giornali successi della gran peste contagiosa, venefica, & malefica seguita nella Città di Milano (1648) o il canonico il Ripamonti che nel 1640 stampò la cronaca Iosephi Ripamontii canonici Scalensis chronistae vrbis Mediolani De peste quae fuit anno 1630. Qui si parla di esternare “il desiderio di restare a casa”, “ma che ciascuno stia in casa e si guardi” (ovvero riguardi); anche allora c’erano case dove venivano “distribuiti alimenti”: tutto il resto è Giangiacomo Mora e Colonna Infame (questo ce lo stiamo risparmiando, per ora). Ebbene, visto che gli italiani sono stati a casa, come mostrano i dati sul Covid-19 del Community Mobility Report di Google (-94% di individui nei negozi e nei locali, -90% nei parchi e -85% negli alimentari o nelle farmacie) tanta baldanza di Protettori civili e virologi è inappropriata. Se la politica è ferma alle grida del Seicento è anche per responsabilità loro, che non hanno saputo offrire nulla di diverso. Tantissima buona volontà, una caterva di sacrifici sino alla morte da parte di medici e infermieri… ma le tanto celebrate “magnifiche sorti e progressive” della scienza e dell’organizzazione tecnologica e sociale dove sono? Le capacità “previsionali” delle scienze? La ricerca sarà anche poco finanziata, ma 500 anni non sono pochi – e si evitino trovato stile tra donne allo Spallanzani hanno scoperto… come fatto dal ministro Speranza. Se la Protezione civile non è pronta a mappare, seguire, tamponare, lo accettiamo – ma Borrelli eviti quel sadico bollettino. Se i virologi non hanno messo a punto l’antidoto, ne hanno idea di come curare i malati se non attaccandoli all’ossigeno, dobbiamo prenderne atto, ma evitino le comparsate televisive. Gli unici autorizzati a parlare sarebbero gli ingegneri: nel ‘600 si usavano i ventagli adesso, almeno, i respiratori. Ma al netto dell’ingegneria il resto è uguale. Salvo le chiese chiuse mentre allora i preti e San Carlo andavano tra gli appestati. Molti apparati, Protezione civile, centro mondiale della sanità, centro parziale, grandi aziende ecc. ecc… vivono da decenni di slogan, di fuffa spacciata per cosa vera. E scarsi avanzamenti.
La peste di Londra del 1665: l'indagine dell'inviato speciale Daniel Defoe-L'autore di Robinson Crusoe ha scritto un libro-inchiesta sulla pestilenza che ha ucciso almeno centomila persone nella sola capitale britannica. Una storia di eroismi e di sovrani in fuga, di decreti tardivi e di concorrenza sleale fra paesi europei. Gianfranco Turano l'1 aprile 2020 su L'Espresso. “In verità l'infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano riconosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevano preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. Queste persone recavano morte ovunque con il loro respiro, e la davano a ogni persona che incontravano, la lasciavano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano... Questo fatto dimostra come in tempo di peste non ci si possa fidare delle apparenze, e come la gente possa effettivamente avere la peste senza saperlo, per cui non serve isolare i malati, e chiudere le case in cui qualcuno si è ammalto, se non si rinchiudono del pari tutte le persone che il malato stesso ha avuto occasione di avvicinare prima di accorgersi della propria malattia”. Nel 1722 Daniel Defoe, romanziere autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders, polemista, agente segreto, pubblica A journal of the plague year, il diario dell'anno della peste che ha colpito Londra e parte dell'Inghilterra tra la fine del 1664 e l'inizio del 1666, concentrando la sua furia nel 1665 e provocando non meno di 100 mila morti nella sola capitale (400 mila abitanti) senza contare i borghi periferici. Ecco la cronaca dei fatti.
Nel 1664 sono passati 34 anni dalla peste di Milano e oltre sessanta dall'epidemia che ha colpito la corte di re Giacomo I Stuart nel 1603. Defoe, nato a Londra il 6 maggio 1660, ha appena quattro anni quando scoppia il contagio. Nel libro si serve di un personaggio fittizio, di mestiere sellaio, per esporre, insieme agli episodi della vita quotidiana, statistiche scrupolosamente documentate attraverso gli archivi anagrafici delle parrocchie. L'Inghilterra vive gli anni della restaurazione monarchica dopo la rivoluzione di Oliver Cromwell. La capitale inglese si è riempita di reduci di guerra che si sono dati ai commerci. La città è sovraffollata, piena di mescite e trattorie dove i londinesi si rifanno dalle rigidità del puritanesimo rivoluzionario. Lo sfarzo della Corte ha provocato un'onda consumistica che ha attirato nella cintura della capitale centomila artigiani tessili per la sola produzione di nastri. Le premesse sono pessime. In più nel 1663 Amsterdam e Rotterdam vengono colpite dal morbo e Londra ha scambi commerciali quotidiani con l'Olanda.
Già a settembre del 1664 c'è una riunione segreta del governo per affrontare l'ipotesi di un contagio.Vengono approntati provvedimenti di emergenza in accordo con le autorità locali ossia il Lord Mayor, i suoi due sceriffi e il consiglio degli Aldermen. Alcuni di loro ricordano l'epidemia, meno grave, del 1656.
A novembre del 1664 due francesi muoiono a Long Acre nel West End, non lontano dalla riva del Tamigi, nella casa della famiglia che li ospita. È quasi certo che muoiano di peste ma in quanto stranieri non vengono registrati.
Nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1664 il paziente 1 muore in una casa privata, sempre a Long Acre. Defoe accredita l'opinione che il morbo sia arrivato con un carico di seta importata dall'Oriente fino in Olanda e da lì spedita a Londra. I bollettini non segnalano morti di peste per sette settimane, fino al 9 febbraio 1665. Il secondo decesso, o presunto secondo, avviene nella stessa casa del primo. Poi nulla per altre nove settimane. Il 22 aprile, due morti. Da lì la pestilenza prende velocità. Si sposta dalla zona occidentale verso oriente e verso sud, fino a investire la City. Questi intervalli così lunghi sono definiti da Defoe “una frode”. Lo scrittore lo dimostra approfondendo la sua inchiesta sui documenti delle varie parrocchie che, al tempo, scandivano i distretti londinesi. Anno su anno, prova che il numero di morti settimanali in tutta la città (300 in media) aumenta fino a quattro o cinque volte e che anche a luglio e agosto 1665, con l'epidemia in pieno sviluppo, oltre ai decessi per peste ci sono impennate gigantesche fra i morti di altre patologie (colica, febbre viscerale, febbre ordinaria, vecchiaia e febbre purpurea, la più affine alla peste bubbonica). Per non subire la quarantena “molte famiglie riuscivano col denaro a fare registrare i loro morti di peste come morti di altre malattie”.
Nella settimana dal 2 all'8 maggio c'è il primo morto nella City, il cuore della capitale, in Bearbinder Lane. La seconda settimana di maggio i morti di peste registrati sono solo tre. L'ultima di maggio salgono di poco, a diciassette. Il Lord Mayor, sir John Lawrence, ordina un'inchiesta sui numeri, palesemente fasulli. Intanto, decine di migliaia di persone abbandonano la città sull'esempio di re Carlo II, figlio di Carlo I, il primo monarca decapitato della storia durante la rivoluzione (1649). Mentre la famiglia reale è rinchiusa a Oxford, nella capitale si muore per strada. Gli scappati finiscono a vivere in condizioni seminomadi, in attendamenti di fortuna dentro le foreste, o vagando di paese in paese accolti dalla crescente ostilità di chi teme, non a torto, che i profughi siano i portatori della morte nera.
A giugno “la truffa” dei numeri non può più continuare. L'esplosione della malattia ha investito i quartieri da ovest a est. Risparmia il Southwark sulla riva sud del Tamigi, ma ancora per poco tempo. Si diffonde la notizia che il governo vuole il lockdown della città. La voce non sarà confermata da un provvedimento del resto impraticabile. Ci sono pochissime truppe in città. Il grosso ha seguito il re a Oxford. Ma a fine giugno vengono finalmente applicate le misure discusse nella riunione segreta di nove mesi prima. Vengono nominati gli ispettori che dovranno sapere chi sono i malati, dove sono e decidono dell'isolamento. Chi rifiuta la carica di ispettore va in carcere. Le case isolate sono soggette a due guardiani divisi in turni (dalle 6 alle 22 e dalle 22 alle 6) che hanno ordine di non lasciare uscire o entrare nessuno, esclusi gli autorizzati. Fra gli autorizzati ci sono le visitatrici, che decretano la causa della morte con la supervisione dei medici, gli infermieri che effettuano assistenza a domicilio e i cerusici che fanno visite a casa oppure nell'unico lazzaretto cittadino a Bunhill fields, un buco con 300 posti di capienza. Le case dove la peste ha ucciso vengono dipinte con una croce rossa alta 30 centimetri e con la scritta: Signore, abbi pietà di noi. I funerali si possono fare tra il tramonto e l'alba, anche se presto i riti diventeranno impossibili per la quantità di deceduti che finiranno in fosse comuni. Una delle più grandi, vicina al cimitero di Aldgate, accoglierà 1114 corpi. L'immondizia viene ritirata ogni giorno. Vietato l'accattonaggio e gli animali come gatti, piccioni, conigli, maiali, nei confini della City. I cani randagi vengono eliminati. Si chiudono locali pubblici e bettole, mentre i forni e i mercati dove i contadini portano a vendere i prodotti della campagna restano aperti. Per pagare si buttano le monete in un secchio pieno di aceto. Non ci sarà mai penuria di alimenti. Il pane mantiene il prezzo precedente all'epidemia salvo un minimo aumento. Ma ci saranno molte vittime sia nei forni, dove si poteva portare e cuocere il pane impastato in casa, sia fra i piccoli commercianti che, nel loro andirivieni, distribuiscono il contagio nei borghi fuori città. Il contraccolpo sull'occupazione è micidiale. Tutti gli operai del manifatturiero vengono licenziati. Restano senza lavoro facchini, barcaioli, carrettieri, edili, marinai. Le “persone di qualità” buttano sul lastrico la servitù e si trasferiscono a vivere sulle chiatte ancorate in mezzo al Tamigi in una fila di chilometrica verso Greenwich e Woolwich. Solo in parte i mestieri dell'emergenza compensano la perdita di posti. Ma sono mestieri ad alto rischio perché a contatto diretto con il morbo o con i reclusi ai domiciliari che tentano di corrompere i guardiani per fuggire e, quando non ci riescono, spesso li picchiano o li ammazzano. Fra i mestieri non autorizzati della peste aumentano di numero gli astrologi, gli indovini, i venditori di rimedi infallibili, di filtri e di amuleti. Gli angoli delle strade sono tappezzati di avvisi dove si pubblicizzano pillole, pozioni, antidoti, cordiali e persino “vera acqua per la peste”. Prosperano gli pseudoscienziati, locali e importati come il medico olandese che l'anno prima ha guarito innumerevoli persone nel suo paese o come la gentildonna italiana che ha un metodo segreto applicato durante la peste di Napoli (il colera in realtà) “per la quale perirono ogni giorno ventimila persone”. Diventa popolare il predicatore Solomon Eagle che si aggira seminudo per la città con un pentolino di carbone acceso sulla testa per tenere lontano il morbo. I ciarlatani contribuiscono allo sterminio. Secondo i bollettini, dall'8 agosto al 10 ottobre ci sono 49705 morti di peste su 59870 di altre cause che pure sono spesso legate alla peste. Centinaia di neonati muoiono insieme alle madri perché non hanno assistenza. Il ricorso massiccio alle sepolture nelle fosse comuni, secondo Defoe, abbassa la contabilità reale. Nella seconda metà di settembre, quando il contagio tocca il picco delle vittime in una sola settimana (8297), il dottor Heath spiega al protagonista che il morbo sta perdendo forza rispetto alla fine di agosto. Allora uccideva in due o tre giorni. A settembre in otto o dieci. Prima guariva uno su cinque. Adesso tre su cinque. Il dottor Heath indovina la tendenza. L'ultima settimana di settembre fa segnare duemila decessi in meno e il calo continua per tutto ottobre. Alla buona novella, i londinesi che erano scappati fuori città e quelli che vivevano segregati si abbandonano all'entusiasmo. “Ognuno diventò di punto in bianco coraggioso e, messa da parte ogni precauzione, cominciò a frequentare le persone infette, e a mangiare e bere con loro, visitarle nelle case, e persino penetrare nelle camere dove giacevano a letto i malati ancora gravi”. Riaprono le botteghe, si ricomincia a fare affari e torna la folla in piazza e nei locali. Il ritorno di fiamma del contagio investe con violenza la città in novembre (+400 morti la prima settimana). Le autorità tentano di impedire il rientro dei profughi dal resto del paese, dove intanto sono scoppiati altri focolai (Norwich, Lincoln, Colchester) ma devono desistere. I commerci hanno la meglio su ogni altra considerazione sia per questioni di sopravvivenza elementare, non del tutto garantita dalla Casa Reale che redistribuisce ai vivi i beni dei morti e dalla carità delle parrocchie, sia per questioni macroeconomiche.
I vicini europei stanno sfruttando senza pietà il vantaggio competitivo dei mesi di pestilenza. “Il nostro commercio ne risentì le conseguenze fino a molto tempo dopo la peste, specie per via dei fiamminghi e degli olandesi i quali, approfittando della situazione, ci soppiantarono quasi ovunque anche comprando le nostre manifatture nelle città inglesi risparmiate dall'epidemia, e dall'Olanda e le Fiandre poi trasportandole in Italia e Spagna come prodotti loro”. Nonostante le imprudenze, il morbo riprende a declinare. A febbraio 1666 è finita e solo “la gente di qualità” mantiene le famiglie nelle residenze di campagna fino alla primavera. Londra può tornare a vivere.
Nota. Le citazioni del libro di Defoe sono tratte dalla traduzione di Elio Vittorini del 1940 (La peste di Londra, Bombiani.
La peste di Milano: inchiesta su un caso di cronaca di 400 anni fa. Negazionismo della cittadinanza, ritardi della politica, provvedimenti contraddittori, caccia all'untore straniero. Ecco perché dal flagello del 1629-1630, ricostruito dalle testimonianze storiche, i meccanismi sono rimasti gli stessi. Gianfranco Turano il 24 marzo 2020 su L'Espresso. Lo scopo dell'inchiesta che segue è raccontare un fatto di cronaca di 390 anni fa. Il risultato dell'inchiesta è che lo sviluppo psicoevolutivo dell'essere umano, a differenza della scienza e della tecnologia, non avviene per anni o secoli ma attraverso le ere della filogenesi (decine di migliaia di anni). L'evento è la peste di Milano del 1629-1630, come raccontato dagli storiografi Ripamonti, Lampugnano e Tadino, da Manzoni e da altri che per lo più oggi sono fermate della metropolitana o strade. La risposta dei cittadini, delle istituzioni e della comunità internazionale non è diversa, negli schemi di fondo, da quella data al Cov-Sars-2. Ma ecco il racconto.
A settembre 1629, in piena Guerra dei Trent'anni (1618-1648), i lanzichenecchi di Albrecht von Wallenstein e le truppe di Rambaldo di Collalto scendono in Italia attraverso la Valtellina e la zona del lago di Lecco per sostenere la causa del Sacro Romano Impero, alleato con la Spagna e con i Savoia nella guerra di successione di Mantova e Monferrato. Gli avversari sono la Francia e la Repubblica Serenissima.
Il 20 ottobre 1629 Lodovico Settala segnala al Tribunale della sanità di Milano che fra il lecchese e la bergamasca, nel corridoio dove sono passati i soldati, vengono segnalati presunti casi di peste. Settala è il protofisico ossia, in termini moderni, il presidente dell'Ordine dei medici. È nato nel 1552 e ha 77 anni. Quando ne aveva 24, già medico, ha vissuto la pestilenza dell'anno 1576. Ha quindi esperienza teorica e di campo. Avvertito da Settala, il Tribunale della sanità spedisce un commissario – figura radicata nella storia italiana – a indagare, accompagnato a un medico di Como. I due si fanno abbindolare dal negazionismo locale che attribuisce i decessi alle febbri autunnali e al paludismo o malaria.
Il 30 ottobre, appena dieci giorni dopo l'ispezione, i casi si sono moltiplicati al punto tale che le autorità decidono di controllare gli ingressi entro le mura di Milano, una delle città più popolate nell'Europa del tempo, sviluppatissima nei commerci, con residenti calcolati fra 200 e 250 mila. I responsabili della sanità redigono una grida per affrontare l'emergenza. Ma il decreto non viene pubblicato per le esitazioni di chi teme conseguenze economiche e le misure restano lettera morta per quasi un mese.
Il 14 novembre i magistrati di sanità fanno un passo in più ed espongono la gravità della situazione al governatore Ambrogio Spinola, rappresentante della corona di Spagna e veterano della guerra delle Fiandre. Il genovese Spinola è impegnato nell'assedio di Casale Monferrato e non solo non presta troppa attenzione al contagio ma peggiora la situazione attivamente.
Il 18 novembre, infatti, il governatore ordina grandi celebrazioni pubbliche per la nascita del primogenito di Filippo IV di Spagna, il principe Carlo. Decine di migliaia di milanesi scendono in strada a festeggiare.
Il 29 novembre, quando finalmente è pubblicata la grida del 30 ottobre, la peste è già in città. Secondo il Tadino, medico prima che storiografo, si individua anche il paziente 1. È un soldato italiano dal nome incerto che combatte con l'esercito spagnolo. Morto lui, vengono bruciati il suo letto e i suoi vestiti. I suoi parenti vengono spediti in quarantena al Lazzaretto che sorge all'incirca dov'è oggi la via omonima, una parallela di corso Buenos Aires nei pressi di Porta Venezia, l'antica Porta orientale. Le misure di legge sembrano portare qualche esito e l'inverno passa con danni limitati. Le basse temperature dell'inverno lombardo potrebbero essere state meno favorevoli al contagio dato che la peste nelle sue varie forme (bubbonica, setticemica e polmonare) è causata dal batterio Yersinia pestis. Il morbo è diffuso dal ratto, portatore spesso asintomatico. Pulci o zanzare, che d'inverno sopravvivono con maggiore difficoltà, lo trasferiscono all'uomo. Ma c'è un altro fattore. Nei mesi fra la fine del 1629 e l'inizio del 1630 si è diffuso un senso di omertà da parte di chi ha un parente malato o moribondo e preferisce non denunciarlo per evitare quarantene, sequestri, blocco dell'attività. Per chi ancora non ha conosciuto direttamente il morbo, consigli e divieti delle autorità sanitarie sono interpretati come limitazioni alla libertà civile e alle necessità lavorative, quando non come vessazioni insensate. I medici Alessandro Tadino e Senatore Settala, figlio del protofisico, vengono insultati per strada. Settala senior, riconosciuto mentre circola per la città con una portantina, viene preso a pietrate e si salva di giustezza perché i servitori riescono a infilarsi nel portone di un amico del dottore. Mentre il contagio cresce e il Lazzaretto supera la sua capienza massima di duemila posti (arriverà a sedicimila), si celebrano le festività di Pasqua (31 marzo 1630) come se niente fosse. Ad aprile la situazione continua a peggiorare.
Durante la Pentecoste, in una bella domenica di maggio scelta dai milanesi per una scampagnata fuori Porta orientale nei pressi del cimitero di San Gregorio e dunque del Lazzaretto (stampa accanto), i magistrati cittadini organizzano una messinscena terrificante per scuotere le coscienze. Fanno sfilare una carretta carica dei corpi nudi di un'intera famiglia sterminata dal morbo nella notte. La paura, invece di prendere la strada dell'ammaestramento, si incammina verso la superstizione.
Il 17 maggio si sparge voce che qualcuno abbia unto gli assiti del Duomo con materiali venefici. Le panche vengono portate fuori e lavate. È l'inizio della caccia all'untore, approvata in qualche modo dalla grida del tribunale della sanità del 19 maggio che impone di segnalare chiunque abbia un comportamento sospetto. Nei giorni successivi i momenti di tensione e di violenza si moltiplicano. Un vecchio che spolvera con il mantello la panca della chiesa viene trascinato fuori e massacrato di botte sotto gli occhi dello storico Giuseppe Ripamonti. È testimoniato oltre ogni ragionevole dubbio che i muri vengono effettivamente imbrattati con una materia giallognola. Non si saprà se questo luridume viene sparso da agenti di poteri stranieri o da semplici imbecilli in vena di scherzi. Dalla Spagna si denunciano quattro untori francesi che vagherebbero per un'Europa già molto internazionale, a diffondere il morbo come forma di guerra chimica. Un gruppetto di francesi viene identificato per strada a Milano. Si salvano per miracolo dal linciaggio e, per un miracolo ancora maggiore, vengono assolti dalle accuse.
L'11 giugno, dopo giorni di pressioni da parte dell'autorità temporale che vuole offrire conforto alla popolazione, l'arcivescovo Federico Borromeo mette da parte le sue perplessità e accetta di guidare una processione alla quale partecipano decine di migliaia di fedeli di ogni classe sociale. Il corteo parte all'alba dal Duomo con il feretro di San Carlo Borromeo, cugino di Federico. La reliquia viene portata in giro per tutti i quartieri della città, con fermate nelle piazze principali. La diffusione del contagio dopo la processione nella calca estiva è devastante. Due secoli dopo persino il fanatico cattolico Manzoni, devoto di San Carlo Borromeo e ammiratore di Federico, faticherà a trovare scusanti per il suo amato cardinale. Poiché però San Carlo non può essere colpevole e monsignor Federico nemmeno, la furia collettiva si accanisce ancora di più contro gli untori.
Il 21 giugno poco prima dell'alba, nel quartiere della Vetra de' Cittadini, l'attuale zona San Lorenzo-Porta Ticinese, “una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi per disgrazia a una finestra” (Manzoni, Storia della colonna infame) vede un uomo che strofina qualcosa contro i muri e denuncia il fatto. L'individuo sospetto sarà trovato in poco tempo. È Guglielmo Piazza, da circa un mese eletto commissario della sanità. È l'untore ideale proprio perché appartiene alla schiera dei vessatori, coloro che spediscono la gente a morire al lazzaretto. Viene torturato. Non resiste. Denuncia come complice e produttore del veleno il barbiere Giangiacomo Mora, più altri. Settimane di interrogatori feroci e confessioni estorte porteranno all'identificazione come mandante di don Juan Cayetano de Padilla. Grazie ai suoi mezzi, l'hidalgo spagnolo sarà l'unico a salvarsi da un'esecuzione capitale di indimenticabile atrocità. Unknown-1Con sentenza del 27 luglio Mora e Piazza vengono “messi su un carro, condotti al luogo del supplizio, tanagliati con ferro rovente per la strada; tagliata loro la mano destra; spezzata l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame; proibito in perpetuo di fabbricare in quel luogo”. Secondo i censimenti dell'epoca, alla fine della pestilenza Milano conta 64 mila abitanti da 200-250 mila. Tre su quattro sono morti di peste. Fra loro, come sembra altamente probabile, anche il governatore Spinola (settembre 1630).
Di quanto raccontato, a distanza di quattro secoli, sono cambiate le technicalities. La tortura è vietata, come la pena di morte. La peste è un fattore di contagio presente (fra 1000 e 3000 casi all'anno secondo l'Oms) ma controllato grazie agli antibiotici e alla profilassi dopo l'ultima epidemia a fine Ottocento iniziata in Cina e conclusa con 12 milioni di morti. La risposta psicologica al morbo invece segue le solite fasi.
1. Negazionismo assoluto. Secondo Manzoni (I promessi sposi, cap. XXXI), chi metteva in guardia “veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo”. Insomma, è solo un'influenza.
2. Inizia a circolare la paura, sotto traccia. Timore dei provvedimenti delle autorità sanitarie da parte “della Nobiltà, delli Mercanti, della plebe”. Le nuove norme, che obbligano a cambiare comportamento, sono identificate a costrizioni inutili.
3. Con l'avanzare del contagio il negazionismo retrocede ma ancora combatte con quella che Manzoni chiama “trufferia di parole”. Il lavoro di mistificazione e falsificazione arriva a produrre neologismi: “febbri maligne” e “febbri pestilenti”. Si incomincia però a comprendere che il contagio non è limitato a una categoria di popolazione. In questo caso, i poveri.
4. Non si può più negare la realtà. Allora, in una situazione di panico generalizzato, si cerca di falsificare il nesso causa-effetto. Colpa dei francesi, degli alemanni, degli spagnoli. Infine, colpa degli untori. L'untore può essere chiunque, allora come oggi. Un alemanno, un cinese, un vecchio. Tutti ma non noi.
E poi cominciò la caccia all’untore. Bernardo Valli su L'Espresso il 29 febbraio 2020. Nessun paragone tra il coronavirus e la peste del 1630. Ma rileggere i due capitoli dei Promessi Sposi dedicati all’epidemia può essere lo stesso utile. La sensazione di vulnerabilità di fronte al virus, mentre scrivo ancora senza un antidoto, crea una profonda angoscia in tanti angoli del pianeta. L’alimentano i media non certo avari di notizie sui danni provocati dal killer inafferabile. Nei laboratori gli danno la caccia cercando un vaccino. Nell’attesa che lo si trovi, il virus evaso dalla provincia cinese di Hubei, miete vittime anche vicino a noi. Risparmio la morale che si può trarre dall’immunità di cui gode (per ora) il coronavirus. Un’immunità che è una beffa per la scienza del XXI secolo: una minaccia micidiale, sia per gli individui, sia per l’economia mondiale. Mi guardo bene dal paragonare quel che accade oggi a quel che accadde quattro secoli fa e che Alessandro Manzoni ha descritto nel suo romanzo. I fatti di questi giorni sono definiti un’infezione diffusa oppure una grave crisi sanitaria. C’è chi azzarda, forzando al momento la realtà, anche l’espressione epidemia. Dimenticando cosa indicò quella parola. L’epidemia storica, raccontata in particolare in due capitoli, il XXXI e il XXXII, dei Promessi Sposi, culminò nel 1630. Non ho resistito alla tentazione di rileggere quelle pagine, una cronaca anche letterariamente esemplare: «S’era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno nella strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, con segni sconosciuti alla più parte de’ viventi». Manzoni racconta due secoli dopo la strage basandosi su “Ragguaglio” di Alessandro Tadino, allora membro del Tribunale di Sanità, e su quel che aveva lasciato di scritto il protofisico Lodovico Settala. I cronisti dell’epoca si danno da fare per individuare il soldato che entrando a Milano con uno zaino pieno di abiti comperati o rubati ai mercenari tedeschi ha contribuito a diffondere il contagio mortale. Si sarebbe trattato di Pietro Antonio Lovalo che alloggiava presso dei parenti vicino a Porta Orientale, e che morì dopo tre giorni di forte febbre all’ospedale. Avendogli scoperto il bubbone sintomo della peste sotto un’ ascella, i medici fecero bruciare tutto quello che aveva con sé. Secondo il sacerdote Giuseppe Ripamonti fu invece un certo Pier Paolo Locati, di Chiavenna, a portare il virus della peste a Milano. Tadino e Ripamonti non sono d’accordo neppure sulle date di ingresso dei due in città. La controversia sull’origine dell’epidemia non è mai stata risolta. Come adesso, nei nostri giorni, per il coronavirus, così secoli fa regnò l’incertezza sul portatore del contagio. Oggi si sa il luogo di partenza del coronavirus, si ritiene venga da Wuhan, nell’Hubei, la provincia cinese più colpita. Nel ’600 il contagio fu portato in Lombardia dai lanzichenecchi, dalle truppe tedesche mercenarie di Albrecht von Wallenstein, arrivate in Italia dalla Valtellina e dirette a Mantova, dove era in corso la lotta per la successione tra Francia e Spagna. Un tempo i portatori di virus erano i soldati. Oggi sono civili pacifici, turisti, commercianti, tecnici. Il virus adesso viaggia in aereo o su un piroscafo. Le due situazioni non sono ovviamente paragonabili: sarebbe un’imperdonabile forzatura. La rilettura del Manzoni è puramente letteraria. Le incertezze iniziali sul pericolo incombente durarono a lungo. Alessandro Tadino, dopo una visita in Valsassine, informò il governatore Ambrogio Spinola del rischio che tra i lanzichenecchi in arrivo ci fossero molti appestati. La risposta fu che «le preoccupazioni della guerra erano più pressanti». Pochi giorni dopo, nonostante l’annunciato pericolo, con grande partecipazione popolare fu festeggiata la nascita del primogenito di Filippo IV, re di Spagna. Dal mese di marzo dell’anno successivo, nel 1630, la peste cominciò a mietere sempre più vittime. In maggio il caldo estese il contagio al punto che il lazzaretto non era più in grado di accogliere ammalati. Il ritmo delle morti a Milano era di quaranta al giorno. Il tribunale ordinava di bruciare tutto ciò che poteva essere fonte di contagio; sequestrava le abitazioni; relegava intere famiglie nel lazzaretto. Credendo si trattasse di abusi delle autorità la gente insultava Alessandro Tadino e Senatore Settala, incaricati di arginare la peste. La paura provocata dall’aumentare delle vittime fece nascere tra la gente la convinzione che alcuni uomini spargessero apposta unguenti venefici. E cominciò così la caccia agli untori. Nulla di tutto questo accade oggi. Ma le assurde aggressioni ai cinesi non sono mancate. La tristezza dell’argomento è stata compensata dalla rilettura delle chiare pagine di Alessandro Manzoni. È stato un salto a ritroso nella storia irripetibile mentre viviamo un presente inquietante.
Il colera di Napoli al tempo dei Borboni. Nel 1836-37 la capitale del Regno delle due Sicilia viene investita da un'epidemia che farà oltre trentamila morti. Fra questi, il maggiore poeta italiano dell'Ottocento, Giacomo Leopardi. Gianfranco Turano il 06 aprile 2020 su L'Espresso. Il 1836 a Napoli si presenta come anno fausto. Il 16 gennaio re Ferdinando II annuncia alla plebe e ai signori la nascita del primogenito, che gli succederà sul trono di Borbone con il nome di Francesco II e il vezzeggiativo, o dispregiativo, popolare di Franceschiello. I festeggiamenti in città e nelle province del Regno delle due Sicilie diventano un proseguimento del Natale, anche se un'ombra si è allungata da mesi sugli Stati dell'Italia. È il colera, un batterio gram-negativo che attacca l'intestino e, attraverso la dissenteria, porta alla morte per disidratazione o insufficienza cardio-respiratoria. Il colera ha iniziato la sua marcia di conquista e di distruzione anni prima. È apparso in India nel 1817, come morbo endemico del basso Gange, ed è subito diventato il “morbo della rivoluzione commerciale” e della colonizzazione (10 mila morti fra le truppe britanniche). Mercanti inglesi e le prime navi a vapore hanno sparso il Vibrio cholerae prima in Asia, poi in Russia. Dalla città commerciale per eccellenza dell'impero zarista, Nižny Novogorod, il colera investe Danzica, la Germania, la Francia. Parigi e Marsiglia subiscono perdite nell'ordine di 22 morti ogni mille abitanti. A Bordeaux il tasso di letalità arriva al 70%. Città che vivono di commerci come Venezia, Livorno e Genova esitano a intervenire per non danneggiare i traffici a vantaggio della concorrenza. L'autore di Robinson Crusoe ha scritto un libro-inchiesta sulla pestilenza che ha ucciso almeno centomila persone nella sola capitale britannica. Una storia di eroismi e di sovrani in fuga, di decreti tardivi e di concorrenza sleale fra paesi europei. Ma la preoccupazione è tale che già nell'agosto del 1835, quando l'epidemia sta devastando il Regno di Sardegna di Carlo Alberto, il governo di re Ferdinando emette un decreto dove si prevedono i regolamenti e le contromisure da adottare in caso di esplosione della malattia. Il provvedimento principale è il cordone sanitario al confine nord con lo Stato Pontificio. Il supremo magistrato di salute impone la quarantena alle navi provenienti da zone a rischio e si riserva di chiedere a chi sbarca una certificazione sanitaria. Napoli ha caratteristiche e debolezze ben note alla dirigenza borbonica che pure non si è data troppo da fare per trovare rimedi. La città è una delle più popolate d'Europa con 357 mila abitanti. Ma rete fognaria e acquedotti sono quelli del Seicento. I collettori principali scorrono in mare ma la costruzione della via Marina per ordine di re Carlo III nel 1740 crea uno sbarramento che favorisce il ristagno della cloaca massima. Dei due acquedotti cittadini (Bolla e Carmignano), il Bolla scorre quasi in superficie da Monte Somma a Poggioreale attraverso la città antica (Tribunali, Mezzocannone, Forcella, S. Biagio) e viene mantenuto dalla corporazione pubblica dei fontanieri. Il Carmignano scorre più profondo ed è curato dalla corporazione dei pozzari. Perdite nelle falde potabili e infiltrazioni dai pozzi neri non collegati alla rete fognaria principale sono innumerevoli. Il Carmignano – si scoprirà troppo tardi – passa sotto il cimitero di S. Maria del pianto dove sono stati sepolti gli appestati del 1656 e dove i nobili seppelliranno i loro morti di colera. Il blocco del confine terrestre non basta. La malattia entra in città dall'ingresso più ovvio. Il quartiere Porto è il primo a essere colpito e un soldato in servizio alla dogana, Gennaro Maggi, è indicato come paziente uno, senza certezze. Il medico e storiografo irpino Salvatore De Renzi, nella sua relazione al governo del 1837, accusa il contrabbando già florido e segnala la comparsa di una strana epidemia nelle Puglie portata a Napoli da un barbiere di Lecce. Un medico barese che parla di colera viene punito, come il dottor Li di Wuhan. La prima fase dell'epidemia inizia il 2 ottobre 1836 e dura 158 giorni fino all'8 marzo dell'anno successivo. Dopo un mese in cui la città si illude di averla scampata, il colera torna molto più forte il 13 aprile. La seconda fase dura 195 giorni fino al 24 ottobre 1837 con un totale ufficiale di 13810 decessi su 21784 casi e una letalità del 63,3%. All'inizio il morbo è accolto con il solito atteggiamento negazionista-minimalista. I morti sono soprattutto fra i ceti popolari e non è una sorpresa, visto come vivono. Nei primi giorni i ricchi, per vie corruttive, nascondono i loro morti di colera e falsificano le cause del decesso in modo da evitare le restrizioni di sanità pubblica che hanno vietato le sepolture nelle cappelle gentilizie e nei cimiteri delle chiese. La responsabilità del contagio è attribuita alla spazzatura, ai suoi miasmi e alla scarsa circolazione dell'aria fra i vicoli dei Quartieri spagnoli, a via Foria o al porto. Quindi i benestanti non corrono rischi. È un'illusione. Un medico inglese, John Snow, seguito dal collega italiano Filippo Pacini, scopritore del vibrione, intuiranno che il veicolo principale è l'acqua contaminata dalle feci.
La teoria delle due razze. In effetti il colera, come le pestilenze del Trecento e del Seicento, inizia la sua corsa fra i “bassi” abitati dal popolo ma non si fermerà di fonte ai palazzi dei magnati che anzi saranno i più colpiti nella seconda durissima fase del contagio. Detto questo, la spaccatura di classe nella Napoli dei Borboni è una delle più clamorose d'Europa. « Chi viene straniero fra noi e vede il nostro popolo ed i suoi costumi», scrive De Renzi nel 1848, «non crede di osservare ceto civile e plebe, ma sospetta due razze diverse di uomini: tanto la miseria e l'abbandono ha abbrutito gran parte degli abitanti... Senza tetto e senza vestito, molti confidano più nella clemenza del clima che nella pietà ο nella giustizia degli uomini; e coloro che possono ricoverarsi tra quattro mura disputano agli animali il luogo di ricovero, e gli animali de' ricchi sono spesso più fortunati. Le case de' poveri sono tutte al livello delle strade e molte sottoposte ad esse ne ricevono l'umidità, le immondizie, lo spruzzo del fango, e la polvere. In un angolo il focolaio, in un altro il deposito delle impurità, due logore sedie ο una pietra per sedere, quattro tavole con uno strame di paglia che chiamano letto, una volta ο quattro travi affumicate, nere, minaccianti ruina, costituiscono queste tane che covrono genitori e fìgli di ogni età, accovacciati sul terreno, costretti a tenere aperto l'uscio per riconoscere il giorno, e ad uscir sulla strada per vedere il sole. Tutte le funzioni della vita di molti esseri ad umana figura si compiono in questo breve ricinto. Lauta imbandigione è per essi un poco d'erba mal cotta e peggio condita con poco nero pane, e talora qualche frutto acerbo ο guasto».
Le terapie. I dati dei decessi divisi per classe sociale mostrano che il morbo colpisce di più i benestanti del popolo. Le spiegazioni date sono varie. Una dipende dalle difficoltà dei due acquedotti a rifornire le zone alte della città come Posillipo, Capodimonte, Vomero, S.Elmo, già allora preferite dalle classi superiori. In realtà, date le infiltrazioni e l'inquinamento delle acque pubbliche, spesso si ricorreva a pozzi privati ancora più a rischio oppure al trasporto da parte di acquaioli. Altri hanno ipotizzato che proprio le condizioni igieniche della città bassa avessero, alla lunga, fortificato chi riusciva a sopravvivere alla mortalità infantile elevatissima. Ma il vero e paradossale vantaggio del popolo era l'impossibilità di pagarsi cure e rimedi che, senza proteggere o guarire, spesso procuravano danni. Chi poteva permetterselo faceva largo uso di oppiacei, di purghe e di ossido di zinco. Spesso era il colpo di grazia. Le istituzioni organizzano sette ospedali. Ma i malati possono scegliere di farsi curare a casa. I funerali vennero ammessi solo di notte e lo Stato organizzò panifici a prezzi calmierati per evitare la carestia. A vigilare sull'applicazione delle ordinanze, re Ferdinando mette il suo ministro della Polizia, Francesco Saverio Del Carretto.
Lo sbirro e il poeta. Del Carretto è una delle figure più interessanti dell'epoca. Nato a Barletta nel 1777 ha una vita parallela con il suo quasi coetaneo e collega francese Eugène-François Vidocq, nato nel 1775. Anche Del Carretto, prima di diventare il superpoliziotto del Regno borbonico, si è trovato in difficoltà con la giustizia. Mentre Vidocq ha un passato da criminale comune, il pugliese è stato un delinquente politico. Durante i Moti liberali del 1820-1821, viene arrestato in quanto carbonaro. Dopo essersi riconvertito ai principi della restaurazione monarchica, sosterrà che la sua appartenenza alla carboneria era una messinscena. Come Vidocq, anche Del Carretto si era infiltrato per meglio denunciare le reti rivoluzionarie, dettando un metodo che sarà molto praticato nei secoli a venire. È proprio Del Carretto ad arrestare nel 1832 un giovane avvocato napoletano, Antonio Ranieri, che sarà espulso dal Regno in quanto liberale. Ranieri otterrà il permesso di rimpatrio un anno dopo. Glielo dà il re al termine di un colloquio personale a quattr'occhi, secondo quanto sostiene lo stesso Ranieri che pure non apparteneva a una famiglia fra le più in vista del Regno e che, come si vedrà, si prendeva frequenti libertà con i dati del reale. Il liberale pentito, a meno che non fosse un infiltrato anche lui mandato in giro per l'Italia a frequentare i circoli rivoluzionari e i mazziniani della Giovine Italia, torna a Napoli il 2 ottobre 1833 insieme a un amico di Recanati, un curioso personaggio che ha deciso di condividere con Ranieri una lunga avventura in giro per l'Italia.
L'amico è Giacomo Leopardi. La vicenda di Leopardi a Napoli ha riempito i libri di storia ed è stata raccontata al cinema di recente da Mario Martone (Il giovane favoloso con Elio Germano, 2014). Ma la fine del poeta, che muore il 14 giugno 1837, resta un mistero. È noto che Leopardi e Ranieri abbandonano Napoli durante la prima fase dell'epidemia, nel 1836. Vanno a Torre del Greco, località di villeggiatura per i signori, in una residenza dove lo scrittore marchigiano scrive la Ginestra, uno dei suoi poemi immortali. Nell'illusione che il contagio sia al termine, a febbraio 1837 i due amici tornano in città nel palazzo dove si sono trasferiti nel 1835 in vico del Pero 2, a monte del Museo nazionale. Il ritorno di fiamma del colera li blocca in casa. Il loro conoscente Francesco De Sanctis, il maggiore critico letterario italiano dell'Ottocento che al tempo ha vent'anni, ricorda quei giorni con poche parole: «La vita pubblica sospesa. Le scuole, le botteghe deserte». Il 14 giugno, nel racconto di Ranieri, il contino Leopardi si abbandona a uno dei suoi frequenti stravizi alimentari. Ingurgita un chilo di confetti di Sulmona, una cioccolata, si ingozza di brodo caldo, poi ci mette sopra un paio di granite ghiacciate. Poche ore dopo è morto. Il medico certifica l'idropisia polmonare (liquido nei polmoni) come causa del decesso. L'amico Ranieri, a quanto egli stesso sostiene, riesce a eludere la sorveglianza strettissima della polizia borbonica nel modo più semplice. Si mette d'accordo con il ministro Del Carretto in persona e fa seppellire il poeta nella chiesa di San Vitale a Piedigrotta. Considerando una certa tendenza immaginifica di Ranieri, la tesi alternativa è che Leopardi sia morto di colera e che il suo corpo sia finito, come imponevano le ordinanze di pubblica sanità, nella gigantesca fossa comune allestita alle Fontanelle, un ex cava di tufo a Poggioreale. Nel giugno del 1900, quando viene riesumato il feretro a San Vitale, nella cassa si trovano poche ossa secondarie e due femori troppo lunghi per essere compatibili con la statura del poeta. Niente cranio, né colonna vertebrale. Nel 1939 Benito Mussolini sposta la presunta reliquia nel Parco virgiliano a Mergellina.
Rivolta in Sicilia. Poco più di un mese dopo la morte del poeta, il ministro Del Carretto viene spedito d'urgenza in Sicilia che ha abbandonato la cordonatura sanitaria applicata nella prima fase ed è stata colpita dalla seconda ondata. Del Carretto deve reprimere i moti di piazza scatenati, a quanto pare, dalla propaganda liberale che accusa i Borboni di avere diffuso il colera per piegare il popolo. Il 16 luglio a Siracusa, dove il morbo infierisce, c'è una sollevazione che porta all'assassinio dell'Intendente, del capo della polizia locale e di altri rappresentanti del potere. Del Carretto agisce come aveva fatto anni prima nella repressione del brigantaggio in Calabria citeriore. Arresta e fucila centinaia di persone. A ottobre del 1837 il peggio è passato, anche se non per molto. Napoli conoscerà altre quattro epidemie di colera nell'Ottocento, prima e dopo l'Unità d'Italia: 1854-55, 1865, 1873 e 1884, quando finalmente si mette mano al sistema fognario che risaliva al viceré don Pedro de Toledo (XVI secolo). Nel 1836-37 lil colera raggiunge i livelli delle grandi pestilenze del Trecento e del Seicento. Nella prima fase muoiono 5669 persone su 10361 (letalità del 54,7%). Nella seconda, i decessi sono 13810 su 21784 malati (letalità del 63,3%). Ma è un calcolo minimo che esclude migliaia di vittime. De Renzi parla di oltre 30 mila morti.
Conclusioni. Oggi il Vibrio cholerae è tornato a essere una malattia per poveri. Ci si ammala nelle zone meno sviluppate del mondo e si muore nell'ordine di decine di migliaia di persone l'anno, come accade nello Yemen investito dalla guerra. A Napoli il colera si è ripresentato in tempi recenti. È accaduto nel 1973 con un bilancio finale di 24 morti e 278 casi tra Ferragosto e la prima metà di ottobre. Imputato principale, i frutti di mare pescati in un Golfo avvelenato dagli scarichi.
Nota. La maggior parte delle notizie di questo post sono tratte dai lavori storici sul colera a Napoli di Annalucia Forti Messina.
Quando Bari fu colpita nel 1836 dall’epidemia di colera. Vittorio Polito il 31 marzo 2020 su Il Giornale Di Puglia. Com’è noto per epidemia si intende la manifestazione collettiva di una malattia che rapidamente si diffonde, per contagio, fino a colpire un gran numero di individui in poco tempo. In questi giorni, con le notizie che ci pervengono per il coronavirus o Covid-19, stiamo aggiornando le nostre conoscenze in materia. Ma vediamo, con l’aiuto dello storico Vito Antonio Melchiorre (1922-2010), che succedeva a Bari circa due secoli fa. Nel 1836 una epidemia di colera si manifestò a Bari e si annotarono 1290 casi di infezione e 238 decessi e, mentre sembrava attenuarsi il contagio entro dicembre, nel giugno 1837 riprese alla grande, causando altre 854 infezioni e 138 nuovi decessi. Considerando che Bari allora contava appena 26.000 abitanti, le autorità si preoccuparono non poco e negli atti si legge “…di provvedere intorno ai mezzi come accorrere in aiuto ai poveri infermi, e ciò per umanità, e perché la malattia dominante venisse debellata al più presto…”. Per reperire il danaro occorrente si utilizzarono i fondi destinati a soccorrere i poveri in caso di nevicate, quelle per la costruzione di un faro nel porto, di una chiesa e di un giardino pubblico, per un importo pari a 1100 ducati. Furono acquistati letti, biancheria e vitto e ingaggiati 24 spazzini (gli attuali operatori ecologici), e 6 carretti per la pulizia delle strade per evitare “maligne influenze atmosferiche tanto nocive alla pubblica salute”. Furono istituiti comitati presieduti da parroci e composti da “uomini buoni e caritatevoli”, i quali fecero affiggere sulla porta di ogni chiesa un elenco di medici e farmacisti, ai quali la popolazione si poteva rivolgere presentando un biglietto firmato dal parroco o da uno dei membri del comitato e, in caso d’urgenza, anche senza alcun messaggio. Nel 1873 un’altra infezione di colera si manifestò nel Mezzogiorno, minacciando anche Bari ed il prefetto costituì una commissione di 8 membri, presieduta da tale Beniamino Scavo, finalizzata ad accertare le condizioni igieniche della città che non risultarono proprio in regola. Si rilevarono così irregolarità al cimitero, luridume e infrazioni di ogni genere nei mercati, le osterie vendevano vini sofisticati con aggiunta di acqua, carbonati alcalini o calcarei e sostanze coloranti. Furono anche controllati 39 pizzicagnoli (il salumiere di oggi), di cui: 13 furono definiti mediocri, 6 cattivi, 6 pessimi e 14 passabili, 14 cantine, mentre in 5 abitazioni si smerciavano carni di cavallo, asini e muli, macellati senza alcun accertamento sanitario. Anche nelle 21 scuole furono riscontrate gravi irregolarità con servizi igienici inesistenti o sostituiti da recipienti di creta (?), per cui gli alunni erano costretti ad uscire da scuola per deporre sulla pubblica via feci e urine. La situazione apparve subito disastrosa e la commissione propose di preparare grandi quantità di solfato di ferro e di cloruro di calce, intensificare la vigilanza sanitaria e isolare gli eventuali casi di colera con cautele e disinfezioni, proprio come si sta facendo oggi con la pandemia del coronavirus. Bari, nel 1873, non fu interessata dal colera.
L'AMARCORD E IL CORONAVIRUS. Puglia, quando arrivò il colera nel 1973 il Nord ci sbeffeggiò. Senza i social poche «fake news». E nessuno contro l’Africa. Ugo Sbisà il 25 Febbraio 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. La psicosi generata dalla diffusione del coronavirus e soprattutto i provvedimenti amministrativi di chiusura che, al Nord e in diverse regioni, stanno riguardando molti luoghi pubblici, risvegliano nella memoria di chi li ha vissuti il ricordo dell’epidemia di colera che nel 1973, insieme con Napoli, mise a dura prova anche Bari. Era all’incirca la fine di agosto quando si verificarono i primi casi in città e per molti si trattò di una vera e propria doccia fredda: l’ultima epidemia di colera a Bari risaliva infatti al 1837, mentre la città si era «salvata» da una nuova ondata che aveva riguardato l’intero meridione nel 1873. In altre parole, il colera sembrava un male confinato all’Ottocento e sopravviveva nella memoria degli anziani o, tutt’al più, in quella dei lettori di romanzi di ambientazione esotica. Questo spiega perché i primi casi colsero alla sprovvista le strutture sanitarie e le farmacie, prive dei farmaci necessari per la prevenzione e la cura della malattia. Ma - e questo è decisamente peggio - la diffusione del vibrione era tradizionalmente associata alle cattive condizioni igieniche e questo favorì la circolazione di notizie non sempre veritiere diffuse soprattutto dagli inviati di certa stampa del Nord che, in particolare nel descrivere le condizioni di vita di Bari vecchia, calcarono sin troppo la mano, raccontando di miasmi insopportabili e soprattutto di topi che, al calar del sole, diventavano i padroni incontrastati dei vicoli e persino delle abitazioni...Esagerazioni a parte, l’amministrazione comunale - all’epoca guidata dal democristiano Nicola Vernola - intervenne prontamente disponendo la chiusura di tutti i locali pubblici, cosicché, in quel caldo scampolo d’estate, i baresi dovettero rassegnarsi a trascorrere le serate in casa, dividendosi tra il televisore (con la sola scelta tra Raiuno e Raidue) o rispolverando con grande anticipo sul Natale i giochi di carte e di società. Fuori casa nessuno avrebbe mai rischiato di bere persino un semplice bicchiere d’acqua, meno che mai se di rubinetto. Cinema, teatri, ristoranti erano tutti rigorosamente chiusi e lo stesso Vernola, anni dopo, ricordò divertito di essere stato chiamato da un allarmatissimo Aldo Moro pochi giorni dopo lo scoppio dell’epidemia: i due avevano pranzato assieme la settimana precedente e Vernola, da buon barese, aveva consumato delle cozze crude. Di qui la preoccupazione dello statista salentino che il primo cittadino potesse aver contratto la malattia. Ovviamente, la cautela non si fermò ai luoghi di svago, ma riguardò anche l’inaugurazione della Fiera del Levante e persino le scuole, tant’è che quell’anno 1973-74 s’iniziò con oltre un mese di ritardo. E furono forse gli studenti gli unici che, con una punta di incoscienza, guardarono al vibrione con una certa simpatia. I più fortunati di loro ripararono con le madri nelle case estive, considerate più «sicure» perché lontane dal focolaio d’infezione. La situazione cominciò a normalizzarsi con l’arrivo del vaccino in grande quantità, che coincise anche con un lento ritorno alla normalità. L’emergenza era durata all’incirca un paio di mesi, ma soprattutto - sebbene il colera fosse un male curabile con rimedi noti e non un virus ancora in attesa di antidoti - era stata affrontata senza psicosi. Merito di una ferma ed efficace gestione sanitaria - si distinse, fra i tanti, il prof. Nicola Simonetti - e amministrativa, ma soprattutto anche di una più «sana» informazione. Quarantasette anni fa, internet era pura fantascienza e in loco le notizie o le raccomandazioni circolavano solo sulla carta stampata, in radio e in televisione, ma sempre dopo essere state accuratamente valutate e verificate. In altre parole, l’epoca delle fake news era di là da venire e il mondo della politica non si azzardava minimamente a strumentalizzare le emergenze per attaccare i propri avversari. Un ultimo aspetto: fermo restando che la città di allora era forse meno pulita di quella di oggi, alla fine il focolaio dell’infezione venne identificato a Napoli in una importante partita di cozze arrivata sui mercati del Sud dal Nordafrica; il caldo e una certa disinvoltura igienica delle zone colpite avevano fatto il resto. Ma nessuno se la prese col Nordafrica...
1865-1866: Il colera in Manduria nelle cronache dell’epoca. Gianfranco Mele il 29 Febbraio 2020 su La Voce di Maruggio. Nel 1865 appare per la prima volta il colera a Manduria, che si caratterizza proprio come epicentro della diffusione nella nostra zona. In quel caso, fu individuato come “paziente zero” un tal Giuseppe Piccione che secondo alcune fonti aveva contratto il morbo mentre lavorava al porto di Brindisi, secondo altre, poi ritenute più attendibili, ad Ancona, da dove era passato mentre da militare faceva ritorno da Bologna. L’emergenza colera si protrae dalla fine di luglio agli inizi di ottobre del 1865. La seconda diffusione parte nel 1886 da Latiano e Francavilla Fontana, nel giugno di quell’anno raggiunge Uggiano Montefusco e si riaffaccia su Manduria. E’ subito polemica in merito alla gestione politica e sanitaria dell’epidemia, alcuni giornali attaccano l’amministrazione comunale manduriana tacciandola non solo di incapacità ma anche di opportunismo in quanto i componenti della giunta municipale intera si sarebbero rifugiati in campagna con le loro famiglie, disinteressandosi della situazione in città e pensando esclusivamente a salvaguardare la propria salute. Analizzeremo qui cronache ed editoriali di alcuni giornali dell’epoca, mentre per una sintesi storica e ulteriori dettagli rimando all’articolo di Pio Capogrosso (facilmente rintracciabile sul web) che riporto qui in bibliografia.
Il Cittadino Leccese del 19 agosto 1865 apre con un editoriale piuttosto polemico, accusando la politica di tacere ed esortando gli amministratori della Provincia a ricorrere ai necessari mezzi di prevenzione della diffusione del contagio. L’articolo prosegue con la pubblicazione di una nota del 1837, anno in cui già si propagava tragicamente il colera nella provincia di Bari, ma non raggiunse la Terra d’Otranto grazie, sostiene l’editoriale, all’intervento del Duca di Monteiasi, all’epoca Intendente della Provincia di Lecce, che impose un “rigoroso e completo isolamento a tutto il territorio del Leccese”. Il Duca aveva sospeso commerci con la provincia di Bari e respinto sulla frontiera i cittadini provenienti dal barese. Contro questi provvedimenti si era espresso l’Intendente di Bari, il quale “mosse lagnanze al Real Governo”: il Duca rispose così fornendo al Governo tutte le spiegazioni dei suoi drastici provvedimenti. L’editoriale del Cittadino Leccese ripropone così le note del Duca rivolte al Ministro dell’Interno di Re Ferdinando, perchè siano di esempio, sostiene, agli attuali amministratori della Provincia di Lecce che dovrebbero seguire le orme di quel predecessore, ed esortando quindi a mettere in funzione un efficace sistema d’isolamento che emuli i provvedimenti adottati 30 anni prima dal Duca. Nella lettera al Ministro, il Duca difende il suo operato e giustifica la sua scelta di isolare le persone provenienti dalla zona infetta, non ammettendole “sul territorio sano”. Il Duca conclude la sua lettera ribadendo alcuni principi secondo lui necessari a prevenire la diffusione del colera, ovvero l’isolamento dei singoli casi verificatisi nei paesi colpiti, l’isolamento dei “paesi infetti dai sani”, l’obbligo di viaggiare sempre accompagnati da un certificato sanitario, la necessità che medici ed autorità comunali dei singoli paesi segnalino casi dei quali sono venuti a conoscenza. Dopo la lettera del Duca di Monteiasi, il Cittadino Leccese pubblica una lettera di un Professore in Medicina, un carteggio tra il prof. Tommasi e il prof. Turchi, nel quale il Tommasi espone al collega i suoi punti di vista sulla questione: la riporto qui appresso, suddivisa in 3 ritagli. Il 25 agosto del 1865 Il Cittadino Leccese riporta in prima pagina la notizia di nuovi casi di colera in Manduria, fornendo alcune cifre: dal 24 luglio al 23 agosto i casi “sommano 26, de’ quali 14 hanno soccombuto, ed uno si è lasciato tuttavia in istato grave”. Con una nota a piè di pagina poi viene specificato che alla data del 24 anche quel paziente grave è morto. In sostanza, si riportano le dichiarazioni contenute in un bollettino sanitario firmate da Raffaele D’Arpe, Emilio Perillo e Domenico Corallo, componenti di una commissione istituita dal Consiglio Sanitario Provinciale per monitorare la diffusione del morbo. Il 2 settembre dalle pagine di quello stesso giornale viene dato un aggiornamento del numero dei morti: 16 il 31 Agosto, 13 l’1 Settembre e altri 13 il 2 settembre. La paura dilaga, e chi può fugge via da Manduria o nelle proprie residenze di campagna: qui, il giornale attacca l’amministrazione di essersi dileguata pensando a sé, insieme ai ricchi proprietari e alla Congregazione della Carità, per cui in paese son rimasti solo i poveri. Due terzi della popolazione son fuggiti, dichiara il giornale, e un terzo è rimasto abbandonato, “senza aiuti di sorta e in preda alla più desolante disperazione”. Il 9 settembre 1865 sempre su Il cittadino leccese viene pubblicato un altro bollettino sanitario firmato da D’Arpe, Perillo e Corallo. Era già la terza volta che questa commissione si recava in Manduria, prestando il suo apporto all’opera di Professori medici giunti da Firenze (Pellegrino Levi e Dante Borgi), da Napoli (Giarnieri, Ungaro), che coadiuvavano il Professore tarantino Ricciardi e il leccese Ambrogio Rizzo. Erano rientrati anche, a dar man forte all’equipe sanitaria, i medici locali Caputi e Ponno che si erano “assentati per qualche giorno in seguito di sciagure domestiche”. Nel Convento degli ex Carmelitani era stato installato un ospedale per i malati di colera, nel quale alla visita della commissione erano ricoverati 11 pazienti, dei quali 3 in gravissime condizioni. Percorrendo il paese di Manduria alla ricerca di tutti gli altri contagiati, i componenti della commissione provinciale contavano a quella data 50 persone “attaccate” dal colera nei giorni precedenti: di questi 50, per 8 persone la prognosi era che “non poteano dichiararsi fuori ogni pericolo, comechè in lodevole reazione e senza gravi determinazioni secondarie”, mentre i restanti 42 erano stati dichiarati “in lodevole stato di risoluzione morbosa da non lasciare ulteriore timore”. La commissione aveva poi individuato 3 soggetti in situazione di algidismo ovvero in una condizione tipica dei contagiati da colera e alcune altre malattie infettive, che consiste in abbassamento della temperatura superficiale (ipotemia), e in sintomatologia da collasso circolatorio periferico. “Pochi altri”, riferisce la commissione, sono stati trovati inoltre “in istato d’incipiente colerino”. Dopo la visita ai pazienti, i 3 commissari si recano al palazzo municipale, e partecipano, assieme ai Professori, ad una adunanza presieduta dal Sotto Prefetto con l’assistenza del Sindaco Tarantini Maggi e di due Assessori. Si conviene che il colera-morbus costituisce ancora una preoccupazione per la comunità, nonostante gli attacchi gravi siano diminuiti nel numero, ma “non così i lievi ed i colerini che vedevansi ancor molto diffusi, e ne’ quali campeggiava facilmente qualche altra complicanza morbosa sia di elmintiasi, sia reumatico-gastrica, e molto più spesso ancora di febbre endemica palustre”. Si convenì quindi al termine di quella discussione, che nessun medico doveva abbandonare il campo, e che anzi il servizio di cure e vigilanza fosse meglio organizzato attraverso l’assegnazione di una contrada “a ciascun professore sanitario, per esercitarvi il suo ministero”. Così, i dottori Levi e Borgi furono assegnati all’Ospedale, mentre Rizzo, Caputi, Ponno e Giarnieri furono assegnati ciascuno a uno dei 4 rioni in cui era stato diviso il paese. Ogni mattina ciascun medico doveva redigere un dettagliato rapporto nominativo dei casi osservati e trattati nel corso delle precorse 24 ore, con la indicazione inoltre dei morti nei rispettivi quartieri e nell’ospedale: il rapporto doveva essere spedito prima di mezzogiorno all’ Ufficio Sanitario che a sua volta lo avrebbe trasmesso via telegrafo alla Prefettura. In quella adunanza, si discusse inoltre delle misure precauzionali, anche coattive, per contenere la diffusione del contagio: “Coordinato in tal guisa questo servizio, abbiamo inteso il bisogno tuttavia d’inculcare che in ogni casa ove manifestasi il morbo si fosse energicamente accorsi co’ mezzi disinfettanti a norma delle avvertenze inviate dal Consiglio Superiore di Sanità, obbligando le famiglie possidenti alla spesa necessaria, o supplendovi il Municipio, in difetto. Essendoci poi pervenuto a conoscenza che molte case, ove sono avvenute morti per colèra, siano rimaste chiuse per rapido allontanamento ed abbandono degl’individui superstiti, così, per espurgarsi siffatte abitazioni prima che le famiglie vi ritornassero, abbiamo disposto di farsi invito a quegl’individui a mandar prontamente persone per l’apertura di que’ locali onde essere disinfettati, ed in mancanza si fossero adoperati i modi di legge per essere aperti con la forza nell’unico scopo di praticarvi lo espurgo”. Particolare attenzione si dedicò alla questione della tumulazione dei cadaveri dei colerosi: “Parimenti abbiamo data facoltà al Sindaco di far seppellire da ora innanzi i cadaveri de’ colerosi nel novello camposanto per inumazione già apprestato, e colle precauzioni a norma de’ Regolamenti Sanitari, e da noi, nelle precedenti visite fatte col signor Prefetto, caldamente raccomandati – A quei tumuli poi dell’antico cimitero, nei quali sinora sono stati seppelliti i cadaveri de’ colerosi, contro quanto si era disposto fin dal primo apparire del morbo, si fosse portata oggi almeno tutta l’attenzione possibile nello scopo di chiuderli ermeticamente, condizionarli con strati di calce viva, e non riaprirsi se non dopo lo elasso di lunghi anni, se pure non debba completamente smettersi quel camposanto a tombe”. La relazione si conclude con una serie di note che riportiamo di sotto, nel ritaglio giornalistico di cui pubblichiamo foto. I rapporti sul Colera a Manduria vengono pubblicati anche sulla rivista medico-divulgativa L’Imparziale, a firma di quel Prof. Pellegrino che operò in Manduria. Sempre sul giornale Il Cittadino leccese, invece, viene pubblicata una lettera del savese Giuseppe Mancini che tratta della solidarietà offerta da parte della vicina comunità savese alla città di Manduria.
1865-1866: IL COLERA IN MANDURIA NELLE CRONACHE DELL’EPOCA. Gianfranco Mele 13 Marzo 2020 su La Voce di Maruggio. Come si è detto nel precedente scritto, la seconda diffusione di colera in zona parte nel 1886 da Latiano e Francavilla Fontana, e nel giugno di quell’anno raggiunge Uggiano Montefusco e si riaffaccia su Manduria. Da “La Sentinella” del 26 luglio 1886 perviene la notizia che “ormai il colera ha invaso tutto il paese e comincia a serpeggiare anche nelle campagne”. Come nell’anno precedente, notabili, imprenditori, politici e amministratori vengono accusati di essersi defilati e aver pensato esclusivamente ai propri interessi e alla protezione della propria salute e di quella dei loro familiari, e di aver provocato con questo loro atteggiamento anche gravi ripercussioni nell’economia della cittadina e nella salute stessa degli abitanti: “… al primo annuncio di colera il paese rimase spopolato ed abbandonato. L’abbandono si riferisce alla condotta tenuta dai signori del luogo, che tosto si ritrassero nelle loro non ridenti ville, avvalorando col loro contegno la paura dalla quale il popolo era invaso. Per la loro partenza si produsse subito il più completo ristagno nel commercio e nei lavori – e tutti quelli che per tal modo vivevano, oggi muoiono di fame. E questo oltre al dare origine ad una vera e propria questione sociale che da un momento all’altro può presentarsi come un problema di ordine pubblico, produce anche il disastroso effetto di preparare il terreno all’epidemia con l’indebolire gli organismi”. Lo scritto, non firmato, prosegue con pesanti accuse all’ amministrazione comunale: “E c’è di peggio. Vi dirò in breve che qui è scappato via tutto l’intero Municipio. Il sindaco ha fatto quello che poteva, e si è ritirato solo quando la sua salute gli impediva di continuare. Gli assessori ed i consiglieri abbandonarono precipitosamente i loro posti, perchè avevano troppo lavorato durante il periodo elettorale, ed erano stanchi”. In un crescendo polemico e con taglio sarcastico, un assessore viene accusato di aver addirittura negato e occultato la diffusione del colera : “Vittima del dovere rimase solo fino a pochi giorni fa l’ avvocato Preite, ed il dovere consisteva nel dover ricevere il suo amico Lo Re che passava di qui dopo aver accompagnato il ministro Grimaldi. Senonchè egli assicurò al suo amico che non vi era colera e che quindi era inutile che egli si occupasse a visitare gli ammalati. Il Lo Re partì, e la mattina dopo fece fagotto anche l’assessore Preite colla famiglia, poiché in paese non ci era colera, e l’opera sua era inutile!” Proseguono nello scritto le accuse all’assessore contrapponendo la strafottenza e la irresponsabilità di quest’ultimo al comportamento prodigo e diligente di un Onorevole, che l’assessore stesso giunge persino a tentare di depistare: “Due volte l’ On. D’Ayala ha visitato questo paese – ed aggiungerò, il lazzaretto di questo paese. Sempre fu largo di soccorsi ed incoraggiamenti, e le case dei colerosi è stato buono a trovarle da solo, dopo che il mentovato assessore gli ebbe detto anche a lui che a Manduria non ci era colera”. Ci sono invece parole di lode per il consigliere comunale Orazio Schiavoni, uno dei pochi, a detta dell’articolista, a non aver abbandonato il paese e ad essersi prodigato per i suoi concittadini, e per l’ avvocato Carmelo Schiavoni “venuto subito qui per mettere a disposizione le sue forze per gli infelici: egli ha organizzato le cucine economiche, che nelle presenti circostanze risolvono il problema più grave”. Vengono lodati anche l’ex capoguardia Giovanni Tarentini per essersi prestato al servizio dei suoi compaesani, Giuseppe Gigli che “ha appeso al muro la sua cetra”, le monache della carità che sono appena in sei, e che si prodigano e si sacrificano prestando la loro opera presso l’ospedale, presso il lazzaretto, lavorando nelle cucine economiche, prestando soccorso a domicilio agli ammalati. Una critica viene rivolta invece ai preti del paese che “fanno un servizio buono…quanto inutile e forse dannoso”. Parole aspre vengono rivolte alla Congregazione di Carità, alla Pretura e ancora a politici e amministratori: “E’ doloroso lo sciopero completo della Congregazione di Carità e della Pretura. Aspettiamo fidenti che il Governo metta la mano vigorosamente in tanto sfacelo, e mandi a casa tutte le nullità, che venute su negli ultimi anni, si erano impadronite del Comune per poi abbandonarlo quando lo starci era dovere”. Non vengono risparmiati neanche i medici, tacciati di incapacità: “I medici non sono tutti all’altezza della posizione. E’ stato necessario far venire da Lecce il giovane dottor Sellitto, il quale ha contribuito efficacemente a riordinare il servizio”. Lo scritto si chiude evidenziando che l’epidemia è in crescita e insieme ad essa la miseria, che le risorse sono limitate, così come i mezzi, e che perciò occorrono aiuti con urgenza, soprattutto di tipo economico. Il suddetto giornale ospita anche uno scritto di Giovanni Giannone da Pulsano, che evidenzia come anche in Pulsano il colera ha fatto diverse vittime, e che solo nelle ultime 24 ore dalla spedizione della lettera al giornale (datata 19 luglio) son morte ben 4 persone. Un terzo articolo, sempre su La Sentinella del 26 luglio 1886, fornisce aggiornamenti epidemiologici. Viene fatto il punto della situazione alla data del 24 luglio, ovvero a distanza di un mese circa dalla ricomparsa in Manduria della nuova ondata di colera: “ Il colera non dirò che è cresciuto, ma si è mantenuto finora stazionario, di quella stazionarietà che può da un momento all’altro diventare il punto di partenza di un triste progresso. Tanto più che si manifesta un fatto che noi paventavamo e che potrà sensibilmente aggravare la nostra posizione. Parlo cioè del colera che comparisce nelle campagne. Si sono già avuti quattro casi di colera in campagna. E se tutti i rifugiati in campagna si riversassero in paese, qui sarebbe certo un’epidemia intensissima. Per ora i morti non hanno oltrepassato mai il numero di dieci nella giornata. Abbiamo avuto perfino 34 casi in un giorno; ma i morti non sono stati più di dieci”. L’articolo prosegue con una aspra critica ai medici del paese, tacciati di disorganizzazione, indisciplina e poca voglia di lavorare, mentre si loda l’operato di due medici forestieri, il già citato dottor Sellitto da Lecce e il dottor Tempesta da Napoli (riporto qui di sotto uno stralcio): Si loda l’operato della Prefettura che ha permesso di organizzare la mensa, e quello di alcuni notabili del paese, ma continuano nell’articolo le critiche rivolte alla amministrazione e alla organizzazione selettiva dei soccorsi: Le critiche alla amministrazione proseguono feroci, con palesi accuse di “indegnità e incapacità” nella gestione dell’emergenza: “Ci è in paese solo un consigliere, Orazio Schiavoni, che con infaticabile energia sostiene sulle sue spalle il peso dell’amministrazione intera, oltre all’accudire a tutto quant’altro interessa il paese. Ed egli è mai possibile che le autorità si intestino a tenere in piedi un Consiglio Comunale ed un organismo amministrativo che ha dato tale e tanta prova di indegnità e di incapacità? O si aspetta forse che il colera finisca per attendere il ritorno dei signori consiglieri, che ricominceranno ad occuparsi di due guardie campestri, e di un maestro comunale, come hanno fatto per due lunghi anni, senza avere un pensiero per tutto ciò che non sia bassa vendetta di partito, solo sentimento del quale può dirsi siano capaci le loro anime di imbecilli?” Un quarto ed ultimo articolo, sempre nel numero 6 del 26 luglio 1866 de “la Sentinella”, firmato da “un veterano” (la maggior parte dei corrispondenti si firmano con pseudonimi) fa invece il punto della situazione a Francavilla Fontana: si apre evidenziando che il numero dei casi è diminuito ma l’intensità del morbo è cresciuta. Qui, si loda l’operato dei medici francavillesi, del clero e delle suore di carità; una critica è rivolta invece al presidente della Croce Rossa, e ad un assessore che, a dire dell’articolista, “dal primo infierire del colera, vergognosamente si mise in salvo, dimostrando chiaramente così come la sola ambizione volgare fa stare certuni a posti che non son degni di assumere”. Si dà notizia, inoltre, di uno scongiurato pericolo di sciopero dei becchini che avrebbe potuto causare seri danni: grazie al delegato di P.S., lo sciopero viene revocato. Il ritaglio completo dell’articolo, qui a seguire. Ovviamente, ieri come oggi, una imparzialità della stampa rispetto alla politica non esisteva, e di conseguenza non esisteva imparzialità nel registrare fatti di cronaca e di vita sociale: così, se La Sentinella appare inequivocabilmente essere a sostegno dei partiti che caratterizzano l’opposizione all’amministrazione manduriana dell’epoca, dalle colonne de La Voce del Popolo si levano critiche feroci proprio a coloro che scrivono su La Sentinella, accusati di scrivere demagogicamente e affatto disinteressatamente e imparzialmente intorno alla questione colera. Cronisti e corrispondenti locali de “La Sentinella” si firmano con pseudonimi del tipo “un Camerata”, “il Caporale”, “l’ Uffiziale”, “un Veterano”, ecc. . L’articolo del 15 agosto 1886 de “la Voce del Popolo”, giornale ideologicamente contrapposto a “La Sentinella”, ha per titolo proprio “la Sentinella ed il colera a Manduria” e consiste in un duro e polemico attacco a quel giornale, ai suoi cronisti e corrispondenti ed al modo in cui trattano la questione colera a Manduria. Gli articolisti sono tacciati di accusare ingiustamente l’amministrazione e “le persone più rispettabili del paese”. Qui di sotto, un ritaglio. L’articolo de La Voce del Popolo, anche qui firmato con uno pseudonimo, “Veritas”, prosegue attaccando il corrispondente de “La Sentinella” che si firma “L’Uffiziale”, accusato di demagogia, di tirare acqua al mulino del suo partito e di diffondere perciò notizie non veritiere e infamanti; di stravolgere i fatti, perchè aspira a candidature, e persino di essere un ubriacone (“tu rimani in mezzo al colera – ed anche in mezzo alle bottiglie di cognac”). Così, l’ “Uffiziale” viene qui accusato di screditare i medici suoi concittadini, specie se sono medici non aderenti al suo partito, e di far finta di non vedere invece il comportamento biasimevole dei seguaci della sua corrente politica. Qui, insomma, ogni accusa partita dalle cronache de La Sentinella viene ribaltata e vengono screditati i personaggi che La Sentinella invece aveva lodato. A seguire, il ritaglio che tratta di questi argomenti (l’articolista de “la Voce del Popolo”, “Veritas”, si sta rivolgendo direttamente a “l’ Uffiziale” de “La Sentinella”): Comparando i pur diversi e opposti resoconti “de “La Sentinella” e “La Voce del Popolo”), ciò che sembra emergere è che omissioni e “fughe” di personale politico, amministrativo e sanitario ve ne sono state in ogni caso, solo che ciascuno dei due giornali dà risalto più alle inadempienze dei personaggi appartenenti alla fazione politica degli avversari che a quella propria. Ad ogni modo, per “la Voce del Popolo” tutti coloro che “la Sentinella” attacca come pavidi e irresponsabili sono invece “generosi e coraggiosi”: L’articolo de “La Voce del Popolo” si chiude con un duro attacco personale al corrispondente manduriano de “La Sentinella”.
Era l’anno 1928, a Maruggio c’era la tubercolosi. Tonino Filomena l'1 Marzo 2020 su La Voce di Manduria. Il dottor Pietro Saponaro (1899-1980), la cui memoria è ancora viva nella nostra comunità, arrivò a Maruggio nel settembre 1928 per prepararsi a sostituire il vecchio ufficiale sanitario del paese, Emanuele Macchia. Don Pietro o “medico dei poveri” (così veniva indicato dai miei concittadini) si rese subito conto che la popolazione più povera aveva urgente bisogno di cure a causa della diffusione della tubercolosi. Questa malattia infettiva, considerata grave e mortale fino alla metà del secolo scorso, divenuta oggi più facilmente diagnosticabile e curabile, si diffondeva (così come il coronavirus) per via aerea attraverso goccioline di saliva emesse con la tosse secca. Oggi come allora la maggior parte delle infezioni risulta essere asintomatica e se non trattata per tempo, può uccidere più del 50% delle persone infette. Il nostro bravo Don Pietro non si perse d’animo e dopo alcune settimane (22 novembre) scrisse al Prefetto di Taranto: «In questo Comune» – si legge nella lettera in mio possesso – «è in atto una non lieve percentuale di casi di tubercolosi. Varie sono le circostanze che determinano in questo paese l’attecchimento ed il divulgarsi dell’infezione in parola. Prima fra queste la condizione climatica, per la quale predominante nella stagione invernale i freddi umidi, gli organismi, in parte minorati dalla malaria che fino a qualche anno fa ha funestato questa popolazione […]. Altro fattore di non secondaria importanza è il pericolo del contagio […]. I tubercolotici sono in giro continuamente in paese, frequentando attualmente pubblici esercizi, caffè, osterie ecc. Ne consegue che dappertutto tossiscono e sputano […]. I rimedi? – Vari – necessari per tutti però! In via generale si deve prevenire la tubercolosi – isolare l’ammalato […]. Ai bambini nati da genitore tubercolotico […] s’impone per essi la vaccinazione […]. Dette vaccinazioni conferiranno al piccolo organismo, così come per il vaiuolo, uno stato di raffrettarietà all’infezione […]. Tutto ciò prima che il bambino […] venga inviato in appositi luoghi, quali: colonie, scuole all’aperto, avviamento professionale ecc… […]. Son sicuro, in un lontano domani saranno attuate dal governo fattivissimo di Benito Mussolini, il quale saprà portare anche in questo campo l’Italia al primo posto di civiltà e di progresso.» Il “medico dei poveri” (vedi foto, anno 1969) sconfisse la tubercolosi nel giro di pochi mesi, salvando così centinaia di bambini maruggesi, figli di genitori tubercolotici. Il 12 dicembre 1928 fu nominato medico condotto di Maruggio e Ufficiale Sanitario del Comune, percependo uno stipendio annuo lordo di 11.000 lire. Il 20 dicembre dello stesso anno la Speciale Commissione Provinciale Antitubercolare lo iscrive d’ufficio “per conseguiti meriti”. Grazie Don Pietro. Maruggio ti è grata! Eternamente. Tonino Filomena
Roberto Burioni, il precedente del 1.300 e l'evoluzione del morbo: cosa dobbiamo aspettarci adesso. Renato Farina su Libero Quotidiano il 13 marzo 2020. Il libro è crudele, spietato. Somiglia al virus. Non ha lieto fine. Ma indica una strategia efficace per salvarci, l' unica basata sulla scienza e non sulla scemenza. Quarantena. Con un solo aggettivo qualificativo a caratterizzarla: assoluta. Quarantena assoluta! Isolamento sociale con il silicone. Non si sconfigge con i decreti (era ora! Ce ne vorrebbero di drastici) ma con l' autocoscienza che dice: chiusi, tappati in casa. Altrimenti il prossimo passo sarebbe il coprifuoco. Fermiamoci prima, ma bisogna farlo tutti. Lì sta oggi l' unica speranza. La scienza, allo stato attuale delle conoscenze, non consente illusioni. Il vaccino? Arriverà tra diversi anni. Medicinali efficaci? Non se ne conoscono, se siamo fortunati qualcosa si troverà, ma non è detto. Paura? Il libro consente di controllarla con la ragione, aiutandoci a guardare in faccia il nemico, ne segnala il limite. Il Covid-19 non è immortale. Ha bisogno di noi per sopravvivere. Dunque si tratta di sottrarsi ad esso. Se non trova gente in cui infilarsi, da parassita qual è muore, o se il suo diffondersi diventa sporadico per sopravvivere è costretto a farsi debole, sta lì a covare, ma forse, per quando proverà a riprendere in mano il bazooka, avremo creato la corazza del vaccino. Roberto Burioni, con la collaborazione di un altro illustre scienziato della materia, il professore Luigi Lopalco, ha scritto "Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l' umanità" (Rizzoli, pag. 240, 15 euro, in formato elettronico a 7 euro). Dimentichiamo le polemiche idiote contro di lui, tese a squalificarlo. Se si scalda con gli ignoranti o i minimizzatori, una ragione l' ha. Lui sa! Sa tutto quello che si sa, e sa tutto quello che del Covid-19 ancora non si sa. Ecco, non si sa chi sia il paziente zero che ha portato in Europa questo virus. Forse è una manager cinese che è stata in Germania? Probabilmente è lei. E qui la prima cosa da sapere. Ha superato tranquillamente ogni controllo. Stava benone. La misurazione della temperatura in aeroporto non è servita a nulla. Perché in lei il virus c' era, eccome, si trasmette come una bomba a tempo, quietamente, innocentemente, da chi ha un bel colorito e si sente sicuro, a un anziano pallido come me. Se non si capisce questo, siamo condannati. Burioni, con una scrittura facile e brillante, si immedesima con la bestia, perché conoscerla è l' unico modo per affrontarla. Descrive il proprio lavoro di epidemiologo come quello di «un detective a caccia del serial killer». Una volta trovatolo, lo esamina da vicino. Eccolo al microscopio. Questa bestia è mille volte più piccola di una capocchia di spillo, ma ha ambizioni gigantesche. Si chiama Coronavirus perché ha proprio una corona in testa come i re. Ha il progetto di dominare la famiglia umana penetrando corpi indifesi e insinuandosi in cellule inermi. Le trasforma in solide scatole dove alloggia da parassita. Le spezza dopo dieci-dodici giorni e nel frattempo si moltiplica, in modo imperfetto, ridicolo. Se lo bevono tutti. Ha successo. È il format Paperissima. Il Corona ha la genialità di Antonio Ricci. Fa satira sulla nostra pelle. «Ha preso quello che viene gettato via», provini malriusciti. Ha un' astuzia straordinariamente idiota (ossimoro, dice Burioni). Perché? La scienza lo spiega con Darwin. È l' ultimo prodotto della evoluzione dei virus. Il Covid-19 appartiene alla tipologia del suo antenato (2002-2003), che ha generato l' epidemia da Sars, ma quello era un diavolo onesto. Diventava contagioso dal momento in cui si esprimeva con sintomi seri. Questa nuova bestia ha imparato la lezione. Ha certo una letalità (tasso di morti sul totale dei contagiati) molto più bassa del predecessore. Forse si assesterà sull' 1 per cento dei contagiati, prevede Burioni. Nulla a che vedere con l' 8 per cento abbondante che si registra oggi in Lombardia. Ma il dato è alto perché probabilmente in tanti si sono presi la malattia in modo lieve. E se la stanno curando in casa. Ma non è che l' 1 per cento tranquillizzi. In Italia vorrebbe dire, basandoci sul numero di quanti prendono mediamente la "solita" influenza, 60mila morti. Burioni risale all' indietro. Racconta quella che pose fine all' impero romano e ci introdusse al Medioevo. Passa poi alla peste nera, che nella prima metà del 1300 sterminò un terzo della popolazione europea, 23.840.000 di persone. E segnò il confine con il Rinascimento. Ogni pandemia coincide con un cambio d' epoca. Anche questa attuale, scrive l' autore. Vedremo quale. Fermiamoci un istante però. La peste nera che devastò Firenze (1348, centomila morti) smussò la propria falce a Milano: dove uccise appena il 15 per cento dei residenti, perché qui governanti avveduti chiusero quasi per tempo la città. Una lezione che resta valida. La quarantena fu inventata invece a Venezia. Le navi venivano bloccate in porto. Come capitò ai nostri bisnonni per la "spagnola" (cento milioni di morti: per fortuna oggi abbiamo i respiratori) il nostro organismo è totalmente indifeso davanti al nuovo Corona. Il quale si diffonde con la stessa metodologia dell' incendio nei boschi. Un fulmine. Un albero arde. Ne incendia due, due ne infiammano quattro, che diventano sedici e via. Con questo ritmo brucia la foresta. A meno che arrivi la pioggia, che frena, mitiga l' espansione. E la pioggia non è quella meteorologica: si chiama isolamento. Separazione. Fine dei contatti sociali. Ecco, questo impone il libro di Burioni, utile quasi come un vaccino. Quarantena assoluta! Mi ripeto? Me ne frego. Il tempo si è abbreviato e non c' è spazio per alcuna illusione. Il Corona è la malattia X il cui arrivo si temeva da anni. Essa è giunta tra noi.
Coronavirus, l’epidemia di vaiolo che la Jugoslavia e l’Europa sconfissero nel 1972. Pubblicato giovedì, 12 marzo 2020 su Corriere.it da Francesca Battistini. “Messe in quarantena 430 persone che hanno avuto contatti col primo infetto”. “L’ordine tassativo è di limitare al minimo gli spostamenti all’interno delle zone di contagio”. “Le manifestazioni sportive sono vietate fino a nuovo ordine”. “Ridotti al minimo tutti i riti religiosi”. “La popolazione è invitata a evitare assembramenti”. “Un’intera regione è stata posta in isolamento”. “La polizia di frontiera controlla sulle entrate e sulle uscite”. “Numerosi turisti hanno disdetto le prenotazioni”… Vi dice qualcosa? Niente è più inedito dei giornali di ieri e scorrere quelli di cinquant’anni fa, oggi, ha un che di già letto. Nel 1970, prima che arrivasse l’inverno, una famigliola afgana scese dalle montagne di Herat infestate dal vaiolo endemico. Prese un camion, andò a pregare l’Ottavo Sciita a Mashhad e, quando se ne tornò a casa, centinaia d’infetti erano già in giro. Si volava meno, a quei tempi. E ci vollero quasi due anni, prima che il vaiolo sorvolasse il continente, arrivasse in Jugoslavia e scatenasse l’ultima, grande, ormai dimenticata epidemia d’Europa prima del coronavirus. Accadde tra febbraio e marzo, anche allora. Nel 1972. Un’emergenza totale. E anche quella volta partì tutto dall’Asia, in una catena del contagio casuale e inarrestabile: prima i devoti iraniani contagiati dalla famigliola afgana, che s’erano sparsi fra l’Iraq, la Siria e la Mecca; poi un imam albanese del Kosovo, che era rientrato da un pellegrinaggio alla Kaaba; quindi un insegnante di scuola, che i primi di febbraio aveva sfiorato l’imam per le strade di Djakovica; di lì, nessun medico che aveva capito cosa fosse quella strana febbre a 40 con le pustole, e una quarantina di persone che era stata colpita… Negli anni ’70, l’Europa pensava d’aver debellato il vaiolo il vaiolo da quasi mezzo secolo. Pensava. La prima notizia sui giornali dell’epoca fu una breve impaginata fra l’annuncio d’una visita di Nixon nell’Iran dello Scià, le discussioni sul Nobel per la letteratura assegnato a Solgenitsin, i reportage di guerra dal Vietnam. Per un po’, le autorità d’oltrecortina si comportarono come i cinesi lo scorso autunno: nascosero quella che consideravano una vergogna – poteva un paradiso del socialismo diventare un inferno del vaiolo? – e sul Corriere della Sera, nella vicina e non ancora preoccupata Italia, i primi asettici titoletti a due colonne comparvero solo il 24 marzo, di taglio basso e a pagina 5: “Vaiolo, anche a Belgrado vaccinazione obbligatoria” (con la tranquillizzante dichiarazione del governo jugoslavo sul fatto che “non vi sono motivi di allarme”). Presto, si capì il disastro. Quanto bastò, in pochi giorni, a portare la notizia sulle prime pagine e a raccontare delle migliaia di jugoslavi finiti in terapia. I fratelli socialisti di Bulgaria, Romania e Ungheria chiusero subito i confini. In Germania e in Austria, dove si scoprì che era passato un emigrato kosovaro infetto, misero in isolamento decine di persone. Israele bloccò il flusso delle comitive di Pasqua. L’Italia introdusse l’obbligo di presentare un certificato di vaccinazione, aprendo uffici d’igiene volanti al confine di Trieste, con lunghe code di frontalieri pronti a farsi siringare: in poche ore, diecimila dosi di vaccino inviate dal ministero della Sanità andarono esaurite. A Venezia e ad Ancona, i cargo jugoslavi vennero tenuti in rada per giorni, in attesa di controlli. Un falso allarme in Sardegna provocò ore di panico. Ai traghetti in arrivo a Bari, furono imposte regole rigide per lo sbarco dei passeggeri, compresa la vaccinazione a bordo. Lo Jugovirus fu preso in tempo. C’era il vaccino, e questo fece la differenza. Non c’erano i No Vax, e questo aiutò. Ma soprattutto ci fu la risposta del maresciallo Tito, appena proclamato per la sesta volta presidente unico e ancora impegnato nella repressione d’ogni dissidente, una reazione che nei numeri fu degna degli epigoni cinesi. Un pugno di ferro in un guanto di lattice: due settimane dopo aver individuato i pazienti uno e due, il regime impose la legge marziale. Cordoni sanitari, blocchi stradali, alberghi requisiti per le quarantene. Agli infetti, sigillati in ospedali militari, furono somministrate dosi da cavallo di penicillina, tetraciclina, gammaglobuline. E in quattordici giorni, in una situazione di totale emergenza, venne organizzata una delle più gigantesche campagne per la prevenzione “last minute” che si fossero mai viste: dal Kosovo alla Serbia, dalla Macedonia al Montenegro, dalla Bosnia alla Croazia e alla Slovenia, 18 milioni di jugoslavi - una media d’un milione 300mila al giorno - furono messi in fila e vaccinati. Funzionò. Il 21 aprile, fu risolto l’ultimo caso d’uno svizzero appena rientrato da Belgrado e l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dichiarò spenta la fiammata di vaiolo: in due mesi, la Jugoslavia era riuscita a tamponare un’epidemia che stava risvegliando le memorie angosciose di centinaia di milioni di morti, d’una malattia antichissima e globale che nella storia non ha risparmiato gli imperatori cinesi e quelli inca, i faraoni dell’Egitto e gli zar, baffone Stalin e il pellerossa Toro Seduto, Mozart e George Washington. Abbiamo sconfitto un nemico che avrebbe potuto annientarci”, annunciò Tito: la sua battaglia finale, tre anni prima di morire. Un focolaio di vaiolo rimase acceso nel Corno d’Africa finché, anno 1977, non venne diagnosticato l’ultimo paziente in Somalia, con l’eradicazione totale del virus dalla faccia della Terra. In una risoluzione mondiale, fu proclamata la vittoria: “L’Oms dichiara solennemente che il mondo e le sue popolazioni hanno conquistato la libertà dal vaiolo”. Dissero proprio così: libertà. Quella dal maledetto coronavirus, che tutti stiamo aspettando.
La peste a Firenze, Boccaccio annuncia nel Decameron il nostro presente. Pubblicato domenica, 15 marzo 2020 su Corriere.it da Paolo Di Stefano. Con la peste nera del 1348, Giovanni Boccaccio vede morire a Firenze la matrigna Bice, lo zio Vanni e suo padre Boccaccino, restando solo con Iacopo, il fratello minore, di otto o nove anni. Se ne vanno anche alcuni suoi cari amici: i poeti Matteo Frescobaldi e Franceschino degli Albizzi e lo storico Giovanni Villani. La «mortifera pestilenza» (che Boccaccio non chiama mai «peste» ma solo con delle perifrasi) diventa la cornice del Decameron, il suo capolavoro, la cui stesura sarebbe cominciata in quello stesso anno per concludersi nel 1350. Secondo quanto si legge nella cornice del libro, Boccaccio ha assistito allo spettacolo della peste: «Il che, se dagli occhi di molti e da’ miei non fosse stato veduto…». I cronisti raccontano che l’epidemia, scatenata da un focolaio orientale e dilagata nelle città portuali europee, sarebbe approdata a Firenze, già afflitta da una profonda crisi economica e politica, in primavera per dileguarsi in ottobre-novembre. Nell’arco di cinque anni, dal 1347 al 1352, la pandemia si estese dal Mediterraneo alla Scandinavia e ai Balcani, uccidendo almeno un terzo della popolazione europea. Come tutti sappiamo, nell’Introduzione alla prima giornata, Boccaccio dà conto dell’«orrido cominciamento» su cui si fonda il libro e che funge da pretesto per giungere al «bellissimo piano e dilettevole» delle novelle: un’«onesta brigata» di dieci giovani (sette ragazze e tre ragazzi) fugge dalla città per riparare in una villa di campagna, dove per trascorrere il tempo e farsi compagnia, per dieci giorni, ciascuno racconterà una novella al giorno. Il Decameron ha un duplice scopo: l’intrattenimento piacevole e la morale, ma intanto Boccaccio racconta con precisione, da testimone oculare, le condizioni della città. Che, non appena si rivela la minaccia e non avendo effetto alcun provvedimento umano, viene ripulita di tutte le sue «immondizie» e chiusa: «vietato l’entrarvi dentro a ciascuno infermo». Avrebbero capito ben presto, come ci insegna oggi il Covid-19, che le dogane comunque non fermano i virus. Vengono resi pubblici «molti consigli» utili a conservare la sanità ed evitare il contagio, ma neppure le preghiere e le processioni danno i risultati sperati. In primavera la peste «orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare». Dove il «miracolosa» sta per straordinaria. Non è difficile constatare che passano i secoli ma le reazioni e le misure sono sempre quelle. I sintomi mortali sono diversi da quelli orientali: non sangue da naso, ma «gavoccioli», rigonfiamenti sotto l’inguine e sotto le ascelle, alcuni cresciuti come mele di media grandezza, altri come uova. I bubboni cominciano poi a moltiplicarsi manifestandosi in ogni parte del corpo e cominciando a «permutare in macchie nere e livide». Intanto tutti i cittadini diventano medici e scienziati: ognuno dice la sua e ognuno fa come vuole, visto che i consigli dei «medicanti» non portavano gran profitto. E quando descrive il contagio della peste nera 1348, Boccaccio potrebbe parlare del Coronavirus 2020: «E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s’avventava a’ sani, non altrimenti che faccia il fuoco a le cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate». Ma nel «comunicare», cioè nel diffondersi della contaminazione, si manifesta un male ancora maggiore. Prosegue Boccaccio: «ché non solamente il parlare o l’usare cogli infermi dava a’ sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità transportare». Niente amuchina? Niente amuchina. Non si parla di disinfettanti. Ma la metafora del fuoco (dell’«appiccarsi da uno a altro») è eterna: l’immagine dei fiammiferi che circola su WhatsApp in questi giorni lo dimostra. Una scenetta cittadina raccapricciante è quella dei due maiali che, girando per strada, si avventano sugli stracci infettati di un malato e nel giro di poche ore, tra contorsioni indicibili, cadono in terra morti. La paura suggerisce di «schifare gli infermi»? Non basta, e così qualcuno comincia a pensare di aggirare il flagello cambiando abitudine e comportamenti: vivere con moderazione e rinunciare alle cose superflue e magari, senza nessun decreto governativo, radunarsi in piccoli gruppi e decidere di ritirarsi in casa: «e fatta lor piccola brigata, da ogni altra separati viveano, in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori, di morte o d’infermi, alcuna novella sentire…». Dunque ritirarsi nelle proprie dimore a televisori spenti per non sentire le cattive notizie, evitando gli eccessi ma concedendosi qualche moderato piacere di gola e qualche canto in comune. Altri invece esageravano, convinti che gozzovigliare e godersela ridendo e divertendosi in compagnia fosse il modo migliore per vincere il male: in pratica ignorandolo. Chi pensasse che la movida, gli assembramenti serali in barba al coronavirus, lo shopping sfrenato, gli happy hour, i pub pieni degli ultimi week end fossero un’esclusiva demente del nostro tempo sovreccitato, legga il Decameron. Troverà esattamente nel 1348 ciò che la tv trasmetteva sabato scorso: «il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura…». Tante analogie. E qualche fortunata differenza se è vero, come racconta Boccaccio, che la peste nera condusse a una tale disperazione e a un tale spavento che le donne abbandonavano gli uomini malati al loro destino e viceversa i mariti abbandonavano le mogli, il fratello abbandonava il fratello, la sorella abbandonava la sorella, lo zio il nipote, persino i genitori abbandonavano i figlio quasi che non fossero loro. Ciò che rimase fu la carità di pochi e la cupidigia dei servitori che speravano di spillare gli ultimi «salari» ai loro padroni. Quando la «ferocità della pistolenza» cominciò a crescere, persino i funerali presero a scarseggiare: non lacrime, non preti, non ceri. Ci si curava degli esseri umani che morivano esattamente come ci si sarebbe curati delle capre, perché quello era ormai divenuto «il naturale corso delle cose».
Quando Leonardo vide la peste a Milano, e immaginò una città diversa. M. Alessandra Filippi il 10 marzo 2020 su Vanity Fair. Nel 1484 Leonardo è a Milano da circa tre anni quando scoppia quella che verrà ricordata come «l'epidemia magna». Un'esperienza che forse suggerì al genio umanista la sua visione di una nuova «città aperta», disperdendo la «tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno». Nel 1484 Leonardo è a Milano da circa tre anni. A parte un contratto stipulato il 25 aprile del 1483 per eseguire la celebre Vergine delle Rocce, di lui si hanno pochissime notizie. I documenti tacciono. Quel che è di lui fra il 1481 e il 1485 ancora oggi resta avvolto nel mistero. Tuttavia, è proprio quella data, quel 1484 che potrebbe aiutarci a svelare l’enigma e fare luce su una storia che se non fosse vera, sembrerebbe uscita da un romanzo di Dan Brown. Quell’anno a Milano scoppia una peste in confronto alla quale quella del 1576 del Borromeo e del 1630 Manzoni sono bazzecole. Leonardo è a Milano e vede tutto. Nella mente va meditando e elucubrando soluzioni che certamente trascrive. Sennonché quei benedetti fogli, se mai sono esistiti, sono spariti e nei documenti storici nulla e nessuno si curò di trascriverli o registrarli. Eppure proprio quella peste sarà la ragione che in città porterà, nel 1489 alla costruzione del complesso del Lazzaretto fuori Porta Venezia. Una struttura allora fra le più moderne e avanzate d’Europa, progettata da Lazzaro Palazzi, architetto autodidatta di origini svizzere che si era fatto le ossa nella Fabbrica del Duomo iniziando come semplice scalpellino, finendo col diventare Mastro Ingegnere. Simile a una fortezza con tanto di mura, con un fossato lungo tutto il perimetro volto a isolarlo e allo stesso tempo garantire l’afflusso di acqua corrente alimentata dalla Martesana, all’interno, lungo gli snelli loggiati che correvano su tre lati – il quarto, quello occidentale, rimase incompiuto – si aprivano 288 ampie camere destinate al ricovero di singoli malati. Quadrate con volta a botte, erano provviste di doppie finestre, una sul muro esterno, l’altra verso il portico, un pagliericcio che veniva cambiato ogni giorno, un grande camino e una latrina con porta e sfiatatoio, ricavata nello spessore del muro e con scarico diretto nel fossato. Parte degli ambienti erano anche destinati a ospitare l’infermeria, i convalescenti, i depositi di medicinali le spezie e i Frati Cappuccini che dentro il Lazzaretto per secoli hanno prestato la loro opera a costo della vita. Ora, noi sappiamo che non c’è campo in cui Leonardo non si sia cimentato, sempre raggiungendo vette eccelse. Perché non pensare dunque che proprio in quella struttura così all’avanguardia e ingegnosamente concepita intorno all’acqua e sofisticati sistemi idraulici e igienici non ci sia il suo zampino? Un’ipotesi per nulla stravagante e che potrebbe essere supportata proprio da quegli studi sull’ampliamento di Milano ai quali Leonardo si dedica, in modo non organico e sistematico com’era suo costume, fino al 1499. In uno dei fogli del Codice Atlantico conservato all’Ambrosiana, databile al 1493, è riportata la pianta della città, la cui espansione è concepita in modo aperto – e nella quale si riconoscono tutti i canali e «il vero mezo di Milano», piazza san Sepolcro – con la prima veduta prospettica a volo d’uccello che si conosca nella storia dell’arte e dell’architettura. Unitamente ad un altro schizzo, contenente indicazioni più dettagliate circa i dieci nuovi quartieri da edificare intorno alla cerchia della Fossa Interna, prova l’estrema modernità della visione che andava maturando. Nei suoi appunti evidenzia anche la questione igienica – alla fine del XV secolo dentro le mura vivevano oltre 100 mila abitanti – mettendo in guardia dall’ammassare un numero elevato di persone in spazi ristretti: «Trarrai di dieci città cinquemila case con trentamila abitazioni, e disgregherai tanta concentrazione di popolo, che a similitudine di capre l’uno addosso all’altro stanno, empiendo ogni parte di fetore: si fanno semenza di pestilente morte». Quella che lui immagina non è una città utopica o ideale, ma un programma concreto, attuabile, politicamente illuminato e lungimirante. Sarà la mancanza di fondi e la sconfitta del Moro a farlo rimanere solo un sogno, precorritore di norme urbanistiche che saranno adottate solo quattrocento anni dopo.
—–DA SAPERE. La lebbra e la peste, importate dall’Oriente e in particolare dall’india, flagellarono periodicamente l’Europa dall’antichità fino almeno a tutto il XVII secolo. Alla lebbra dobbiamo il termine di «Lazzaretto», che deriva dal lebbroso di nome Lazzaro, citato per nome da Gesù nella parabola riportata nel Vangelo di San Luca. È così che Lazzaro divenne sinonimo di lebbroso e i lebbrosari divennero lazzaretti. Tutto il resto è storia che il Manzoni ha narrato molto bene nei suoi Promessi Sposi, in quei capitoli XXXI e XXXII, la cui lettura in questi giorni è tanto consigliata e che possono esser ben riassunti in questo fulmineo e icastico passaggio: «In principio dunque non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo. Poi non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio; ma una cosa alla quale non si trovasse un altro nome. Finalmente, peste sanza dubbio e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non è più da mandare indietro. Non è, credo necessario d’esser molto versato nella storia delle idee e delle parole per vedere che molte hanno fatto un simile corso (…). Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare prima di parlare. Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quelle altre insieme, che anche noi, dico noi uomini, in generale, siamo un po’ da compatire». Quanto al Lazzaretto di Porta Venezia che copriva l’area compresa fra corso Buenos Aires, via San Gregorio, via Lazzaretto, via Vittorio Veneto, sopravvissuto a tutto venne sacrificato per soddisfare il famelico appetito degli speculatori edilizi: nel 1881 venne venduto dall’Ospedale Maggiore alla Banca di Credito Italiano per la somma di 1.803.609 lire. Demolito a partire dalla primavera del 1882, al suo posto venne costruito un intero quartiere destinato al ceto medio piccolo. Di lui, oltre alla chiesetta di San Carlo, recentemente restaurata grazie all’intervento della Fondazione Rocca e incastonata nell’isola pedonale di Largo Bellintani, sopravvive solo un breve tratto in via di San Gregorio – cinque stanze rimaste invariate dal tempo della loro fondazione-, dal 1970 sede della Chiesa Ortodossa Greca, dedicata ai Santi Nicola e Ambrogio al Lazzaretto. Un luogo di grande suggestione e spiritualità dove fra un intenso profumo d’incenso, tripudi di fiori in primavera, esili candele che illuminano icone dorate e variopinte rivive l’antica vocazione all’accoglienza di questo luogo. Un’ultima curiosità: tutte le vie sorte sulle rovine del «quadrilatero della salute» hanno un profondo legame con lui. Ludovico Settala, medico e studioso, si prodigò sia nella Peste di Carlo che in quella manzoniana del 1630 e fu membro del Tribunale della Sanità. Alessandro Tadino, medico e Conservatore del Tribunale della Sanità, durante la peste manzoniana fu incaricato della sanità pubblica; il suo volume Raguaglio dell’origine at giornali della gran peste, uscito nel 1648, è stato una delle fonti per il Romanzo dei Promessi sposi. Fra Paolo Bellintani, direttore del Lazzaretto per volere di San Carlo Borromeo dal settembre 1576 all’ottobre del 1577, scrisse il Dialogo della peste, nel quale è vividamente riportata la sua esperienza e i modi in cui venivano curati i malati. Lazzaro Palazzi fu, come abbiamo visto, il progettista e primo responsabile del cantiere del Lazzaretto. A Lecco si trova Villa Manzoni dove Alessandro trascorse l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. L’unico in apparenza fuori tema è Panfilo Castaldi, anche lui medico ma anche maestro nell’arte della stampa che importò a Milano pubblicando nel 1471 il primo libro stampato di Milano, De verborum significazione, di Pompeo Festo. In questa via si trova l’Antica Farmacia del Lazzaretto la cui licenza risale al 1750. Fondata in un luogo evocativo e deputato alla cura degli insanabili, diventata celebre grazie al leggendario “Amaro Medicinale Giuliani”, che da queste vetrine viene lanciato sul mercato nel 1889!
Queste e altre storie potete trovarle nell’ultimo libro di Manuela Alessandra Filippi – autrice di questo articolo – Milano nascosta. Dalle pietre romane alla città che sale, pubblicato da Hoepli, reperibile in tutte le librerie e ordinabile online. Nata a Bruxelles e cresciuta fra Torino e Roma, Alessandra è storica dell’arte, heritage manager, autrice e storyteller. Nel 2010 ha fondato Città nascosta Milano, premio Dama d’Argento nel 2012, alla guida della quale ha contribuito a ripensare il modo di visitare la città. Al capoluogo lombardo ha dedicato tre pubblicazioni ed è ormai considerata un autorevole punto di riferimento per la storia di Milano.
L'apocalisse che è in noi dal Manzoni agli zombie. Alessandro Gnocchi, Sabato 01/02/2020, su Il Giornale. L'apocalisse ha spesso preso le sembianze della epidemia e del contagio inarrestabile. L'arte, in tutte le sue espressioni, riflette il nostro timore di essere spazzati via da un morbo incurabile, che ci trasforma e ci uccide. La natura o la mano imperscrutabile di Dio si abbatte sull'umanità. Saremo capaci di reagire? Per un italiano, l'epidemia più famosa è la peste nei Promessi sposi di Alessandro Manzoni. Lo scrittore ricostruisce il flagello che travolse Milano nel 1630-1631. Ne escono pagine insuperabili, in cui Manzoni mostra come l'apocalisse sia assecondata dal sonno della ragione. La caccia all'untore, la superstizione, le processioni fuori luogo, la vigliaccheria, i tribunali ingiusti, i politici pavidi: Manzoni srotola davanti ai nostri occhi il campionario del lato oscuro dell'anima. Ma ci sono anche i gesti generosi, il sacrificio dei giusti, l'abnegazione dei santi. I capitoli sono il XXXI e il XXXII ma la scena più forte è all'inizio del XXXIII. Don Rodrigo si sveglia dopo una notte agitata e scopre di essersi ammalato. La sua alterigia è annullata: «Insieme si sentiva al cuore una palpitazione violenta, affannosa, negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento, prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo. L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato, buttato al lazzeretto». La peste del Manzoni è l'epidemia più famosa. Ma certo non è l'unica. Prima, c'è la peste nera di Boccaccio, il Decameron nasce come «distrazione» mondana nella Firenze devastata dal male nel 1348. Un gruppo di giovani fugge in campagna nell'attesa che la strage finisca e per ricrearsi (e ricreare l'umanità) si intrattiene raccontando novelle. Celebre è anche la peste dell'omonimo romanzo di Albert Camus. Questa volte la morte si presenta alle porte della città algerina di Orano, in un imprecisato aprile degli anni Quaranta. La metafora è scoperta. La peste è innanzi tutto morale. L'elenco sarebbe infinito. Segnaliamo, a testimonianza di un interesse costante della letteratura per questo tema, il recentissimo Happy Hour (Bur) di Ferruccio Parazzoli. Siamo a Milano, ai giorni nostri, e impazza una inspiegabile epidemia di suicidi. All'aggravarsi del morbo, la città è messa in quarantena. Per il cinema, la pandemia, cioè un'epidemia su territori vastissimi, è quasi un luogo comune. Il contagio avviene con violenza, si parte dagli zombie degli anni Trenta (L'isola degli zombies) e si arriva agli zombie di The Walking Dead passanto per gli zombie anni Settanta, avidi di carne umana e critici del consumismo (L'alba dei morti viventi di George Romero). Anche i virus hanno avuto gloria cinematografica: ci sono le febbri mortali di Contagion, L'esercito delle dodici scimmie, I sopravvissuti (celebre serie tv del 1975). Poi c'è il virus del vampirismo che si diffonde tra le pagine di un classico del genere, Io sono leggenda (Fanucci) di Richard Matheson, passato più volte dalle librerie alle sale cinematografiche. La peste è al centro di molti affreschi e dipinti. Tra i più famosi, in Italia, c'è il Trionfo della Morte, un affresco quattrocentesco staccato e conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo. Ci sono poi Mattia Preti, Tanzio da Varallo, Gros e moltissimi altri. Al Louvre di Parigi è invece esposta La peste di Azoth dipinta da Nicolas Poussin nel 1631. Illustra la peste peggiore, quella del libro di Samuele, nel quale Dio, dopo aver accusato i Filistei di aver rubato l'Arca dell'Alleanza, invia come punizione la piaga appunto biblica.
Camillo Langone per “il Giornale” il 2 marzo 2020. Ex malo bonum: la famosa epidemia fa male all'economia, oltre che alla salute dei contagiati, ma fa bene alla letteratura. Sia perché quarantene e chiusure di locali favoriscono l'apertura di qualche libro in più, sia perché ci ribadisce la sempiterna attualità di Manzoni e Boccaccio. Tornano buoni i ricordi scolastici e risuscita la parola untore mentre i più volenterosi non si accontentano delle citazioni, riprendono in mano i Promessi sposi e riscoprono il significato di classico: «Un autore che resiste al tempo e genera influenze» (definizione del poeta Giuseppe Conte). L'ho fatto anch'io, mi sono goduto i capitoli XXXI e XXXII, i più centrati sulla peste, e ho sentito il respiro della grande letteratura. Secondo Gómez-Dávila «appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte»: con Manzoni le riletture potrebbero diventare duemila e sempre se ne ricaverebbe qualcosa di nuovo, di utile e di bello. È contenuta proprio in queste pagine una delle frasi preferite da noi che non idolatriamo la democrazia, parole valide nelle emergenze di ogni epoca: «Il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». E il Boccaccio? Il Decamerone viene letto molto meno innanzitutto perché molto meno leggibile. Ma se la prosa del Trecento è lontana dall'italiano di oggi, la psiche del Trecento ci è vicinissima: sette secoli passati invano, da vari punti di vista. Io posso dirlo perché, sopravvivendo a periodi lunghissimi, facendomi largo nel groviglio di subordinate, il Boccaccio pestilenziale me lo sono riletto l'altra notte e ci ho trovato l'Italia del Coronavirus, a volte tale e quale. «Non valendo alcun senno né umano provvedimento». Contro la peste nera del 1348 il povero Gonfaloniere di Giustizia del Comune di Firenze certamente si prodigò: come il povero Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, poco o nulla risolse. «Purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati, e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo». Come oggi a Codogno e Vo' Euganeo, anche a Firenze adottarono quarantene e posti di blocco: c'è solo da sperare che i risultati siano migliori. «A cura delle quali infermità né consiglio di medico, né virtù di medicina alcuna, pareva che valesse o facesse profitto». In 7 secoli la medicina ha fatto passi da gigante: tranne che nel campo degli antivirali, verrebbe da dire. «E tutti quasi, ad un fine tiravano assai crudele: ciò era di schifare e di fuggire gl' infermi e le lor cose». Di fronte al pericolo del contagio siamo ancora più crudeli (o più scemi) di allora: in certi posti (vedi Ischia) vengono schifate categorie di cittadini in perfetta salute, basta che provengano da Nord. «Altri affermavano il bere assai e il godere, e l'andar cantando attorno e sollazzando, e il sodisfare d' ogni cosa allo appetito che si potesse, e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi, esser medicina certissima a tanto male». Il bere assai era la consolazione dei fiorentini del '300 e dei monatti del '600 e continua a esserla: Maurizio Milani mi scrive dalla sua Codogno paventando l'esaurimento delle scorte di Gutturnio mentre dai bar dei Colli Euganei giungono immagini di gagliardi avventori che combattono il virus a spritz. «Andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere, e chi diverse maniere di spezierie, quella al naso ponendosi spesso». Oggi invece ci sono le mascherine: peccato che quelle chirurgiche di garza azzurrina, le più comuni, siano efficaci contro i batteri e il coronavirus sia per l'appunto un virus. Illusione per illusione, al tempo del Boccaccio erano più poetici (oltre che, più erotici). «Assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l' altrui o almeno il lor contado». Nei giorni scorsi è stato rilevato un fenomeno curioso, il frettoloso ritorno al Sud, a cercare «il lor contado», di tanti giovani meridionali iscritti alle università del Nord: come se il morbo fosse un'esclusiva padana e i confini dell' antico Regno delle Due Sicilie (il fiume Tronto, le coste sicule...) fossero invalicabili ai microrganismi. «Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: I cotali sono morti, e Gli altrettali sono per morire». Oggi è uguale, da giorni su qualunque schermo mi cada lo sguardo la prima cosa che vedo è il numero dei morti e dei contagiati. Ansa come ansia, un lugubre stillicidio, un bollettino di guerra. «Vogliamo e comandiamo che niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori». La qui virgolettata volontà di Pampinea, una delle sette giovani donne che si alternano ai tre uomini nella narrazione boccacciana, vorrei che fosse legge anche oggi, anche qui. Anch' io d' ora in poi voglio sentire soltanto buone notizie, o almeno leggere soltanto buoni libri. Come i nostri insuperabili classici.
Elena Stancanelli per ''La Stampa'' il 25 febbraio 2020. Le epidemie producono ottima letteratura. Da Tucidide a Boccaccio, da Manzoni a Camus, il contagio è propizio, fecondo di storie e di pensieri. Per tante ragioni e la prima è la paura. Il bisogno di addomesticare i mostri, la natura, l' inconoscibile, l' altro è il fondamento di tutta l' arte e la sua ragione di esistere. Rischiara il buio, trasforma in fiaba la malattia e il dolore. Quando abbiamo paura ci rifugiamo nell' immaginazione, e ci stringiamo gli uni agli altri per darci conforto. Raccogliamo gli amici, i familiari, quelli che sono come noi. Ci contiamo, ci rassicuriamo, ridiamo per sdrammatizzare o ci diamo consigli sbagliati, contraddittori, oggi una cosa domani un' altra. Fuori c' è il male, dentro c' è il bene. I sani contro gli appestati, come i novellatori del Decameron, asserragliati nella villa fuori dalla Firenze in cui imperversa il morbo, che per per tenere a freno la paura si raccontano storie d' amore. Nelle nostre vite la paura ha un ruolo marginale, la paura vera, quella di non riuscire a sopravvivere. Nessuno nel villaggio globale esce di casa temendo l' assalto di una bestia feroce, o il colpo d' arma del nemico, o l' accidente naturale fatale tipo scoppio del vulcano, terremoto, tsunami. Le nostre città sono abbastanza sicure. Generalmente usciamo con la noia di un' altra giornata di lavoro o di qualche incombenza, raramente con la curiosità di un incontro, o il desiderio semplice di abbracciare qualcuno a cui vogliamo bene. Sentimenti medi, niente che faccia tremare il cuore. Il virus spariglia. È una scossa, da quando si è presentato spavaldo anche nel nostro Paese, ha acceso le nostre giornate. Ognuno reagisce come sa. I depressi, come ha insegnato Lars Von Trier in Melancholia, sono quelli che reagiscono meglio. Per loro la fine è sempre un sollievo, accolgono gli altri con efficienza nell' emergenza, che loro conoscono come un sentimento endemico. I razionalisti vacillano e si appellano a Burioni, si lavano furiosamente le mani mille volte al giorno e borbottano riferimenti alla letteratura distopica che profetizzava apocalissi. Qualcuno avrebbe preferito l' onda finale, altri si accontentano della fine del mondo che ci sarebbe toccata, un po' miserabile, poco eroica, per niente spettacolare. Quasi nessuno resta indifferente. Nessuno dice «Corona chi?», come si fa per ostentare superiorità rispetto agli accidenti del mondo che vengono a disturbare il nostro olimpico distacco dalla volgare quotidianità. Il virus fa paura, più o meno a tutti. Perché è misterioso, lo è persino per i medici che stanno iniziando a studiarlo adesso. Figuriamoci per noi, che non capiamo niente e prendiamo gli antibiotici anche se persino digitando «antibiotici» su Google c' è scritto «farmaci utilizzati per trattare le infezioni batteriche che non hanno alcuna efficacia contro le infezioni virali». Ma noi li prendiamo lo stesso, perché se i medici ci hanno spiegato che non bisogna curarsi su Internet, perché allora in questo caso dovremmo dargli retta? Perché ce lo stanno dicendo anche i medici in tutti i modi. Vabbè, e se avessero torto anche loro? E poi cosa diavolo è un virus? Come si diffonde, che danni procura, quanto vive, da dove esce e dove entra. È una cosa invisibile, si muove in modo non tracciabile, deflagra nei nostri corpi, ci annienta o ci grazia a seconda di chissà cosa. Si presta alle interpretazioni, produce leggende e ancora ci stiamo domandando perché l' epidemia produca ottima letteratura?! Oltre al fatto che l' epidemia inventa l' antagonista. Il nemico, l' avversario, motore necessario a ogni narrazione. Sia esso il topo, come nella Peste di Camus, o qualsiasi altro untore possibile. Delle epidemie ci siamo sempre accusati gli uni con gli altri, cristiani contro ebrei, uomini contro donne, indigeni contro stranieri. Soprattutto stranieri, perché il contagio arriva da fuori, per caso o per dolo - le coperte infettate dal virus del vaiolo, offerte in dono ai nativi americani dai conquistadores europei - e uccide senza pietà. Purtroppo stavolta la malattia viene dalla Cina. E i cinesi sono passati di moda. Se solo il coronavirus fosse arrivato cinque, sei anni fa avrebbe trovato terreno fertilissimo. Erano gli anni in cui si diceva che i cinesi non morivano mai, unica spiegazione al fatto che nessuno avesse mai visto un funerale cinese in Italia, o una lapide in un cimitero. Vanno avanti e indietro dal loro al nostro Paese scambiando carte d' identità, dentro casse da morto, si diceva. Ma la lista dei nemici ciclicamente si aggiorna, nuove priorità, altri tiramenti. Adesso, per dire, ci sarebbe stato benissimo un virus dal Mali, dalla Somalia, dal Sud Sudan. Con un bel marchio africano e un battesimo su un barcone. Peccato, dovremo accontentarci di campagne diffamatorie contro gli involtini primavera, di inveire contro la scarsa igiene delle estetiste dalle quali ci affollavamo fino a ieri perché più economiche. Almeno fin quando il virus non avrà acquisito la cittadinanza italiana, andando a occupare sedili nella metropolitana, mettendosi in fila alla Posta nascosto in un corpo identico al nostro. Allora sarà guerra di tutti contro tutti, persino degli amici, persino dei parenti finiremmo per dubitare. La zia che ti tossisce in faccia, il fidanzato che si sente debole, il figlio che starnutisce a tavola e si pulisce il naso con le dita con cui poi afferra il mignon alle fragole sul vassoio. Ma sarà quello il momento nel quale finalmente scriveremo, tutti quanti, il Grande Romanzo Italiano.
Sifilide, l'epidemia razzista venuta dalle Americhe. Dal Nuovo Mondo un Nuovo Morbo arriva con i marinai di Colombo. Si trasmette per via sessuale e farà subito cinque milioni di vittime. Gli untori di volta in volta saranno gli ebrei, gli italiani, i francesi, i cristiani. Storia della malattia che ha ucciso re, filosofi e artisti. L'Espresso il 21 aprile 2020. La sifilide è la malattia xenofoba per eccellenza. Per i francesi era il male italiano o napoletano o inglese. Per gli italiani era il mal francese. Per gli olandesi era spagnolo, per i russi polacco e per i turchi, genericamente cristiano. La tesi sull'origine americana del Treponema pallidum, che ebbe subito grande popolarità, conteneva un ulteriore elemento etico-razziale. La sifilide essendo legata alla trasmissione sessuale era caratteristica di popoli dai costumi sfrenati. In primo luogo, dei nativi. Uno dei sostenitori più autorevoli di questa teoria è stato l'eroe eponimo del Nuovo Mondo, Amerigo Vespucci. Altri diffusori della malattia erano gli schiavi africani, considerati alla stregua di selvaggi. Infine c'erano gli ebrei che nel marzo dello stesso 1492 dello sbarco colombiano a Hispaniola (l'isola oggi divisa fra Haiti e Santo Domingo) subivano il decreto di espulsione da parte della regina di Spagna Isabella la Cattolica. Il 1492 è l'inizio di una diaspora verso oriente che porterà gli ebrei a raccogliersi nei campi profughi alle porte di Roma. Da lì papa Alessandro VI Borgia, spagnolo obbligato dall'espansione francese a mantenere rapporti stretti con le corone unite di Castiglia e di Aragona, li allontanerà ancora verso i domini del sultano turco, che garantiva libertà di culto. Nasce in quegli anni una nuova figura di untore ideale, sia etico sia clinico. È il marrano ossia l'ebreo che si è convertito al cristianesimo per sfuggire alla persecuzione e che continua a celebrare la legge mosaica di nascosto. Il marrano diventa così un eretico e merita la morte con le sentenze dei tribunali dell'Inquisizione introdotti dai re cattolici di Spagna. Ma diventa anche untore, secondo lo storico Sigismondo dei Conti da Foligno. Ecco la storia dei primi anni in cui l'Europa fece i conti con una nuova epidemia.
La cronologia della prima ondata di sifilide in Europa è abbastanza precisa.
Intorno al 1493, alcuni uomini d'armi membri della prima spedizione colombiana decidono di non seguire il navigatore genovese nei suoi viaggi successivi e tornano a inquadrarsi negli eserciti. Si sta preparando la Prima guerra d'Italia. Il re francese Carlo VIII di Valois comprende che la penisola, divisa fra piccoli stati e un Sud sotto influenza della corona di Spagna, può essere il terreno ideale per affrontare i rivali di Madrid.
Nel 1493-1494 corre la peste in Italia. I trentamila uomini dell'esercito francese si muovono verso le Alpi con un ampio seguito di prostitute per il conforto e l'igiene dei soldati. La scelta si rivela catastrofica. Il guazzabuglio di mercenari spagnoli, svizzeri, dalmati e francesi diventa un amplificatore della malattia che i medici, a prima vista, faticano a identificare e chiamano lue. Assomiglia al vaiolo per le lesioni cutanee e dell'equivoco resta traccia nei dizionari (vérole/variole in francese, great pox/small pox in inglese). Altri pensano a una nuova forma di lebbra. Tutti la confondono con un'altra malattia sessuale molto diffusa, la gonorrea.
Nell'estate del 1494 l'armata di Carlo VIII arriva a Susa e poi ad Asti. Qui il sovrano incontra Ludovico Sforza detto il Moro e il suocero Ercole II d'Este che si recano a omaggiare il re con un seguito di cortigiane. Carlo VIII sembra apprezzare. Fatto sta che pochi giorni dopo si ammala in forma leggera di quello che viene diagnosticato come vaiolo a causa degli sfoghi cutanei ma è, probabilmente, sifilide.
L'attraversamento dell'Italia avviene per tappe, fra scontri e massacri. All'inizio dell'inverno i francesi arrivano alle porte di Napoli, dove dal gennaio 1495 regna Ferdinando II d'Aragona detto Ferrandino, cugino di Ferdinando il Cattolico re di Spagna. Nel rispetto di una grande tradizione italiana, Ferrandino vede la mala parata e taglia la corda prima verso Ischia e poi, per maggiore sicurezza, si imbarca per Messina.
Il 22 febbraio 1495 i francesi entrano a Napoli. La sifilide si diffonde in città con velocità e violenza. I medici rimangono inorriditi di fronte alle devastazioni che il batterio – appartenente alla famiglia dei gram-negativi come quello della peste - procura alla cute, ai muscoli, alle cartilagini. La sifilide fa letteralmente a pezzi i corpi, fra dolori atroci. L'epidemia, com'è chiaro, non aumenta la popolarità dell'invasore. A Napoli i sudditi fedeli agli Aragona rendono la vita difficile a Carlo VIII. Nel resto d'Italia gli spagnoli stanno organizzando una Lega antifrancese che minaccia di tagliare fuori e prendere in una sacca l'esercito di occupazione, odiato per la sua brutalità e per il disprezzo del codice cavalleresco. Scandalizza l'abitudine, tipica dei temibili mercenari svizzeri, di uccidere sul posto i cavalieri disarcionati che, nella consuetudine medievale, venivano fatti prigionieri e liberati dietro pagamento di riscatto.
Il 31 marzo 1495 viene costituita la Lega antifrancese. Partecipano Venezia, Milano, papa Alessandro, la Spagna, l'Inghilterra e gli Asburgo.
Il 30 maggio del 1495, dopo appena tre mesi di occupazione, i francesi abbandonano Napoli per iniziare la loro anabasi verso le Alpi. Lasciano un presidio di alcune migliaia di uomini che fanno rotta verso Sud dove gli spagnoli si sono riorganizzati sotto la guida del “Gran Capitán” Gonzalo Fernández de Córdoba e che sconfiggeranno i francesi nella battaglia di Seminara del 28 giugno 1495.
Otto giorni dopo, il 6 luglio 1495, la Lega italo-spagnola ferma i francesi a Nord sul fiume Taro. La battaglia di Fornovo è breve e cruentissima. In un'ora di scontri muoiono tremila soldati. Non è chiaro chi sia il vincitore ma, per il momento, i francesi se ne vanno dall'Italia. La sifilide, invece, resta e prospera. Il medico della Serenissima Cumano riesce a osservarla durante la guerra. “Diversi uomini d’arme e fantaccini avevano delle pustole su tutta la faccia e su tutto il corpo. Esse assomigliavano a dei grani di miglio, e di solito comparivano sotto il prepuzio, o sulla parte esterna o sopra il glande, accompagnate da leggero prurito. Dopo pochi giorni i malati erano ridotti allo stremo dai dolori che sentivano nelle braccia, nelle gambe e nei piedi e da un’eruzione di grandi pustole che duravano un anno o più se non venivano curate.”
Nel 1496 il Treponema pallidum infierisce, oltre che a Napoli, a Ferrara, Pisa, Bologna e a Firenze dove le truppe di Carlo VIII hanno fatto tappa l'anno prima. Con la diffusione globale dell'epidemia l'elemento razzista sfuma e si sposta alla sfera morale. Non più un gruppo etnico ma una professione diventa la fabbrica dell'epidemia. Le prostitute, che subivano condizioni di vita e di igiene terrificanti, sono individuate come responsabili del contagio. Gli Stati prendono provvedimenti. Inizia una politica del confinamento che, con un anacronismo, si potrebbe chiamare dei quartieri a luci rosse. La Serenissima rastrella le meretrici e le isola a Rialto. I provveditori della Sanità di Venezia danno inoltre l'esempio con l'organizzazione dell'Ospedale agli Incurabili dove sulla Fondamenta delle Zattere, lungo il canale della Giudecca. Ci finiscono, oltre alle meretrici, quelli che non hanno il denaro per pagarsi un medico e un'assistenza in casa. A Venezia, curiosamente, la sifilide diventerà la malattia di un'altra arte, quella dei vetrai che, passandosi l'uno con l'altro la cannula per soffiare il vetro, si trasmettono il contagio.
Nel 1530 il Treponema pallidum trova il suo nome attuale nel poema scientifico in esametri latini che il medico e astronomo veronese Girolamo Fracastoro dedica a Pietro Bembo con il titolo Syphilis sive de morbo gallico. Oltre che xenofoba, la sifilide è la prima epidemia mediatica. A febbraio del 1453 l'orafo di Magonza Johannes Gutenberg ha iniziato a sviluppare la tecnica della stampa. In pochi decenni l'invenzione si diffonde in tutta Europa e, quando la sifilide arriva, viene subito pubblicata una grande quantità di saggi e studi scientifici dedicati al contagio dagli epidemiologi dell'epoca. Già nel 1496 i tedeschi Sebastian Brant e Joseph Grunpeck pubblicano i loro trattati. Nel 1497 è lo spagnolo Gaspar Torella, medico alla corte di papa Alessandro, a stampare il suo rapporto con le prime indicazioni farmacologiche. Da allora, e per secoli, la sifilide viene curata con il mercurio, secondo le raccomandazioni dello stesso Torella e dell'alchimista e patologo svizzero Teofrasto Paracelso. Solo nell'Ottocento si passa a sostanze non meno tossiche, come l'arsenico e il cianuro finché nel 1943 si adotta la cura a base della penicillina scoperta da Alexander Fleming quindici anni prima. Le teorie sull'origine della sifilide sono tre: americana, europea e mista. La prima è quella già descritta prima. La seconda sostiene che il morbo esisteva in Europa fin dalla civiltà greco-latina, confuso con altri dalla sintomatologia simile. La terza conferma la seconda ma aggiunge che il batterio di importazione americana aveva ben altra carica contagiosa. La migliore descrizione della catena della lue è comica e si trova nel Candido di Voltaire. Narra il filosofo ottimista Pangloss: «Pasquetta doveva questo “regalo” a un dottissimo frate francescano che era risalito alla fonte, perché l'aveva avuto da una contessa, che l'aveva ricevuto da un capitano di cavalleria, che lo doveva a una marchesa, che l'aveva ricevuto da un paggio, che l'aveva ricevuto da un gesuita il quale, da novizio, l'aveva avuto direttamente da un compagno di Cristoforo Colombo». Per evitare la trasmissione, viene inventata la capote anglaise, il preservativo fabbricato con l'intestino tenue della pecora. Ma la sifilide, sia pure in diminuzione dopo la fiammata terribile di fine Quattrocento, continua a fare vittime eccellenti.
Fra i regnanti, colpisce Francesco I, che regna sulla Francia dal 1515 al 1547. Ma è fra gli artisti, categoria dalla vita sregolata per eccellenza, che il morbo fa i danni maggiori. È probabile che ne muoia, esattamente 500 anni fa, Raffaello Sanzio, censurato dallo storico Vasari per i suoi “eccessi amorosi”. Nella stessa linea di comportamento c'è Guy de Maupassant, uno dei più grandi scrittori di racconti di sempre. Allievo e protetto di Flaubert, che anche lui aveva contratto il morbo in forma più lieve come era capitato a Baudelaire, a Daudet e a Verlaine, l'autore di Bel ami e dell'Horla prende la sifilide a 27 anni. La malattia arriva al terzo stadio, quello che colpisce il nervo ottico e sconvolge l'equilibrio neurologico. Maupassant finisce in un istituto psichiatrico e muore a 42 anni. La sifilide ucciderà anche il genio del teatro comico Georges Feydeau e Theo Van Gogh, morto in una casa di cura sei mesi dopo il suicidio del fratello Vincent. Anche Toulouse-Lautrec sarà ucciso dal Treponema, mentre è incerto se sia vittima diretta della sifilide il filosofo tedesco Nietzsche che certamente muore pazzo. Fra i musicisti la malattia ha preso Donizetti, Paganini e due fra i massimi esponenti del romanticismo, Schubert e Schumann, in un'età in cui vigeva la massima separazione fra sessi al di fuori del matrimonio. Tra i probabili morti di sifilide ci sono anche Vladimir Ilič Uljanov detto Lenin e Alphonse Gabriel “Al” Capone. Infine, una delle grandi leggende del mal francese nasce nell'Inghilterra vittoriana in un periodo di massima persecuzione dell'istinto sessuale, come imparò a sue spese Oscar Wilde, altra vittima illustre del Treponema pallidum.
Tra la fine di agosto e l'inizio di novembre del 1888 Londra viene sconvolta da una serie di delitti feroci che hanno come vittime donne, per lo più prostitute del quartiere di Whitechapel. È la breve ma sanguinaria epopea di Jack lo squartatore, un soprannome che non ha mai incontrato una figura reale. Nelle infinite teorie sull'identità del serial killer c'è quella cospirazionista. Scotland yard era arrivata a scoprire l'assassino. Era un membro molto altolocato della famiglia reale che aveva contratto la sifilide da una prostituta e che avrebbe trascorso le ultime notti prima di morire a vendicarsi a caso, nel buio delle stradine londinesi.
La malattia ha avuto una recrudescenza di recente. L'Oms-Who considera che nel 1999 ci sono stati 12 milioni di casi «more than 90% of them in developing countries, with a rapidly increasing number of cases in eastern Europe. Recent outbreaks have been reported in several cities in Europe and North America among men who have sex with men».
Nota. Fra i vari testi si consiglia quello di Eugenia Tognotti, L'altra faccia di Venere. La sifilide dalla prima età moderna all'avvento dell'Aids (XV-XX sec.) Franco Angeli, 2006. Più in breve, il saggio storico del pediatra Antonio Semprini.
Il vaiolo alla conquista delle Americhe. Nel 1519 gli spagnoli di Cortés e de Alvarado sbarcano in Messico. Poche centinaia di uomini riusciranno ad abbattere l'impero azteca grazie alle armi da fuoco. E all'epidemia che ucciderà milioni di nativi. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 14 aprile 2020. La conquista delle Americhe è la più grande guerra batteriologica della storia. Dal secondo viaggio di Cristoforo Colombo (1493), gli europei portano nel Nuovo Mondo una lista di morbi infinita: vaiolo, morbillo, peste, influenza, salmonella, scarlattina, varicella. Il saldo dei morti dopo mezzo secolo è altissimo. Da una popolazione stimata fra i 15 e i 25 milioni, esclusa l'America meridionale, nel 1550 i sopravvissuti sono tre milioni. I primi a cadere sono gli indigeni del Caribe, dove sbarcano le tre caravelle. Gli altri seguiranno la stessa sorte lungo il cammino da nord a sud degli spagnoli. Gli imperi aztechi, maya, inca crolleranno più per le epidemie che per i cannoni di bronzo e per le lotte interne. Questa inchiesta vecchio stile parla delle epidemie fra gli aztechi.
1517-1518. L'imperatore azteco Motecuhzoma II viene informato dell'arrivo di bizzarri stranieri nelle isole del Caribe e sulla costa messicana. Gli uomini della prima invasione, guidata da Hernán Cortés e Juan de Grijalva, cavalcano ignoti animali a quattro zampe, hanno la barba e usano bastoni che sputano fuoco. L'imperatore è un uomo mediocre e superstizioso, poco amato dal popolo Méxica, come gli aztechi chiamano se stessi. Si convince che, secondo una serie di profezie e di prodigi interpretati dai sacerdoti, potrebbe trattarsi del ritorno messianico sulla terra del dio-uccello Quetzalcóatl, raffigurato nei riti con una maschera barbuta.
18 febbraio 1520. Dopo i buoni risultati della prima esplorazione, Hernán Cortés parte da Cuba alla guida di una spedizione militare in forze. Con i suoi ufficiali Pedro de Alvarado, Francisco de Montejo, il cronista Bernal Díaz del Castillo, ci sono undici navi, seicento uomini, sedici cavalli, dieci cannoni e altra artiglieria di piccolo calibro. In un paio di settimane la flotta tocca la costa messicana dello Yucatán. Qui gli spagnoli prendono a bordo Jerónimo de Aguilar che ha fatto naufragio in una spedizione del 1511 insieme a Gonzalo Guerrero. De Aguilar è stato ben accolto dagli indigeni, ha preso moglie e ha imparato la lingua maya. La flotta continua a fare piccolo cabotaggio verso nord e, in una tappa successiva, prende a bordo venti schiave. Fra loro c'è una figura determinante per il successo dell'impresa. È Malinche o Malintsin in lingua locale. Malinche (qui sopra nel dipinto di Diego De Rivera) parla sia il maya, sia il náhuatl, la lingua degli aztechi. Diventerà interprete e consigliera influente traducendo dal náhuatl al maya con De Aguilar che, a sua volta, riferisce in castigliano a Cortés.
22 aprile 1520. Nel giorno di Venerdì Santo di cinquecento anni fa gli spagnoli sbarcano a Veracruz. Da lì iniziano una lunga marcia verso l'altipiano vulcanico che li porterà a Tenochtitlán, l'attuale Città del Messico, capitale dell'impero. Le reazioni degli americani al passaggio degli stranieri sono per lo più amichevoli. Non così quelle degli spagnoli che non esitano a uccidere quando non vedono esaudite le loro richieste. Motecuhzoma, ancora convinto della natura divina degli ospiti, spedisce incontro agli spagnoli ambasciatori carichi di doni, oro e gemme. Gli inviati dell'imperatore tornano a Tenochtitlán sbalorditi. In particolare, sono colpiti da Pedro de Alvarado che per la sua corporatura robusta e i capelli rossi viene soprannominato Tonatiuh, uno dei nomi riservati al Sole, divinità suprema. La vista delle ricchezze dà alla testa degli spagnoli che raddoppiano gli sforzi per arrivare alla meta. I figli del Sole non riescono a capire che stanno subendo un'invasione, come faranno qualche anno dopo le popolazioni maya che daranno subito battaglia. Eppure non sono né ingenui né angelici né arretrati. Il loro livello culturale è elevatissimo. Primeggiano in architettura, letteratura e astronomia. La capitale è una metropoli di 200 mila abitanti che arrivano a 1,5 milioni, se si contano i sobborghi. Amministrano con una fitta rete burocratica un impero di trentotto province che occupa la gran parte del Messico attuale e arriva fino al Chiapas e al Guatemala, dove inizia la terra dei Maya. In un secolo di espansione i prescelti del dio della guerra Huitzilopochtli hanno assoggettato con durezza i popoli vicini, che li odiano. Impongono tributi e mantengono l'ordine manu militari. Praticano torture efferate. Ma quello che più terrorizza gli spagnoli è il ricorso ai sacrifici umani. Cortés comprende che con le sue scarse forze a disposizione una politica delle alleanze è indispensabile.
Nell'autunno del 1519 gli spagnoli sono alle porte di Tenochtitlán in territorio Tlaxcala, uno dei principati indipendenti minacciati dagli aztechi, e stringono un patto con loro dopo avere fatto lo stesso con i Totonacas di Veracruz.
8 novembre 1519. La spedizione di Cortés e De Alvarado arriva alla capitale. Il presunto dio e l'imperatore si incontrano con grandi cerimoniali e si parlano grazie alla traduzione di Malinche. Ma diventa subito chiaro chi comanda.
Cortés chiede a Motecuhzoma II di vietare i sacrifici umani e di esporre effigi di Cristo e della Vergine nei luoghi di culto. In breve, l'imperatore méxica diventa un prigioniero insieme al fratello minore Cuitláhauac e al resto della corte. Intanto a Cuba l'adelantado Diego Velázquez de Cuéllar, rappresentante della Corona di Spagna, decide di punire l'eccessiva autonomia di Cortés. Una spedizione agli ordini di Pánfilo de Narváez salpa per arrestare il conquistatore. Cortés parte da Tenochtitlán per affrontare la flotta in arrivo da Santiago. Nella capitale rimane de Alvarado con soli ottanta uomini. L'ambizioso “Tonatiuh” coglie l'occasione. Da un pezzo i suoi rapporti con Cortés sono peggiorati e, in sua assenza, decide il colpo di mano.
22 maggio 1520. Mentre gli aztechi sono raccolti in preghiera al Tempio Maggiore per la festa di Tóxatl, “Tonatiuh” irrompe con i suoi soldati e gli alleati indigeni. È un massacro fra i più efferati della storia coloniale. I totonacas e i tlaxcaltechi infieriscono su uomini, donne e bambini per vendicare quelli della loro gente ai quali i sacerdoti méxica hanno strappato il cuore. Ci sono centinaia di morti. Gli spagnoli finiscono sotto l'assedio della folla. Gli aztechi hanno compreso che gli stranieri non sono dei ma popolocas, barbari venuti a distruggerli. In quel mese di maggio c'è però un fatto che passa inosservato rispetto alla strage e ai dissidi interni fra conquistatori spagnoli. A Veracruz, sulla costa, muore di vaiolo uno schiavo nero. È l'inizio dell'epidemia. Quando Cortés rientra a Tenochtitlán dopo avere sconfitto la flotta di de Narváez, la situazione è ancora molto delicata. De Alvarado convince Motecuhzoma, che ormai veste i panni del collaborazionista, a mostrarsi al suo popolo per rabbonirlo.
29 giugno 1520. L'imperatore si affaccia alla terrazza del suo palazzo e si rivolge alla folla. Chiede concordia e pace con l'invasore. I méxica reagiscono con una sassaiola. Motecuhzoma viene colpito e morirà di lì a poco. Con Motecuhzoma in agonia, gli spagnoli decidono di rimettere in libertà il fratello Cuitláhauac. Al successore al trono viene affidato lo stesso compito: calmare i sudditi. Cuitláhauac si impegna solennemente. Appena libero, il primo guerriero anticoloniale delle Americhe si mette alla testa dell'esercito di liberazione. Gli spagnoli scappano. Abbandonano la capitale e si dirigono verso ovest, a Tacuba, che oggi è nella cintura urbana della capitale. Sono carichi di tutto l'oro e dei preziosi che sono riusciti a rubare. Il peso della refurtiva rallenta la marcia. 30 giugno-1 luglio 1520. Gli spagnoli la chiamano la Noche triste. Le truppe di Cuitláhauac, pare avvertite da una vecchia uscita a raccogliere acqua, attaccano via terra e con le canoe nel canale dei Toltechi. Per gli europei è una disfatta. Perdono la metà degli uomini. I tesori trafugati finiscono sott'acqua. De Alvarado si salva e inizia una peregrinazione che durerà quasi un anno, fra mille pericoli in un territorio diventato ostile, finché gli spagnoli riusciranno a raggiungere le terre degli alleati tlaxcaltechi.
7 settembre 1520. Il vincitore Cuitláhauac è consacrato Huey tlatoani (grande oratore cioè imperatore). Tutti gli spagnoli presi prigionieri nella “notte triste” vengono sacrificati al dio Sole. Sarà un regno di pochi mesi.
25 novembre 1520. Cuitláhauac muore di vaiolo (“malattia contagiosa di origine virale che nel 30% dei casi risulta fatale”, scrive l'Istituto superiore di sanità). L'epidemia ormai sta devastando il Messico. La lunga incubazione del vaiolo (10-14 giorni) e la stessa caccia agli invasori hanno lasciato circolare persone ancora senza sintomi a distribuire il contagio dovunque.
Sul trono sale Cuahutémoc, cugino di Cuitláhauac, che subirà la sconfitta definitiva, e la morte per garrota, il 13 agosto 1521 quando Cortés rientrerà vincitore a Tenochtitlán con i suoi 80 mila alleati. Ma gli abitanti delle Americhe continueranno a morire.
A fine 1523 “Tonatiuh” de Alvarado porterà guerra e malattia fra i Maya. Un anno dopo, alla fine del 1524, Francisco Pizarro e Diego de Almagro si spingeranno oltre Panama in cerca dell'Eldorado peruviano e alla conquista dell'impero degli Inca. Per spiegare l'enorme letalità delle malattie europee sugli americani gli epidemiologi concordano su una sorta di verginità immunologica dei popoli cosiddetti indigeni. In particolare, la vicinanza con animali domestici era sostanzialmente sconosciuta nel Nuovo Mondo dove l'allevamento non era praticato e gli animali erano lasciati al pascolo libero. Non solo esistevano meno possibilità per la zoonosi, il passaggio di specie di virus e batteri, ma gli americani adulti non avevano avuto la possibilità di immunizzarsi contraendo malattie come il morbillo in età infantile, cosa che accadeva agli europei. Altre malattie che derivano dal contatto con gli animali sono la peste (insetti, ratti), lo stesso morbillo (cani), l'influenza (maiali o uccelli) fino all'Hiv (scimmie) e al Cov-Sars-2 (pipistrelli). Un altro elemento scatenante furono i viaggi per mare dei coloni europei, spesso accompagnati dai loro animali domestici. Le prime traversate avvenivano in condizioni igieniche disastrose che spesso trasformavano le navi in bombe batteriologiche ambulanti, come si sa dalle stragi di schiavi trasportati dall'Africa alle Americhe.
Non bastando il vaiolo, nel 1545-1550 un'epidemia di salmonella enterica (cocolitzi in náhuatl) devasta l'attuale stato messicano dell'Oaxaca. Muoiono a milioni. Solo qualche anno fa gli esami condotti sui resti nei cimiteri hanno consentito di chiarire la natura del contagio. Non è invece certo che sia di origine americana, come si è sostenuto, la sifilide che gli inglesi chiamavano great pox per distinguerla proprio dal vaiolo (small pox).
Pochi giorni prima che Cortés partisse per conquistare il Messico, il 6 aprile 1520 muore Raffaello Sanzio, probabilmente di sifilide che circolava in Europa almeno da un paio di decenni e si diceva fosse stata portata a Napoli dai francesi. Per trovare una cura al flagello del vaiolo bisogna aspettare secoli. Nel 1796 il dottor Edward Jenner immunizza un garzone di stalla inoculandogli il vaiolo preso dalle piaghe di una mucca ma il morbo continua a provocare decine di milioni di vittime in tutto il mondo. La malattia è stata eradicata solo nel secolo scorso con vaccinazioni di massa.
Nota. Come riferimento bibliografico si cita Il rovescio della conquista dello storico e antropologo messicano Miguel León Portilla (1964, in edizione Adelphi 1974).
· Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia.
Maurizio Bettini per “la Repubblica” il 30 agosto 2020. (…) "Pandemia" è una parola greca, composta da "pan" che significa "tutto" e "demia" da "demos", il "popolo", ad indicare qualcosa che riguarda appunto l'intero popolo. I Greci però non usarono mai "pandemia" nel significato medico che le diamo noi moderni. A creare questa parola furono gli scienziati europei a partire dalla fine del XVIII secolo, ricalcandola sul modello di "epidemia", un termine già usato negli scritti di Ippocrate (IV a. c.) per indicare il rapido diffondersi di una malattia contagiosa. I Greci dunque non conobbero la "pandemia"? In verità, è a questo punto che cominciano le sorprese. Se infatti gli abitanti dell'Ellade non conobbero la "pandemia" in senso medico, fecero però largo uso dell'aggettivo "pandemos", ossia "relativo a tutto il popolo", riferendolo però a una sfera lontanissima dalla malattia, dal contagio e dalla morte: quella occupata dalla dea Afrodite, da Eros e dall'amore che queste divinità suscitano attorno a loro. Davvero una bella differenza. Il culto di Afrodite Pandemos, l'Afrodite di tutto il popolo, è testimoniato in molte città, da Atene a Tebe, a Megalopoli, a Naucrati e così via. Pausania, il viaggiatore che nel II secolo d. c. visitò un'Ellade divenuta ormai serbatoio di memorie, racconta che il grande Scopas avrebbe scolpito la dea a cavallo di un capro: particolare che ha ovviamente suscitato molte speculazioni posteriori, e anche molte riprese iconografiche. Ma fu soprattutto Platone, nel Simposio , a dare nuovo e imperituro impulso all'Afrodite Pandemos e all'Eros Pandemos che l'accompagna. E però anche a giocare ad entrambi uno scherzo imbarazzante. Il dialogo ha per tema l'amore, e uno dei partecipanti, di nome Pausania, prende partito dal fatto che Esiodo - l'autore della Teogonia , ossia il racconto relativo all'origine delle singole divinità - attribuisce due nascite differenti ad Afrodite: una prima volta, infatti, la definisce nata da Urano, allorché i genitali del dio, recisi dalla lama del figlio Crono, caddero nella spuma del mare; una seconda volta invece la dice figlia di Zeus e Dione. Il Pausania del Simposio , cioè Platone, prende tutto ciò come prova del fatto che di Afroditi ne esistono in realtà due, non una: la prima, detta Urania, che assieme ad Eros Uranio ispira l'amore puro, spirituale, quello che nasce fra un adulto e un giovinetto animati entrambi da nobili sentimenti; e una seconda, detta appunto Afrodite Pandemos, che con Eros Pandemos ispira invece l'amore «di tutto il popolo», appunto, quello comune, che mira più al corpo che all'anima, ed è diffuso soprattutto fra coloro che amano le donne e non i fanciulli. Questo perché l'Afrodite Pandemos, essendo nata da un maschio e da una femmina, ha in sé i caratteri di entrambi i sessi, quindi favorisce l'amore eterosessuale; mentre l'Afrodite Urania, nata dal solo padre, partecipa unicamente della natura maschile. Insomma, povera Afrodite Pandemos, Pausania relega il suo amore a un rango inferiore, che farà presto a diventare semplicemente "volgare". E questo nonostante che il medico Erissimaco, intervenendo nel dialogo subito dopo Pausania, cerchi di rimettere un po' le cose a posto: sostenendo l'idea che in realtà tutti gli amori sono buoni, sia quelli "uranici" che quelli "pandemici", è solo una questione di temperanza. L'importante infatti è rivolgere il proprio amore, di qualunque tipo, solo verso chi lo merita e di farlo in modo "kosmios" "ordinato", come si dice in greco: una bellissima parola. Ma questo non è bastato a redimere l'Afrodite Pandemos, che nel tempo si è sempre più identificata con l'immagine dell'amore piattamente sensuale, volgare, perfino con la pratica della prostituzione. (…) A cose fatte, non si può far a meno di riconoscere che questa scissione fra le due Afroditi - quella Urania spirituale, quella Pandemos materiale e volgare - ha finito semplicemente per fare del male a uomini e donne. Interpretati i due Eros come "amore celeste" l'uno e "amore carnale" l'altro, le cose hanno preso infatti una piega che certo Pausania, e Platone dietro di lui, difficilmente avrebbero potuto immaginare. In questo modo infatti per secoli ci si è sforzati di tener separate due componenti dell'amore che la natura, se ne esiste una, aveva invece concepito indissolubili. Ma si sa, l'evoluzione delle rappresentazioni culturali, specie quando sono in gioco sentimenti così importanti come l'amore, non si può mai prevedere. Auguriamoci solo che l'Afrodite Pandemos, se non altro per riscattare l'onore del proprio nome, sostituisca la pandemia di Covid con un'epidemia d'amore, ristabilendo così un po' di ordine e di felicità sul nostro tormentato pianeta.
Elena Dusi per repubblica.it il 4 marzo 2020. Massimo Clementi tiene il virus fra le mani. «Ora sono più ottimista», dice dopo aver messo in gabbia (cioè in provetta) uno degli esseri viventi più sfuggenti del pianeta. Il professore di microbiologia dell’università San Raffaele di Milano ha guidato l’isolamento del coronavirus da due pazienti ricoverati sabato. E ora lo guarda, ben chiuso in un vetrino di laboratorio. «Lo teniamo a contatto con delle cellule, che lui usa per replicarsi. Ci mette 48 ore a distruggerle tutte». Lo stesso fa in un polmone. «Ma noi useremo il campione per mettere a punto farmaci e vaccini».
Nato tre mesi fa. Il coronavirus arrivato fra noi è un neonato, ha tre mesi. A novembre circolava solo tra i pipistrelli, disturbandoli al più con un raffreddore. È minuscolo: bisogna metterne in fila quasi un milione per arrivare a un millimetro. Viaggia cavalcando goccioline del respiro grandi 5 micron e adora giocare a nascondino: secondo l’Imperial College di Londra per ogni caso che tracciamo ce ne sono due che guariscono da soli e probabilmente non scopriremo mai. Da buon neonato, ama distruggere: più di 3.100 vittime e 5 trilioni di dollari in Borsa.
Un organismo mai visto. La paura è figlia dell’incertezza. «È un virus nuovo anche per la scienza - conferma Paolo Bonanni, professore di Igiene all’università di Firenze. «Ci sembrano secoli, ma è fra noi da pochissimo». Molte domande che ci poniamo, semplicemente non hanno risposta. «Ci muoviamo su un terreno senza mappe» ha detto il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus: «Questo virus non è la Sars né l’influenza. È un virus unico, con caratteristiche uniche». Ogni nuovo microrganismo che dall’animale salta all’uomo e vi si adatta è una roulette russa. «Può essere poco contagioso e molto letale come la Sars – spiega Bonanni – o molto contagioso e poco letale, come il coronavirus di oggi». Ma non è regola di cui fidarsi. »Nulla vieta che possa spuntarne uno nuovo, molto contagioso e molto letale». Il coronavirus della Mers, 34% di mortalità, che arrivò dai dromedari nel 2012 in medio oriente, si avvicinava alla combinazione ferale. «La nostra fortuna è che si sia diffuso nel deserto», dice Clementi.
Colpire per sopravvivere. Contagiare è una necessità per i microbi. «Fuori dagli organismi sopravvivono poco, qualche ora» spiega Clementi. E dal punto di vista di un virus, nulla è più vicino all’idea di paradiso terrestre del mondo di oggi: miliardi di individui, metà dei quali stretti nelle città, abituati a raggiungere l’altro capo del mondo in una manciata di ore. «La contagiosità - spiega Alberta Azzi, microbiologa dell’università di Firenze - dipende dalla capacità del virus di penetrare nelle cellule. È come se alcuni avessero chiavi migliori di altri». Questa facoltà si esprime con un numero, R0 o tasso di replicazione: il numero di persone contagiate da ciascun infettato. «Sembra che per il nuovo coronavirus sia 2,5-3» spiega Bonanni. «L’influenza varia con gli anni, ma possiamo collocarlo fra 1 e 1,5. Il morbillo arriva a 15-20». Il numero può essere compresso dalle misure di contenimento. Solo quando scenderà sotto a 1 l’epidemia si contrarrà.
L’effetto prateria. «Il tasso di replicazione dipende dal virus, ma anche dall’ospite» spiega Bonanni. «Di fronte a un germe nuovo, il nostro organismo non ha difese immunitarie» aggiunge Azzi. È una prateria davanti alla cavalcata degli unni. Le prime porte ad aprirsi sono le vie aeree superiori, con tosse e raffreddore. E fin qui nessuna sorpresa: molti coronavirus causano raffreddori. «Questo, in più, colonizza i polmoni in profondità, nella parte più nobile e delicata» dice Bonanni. Dopo i 5 giorni medi di incubazione, ne passano altri 5-7 con sintomi simili all’influenza. Dopo – nella quota di malati più gravi – compare la difficoltà di respirazione: affanno e fame d’aria da affrontare subito in ospedale.
Il raffreddore di Dante. Continuerà almeno fino all’arrivo del caldo. Quando forse – non esiste certezza – le temperature alte freneranno i contagi. E poi? «L’influenza d’estate migra nell’emisfero sud, poi torna» spiega Azzi. Se anche il coronavirus seguisse l’esempio, non ripartiremmo comunque da zero. «Il sistema immunitario impara a difendersi» secondo le regole del l’eterna lotta tra uomini e virus. «La pandemia del 2009 non è mai scomparsa» prosegue la virologa di Firenze. «Non ne sentiamo parlare perché non siamo più naïf e non causa malattie gravi. Anche la Spagnola è stata devastante solo nel 1918. Poi è rimasta, senza causare troppi danni, fino al 1957. Infine è scomparsa». Alcuni coronavirus risalgono addirittura al 1200. «Studiandone il genoma capiamo quando sono arrivati fra noi» dice Clementi. «E chissà se anche all’epoca di Dante c’era così tanto spavento, per quel virus completamente nuovo».
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2020. Giovedì 12 febbraio, mentre il mondo intero parlava del numero dei morti per il coronavirus, saliti quel giorno in Cina a 1.115, un' Ansa destinata a esser ignorata diceva che l' epidemia di Ebola in Congo si stava affievolendo tanto che l' Oms «potrebbe decidere di revocare lo status di Emergenza Internazionale». Certo, c' erano stati tre casi appena la settimana prima, c' erano da aspettare 42 giorni a «zero casi» per respirare di sollievo e «un singolo caso può riaccendere l' epidemia». Ma perché non esser ottimisti? A margine, l' Oms ricordava che al 9 febbraio l' epidemia, iniziata il 1° agosto 2018, aveva fatto in un anno e mezzo 2.249 morti. In una parte solo del Congo, le province di Nord Kivu e Ituri. Senza un millesimo dei titoli nell' ultimo mese dedicati alla polmonite di Wuhan. Che ci tocca. E parliamo solo dell' ultima epidemia di Ebola. Una delle tante scatenate dal 1976 da quel virus che nella variante «Zebov» è arrivato ad avere negli anni una mortalità nel 93%. Per capirci: se a oggi le persone uccise in Cina dal coronavirus sono state 2.584 su un miliardo e mezzo di abitanti, nella sola epidemia di Ebola del 2014 la Guinea (12 milioni di abitanti) contò 2.543 morti, la Sierra Leone (meno di 8 milioni) ben 3.956 di cui 221 medici e operatori sanitari, la Liberia (meno di 5 milioni) addirittura 4.809. I rapporti delle Ong che da anni affrontano queste sfide temerarie dicono tutto. Scriveva Aristotele ad Alessandro Magno: «Con i Greci comportati da stratego, con i barbari da padrone, e curati degli uni come di amici e familiari mentre gli altri trattali come animali o piante». Una tesi da prendere con le pinze e collocare in quel contesto storico. Quasi due millenni e mezzo dopo, però, il confronto fra l' allarme che dalla Cina ha investito direttamente noi occidentali, europei, italiani, veneti e lombardi, e l' assai minore apprensione per la sorte degli africani attaccati dall' Ebola, ci ricorda che troppo spesso, anche per noi, gli uomini non sono tutti uguali. Per carità, l' etnocentrismo è antico come il mondo. E fino a un certo punto è comprensibile: chi ci è più vicino ci è più caro. Ovvio. Ma il disinteresse totale per ciò che non ci tocca.
Paolo Russo per “la Stampa” il 6 marzo 2020. L'Organizzazione mondiale della sanità è pronta a pronunciare la parola fino ad oggi impronunciabile: pandemia. Che significa dire ai singoli Stati di fare un passo indietro ed eseguire i piani dell' Oms per impedire che il virus dilaghi. Misure che possono andare dallo stop alle attività produttive ai limiti alla circolazione anche via terra e che potrebbero essere applicate in primis nel nostro Paese, che ha il maggior numero di casi dopo Cina e Corea del Sud. Il primo a rompere il tabù, definendo quella attuale una pandemia era stato il ministro della salute tedesco. Ma anche gli esperti dell' Oms sanno che oramai si è già passati a quella che la stessa organizzazione definisce «fase sei», equivalente al «periodo pandemico». Al quale, secondo il loro stesso schema di classificazione delle epidemie, corrispondono misure per minimizzarne l' impatto e non più per bloccare la diffusione del virus, ritenuta oramai inevitabile. Una strategia pensata per impedire impennate di contagi, che mandino sotto stress i servizi sanitari. Entro 7, massimo 10 giorni, dalla sede di Ginevra l'Oms proclamerà lo «stato pandemico». «Il tempo di avere dati consolidati anche dall' Africa e dall' America Latina», spiega Walter Ricciardi, dell'executive board dell'organizzazione. Del resto per i Centri statunitensi per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) il Covid-19 presenta già due dei criteri per definirsi pandemia: si diffonde tra le persone e può essere mortale. Il terzo, la sua «diffusione su scala mondiale», sarà appunto raggiunto a breve, quando arriveranno dati certi sui primi focolai africani e sudamericani. Attualmente per l'Oms ci troviamo comunque nella fase 5, quella di «allerta pandemica», nella quale la risposta è quella che gli epidemiologi definiscono di «contenimento», quando si può ancora isolare una persona colpita e poi tracciare e mettere in quarantena i suoi contatti. «Ma stiamo già passando alla fase successiva di "mitigazione", ossia quella di riduzione del danno visto che non posso più bloccare la diffusione del virus», spiega Ricciardi. In pratica la strategia che l' Oms contempla in caso di pandemia. «Con la dichiarazione dello stato pandemico l'Oms può mandare i suoi operatori in loco, come fanno i caschi blu dell'Onu», ma soprattutto «può chiedere ai singoli Paesi di adottare misure di mitigamento, come il fermo di alcune attività o dei trasporti anche via terra». Non c'è obbligo, «ma il non rispetto delle disposizioni equivarrebbe alla mancata applicazione di norme internazionali, che implica l' applicazione di sanzioni». I vertici dell' Oms non pensano però a una strategia univoca «ma ad una agilità di approccio come quella che abbiamo visto in Cina, dove a Wuahn si sono adottate misure di mitigazione, mentre nelle altre aree del Paese si è adottata una strategia di contenimento», spiega Bruce Aylward, braccio destro del direttore generale dell' Oms. Insomma le misure anche in caso di pandemia non saranno generalizzate, ma commisurate al livello di diffusione del virus. Il problema è capire di quanto rosso si tingerà la mappa dei contagi.
L’Oms dichiara la pandemia e Francia, Spagna e Germania tremano. Paolo Mauri su Inside Over il 12 marzo 2020. Alla fine, come ampiamente preventivato, ma soprattutto prima del 15 marzo, termine complottista passato il quale i “pandemic bond” non avrebbero causato perdite milionarie alle banche, l’Oms, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha dichiarato la pandemia per il dilagare dell’infezione da coronavirus Covid-19. Dal punto di vista strettamente medico, per un Paese come l’Italia, non cambierà molto. Abbiamo già avuto modo di dire, in un precedente approfondimento, che le misure prese da noi per contenere la diffusione nazionale ed internazionale del contagio e per minimizzarne l’impatto, condividendo immediatamente tutti i dati epidemiologici (nuovi casi, morti, guariti) con l’Oms e gli enti di altre nazioni o sovranazionali come l’Ecdc, l’European Centre for Disease Prevention and Control, sono già quelle di una fase pandemica in buona sostanza. Semmai, se l’Oms dovesse ritenerlo opportuno, si potrebbe andare verso un irrigidimento dei divieti di libera circolazione (sospendendo il trasporto via terra ad esempio) o la chiusura di attività non essenziali, ma queste, ad onor del vero, sono tutte ipotesi che le regioni del Nord più colpite dall’epidemia stanno considerando di prendere, anche in forza del decreto legge numero 13 che concede ampio margine di azione agli enti locali da parte dello Stato limitatamente a questo ambito. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che funziona come una sorta di Onu, dovrebbe quindi inviare i propri “Caschi Blu”, ovvero esperti epidemiologici, nei Paesi in cui il virus si sta diffondendo per trovare le soluzioni migliori, caso per caso, affinché possa essere contenuto. Qui cominciano i guai, ma non per noi. Lo stesso Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute e facente parte dell’ufficio esecutivo dell’Oms, in una recente intervista a Le Scienze ha sollevato preoccupazione per la situazione di Francia e Germania. Secondo l’esperto si prevede che “l’infezione si espanderà anche negli altri Paesi, come Germania e Francia, che seguiranno l’iter italiano” aggiungendo che anche il Regno Unito potrebbe incappare in una “situazione intermedia fra questi due scenari” mentre per gli Stati Uniti “sarà una catastrofe, perché lì il virus sta avanzando incontrastato. Di fatto lì non lo testano neanche, trattandosi di un sistema che non ha grandi risorse di sanità pubblica” e sembra che sia stata proprio questa dinamica, unita all’espandersi dei contagi in quasi tutto il Centro e Sudamerica a far dichiarare la pandemia. Qualcosa però, nel conteggio dei casi di Francia, Spagna e Germania, non torna: secondo uno studio statistico apparso su Medium i casi dovrebbero essere molti di più. La Francia, che dichiarava al momento in cui scriviamo circa 2200 infetti, teoricamente dovrebbe averne tra i 24mila e i 140mila ovvero uno o due ordini di grandezza superiori rispetto alle osservazioni. Lo stesso ragionamento è valido anche per la Spagna, che ha un numero di casi simile (2200), e la Germania (1900). Lo studio ci ricorda anche che, con lo stesso numero di casi di Stati Uniti, Francia, Germania e Spagna, la regione di Wuhan era già in lockdown cioè in quarantena totale. Proprio per questo, l’arrivo degli esperti dell’Oms, o comunque la gestione diretta di quella che finalmente ora è diventata una pandemia, potrebbe generare non pochi guai dalle parti di Berlino, Madrid o Parigi. Al di là di quello che per il momento è solo un mero sospetto – ma come diceva qualcuno molto più saggio di chi scrive, a pensare male si fa peccato ma raramente si sbaglia – ovvero di un conteggio dei casi “drogato” da parte di Francia, Germania e Spagna che verrebbe alla luce con tutte le conseguenze diplomatiche del caso, l’introduzione improvvisa di aree di quarantena, sul modello di quella italiana o addirittura più coercitive, potrebbe essere mal assorbita non solo dalla popolazione ma da parte dell’intero sistema economico/industriale di quei Paesi, venutisi a trovare improvvisamente da una situazione di seminormalità ad un blocco totale senza aver effettuato tutti quei dolorosi ma necessari passaggi che ha intrapreso l’Italia in questi giorni. Sebbene lo stesso Ricciardi sostenga che in Italia si sia in qualche modo sovrastimato il numero di decessi, l’esperto dell’Oms ha apertamente affermato che in Germania o in Francia “capita che accertino che alcune persone siano morte per altre cause pur essendo infette da coronavirus”. Seguendo il medesimo principio potremmo, forse un po’ malignamente, pensare che tra gli 40mila casi di “influenza” improvvisamente palesatisi in Germania in due settimane all’inizio di febbraio che ne hanno raddoppiato il numero dall’inizio della stagione , vi siano parecchi casi di Covid-19, e forse la supervisione dell’Oms aiuterà a chiarire una volta per tutte anche questo punto.
L'Organizzazione mondiale della sanità: "Il Coronavirus è una pandemia". "Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie, ma non siamo alla sua mercè insieme si può battere". Ora l'Oms potrà emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite come fatto in Cina, Italia e Iran. Elena Dusi l'11 marzo 2020 su La Repubblica. “Un nuovo virus che si diffonde in tutto il mondo e contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie”. Questa è la definizione di pandemia, secondo l’Organizzazione Mondiale della Salute. E questo ufficialmente è da ora il coronavirus: non più un'epidemia confinata ad alcune zone geografiche, ma diffusa in tutto il pianeta. L’Organizzazione di Ginevra lo ha dichiarato ammettendo un’evidenza che era sotto agli occhi da giorni: i contagi sono diffusi in ogni continente a eccezione dell’Antartide. I paesi colpiti sono 114 su un totale di 193, soprattutto nell’emisfero nord. Da quando è comparso, a dicembre 2019, il coronavirus ha causato oltre 118 mila contagi e 4.200 vittime. Ora l’Oms avrà la facoltà di emanare direttive e inviare équipe nelle nazioni più colpite (nel rispetto della sovranità), come ha già fatto in Cina, Italia e Iran. Potrà anche prendere nuove misure (in parte lo sta già facendo) per fluidificare l’invio ai paesi più colpiti di presidi sanitari, come ad esempio le mascherine. La dichiarazione di pandemia spetta al direttore generale dell’Oms. Non esistono criteri oggettivi. Nel 2009 l’allora direttrice Margaret Chan fu accusata di averla dichiarata troppo presto, di fronte a una malattia (l’influenza suina) considerata poco grave. Oggi il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus ha aspettato fino all’ultimo, conscio degli effetti psicologici, più che pratici di una mossa simile. “Siamo profondamente preoccupati per la diffusione e la severità della malattia e per l’allarmante livello di inazione” di alcuni paesi, ha però ammesso mercoledì. “Per questo abbiamo deciso che Covid-19 può essere caratterizzato come una pandemia”. La parola “potrebbe suggerire che non possiamo fare più nulla per contenere il virus” ha aggiunto il direttore. “Questo non è vero. Siamo impegnati in una lotta che può essere vinta se facciamo le cose giuste”. A convincere l’Oms è stata la curva crescente non più in un numero limitato di paesi (Cina fino a qualche giorno fa, oggi Italia, Iran e Corea del Sud), ma nell’intera Europa e in un’America che – tra dichiarazioni al limite dell’irresponsabile del presidente Donald Trump e difficoltà tecniche nel distribuire ed effettuare i test – non sembra preparata ad affrontare un’eventuale ondata di contagi. “Ci sono Paesi che non stanno facendo abbastanza per arginare l’epidemia” aveva già avvertito una settimana fa Ghebreyesus. La dichiarazione di pandemia oggi servirà all’Oms anche per avere una voce più forte nei confronti dei Paesi “inadempienti”: fra loro gli Stati Uniti. “Ci aspettiamo un aumento del numero dei casi, delle morti e dei Paesi colpiti” ha spiegato Ghebreyesus. “La definizione di pandemia non cambia la valutazione dell’Oms sulla gravità della situazione. Non cambia quel che l’Oms sta facendo, né quel che i Paesi dovrebbero fare”. Allo stesso tempo, ha aggiunto “questa non è solo una crisi sanitaria, è una crisi che toccherà ogni settore, e richiede che ogni individuo sia coinvolto nella lotta”. L’Oms, ancor prima della dichiarazione di pandemia, aveva inviato i suoi esperti in Cina, Italia e Iran per incontrare medici ed epidemiologi, analizzare le statistiche e valutare la situazione degli ospedali. Solo l’Iran ha reagito in ritardo e con trasparenza incompleta all’arrivo del contagio. I governi di Pechino e Roma sono intervenuti con più decisione e si sono guadagnati le lodi di Ginevra. “Sosteniamo l’azione intrapresa dall’Italia” aveva dichiarato l’Oms tre giorni fa, dopo due settimane di visite e ispezioni. “Le vostre misure ci serviranno da lezione per affrontare l’epidemia anche negli altri Paesi”. La dichiarazione di pandemia non avrà effetti concreti sull’organizzazione dei nostri ospedali o sulla risposta italiana al coronavirus, già molto decisa. “Il messaggio finale – ha concluso Ghebreyesus – è che non siamo alla mercè del virus. Il grande vantaggio che abbiamo è che le nostre decisioni, a livello di governi, attori economici, comunità, famiglie e individui è che tutti noi possiamo influenzare la traiettoria dell’epidemia. La regola del gioco è mai darsi per vinti”.
Coronavirus, ufficiale per l’Oms: è pandemia. Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Laura Cuppini. Pandemia. La parola che circolava da giorni adesso si può pronunciare «apertis verbis». Il direttore dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tedros Adhanom Ghebreyesus, nel briefing da Ginevra, ha scandito: «Abbiamo valutato che Covid-19 può essere caratterizzato come una situazione pandemica». Che si caratterizza con «aumentata e prolungata trasmissione del virus nella popolazione generale», in cui si ritiene «virtualmente inevitabile la comparsa di casi in tutto il mondo». L’Oms aveva dichiarato una pandemia l’ultima volta nel 2009, quando l’influenza H1N1 (la cosiddetta «suina») colpì centinaia di migliaia di persone, con un numero molto importante di vittime. Questa però è una situazione del tutto nuova: si tratta della prima pandemia causata da un coronavirus. «Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o negligenza. È una parola che, se usata in modo improprio, può causare paura irragionevole o accettazione ingiustificata che la lotta è finita, portando a sofferenze e morte inutili — ha aggiunto Ghebreyesus —. Descrivere la situazione come una pandemia non cambia la valutazione sulla minaccia rappresentata da questo coronavirus. Non cambia ciò che l’Oms sta facendo e non cambia ciò che i Paesi dovrebbero fare». L’Organizzazione mondiale della sanità — ha concluso — «è profondamente preoccupata sia dai livelli allarmanti di diffusione e gravità, sia dai livelli allarmanti di inazione. Nelle ultime due settimane il numero dei Paesi fuori dalla Cina che sono stati colpiti dal coronavirus è triplicato, siamo a oltre 118mila casi in 114 Paesi e oltre 4mila persone decedute». «Nei prossimi mesi — ha affermato ancora il direttore generale dell’Oms — ci aspettiamo di vedere i numeri di casi, di morti e il numero di Paesi affetti salire ancora di piu». Dei 118mila casi di Covid-19 segnalati a livello globale, oltre il 90% dei casi si trova in quattro Paesi (tra cui l’Italia) e due di questi, Cina e Corea del Sud, hanno registrato una significativa riduzione dei contagi. «Ottantuno Paesi non hanno segnalato alcun caso di Covid-19 e 57 hanno riportato 10 episodi o meno — ha detto Ghebreyesus —. Non possiamo dirlo abbastanza forte, abbastanza chiaramente o abbastanza spesso: tutti i Paesi possono ancora cambiare il corso di questa pandemia». E arriva poi il ringraziamento ai Paesi in prima linea che, secondo l’Oms, stanno quantomeno facendo il possibile: «Siamo grati per le misure che sono state prese in Iran, Italia e Corea del Sud per rallentare il virus e controllare l’epidemia. Siamo consapevoli che queste misure sono pesanti dal punto di vista sociale ed economico, come lo è stato per la Cina».
Professor Vineis, che cosa comporta la definizione di pandemia da parte dell’Oms?
«Significa che l’epidemia si sta generalizzando a gran parte del mondo — risponde Paolo Vineis, professore ordinario di Epidemiologia Ambientale presso l’Imperial College di Londra e responsabile dell’Unità di Epidemiologia Molecolare ed Esposomica presso l’Italian Institute for Genomic Medicine – IIGM (Torino) —. La definizione di pandemia è “un’epidemia che si verifica a livello mondiale, supera i confini nazionali e coinvolge un numero di persone molto elevato”. Se teniamo conto del ritardo con cui l’epidemia inizia in altri paesi (Regno Unito, Stati Uniti, Germania, Francia), le curve di crescita sono essenzialmente le stesse del nostro Paese. Cioè l’epidemia si espande in essi con una velocità simile a quella dell’Italia, o almeno così pare al momento. Questo comporta necessariamente l’adozione di misure drastiche anche altrove. Alcuni Paesi rischiano seriamente di essere troppo in ritardo. Mi auguro che questa tragedia sia uno stimolo per riconsiderare anche il ruolo dei Servizi sanitari nazionali; è molto probabile che la pandemia non mieterà moltissime vittime solo in Paesi poveri, ma negli stessi Stati Uniti. Inoltre, il superamento dei confini nazionali mostra che mai come in questo momento il sovranismo è inadeguato».
Potrebbe comportare misure ancora più stringenti nei Paesi colpiti?
«Più stringenti di quelle italiane non credo. Certo la Cina ha affrontato molto radicalmente il problema, per fortuna. Ma si tratta di uno Stato autoritario. In Italia e probabilmente negli altri Paesi europei bisogna contare sul senso di responsabilità di ciascuno. Mi riferisco in particolare ai giovani, che forse si sentono più protetti ma possono grandemente contribuire, con i loro stili di vita, a diffondere l’epidemia alle fasce più vulnerabili».
L’Oms verifica che le misure decise dai singoli Governi vengano rispettate?
«L’Oms può certamente verificare l’efficacia delle politiche e produrre linee-guida e raccomandazioni, oltre che coordinare, come ha fatto con successo in passato per molto malattie infettive. Non può però imporre politiche agli Stati».
Quali sono le sue previsioni per il prossimo futuro per l’Italia, e in particolare la Lombardia?
«Non mi sento assolutamente in grado di fare previsioni. Ci sono ancora troppe incertezze per poter dire quando l’epidemia inizierà a essere contenuta. Temo che sia questione di settimane, piuttosto che di giorni».
Secondo la definizione dell’Oms, una pandemia (pandemic in inglese) è «la diffusione mondiale di una nuova malattia», in almeno due continenti, con una sostenuta trasmissione da uomo a uomo. Si verifica quando un virus influenzale emerge e si diffonde globalmente e la maggior parte delle persone non ha immunità. Generalmente le pandemie del passato (tutte di tipo influenzale) hanno avuto origine da malattie che colpiscono animali. La dichiarazione di pandemia implica che ogni Paese metta a punto un «Piano pandemico» e che lo aggiorni costantemente sulla base delle linee guida dell’Oms. I piani pandemici possono prevedere misure per riorganizzare i posti letto negli ospedali, comprese le strutture di terapia intensiva, e percorsi per alleggerire le strutture di pronto soccorso; altri provvedimenti possono riguardare i numeri del personale sanitario. L’acquisto di farmaci e la messa a punto e la produzione su larga scala di un vaccino possono diventare prioritarie, così come l’organizzazione delle campagne di vaccinazione. L’Oms ha più volte rilevato come ci sia ora una maggiore consapevolezza del fatto che prepararsi a una pandemia richieda il coinvolgimento non solo del settore sanitario, ma della società nella sua interezza. «Noi quello che dovevamo fare lo stiamo facendo, lo stato di pandemia non ci cambia molto, avendo avuto tra i primi un’epidemia dentro casa. È un invito agli Stati membri a intervenire in maniera molto, ma molto più restrittiva — è stato il commento del direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità, Giovanni Rezza —. L’Oms forse puntualizza che diversi Stati hanno fatto poco per arginare il virus; l’Italia se l’è trovato in Lombardia con il picco influenzale in corso e poteva fare poco. La Cina ha fatto molto, Corea e Giappone anche, in altri Paesi la situazione è sfuggita di mano, come in Iran dove ci sono molti casi a Teheran. Forse anche una reazione da parte della Ue più decisa sarebbe stata auspicabile». «Ormai è una sfida globale, che va affrontata con la massima decisione» ha aggiunto Walter Ricciardi, componente italiano del comitato esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità e consulente del Ministero della Salute per Sars-CoV-2. «Eravamo sull’orlo del precipizio, ora siamo alla pandemia. Come andrà dipenderà da noi — conferma Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano —. I Paesi del mondo dovranno essere ancor più netti e stringenti nell’attuare le misure per contrastare la diffusione ulteriore di Covid-19. Servirà un lavoro corale e integrato a livello internazionale, con l’Oms “chiave” per diffondere buone pratiche e per l’interscambio di protocolli. E l’esperienza di chi già sta combattendo o ha combattuto il virus, come la Cina e l’Italia, si rivelerà preziosa». Le pandemie del passato (tutte influenzali, quindi differenti dall’attuale) si sono verificate a intervalli di tempo imprevedibili: negli ultimi cento anni si ricordano quelle del 1918 (Spagnola, virus A, sottotipo H1N1), 1957 (Asiatica, virus A, sottotipo H2N2) e 1968 (Hong Kong, virus A, sottotipo H3N2). La più severa, nel 1918, ha provocato almeno 20 milioni di morti.
Katia Riccardi per repubblica.it l'11 marzo 2020. Il coronavirus continua a macchiare il mondo. Negli Stati Uniti sono stati confermati 31 morti per Covid-19 mentre i dati della Johns Hopkins University parlano di 1.025 casi confermati con nuovi contagi in Florida e Michigan. Il primato spetta allo Stato di Washington con 279 casi, seguito dalla California con 178 e da New York con 173. Salta anche ad aprile il festival di Coachella, uno dei principali eventi musicali dell'anno negli Stati Uniti che si svolge nel deserto del Nevada.
Lezione da casa per gli studenti di Harvard. L'università di Harvard inizia le lezioni virtuali a causa dell'emergenza e sta chiedendo agli studenti di trasferirsi dai loro dormitori per cinque giorni entro il 15 marzo, secondo quanto comunicato dalla portavoce dell'università Rachael Dane. Il tentativo di "de-densificare la nostra comunità", ha detto Dane alla Cnn. Tutti i corsi accademici continueranno a svolgersi in remoto, ha aggiunto. Qualsiasi incontro nel campus dopo il 23 marzo sarà virtuale. Martedì scorso il direttore di Harvard Lawrence Bacow aveva già annunciato che l'università sarebbe passata alle lezioni online entro il 23 marzo, il primo giorno dopo le vacanze di primavera. Ora agli studenti è stato chiesto di non tornare al campus di Cambridge, nel Massachusetts, dopo le vacanze di primavera "per proteggere la salute" della comunità. Gli studenti che devono rimanere nel campus frequenteranno le lezioni in remoto. "Per i nostri studenti, so che sarà difficile lasciare gli amici e le lezioni. Lo stiamo facendo non solo per proteggerli ma anche per proteggere altri membri della nostra comunità che potrebbero essere più vulnerabili a questa malattia", ha aggiunto Bacow.
L'Australia vieta gli ingressi agli italiani. L'Australia vieta l'ingresso ai viaggiatori in arrivo dall'Italia . Il divieto è stato annunciato dal premier Scott Morrison.
Quarantena per passeggeri traghetto diretto a Tunisi. I 268 passeggeri a bordo del traghetto di una compagnia italiana proveniente da Palermo, arrivato ieri al porto di La Goulette di Tunisi, sono stati posti in isolamento domiciliare e verranno monitorati secondo le nuove norme sanitarie. Lo ha detto la direttrice generale dell'Osservatorio nazionale delle malattie nuove ed emergenti, Nissaf Ben Alaya.
La Francia si prepara al peggio. In Francia il Governo si sta preparando ad un'accelerazione dell'epidemia. Al momento l’Esecutivo esclude misure di contenimento drastiche come in Italia, e sta cercando di trovare una risposta al grave rallentamento economico. "Stiamo prendendo le misure appropriate. Oggi, non è necessario prendere decisioni di questo tipo" ma "se domani o dopodomani ci fosse motivo di farlo, lo spiegheremo e forse li prenderemmo ", ha detto Emmanuel Macron. Per il direttore generale della salute, Jérôme Salomon, "la transizione allo stadio 3 dovrebbe avvenire nei prossimi giorni". L'ultimo rapporto ufficiale, martedì sera, ha riportato i 33 morti (contro il 25 lunedì) su 1.784 casi confermati. 86 pazienti sono in terapia intensiva. Tutti i defunti sono adulti e 23 di loro avevano più di 75 anni. "Siamo all'inizio di questa epidemia", ha dichiarato Emmanuel Macron, mentre il più grande aumento dei casi confermati - 372 in 24 ore - è stato segnalato martedì sera. "Stiamo vivendo una crisi eccezionale", ha insistito. Se "dall'80 all'85% delle forme rimane benigno", ha ricordato Jérôme Salmon, "permangono molte incertezze scientifiche su questo virus", a differenza di quella "dell'influenza che conosciamo da 100 anni" - e che fa 10mila morti ciascuno anno medio nel paese.
Regno Unito, positiva ministra Salute. In Inghilterra il ministero della Salute ha anche dichiarato che il numero di persone che si sono dimostrate positive al virus è salito a 373 da 319. Positiva anche la ministra per la Salute Nadine Dorries.
In Cina altri 22 morti, in totale oltre 80mila casi. La Cina ha registrato oggi altri 22 morti. Complessivamente ci sono stati 3158 decessi su un totale mondiale di 4mila. Leggermente aumentato anche il numero di nuovi infetti: i casi odierni sono 24. Complessivamente i cinesi contaminati dal coronavirus sono stati 80.778 su un totale mondiale di oltre 117mila casi.
Corea del Sud casi di nuovo in aumento. La Corea del Sud ha registrato 242 nuovi casi interrompendo il trend al ribasso intrapreso da almeno cinque giorni (131 annunciati ieri, 248 domenica, 367 sabato, 438 venerdì e 518 giovedì). Secondo gli aggiornamenti del Korea Centers for Disease Control and Prevention (Kcdc), le infezioni totali sono salite a 7.755. A preoccupare, malgrado alcuni elementi positivi, è l'andamento delle infezioni a Daegu e a Seul, dove da ultimo un call center è diventato un focolaio del virus.
Tokyo commemora Fukushima. Commemorazioni limitate in Giappone per il nono anniversario della catastrofe di Fukushima a causa dell'espansione del coronavirus. Alle 14:46 locali (le 6:46 in Italia), il premier Shinzo Abe ha rilasciato un messaggio dalla sua residenza mentre le sirene suonavano lungo i litorali del Tokoku, sul versante nord orientale del Paese, luogo del triplice disastro. Intanto Il parco Disneyland di Tokyo e il parco Tokyo DisneySea prorogheranno la chiusura fino a inizio aprile.
Panama e Indonesia, primo morto. Un primo contagio in Turchia. Un uomo di 64 anni che aveva contratto il virus è morto a Panama, è il primo decesso dovuto a Covid-19 registrato in America Centrale, ha annunciato il ministro della sanità panamense Rosario Turner. Turner ha confermato che un totale di otto persone sono state infettate dal virus nel paese. Uno di loro "è in terapia intensiva, un altro purtroppo è morto", ha detto il ministro in una conferenza stampa nella capitale Panama. La vittima soffriva anche di diabete, le altre sette persone positive hanno tra i 29 e i 59 anni e sei di loro hanno viaggiato all'estero, in particolare in Francia, Spagna, Stati Uniti e Cuba. Anche l'Indonesia ha registrato il suo primo decesso per coronavirus. Si tratta di una donna straniera di 53 anni, scrive la Bbc. Il Paese ha altri 26 casi confermati. Primo caso di infezione da coronavirus in Turchia. La conferma è arrivata dal ministro della Sanità, Fahrettin Koca.
La Libia tra i pochi Paesi non contagiati. Dalla Libia arriva invece una buona notizia: il Paese nordafricano non è stato contagiato. Gli esperti collegano la Libia senza virus agli scarsi arrivi di stranieri e con il solo aeroporto di Tripoli funzionante.
Classifica contagi coronavirus nel mondo: contagi, morti e guarigioni. Italia seconda dietro la Cina. Stefano Villa l'11 Marzo 2020 su Oasport.it. L’emergenza coronavirus è divampata in tutto il mondo, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la pandemia: la malattia si sta diffondendo rapidamente, non ci sono vaccini, le difese immunitarie della popolazione globale non conoscono questo virus che continua a mietere vittime. La Cina è il Paese col maggior numero di casi: 80790, di cui 3158 morti ma i numeri sono in fortissimo calo negli ultimi giorni a dimostrazione che nel Paese asiatico le misure restrittive hanno avuto effetto. L’Italia è la seconda Nazione per numero di casi con 12462 (addirittura 2313 nelle ultime 24 ore) con un totale di 827 morti (196 nell’ultimo giorno). L’Iran segue in terza posizione (9000), poi Corea del Sud (7755), Francia (2281), Spagna (2222), Germania (1908) e USA (1109). Di seguito la classifica dei contagi di coronavirus nel mondo.
CLASSIFICA CONTAGI CORONAVIRUS NEL MONDO (PRIMI 20 PAESI):
1. Cina 80.790 (3158 morti)
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2. Italia 12.462 (827 morti)
3. Iran 9000 (354 morti)
4. Corea del Sud 7755 (60 morti)
5. Francia 2281 (48 morti)
6. Spagna 2222 (54 morti)
7. Germania 1908 (3 morti)
8. USA 1109 (31 morti)
9. Nave Diamond Princess 696 (7 morti)
10. Svizzera 652 (4 morti)
11. Giappone 639 (15 morti)
12. Norvegia 598 (0 morti)
13. Olanda 503 (5 morti)
14. Svezia 500 (1 morti)
15. Gran Bretagna 456 (6 morti)
16. Danimarca 442 (0 morti)
17. Belgio 314 (3 morti)
18. Qatar 262 (0 morti)
19. Austria 246 (0 morti)
20. Bahrain 195 (0 morti)
Dagospia il 9 marzo 2020. Dall’account twitter di Henrik Enderlein, Professore di Economia politica, direttore del “Jacques Delors Centre”, presidente della “Hertie School”. Coronavirus: l'epidemia in Italia è davvero “così diversa” dall'epidemia in Germania (come suggerito da molti)? Per quello che vale, guardate questi numeri. Impressionante.
IL CONFRONTO DEI CONTAGI TRA ITALIA E GERMANIA
Andamento dei contagi in Italia
25 febbraio: 229
26 febbraio: 374
27 febbraio: 528
28 febbraio: 650
29 febbraio: 888
Andamento dei contagi in Germania
4 marzo: 240
5 marzo: 349
6 marzo: 534
7 marzo: 684
8 marzo: 847
Mille contagi ma nessun morto: mistero sul virus in Germania. Aumentano i casi di coronavirus in Germania, ma secondo i dati diffusi dal governo tedesco i morti nel Paese da cui è partita l'epidemia in Europa sarebbero ancora pari a zero. Alessandra Benignetti, Lunedì 09/03/2020, su Il Giornale. Salgono in modo esponenziale i casi di coronavirus in Germania. Ma se in Italia cresce proporzionalmente anche il numero dei decessi collegati al Covid-19, nel Paese di Angela Merkel non ci sarebbero ancora vittime. O meglio, l’unico ad aver perso la vita dopo essere stato contagiato dal virus cinese è un cittadino tedesco di 60 anni in vacanza in Egitto. L’uomo era arrivato ad Hurgada, famosa località balneare sul Mar Rosso, da Luxor. Era risultato positivo ai test e venerdì scorso era stato ricoverato con febbre alta. A stroncarlo, domenica, è stata un'insufficienza respiratoria causata da una grave polmonite. Lo sfortunato turista è per ora l’unico morto da coronavirus confermato dal governo tedesco, mentre il numero dei decessi in tutta Europa continua a salire. Secondo i dati registrati dall’Oms in Europa, ad esempio, nei Paesi Bassi, con 265 casi confermati, ci sarebbero già 3 vittime. In Francia, con 1.116 contagi i morti sarebbero 19 e in Spagna su 589 casi accertati i decessi ad oggi sono stati 10. Sul territorio tedesco, invece, non ci sarebbero ancora vittime. Eppure il numero degli infettati oggi è arrivato a 1.112. Oltre duecento in più rispetto alla giornata di ieri. Cifre che, denuncia la delegazione di Fratelli d’Italia al Parlamento Europeo, potrebbero essere a ribasso, visto che lo scorso 20 febbraio alcune emittenti televisive tedesche parlavano del raddoppio dei casi di influenza nel giro di pochi mesi: da 40mila di inizio stagione ad 80mila, in meno di due settimane. Come è possibile che proprio il Paese da cui sarebbe partita l’epidemia che sta mettendo in ginocchio l’Europa sia rimasto immune dalle conseguenze del virus asiatico? "Il sospetto è che anche in Germania ci si ammali e si muoia di Covid-19, ma che le autorità non lo sappiano o meglio non lo dicano", spiega Carlo Fidanza, eurodeputato del partito di Giorgia Meloni. Assieme ai colleghi Fitto, Berlato, Fiocchi, Procaccini e Stancanelli, ha presentato un’interrogazione al Parlamento di Strasburgo, per chiedere che la Commissione intervenga per fare luce sul numero effettivo di contagi e decessi provocati dalla super-polmonite che da Wuhan si è diffusa anche nel Vecchio Continente. Secondo i deputati di Fdi finora in Germania e in altri Paesi europei non è stato messo in atto "un vero e proprio protocollo per eseguire i tamponi necessari a riconoscere l’infezione da Covid-19 in tutti i pazienti potenzialmente a rischio". "I dati relativi alle persone affette da coronavirus risalenti a circa un mese orsono – si legge nel documento visionato da ilGiornale.it - mostrano come i casi riconosciuti siano stati all’epoca maggiormente concentrati in Francia e Germania, ben prima che in Italia". "È strano, quindi, che il nostro Paese ora sia tra i primi al mondo per contagi e decessi", puntualizza Fidanza. "Anche alla luce del fatto – prosegue – che in alcune nazioni, come ad esempio la Spagna, i tamponi post-mortem abbiano dimostrato come alcune persone classificate come vittime di normale influenza, in realtà fossero decedute a causa del virus". "Sembrano essere mancate, ad eccezione dell’Italia, un’azione di controllo diffusa e una puntuale verifica delle cause di morte dei pazienti”, è la conclusione degli eurodeputati di FdI, che ora chiedono alla Commissione di "coordinare un’azione di verifica, anche post-mortem, sulle cause dei decessi delle ultime settimane nei 27 Stati Membri". "L’Europa dovrebbe verificare che i tamponi vengano eseguiti in maniera sufficiente, sistematica e adeguata ovunque, non solo nel nostro Paese", prosegue il parlamentare europeo sentito dal Giornale.it. Un appello, quello ad attivare un protocollo unico europeo per stabilire il reale numero dei casi, che verrà messo nero su bianco nelle risoluzioni sull’emergenza coronavirus che verranno votate nei prossimi giorni a Bruxelles.
Perché in Corea del Sud ci sono (relativamente) così pochi morti di Coronavirus? Pubblicato mercoledì, 11 marzo 2020 su Corriere.it da Sandro Orlando. Fino a martedì 10 marzo la Corea del Sud aveva registrato 7.755 casi di contagio da coronavirus, ma solo 60 morti. A confronto l’Italia, che alla stessa data aveva 10.149 pazienti infetti, presentava un numero di decessi più di dieci volte superiore (631). Come si spiega questa differenza? L’Asia Times ha cercato di trovare una risposta a questo enigma, incontrando alcuni esponenti del governo impegnati nella gestione dell’emergenza sanitaria. Il primo dato che colpisce è l’elevato numero di test diagnostici effettuati, 20 mila al giorno. Con esiti in tempi rapidi, dalle 6 alle 24 ore; costi contenuti, l’equivalente di 120 euro, per la metà coperti dalla mutua; e 500 cliniche in tutto il Paese dove effettuare i tamponi, 40 delle quali con un contatto minimo tra pazienti ed operatori sanitari. Per i pazienti positivi il test è peraltro gratuito, «quindi non c’è motivo, per i casi sospetti, di nascondere i sintomi», osserva il vicedirettore generale del centro sudcoreano per il controllo e la prevenzione della malattia (Kcdc) Kwon Jun-book. A differenza della Cina – poi imitata dall’Italia –, che ha adottato una strategia della «Grande muraglia» isolando intere regioni, la Corea del Sud ha avuto un approccio apparentemente più liberale, evitando di chiudere anche la città più colpita Daegu, uno dei focolai dell’infezione. Piuttosto che sulle zone rosse, il governo ha puntato su un modello di test diffusi, partecipazione pubblica e informazione aperta, facendo affidamento anche sull’estrema disciplina della popolazione sucoreana. Perché i dati di ogni paziente infetto, con i relativi spostamenti negli ultimi 14 giorni – tracciati da cellulari, carte di credito, circuiti di videocamere ecc. – sono stati pubblicati su appositi siti, in modo da consentire di ricostruire la rete di contatti avuti, e quindi di possibili contagi. Questa strategia ha sollevato problemi di privacy, ma ha consentito di informare le persone potenzialmente a rischio, spingendole a sottoporsi ad un test. I malati sono stati sottoposti per lo più a una quarantena in casa, con l’aiuto però di un medico a distanza, mentre solo per i casi gravi si è proceduto al ricovero, grazie alla capacità di triage sviluppata dai Pronto soccorso già nel 2015, con l’epidemia di Mers, la sindrome respiratoria del Medio Oriente. Ma è stata probabilmente la rapidità della diagnosi a tener finora basso il tasso di mortalità, che in Corea del Sud è dello 0,77%, contro una media globale del 3,4%. Perché il trattamento precoce dell’infezione da Covid-19 è l’antidoto più efficace contro ogni rischio di complicazioni. Un’altra caratteristica che ha contribuito a contenere i decessi è stato il fatto che a contagiarsi qui sono state per lo più le donne, con meno di 40 anni: cioè quella parte della popolazione che sta rispondendo meglio all’epidemia. La Corea del Sud ha un’età media di circa 82 anni, molto simile a quella italiana, ma in Italia il Coronavirus ha colpito soprattutto i maschi (e ucciso soprattutto maschi con una età media di oltre 80 anni).
Da adnkronos.com l'11 marzo 2020. Primo caso di infezione da coronavirus in Turchia. La conferma è arrivata dal ministro della Sanità, Fahrettin Koca, che ha precisato che "la persona in questione, colpita dal coronavirus in Europa", è ora in quarantena. "E' in buone condizioni - ha aggiunto il ministro in dichiarazioni riportate dall'agenzia ufficiale Anadolu - e tutti i suoi familiari e le persone che sono entrate in contatto con questa persona sono sotto sorveglianza sanitaria". Koca non ha aggiunto altri dettagli sul caso.
Marta Serafini per corriere.it l'11 marzo 2020. Mentre i giornali di mezzo mondo titolano sull’Italia in lock-down, e mentre sono 3,800 le vittime in tutto il mondo, 111 mila i contagiati in 105 Paesi diversi, ci sono Stati che ancora si dichiarano “Covid-19 free”. Che, tradotto, significa che questi Paesi stanno affermando di non avere casi di Coronavirus al loro interno. Secondo una mappa pubblicata da Al Jazeera, basata su informazioni mondiali e sui dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità e aggiornata a oggi, gli Stati che restano “bianchi” non sono pochi. Tuttavia da ricordare come la stessa Oms non abbia ancora dichiarato ufficialmente la pandemia, nonostante ieri il direttore Tedros Ghebreyesus, abbia detto che «la minaccia di una pandemia sta diventando molto reale». Il caso più eclatante è la Turchia. Da quando è iniziata la crisi, Ankara non ha fornito alcun dato sull’epidemia. Inoltre non sono previste particolari misure contenitive all’interno, nonostante il Paese sia molto vicino all’Iran, teatro di uno dei focolai più grossi e sia confinante con Stati fragili. Certo il sistema sanitario turco è sicuramente più strutturato di quello dei suoi vicini e la Turkish Airlines — una delle compagnie aeree più utilizzate al mondo — nei giorni scorsi ha sospeso i voli con l’Italia. Tuttavia un passeggero francese in viaggio da Londra a Singapore su un volo della Turkish è risultato positivo. E secondo quanto dichiarato dal ministro della salute turco Fahrettin Koca, giovedì tutto l’equipaggio è stato messo in quarantena per 14 giorni. Sempre lo stesso Koca rivolgendosi ai giornalisti nella capitale Ankara dopo una riunione del consiglio sulla minaccia del coronavirus, ieri ha dichiarato che il Ministero della Sanità e il resto del governo hanno adottato tutte le misure per impedire l’ingresso del coronavirus in Turchia. Koca ha esortato i cittadini turchi che vivono all’estero ad adottare misure di protezione. “I turchi che vivono all’estero, in particolare quelli che vivono in Europa, non dovrebbero uscire se non necessario”, ha detto il ministro. Koca ha anche esortato i cittadini turchi, in particolare quelli di ritorno dai viaggi all’estero, a mettersi in quarantena a casa per 14 giorni. “Quelli con malattie croniche e quelli di età pari o superiore a 50 anni non dovrebbero uscire se non in caso di necessità”, ha specificato. “Se hanno bisogno di uscire devono indossare una maschera e se hanno sintomi influenzali dovrebbero consultare la struttura sanitaria più vicina. ”Koca ha poi affermato che finora 2000 pazienti sono stati testati ma tutti sono negativi. “Se il coronavirus raggiunge la Turchia, sarà probabilmente trasportato da passeggeri che viaggiano dall’estero. I casi possono essere visti [eventualmente] in Turchia, ma è nelle nostre mani impedirne la diffusione ”, ha affermato. “Se non avessimo chiuso il nostro confine con l’Iran, circa 50.000 persone alla settimana avrebbero potuto entrare in Turchia”, ha aggiunto, riferendosi alla chiusura delle frontiere il mese scorso. Nella stessa occasione ha poi ribadito che se l’Iran avesse messo in quarantena le città di pellegrinaggio di Qom e Mashhad, il virus non si sarebbe diffuso così lontano. Koca ha anche criticato l’Europa per non aver preso le misure quando il virus mortale si è diffuso in Italia. Come dire, insomma, che la “colpa” è degli altri. La Turchia non è l’unico Paese a dichiararsi immune. Sulla mappa resta bianca anche la Corea del Nord che, come noto, è un uno dei regimi più oppressivi del pianeta. Difficile anche qui immaginare che il virus non sia entrato, sebbene si parli di uno Stato le cui frontiere sono particolarmente chiuse. Tuttavia da tempo il regime di Kim Jong-un ha aperto ai viaggi organizzati sotto il controllo del regime dunque è impensabile che anche qui il virus non sia arrivato, tanto più che la Corea del Nord è anch’essa relativamente vicina a Paesi dove il numero di contagi è stato particolarmente elevato. Sempre in Asia fanno eccezione gli “Stan”, ossia Turkmenistan, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan. Anche in questo caso stiamo parlando per lo più di Paesi che retti da governi autoritari ma che non sono del tutto chiusi al mondo esterno. Andando avanti a scorrere la mappa un’altra zona che resta bianca è la Groenlandia. In questo caso possibile spiegarlo con il bassissimo numero di abitanti (56.171) e la scarsa densità di abitanti per chilometro quadrato (una delle più basse del mondo, appena 0,027 abitanti per km²). Ma può anche essere dovuto all’assenza di controlli sanitari, se si considera che il Queen Ingrid’s Hospital di Nuuk con i suoi 156 letti è il più grande di tutta l’aerea. Mancano poi all’appello molti Stati africani. E non si registrano casi in Yemen - già colpito da un’epidemia di colera che ha visto 2 milioni di casi sospetti in meno di 3 anni. Inoltre negli ultimi tre mesi sono decedute almeno 270 persone a causa del virus H1N1. Nel 2019 quasi 6600 persone ne sono risultati infette, inclusi 1600 casi negli ultimi due mesi. E paura anche per la Dengue che ha ucciso 78 giovani sotto i 16 anni. Il tutto in un teatro di guerra in corso da cinque anni. “Covid-19 free” sarebbe anche la Siria, anch’essa teatro di una guerra che proprio oggi entra nel suo decimo anno e Paese dove molte strutture ospedaliere sono state colpite. Tuttavia se le fonti governative non dichiarano alcun caso, l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani voce dell’opposizione, ha scritto che secondo fonti mediche che hanno chiesto di rimanere anonime, ci sono centinaia di casi di contagio e decine di casi di decessi in 4 province siriane. Intanto i voli da Damasco a Baghdad e Teheran sono stati sospesi. I medici contattati dall’Osservatorio sostengono che i contagi sono stati originati da familiari di miliziani iraniani operanti in Siria, che sono arrivati in visita nel paese. Le province colpite sono Damasco, Tartous, Ladhiqia e Homs. (ha collaborato Farid Adly)
Da dire.it l'11 marzo 2020. “Ho utilizzato una chiave ironica perchè sdrammatizzare è importante, ma bisogna allo stesso tempo far capire che non si tratta di un gioco“. Commenta così il regista e attore pornografico, Rocco Siffredi, intervistato dall’agenzia Dire in merito a un tweet diffuso oggi in cui, unendosi a molti artisti, esorta a suo modo le persone a rimanere a casa per evitare ulteriori contagi da Coronavirus. Rocco Siffredi, intanto, fa sapere che l’industria del porno non si è fermata. “Ed è assurdo- dice- che non abbia ancora avuto uno stop. Da circa due mesi, cioè da quando è iniziata questa emergenza, io non giro più. Ma l’industria del porno non ha fatto lo stesso, stranamente. Non si è fermata l’Europa in generale, non si sono fermate Budapest, Praga, Parigi. Tutti gli attori continuano a girare”. D’altronde succede sempre così, racconta Siffredi all’agenzia Dire, quando “iniziano ad uscire i primi casi positivi al Coronavirus diventano tutti isterici, ma prima sembra che il problema non ci riguardi. Questa è la verità”. Il regista e attore pornografico non vuole però fare un appello, per “il semplice motivo che ho capito che funziona così. È assurdo- sottolinea- ma funziona così. La stessa cosa mi chiedo per l’Ungheria, dove abito: perchè ci mettono così tanto a bloccare le scuole e a bloccare tutto come sta succedendo in Italia? Mi aspettavo che anche gli altri Paesi assumessero misure simili, prendendo insegnamento dall’Italia, visto che ci sta passando e che almeno fino ad oggi ci sta rimettendo l’osso del collo. Le persone stanno prendendo il problema troppo alla leggera, poi accade che la sanità non funziona. E lasciamo perdere quella ungherese… Mi domando: perchè bisogna sempre aspettare che uno ci sbatta la testa? L’essere umano è così”, conclude Rocco Siffredi.
Ecco perché la Russia sembra immune dal coronavirus. Paolo Mauri su Inside Over il 12 marzo 2020. L’epidemia di coronavirus Covid-19 che si sta diffondendo a macchia d’olio in Europa e nel mondo sembra aver per il momento graziato un Paese che fa da ponte tra Asia e Vecchio Continente: la Russia. Ad oggi i casi di Covid-19 riportati da quando il contagio si è diffuso sono 20, e di questi solo tre hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero. Praticamente un’isola felice, anzi, un continente felice date le dimensioni del Paese. Merito del caso? Assolutamente no. La Russia da quando è cominciata l’esplosione della malattia in Cina, ha messo in atto tutta una serie di provvedimenti via via più stringenti ma immediatamente efficaci e soprattutto tempestivi.
Da subito, a partire dal 31 gennaio, i viaggi d’affari delle compagnie russe in Cina sono stati temporaneamente sospesi, mentre parallelamente venivano diffusi i primi avvertimenti rivolti a cambiare le abitudini dei cittadini, tipo quella di abbracciarsi e baciarsi. Non proprio come da noi, dove negli stessi giorni la preoccupazione di alcune parti politiche e di alcuni membri del governo erano rivolte al razzismo verso la comunità cinese.
Il 2 febbraio vengono sospesi i collegamenti ferroviari con la Cina compresa la tratta Mosca-Pechino mentre il 3 si prende la decisione di bloccare temporaneamente tutti i viaggiatori ivi provenienti.
Il 6 il Cremlino emana una disposizione per cominciare a registrare la temperatura corporea delle persone che prendono parte ad eventi pubblici mentre il 20 comincia il divieto di ingresso sul territorio della Federazione per tutti i cittadini cinesi e parallelamente vengono istituite delle zone di quarantena per i viaggiatori entrati prima dell’inizio della chiusura della frontiera con la Cina.
Il 27 febbraio i viaggi turistici in Italia, Iran e Corea del Sud vengono sospesi mentre il 28 Mosca sospende i visti di ingresso per i cittadini iraniani. Parallelamente a tutti i viaggiatori provenienti dai suddetti Paesi viene impedito l’ingresso in Russia.
Il 2 marzo nelle scuole dell’area di Mosca viene vietato di tenere corsi di nuoto per prevenire la possibile diffusione del contagio, mentre il 3 nella metropolitana della capitale cominciano i controlli casuali delle temperatura corporea dei passeggeri.
Il 4 marzo viene deciso di interrompere le esportazioni di mascherine, guanti, bendaggi e tute protettive, mentre il 5 l’International Economic Forum di S.Pietroburgo viene cancellato. Via via le maggiori compagnie aeree – Aeroflot e Pobeda – sospendono i collegamenti con i Paesi maggiormente colpiti dal virus.
Il 6 Mosca estende l’obbligo di quarantena per chiunque arrivi da Spagna, Francia, Italia, Germania oltre che dalla Cina, Iran e Corea del Sud. Il 10 l’autorità nazionale per i consumatori raccomanda di effettuare i propri acquisti evitando l’ora di punta e di non prendere i mezzi pubblici o frequentare i grandi centri commerciali.
L’11 marzo viene varato un decreto che vieta gli eventi pubblici con più di 5mila spettatori sino al 10 aprile. Tale provvedimenti comprende manifestazioni sportive, di intrattenimento, pubbliche o altri eventi di massa.
Insomma la Russia ha tempestivamente varato provvedimenti anche molto restrittivi nei riguardi degli stranieri e di chi si è trovato nei Paesi in cui si è sviluppato il contagio, e col passare del tempo ha varato disposizioni per il controllo dello stato di salute della popolazione che in Occidente abbiamo visto solo negli aeroporti, e a volte nemmeno in quelli.
Certamente la Russia nel contenimento dei viaggiatori, almeno di quelli provenienti da Occidente, è stata facilitata anche dal regime sanzionatorio che, purtroppo, ha ridotto di molto i viaggi d’affari, però non bisogna dimenticare che proprio le sanzioni hanno spinto Mosca verso la culla di Covid-19, la Cina, e che Mosca, blindandone i confini che corrono per 4200 chilometri attraverso le sue steppe e istituendo quasi subito dei veri e propri “villaggi di quarantena” come quello a ridosso della città di confine di Blagovechtchensk, sul fiume Amur, ha potuto contenere la diffusione del contagio. La battaglia si è giocata lungo i confini, ovvero gli stessi confini – fisici o aeroportuali – che alcuni propagatori degli ideali globalisti sostengono che non esistano proprio in forza della diffusione del virus: nella regione dell’Amur, oltre ad aver sbarrato i ponti che la collegano con la Cina, i controlli sono serratissimi e i bus che hanno rimpatriato i cittadini russi sono stati messi sotto scorta armata. I medici negli ospedali, inoltre, ricevono la lista di tutti coloro che sono entrati nel Paese ed è stato organizzato un servizio di visite casalinghe. Ovviamente non è tutto oro quello che luccica, e anche in Russia, in quelle regioni di confine con la Cina, nei primi giorni si sono viste scene di assalto alle farmacie per accaparrarsi le mascherine, che però ben presto sono state abbandonate dai russi che ormai non le utilizzano più, proprio grazie alla sensazione di sicurezza data dalle misure prese dal governo.
Le sette potrebbero favorire la pandemia in America. Emanuel Pietrobon su Inside Over l'11 marzo 2020. In Brasile non si può ancora parlare di situazione epidemica, sebbene i casi ufficialmente accertati stiano aumentando di giorno in giorno. L’ultima stima disponibile, del 9 marzo, riferisce di 893 casi sospetti, ma quelli confermati sono soltanto 34, concentrati nella regione di San Paolo. Le caratteristiche del virus, che è estremamente volatile, hanno reso possibile che si espandesse da Wuhan al resto del mondo in poco meno di un mese, perciò la sottovalutazione della sua pericolosità potrebbe far scivolare il gigante sudamericano nel baratro. E in questo contesto ricco di incognite, rischi ed incertezze, un ruolo fondamentale lo stanno giocando, e lo giocheranno, le sette cristiane, proprio come in Corea del Sud.
La risposta delle sette al Covid-19. Porto Alegre, primo marzo. I leader della “Cattedrale Globale dello Spirito Santo”, popolarmente nota come la “Casa dei Miracoli”, organizzano un evento a porte chiuse, ossia per i soli fedeli, teso a dimostrare come combattere il coronavirus con la fede. L’evento viene ampiamente pubblicizzato attraverso manifesti, affissi per le strade, e il nome scelto è molto emblematico: “O poder de Deus contra o coronavirus“, che letteralmente significa “Il potere di Dio contro il coronavirus”. I leader della Casa dei Miracoli, gli auto-proclamati profeti Silvio e Maria Ribeiro, promettono di rendere i fedeli immuni al Covid-19 attraverso un olio speciale, da loro santificato, che verrà dato loro nel corso dell’evento. La segretezza tipica delle sette impedisce alle autorità di venire a conoscenza di ulteriori dettagli, di cosa sia accaduto effettivamente quella sera, se la coppia di presunti profeti abbia domandato ai fedeli, come si presume, del denaro in cambio del vaccino divino. Il ministero pubblico dello stato di Rio Grande do Sul apre un’indagine a carico della coppia, per verificare l’esistenza dei presupporti per procedere alla formalizzazione delle accuse di truffa e abuso della credulità popolare, ma anche per mandare un chiaro segnale al panorama nazionale delle sette evangeliche, che sono ormai le vere protagoniste della scena religiosa brasiliana e sono note per l’organizzazione di controverse messe di guarigione destinate ad ogni tipo di ammalato e portatore di handicap. Sul caso, infatti, è intervenuto anche il ministero della Salute, invitando la popolazione a non cedere alla tentazione di affidarsi alle cure miracolose offerte dai curanderos e dai pastori-profeti che stanno spopolando nel paese. Il rischio che le sette si trasformino in veicoli dell’epidemia è molto forte: è accaduto in Spagna, è accaduto in Francia, ed è accaduto in Corea del Sud.
Il precedente sudcoreano. La Corea del Sud è, attualmente, il paese più colpito dal Covid-19, insieme a Cina, Italia e Iran, ma ciò che la rende unica è il modo in cui l’epidemia è esplosa. Fra il 9 ed il 16 febbraio, la cosiddetta “paziente 31“, partecipa a due funzioni celebrate dal movimento religioso di cui fa parte, la Chiesa di Gesù Shincehonji, decidendo di sottoporsi ad un test diagnostico soltanto con il peggiorare del suo quadro clinico. Quando arriva il responso di positività è troppo tardi: in pochi giorni il numero dei contagiati aumenta nell’ordine delle migliaia, la maggior parte di loro sono seguaci della chiesa di Shincheonji o persone venute a contatto con essi, e nell’intero paese appaiono focolai epidemici. La situazione viene ulteriormente complicata dall’elevato livello di segretezza che caratterizza la setta: i fedeli fanno il voto del silenzio nel momento di entrare a farvi parte, e lo stesso governo, infatti, non dispone di numeri ufficiali, i membri potrebbero essere fra i 250mila e i 500mila, e partecipano attivamente alla vita comunitaria della chiesa, che nel paese poggia su una rete di 1.100 strutture per l’esercizio del culto.
· La Temperatura Corporea.
Da ilmessaggero.it il 14 gennaio 2020. L'assunto che la temperatura normale per un corpo è 37 gradi era vero nel diciannovesimo secolo, quando è stato formulato, ma da allora il corpo umano si è raffreddato, tanto che quella di riferimento è mezzo grado più bassa. Lo afferma uno studio della Stanford University pubblicato dalla rivista eLife. A determinare il valore di 37 gradi era stato nel 1851 il medico tedesco Carl Reinhold August Wunderlich, che si era basato su una serie di misurazioni soprattutto a soldati. I ricercatori americani hanno analizzato tre distinti set di dati sulla temperatura corporea, uno ricavato da veterani dell'esercito con misure prese negli anni tra il 1862 e il 1930, uno risalente agli anni '70 e uno più recente, tra il 2007 e il 2017, per un totale di quasi 700mila misure.
· L’Influenza.
Da "105.net" il 19 febbraio 2020. Con la stagione fredda arrivano anche i malanni. Tosse, raffreddore, febbre: sono moltissimi gli italiani che cadono nella morsa dell'influenza. Prima di ricorrere alla chimica per alleviare i sintomi, ci sono tanti rimedi naturali che possono aiutarci a superare questi momenti di malattia. Una bella spremuta di arance può essere utile per avere un maggiore apporto di vitamina C e guarire più in fretta. Ma non solo, la scienza ci indica un altro rimedio molto piacevole... ma molto, molto piacevole. Secondo uno studio di Manfred Schedlowski, condotto in Svizzera, fare l'amore sarebbe il metodo naturale perfetto per superare l'influenza. Esatto: una bella giornata passata sotto le lenzuola con il proprio partner e addio raffreddore. Il ricercatore ha eseguito dei test su alcune coppie malate e ha visto che il sesso li aiuterebbe a guarire in una percentuale pari al 60%. Fare se facciamo l'amore durante gli stati febbrili, aumenta la produzione di linfociti T, utili per "aggredire e curare" le cellule affette dai virus. Insomma, l'amore è la risposta a tutto... anche all'influenza!
Che cos’è l’influenza stagionale. Agi 20 febbraio 2020. "L’influenza rappresenta un serio problema di sanità pubblica e una rilevante fonte di costi diretti e indiretti per la gestione dei casi e delle complicanze della malattia e l’attuazione delle misure di controllo", ha scritto il Ministero della Salute nel rapporto “Prevenzione e controllo dell’influenza: raccomandazioni per la stagione 2018-2019”. "È tra le poche malattie infettive che di fatto ogni uomo sperimenta più volte nel corso della propria esistenza indipendentemente dallo stile di vita, dall’età e dal luogo in cui vive". Da un punto di vista clinico, come spiega Epicentro (il portale dell’epidemiologia dell’Istituto superiore di sanità), l’influenza "è una malattia respiratoria acuta causata da virus influenzali". È definita "stagionale" perché si presenta generalmente durante il periodo invernale. Dal 1933 – data del primo isolamento – sono stati individuati quattro tipi di virus influenzali (A, B, C e D, tutti della famiglia Orthomixoviridae), ma sappiamo con certezza che solo i primi tre possono colpire gli esseri umani. Tra questi, quelli di tipo A e B sono ritenuti i responsabili dei sintomi – come febbre, mal di testa, mal di gola e tosse – della classica influenza (i virus di tipo C generano al più un raffreddore). Per comprendere l’epidemiologia dell’influenza stagionale bisogna sottolineare un aspetto centrale. Tutti i virus influenzali hanno una "marcata tendenza" a variare, spiega l’Iss, "cioè ad acquisire cambiamenti nelle proteine di superficie che permettono loro di aggirare la barriera costituita dalla immunità presente nella popolazione che in passato ha subito l’infezione influenzale". In parole povere: questi virus mutano in modo da evitare che gli anticorpi creati dalle precedenti versioni del virus siano ancora efficaci. Questa peculiarità ha due conseguenze dirette: da un lato la composizione dei vaccini influenzali va aggiornata ogni anno; dall’altro è fondamentale l’attività di sorveglianza per monitorare stagionalmente la diffusione della malattia e le sue caratteristiche, come il numero dei contagiati.
Quanti sono i contagiati. Ogni stagione invernale, InfluNet (il sistema nazionale di sorveglianza epidemiologica e virologica dell’influenza, coordinato dal Ministero della Salute con la collaborazione dell’Iss) pubblica settimanalmente sul suo sito i risultati del monitoraggio a partire dalla settimana n. 42 di un anno (metà ottobre) alla settimana n. 17 dell’anno seguente (fine aprile). In base ai dati più aggiornati, dal 14 ottobre 2019 al 9 febbraio 2020 – dunque a quasi i due terzi del periodo monitorato – il numero di casi simil-influenzali è stato di 5.018.000 (il rapporto completo è consultabile nel link in fondo alla pagina). Ad oggi le regioni maggiormente colpite sono la Val D’Aosta, l’Umbria, le Marche, il Lazio, l’Abruzzo, il Molise e la Basilicata. Il picco stagionale è stato raggiunto nella quinta settimana del 2020.
Al termine della stagione influenzale 2018-2019, i casi erano stati 8.104.000, tra il 2017 e il 2018 8.677.000 e tra il 2016 e il 2017 5.441.000. Questi numeri ci danno un’idea della portata del fenomeno, ma non riguardano tutti i reali casi di contagio. "Si sottolinea che l’incidenza dell'influenza è spesso sottostimata poiché la malattia può essere confusa con altre malattie virali e molte persone con sindrome simil-influenzale non cercano assistenza medica", ha scritto il Ministero della Salute nelle sue raccomandazioni. Secondo i dati dell’Iss, è possibile dire che ogni anno le sindromi simil-influenzali coinvolgono circa il 9 per cento dell’intera popolazione italiana, "con un minimo del 4 per cento, osservato nella stagione 2005-06, e un massimo del 15 per cento registrato nella stagione 2017-18". Le fasce più colpite della popolazione sono quelle in età pediatrica (0-4 anni e 5-14 anni) e con 65 anni e oltre. Secondo il Ministero della Salute, che riporta i dati del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc), ogni anno in Europa si stimano circa 50 milioni di casi sintomatici di influenza, e fino a un miliardo nel mondo, secondo dati dell’Oms.
Ma quante sono le morti in Italia causate dall’influenza stagionale? I numeri sui morti: "In Italia i virus influenzali causano direttamente all’incirca 300-400 morti ogni anno, con circa 200 morti per polmonite virale primaria", ha spiegato a Pagella Politica Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore all’Università degli Studi di Milano. "A seconda delle stime dei diversi studi, vanno poi aggiunti tra le 4 mila e le 10 mila morti “indirette”, dovute a complicanze polmonari o cardiovascolari, legate all’influenza". I virus influenzali possono infatti creare delle complicazioni – soprattutto in adulti e bambini con malattie gravi, persone con più di 65 anni, donne in gravidanza e alcune categorie professionali, come gli operatori sanitari – che aumentano il rischio di morte. "L’influenza fa crescere la temperatura corporea, aumenta la gittata cardiaca, rende più difficile la respirazione, e gli studi mostrano che questo, per esempio, ha una correlazione con un rischio di infarto maggiore", ha spiegato a Pagella Politica Pregliasco. "Chi respira già male può prendersi la polmonite per colpa dell’influenza, per esempio quella batterica secondaria". In generale, spiega l’Iss, si stima comunque che il tasso di letalità dell’influenza stagionale (ossia il rapporto tra morti e contagiati) sia inferiore all’uno per mille.
Il confronto con il COVID-19. Possiamo quindi dire che l’influenza stagionale è più pericolosa del nuovo coronavirus (ora chiamato SARS-CoV-2, che causa la malattia ribattezzata dall’Oms COVID-19), considerato che solo in Italia i morti per la prima sono ogni stagione più alti di quelli registrati finora in Cina a causa del secondo? A livello generale la risposta, che come vedremo si basa per ora su dati provvisori, è “no”. Per quanto riguarda l’Italia, invece, la risposta è positiva. "L’influenza stagionale, in questo momento in Italia, è un problema ed è l’unico problema che c’è perché il nuovo coronavirus non ce lo abbiamo", ha sottolineato Pregliasco. Ma questo dipende dal fatto che in Italia non si è diffuso il nuovo coronavirus. Se guardiamo ai numeri, provvisori, le cose cambiano. Abbiamo visto nell’introduzione che su oltre 73.300 contagiati da SARS-CoV-2, i morti per COVID-19 sono stati 1.870. Questo lascerebbe suggerire che il tasso di letalità del nuovo coronavirus sia del 2,5 per cento circa, dunque 25 volte più alto di quello dell’influenza. Tuttavia è ancora decisamente troppo presto per trarre conclusioni in proposito. I dati alla base di questo calcolo sono infatti non definitivi e, secondo gli esperti, probabilmente incompleti. "Si parla di numeri altamente provvisori", ha sottolineato ancora Pregliasco. "Per esempio, in Cina non abbiamo l’esatto valore del denominatore, ossia dei contagiati, che potrebbero essere molti di più. Quella che si ha adesso sulla mortalità è quasi sicuramente una sovrastima". Insomma non si può escludere che il tasso di letalità del coronavirus, alla fine, non sia poco più alto da quello di una comune influenza stagionale. La differenza però è che mentre il primo non è diffuso in Italia – ci sono solo pochissimi casi e attentamente monitorati – la seconda sì. Ad oggi, dunque, il nuovo coronavirus in Italia non è pericoloso, e come spiega l’Iss, sebbene i sintomi lievi del COVID-19 siano molto simili a quelli dell’influenza stagionale, nel nostro Paese non c’è bisogno di fare allarmismo. Anche se la situazione resta grave e come tale va affrontata a livello internazionale, per quanto riguarda il controllo e la prevenzione, in Italia sintomi come febbre e tosse sono attribuibili nella stragrande maggioranza dei casi all’influenza, e nella restante parte ad altre malattie. "Il problema che pone il nuovo coronavirus è di tipo potenziale perché uno scenario possibile per il futuro è quello pandemico – ha sottolineato Pregliasco – in cui venga contagiata una buona parte della popolazione". Ma questo, appunto, è una eventualità, evitabile se per esempio si riuscirà a contenere il contagio, concentrato attualmente in Cina.
Conclusione. Secondo le stime del Ministero della Salute e dell’Istituto superiore della sanità, in Italia ogni anno circa il 9 cento della popolazione è colpito da sindromi simil-influenzali, con un numero di morti che oscilla tra i 300 e i 400 decessi diretti dovuti all’influenza, e tra i 4 mila e i 10 mila decessi tra chi sviluppa complicanze gravi a causa dei virus influenzali. Il tasso di letalità (ossia il rapporto tra morti e contagiati) si attesterebbe quindi intorno allo 0,1 per cento (l’uno per mille), mentre un discorso diverso vale per il nuovo coronavirus, che ad oggi non è presente in Italia. Per quanto ne sappiamo finora, i dati sul SARS-CoV-2 ci dicono che il suo tasso di letalità potrebbe aggirarsi intorno al 2,5 per cento, ma è ancora troppo presto per avere conclusioni epidemiologiche solide, dal momento che non è soprattutto chiaro quanti effettivamente siano i contagiati totali. Potrebbe infatti esserci un numero molto elevato di persone che non si sono recate negli ospedali, avendo accusato solo dei sintomi lievi e facendo affidamento a rimedi tradizionali, soprattutto nelle prime fasi di diffusione del virus. Ad oggi, in Italia la pericolosità del nuovo coronavirus è comunque solo potenziale, mentre quella dell’influenza stagionale (seppure con numeri sulla letalità più bassi) è reale. Per questo motivo, soprattutto per le categorie più a rischio, sono raccomandate le vaccinazioni.
Influenza, quasi tre milioni di casi. È possibile vaccinarsi fino a fine gennaio: dopo gli otto milioni di malati della stagione scorsa gli esperti insistono nel raccomandare la protezione, soprattutto, ma non solo, per le categorie a rischio. Laura Cuppini il 15 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera.
Picco in arrivo. Brusco aumento dei casi di influenza, soprattutto nei giovani, adulti e anziani. Tra il 6 e il 12 gennaio i contagi sono stati 374mila, per un totale, da metà ottobre, di circa 2.268.000 persone a letto, con 6,2 casi per mille assistiti (bollettino di sorveglianza Influnet, a cura dell’Istituto Superiore di Sanità). Il numero dei colpiti si avvicina così a 3 milioni di casi. Nei bambini sotto i 5 anni incidenza pari a 10,7 casi per mille assistiti: alta ma non in aumento rispetto alla scorsa settimana, come accade invece per le altre categorie. Piemonte, Lombardia, Liguria, Umbria, e Lazio sono fra le regioni più colpite. Il bollettino FluNews, che monitora i casi gravi, indica che dall’inizio della sorveglianza 20 persone sono state ricoverate in terapia intensiva, per lo più persone anziane o con altre malattie croniche. Di questi, 4 sono deceduti. Intanto, dopo il lieve calo dovuto alla chiusura delle scuole nelle feste natalizie, il numero dei contagi continua a salire velocemente e, come riporta il bollettino dell’Iss, «l’andamento dell’epidemia è simile a quello della stagione 2018-19». Il picco deve ancora arrivare: l’anno scorso si era verificato tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio. «Ci attendiamo maggiori difficoltà dopo metà gennaio - spiega Salvatore Manca, presidente della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza -. Ricordiamo che è sconsigliato andare al Pronto Soccorso per una febbre a 39-40 gradi, se non associata a gravi difficoltà respiratorie». Di pari passo con i contagi crescono le complicanze che richiedono il ricovero in terapia intensiva. «C’è un rapporto stretto e poco noto tra influenza e malattie del cuore - osserva Ciro Indolfi, presidente della Società Italiana di Cardiologia -. L’influenza può scatenare un infarto del miocardio, sia perché rappresenta uno stress per il cuore, sia perché aumenta l’infiammazione scatenando una serie di eventi che possono portare all’occlusione di una coronaria». Il Ministero della Salute consiglia la vaccinazione in tutti i soggetti sopra i 65 anni o con malattie come asma e cardiopatie: è possibile vaccinarsi fino a fine gennaio e la protezione si attiva 10 giorni dopo l’iniezione.
La dieta anti-freddo. Contro il freddo (e il rischio influenza), oppure per chi è già malato, la Coldiretti ha messo a punto una dieta ad hoc. Aumentare le calorie, iniziando la mattina con latte, miele o marmellata e portando poi a tavola zuppe, verdure, legumi e frutta. Un regime alimentare che aiuta a rafforzare, con l’apporto di vitamine, le difese immunitarie. Oltre a frutta e verdura, ricche di antiossidanti, nella dieta non devono mancare latte, uova e alimenti ricchi di elementi probiotici: yogurt e formaggi, come il parmigiano. L’aglio contiene una sostanza, l’allicina, particolarmente attiva nella prevenzione. Fondamentale assumere verdure di stagione, soprattutto quelle ricche di vitamina A (spinaci, cicoria, zucca, ravanelli, zucchine, carote, broccoletti), perché danno il giusto quantitativo di sali minerali e vitamine antiossidanti che sono di grande aiuto per combattere le conseguenze dello stress. Ottimi anche cipolle e aglio, possibilmente crudi, per le loro proprietà antibatteriche. Via libera ai piatti a base di legumi (fagioli, ceci, piselli, lenticchie, fave secche), perché contengono ferro e sono ricchi di fibre che migliorano la funzionalità intestinale. Per la frutta, di grande importanza per il contenuto di vitamina C è il consumo di frutta di stagione come kiwi, clementine e arance.
Malattia banale? Solo quattro italiani su cento, tra gli over 50, hanno paura dell’influenza. Ritenuta una malattia banale, non lo è affatto: nella stagione scorsa (2018-19) ci sono stati 800 casi di pazienti con complicanze gravi e 200 decessi. Di influenza e dei suoi possibili effetti si è parlato al Corriere della Sera, in occasione di un incontro aperto al pubblico con alcuni tra i massimi esperti del settore. La campagna vaccinale è attiva e l’auspicio è che la copertura possa superare il 53% dello scorso anno (dato relativo agli ultra 65enni).
Ci fidiamo del vaccino? Da una recente indagine Censis-Sanofi Pasteur tra i connazionali con più di 50 anni sembra che nei confronti del vaccino ci sia ancora una certa esitazione: a fronte del 32,7% che afferma di fidarsi molto, infatti, il 53,2% si fida «abbastanza», mentre il 14,1% poco o per niente. Eppure molti (53%) sanno che l’influenza può diventare una malattia grave negli anziani e nei malati cronici.
Bambini e anziani. «Si tratta di una patologia a basso rischio specifico, ma può causare complicanze serie in soggetti fragili, bambini piccoli e over 65» ha sottolineato Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università degli Studi di Milano e direttore sanitario dell’Istituto Ortopedico Galeazzi, tra i relatori dell’incontro. «La scorsa stagione è stata pesante, con otto milioni di contagi (il 13,6% della popolazione) - ha aggiunto Antonino Bella, responsabile della rete InfluNet dell’Istituto superiore di sanità -. Sono stati colpiti soprattutto i bambini sotto i 5 anni (37%) e “solo” il 6% di ultra 65enni, che però sono i soggetti con maggiori e più gravi complicanze». L’antibiotico, ormai è noto, è del tutto inutile contro l’influenza di origine virale.
Categorie a rischio. Il contagio avviene in modo facile e rapido, per via respiratoria, e il vaccino rappresenta l’unico modo per proteggersi. La campagna del Ministero della Salute offre l’iniezione gratuitamente alle cosiddette «categorie a rischio»: persone dai 65 anni in su, malati cronici, donne in gravidanza, operatori sanitari e insegnanti.
Polmonite e infarto. «Il virus dell’influenza è aggressivo - ha affermato Francesco Blasi, direttore del reparto di Pneumologia all’Ospedale Maggiore Policlinico di Milano -. Può evolvere in polmonite, sia virale che batterica (quando si associa a stafilococco aureo o pneumococco). E ricordiamo che la polmonite ha un tasso di mortalità elevato: del 10 per cento, se trattata in ospedale; del 50 per cento, se richiede il ricovero in Terapia intensiva. Non solo: l’influenza è associata a un aumento del rischio cardiovascolare, in particolare di infarto miocardico e aritmie maggiori. Ogni anno il picco influenzale è seguito da un picco di infarti».
Formare uno «scudo». Chi è maggiormente esposto alla probabilità di sviluppare forme gravi? «Le persone con diabete, malattie croniche respiratorie (asma, broncopneumopatia cronica ostruttiva), insufficienza renale - ha detto Blasi -, ma anche gli obesi e i soggetti denutriti. Le donne incinte hanno un rischio aumentato di infezioni e vanno protette (anche per tutelare il bambino), così come gli anziani, il cui sistema immunitario è indebolito a causa dell’età. Non solo: negli ultra 65enni il vaccino risulta meno efficace che negli altri soggetti, dunque il suggerimento è che si immunizzino anche i componenti della famiglia. Stesso discorso vale per i bambini piccoli: genitori, fratelli, zii e nonni dovrebbero formare uno scudo, vaccinandosi».
Come vaccinarsi. I l virus dell’influenza non si replica restando uguale a se stesso. Ogni anno ci troviamo di fronte a mutazioni nella struttura del patogeno, che possono risultare molto «efficaci» nel contagiare un alto numero di persone. Il vaccino viene «costruito» in base ai virus circolanti nell’altro emisfero, dove l’influenza arriva sei mesi prima. Cosa può fare chi vuole evitare di ammalarsi? «Rivolgersi al medico di base - spiega Gabriella Levato della Federazione Italiana Medici di Medicina Generale -. In Lombardia il 75% dei medici di famiglia aderisce alla campagna di prevenzione. Negli altri casi bisogna recarsi al centro vaccinale più vicino e prendere un appuntamento. Chi non rientra nelle categorie a rischio può acquistare il vaccino in farmacia e farselo somministrare da un medico».
Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. Laura Pellegrini 25/02/2020 su Notizie.it. Fare l’amore, il miglior rimedio per combattere l’influenza: lo dice la scienza. La scienza non ha alcun dubbio. secondo un recente studio, infatti, per combattere l’influenza stagionale il rimedio migliore è fare l’amore. Uno studio svizzero condotto dal professore Manfred Schedlowski,rivela appunto che un momento trascorso sotto le coperte con il proprio partner allevia fino al 60% i sintomi influenzali. Un rimedio naturale e del tutto piacevole che può aiutare milioni di italiani che ogni anno devono fare i conti con l’influenza. Fare l’amore aiuta a combattere l’influenza: secondo uno studio condotto in Svizzera, infatti, passare del tempo in intimità con il partner è il rimedio naturale più efficace contro i malanni di stagione. Manfred Schedlowsky, il ricercatore che si è occupato di effettuare la ricerca ha scoperto che fare l’amore permette di ridurre fino al 60% il malessere influenzale. Inoltre, è qualcosa a cui tutti gli esseri umani non possono rinunciare e che porta grande piacere. Fare l’amore, insomma, fa bene sempre, anche quando la temperatura corporea denota uno stato febbrile. L’atto in sé aumenterebbe – secondo gli studi scientifici – la produzione di cellule T (o linfociti T), in grado di combattere le cellule affette dal virus. In questo modo aiuterebbe il fisico a superare i momenti di malattia e il malessere influenzale. Sotto le lenzuola, dunque, le alte temperature corporee e la febbre posso essere combattute con dei momenti di intimità da trascorrere con il partner. Nulla di meglio per combattere l’influenza.
"Sono stati tutti requisiti". La verità (nascosta) sui vaccini antinfluenzali. L'autunno caldo del Covid. A due settimane della campagna anti-influenzale i vaccini sono introvabili in farmacia. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Mercoledì 16/09/2020 su Il Giornale. “Non possiamo dire né quando arriva né se arriva”. “Ancora niente”. “Non ne sappiamo nulla”. “Mistero della fede”. A due settimane dall’inizio della campagna anti-influenzale, il grande assente è proprio il vaccino. Da ogni parte governo, ministri e esperti suggeriscono di proteggersi dalla classica influenza per evitare spiacevoli incastri col Covid-19. Ma nelle reti di vendita delle farmacie non è possibile ancora prenotarlo. “Dicevano di iniziare a ottobre, ma la produzione è stata tutta ritirata dalla parte pubblica e non ci hanno ancora mandato le dosi - sussurra un farmacista milanese - E questo non è l’anno giusto per arrivare in ritardo”. Due giorni fa la Conferenza Stato-Regioni ha raggiunto un accordo per l’acquisto di 17 milioni di dosi contro i 10 milioni dell’anno scorso. L’obiettivo è quello di alleviare il sovraccarico negli ospedali e evitare i “sintomi confondenti”, impedendo così che milioni di persone chiedano un tampone per poi scoprire che la febbre è colpa della banale influenza. Il ministro Speranza lo disse a luglio: “Quest’anno sarà più importante rispetto agli altri” visto che “i sintomi del coronavirus sono simili”. Lo dimostra la cronaca dei tragici giorni di marzo. E la drammatica storia di Giovanni, ancora mai raccontata e contenuta nel “Libro nero del Coronavirus. Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l’Italia” (edito da Historica Edizioni e in uscita a inizio ottobre). A metà febbraio, a Codogno, Giovanni inizia ad accusare i primi mal di testa. Due giorni dopo arriva la febbre e decide di farsi visitare dal medico di base. “Ho fatto l’anti influenzale”, gli fa notare. Ma il dottore gli spiega che anche altri pazienti si sono presentati in ambulatorio e che, pur avendo fatto il vaccino contro l’influenza, presentano gli stessi sintomi. Nessuno in quel momento pensa al Covid. Possibile che l’antidoto non abbia funzionato? Pochi giorni dopo Giovanni si aggrava. E muore. Oggi però le cose sono cambiate. I medici di base sanno che il Covid circola. Ecco perché vaccinarsi può diventare utile: se una persona che ha fatto l’anti influenzale si presenta con gli stessi sintomi, allora sarà più facile sospettare l’infezione da coronavirus. Per questo il ministero della Salute ha deciso di ampliare la platea di chi lo riceverà gratuitamente: tutti gli over 60 (e non 65, come in passato), persone con determinate patologie e lavoratori essenziali come medici e forze dell’ordine. Il problema è che la paura delle Regioni di restare senza vaccini per i soggetti fragili rischia di tagliare fuori i milioni di persone che non rientrano in queste categorie. Che ad oggi non solo non possono ottenere il vaccino gratis, ma non riescono nemmeno a comprarlo. Delle 17 milioni di dosi accaparrate dalle Regioni, infatti, solo 250mila (l’1,5%) sono state riservate alle farmacie e quindi saranno acquistabili dai privati. “Se fate i conti - ci dice una dottoressa - fanno si e no 13 fiale a farmacia”. Certo molto dipenderà dalle scelte delle singole Regioni, che potrebbero aumentare la quota per i privati. Ma siamo comunque lontani dai livelli del passato. “Noi solito ne ordinavamo 200 a inizio stagione - raccontano a Cernusco sul Naviglio - ma ora le regioni hanno preso tutte le fiale: è ridicolo”. Provare a prenotarle neppure a parlarne: nessuno può vendere merce che non ha in magazzino. Secondo i conti di Federico Gelli, presidente di Fondazione Italia in Salute, il fabbisogno “abituale di antinfluenzale acquistate dai cittadini in farmacia è di 800mila dosi”. Il triplo di quelle attualmente disponibili, anche se ti Federfarma, Fofi e Assofarm stimano la richiesta post-Covid addirittura tra 1,2 e 1,5 milioni. Il risultato sarà una battaglia all’ultimo sangue tra lavoratori, bambini, ragazzi. Le scuole chiedono ai genitori di vaccinare i figli. Pediatri e medici di famiglia consigliano lo stesso. E i lavoratori vorrebbero proteggersi per evitare la sovrapposizione diagnostica (e inutili quarantene). Ma come fare? “Lei provi a chiamare ogni giorno - suggeriscono le farmacie ai clienti - non possiamo garantire nulla, ma sa come funziona: chi prima arriva, meglio alloggia”. Gli effetti sono paradossali: nell’anno del Covid, infatti, non solo potrebbe non aumentare il numero di persone vaccinate (come auspicabile), ma ad oggi le farmacie non riuscirebbero neppure a soddisfare le richieste di chi normalmente si vaccina. “È incoerente sensibilizzare i cittadini verso una buona pratica e poi non consentire di seguirla", dice il presidente di Farmacieunite, Franco Gariboldi Muschietti. Come dargli torto? Intanto l’autunno si avvicina. Il ministero aveva chiesto di anticipare all'inizio di ottobre tutte le procedure. Ma il tempo stringe, sia per chi riceverà il vaccino gratis dalle Asl sia per tutti gli altri. Alcuni genitori, sentiti dal Giornale.it, assicurano di aver chiesto informazioni ai pediatri senza ricevere risposta. “Non li hanno dati neppure a loro e neanche loro sanno nulla”, spiegano nelle farmacie. “La situazione è allarmante. Siamo in un limbo e questo ci fa arrabbiare. In un anno particolare come questo, dovevano essere più rapidi”. Senza contare, peraltro, che la concentrazione delle dosi nella mani delle Asl rischia di rallentare i tempi. “Ci saranno code interminabili - dice una farmacista a Milano - Non sarebbe stato meglio sfruttare le 16mila farmacie sparse in tutta Italia?”. Il Lazio ci sta pensando, e ha chiesto al Cts se può far somministrare il vaccino direttamente dai farmacisti. Ma un po’ ovunque gli addetti ai lavori restano scettici: “Magari qualcosa cambierà, ma io ne dubito". Aspetta e spera.
Milena Gabanelli il 15 settembre 2020 su Il Corriere della Sera. Dai resoconti dei bollettini che da marzo ci aggiornano sul numero di contagi, ricoveri e morti, abbiamo capito che durante i mesi estivi la situazione è diventata meno grave. I dati del Sistema di sorveglianza sulla mortalità giornaliera ce lo confermano: se tra il 25 e il 31 marzo 2020, nel momento più drammatico, in 19 città-tipo del Nord Italia morivano al giorno in media 280 persone (contro le 130 dello stesso periodo dei 5 anni precedenti), quest’estate ci siamo riallineati alle statistiche del mese di luglio: 110 decessi giornalieri. Per il momento, dunque, non c’è più quella che, in gergo tecnico, viene definita «mortalità in eccesso», che confronta il totale dei deceduti fra presente e passato, non solo quelli con il tampone positivo. Quindi, al di là dello scontro tra gli scienziati più prudenti e altri che sostengono che la fase epidemica da Covid-19 è praticamente finita, qual è oggi il reale impatto del virus nel nostro Paese? Dopo avere esaminato decine di statistiche degli ultimi mesi (bollettini della Protezione civile, tabelle Istat, studi scientifici internazionali, analisi dell’Istituto superiore di Sanità e del ministero della Salute), ecco tutti i numeri che fotografano quanto colpisce il Covid-19, e quali sono le differenze con l’influenza in arrivo nella stagione autunno-inverno.
Le probabilità di morte: da marzo a oggi. Il primo dato riguarda la probabilità di morte per i pazienti che finiscono ricoverati in ospedale, quindi i più gravi tra quelli infetti: tra marzo-aprile è stata del 28,9%, tra maggio e giugno del 15,3%, tra luglio e agosto del 4,9%. La mortalità degli ospedalizzati per Covid, quindi, decresce nel tempo. Le spiegazioni sono molteplici: l’età media dei casi più bassa (34 anni contro gli oltre 60 di inizio epidemia), ospedali non sotto stress, ricoveri tempestivi che consentono ai pazienti di arrivare in ospedale in migliori condizioni e di iniziare subito anche i trattamenti, conoscenze sulle cure più avanzate.
Le differenze con l’influenza. Possiamo in questo momento considerare il virus come una normale influenza? Dopo il disastro che è successo la risposta è no, ma poiché c’è ancora chi non ritiene indispensabile indossare la mascherina ed evitare assembramenti, il confronto può essere utile. Partiamo dai sintomi, quelli più diffusi sono simili: febbre, tosse, respiro corto, dolore ai muscoli, stanchezza, disturbi gastrointestinali quali la diarrea. Invece perdita del gusto e dell’olfatto indirizzano verso il Covid. Tempi di incubazione: per l’influenza è più breve, da uno a cinque giorni, contro una media di quattro-cinque per il Covid. Statisticamente ogni infetto contagia al massimo 2 persone, il Covid fino a 3,8. L’influenza dura fra 3 e 5 giorni e durante l’intera stagione finisce in ospedale tra l’1 e il 2% degli ammalati. Il Covid dura mediamente da una a due settimane e solo nel periodo di picco (marzo e aprile) è stato ricoverato fra il 15 e 20% dei contagiati. Le conseguenze del coronavirus sui pazienti dimessi sui polmoni, sistema nervoso, cuore, apparato circolatorio, possono trascinarsi per mesi.
L’incidenza sulla popolazione a confronto. L’ influenza colpisce il 10% della popolazione italiana, con 6 milioni di casi. Il numero di decessi è mediamente di 8.000 ogni anno, ma varia a seconda della virulenza stagionale: se è molto forte, come è successo nel 2015 e 2017, i morti sono stati 24.000. Il calcolo per il Covid-19 è più complesso, poiché il numero di decessi dei bollettini ufficiali calcolano soltanto i pazienti sui quali è stato eseguito un tampone. Occorre quindi considerare l’eccesso di mortalità, che tra marzo e aprile è di 45.186 morti (variando in modo rilevante da città a città). Un numero che comprende anche gli effetti collaterali, ovvero i decessi di chi non ha potuto curarsi in tempo perché gli ospedali erano pieni.
Come il Covid ha colpito le città. In quanti hanno contratto il Covid, invece, è ancora oggi difficile stabilirlo con certezza: nei mesi più difficili dell’epidemia i tamponi sono stati eseguiti solo ai ricoverati, e tranne l’ormai nota eccezione di Vo’ Euganeo, in quei mesi non erano considerati gli asintomatici, e spesso neppure chi aveva sintomi, perché restava a casa. I risultati dell’Istat su 65 mila test sierologici, eseguiti tra il 25 maggio e il 15 giugno per capire quanti italiani sarebbero stati colpiti dal virus, parlano di quasi 1,5 milioni di italiani infettati (2,5%). Invece l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), che prende in considerazione i risultati di test sierologici eseguiti su larga scala a livello europeo, arriva a stimare 3,9 milioni di infetti in Italia (6,5%). Una differenza che la dice lunga sulla difficoltà di avere numeri certi in materia di Coronavirus. In ogni caso, partendo da questi dati, e messi a confronto con quelli dell’influenza, si ha un quadro chiaro sulla mortalità e la letalità del virus. La mortalità dell’influenza (percentuale di decessi sul totale della popolazione), è dello 0,01- 0,04% contro lo 0,07% del Covid. La letalità (percentuale di decessi sul numero degli infetti) è dello 0,1%-0,4% dell’influenza contro l’1-3% del Covid. Detto con parole più semplici: sulla base delle stime dei mesi clou dell’epidemia, il Coronavirus è stato dieci volte più letale dell’influenza. Significa che senza nessun intervento, puntando all’immunità di gregge, ovvero fino all’l’80% della popolazione contagiata, i morti sarebbero stati ad oggi 700.000 in più. Il calcolo è realizzato utilizzando le stime più al ribasso, con una letalità all’1%: ci saremmo dovuti attendere 556.000 morti dirette a cui si sarebbero aggiunte circa 150.000 morti indirette causate da mancanza di pos