Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ABRUZZO

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

TUTTO SULL'AQUILA E L'ABRUZZO

QUELLO CHE NON SI OSA DIRE

GLI AQUILANI E GLI ABRUZZESI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!?

 

Quello che gli Aquilani e gli Abruzzesi non avrebbero mai potuto scrivere.

Quello che gli Aquilani e gli Abruzzesi non avrebbero mai voluto leggere. 

di Antonio Giangrande

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

PARLIAMO DI TERREMOTI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

LE DONNE ABRUZZESI.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

TERREMOTO: I 27 PROCESSI TRA CROLLI, RICOSTRUZIONE E INFILTRAZIONI.

IL MALE DELL'AQUILA? GLI AQUILANI.

ABRUZZESI ALLA RISCOSSA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

TERREMOTO: VERGOGNA!!! IL VERGOGNA ALLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE DEGLI SCIENZIATI, NON E’ CHE E’ SOLO QUESTIONE MONETARIA ATTINENTE I RISARCIMENTI?

ABRUZZO A LUCI ROSSE.

POVERO ABRUZZO!

MAGISTRATI: MACCARONE E SCHETTINI, FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA.

L’AQUILA MASSONE.

ABRUZZO MAFIOSO.

OTTAVIANO DEL TURCO - STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA’.

LE RISATE SULL'AQUILA.

TERREMOTO DELL’AQUILA: CONDANNATI I MEMBRI DELLA “COMMISSIONE GRANDI RISCHI”.

Terremoto, la santa truffa.

POST SISMA: LA POLIZIA PROTESTA.

EDILIZIOPOLI E TERREMOTO.

DOSSIER ABRUZZO: MAFIA E CORRUZIONE.

SCANDALO CONCORSI PUBBLICI.

MAGISTROPOLI IN ABRUZZO.

LA SUA PROVINCIA.

PARLIAMO DI CHIETI

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

LA SENTENZA DELLO SCANDALO.

CHIETI E LA MASSONERIA.

CONCORSOPOLI. ESAMI E CONCORSI PUBBLICI TRUCCATI.

PARLIAMO DI PESCARA

VERGOGNE IN TV. MULTA AL QUESTORE TRA STRISCIA E LE IENE.

DINASTOPOLI. LE DINASTIE DI PESCARA.

MAGISTROPOLI. IN CHE MANI SIAMO. QUANDO I BUONI TRADISCONO.

PESCARA E LA MASSONERIA.

PESCARA E LA MAFIA.

CONCORSOPOLI. SCANDALO CONCORSI PUBBLICI.

PARLIAMO DI TERAMO

VIGILI URBANI. CI VUOLE CORAGGIO A PARLARNE.

TERAMO MAFIOSA.

TERAMO E LA MASSONERIA.

MAGISTROPOLI. MAGISTRATI INADEGUATI.

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

ABRUZZO. GIUSTIZIERI, TERREMOTO E VALANGHE. HOTEL RIGOPIANO. I MORTI SONO STATI UCCISI.

Vendetta di Vasto, i farmaci e l'arma. E quella cupa scoperta sull'eredità, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. "Ho sbagliato, mi sono rovinato la vita". Lo ripete di continuo Fabio Di Lello, lo ha ripetuto ieri davanti al suo avvocato che è andato a trovarlo in carcere, dove è rinchiuso in isolamento dopo che ha freddato con tre colpi di pistola Italo D'Elisa, il 22enne che a luglio scorso aveva travolto e ucciso in un incidente stradale la moglie di Di Lello, Roberta Smargiassi. In cella Di Lello è apparso confuso e dispiaciuto, ma è riuscito comunque a ricostruire con il suo legale che cosa gli sia passato nella testa quando ha esploso quei colpi con la sua calibro 9: "È successo tutto in modo imprevedibile - ha detto al suo avvocato, riportato dal Corriere della sera - Non volevo uccidere. Stavo tornando con la mia macchina dal campo di calcio del Cupello. A un certo punto ho visto il ragazzo in bicicletta. Veniva in senso opposto, ci siamo guardati". Di Lello aveva tirato dritto, ha visto però il ragazzo fermarsi al bar, così ha parcheggiato ed è sceso dall'auto. Di prima intenzione Di Lello sostiene di non aver avuto nessuna intenzione di uccidere, voleva solo parlare con quel ragazzo che da quel giorno ritiene che lo provocasse ad ogni occasione. Cosa facesse per provocarlo, però, non ha mai saputo spiegarlo. E così è successo di nuovo quando si è avvicinato l'ultima volta: "Mentre stava tornando a riprendere la bici, mi sono avvicinato a lui. Quando mi ha visto ha fatto il provocatore, come sempre. Non ci ho visto più. Sono tornato in macchina, ho preso la pistola e l'ho ucciso". Da quel tragico incidente che gli ha strappato via la moglie, Di Lello aveva cominciato una cura psichiatrica, assumeva psicofarmaci eppure a settembre gli è stato permesso di comprare una pistola, con regolare porto d'armi. Secondo gli inquirenti, fino a quel momento non c'era il minimo sospetto che potesse arrivare a un gesto estremo come quello. I sospetti che Di Lello avesse premeditato l'omicidio aumentano con l'ultima scoperta portata in procura dall'avvocato della famiglia della vittima, Pompe Del Re: "Lo scorso primo dicembre - ha detto l'avvocato - Fabio Di Lello si è spogliato di tutti i suoi beni per intestarli ai genitori. Questo deporrebbe a favore della premeditazione del gesto. Potrebbe averlo fatto per non essere aggredito nel patrimonio dopo il delitto che stava forse meditando".

Tragedia di Vasto, il testimone: lo scambio di battute tra Di Lello e D'Elisa prima della sparatoria, scrive il 4 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. A Vasto si celebrano i funerali di Italo D'Elisa, il 22enne ucciso a colpi di pistola per vendetta da Fabio Di Lello, l'uomo che aveva perso la moglie Roberta, travolta e uccisa. E nelle ore del cordoglio emergono nuovi dettagli sulla vicenda. Dai verbali, certo, ma anche da un testimone oculare citato da Il Messaggero, il quale non solo ha assistito la sparatoria, ma ha visto e soprattutto udito ciò che la ha preceduta. Di Lello avrebbe incrociato D'Elisa, che - pare - gli avrebbe riservato uno sguardo di sfida. Quantomeno gli sguardi si sono incrociati, come non accadeva da tempo. A quel punto Di Lello lo ha apostrofato: "Hai ancora il coraggio di farti vedere in giro?". La risposta del ragazzo: "Lasciami stare, non puoi farmi nulla". Pochi istanti dopo i tre colpi di pistola, fatali, davanti al Cafè and wine bar di Viale Perth. Di Lello, insomma, avrebbe sfruttato il primo momento, o quasi, in cui era riuscito a fronteggiare Italo, che da mesi, vittima di una campagna d'odio, non si faceva vedere in città. Dopo lo scambio di battute di cui vi abbiamo dato conto, Fabio sarebbe tornato alla sua auto per prendere la pistola, con la quale ha poi ucciso a sangue freddo Italo, che era un volontario della Protezione civile (da qui, la pettorina che si vede nelle foto).

Tragedia di Vasto, Fabio Di Lello aveva un complice che lo ha avvertito: "Italo è al bar", scrive il 5 febbraio 2017 “Libero Quotidiano”. Il giorno successivo ai funerali di Italo D'Elisa, l'indagine sulla tragedia di Vasto si arricchisce di due elementi che potrebbero rivelarsi decisivi. Uno in particolare: la presenza di un complice che avrebbe aiutato Fabio Di Lello a compiere la sua vendetta a colpi di pistola contro il ragazzo che aveva travolto e ucciso sua moglie. Pare infatti che qualcuno abbia avvertito il killer del fatto che D'Elisa si trovasse a quel maledetto bar, al Drink water cafè dove è stato ucciso. Una telefonata, rapida: "L'omicida di tua moglie è al bar". Poi, il raid e l'omicidio. La procura di Vasto ha infatti chiesto un incidente probatorio, che verrà effettuato nella mattinata di lunedì, per verificare le telefonate fatte e ricevute dal cellulare di Di Lello (verranno inoltre documentati traffico e contenuti del computer dell'uomo). Si vuole insomma scoprire se qualcuno, mercoledì pomeriggio, abbia davvero scatenato la sua furia omicida (una circostanza che, trapela da fonti vicine alla procura, potrebbe essere facilmente confermata). Si cerca dunque il complice che, come spiega Pompeo Del Re, avvocato del ragazzo assassinato, "ha segnalato gli spostamenti del povero Italo". C'è poi la seconda novità, che riguarda la premeditazione. Tutto depone contro Di Lello. In particolare tre punti. Il primo, il fatto che all'inizio di dicembre abbia deciso di donare i suoi beni e la sua casa ai genitori. Dunque l'acquisto della pistola, avvenuto un mese dopo la morte della moglie, pistola che ha sempre tenuto in auto. Infine, i continui post su Facebook nei quali manifestava la sua sfiducia nella giustizia e quello che per gli inquirenti sarebbe "un chiaro desiderio di vendetta". Tra punti che con assoluta probabilità giustificheranno l'aggravante della premeditazione, dalla quale l'omicida sta provando a difendersi, parlando di un raputs. Se la premeditazione venisse confermata, Di Lello rischia l'ergastolo.

Vasto, i genitori di Fabio Di Lello: “Avevamo chiesto il ricovero perché stava male. Roberta era incinta”. Il giorno dopo i funerali di Italo d'Elisa e il silenzio dell'uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che la donna aspettava un bambino, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 5 febbraio 2017. Il giorno dopo i funerali di Italo d’Elisa e il silenzio di Fabio Di Lello, l’uomo che lo ha ucciso per vendicare la morte della moglie, si aggiungono due nuovi particolari a questa storia di rancore e morte. I genitori del fornaio diventato killer avevano chiesto a uno degli specialisti che lo avevano in cura perché depresso di farlo ricoverare e confermano che Roberta Smargiassi era incinta e che avrebbe comunicato la notizia a tutta la famiglia il giorno dopo. A Corriere e Repubblica Lina e Roberto Di Lello, che non hanno trovato il coraggio di andare al funerale di D’Elisa ma hanno inviato fiori, raccontano di aver tentato di sottrarre il figlio a quell’ossessione che lo ha portato il 1 febbraio a impugnare la calibro 9, regolarmente detenuta, e sparare tre colpi contro il 22enne che il 1 luglio dell’anno scorso aveva investito con la sua Punto nera il motorino della donna. “Fabio stava male, molto male… – racconta la donna ai cronisti – L’incidente ha cambiato la vita di tutti. Fabio non è riuscito ad accettare la morte di Roberta. Andava al cimitero anche di notte, saltava il muro e stava lì con lei. Sempre, notte e giorno. Poi ha smesso con le notti ed entrava alle 7 del mattino, quando aprivano i cancelli, tornava a mangiare un boccone, poi di nuovo lì fino alle 6 di sera, l’orario di chiusura. Un’ossessione: suo fratello lo invitava a Roma e lui rifiutava: “E poi chi ci sta con Roberta?”. Gli dicevo Fabio tu non puoi vivere così, ma lui si arrabbiava”. Il medico aveva spiegato ai genitori che per ricoverarlo sarebbe stato necessario il suo consenso. L’ex calciatore dilettante dal giorno della morte della moglie continuava a chiedere giustizia: ma D’Elisa, al momento dell’incidente, non era ubriaco né drogato. E comunque l’udienza preliminare era stata già fissata a sei mesi dai fatti.

Il padre di Fabio, che ieri davanti al giudice per le indagini preliminari non ha ripetuto la versione fornita ai suoi avvocati e cioè che il ragazzo lo aveva sfidato, spiega di provare vergogna verso tutti e che il figlio era ossessionato da Italo: “Io l’accido quello lì”. Ma l’uomo dice di non aver saputo dell’arma, anche se Fabio aveva da tempo il porto d’armi: “Non sapevo che avesse una pistola. Lui aveva il porto d’armi sportivo perché andava a tirare al poligono. Dovevano toglierglielo. Chissà dove l’ha presa poi la pistola”. “Io so che a sei mesi dal lutto o ti riprendi o finisci nel tunnel e Fabio è finito nel tunnel. Non ce l’ha fatta anche perché non accettava certe cose che leggeva sull’incidente prima di Natale, tipo che Roberta non aveva il casco allacciato eccetera. Da quei giorni è andato sempre più giù” aggiunge la signora. La donna ricorda anche come ha saputo quello che era avvenuto. Il padre di Roberta ha chiamato: Vieni qui perché è successa una cosa grave. Oddio, si è ucciso, ho pensato. Sono corsa al cimitero e lui mi è venuto incontro. Mi ha abbracciato fortissimo, così forte da lasciarmi i segni qui. “Ti voglio bene”, mi ha detto. Aveva ucciso il ragazzo… Ma perché, perché l’hai fatto? Non potevi fare una scazzottata che almeno non moriva nessuno?”. “Questa è stata una guerra, ci sono tre famiglie distrutte dal dolore. Roberta è morta e – dice il signor Di Lello – ora è morto anche quel ragazzo e io sento un grande dolore per lui e per la sua famiglia. Devono morire i vecchi, non i giovani. Non so più cosa dire, cosa pensare. Spero almeno che torni la pace fra tutti”.

La claque dei giustizieri, una tragedia italiana. Omicidio Vasto: legale Di Lello: "D'Elisa non ha mai chiesto scusa". Intervista di Jean Paul Bellotto. Dopo l'incidente nel quale ha perso la vita Roberta. "Italo D'Elisa non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi".  Così, intervistato da Radio Capital, l'avvocato Giovanni Cerella, già legale di parte civile per il procedimento che riguardava l'incidente, ora difensore del marito, Fabio Di Lello, che ha sparato a D'Elisa.

Vasto, parla il padre di Italo: "Hanno ucciso un morto: contro di lui una campagna d'odio". Angelo D'Elisa racconta suo figlio dopo l'incidente nel quale ha travolto e ucciso una giovane donna: "Abbiamo scritto alla famiglia di Roberta. Non ci hanno risposto", scrive Paolo G. Brera. Seduto sul sedile posteriore dell'auto del suo avvocato, Angelo D'Elisa ha lo sguardo perso nel vuoto. Ha appena nominato il perito di parte, tra poco inizierà l'autopsia sul corpo di suo figlio. Abbassa il finestrino. Accenna persino un sorriso; gentile, stravolto.

È troppo tardi, Angelo, ma cosa direbbe all'uomo che ha ucciso suo figlio?

"Hai ammazzato un morto. L'odio non porta a niente".

Era inevitabile?

"L'unica cosa che dovevano fare, Italo e Fabio, era incontrarsi. Parlarsi, abbracciarsi e piangere insieme. Magari sarebbero diventati amici, erano due persone buone. Insieme avrebbero cancellato questa maledetta campagna d'odio che seppellirà mio figlio e distruggerà del tutto anche lui: tutti noi, da allora, abbiamo sempre convissuto con il dolore per la morte di Roberta. Ne siamo ancora addolorati, sa? Anche oggi, dopo quello che è successo".

Come stava Italo, dopo quell'incidente? Alcuni dicono che era a pezzi, altri che faceva le impennate davanti a Fabio.

"Stava male, malissimo. Chiunque di noi se si trovasse in una situazione così tragica come starebbe? È un inferno. Aveva paura a uscire di casa. Si era chiuso in se stesso, poi un giorno mi ha detto: non ce la faccio più, voglio uscire, ho bisogno di aria".

Che vita faceva? Aveva una fidanzata?

"C'era qualche ragazza che gli girava intorno, ma nessuna fissa. Nessuna che gli stesse accanto e lo aiutasse, e d'altronde in questa situazione aveva altro a cui pensare che l'amore".

Impennava in motorino davanti a Fabio?

"Ma quale motorino! Non ce l'ha, e non aveva più la patente. L'auto non l'ha nemmeno toccata. Era in uno stato di shock pazzesco, non vi rendete conto".

Dov'era andato, mercoledì pomeriggio?

"Alla ciclabile sulla riserva di Punta Aderci".

Che ragazzo era, suo figlio? A Vasto c'è chi dice "poverino" ma anche che "Fabio ha fatto bene".

"Non ho parole, per queste persone: Fabio Di Lello ha commesso un atto osceno. Italo era un ragazzo buono, semplice. Era sempre disponibile. Le assicuro, una persona di cuore. Aveva la passione per i vigili del fuoco e per il volontariato nella Protezione civile. Quest'estate, un paio di mesi dopo l'incidente c'era stato il terremoto. Era distrutto, ma voleva partire, sognava di andare là a dare una mano. Papà - mi disse - non ci posso mica andare, con sto guaio sulle spalle come faccio? Non posso nemmeno guidare...".

Torniamo all'incidente.

"La rivedeva tutte le notti, quella donna. Quelle immagini, quella scena orrenda non si dimenticano. Ma io gli dicevo: forza e coraggio, Italo, piano piano passerà. Cercavo di tenergli su il morale. I medici mi dicevano di aiutarlo, rischiava di chiudersi definitivamente in sé stesso. Nessuno può sapere cosa si prova, se non lo vive".

Lo perseguitava l'odio o il rimorso?

"Entrambi, credo. Si metteva a letto, e dopo due ore si svegliava di soprassalto con quell'immagine negli occhi. E poi di giorno tutto questo odio. Il sito in cui lo attaccavano con parole orribili aveva 1500 adesioni, tantissime in una cittadina come Vasto che ha 40mila abitanti".

Quando è stata l'ultima volta che lo avete visto?

"Mia moglie è distrutta. L'ha visto l'ultima volta a pranzo. C'ero anche io: stavo uscendo per andare a lavorare e lui le ha detto: mamma, vado a farmi un giretto in bicicletta, è una bella giornata. Provo a svagarmi un po'. Non è più tornato".

Avevate paura che potesse succedere?

"Veramente ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Vivo in un paese civile. Ma certo sentivo tante voci in giro. C'era chi mi diceva che dovevo difendermi perché avrebbe fatto quello che poi ha fatto davvero, sì".

In questi mesi suo figlio era stato emarginato dalla comunità di Vasto?

"Sì, e le pugnalate più gravi sono proprio quelle che non ti arrivano direttamente. Quelle che ti colpiscono alle spalle. Lo hanno lasciato solo, e si sono divertiti alle sue spalle sui social network".

Cosa le disse, dell'incidente?

"In ospedale mi disse: non correvo, te lo giuro, non sono scappato, ho chiamato subito i soccorsi. È stato un dramma".

Forse non siete riusciti a comunicarlo a Fabio e alla famiglia di Roberta?

"Abbiamo scritto subito una lettera di condoglianze, con il nostro dolore per quello che era accaduto. L'abbiamo firmata tutti".

Vi hanno risposto?

"No, nessuna risposta. E sono iniziate le fiaccolate, le pagine su Facebook. Neanche se mio figlio fosse stato un killer di professione. Era un bravo ragazzo di vent'anni, non un super ricercato di mafia".

L'oscura tentazione di giustizia fai da te: "Hai fatto bene Italo andava ucciso". Dopo l'assassinio del 22enne, sui social network si moltiplicano i commenti a sostegno del killer Denuncia della Procura: «Clima di odio morboso», scrive Manila Alfano, Venerdì 3/02/2017, su "Il Giornale". A Vasto sventolano ancora gli striscioni dai balconi che chiedono «giustizia per Roberta» e ci sono parole pesanti e insulti che rimbalzano addosso all'impazzata. Il giorno dopo la vendetta resta l'odio che non si placa. Una campagna di odio intorno al ragazzo ucciso per vendetta. Subdola, silenziosa, partita dalla rete e solidale solo nel voler spingere avanti chi, infine, ha sparato sperando di trovare sollievo. Restano tre famiglie distrutte, ognuna ha perso un figlio. Roberta Smargiassi morta a 34 anni, investita da Italo D'Elisa, il 22enne che non si era fermato al semaforo rosso, ucciso l'altro ieri da Fabio Di Lello, marito di lei, che l'ha freddato con tre colpi al cuore. Era distrutto da un dolore che niente è servito a lenire. Intorno parole che diventano coltelli. C'è il popolo della rete, scatenato, esaltato che scrive, commenta, condivide. A sostegno dell'uomo che davanti ad un immenso dolore non ha retto e si è vendicato. I commenti sui social che fanno paura: «Hai fatto bene». «Siamo con te». «Lo avrei fatto anche io». «Quando la giustizia non arriva bisogna farsi giustizia da sè». A Radio Capital l'avvocato Giovanni Cerella, il difensore di Fabio Di Lello butta benzina sul fuoco: «Italo D'Elisa, dopo l'incidente, non ha mai chiesto scusa, non ha mostrato segni di pentimento. Anzi, era strafottente con la moto. Dava fastidio al marito di Roberta. Quando lo incontrava, accelerava sotto i suoi occhi». Italo che era stato sottoposto a tutte le analisi e non era stato trovato né in stato alcolico né sotto effetto di sostanze. Non resta in silenzio neppure l'arcivescovo della diocesi di Chieti- Vasto, monsignor Bruno Forte: «Con un intervento rapido della giustizia e una punizione esemplare, la tragedia si sarebbe potuta evitare. La magistratura deve fare il suo corso ma nel modo più rapido possibile. Una giustizia lenta è un'ingiustizia». C'è un dolore che cresce e che monta, che si può solo immaginare, che cova al buio la notte, diventa chiodo fisso. È rancore e rabbia e frustrazione, disperazione nera. Ci può essere un'umana empatia, per un giovane marito che perde tutto. Vasto non solo si era stretto accanto a lui, si era proprio schierato con lui. Manifestazioni con cortei per «chiedere giustizia» da parte dei familiari di Roberta, con Fabio in testa, scontri sui social, liti mediatiche, la fiaccolata passando davanti all'ospedale fino al Palazzo di Giustizia, la preghiera nella Cattedrale San Giuseppe. Si organizzavano partite di calcetto sotto alla sigla «Giustizia per Roberta». E la rete, Internet, Facebook, hanno propagato l'onda di rabbia, impotenza, dolore. Per il procuratore della Repubblica di Vasto Giampiero Di Florio è grave. Parla di clima di odio, ingestibile per una mente indebolita da una perdita del genere. «Claque di morbosi - dice Di Florio - che ha portato avanti un'incomprensibile campagna di Giustizia in assenza di un procedimento entrato nell'aula del Tribunale e quindi di una discussione indirizzata. Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, invece hanno alimentato il suo sentimento della vendetta ogni giorno». Da quando aveva perso la moglie, Fabio Di Lello non aveva più avuto pace. La sua vendetta si è consumata mercoledì pomeriggio, dopo mesi di dolore e rancore. Fabio che non si rassegnava a una vita davanti andata in frantumi senza neppure il tempo di un ciao. Su Facebook aveva messo un'immagine del film «Il gladiatore», accanto la foto di lei, sorridente, una colomba di pace e la scritta: «giustizia per Roberta». Dopo l'esecuzione non ci hanno messo molto i carabinieri a trovarlo. Sono andati al cimitero e lo hanno trovato vicino alla tomba della moglie; l'arma con cui ha ucciso Italo era vicino alla tomba. «La mia Roberta mi è stata rubata, rubata ai propri sogni». Fabio si sfogava e scriveva nello spazio dedicato ai lettori del portale zonalocale, una messa in suffragio per la moglie. «Mi chiedo, dov'è giustizia? Mi rispondo, forse non esiste! Non dimentichiamo, lottiamo, perché non ci sia più un'altra Roberta». Segnali di un malessere che nessuno ha fermato.

L'omicidio di Vasto e la nostra violenza: questa vendetta è il contrario della giustizia e del sentimento d'amore, scrive Francesco Merlo il 3 febbraio 2017 su "La Repubblica". Stiamo attenti al fascino ambiguo della passione e della follia romantica. Purtroppo c'è solo l'odio malato in questa vendetta di Vasto che è il contrario sia della giustizia sia del sentimento d'amore. Ed è orribile il dettaglio, da reality macho-noir, della pistola che l'assassino ha deposto come un mazzo di fiori sulla tomba della moglie vendicata, un gesto teatrale da carogna per bene, da giustiziere spietato ma di cuore, virile ma lieve, duro per necessità. La verità è che, nella tragedia di Vasto, terribile ed esemplare in questa Italia eccitata e imbruttita dalla rabbia sociale, c'è la forte complicità ambientale. C'è la grande responsabilità del coro, non solo virtuale, il "dalli al colpevole" che è in libertà, "una claque di morbosi", come l'ha definita il procuratore di Vasto, che ha istigato Fabio Di Lello a farsi giustizia da solo, a sentirsi come quel gladiatore cinematografico di cui ha postato la foto su Facebook. E di nuovo dobbiamo fare attenzione perché è capitato a Vasto, ma poteva capitare in qualsiasi altra parte d'Italia di sentire l'incitamento e l'applauso alla giustizia fai da te. Vasto, che è un bellissimo paese con la malinconia e la sapienza del mare Adriatico, non è certo abitato da sadici. Evidentemente anche lì si è fatto strada il livore, "un'incomprensibile campagna di giustizia", ha detto il procuratore Giampiero Di Florio: "Questa claque doveva aiutare Fabio a venirne fuori, e invece ha alimentato, giorno dopo giorno, il suo sentimento di vendetta". Dunque, incitato e protetto da manifestazioni, fiaccolate e istigazioni all'odio che duravano da sette mesi, Fabio Di Lello, calciatore e panettiere molto popolare, si è sentito protagonista di un film, di un fumettone, di una canzone maledetta o di un manga giapponese. Non si è accorto che si era invece infilato nella nevrosi caricaturale raccontata da Vincenzo Cerami e Alberto Sordi (Il borghese piccolo piccolo) e nella paccottiglia eroica dell'assassino per bontà. Dunque si è procurato la pistola, ha aspettato in strada Italo D'Elisa, quel ragazzo di 22 anni che era passato col rosso e aveva investito e ucciso la sua Roberta. L'omicidio colposo gli sembrava una raffinatezza e una trappola giuridica, lo voleva in galera, lo voleva morto e dunque, con la miserabile solidarietà della parte peggiore e più plebea del paese, ha interpretato il ruolo del cane di paglia, del Charles Bronson, della 44 Magnum per l'ispettore Callaghan o del bravo ragazzo di paese costretto a surrogare l'imbelle magistratura e a mettere le sue buone intenzioni al servizio del peggio, del sangue chiama sangue, a farsi selvaggio che emette la sentenza ed esegue la condanna perché non crede alla giustizia delegata, ai giudici e ai tribunali che non capiscono: tre colpi di pistola contro quel povero ragazzo, il quale - speriamo che Fabio Di Lello cominci a rendersene conto - è molto più vittima della sua vittima perché lui ha avuto un carnefice volontario, freddo, premeditato e pure infiammato da una folla fanatica che ancora lo acclama e lo celebra sui social, mentre lei, la povera Roberta, è morta in ospedale, il giorno dopo l'incidente. Stava sul motorino e quell'altro l'ha investita: è passato col rosso, ma sicuramente non voleva ucciderla e solo il processo avrebbe potuto stabilire quanta colpa c'era stata nella scelta di non rispettare il semaforo. Il procuratore di Vasto ha spiegato che era giusto lasciare libero Italo D'Elisa e che anzi non si poteva proprio arrestarlo, perché si era fermato a soccorrere Roberta, non era drogato, non aveva bevuto, non correva. Era passato con il rosso, ma questo non basta perché la libertà va rispettata, anche se meno di quanto va rispettata la vita. Si può capire che un marito senta dentro di sé la pulsione di sparare al mondo se sua moglie viene uccisa per strada. Ma è una pulsione oscura e primitiva che va tenuta a bada, specie con il passare del tempo, con la riflessione, con l'aiuto dell'ambiente e della civiltà diffusa. La forza della Giustizia è il distacco; ha sempre bisogno di una distanza e non può confondersi con il legittimo dolore dei familiari e con la loro rabbia, che è comprensibile ma non può ispirare il codice penale né consentire che il castigo diventi delitto. Anche noi cronisti che raccontiamo, interpretiamo e ci infiliamo dentro i fatti dovremmo tenere a bada tutto ciò che dà plausibilità al mito reazionario della giustizia privata, e stare attenti a evocare l'amore, le canzoni di De André, i presunti buoni sentimenti dell'individuo che precede lo stato, salta i processi e i tribunali, diventa giudice e boia. E non ci sono scuse per le reazioni sguaiate, eccessive e convulse della folla che ha sempre torto quando invita all'odio, quando si fa tribunale cieco. Andate a rivedere quel video girato da Andrea Lattanzi tre giorni fa, prima della sentenza che avrebbe condannato a 7 anni Mauro Moretti per il disastro colposo di Viareggio. C'è un una piccola folla che ritma gli insulti - "pezzo di m..." - contro Moretti. Sono così brutti da vedere che forse, chissà, gli stessi scalmanati, se si guardassero dall'esterno, capirebbero che lì, in quei cori, ci si smarrisce e si smarriscono le ragioni fondanti della civiltà dei diritti. Ebbene, proprio lì succede quel che non ti aspetti: interviene Marco Piagentini, che nella strage perse moglie e due figli. Determinato e cortese, li ringrazia per la solidarietà, ma li invita a smetterla: "Le offese no". Ecco: se qualcuno lo avesse fatto anche a Vasto, chissà ...Insomma, è una tragedia così estrema questa di Vasto che ci permette di dirci chiare certe cose oscure. E, per esempio, che ci sono pulsioni ancestrali e profonde che tutti abbiamo e alle quali, a caldo, ci piacerebbe abbandonarci. Ebbene, solo la legittima difesa, che peraltro richiede quel coraggio che non c'è mai nella viltà dell'agguato, ci consentirebbe di fare le cose che non si fanno e che a volte tutti vorremmo poter fare. Solo la legittima difesa rende giusti il cazzotto che non diamo, la "bella lezione" che non impartiamo, la violenza che non liberiamo, il colpo di pistola che non spariamo.

Le scarpe nuove per i terremotati? Vanno ai migranti. Scandalo in Abruzzo. Dopo averle abbandonate in un magazzino, 5mila paia di scarpe "Vans" raccolte da CasaPound finiranno alle associazioni che si occupano di accoglienza, scrive Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 01/02/2017, su "Il Giornale". Oltre 5mila scarpe di marca destinate ai terremotati sono state donate alle associazioni che si occupano di accoglienza. Ovvero ai migranti. È l'ultima, assurda puntata di una storia di sprechi e mancati controlli, burocrazia e negligenze, che ha finito col penalizzare gli sfollati del sisma dell'Aquila del 2009. Privandoli di scarpe, giacche e pantaloni che ora verranno indossati dagli immigrati. Facciamo un passo indietro e torniamo a quei drammatici momenti della primavera del 2009, quando una scossa di magnitudo 6.3 piegò il capoluogo abruzzese. Nel pieno dell'emergenza, il 5 agosto CasaPound riceve dall'azienda di abbigliamento statunitense «Vf International Sagl» un'ingente donazione destinata ai terremotati. Si trattava di 5.493 paia di calzature della «Vans», un vero e proprio tesoro in una situazione in cui un paio di scarpe avrebbero potuto fare davvero la differenza. CasaPound le affida all'amministrazione del Comune di Poggio Picenze che, in attesa di poterle distribuire, le stipa nel bocciodromo del paese. Per qualche motivo, però, nessuno si occupa di consegnarle agli sfollati e così inizia un tour di spostamenti infinito: a gennaio 2011 le calzature vengono portate in un magazzino comunale a l'Aquila e nel 2012 approdano nell'Autoparco Comunale. Un viavai ingiustificato con l'unica conseguenza di far cadere nel dimenticatoio quei doni dal valore complessivo di 39.175 euro. E infatti, col tempo, il magazzino si riempie di sampietrini e materiale elettorale, nascondendo le scarpe sotto la sporcizia. Solo nel febbraio dell'anno scorso gli agenti del Nipaf della Forestale si accorgono, casualmente, degli scatoloni colmi di beni intonsi e mai utilizzati. L'assurdo ritrovamento fa scattare le indagini coordinate dal pm Roberta D'Avolio. Nessuno però si assume la responsabilità di tanto spreco e nel fascicolo non ci sono indagati. Così, nel frattempo, i mesi passano e l'attenzione mediatica sollevata dal consigliere di circoscrizione Francesco De Santis pian piano si spegne. Fino a quando, pochi giorni fa - nel bel mezzo dell'emergenza neve che ha investito l'Abruzzo -, le autorità decidono di liberare le «Vans» dal blocco burocratico che le aveva imprigionate e di donarle ai bisognosi. Una nota positiva, direte. Certo, ma con una sorpresa. Alcune scarpe, infatti, sono state destinate ad associazioni impegnate nell'emergenza del recente sisma del Centro Italia, ma la maggior parte sono finite alle associazioni che gestiscono l'accoglienza. E andranno così a rivestire i richiedenti asilo ospitati nei centri profughi dispersi in tutto l'Abruzzo. La decisione di «preferire i migranti agli italiani» ha irritato (e non poco) i vertici abruzzesi di CasaPound che quelle scarpe si era impegnata a raccogliere: «Siamo sconcertati - scrive in una nota il responsabile abruzzese, Simone Laurenzi -. La volontà degli italiani di aiutare i propri compatrioti è stata tradita ancora una volta dalle istituzioni».

I 28 milioni donati con gli sms ai terremotati non sono ancora arrivati a destinazione, scrive il 19/01/2017 Ilario Lombardo su "La Stampa”. Nel giorno in cui la terra è tornata a tremare con forza nelle zone dell’Italia centrale, già fiaccate da uno sciame infinito, si viene a scoprire che i 28 milioni di euro donati dagli italiani per i terremotati di Marche, Lazio e Abruzzo sono ancora fermi nel conto aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto conto al governo di questi soldi raccolti attraverso sms e bonifici bancari durante il question time alla Camera, in un botta e risposta tra la deputata Laura Castelli e il neo-ministro dei Rapporti con il Parlamento Anna Finocchiaro. E così veniamo a sapere che, per una logica che appare puramente burocratica, i soldi ci sono ma non si possono toccare: il «protocollo d’intesa per l’attivazione e la diffusione dei numeri solidali», firmato con le società di telefonia che raccolgono gli sms solidali, e disponibile sul sito della Protezione civile, prevede un percorso preciso che sembra non tener conto del freddo, della neve, delle esigenze del territorio, dei bisogni della popolazione, del terrore delle nuove scosse. Come ricorda Finocchiaro in aula, prima si deve predisporre un’analisi dei danni nelle singole regioni e poi si sottopone a un comitato di garanti, che deve verificare il rispetto delle norme nell’utilizzo dei fondi. Alla fine, i soldi dovrebbero arrivare. «Una procedura incredibilmente lenta che stride rispetto all’emergenza - spiega Castelli – il paradosso è che la solidarietà resta ostaggio della burocrazia». In effetti, la particolare conformazione montuosa del territorio, la prevedibilità della stagione rigida dalla quale non si scappa, avrebbe dovuto rendere la macchina della solidarietà più flessibile per mettere a disposizione i 19 milioni di euro raccolti (in due tranche, al 30 novembre 2016) via sms tramite il numero 45500, e i quasi 8 milioni arrivati con bonifico bancario al 10 gennaio 2017. Il primo terremoto, di questa lunga serie che ha sconvolto il cuore del Paese, è del 24 agosto. Se si tiene conto solo di questo evento, quello più indietro nel tempo, e delle prime donazioni via cellulare chiuse il 9 ottobre, si contano 15 milioni fermi da oltre tre mesi. E tre mesi valgono come tre anni per chi non ha una casa e vede la neve sommergere le macerie senza che dia l’illusione di dimenticare. Per dire, altre forme di raccolta fondi, promosse da aziende private, hanno già prodotto risultati concreti e visibili. Il 29 gennaio, salvo proroghe, si chiuderà la terza donazione tramite sms, che, partita il 31 dicembre, ha già fruttato oltre un milione di euro. Sono 2 euro per ogni messaggio. Servono per ricostruire case, scuole, per salvare allevamenti e colture. L’importante è farli arrivare presto a chi sono destinati.

Quando, dove e perché si usano i soldi degli sms solidali. Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio: 28 milioni di euro raccolti finora, scrive Monica Rubino il 19 gennaio 2017 su "La Repubblica". La polemica è montata sui social ma il caso è stato sollevato dai 5stelle che, dopo il nuovo sisma che ha scosso il Centro Italia flagellato dalla neve, hanno accusato il governo di aver messo in naftalina i fondi per i terremotati raccolti dalla Protezione civile con gli sms solidali invece di utilizzarli subito per fronteggiare l'emergenza. Ma come funziona veramente il meccanismo delle collette di solidarietà per le popolazioni colpite dal terremoto? Quando e come si possono usare quei soldi? Ecco le risposte della Protezione civile.

Dove vanno a finire i soldi raccolti con gli sms? Le donazioni raccolte tramite il numero solidale 45500, nonché i versamenti sul conto corrente bancario attivato dal Dipartimento della protezione civile, confluiscono nella contabilità speciale intestata al commissario straordinario aperta presso la Tesoreria dello Stato.

A che cosa servono? Le somme servono a finanziare gli interventi di ricostruzione nei territori. Quindi è esclusa ogni utilizzazione per scopi emergenziali. Alla fine della raccolta viene nominato un Comitato di garanti, che ha il compito di valutare e finanziare i progetti presentati dalle Regioni in accordo con i Comuni interessati. Del progetto viene seguito anche tutto l'iter della realizzazione. Ad esempio in Emilia, dopo il terremoto del 2012, i fondi solidali sono stati usati per ricostruire scuole e palestre.

Quando si possono usare? Secondo un accordo siglato con le società di telefonia, che raccolgono gli sms solidali e versano i proventi senza alcun ricarico sul conto corrente della Protezione civile, la raccolta si chiuderà a meno di proroghe il 29 gennaio. Fino a che non si sa con esattezza quanti soldi siano stati raccolti (finora la cifra si aggira attorno ai 28 milioni di euro) non si può decidere quali progetti finanziare. Gli operatori che hanno aderito all'iniziativa senza scopo di lucro sono Tim, Vodafone, Wind, 3, Postemobile, Coopvoce, Infostrada, Fastweb, Tiscali, Twt, Cloud Italia e Uno Communication. 

Casette per i terremotati: 18 e piene di bla bla bla. Mentre la gente dell'Italia centrale crepa guardando una casa che nessuno gli sistema, la malapolitica impera e il populismo ne detta l'agenda, scrive Giorgio Mulè il 3 marzo 2017 su Panorama. Dovremmo vivere il tempo della palingenesi della politica, e cioè un tempo del rinnovamento. Un’esigenza di rinascita legata principalmente alla necessità di depotenziare la disaffezione verso il Palazzo e con alcune derivate specifiche per ogni schieramento riassumibili così: nel centrosinistra Matteo Renzi sa di dover riparare al disastro del referendum e alla caduta della sua leadership; i 5Stelle, alla luce dell’avvilente gestione del Campidoglio, sono coscienti della crisi scatenata dall’accusa di incapacità di governare; il centrodestra non può sfuggire all’obbligo di tornare a essere un fronte unito e coeso se vuole riproporsi come forza di governo. Ad oggi, quel che manca in assoluto è la capacità di adempiere al primo compito che ci si aspetta dalla politica: scrivere un’agenda e rispondere così al compito principale richiesto a chiunque aspiri a guidare il Paese: qual è la visione dell’Italia? Invece, è il populismo a dettare l’agenda con la rincorsa spasmodica a inseguire l’avversario sul terreno del consenso immediato. Valga per tutti il mistificazionismo dei vitalizi, che rappresenta certamente un’odiosa stortura del sistema ma che non dovrebbe essere collocata in cima ai pensieri di partiti e movimenti. E invece il dibattito è tutto concentrato lì con uno scambio interminabile di accuse sterili, di battute ottime per i social network e i programmi televisivi. Se invece l’agenda fosse quella del Paese reale, tanto per restare ai fatti della stretta attualità, pensate che dopo quasi due lustri non si sarebbe approvata la legge sul fine vita? O che il provvedimento su concorrenza e liberalizzazioni starebbe ancora a galleggiare, non a caso, dentro un minestrone chiamato "decreto milleproroghe"? O che altri correttivi sulla giustizia (ragionevole durata dei processi, intercettazioni, diffamazione) non riuscirebbero a vedere la luce? Non è "colpa" del bicameralismo se per approvare una legge sono necessari in media almeno sette mesi: la responsabilità è in capo solo e soltanto alla malapolitica. E nulla c’entra il bicameralismo se il terremoto, con la tragedia della gestione dell’emergenza e della ricostruzione, non viene issato dagli schieramenti come vessillo della capacità di dare risposte concrete al Paese. Ma vi rendete conto che dopo sei mesi sono state consegnate agli sfollati soltanto 18 casette di legno? Che allevatori, artigiani e cittadini senza più un tetto sono ancora abbandonati al loro destino? Quale iniziativa concreta si è vista dopo che Panorama ha fatto ascoltare l’ammissione unilaterale della sconfitta da parte di Vasco Errani, commissario straordinario del governo per la ricostruzione? Nessuna, il vuoto pneumatico. L’incapacità della politica è rinchiusa tutta in quelle 18 casette di legno perché nessuno ha saputo tagliare le unghie alla burocrazia e nessuno ha pensato di predisporre una reale corsia di emergenza per rimettere in moto le regioni colpite dal sisma. Nell’agenda attuale trovate invece formulette semantiche vuote: al reddito di cittadinanza si oppone il lavoro di cittadinanza. Oppure alla palingenesi si preferisce il palindromo: al Pd si contrappone il Dp. Fino al prossimo insulto sui vitalizi. Mentre la gente dell’Italia centrale crepa, proprio così crepa, mentre guarda una casa che nessuno gli rimette in piedi. 

Amatrice, il villaggio donato agli sfollati rimasto nei container. Posti letto per quattrocento persone. Il piano appoggiato dalla Croce Rossa. Ma tutto si è arenato. L'ira del sindaco. Dietro lo stop i dubbi della Protezione civile, anche se ufficialmente nessuno ha detto no. Alla fine la società che si era offerta di realizzare il campo ha deciso di rivolgersi altrove, scrive Fabio Tonacci il 5 marzo 2017 su “La Repubblica”. La più grossa donazione ai comuni terremotati del Centro Italia non s'ha da fare. E non si capisce perché. Si tratta di un intero campo di moduli abitativi che potrebbe ospitare 400 persone: 14 palazzine per un totale di 5mila metri quadrati di camere con bagno e riscaldamento, spazi comuni, cucine. Un piccolo villaggio smontabile e multiuso, dunque. Che sarebbe stato utilissimo durante l'ultima emergenza maltempo, quando chi aveva finalmente trovato il coraggio di rientrare nelle propria casa piombò di nuovo nella paura per i terremoti del 18 gennaio e finì a dormire nelle tende della Protezione civile, sotto un metro di neve. Eppure, la pratica della donazione finora più consistente (il campo vale un milione di euro) si è persa nel labirinto della burocrazia. "Io m'arrendo... ma che devo fare?", ringhia Sergio Pirozzi, il primo cittadino di Amatrice. Da due mesi insegue quei moduli, senza successo. E ora non sa nemmeno più con chi si deve arrabbiare. Il "campo dono" non è nuovo. È stato fabbricato otto anni fa e utilizzato prima in Somalia e poi, più di recente, nei cantieri della metropolitana di Milano. Da tre anni giace impacchettato in 37 container da quaranta piedi all'Interporto di Livorno. E da qui che bisogna cominciare a raccontare questa storia. Da Livorno, dove ha sede la Ciano International, un'azienda che si occupa del catering nelle basi della Nato e delle Nazioni Unite. A inizio anno i dirigenti della Ciano si rivolgono a Maurizio Scelli, ex deputato di Forza Italia ed ex capo della Croce Rossa italiana: vogliono donare quei container ad Amatrice, sostengono che siano conservati molto bene. Scelli, con il quale hanno collaborato già in Iraq, li mette in contatto con Pirozzi. "Ero entusiasta della proposta", ricorda il sindaco. "La mia idea era di farne due centri di Protezione civile nei comuni vicini ad Amatrice: a Posta e a Cittareale. Due aree attrezzate al servizio dell'Alta Valle del Velino, che potevano ospitare i volontari e, alla bisogna, gli sfollati". Siamo a metà gennaio, e tutto lascia presupporre che la donazione andrà a buon fine. Un'azienda con una certa reputazione internazionale regala un intero campo smontabile ai terremotati. Si offre pure di montarlo gratuitamente nel cratere. Con l'intercessione di Scelli, la Croce Rossa mette a disposizione i tir per trasportarlo da Livorno nel Lazio. E ci sono i sindaci di Posta e Cittareale che hanno trovato sia i terreni dove installarlo, sia chi getterà il cemento dove saranno piazzati. Ancora Pirozzi: "A quel punto decido di coinvolgere la Protezione civile nazionale, che mi rimanda a quella del Lazio. Da lì in avanti, le cose sono diventate confuse". Il primo a esprimere dubbi pare essere in realtà un dirigente della Protezione civile Toscana, tanto che l'ingegnere della Ciano Andrea Chiesa scrive un messaggio a Scelli: "La tipologia della nostra donazione (non essendo moduli abitativi pronti alla consegna) non rientra nei loro interessi visto che hanno acquistato e che stanno continuando ad acquistare moduli abitativi nuovi". Da Amatrice, però, insistono per averli. Allora da Roma, intorno a metà febbraio, sempre la Protezione civile manda a Livorno due funzionari per verificarne lo stato di conservazione. "Li ho portati all'Interporto e ho fatto vedere loro il materiale", dice l'ingegner Chiesa. "Mi hanno detto che avrebbero scritto una relazione per i loro superiori entro un paio di giorni. Da allora non li ho più sentiti". Da Amatrice lo staff del sindaco si agita e sollecita più volte la Protezione civile del Lazio per il trasferimento. Oggi no, domani no, dopodomani forse. Nell'attesa, si diffonde la convinzione che non vogliano il campo perché non è nuovo. Che esista, cioè, una precisa disposizione che vieti, nonostante l'emergenza, l'acquisizione di materiale usato. "Assolutamente falso", dichiara a Repubblica Carmelo Tulumello, direttore dell'Agenzia regionale di Protezione civile del Lazio. "La verità è che quel campo è una struttura mastodontica che richiede cementificazione e opere di urbanizzazione. Non c'era la garanzia dello stato in cui si trova, perché durante l'ispezione i moduli erano visibili soltanto in parte. E poi chi li avrebbe smaltiti 37 container navali?". Il punto è che non si riesce a capire chi abbia materialmente fermato l'operazione. Perché da una parte Tulumello sostiene di non avere posto alcun veto, e di aver fatto "solo delle osservazioni ai Comuni su cui ricadeva l'onere della gestione del campo". Dall'altra Pirozzi e gli altri sindaci aspettavano un via libera, che non è arrivato. Nessuno ha detto formalmente no, ma nessuno si è preso la responsabilità di accettare la donazione. L'epilogo è di pochi giorni fa: la Ciano sta cercando qualcun altro cui potrebbe servire un campo abitabile da 5mila metri quadrati e 400 posti.

Dio non è abruzzese. Dopo il terremoto e la tragedia all'hotel Rigopiano, lo schianto dell'elisoccorso. Dio, perché tante piaghe sull'Abruzzo? Scrive Tony Damascelli, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". Dal libro del profeta Isaia: «Ricordatevi i fatti del tempo antico, perché io sono Dio e non ce n'è altri. Sono Dio, nulla è uguale a me. Io dal principio annunzio la fine e, molto prima, quanto non è stato ancora compiuto; io che dico: Il mio progetto resta valido, io compirò ogni mia volontà! Io chiamo dall'oriente l'uccello da preda, da una terra lontana l'uomo dei miei progetti. Così ho parlato e così avverrà; l'ho progettato, così farò». Il progetto, dunque. Ma quale progetto? Dove è Dio in Abruzzo? Non si hanno notizie da quelle parti della presenza del Creatore perché ormai tutto è distrutto, esistenze e dimore, natura e oggetti, il Creato formato dal nulla, nulla è tornato a essere. Il terremoto di Montereale, la valanga di Rigopiano, l'elicottero precipitato nella nebbia di Campo Felice, il tempo malvagio, il buio del lutto e dell'assenza di elettricità, il freddo, il gelo, il silenzio della morte e quello del mattino disperato, quando la luce fa capire che non è stato un incubo ma è vero tutto, maledettamente vero, tragicamente effettivo come il passare dei secondi, dei minuti, di ore che sembrano ormai inutili da vivere. Non nominare il nome di Dio invano, secondo comandamento. Ma non è invano che oso nominarlo, è proprio perché il pontefice di Roma ha detto che Dio è vicino all'Abruzzo. In che senso è vicino? A chi è vicino? Quando lo è stato? Durante il tempo imprevisto e terribile dei terremoti, che sono stati e sono ancora mille e più di mille? Quando la montagna di neve si è staccata per correre giù, sconvolgendo e travolgendo tutto quello che avrebbe incontrato lungo il pendio? Quando l'aria umida si è fatta nebbia fitta così ingannando l'elicotterista, precipitando nel vuoto. Nelle preghiere di chi chiede a che ora tutto questo sarà finito? Nelle candele accese, presenze di calore e di fede, fragile memoria per chi è scomparso? Nei volti dei disgraziati, sfigurati dallo strazio, dal dolore eterno? Uomini e donne che hanno perduto figli, madri, mogli, mariti e, insieme, la grazia, la benevolenza di Dio, perché questa è davvero la disgrazia, l'assenza di quell'atto di amore divino. La colpa è degli uomini, d'accordo, la responsabilità è degli atti delinquenziali, di chi costruisce abusivamente sulle macerie, di chi sfrutta la miseria altrui, di chi commette reati e, maledetto lui, trova la via d'uscita a differenza di quelle povere vite sotto la slavina dell'albergo o ancora altrove, sepolte prigioniere della neve mortale. Dove era, ancora, Dio, sull'autostrada verso Verona, sopra, di fianco, dentro quell'autobus magiaro che ha bruciato i corpi dei ragazzi in gita? Prevedo la risposta, la ascolterò ma è la stessa che viene ripetuta quando un fatto luttuoso colpisce e cancella in modo feroce, ingiusto anche, un'esistenza. Poi rileggo la Bibbia e il passo di Isaia (46:9) e chiedo perché «io compirò ogni mia volontà». La volontà di cancellare la vita di un infante o quella di un uomo di grandi speranze? No, non credo, non penso, lo escludo. Allora diventa un esercizio impossibile, un muro da scalare ogni minuto, con il vento cattivo che soffia contro. È il destino, è un Dio anonimo, che nessuno conosce, l'alibi per proseguire.

GLI ANGELI DI RIGOPIANO TRADITI DAL CAMBIO TURNO: BUCCI E DE CAROLIS NON DOVEVANO ESSERE SUL VELIVOLO, scrive Mercoledì 25 Gennaio 2017, Stefano Dascoli su "Leggo". Walter Bucci e Davide De Carolis, abruzzesi di L'Aquila e Teramo, su quell'elicottero non dovevano esserci ieri mattina: due cambi turno hanno disegnato un destino tragico. Ettore Palanca, romano, aveva scelto Campo Felice per trascorrere il suo giorno di riposo: il suo infortunio sulla neve ha innescato il drammatico schianto dell'elisoccorso del 118 dell'Aquila. Sono tre delle sei storie di questa assurda vicenda, di un velivolo che si alza come tante volte, atterra sulle piste da sci, soccorre un ferito, ma al momento del decollo percorre pochi chilometri e si schianta. Tra le vittime c'è, appunto, il romano Ettore Palanca, 50 anni, sposato con Roberta, un figlio piccolo. Il suo è un destino doppiamente sfortunato. Si è infortunato mentre sciava, riportando la frattura di tibia e perone. Una volta visitato, la centrale del 118 dell'Aquila ha optato per l'intervento dell'elicottero. Quell'elicottero che avrebbe dovuto soccorrerlo e che invece si è trasformato nella sua tomba. Ettore lavorava come maitre al ristorante L'Uliveto del Rome Cavalieri, l'albergo a cinque stelle di Monte Mario. La moglie è una sua collega, al front desk. Uno strazio nello strazio: ha saputo della morte del marito mentre era al lavoro. Capelli brizzolati, tifoso della Juventus, era attaccato alla famiglia e appassionato di sport: Ettore amava la corsa, che lo aveva portato a partecipare alla Roma-Ostia, e il calciotto. Ma soprattutto amava la montagna. «Proprio l'altro giorno mi ha detto che sarebbe andato perché amava sciare, mentre non gli piaceva molto il mare. Era un tipo allegro, salutava sempre tutti» ha ricordato ieri un suo collega. L'Abruzzo, ovviamente, ha pagato il prezzo più alto. Tra le sei vittime c'è Walter Bucci, una sorta di eroe della montagna: centinaia di interventi alle spalle, una disponibilità e una passione che non hanno mai conosciuto confini. Un dato, su tutti: era stato tra i primi ad arrivare a Rigopiano, una volta appresa la notizia della valanga che ha spazzato via l'hotel. Lì era rimasto ulteriormente, per giorni, come medico del 118. Rianimatore, 57 anni, sposato e con due figlie, ieri non doveva essere su quel volo: fatale è stato un cambio turno. Stessa sorte per Davide De Carolis, il 39enne teramano, sposato e con una figlia piccola, che a 13 anni era già nel Cai e a 21 gestiva un rifugio sul Gran Sasso. Anche la sua è stata una vita tutta dedicata alla montagna: gestiva un ristorante nella sua Santo Stefano di Sessanio che, sebbene sepolta dalla neve, non ha esitato ad abbandonare nei giorni scorsi per andare a scavare a Rigopiano. A Roma aveva trascorso la sua infanzia Giuseppe Serpetti, 58 anni, aquilano. Un omone buono cresciuto con la passione del soccorso in elicottero, coltivata fin da giovanissimo. Lascia la moglie Lucia e due figli piccoli, di 7 e 8 anni. Alla guida dell'elicottero c'era Gianmarco Zavoli, 47 anni, di San Giuliano a Mare (Rimini), dove viveva. Pilotava l'Agusta modello Aw139. Era un appassionato ciclista, iscritto alla Cicli Matteoni. Nel tempo libero partecipava a escursioni su strada con il team amatoriale. Mario Matrella, 42 anni, di Foggia, tecnico di volo, era l'esperto del verricello. Viveva a Putignano, in provincia di Bari. Lascia la moglie e quattro figli. Dipendente della Inaer Aviation spa, ma con un passato da tecnico dell'Alidaunia, faceva parte anche del soccorso alpino.

STRAGE HOTEL RIGOPIANO: DOPO UNA SETTIMANA E’ FINITA, scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima Da Noi". La parola fine arriva ad una settimana esatta dalla valanga che ha travolto tutto: attorno alle 23 di ieri i vigili del fuoco tirano fuori da quel groviglio di macerie, neve, tronchi d'albero e detriti i corpi degli ultimi due dispersi. Quel che resta dell'hotel Rigopiano, a questo punto, è ormai solo un monumento all'orrore sotto il Corno Grande del Gran Sasso d'Italia. Che fosse questo, il finale, lo si era capito ormai da un paio di giorni e mercoledì se ne è avuta la certezza: nei discorsi ufficiali, nelle dichiarazioni ai tg, non c'erano neanche più quelle parole formali che servivano a lasciare aperta comunque una seppur minima speranza. E l'unico obiettivo rimasto a chi stava scavando senza sosta da giorni, era quello di trovare prima possibile tutti i corpi sepolti sotto la neve e le macerie. Per chiudere finalmente la macabra conta delle vittime, restituire i corpi alle famiglie e abbandonare prima possibile quella montagna piena di dolore. La svolta è arrivata lunedì notte e da allora, in 48 ore, i vigili del fuoco hanno tirato fuori da quel che resta dell'hotel 18 vittime; 9 le hanno estratte martedì e 9 mercoledì. Queste ultime sono sei donne e tre uomini: i loro corpi, come la maggior parte di quelli usciti da quell'inferno poche ore prima, erano incastrati tra pilastri, pezzi di cemento, neve e tronchi. Ed erano tutti in un unico ambiente: quello dove, prima che sul Rigopiano si abbattessero centinaia di tonnellate di neve, era il bar. I vigili del fuoco, in quella zona, c'erano arrivati due giorni fa. Erano entrati passando dalle cucine e lì avevano avuto già un brutto presentimento: alcuni di quegli ambienti erano rimasti miracolosamente intatti, ma non c'era nessuno. «Speravamo di trovare qualcuno ancora vivo - hanno ripetuto fino a ieri - anche se sapevamo bene che stavano per lasciare l'albergo e dunque erano tutti radunati da un'altra parte. Però magari qualcuno era tornato indietro, o si era attardato per qualche motivo in cucina. E se fosse stato così si sarebbe forse salvato». Concluse le verifiche nelle cucine, gli Usar, gli specialisti delle ricerche tra le macerie, sono passati al bar. Un'ampia zona tra la sala del camino, dove c'erano alcuni dei sopravvissuti, e l'area ricreativa, dove sono stati estratti vivi i tre bambini. Ma lì dentro la situazione era molto peggio: un unico groviglio di macerie e neve. E di corpi. Qualcun altro, invece, lo hanno recuperato nella zona dove erano le camere: quattro piani venuti giù completamente e schiacciati uno sull' altro. E gli ultimi due, un uomo e una donna, li hanno trovati sempre lì: nella zona tra il bar e la hall. Dove tutti gli ospiti e i dipendenti dell'albergo attendevano l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto portarli via. Ma il mezzo non si è mai visto e al suo posto è arrivata la valanga maledetta. Alla fine di una giornata lunghissima, i morti sono quindi 29, quindici uomini e quattordici donne. Sommati agli 11 sopravvissuti, fanno tutte e quaranta le persone che mercoledì pomeriggio si trovavano nel Rigopiano. Non c'è più nessuno da cercare. Almeno non c'è più nessuno di ufficiale da rintracciare. Per questo le ricerche sono state sospese ieri notte, anche se è probabile che riprenderanno in mattinata per bonificare l'intera area ed escludere con certezza che non vi siano altre persone che non erano finite in nessun elenco. Delle 29 vittime, 20 sono state identificate: si tratta di 9 donne e 11 uomini: Rosa Barbara Nobilio e suo marito Piero di Pietro, Nadia Acconciamessa e il marito Sebastiano di Carlo, l'estetista dell'hotel Linda Salzetta, Paola Tommasini, Ilaria De Biase, Luana Biferi, Jessica Tinari, Sara Angelozzi, Marinella Colangeli, il maitre dell'hotel Alessandro Giancaterino, il cameriere Gabriele D'Angelo, Stefano Feniello, Marco Vagnarelli, l'amministratore dell'hotel Roberto Del Rosso, il receptionist Alessandro Riccetti, il rifugiato senegalese Faye Dame, Claudio Baldini, Emanuele Bonifazi. Gli ultimi 9 corpi da identificare sono all'obitorio dell'ospedale di Pescara, dove i parenti attendono di poterseli riportare finalmente a casa. Per i duecento uomini che hanno scavato per giorni, dopo aver capito che non ci sarebbe stato più nessuno vivo, ritrovarli tutti era l'unico obiettivo. E ci sono riusciti. E' finito lo strazio di una macabra e luttuosa contabilità, non finirà tanto presto, invece, lo stillicidio delle ricostruzioni di eventuali responsabilità che sembrano annidarsi ovunque. Uno stillicidio di omissioni e sviste che tutte insieme hanno creato la valanga che è venuta giù. Marco Tanda, il pilota 25enne della Ryanair originario di Gagliole (Macerata) e la fidanzata Jessica Tinari, di Lanciano, sono fra le vittime della slavina di Rigopiano. Il corpo di Marco è stato riconosciuto ieri sera dal fratello Gianluca: «ora che Marco non c'è più - le sue uniche parole - è il momento del silenzio». I due fidanzati sono stati ritrovati senza vita nella sala tv dell'albergo distrutto. Tanda era cresciuto a Castelraimondo, ma si era poi trasferito a Roma con la famiglia.

HOTEL RIGOPIANO. SOPRAVVISSUTI E VITTIME: TUTTI I NOMI. E' finita. Undici sopravvissuti, 29 morti, zero dispersi.

Tra la notte di mercoledì 25 gennaio e giovedì 26 la tragica contabilità della strage all'hotel Rigopiano è terminata. L'ultimo disperso è stato trovato. Cadavere, come tutti gli altri da sabato mattina in poi. Sono quindi 29 le vittime in quel resort travolto da una slavina mercoledi' di una settimana fa. Non ci sono più dispersi da cercare, le ultime speranze - già molto, molto ridotte - sono cadute intorno a mezzanotte, quando la prefettura di Pescara ha dato notizia del recupero del corpo di un uomo e di una donna. Degli ultimi corpi che mancavano all'appello. Un comunicato, due righe per dire appunto 29 vittime e 0 dispersi.

I SUPERSTITI SONO 11

I superstiti recuperati in macchina, all’esterno dell’hotel:

Il cuoco Giampiero Parete (che ha lanciato l’allarme) e il manutentore dell’hotel Fabio Salzetta.

I superstiti recuperati vivi sotto le macerie:

Adriana Vranceanu, 37 anni, (moglie di Parete) e il figlio Gianfilippo sono stati i primi ad essere stati estratti il 20 gennaio, venerdì mattina, e sono arrivati all’ospedale di Pescara nel primo pomeriggio.

Nella serata del 20 gennaio sono arrivati altri tre bambini: Ludovica Parete (che si è ricongiunta così ai suoi parenti già in salvo), Edoardo Di Carlo, 9 anni di Loreto e Samuel Di Michelangelo, 7 anni.

Sabato mattina, 21 gennaio, poco prima delle 6, in ospedale a Pescara sono arrivati Francesca Bronzi 25 anni di Montesilvano e i fidanzati di Giulianova Vincenzo Forti di 25 anni e Giorgia Galassi di 22 anni.

Alle 10.30 è arrivato in ospedale anche Giampaolo Matrone di 33 anni di Roma. I soccorritori lo hanno trovato grazie alla strumentazione della Scientifica che ha segnalato la presenza del suo cellulare.

LE VITTIME SONO 29

Mercoledì 25 gennaio, poco prima della mezzanotte, si sono spente definitivamente tutte le speranze di ritrovare qualcuno ancora in vita e sono stati recuperati tutti i 29 corpi dei dispersi. 

Il primo ad essere stato trovato è stato Alessandro Giancaterino, 42 anni, meitre dell’hotel Rigopiano. Lascia la moglie Erika e un bimbo di 9 anni.

Seconda vittima identificata Gabriele D’Angelo, 30 anni, cameriere del resort e volontario della Croce Rossa.

Deceduti anche Nadia Acconciamessa, e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, ricoverato in ospedale da venerdì sera. I due gestivano due pizzerie, una Loreto Aprutino e l'altra a Penne, aperta da poco. Oltre al piccolo Edoardo, che era in vacanza con loro, lasciano altri due figli, uno di 16 anni e l'altro di 20 al quale sarà affidato il sopravvissuto. 

Non ce l'ha fatta nemmeno Barbara Nobilio, di 51 anni, anche lei di Loreto Aprutino.

Identificati martedì 24 gennaio anche il marito Piero Di Pietro, 53 anni, dirigente di Tua, l'azienda unica di trasporto regionale abruzzese. I due coniugi erano partiti per questa breve vacanza insieme ai loro amici Di Carlo. 

Lunedì 23 gennaio era stata invece estratta dalle macerie, senza vita, Linda Salzetta, 31 anni di Penne che lavorava al centro benessere dell'hotel. Per il prossimo 7 maggio erano in programma le sue nozze. Linda era la sorella di Fabio, il manutentore che insieme a Parete ha dato l'allarme. «Ci mancava solo il terremoto, spero di tornare a casa ma non so come. Non ci libereranno», il suo ultimo sms ad un’amica. 

Identificato dopo un lungo strazio per la famiglia anche Stefano Feniello, 28 anni, della provincia di Salerno, fidanzato di Francesca Bronzi (salvata). Nei giorni scorsi i familiari per quasi 24 ore avevano atteso l’arrivo del ragazzo in ospedale perchè la prefettura, per errore gli aveva annunciato che era stato trovato in vita.

Senza vita sono stati ritrovati anche Paola Tomassini, 44 anni, e Marco Vanarielli. I due avevano terminato la loro vacanza e stavano per far ritorno nelle Marche, dove vivevano. Vagnarelli era un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill.

«Non ci posso credere, noi rimaniamo quassù per sempre», aveva detto lei la mattina del 18 gennaio, in un video che la ritrae immersa nella neve a poche ore dalla valanga che ricoprirà l'hotel Rigopiano. Il loro ultimo segnale è stato un accesso su Whatsapp alle 16.35 di mercoledì. Poco dopo, la valanga che ha travolto tutto e tutti.

L’ultimo corpo identificato nella giornata di martedì è stato quello del proprietario dell'hotel Roberto Del Rosso. Il suo ultimo messaggio alla moglie era stato inviato il giorno della tragedia, due minuti prima delle 17. L’uomo aveva raccontato che non si era quasi accorto delle forti scosse di terremoto della mattina perché impegnato a spazzare la neve.

La giornata più drammatiche sono state sicuramente quelle di martedì 24 di mercoledì 25 gennaio. Le macerie dell'hotel hanno continuato a restituire in rapida successione solo cadaveri. I soccorritori hanno estratto l'ultimo corpo, il 29° poco prima della mezzanotte. 

Dunque non ce l'ha fatta Valentina Cicioni, 32 anni, moglie di Matrone, ancora in ospedale dopo un intervento al braccio. La donna era di Mentana, infermiera al blocco operatorio del policlinico 'Gemelli' di Roma. Su Facebook aveva pubblicato poche ore prima della tragedia le immagini del resort innevato.

Tra le vittime anche Tobia Foresta, 60 anni, dipendente della direzione provinciale dell’Agenzia delle Entrate di Pescara e sua moglie Bianca Iudicone, 50 anni, ClaudioBaldini e la moglie Sara Angelozzi di Atri.

Nell'hotel c'erano anche Domenico Di Michelangelo, 40 anni, di Chieti e Marina Serraiocco, 36 anni di Popoli. Loro sono i genitori di Samuel, il bimbo tratto in salvo nella sala da biliardo insieme ad altri due bambini. Nei giorni scorsi il sindaco di Osimo, che aveva citato fonti di polizia e della famiglia, i due adulti si sarebbero salvati ma i loro nomi non sono mai comparsi nella lista diffusa dalla Prefettura.

Recuperati anche Marco Tanda, 25 anni, di Macerata, pilota di Ryanair e la fidanzata Jessica Tinari, 24 anni, di Vasto. E poi ancora i coniugi Luciano Caporale, 54 anni, Castel Frentano e Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi parrucchieri di Castel Frentano. 

Sepolti dalla valanga anche Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, e il portiere della struttura Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni, l’estetista dell’hotel Cecilia Martella, la responsabile del centro estetico Marinella Colangeli, Ilaria Di Biase, 22 anni, era da tre anni impegnata nell’attività di cuoca e aveva vinto la selezione per prestare servizio in hotel, Luana Biferi dello staff e calciatrice dell'Acqua e  Sapone, di Bisenti che poco prima della tragedia aveva scritto su facebook agli amici «Sono bloccata a Rigopiano con tre metri di neve... e il terremoto». 

Il 22 gennaio una coppia di turisti tornata a casa prima della tragedia ha segnalato la probabile presenza all’interno dell’hotel di un extracomunitario che non figura in nessuna lista. Parlavano di Faye Dame, impiegato tuttofare arrivato dal Senegal con la voglia di crearsi una nuova vita.

Rigopiano, da Giorgia Galassi e Stefano Feniello, storie di chi torna e di chi non ce l'ha fatta. Il 28enne originario di Salerno è l'unico, tra le due coppie intrappolate nella stanza dell'hotel, ad essere morto, scrive L'"Ansa" il 25 gennaio 2017. Speranze, illusioni, gioia, rabbia. La vicenda di Rigopiano ha incrociato destini diversi per storie simili. Tanto da scatenare analogie e confronti. Nel ventre della montagna di neve che ha mangiato il Rigopiano c'erano anche due coppie di fidanzati, intrappolati a pochi metri di distanza: Giorgia Galassi e Vincenzo Forti, Francesca Bronzi e Stefano Feniello. Tra loro l'unico a non essere sopravvissuto è Stefano Feniello, 28enne originario di Valva (Salerno). Già prima che il corpo privo di vita venisse estratto dalle macerie, suo padre Alessio gridava la sua disperazione: "Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare". E intanto aspettava notizie del figlio. Proprio lui, a cui venerdì sera, forse a causa di un errore nelle comunicazioni, le autorità, tra cui il Prefetto, avevano detto che Stefano era vivo e faceva parte di un gruppo di cinque persone in arrivo in ospedale. "A sentire il nome di mio figlio sono caduto faccia a terra - racconta - il giorno dopo ho penato fino al pomeriggio e ho atteso che qualcuno mi venisse a dire guardate abbiamo sbagliato". Poi la rabbia nel giorno dell'identificazione del corpo del figlio: "È una settimana che sono qui in ospedale". A non darsi pace era anche Francesca Bronzi, la 25enne di Pescara. La sua vita è cambiata mentre beveva un tè col fidanzato Stefano. Lo sconforto aveva di nuovo preso il sopravvento, dopo la gioia esplosa quando erano stati comunicati i nomi di cinque persone estratte dai resti dell'hotel, tra cui quello di Stefano. Un errore di comunicazione, forse, all'origine dell'informazione errata. Era la prima vacanza insieme per Stefano e Francesca. Lui aveva compiuto 28 anni martedì e lei, per il compleanno, gli aveva regalato due giorni di relax nella storica struttura di Rigopiano. Subito dopo la notizia della valanga, i due papà si erano messi in marcia per cercare di raggiungere il luogo del disastro. "E' una tragedia, ho mia figlia lì sotto - aveva detto Gaetano Bronzi con le lacrime agli occhi - era andata a fare una giornata con il ragazzo, c'è suo padre qui accanto a me. Volevano passare un week end, ma sono rimasti su". "Non erano mai venuti qui - aveva detto papà Alessio - Ma la speranza c'è ancora e noi aspettiamo. Non ce ne andremo". E ora le due famiglie criticano i metodi di comunicazione e le poche informazioni. Parlano di "mancanza di organizzazione", i Bronzi. "Nessuno ci fa sapere niente, apprendiamo informazioni solo dai giornalisti. Nessuno si degna di dirci nulla", ripetevano i Feniello. E non potevano fare altro che attendere. Tra muri di neve in quella stessa stanza d'albergo, immobili, al buio, senza poter comunicare con gli altri e senza udire alcun suono o rumore, neanche quelli dei soccorritori. Vincenzo era insieme alla fidanzata, Giorgia Galassi, 22 anni, per passare qualche giorno all'insegna del relax. Entrambi sono stati recuperati e ora sono in buone condizioni. Ora tutto è affidato a testimonianze, acquisizioni, documenti, autopsie. E se in quell'albergo a stabilire la sorte di Stefano è stata la roulette del caso, lo decideranno i magistrati.

Hotel Rigopiano, Francesca Bronzi scopre in diretta a Porta a Porta che il suo fidanzato è morto, scrive “Libero Quotidiano” il 26 gennaio 2017. Il lutto e una beffa tremenda. La tragedia dell'Hotel Rigopiano arriva nello studio di Porta a Porta, dove c'è Francesca Bronzi, che intervistata parla del suo fidanzato, Stefano Feniello, e della speranza di ritrovarlo vivo. Ma la speranza si spegne nel corso della diretta di martedì sera: arriva la conferma che uno dei corpi recuperati in serata è proprio di Stefano, riconosciuto grazie a un tatuaggio.

Bufera a Porta a Porta: Francesca parla del fidanzato disperso, ma lui è già morto. Bruno Vespa segue la tragedia di Rigopiano ma con una puntata registrata. Quando va in onda su Rai1 l'intervista alla sopravvissuta Francesca Bronzi, che spera di ritrovare ancora vivo il fidanzato, arriva la conferma: Stefano Feniello è tra le vittime, scrive Chiara Cecchini il 25 gennaio 2017 su "Today". Era l'ottobre 2010. Davanti a milioni di telespettatori la madre di Sarah Scazzi fu informata in diretta che sua figlia non era scomparsa, come si temeva e in fondo ancora si sperava in quel momento, ma era stata uccisa e del suo omicidio si era autoaccusato lo zio Michele Misseri. Successe a "Chi l'ha visto?", la tv-verità per eccellenza. Il bello e l'osceno della diretta, la necessità di fare informazione e servizio pubblico (mentre i concorrenti mandavano in onda puntate registrate su altri temi) ma anche il dilemma etico e il buonsenso di chiudere in tempo il collegamento, di allontanare le telecamere, di non riprendere il viso impietrito di Concetta Serrano. Sul Corriere della Sera Aldo Grasso difese la scelta di Federica Sciarelli. "Con le telecamere ormai accese 24 ore su 24, in una società organizzata attorno ai media, nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo, è inutile chiedersi se questo strazio collettivo in diretta andasse fermato o no. Da tempo viviamo nel post-Vermicino", scrisse il critico di via Solferino, cercando di contestualizzare un episodio che aveva aggiunto una nuova pagina alla lunga e atroce storia della spettacolarizzazione del dolore in tv. Sono passati sette anni. Altri milioni di telespettatori seguono con il cuore in gola i tremendi aggiornamenti dall'hotel Rigopiano, che ormai continua a restituire solo morti. Bruno Vespa e il suo Porta a Porta sono "sul pezzo", ma con una puntata registrata. Nessun collegamento fiume dai luoghi della tragedia modello Vermicino, niente "telecamere ormai accese 24 ore su 24", solo l'intervista a Francesca Bronzi, una dei sopravvissuti alla tragedia del resort distrutto dalla slavina. La giovane, estratta viva e trasportata all'ospedale di Pescara, racconta quelle 50 ore passate nel buio e al freddo, stringendo la mano del fidanzato Stefano Feniello. Al momento della registrazione della puntata, Feniello era ancora nella lista dei dispersi. Mentre il racconto di Francesca, e la sua speranza di poter riabbracciare il suo Stefano, si diffonde su Rai1 arriva la tragica conferma: il ragazzo è morto, suo padre lo ha riconosciuto ufficialmente da alcuni tatuaggi. Aveva un senso quell'intervista, in quel momento, in quel contesto, "nella piena consapevolezza che ormai gli strumenti multimediali rappresentano il nuovo ambiente in cui viviamo"? Tra gli "strumenti multimediali" citati da Grasso ormai c'è anche Twitter e proprio sul social network si è sfogata la rabbia di chi ha assistito all'ennesimo scollamento tra realtà e informazione. "#francesca scusa per come sei stata USATA da #vespasciacallo credimi non siamo tutti così!..non tutti gli #abruzzesi sono così #portaaporta", tuona un utente.

Morte di Stefano Feniello all’hotel Rigopiano, lo straziante racconto della fidanzata, scrive Angela Bonora su "Info Cilento" il 25 gennaio 2017. La giovane Francesca Bronzi, durante un noto programma Rai, racconta la sua testimonianza della valanga all’Hotel Rigopiano. Lei e il suo fidanzato Stefano Feniello avevano deciso di passare una notte fuori per festeggiare in modo romantico il compleanno di lui. A Stefano, originario di Valva provincia di Salerno, questo compleanno però gli è costato la morte. È stato il padre infatti, a riconoscere il suo corpo attraverso un tatuaggio. Francesca durante l’intervista a “Porta a Porta”, racconta che tutti gli ospiti dell’Hotel Rigopiano erano terrorizzati per aver avvertito circa 5 scosse fino a quel momento. Erano stati più volte rassicurati dal personale della struttura sulla stabilità dell’albergo, ma nonostante questo erano tutti in attesa che arrivasse uno spalaneve per liberare la strada. Francesca continua dicendo che prima del boato, lei era di fronte al suo fidanzato davanti al caminetto, quando hanno avvertito un forte rimbombo ed un urto che ha fatto spostare lei di alcuni metri in avanti, da quel momento riusciva a vedere solo il braccio di Stefano attraverso la torcia del cellulare. Durante le 50 ore passate sotto le macerie Francesca dichiara “ero al buio, in uno spazio piccolissimo, senza acqua né cibo, sono stata sempre rannicchiata con le ginocchia al petto”, per fortuna accanto a lei c’era un’altra coppia di fidanzati Vincenzo Forti e Giorgia Galasso, che le passano della neve per potersi dissetare. I giovani, appena hanno sentito dei rumori provenire dalla superficie, hanno gridato aiuto molte volte fino a quando i vigili del fuoco li hanno salvati. La giovane Francesca con le lacrime agli occhi, dopo aver raccontato l’orribile tragedia che l’ha divisa per sempre dal suo amore, conclude rivolgendo un ringraziamento ai suoi soccorritori, in particolare ad alcuni di loro.

Gossip Barbara D'Urso criticata in tv da Giorgia Galassi dell'hotel Rigopiano, scrive il 25 gennaio 2017 Domenico Mungiguerra, Esperto di Tv e Gossip su "it.blastingnews.com". Giorgia Galassai, sopravvissuta alla tragedia dell'Hotel Rigopiano attacca Barbara D'Urso in tv. Colpo di scena durante la diretta tv di oggi 25 gennaio di #Pomeriggio 5, la trasmissione di #Barbara D'Urso che in questi giorni sta continuando a tenere alta l'attenzione sulla tragedia dell'Hotel Rigopiano: diverse le vittime che sono state estratte morte dalla struttura così come diversi sono state anche le persone che miracolosamente sono state estratte vive dall'Hotel. Ebbene durante la diretta di oggi di Pomeriggio 5 la D'Urso ha avuto la possibilità di intervistare la coppia di sopravvissuti di questa tragedia: parliamo di Giorgia Galassi e del suo fidanzato Vincenzo Forti, i quali al termine della conferenza stampa ufficiale che hanno fatto per parlare alla stampa di quanto è accaduto in quelle ore in cui sono stati sommersi sotto la neve all'interno dell'albergo, hanno concesso un'intervista alla conduttrice del talk show di Canale 5. Ebbene le gossip news rivelano che nel momento in cui Giorgia Galassi si è collegata in diretta con Barbara D'Urso ha subito mosso una critica alla conduttrice di Pomeriggio 5 per una lettera che lei avrebbe letto nel corso dei giorni scorsi, presentandola al pubblico da casa come una missiva scritta da Vincenzo Forti, fidanzato della Galassi. Ebbene la donna ha precisato che quella lettera non è stata scritta dal suo compagno e quindi quanto letto dalla D'Urso non era vero. A quel punto, però, ecco che la padrona di casa di Pomeriggio 5 ha preso la parola e si è difesa dalle accuse e dalle critiche di Giorgia Galassi, affermando che in realtà lei si è solo limitata a leggere quanto riportato in questi giorni sui vari quotidiani, tra cui Corriere della Sera e La Repubblica. A quel punto la reazione della sopravvissuta dell'#hotel Rigopiano è cambiata e ha precisato che non sapendo questo particolare, muoveva la sua crtica contro chi ha riportato queste false notizie, affermando di non avere nulla contro la D'Urso e ringraziandola per la possibilità che le è stata data di fare chiarezza in diretta tv.

Rigopiano, trovati due corpi nel caminetto trascinati della valanga. Le persone recuperate, tutte senza vita, sono salite a 29 e all'interno dell'albergo non dovrebbe esserci più nessuno, scrive Marta Proietti, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il bilancio delle vittime dell'hotel Rigopiano è salito a 29 e quasi sicuramente all'interno della struttura non c'è più nessuno. Nella straziante ricerca, i vigili del fuoco hanno trovato due persone dentro il caminetto, con le mani davanti al volto probabilmente per proteggersi dai crolli del soffitto. Dalle prime ricostruzioni sembra sia stata la forza della valanga a spingerli dentro a quella che è diventata la loro tomba. Al momento non è ancora possibile identificarli perché i volti sono totalmente sfigurati.

La mappa dell'hotel-cimitero: uno per uno, dov'erano i morti, scrive il 27 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Una mappa agghiacciante e allo stesso tempo commovente. E' quella che pubblica oggi il quotidiano Il Messaggero sulle vittime dell'hotel Rigopiano. Una per una, nome per nome con tanto di numerino, il quotidiano romano mostra dove sono state trovate le vittime della slavina dello scorso 28 gennaio. Stanza per stanza: si scopre così che ben 13 di loro erano distribuite tra la reception la hall, dov'erano in attesa dello spazzaneve che avrebbe dovuto arrivare per aprirgli la strada verso la fuga e la salvezza, ma che non è mai arrivato lassù. Dieci erano nella zona bar, una tra quella e la sala biliardo. Una al bancone del bar e tree in cucina, al lavoro. Nessuno al ristorante. Nelle camere stavano in pochi. E quelli si sono salvati, perchè stavano più in alto, nella parte di hotel colpita solo in parte dalla massa di neve. Tutti quelli che invece erano giù in attesa di partire sono invece morti.

Rigopiano, alcune vittime trovate con il cellulare in mano altre con il volto coperto dal gomito. Le operazioni per il recupero dei corpi all'hotel Rigopiano sono ormai concluse. Ora, i soccorritori raccontano dettagli agghiaccianti su come sono state trovate quelle 29 persone prive di vita, scrive Serena Pizzi, Venerdì 27/01/2017, su "Il Giornale". La tragedia dell'hotel Rigopiano è una di quelle tragedie che si farà fatica a dimenticare, due giorni dopo dal recupero di tutti i corpi rimasti sepolti sotto la slavina che ha travolto il resort, emergono particolari terribili di quella morte arrivata all'improvviso. I soccorritori hanno raccontato alla stampa scene che rimarranno impresse nella memoria per la loro drammaticità e allo stesso tempo per la loro quotidianità. Sì perché gli ospiti dell'hotel Rigopiano, che mercoledì 18 gennaio hanno perso la vita sotto cumuli di macerie e neve, stavano trascorrendo un normale mercoledì pomeriggio. "Gli angeli" che hanno salvato 11 persone, ma che non hanno potuto fare nulla per altre 29, hanno confessato di aver trovato nella tomba glaciale dell'hotel Rigopiano corpi totalmente schiacciati dalle macerie e dal peso della valanga. Nella cucina, invece, - si legge su il Messaggero - c’erano le due cuoche ancora intente nella preparazione dei cibi. La slavina le ha colte all'improvviso e allo stesso modo la morte se le è portate via. Anche l’addetto al ricevimento si trovava sul posto di lavoro, nella reception della struttura. Il giovane, probabilmente si occupava anche del bar, collocato nella stessa stanza, perché aveva ancora in mano il braccio della macchina del caffè quando è stato trovato. Gli ospiti, invece, erano radunati nella hall del resort. Alcuni di loro erano seduti accanto al camino che in quel momento ardeva. Quel camino che tanto era amato perchè riscaldava, probabilmente, è costato la vita a quelli che gli sono finiti contro. Altri ancora sono stati trovati dai soccorritori con in mano il cellulare. Forse stavano aspettando il segnale per mandare un messaggio per rassicurare i parenti o forse per inviare messaggi di aiuto. Tanti forse e nessuna risposta. La furia della slavina non ha risparmiato nessuno. Alcuni corpi sono stati trovati fra le ante delle porte. Poi, c’è stato anche chi è morto con il volto coperto dal gomito per ripararsi dai crolli. Un'immagine terribile. Quasi tutte le vittime indossavano un abbigliamento sportivo da montagna. Altre, invece, sono state estratte senza indumenti. Tra le macerie sono emersi molti effetti personali di uomini e donne rimasti sepolti e dei sopravvissuti. C’era una bambola, un accendino, dei fogli, brandelli di borse, materassi, scarpe, valige, giochi, tanti giochi. Tutti testimoni di vite vissute e spezzate. Ora, le operazioni di recupero delle vittime si sono concluse. La "zona rossa" sarà presidiata ancora per qualche giorno, per consentire di concludere la seconda fase, cioè quella dello smontaggio di tutte le attrezzature utilizzate dai soccorritori. "Le operazioni di soccorso all’hotel Rigopiano sono state tra le più complesse che abbiamo mai gestito - ha dichiarato il direttore centrale delle emergenze dei Vigili del fuoco, Giuseppe Romano - un crollo di un edificio di 4 piani sotto una valanga in uno scenario di terremoto, con l’impossibilità di arrivare sia via terra che via aria e con le comunicazioni difficili".

Il racconto dei superstiti a Rigopiano: "Salvi mangiando neve". Giorgio e Vincenzo prigionieri per 58 ore della neve al Rigopiano: "Quando sono arrivati i soccorsi abbiamo urlato", scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Il tavolino, la tazza di tè, la tranquillità di una vacanza particolare. Sì, c'era tanta neve. Ma quando cadono i fiocchi pensi solo a qualcosa di bello, forse romantico. Non ad una tragedia. Giorgia Galassi e Vincenzo Forti invece hanno vissuto la tragedia della valanga che ha travolto l'hotel Rigopiano. Erano lì sotto. A lottare tra la vita e la morte. In attesa che qualcuno, come poi successo, li salvasse. Di fronte ai microfoni dei giornalisti, Giorgia e Vincenzo hanno ripercorso quelle drammatiche ore. "Quando la batteria del telefonino si è scaricata siamo piombati in un buio profondissimo, ermetico - dice Vincenzo - Non si vedeva più nulla e ci si poteva orientare solamente con la voce". Grazie a quella flebile luce i due fidanzati sono riusciti a capire dove si trovassero e a vedere la parete di ghiaccio che sarebbe diventata la loro fonte di acqua necessaria per sopravvivere. Con loro c'era anche Francesca Bronzi, la fidanzata di Stefano Feniello morto intrappolato sotto le macerie. "Il terremoto di quella mattina si era sentito molto forte e aveva terrorizzato gran parte degli ospiti. Piangevo di paura", ammette Giorgia. La sua mano è sorretta da quella di Vincenzo: "Quelli dell’albergo — dice il ragazzo, riportato da Repubblica — ci ripetevano che non c’era pericolo. Poi ci hanno invitato ad aspettare nella sala grande, accanto al camino, il posto più sicuro della struttura. Eravamo seduti su un divanetto a bere un tè. Che ci potesse essere un rischio valanghe? Nessuno ne ha parlato, non ci abbiamo pensato. Abbiamo sentito un boato tremendo, abbiamo pensato a un sisma, ma in un baleno ci siamo trovati sotto la neve". Sotto quella coltre di detriti, neve e alberi la più grande sofferenza, dicono i superstiti, era la sete. "Per fortuna che abbiamo trovato subito la parete di ghiaccio e neve - racconta Giorgia - Ogni volta che ne staccavo un pezzo — racconta Giorgia — ne passavo la metà a Francesca: soffrivamo maledettamente la sete". Ma dicono di non aver mai avuto paura di non farcela: "Sapevamo che qualcuno sarebbe arrivato, prima o poi". E infatti li hanno tirati fuori. Un miracolo. Quando hanno capito che li avevano individuati hanno "urlato come dei matti". "Un pompiere toscano che ci ha aiutati e sorretti - ricorda Giorgia - e parlato con noi per tutto il tempo. 'State tranquilli, ci ha detto subito, noi non ce ne andremo mai di qui, se non insieme a voi'. Non me lo dimenticherò mai". Sulla morte di Stefano Feniello perdurano alcune polemiche. Il padre nei giorni scorsi ha denunciato la poca chiarezza con cui sono state date le comunicazioni ai familiari su dispersi, morti e sopravvissuti. Ma soprattutto Francesca, la fidanzata di Stefano, continua a dire che lui era lì accanto a lei. Che ha visto la sua mano con l'orologio che gli aveva regalato. Eppure, Giorgia e Vincenzo dicono che lì con loro il ragazzo non era presente. Ma solo Francesca. "Probabile che si tratti di una sorta di piccola allucinazione", spiegano dall’ospedale di Pescara Repubblica. Un modo per riempire il vuoto dell'assenza di Stefano. Quel fidanzato che ora purtroppo nessuno le riporterà indietro.

Rigopiano, i superstiti: “Così siamo sopravvissuti”, scrive Maddalena Carlino su "L'Unità TV" il 22 gennaio 2017. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Undici sopravvissuti, cinque corpi senza vita recuperati e 24 dispersi segnalati: è questo il bilancio attuale della tragedia dell’hotel Rigopiano. Le storie di chi è riuscito a sopravvivere si mescolano a quelle di chi non ce l’ha fatta. Dolore e sollievo si uniscono così nel dramma dell’Hotel Rigopiano. Drammatiche le testimonianze di chi è rimasto imprigionato per 58 ore sotto i ghiacci: “La paura, il buio, la fame. Ci siamo salvati succhiando neve”, racconta Giorgia Galassi, la donna giuliese scampata insieme al fidanzato Vincenzo Forti dopo due giorni di prigionia sotto le macerie de Rigopiano di Farindola. “Il momento peggiore – racconta Giorgia – è stato il secondo giorno lì sotto. Eravamo chiusi in una scatola, senza la cognizione del tempo. Non sentivamo rumori da fuori. Continuavamo a dissetarci succhiando ghiaccio, ma non mangiavamo, e le forze e le speranze cominciavano a venire meno”. Poi quei rumori che non erano più solo scricchiolii del ghiaccio, le voci. “Allora abbiamo cominciato a bussare sul soffitto a più non posso. Loro ci hanno chiamati. Io subito ho urlato “sono Giorgia e sono viva”. Ed è stata la cosa più bella che abbia mai detto”. “E’ stata una bomba, mi sono ritrovato i pilastri addosso. Ero seduto sul divano e i pilastri sono scivolati in avanti tagliandolo in due. Ci siamo salvati per questo”. Così invece Vincenzo Forti ha raccontato all’amico Luigi Valiante, l’esperienza della valanga. Con l’amico pescatore che è andato a trovarlo ha ripercorso tutti i momenti della tragedia: “Io sono rimasto senza scarpe. Indossavo i leggings che mi aveva prestato la mia fidanzata. In un attimo ci siamo ritrovati in tre in un metro quadrato. Ci siamo abbracciati, nutrendoci di neve”. Poco distante Forti sentivano anche le voci di un altro ragazzo e dei bambini, con i quali non è stato possibile comunicare. “La paura è stata tanta e abbiamo pregato”, ha detto il sopravvissuto. Triste e drammatico il destino che unisce Edoardo e Samuel, anche se per il secondo c’è ancora la speranza che possa riabbracciare entrambi i genitori. Otto e sette anni, i due bambini sono ora al caldo e coccolati dopo la tragedia che li ha travolti il 18 gennaio quando l’immensa valanga ha spazzato via l’hotel di Farindola, dove erano in vacanza con le loro famiglie. Sono riusciti a venire fuori da quell’inferno di neve. Tratti in salvo dai soccorritori, sono stati portati all’ospedale di Pescara. Fisicamente stanno bene. La loro tempra è forte. Hanno superato anche una leggera ipotermia ma, dicono i medici che li tengono sotto osservazione “psicologicamente sono provati”. I due bimbi in ospedale attendono le loro mamme e i loro papà. Solo nel tardo pomeriggio di sabato la notizia che nessuno avrebbe voluto sentire. Viene riconosciuta la terza vittima: è la mamma di Edoardo, Nadia Acconciamessa, 48 anni, moglie di Sebastiano Di Carlo. Lei dipendente della Asl di Pescara, lui titolare di una pizzeria a Loreto Aprutino (Pescara). Di Sebastiano nessuna notizia, fino a stasera: è lui una delle vittime recuperate nelle ultime ore. Nessuna informazione, invece, sui genitori di Samuel Di Michelangelo, il piccolo della famiglia del poliziotto, Domenico, 41 anni, di Chieti, e Marina Serraiocco, che vivono a Osimo (Ancona). Risultano ancora tra i dispersi. Nella notte sono poi state estratte vive altre quattro persone, due uomini – Giampaolo Matrone (lievemente ferito) e Vincenzo Forti – e due donne, Francesca Bronzi e Giorgia Galassi. “Abbiamo altri segnali da sotto la neve e le macerie – ha detto il funzionario dei vigili del fuoco Alberto Maiolo – stiamo verificando. Potrebbero essere persone vive, ma anche le strutture dell’albergo che si muovono sotto il peso della neve”. “Le tenevo la mano, poi nulla” riferisce Giampaolo Matrone uno degli 11 sopravvissuti. Ha raccontato con parole strazianti ai soccorritori di come ha dovuto lasciare la moglie lì. “Le stringevo la mano e le parlavo per tenerla sveglia perché volevo che rimanesse sempre vigile. La chiamavo, poi a un certo punto non l’ho sentita più e ho capito che mi stava lasciando”. Vicino a lui, Matrone ha raccontato di un’altra donna che non dava segnali di vita. Parla anche il manutentore, Fabio Salzetta: chiamavo ma nessuno ha risposto “Ho cercato di chiamare qualcuno fino a quando ha fatto buio. Ma nessuno rispondeva. Poi ha continuato a nevicare, è venuto giù un altro mezzo metro di neve. Era troppo rischioso rimanere là”. Fabio Salzetta, il manutentore dell’hotel Rigopiano, racconta per la prima volta quei momenti maledetti. “Erano tutti raggruppati nella speranza di andarsene ma non avevamo paura, nessuno si immaginava che potesse succedere una cosa cosi'”. Ma cosa ricordi? “Neve, neve e basta”. Nella serata di venerdì, la prefettura di Pescara aveva fornito un elenco di cinque nomi, indicandoli come quelli che si trovavano sotto le macerie, erano stati individuati e dovevano essere estratti vivi: oltre a Matrone, Bronzi, Forti e Galassi anche Stefano Feniello, del quale al momento non ci sono notizie. Il bilancio ufficiale delle vittime è salito a cinque: ai primi due corpi recuperati, quello del maitre dell’hotel Alessandro Giancaterino e del cameriere Gabriele D’Angelo, si sono aggiunti quelli estratti nella notte dai soccorritori: Nadia Acconciamessa e Sebastiano Di Carlo, genitori del piccolo Edoardo, che si è salvato e Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara), che era in vacanza con il marito, di cui non si hanno ancora notizie. All’appello, infine, secondo quanto reso noto dalla prefettura di Pescara mancherebbero 23 persone, tutte disperse.

Estratta viva dall'hotel di Rigopiano, Giorgia viene insultata su Facebook. Giorgia Galassi è stata estratta viva dalle macerie dopo 58 ore insieme al fidanzato Vincenzo Forti. Entrambi sono in buone condizioni, scrive Marta Proietti, Mercoledì 25/01/2017, su "Il Giornale". È una dei sopravvissuti alla tragedia dell'hotel Rigopiano e ha voluto condividere su Facebook la sua gioia e gratitudine. Ma il popolo del web, invece di essere felice per lei, ha deciso di riempirla di insulti. "Giorgia Galassi si sente rinata". Inizia così il post della studentessa di Giulianova che ha fatto infuriare gli utenti. La ragazza è stata estratta viva dalle macerie dell'hotel Rigopiano dopo 58 ore sotto la slavina insieme al fidanzato Vincenzo Forti e condotta all'ospedale di Pescara in condizioni di salute buone. Ha continuato Giorgia: "Volevo ringraziare tutte le persone che si sono preoccupate per me in questi giorni e che mi sono state vicine col pensiero. Grazie a tutti". E un cuoricino rosso. Gli internauti hanno accusato Giorgia di mostrare poca empatia verso i suoi compagni di vacanza di cui ancora non si conoscono le sorti. "Ma un minimo di sensibilità per chi è ancora là sotto non le passa per il cervello e per il cuore?" commenta uno degli iscritti a Facebook sotto il post della studentessa di scienze dalla comunicazione. Mentre invece un altro non ha preso bene neanche i ringraziamenti della ragazza: "Non ringraziare le persone che ti sono state vicine con il pensiero, ma ringrazia Dio e i soccorritori", le suggerisce. Fortunatamente molte altre persone hanno preso le difese di Giorgia. "Se questa ragazza ha già trovato la forza, almeno apparente, di andare avanti e vivere la sua vita normalmente, tanto di cappello!" commenta una donna, mentre un'altra spiega: "E come sempre tutti bravi a parlare, criticare e giudicare quando non si è dentro una situazione".

Rigopiano, dalla neve recuperate tutte le vittime: sono 29. Gentiloni: "Sui soccorsi fatto tutto il possibile". Recuperati tutti corpi, tra loro anche l'amministratore dell'albergo Roberto Del Rosso e il receptionist Alessandro Riccetti.  11 le persone tratte in salvo. Il premier difende la macchina dei soccorsi. In un colloquio col nostro giornale, la funzionaria che disse: "La valanga sull'albergo inventata da imbecilli" risponde alle accuse. Procura: "Nei risultati delle prime sei autopsie, molti morti per schiacciamento, altri per varie concause: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno deceduto per solo assideramento", scrive il 25 gennaio 2017 "La Repubblica". E' il bilancio finale: 29 vittime, 11 sopravvissuti. Non c'è più nessuno da salvare all'hotel di Rigopiano è un immenso cantiere che di ora in ora ha fatto emergere nuove vittime.  Nella notte sono stati recuperati i corpi di tre uomini e questa mattina i vigili del fuoco hanno estratto all'interno della struttura crollata due donne e un altro uomo senza vita, non ancora identificati.  Nel pomeriggio, poi, il cadavere di un'altra donna e, in serata, gli ultimi. Sono 11 le persone salvate. Tra le vittime recuperate c'è anche l'amministratore del Gran Sasso Resort Roberto Del Rosso. "Viveva praticamente lì, non lo abbandonava mai" dicevano a Contrada Mirri, l'avamposto più vicino all'hotel. Fino a sei, sette anni fa era in società con i fratelli. Poi si era ricomprato tutto e aveva ristrutturato il resort con la piscina, la spa, il centro benessere. Ed è stato trovato anche il corpo del suo collaboratore, Alessandro Riccetti, 33 anni, il receptionist ternano dell'albergo. Nelle ore precedenti erano stati identificati anche i corpi di Paola Tomassini, Marco Vagnarelli, Piero Di Pietro e Stefano Feniello, quest'ultimo erroneamente inserito in una prima lista di persone salvate. E mentre il premier Gentiloni, in audizione al Senato, difende la macchina dei soccorsi, con "una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese", anche la Procura oggi 'assolve' i soccorsi dalle accuse di eventuali ritardi: "Dalle autopsie su sei vittime risulta che nessuno di loro è morto solo per assideramento. Molti hanno perso la vita subito per schiacciamento". La pm: "Autopsie per sei vittime, nessuno morto per solo ipotermia". "Abbiamo i risultati delle prime sei autopsie: molti morti per schiacciamento, altri per varie concause concorrenti: schiacciamento, asfissia, ipotermia. Nessuno, a quanto ci risulta, morto per solo assideramento", così riferisce nel punto pomeridiano con la stampa il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini. Dunque, aggiunge la pm, in questi primi sei casi eventuali ritardi nei soccorsi non sarebbero stati causa diretta di morte. "Ma altre sei autopsie sono in programma, e comunque le eseguiremo su ogni vittima", aggiunge Tedeschini. La pensa diversamente il legale di parte della famiglia di una delle vittime, Gabriele D'Angelo: "Sul mio assistito non ci sono segni di traumi, né di asfissia come emorragie congiuntivali - spiega Domenico Angelucci, medico di parte della famiglia D'Angelo, "secondo noi è morto per assideramento e se fosse stato soccorso entro due ore probabilmente poteva essere salvato". In un palatenda gremito da centinaia di persone si sono svolti a Loreto Aprutino, in provincia di Pescara, i funerali religiosi di Sebastiano Di Carlo, 49 anni, e Nadia Acconciamessa, 47 anni. In prima fila il figlio della coppia, Edoardo, di 8 anni, scampato alla sciagura e fino a ieri ricoverato all'ospedale di Pescara. Accanto a lui i parenti, tra cui il fratello Riccardo poco più che ventenne, al quale il bambino dovrebbe venire ora affidato. C'é anche l'altro fratello, Piergiovanni, sedicenne. Tra le due bare di legno marrone una foto dei Di Carlo abbracciati e sorridenti. E Loreto Aprutino, poche migliaia di abitanti, piange da ieri quattro vittime, dopo il riconoscimento del corpo di Piero Di Pietro, che si va ad aggiungere tra le vittime alla moglie Barbara Nobilio. Le due coppie erano amiche ed erano andate assieme in vacanza all'albergo sul Gran Sasso. Gentiloni al Senato "Soccorritori esemplari, no capri espiatori": "Siamo orgogliosi dei soccorritori. All'inizio le azioni sono state ritardate in modo drammatico per l'impossibilità di usare elicotteri, per il rischio di altre slavine e per le condizioni della viabilità. E avete visto in che modo l'albergo è stato poi raggiunto alle 4,30 del mattino. Da allora, è stato messo in atto ogni sforzo possibile umano, organizzativo e tecnico per raggiungere l'albergo, per trovare i dispersi e cercare di salvare vite umane. Abbiamo mostrato una capacità di reazione del sistema all'altezza di un grande paese. Nella nostra memoria rimarranno impresse le immagini dei lutti che ci hanno colpito ma anche le immagini dei soccorritori, cittadini italiani esemplari, due di loro hanno perso la vita". Così il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni riferendo in aula al Senato sulla situazione di emergenza in Centro italia e sulla slavina dell'hotel Rigopiano. "Ci sono stati ritardi, malfunzionamenti, responsabilità? Saranno le inchieste a chiarire questo punto. La verità serve a fare meglio, ma non ad avvelenare i pozzi. Non condivido la voglia di capri espiatori e giustizieri". E ancora: "A Rigopiano c'è stata una coincidenza micidiale che non si ricorda a memoria d'uomo, con le scosse di terremoto e una nevicata di dimensioni eccezionali". Dighe, 40 in tutta l'area del sisma ma no a voci incontrollate: "Abbiamo lavorato con il ministero delle Infrastrutture per la verifica della tenuta delle 40 dighe nella zona interessate dal sisma, dighe che vengono verificate di prassi ogni volta che si verifica una scossa di magnitudo superiore a quattro. E che quindi sono state ripetutamente verificate negli ultimi mesi. Evitiamo il diffondersi di voci incontrollate su rischi esagerati". "Black out di energia, cause da verificare": "Nel momento di picco della crisi, il 19 gennaio, le utenze non allacciate hanno raggiunto il numero considerevole di 177mila, oggi ne sono rimaste solo alcune centinaia nel Teramano. E' giusto, da parte del governo, verificare quanto abbiano inciso le circostanze eccezionali o quanto ciò abbia messo in luce problemi più generali di manutenzione", dice Gentiloni. La protesta del senatore-sindaco "Basta! Ditemi quanto tempo ho a disposizione per parlare, altrimenti sfascio tutto e me ne vado! Come si fa a parlare con questa lucetta che ti lampeggia davanti!". Così sbotta in aula il senatore marchigiano di Fi, Remigio Ceroni, sindaco di Rapagnano, comune della provincia di Fermo colpito dalle scosse, "apprezziamo i toni di Gentiloni" dice Ceroni "ma noi sindaci vogliamo essere consultati". Intanto, in un colloquio con Repubblica, risponde alle polemiche la funzionaria della prefettura che aveva ignorato l'allarme sulla valanga, la telefonata disperata di Quintino Marcella, definendola una "bufala" inventata da imbecilli. "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho".

HOTEL RIGOPIANO, LA TRAGEDIA MINUTO PER MINUTO. I punti fermi di quella giornata maledetta, scrive il 24 Gennaio 2017 Alessandra Lotti su "Prima da Noi".

HOTEL RIGOPIANO, 6° GIORNO SPERANZE DIETRO UN MURO. 15 MORTI, 11 SALVI, 14 DISPERSI. Ore lunghissime, passate dai sopravvissuti ad aspettare aiuto, vissute con fatica e lavoro da parte dei soccorritori impegnati a fronteggiare condizioni meteo estreme, trascorse via via con maggiore apprensione da parte di chi aspettava notizie. E' la giornata che ha portato alla tragedia dell'hotel Rigopiano, iniziata con un altro dramma, un nuovo sciame sismico che per la quarta volta dal 24 agosto ha squassato l'Italia centrale.

ORE 5.00 – Esonda il fiume Pescara, segnale evidente di quella ondata di maltempo che ha colpito in modo particolare l'Abruzzo pescarese, con nevicate anche a bassa quota e pioggia che ha appesantito la neve caduta in abbondanza nelle ore precedenti.

18 GENNAIO 2017

ORE 9.00 – L’hotel Rigopiano scrive sulla propria pagina Facebook un post "Causa maltempo le linee telefoniche sono fuori servizio! Vi invitiamo a contattaci all'indirizzo info@hotelrigopiano.it".

ORE 10.25 - Prima scossa di terremoto, di magnitudo 5.3, con epicentro nell'aquilano. Scattano i soccorsi in tutto il centro Italia ma ci si accorge subito che il problema maggiore non sono i nuovi crolli, ma le condizioni meteo.

ORE 11-14 – Seconda forte scossa con epicentro, ancora una volta nell’aquilano. Magnitudo 5.4. La neve alta in molte zone, compreso il versante adriatico del Gran Sasso, impedisce di operare agli uomini della protezione civile, mentre continua a nevicare.

ORE 11.27 – Terza forte scossa. Magnitudo 5.3. Altro problema la mancanza di corrente, che disturba anche le comunicazioni.

ORE 13.00 – Alcuni clienti, tra i quali Stefano Feniello, chiamano a casa per informare i parenti che hanno già caricato le auto e pagato il conto perché torneranno a casa. Aspettano il passaggio dello spazzaneve. Sono tutti radunati nella hall.

ORE 13.30 – E’ questa l’ora precisa in cui il presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco, sostiene di aver scritto al Governo Gentiloni per ottenere nuovi mezzi spazzaneve.

ORE 13.57 – I clienti pranzano e il direttore dell’hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso che si trova a Pescara, invia una email alla polizia provinciale (che poi la inoltrerà al presidente della Provincia alle 15.44) nella quale si chiede l’intervento dello spazzaneve perché «la situazione è diventata preoccupante». In quel momento in contrada Rigopiano c’erano 2 metri di neve, i telefoni fuori uso, e i clienti «terrorizzati per le scosse» come scrive Di Tommaso sono disposti a trascorrere la notte in macchina. A quest’ora con le pale e il loro mezzo lo staff dell’hotel era riusciti a pulire il viale d'accesso, dal cancello fino alla Ss42.

ORE 14 - La sorella del proprietario Roberto Del Rosso incontra il presidente della Provincia, Antonio Di Marco, e viene rassicurata sul fatto che entro sera sarebbe andata una turbina a liberare la strada.

ORE 14.33 – Quarta forte scossa. Magnitudo 5.1.

ORE 15.00 - L'arrivo dello spazzaneve viene posticipato alle 19.00. I clienti si agitano. Stefano Feniello chiama alla mamma arrabbiato e racconta, come riferito dal padre: «non riusciamo a tornare a casa perché quei pezzi di merda che dovevano pulire non si sono degnati di arrivare».

ORE 15.44 - La Polizia Provinciale di Pescara inoltra alla Provincia l’email di aiuto firmata da Di Tommaso quasi 2 ore prima. Il presidente Di Marco la leggerà comunque il giorno seguente ritenendola superata perché dopo l’invio del direttore lui aveva avuto un colloquio diretto con la sorella del titolare.

ORE 17.08 - Parte la prima chiamata di Giampiero Parete dall'Hotel Rigopiano: viene agganciata da un operatore del 118 di Chieti, che chiede a Parete di attendere in linea, ma la linea cade immediatamente.

TRA LE 17.08 E LE 18.20 - Parete riesce a contattare il 113 e lancia l'allarme: in questo stesso arco di tempo Di Tommaso viene contattato per sapere se è vero che si è verificata una valanga. Ma lui non sa niente perché si trovava a Pescara.

ORE 17.40 - «E' caduto, è caduto l'albergo», è l'appello disperato di Giampiero Parete al telefonino con Quintino Marcella, suo datore di lavoro.

ORE 18.00 - Inizia ad arrivare l'allarme alle centrali operative: «C'è un hotel completamente isolato in una frazione di Penne». Marcella ha difficoltà a farsi credere, in particolare dalla prefettura di Pescara che due ore prima aveva ascoltato il direttore dell'albergo non riscontrando problemi.

ORE 19.00 - Le avanguardie dei soccorritori arrivano in contrada Cupoli a 11 km da Rigopiano. Ma la neve raggiunge già i due metri e i telefoni non prendono.

ORE 22.00 – La colonna dei mezzi imbocca l'ultimo tratto di strada: mancano 9 km all'hotel ma la salita si ferma.

ORE 23.00 - Ultimo contatto della notte di Giampiero Parete con Quintino Marcella. Lo richiama la mattina, una volta raggiunto dai soccorritori e messo sull'elicottero.

19 GENNAIO 2017

ORE 0.00 - Quattro uomini del soccorso alpino e della Guardia di Finanza partono con gli sci con le pelli di foca per raggiungere sotto la bufera di neve Rigopiano.

ORE 4.00 - Dopo avere letteralmente scalato muri di neve arrivano all'hotel e si rendono conto della situazione. Ma, intanto, salvano i due superstiti Fabio Salzetta e Giampiero Parete.

ORE 6.30 – E’ l'alba quando arrivano i primi elicotteri che portano a valle i due uomini: inizia la faticosa ricerca dei dispersi.

ORE 9.30 – Viene estratto il corpo della prima vittima. E’ Alessandro Giancaterino, dipendente dell’hotel.

ORE 12.00 - La colonna dei mezzi dei soccorsi arriva a poche centinaia di metri dall'albergo. Dopo 20 ore, facendo l'ultimo tratto a piedi, raggiungono il luogo del disastro.

ORE 15.00 – I primi soccorritori arrivati ritornano verso valle dopo aver ricevuto il cambio: «Non c'è più niente».

Hotel Rigopiano: chi sono le vittime e i dispersi della slavina. È salito a 15 il bilancio dei morti: 9 uomini e 6 donne. 14 le persone di cui non si hanno notizie. Compreso un giovane senegalese, scrive Ilaria Molinari il 24 gennaio 2017 su Panorama. Sono 6 giorni che la tragedia dell'Hotel Rigopiano, resort a 4 stelle di Farindola in provincia di Pescara sommerso sotto una slavina, tiene con il fiato sospeso l'intera Italia. Il lavoro instancabile dei Vigili del Fuoco e del Soccorso Alpino ha consentito finora di estrarre vive 9 persone (oltre alle 2 scampate alla slavina) e tre cuccioli di cane figli delle due mascotte della struttura, ma restano ancora 14 dispersi, tra turisti e personale. C'erano 40 persone nell'hotel Rigopiano quando la valanga, nel pomeriggio di mercoledì, ha investito la struttura: 28 ospiti, di cui 4 bambini, e 12 dipendenti, compreso il titolare Roberto Del Rosso e il rifugiato senegalese Faye Dane. E la tragedia c'è. È la tragedia del piccolo Edoardo, vivo, ma che ha perso sotto la neve i genitori Nadia e Sebastiano. È la tragedia di Gabriele e Alessandro, cameriere e capo dei camerieri dell'Hotel, morti nel luogo a cui dedicavano la maggior parte della loro giornata. È la tragedia di tutte le famiglie che ancora non sanno se i loro cari sono vivi o meno.

Le vittime. Sono 15 i corpi estratti senza vita dalla neve, 9 uomini e sei donne: quelli di Nadia Acconciamessa e di Sebastiano Di Carlo, madre e padre del piccolo Edoardo tratto in salvo, quello di Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino (Pescara) in vacanza con il marito di cui non si hanno tracce. A queste tre vittime si aggiungono Gabriele D'Angelo, cameriere dell'hotel e Alessandro Giancaterino, capo dei camerieri e del bar dell'albergo. D'Angelo, volontario della locale Croce rossa, era conosciuto da diversi soccorritori presenti nel centro di coordinamento allestito al Palazzetto dello Sport di Penne.  Infine, 5 uomini e tre donne estratte morte il 23 e il 24 gennaio e ancora non identificate insieme al corpo di Linda Salzetta, l'estetista del Rigopiano e sorella di Fabio, il tuttofare dell'hotel. Linda "si doveva sposare il 5 maggio". Lo ha detto una parente della giovane dopo il funerale a Farindola di Alessandro Giancaterino, dello stesso paese di Linda. "Per guadagnarsi un pezzo di pane, guarda che fine che ha fatto", ha commentato la parente della ragazza morta.

I dispersi. Ancora 14 i dispersi tra cui il titolare della struttura Roberto Del Rosso. Tra loro ci sono Marco Vagnarelli e Paola Tomassini di Castignano (Ascoli Piceno) che si trovavano nella località abruzzese per una vacanza di due giorni e stavano per ripartire alla volta del Piceno. Vagnarelli è un dipendente dell'Ariston, mentre la compagna, originaria di Montalto Marche, lavora per la società Autogrill. Nessuna notizia anche di Stefano Feniello indicato come una delle persone che avevano dato segni di vita sotto le macerie, di Domenico Di Michelangelo, 41enne poliziotto, e dalla moglie Marina Serraiocco, entrambi di Osimo in vacanza con il figlio Samuel estratto vivo. Non si hanno notizie poi di Emanuele Bonifazi, 31 anni, di Pioraco, dipendente dell'hotel, e Marco Tanda, 25 anni, residente a Macerata. Era con la fidanzata abruzzese Jessica Tinari, anche lei dispersa. Tra i dispersi c'è anche un altro cittadino umbro: è Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni. Risulta dispersa anche una coppia di Castel Frentano (Chieti). Si tratta di Luciano Caporale, 54 anni, e la moglie, Silvana Angelucci, 46 anni, entrambi di professione parrucchieri. La coppia era giunta in hotel domenica pomeriggio per ripartire martedì sera ma, a seguito del peggioramento delle condizioni meteorologiche, ha deciso di trattenersi fino a mercoledì. I figli della coppia, unitamente ad altri famigliari, sono già in viaggio verso Penne al centro di coordinamento per avere notizie certe sulla sorte degli scomparsi.  All'appello manca anche un giovane senegalese, Faye Dame, che aveva da poco rinnovato il suo permesso di soggiorno presso gli uffici della Questura di Torino dove risulta residente. L'uomo, 42 anni, aveva ottenuto il rinnovo del permesso esibendo il contratto di lavoro con l'albergo. Incensurato, agli uffici della Questura risulta regolare in Italia dal 2009. 

Le testimonianze. "Sono salvo perchè ero andato a prendere una cosa in automobile" ha riferito ai medici Giampiero Parete, 38 anni, che ieri ha lanciato l'allarme per la valanga che ha travolto l'hotel. La moglie e i due figli di Parete sono sotto le macerie dell'albergo. "È arrivata la valanga - ha detto ancora ai sanitari il 38enne, ricoverato in Rianimazione - sono stato sommerso dalla neve, ma sono riuscito a uscire. L'auto non è stata sepolta e quindi ho atteso lì l'arrivo dei soccorsi". L'uomo residente a Montesilvano (Pescara), è cosciente ed è assistito dal personale della Rianimazione dell'ospedale di Pescara e dagli psicologi della Asl. È arrivato in stato di ipotermia, ma il quadro clinico non è preoccupante. È stato lui ieri a lanciare l'allarme al suo datore di lavoro. Poi la lunga attesa dell'arrivo dei soccorsi, insieme all'altro superstite. "Giampiero e tutti gli altri ospiti dell'albergo avevano pagato ed avevano raggiunto la hall, pronti per ripartire non appena sarebbe arrivato lo spazzaneve" ha raccontato poi Quintino Marcella, ristoratore. Gli avevano detto che sarebbe arrivato alle 15, ma l'arrivo è stato posticipato alle 19. Avevano preparato già le valigie, tutti i clienti volevano andare via". Così Quintino Marcella, ristoratore e datore di lavoro di Giampiero Parete, superstite della valanga sull'hotel Rigopiano. E' proprio al ristoratore che Parete ha lanciato l'allarme dopo la valanga.

I giornali stranieri. La tragedia segna l'apertura dei più importanti siti web di informazione del mondo: dalla Cnn alla Nbc News, dalla Bbc ad Al Jazeera, dal Telegraph al Guardian, da El Pais alla Vanguardia. I titoli rispecchiano l'ansia dei soccorritori: "Molti dispersi", scrive la Bbc, "si temono molti morti dopo che una valanga ha sepolto un hotel in seguito ad una scossa di terremoto", riferisce la Cnn. Con un taglio poco più basso la notizia è riportata anche dal Washington Post, che a sua volta titola su "decine di dispersi", così come il New York Times, il Wall Street Journal e Le Monde, mentre Le Figaro titola con "numerosi morti". La tragedia è riportata in homepage anche su Times of India, Russia Today, il Japan Times.

Rigopiano: allarme ignorato, spazzaneve in ritardo, mezzi senza gasolio, elicotteri fermi, le 4 falle dei soccorsi. Le istituzioni respingono però le accuse: situazione eccezionale, scrive Michael Pontrelli su Tiscali News il 19 gennaio 2017. La Procura di Pescara ha aperto una indagine per omicidio colposo sulla vicenda della valanga che ha travolto l’hotel Rigopiano a Farindola sul Gran Sasso. Le cose da chiarire sono tante in particolar modo sulla tempestività dei soccorsi. Secondo le prime ricostruzioni uno dei superstiti, Giampiero Parete, avrebbe raccontato che tutti i clienti erano pronti a lasciare l’hotel già dal primo pomeriggio perché in un primo momento era stato detto loro che lo spazzaneve sarebbe arrivato alle 15. L’arrivo è stato successivamente posticipato alle 19. Quattro ore di ritardo fatali dato che la prima notizia sull’avvenuta tragedia è stata data da Parete tramite sms ad un amico, Quintino Marcella, alle 17.40. Perché l’invio dello spazzaneve è stato ritardato? Seconda area grigia riguarda poi la tempestività della messa in moto della macchina dei soccorsi. "Quando ho dato l’allarme all’inizio non volevano credermi, la dirigente della prefettura di Pescara per due volte mi ha risposto che non era successo nulla" ha raccontato Quintino Marcella (come testimoniato dall'audio video di sopra). La partenza della carovana dei soccorsi è avvenuta intorno alle ore 20 come documentato dalla diretta dell'emittente televisiva locale Il Centro. Dal momento dell'invio dell’sms di allarme di Giampiero Parete a Quintino Marcella alla messa in moto dei soccorsi sono trascorse perciò oltre 2 ore. Si poteva fare più in fretta? I primi soccorritori sono giunti all’Hotel poco prima delle 4 e mezzo del mattino. Sulle operazioni hanno inciso le terribili condizioni meteorologiche. I mezzi di soccorso, comprese le ambulanze, diretti all'hotel Rigopiano sono rimasti bloccati a circa 9 chilometri dall'albergo. La neve caduta, almeno due metri, ha impedito loro di proseguire. I soccorritori hanno dovuto marciare per ore nella neve. Durante le operazioni non sono però mancati gli imprevisti. La prima colonna di soccorsi è rimasta bloccata per mancanza di gasolio e ha potuto riprendere grazie alla taniche di carburante trasportate a piedi dagli uomini della Protezione Civile. Questo rallentamento era evitabile? Secondo quanto appreso dall'Ansa l'ex base operativa degli elicotteri del Corpo Forestale dello Stato di Rieti, presso l'aeroporto Ciuffelli, nonostante l'emergenza risulta chiusa con ben tre elicotteri fermi. Il blocco, che si protrae da giorni, sarebbe dovuto al passaggio, dopo la riforma Madia, di uomini e mezzi della Forestale ai Carabinieri e ai Vigili del Fuoco. Durante l'emergenza sisma del 24 agosto la base e il suo personale avevano garantito l'operatività con decine di interventi di soccorso nelle zone terremotate, anche a supporto delle squadre del Soccorso Alpino. Sarebbe stato possibile superare gli impedimenti burocratici e far volare gli elicotteri? Altro aspetto poco chiaro che sarà sicuramente approfondito dalla magistratura riguarda l'allerta valanghe emesso giorni fa dal Meteomont, cioè il servizio nazionale prevenzione neve e valanghe, che indicava livello 4, il massimo è 5, di pericolo nella zona del Gran Sasso. Il rischio emesso è stato rispettato o valutato? C'erano le condizioni per far emettere dagli enti locali le ordinanze di evacuazione nelle zone a rischio? Gli uomini delle istituzioni hanno respinto qualsiasi accusa. “In azione uomini valorosi che hanno lavorato in condizioni al limite” ha affermato il numero uno della Protezione Civile Fabrizio Curcio. “Situazione eccezionale” gli ha fatto eco il ministro dei Trasporti Graziano Delrio. Per il premier Gentiloni si è creata una "tenaglia senza precedenti" tra terremoto e maltempo e “di fronte a questa morsa tutte le istituzione dello Stato si sono mobilitate". Ma il fronte istituzionale non è compatto. La presidente della Camera, Laura Boldrini ha definito “intollerabili le inefficienze e i ritardi sugli aiuti”. Anche l’ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso ha utilizzato parole dure riferendosi all’emergenza maltempo che imperversa nelle zone terremotate parlando di “Stato assente” e di "punto più basso" per la macchina dei soccorsi. Gli uomini che ieri hanno marciato tra muri di neve e un vento gelido per arrivare il prima possibile all'hotel Rigopiano sono degli eroi. Questo va detto senza se e senza ma. Purtroppo però l'eroismo dei singoli non basta se chi guida la macchina dei soccorsi non è efficiente al 100%. Sarà compito della magistratura fare chiarezza su quanto accaduto e dare una risposta ai dubbi che purtroppo rimangono nonostante le rassicurazioni dei vertici istituzionali. 

Soccorsi in ritardo. La scoperta imbarazzante: la verità sulla turbina rotta, scrive il 22 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Sarà l'inchiesta della procura di Pescara a chiarire se la tragedia dell'hoterl Rigopiano poteva essere evitata e chi non ha fatto fino in fondo il proprio dovere. Nel giorno dei primi interrogatori e del sopralluogo dei magistrati sull'area del disastro, il procuratore Cristina Tedeschini concentra l'attenzione su chi aveva il compito di disporre l'evacuazione dell'albergo, dopo che era stata diramata l'allerta meteo, e chi poi doveva liberare le vie d'accesso. Nel mirino ci sono le comunicazioni partite dall'hotel nelle ore precedenti la slavina di mercoledì scorso, oltre che quelle partite dalla provincia verso Palazzo Chigi. Tra le attrezzatture a disposizione della provincia di Pescara è noto che ci fosse una sola turbina del 1988, oltre che un Unimog, un camioncino in grado di tagliare l'erba d'estate e spalare la neve d'inverno, nelle disponibilità dell'ente pescarese dal 2000. Questo mezzo però si è rotto lo scorso 7 gennaio e da allora nessuno avrebbe autorizzato la spesa, variabile tra i 10 mila e i 25 mila euro, per poterlo riparare, nonostante la neve fosse cominciata a cadere copiosa. Uno dei dettagli che i magistrati dovranno chiarire è il motivo per cui dopo le richieste d'aiuto siano passate diverse ore prima che i mezzi di soccorso si muovessero. L'allarme del cuoco di Rigopiano è partito alle 17.40, raccolto dal suo datore di lavoro, Quintino Marcello che a sua volta ha chiamato la Prefettura. Alle 18, quando ormai l'emergenza è conclamata, l'Anas riceve la richiesta di una turbina idonea, l'unica funzionante in zona, visto che quella della provincia è inutilizzabile. Quel mezzo però doveva fare gasolio e svolgere tutta una serie di adempimenti tecnici, quindi è arrivato sulla strada provinciale solo alle 19.30. Ha dovuto superare 28 km ostruiti da neve, detriti, rami sechi per raggiungere la destinazione 12 ore dopo.

L'inchiesta: una turbina rotta da 12 giorni e l'altra ferma nel parcheggio. I primi testimoni rivelano: nessun mezzo a Rigopiano e uno lasciato spento a Penne. L'ansia dei clienti dopo le scosse, la mail del direttore: "Sono terrorizzati, vogliono stare fuori", scrive il 22 gennaio 2017 “La Repubblica”. Nel giorno della valanga sull’Hotel Rigopiano, una turbina della Provincia di Pescara avrebbe dovuto ripulire la neve proprio nella zona del resort di Farindola. Ma è stato impossibile: quella turbina è rotta dal 6 gennaio scorso ed è ferma in un’officina. Un’altra turbina sarebbe stata pronta a intervenire già dal primo pomeriggio dello stesso mercoledì ma è rimasta ferma a Penne in attesa di ordini che non sono mai arrivati. Sembra una favola e, invece, lo hanno raccontato i primi testimoni chiamati dai carabinieri del Nucleo investigativo e dai forestali. L’inchiesta, per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, punta dritta alla strada bloccata da un muro di neve. Quel muro che ha rallentato la corsa dei soccorsi. Turbina rotta e strada bloccata: la procura va a caccia dei responsabili. E presto potrebbero partire i primi avvisi di garanzia. Quello che è successo dopo le scosse di terremoto della mattina e prima della slavina (intorno alle 17) è scritto nella mail spedita dall’amministratore dell’albergo Bruno Di Tommaso alla Provincia, alla Prefettura, alla polizia provinciale e al Comune di Farindola intorno alle 13. La mail, sequestrata dagli investigatori, racconta la paura dei clienti: «I clienti sono terrorizzati dalle scosse sismiche e hanno deciso di restare all’aperto. Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla ss 42». E poi, «chiediamo di predisporre un intervento al riguardo». I racconti dei testimoni dicono che la Provincia ha due turbine: una a Passo Lanciano e l’altra a Rigopiano. Ma la turbina di Farindola è rotta dal 6 gennaio scorso e la Provincia non avrebbe i soldi per aggiustarla: una cifra compresa tra 10 e 25 mila euro. E, dal 6 fino al 18 gennaio, giorno della tragedia, nessuno ha pensato di sostituire quel mezzo con un altro e lasciando scoperta la zona di Farindola. Nonostante l’allerta meteo della Protezione civile sulle forti nevicate in arrivo; nonostante l’allerta valanghe che a partire da lunedì scorso segnala un pericolo sempre crescente; nonostante le scosse di terremoto del 18 gennaio che a Farindola si sono sentite forti. Dodici giorni di niente, poi, la tragedia. Eppure, proprio nella mattinata di mercoledì, un’altra turbina, dell’Anas, ha spalato neve anche nell’area vestina, lungo la strada statale 81 a Penne che è di competenza dell’Anas. Poi, in attesa di indicazioni dalla Prefettura di Pescara, nel primo pomeriggio, la turbina è rimasta ferma nel parcheggio della casa cantoniera di Penne. Impossibile non notarla e così hanno riferito i testimoni agli inquirenti. Se fosse stata avvertita, la turbina dell’Anas avrebbe potuto pulire in tempo anche la strada per Rigopiano? Forse sì: secondo l’Anas, nella stessa giornata, la turbina ha lavorato anche a Guardiagrele, Bucchianico, Fara Filiorum Petri, Pianella e, infine, a Penne. Farindola dista da Penne 20 chilometri. Ieri mattina, il procuratore capo Cristina Tedeschini e il pm Andrea Papalia sono andati sul luogo della tragedia, accompagnati dal comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri Massimiliano Di Pietro e dal tenente colonnello dei carabinieri forestali Annamaria Angelozzi. Una visita per studiare di persona l’albergo distrutto dalla slavina. «È una ferita grande per l’Abruzzo, questi sono morti nostri». Poi, la Tedeschini ha parlato del rischio valanghe e del conseguente disastro colposo: «Le valanghe sono cicliche: prima o poi ritornano. Ci sono luoghi dove le valanghe sono elemento costituente. Ecco perché bisogna capire cosa sia stato fatto al di là del semplice censimento del rischio, ossia: chi censisce i rischi e come li gestisce. Il solo censimento di un luogo a rischio valanga potrebbe non bastare». Il pm Papalia ha conferito al medico legale Ildo Polidoro l’incarico delle autopsie. 

Terremoto Centro Italia, sindaci del Teramano: “Lasciati soli, senza elettricità. Gli spazzaneve? Abbiamo dovuto noleggiarli”. Tanti Comuni abruzzesi sono senza energia elettrica e con i cittadini bloccati dalla neve alta 3 metri. "Impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. La nevicata era prevista, mica come il terremoto", dice il primo cittadino di Valle Castellana. A Prati di Tivo un assessore ha accolto tutti gli abitanti del paese nel suo hotel. La turbina che dovrebbe liberarli è ferma a Pietracamela. Antonio Paride Ciotti, che amministra Villa Santa Lucia: "Case a rischio slavina", scrive Valerio Valentini il 21 gennaio 2017 "Il Fatto Quotidiano". “Rigopiano è senz’altro la tragedia peggiore. Ma non è sola”. Tra le poche cose che Giuseppe Del Papa, il sindaco di Cellino Attanasio, riesce a dire, prima che la comunicazione s’interrompa, c’è questa. La linea è molto disturbata: c’è tempo solo per comunicare le informazioni più importanti. Ed evidentemente, per il primo cittadino di questo piccolo Comune del Teramano, rivendicare l’attenzione dei media è una priorità: “Non possiamo permettere che un solo evento, per quanto impressionante, oscuri la sofferenza di altre migliaia di persone”.

Non c’è solo Rigopiano. Parlando con i cittadini e gli amministratori di tanti Comuni abruzzesi arroccati tutt’intorno al massiccio del Gran Sasso, sui versanti aquilano e teramano, ce lo si sente ripetere decine di volte. “Raccontate anche i nostri drammi”. Storie di paesi e frazioni isolate, di strade sommerse dalla neve, di attese e di rabbia per aiuti che sembrano non giungere mai, o che quando finalmente arrivano si presentano sotto la forma di mezzi vecchi e inadeguati, ruspe che non servono o turbine che s’inceppano dopo pochi minuti di lavoro. Drammi che piccoli lo sono soltanto se si fa riferimento alla dimensione dei paesini che li vivono; storie periferiche solo perché i nomi di certi Comuni – Cermignano, Pietracamela, Capitignano – suonano così strani, quasi esotici. Ma l’emergenza che queste comunità stanno affrontando è reale: terremoto e maltempo hanno condannato all’isolamento e al buio, per giorni, un numero impensabile di cittadini dell’entroterra abruzzese. E se nel nord della provincia dell’Aquila, nei pressi dell’epicentro delle scosse del 18 gennaio, la situazione va lentamente migliorando, alle pendici dei Monti della Laga, ai confini con le Marche, e un po’ dovunque nella Val Vomano le testimonianze che si raccolgono sono preoccupanti. “L’emergenza è grave, e le forze in campo per risolverla insufficienti”, ammette chi è impegnato in queste ore nella sala operativa allestita dalla Prefettura di Teramo. “Inutile girarci intorno. Se si evita di fare polemica, è solo per calcoli politici: molti sindaci, e magari anche qualche alto dirigente della Provincia, non se la sentono di sparare contro il proprio stesso partito”.

Valle Castellana. L’intero paese isolato con una bimba malata. Il sindaco: “Ieri ho sbroccato con la Protezione civile, ma non è servito” – Era già stato duramente colpito dai terremoti del 24 agosto e del 20 ottobre scorsi, questo Comune teramano di meno di mille abitanti a una manciata di chilometri dal confine marchigiano. “Ma la tragedia, stavolta, è anche peggiore”, dice al telefono un residente di Valle Castellana, prima che la telefonata s’interrompa. Da lunedì 16 gennaio, gli abitanti del paese sono tagliati fuori dal mondo, privi di energia elettrica e bloccati da cumuli di neve alti fino a 3 metri, nelle frazioni più montagnose. Come Pietralata, dove una bimba soffre da giorni, pare, di febbre altissima. Pare, perché le notizie sono frammentate: riuscire a parlare con chi si trova lì è praticamente impossibile. A risponde subito, al telefono, è invece il sindaco, Vincenzo Esposito, che è a Teramo per richiedere l’intervento dell’Esercito e della Protezione civile. Ed è furioso: “Ieri ho sbroccato durante una riunione qui alla sala operativa. C’è una impreparazione imbarazzante nel coordinare i lavori. Le attese sono enormi, e la nevicata era abbondantemente prevista: mica come il terremoto”. Il tutto aumenta la frustrazione. “Ricevo telefonate dei miei concittadini che mi rivolgono preghiere, lacrime, insulti. Non ce la faccio più”. Solo nella serata di venerdì, tramite un elicottero dell’esercito, sono stati portati i primi medicinali ai residenti di Pietralta e Valle Castellana. Ma per aprire una via d’accesso, e di fuga, ci servirà ancora tempo. I tecnici dell’Enel parlano di lavori che procedono a rilento anche per il rischio continuo di slavine e valanghe. Da Trento sono arrivate delle turbine: ma sulla strada da Ascoli a Valle Castellana hanno subìto dei guasti e sono state costrette a fermarsi.

Prati di Tivo. L’assessore accoglie tutti nel suo albergo: “Siamo 23, tra cui un cardiopatico. Siamo salvi, ma c’è il rischio di slavine” – Mirko De Luca è l’assessore al Turismo di Pietracamela, borgo montano di 271 abitanti: il comune più piccolo della provincia di Teramo. Ma Mirko De Luca è anche il gestore di un hotel che si trova nella frazione di Prati di Tivo, a due passi dagli impianti sciistici. È in questo hotel che De Luca ha accolto tutti gli abitanti del paese: “Con il nostro gatto delle nevi siamo andati a recuperare casa per casa, residence per residence, tutte le 23 persone che ora stanno qui da noi. Da più di 5 giorni, con 4 metri di neve e le minime che sfiorano i meno 10. Per fortuna siamo riusciti a far partire il generatore elettrico del mio albergo, e ora attendiamo i soccorsi”. Che però tardano ad arrivare. “Venerdì mattina siamo stati raggiunti da un elicottero dei Vigili del Fuoco: ne sono scesi 4 pompieri per verificare quale fosse la nostra condizione. Ci sarebbe poi una turbina, che però è ferma a Pietracamela e, ci dicono, dovrà lavorare almeno per 20 ore, salvo imprevisti, per venirci a liberare”. Prima del tardo pomeriggio di sabato, dunque, inutile sperare. “Tra noi c’è anche un cardiopatico: non accusa gravi problemi, per ora, ma comunque non stiamo tranquilli. E poi c’è l’altro rischio”. Quale? “Quello delle slavine. Nelle scorse ore se ne è già staccata una molto grande, che fortunatamente non ha investito il centro abitato. Ma altre potrebbero verificarsene. La situazione è molto difficile”.

Isola del Gran Sasso, dove l’isolamento è totale. “Un anziano è morto sotto un capannone. Strutture d’emergenza allertare in ritardo” – Se negli altri Comuni sommersi dalla neve un contatto, benché a fatica, lo riesce a stabilire, con Isola del Gran Sasso – 5mila abitanti e il santuario di San Gabriele come centro di gravità – non sembra proprio possibile. Neppure per la stessa Prefettura di Teramo. “Il sindaco? Neanche noi riusciamo a comunicarci in modo stabile. Sono saltati i ponti radio. Non funzionano né i fissi né i mobili”. Soltanto nella mattinata di sabato una residente, che a Isola gestisce un ristorante, riesce a rispondere via WahtsApp: “La situazione è drastica. Un uomo anziano è morto sotto un capannone. Intere frazioni sono del tutto isolate. Le linee telefoniche sono saltate. Vediamo arrivare solo adesso i primi soccorsi, grazie all’Esercito”. Dopo 6 giorni dall’inizio dell’emergenza. Come se lo spiegano, a Isola del Gran Sasso, questo ritardo? “Le nevicate sono state oggettivamente straordinarie. Ma qui erano previste. Le strutture dei soccorsi sono state allertare in ritardo”. Il cellulare del primo cittadino Roberto De Marco, nel frattempo, continua a risultare irraggiungibile. Ma tutto ciò non vale solo per i giornalisti. Roberto è un universitario nato e cresciuto a Isola che ora studia a Bologna: “E’ da giorni che va avanti così. Provo ad avere notizie dei miei famigliari, ma non riesco a parlarci a telefono”. La ricerca di amici e parenti corre allora su Facebook, su pagine collettive dove si chiede conto di una cugina, di una amica invalida, di una zia ultranovantenne, dove s’invoca l’intervento di un medico. Si organizzano perfino delle staffette: “Per favore, ogni due ore qualcuno si rechi nella stazione dei Carabinieri a riportare ciò che ci diciamo online, perché lì sono senza telefono e senza internet”.

Cellino Attansaio e Cermignano. “Siamo abbandonati a noi stessi. Proviamo a sbrigarcela da soli” – Quando scopre che a contattarlo è un sito web, il sindaco di Cermignano non trattiene un urlo di sollievo: “Finalmente! Ma allora esiste qualcuno che s’interessa di noi!”. È un sollievo amaro, però, quello di Santino Di Valerio, che subito si corrompe in protesta: “Siamo stati abbandonati da tutti. C’è un’incapacità a tutti i livelli: non capiscono il dramma che stiamo vivendo. Gli aiuti arrivano in ritardo, e calati dall’alto. Il risultato è che l’emergenza viene gestita da persone che qui non hanno mai messo piede”. Cermignano è un Comune di circa 1.700 abitanti a metà strada tra Teramo e Atri. L’isolamento in cui si trova da domenica notte è lo stesso che patisce, pochi chilometri più a est, Cellino Attanasio. Il primo cittadino, Giuseppe Del Papa, al telefono sfoga una rabbia che è quasi desolazione: “Ma che Italia è questa? Non sappiamo più nemmeno affrontare una nevicata a gennaio che, per quanto straordinaria, era comunque ampiamente prevista? Riceviamo aiuti col contagocce, senza un minimo di coordinamento e per giunta attraverso macchinari obsoleti”. A Cellino una turbina è arrivata, infatti, ma si è rotta dopo pochi minuti di attività. “Era vecchissima”, sentenzia Del Papa, che prosegue: “Ci sentiamo lasciati soli. Alla fine abbiamo provveduto in proprio: abbiamo noleggiato da ditte private dei mezzi spalaneve. Ma aprire così le vie nel centro storico sarà difficilissimo. E nel frattempo, da ormai quasi una settimana, restiamo senza energia elettrica”. Chi può, da questi paesi scappa, nell’attesa che si superi la crisi. Come Cesare, che venerdì mattina è riuscito a raggiungere la Statale e ha portato i suoi genitori sulla costa: “Ma io sono fortunato, perché abito vicino alla strada principale. Chi sta nelle frazioni interne, è condannato a restare”.

Villa Santa Lucia, a pochi chilometri da Farindola. “Una slavina minaccia il centro abitato” – “Magari la valanga non investirà le case: ma preferisco lanciare un allarme di troppo piuttosto che correre il rischio di dover contare i morti”. Antonio Paride Ciotti, sindaco di Villa Santa Lucia, risponde così quando gli si chiede se davvero il suo Comune possa essere travolto dalla slavina staccatasi da Monte Cappucciata. E del resto Rigopiano è a pochi chilometri di distanza, impossibile non fare paragoni. Anche se qui siamo in provincia dell’Aquila, non lontani dalla Rocca di Calascio, set di molti film e pubblicità. “Per il momento la slavina è a distanza dalle case. Ma per precauzione ha chiesto una verifica alle forze dell’ordine. Monitoriamo l’evolversi della situazione”. Gli abitanti di Villa Santa Lucia, poco più di cento, da giovedì hanno ritrovato anche la corrente elettrica, grazie a dei gruppi elettrogeni. Una delle strade che porta a paese è ormai sgombra: “Si va verso il meglio, speriamo”.

Capitignano e Campotosto: “Non più isolati, ma le scosse non si fermano. Situazione difficilissima” – Sull’altro versante del massiccio del Gran Sasso c’è l’epicentro del terremoto del 18 gennaio. Montereale è rimasto bloccato per quasi 2 giorni, la strada che saliva dall’Aquila era bloccata all’altezza di Arischia. Ancor più grave, però la situazione a Campotosto, Comune di 540 abitanti sparsi nelle varie frazioni tutt’intorno all’omonimo lago: a 1.400 metri d’altitudine. La vicesindaco Gaetana D’Alessio mercoledì aveva protestato: “Sentiamo scosse in continuazione, ma siamo impossibilitati a uscire: siamo bloccati dentro casa, come i topi”. Due giorni dopo appare più serena. Quando risponde al telefono sono le 18 di venerdì: la strada Provinciale da Aringo ormai è percorribile, la Statale 80 quasi. Solo la via verso la frazione di Mascioni rimane in parte non accessibile. Roberto, che lì ha la sua seconda casa, è arrivato dall’Aquila per recuperare alcune cose all’interno: “Non mi è stato permesso. Ma spero che tutto si sblocchi entro il fine settimana”. D’Alessio precisa: “I ritardi sono stati tanti e gravi. Ma c’è da dire che l’emergenza era davvero estesa. La cosa più pesante da sopportare, ora, è il prolungarsi dello sciame sismico. La situazione, pure dal punto di vista psicologico, è difficilissima”.

Anche a Capitignano, nel fondovalle tra Campotosto e Montereale, è ormai la paura il nemico peggiore. Le vie d’accesso al paese sono state aperte, agli sfollati sono stati assegnati degli alloggi nei progetti C.A.S.E. dell’Aquila: quelli costruiti dopo il terremoto del 2009, e ora in parte vuoti. “Il disagio c’è, ma è sempre meglio che restare in un palazzetto dello sport ammassati tutti insieme”, confessano i residenti. Luigi, uno di loro, mentre è in fila per fare richiesta di un alloggio, precisa: “Per le perizie e i controlli alle strutture ci sarà tempo. Ora pensiamo a smaltire il ricordo di quello che abbiamo vissuto pochi giorni fa: sentire le mura della propria casa tremare sotto i colpi del terremoto e sapere di non poter scappare perché fuori dal portone ci sono cumuli di neve, non è bello. Ma tutto si supera”.

Rigopiano, la rabbia del papà di Stefano: ​"Se è morto faccio una strage". Dopo la disgrazia dell'hotel di Rigopiano, la rabbia dei familiari per le mancate comunicazioni e le lamentele per la gestione dell'emergenza, scrive Claudio Cartaldo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non si dà pace Alessio Feniello, il papà di Stefano, 28enne ancora disperso sotto la valanga dell'hotel di Rigopiano. Già ieri, dopo aver parlato con Francesca Bronzi, la fidanzata di suo figlio, aveva esternato tutta la sua rabbia per la gestione dell'emergenza. "I morti sono stati uccisi", ha urlato ai microfoni dei giornalisti, mettendo in stato di accusa chi non era riuscito a salvare i morti e i dispersi. La fidanzata di suo figlio, infatti, gli ha spiegato di essere stata a fianco del ragazzo per molto tempo e di averlo illuminato con una torcia del cellulare finché ha retto la batteria. A far scattare la rabbia di Alessio Feniello è stato un errore della Protezione Civile nel comunicare l'elenco dei superstiti. Stefano sarebbe finito nella lista dei miracolati per errore, quando invece ancora lottava tra la vita e la morte sotto la coltre di neve. Alessio ora parla di "arroganza e prepotenza" delle Istituzioni. "È arrivato il prefetto, insieme al presidente della Regione Abruzzo e del Questore, che con arroganza ci ha detto: 'È vero solo ciò che vi diciamo noi, tutto il resto sono cazzate", racconta. Il prefetto ha fatto i nomi dei superstiti, inserendo anche quello di Stefano. Ma il giorno successivo, all'arrivo delle ambulanze, nessuna di queste trasportava Stefano. Perché in realtà non era tra i superstiti. "Hanno agito con arroganza e senza umanità verso un padre che ha il figlio sotto le macerie", urla il papà. Poi aggiunge: "Mi aspettavo che qualcuno mi dicesse che si era trattato di un errore". Da tre giorni i familiari dei dispersi e dei defunti attendono comunicazioni ufficiali. Vorrebbero sapere se i loro cari sono vivi, se ci sono speranze o se tutto è ormai perduto. "Quelli che sono morti sono stati uccisi e quelli che ancora non trovano sono stati sequestrati contro la propria volontà, perché volevano ripartire e avevano già fatto le valigie. Li hanno messi tutti nella sala camino come carne da macello - incalza - la responsabilità è delle autorità", aveva detto ieri il papà di Stefano. Ma ora, come riporta il Messaggero, affonda: "Se mio figlio è morto faccio una strage".

Strage Hotel Rigopiano, il papà di Stefano: «andrò avanti all’infinito per avere giustizia». «A chi devo dire grazie Al presidente di regione? Al prefetto? Al direttore dell’hotel?», scrive il 26 Gennaio 2017 "Prima da Noi". Identificato anche Stefano Feniello, il giovane inserito nella lista dei vivi. Il dramma doppio dei Feniello: «mio figlio sotto le macerie, nessuno è sceso a recuperarlo». «Perché nessuno si è attivato per tempo e li ha liberati? Perché lassù non c’era il figlio del prefetto, non c’era il figlio di un magistrato, non c’era il figlio del senatore. C’era solo la povera gente che si faceva una vacanza con i risparmi guadagnati con i sacrifici». Alessio Feniello, papà di Stefano, tra le vittime già estratte da quello che resta dell’hotel Rigopiano, è tornato nuovamente a gridare la sua rabbia per quello che è accaduto a Farindola. Dopo la tragica beffa dei giorni scorsi, quando la prefettura gli ha annunciato per errore che il figlio era vivo, adesso chiede con tutta la voce che ha in corpo che venga fuori la verità. E ha fatto una promessa: «andrò avanti all’infinito, mi venderò tutte le proprietà che ho se serve. Non voglio soldi, voglio solo giustizia, voglio che in Italia non accada più quello che è successo lì sopra». Secondo Feniello le responsabilità sono molteplici, non solo da parte delle istituzioni ma anche dei gestori dell’hotel perché «un 4 stelle deve avere un gatto delle nevi, deve avere un trattore, anche quello dei contadini. Non esiste che si fa ridurre quella strada in quello stato. Se l’Abruzzo non è in grado di gestire questa situazione deve chiudere gli alberghi». Papà Feniello è stremato. Ormai da una settimana vive nell’ospedale di Pescara. Così anche ieri quando il corpo di suo figlio è stato trasportato a Chieti per l’autopsia. Le sale del nosocomio di Pescara sono infatti impraticabile perché in ristrutturazione e quindi è stato necessario il trasferimento. La mamma non affronta le tv ma ieri ha voluto incontrare i vigili del fuoco perché ha voluto sapere come sono andate veramente le cose, se il suo Stefano ha sofferto. «Ho al polso l’orologio di mio figlio e il suo braccialetto. Al collo ho la sua catenina. Questo è tutto quello che mi è rimasto di lui. Chi devo ringraziare? Grazie a Bruno, il direttore dell'hotel? Grazie al presidente della Regione? Grazie al prefetto?» Feniello vuole verità e giustizia e si domanda chi dovesse intervenire prima della tragedia a recuperare quelle persone lassù in montagna: «chi sono i responsabili? Chi deve evitare che accada questo nel 2017? Di chi è la responsabilità? Non dovevano farli salire. Mio figlio prima di partire ha mandato una mail all'hotel che gli ha risposto di non preoccuparsi perchè garantivano il servizio. Al cantante del Volo, Gianluca Ginoble, invece, lo stesso giorno l'hotel ha mandato un messaggio in cui si diceva di non andare. E' una vergogna. Il sindaco ha chiuso le scuole per la neve, ma non ha chiuso l'hotel. Perche'?». Alessio Feniello poi ha parlato di «un prefetto che mi viene ad annunciare la sera che tra i cinque nomi dei superstiti c'è anche quello di mio figlio e che fino alla sera del giorno dopo non ha avuto la dignità e il coraggio di venirmi a dire 'ci siamo sbagliati'. Gli ho chiesto informazioni e mi ha risposto con arroganza, mi ha liquidato come uno straccio. Che persone sono queste? A chi paghiamo lo stipendio? A delle persone disumane». Feniello se la prende anche con il sindaco di Farindola che ha incontrato la mattina del 19 gennaio quando è arrivato a 50 metri dall’hotel insieme alla carovana dei soccorsi: «mi ha detto ‘siamo abituati a questa cosa. In caso di emergenza mandiamo i viveri su’. Ma quali viveri… si doveva preoccupare di liberare quelle persone. Ora qualcuno dovrà pagare, non voglio soldi, voglio solo giustizia».

L'ira dei parenti in lacrime «Morti? Ce li hanno uccisi» I pm: «Ritardi da valutare». A Rigopiano estratto il corpo della settima vittima La Procura indaga per omicidio e disastro colposo, scrive Stefano Zurlo, Martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Ora la cronaca lascia il posto all'inchiesta. E al corredo di polemiche che la tragedia si porta puntualmente dietro, come tutti i disastri italiani. Certo, si scava ancora fra le rovine del Rigopiano ma la fiammella è quasi spenta. E la contabilità del dolore si muove appena: dopo il ritrovamento vicino alla zona cucina di una donna, i morti ufficiali non sono più 6 ma 7 e di conseguenza calano i dispersi, termine sempre più logoro, scesi a 22. Undici i sopravvissuti. Dunque, in primo piano c'è l'indagine, alimentata a sua volta da retroscena, rivelazioni, persino dagli sfoghi dei parenti delle vittime. Alessio Feniello, il papà di Stefano che per qualche ora era stato dato per vivo e invece è svanito nelle viscere dell'hotel, è durissimo: «Quelli che sono morti sono stati uccisi. Sì, li hanno sequestrati contro il loro volere perché volevano rientrare. Li hanno sequestrati. Avevano le valigie pronte. Li hanno riuniti tutti vicino al caminetto come carne da macello». Gli ospiti, questo ormai è assodato, attendevano con ansia l'arrivo dello spazzaneve che avrebbe dovuto liberare la strada. Tutti, dopo le ripetute scosse, volevano andarsene al più presto ma, fra ritardi e difficoltà, il mezzo tanto atteso non è mai arrivato. O meglio, è stato anticipato dall'immane valanga che nel pomeriggio di mercoledì si è abbattuta sulla struttura, travolgendola. E ora il padre attende una parola definitiva sul destino del figlio. La fidanzata di Stefano, Francesca Bronzi, si è salvata e dall'ospedale di Pescara sembra cancellare anche quell'ultimo dubbio: «Con la luce del telefonino, finché la batteria ha retto, ho illuminato il braccio di Stefano. Si lamentava, lo chiamavo ma non rispondeva. Poi non l'ho sentito neanche più lamentarsi». Comprensibile che il genitore, illuso per qualche ora dalle autorità su un probabile lieto fine, erutti tutta la tensione accumulata. E si chieda come mai l'hotel non sia stato «liberato» in tempo dall'assedio del ghiaccio. Anche la mail spedita alle 7 del mattino dal direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso a un nugolo di autorità accende gli animi con la sottolineatura di una «situazione preoccupante» e la richiesta di un «intervento urgente». La procura, che procede per omicidio colposo plurimo e disastro colposo, valuta tutti gli elementi ma frena nel tirare conclusioni che sarebbero premature. In particolare sul versante delle comunicazioni e dell'avvio delle ricerche nella serata di mercoledì: «Ci sono state inefficienze e interferenze - spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini - sono però da valutare gli effetti di eventuali ritardi». Il riferimento è alle telefonate fatte a ripetizione da Quintino Marcella al 118 senza però essere creduto. «Che ci sia stata - aggiunge Tedeschini - una serie di disfunzioni e magari di ritardi da parte della sala operativa nel recepire l'importanza di una segnalazione da parte di un soggetto non istituzionale è un fatto registrato. Che questo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sull'efficacia dell'azione di soccorso, è da vedere». Si studia il dossier senza clamori. Senza teoremi. E si aprono nuovi capitoli. Secondo la denuncia di Forum H2O Abruzzo l'hotel è stato realizzato su accumuli di detriti e precedenti valanghe. Insomma, sarebbe marchiato da un peccato originale gravissimo. D'altra parte, in un clima che a posteriori pare di incoscienza collettiva, si scopre che la mappa del rischio valanghe, prevista dalla legge del 1992, non è stata completata. Vale per l'Abruzzo come per molte altre Regioni. Ora, solo ora, tutti i nodi vengono al pettine.

Rigopiano, l’email con l’Sos ignorata dell’hotel: “I clienti sono terrorizzati, intervenite”. Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell'hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente, scrive Andrea Antinori il 23 gennaio 2017 su "Bergamo News". Il 18 gennaio, dopo le forte scosse di terremoto e poche ore prima della terribile valanga, Bruno Di Tommaso, amministratore unico e direttore dell‘hotel Rigopiano, aveva inviato una mail al Prefetto di Pescara, alla polizia provinciale, al presidente della provincia ed al sindaco di Farindola, con cui si richiedeva assistenza immediata ed un intervento urgente. “La situazione è diventata preoccupante” si legge, ed ancora: “Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzare i clienti, ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino all ss 42”. E inoltre “chiediamo di predisporre un intervento al riguardo”. Il presidente della Provincia Di Marco ha letto l’email dell’hotel Rigopiano il giorno successivo, giovedì 19 Gennaio. “Nessuno l’ha sottovalutata – dice Di Marco – io alle 14 avevo incontrato la sorella del proprietario ed avevo dato loro rassicurazioni che entro la serata sarebbe arrivata una turbina a liberare le strade. Ai fini dell’emergenza avevo già spedito una lettera al Governo nella quale chiedevo aiuto e mezzi per liberare anche quelle zone. Per me è una mail ininfluente: non ci siamo mai fermati”. La Provincia di Pescara, tuttavia, sapeva che Rigopiano era isolata, che gli spazzaneve non sarebbero potuti arrivare all’hotel e che per raggiungerlo sarebbe servita una turbina già la mattina del 18 Gennaio, grazie alle segnalazioni da parte degli operatori degli spazzaneve, intenti a pulire già alle 3 di notte e che, bloccati dalla troppa neve, si erano dovuti fermare ad un bivio che porta all’albergo. A quel punto è scattata la ricerca di una turbina, rintracciata alle 13 nell’Aquilano, ma alla quale sarebbero occorse ore per giungere nel Pescarese. A tal proposito, Di Marco afferma: “La turbina dell’Anas di Penne, che ha poi materialmente liberato la strada per Rigopiano nella notte, nel pomeriggio non era ferma ma stava ripulendo la ss 81.” Queste informazioni sono entrate nel fascisolo dell’inchiesta condotta dalla Procura di Pescara per disastro ed omicidio colposo plurimo. Intanto a Rigopiano continua incessantemente la corsa contro il tempo delle operazioni di ricerca, nonostante la nebbia e la pioggia che indurisce la neve. Il conto dei dispersi, nonostante l’accertamento della sesta vittima (si tratta di un uomo), è rimasto fermo a ventitrè: si è aggiunto, infatti, Faye Dame, senegalese regolare di 30 anni che lavorava nell’hotel.

Rigopiano, la prima drammatica telefonata del superstite al 118: “L’hotel non c’è più”. Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla tragedia del Rigopiano perché al momento della valanga si trovava fuori dall’hotel, è stato il primo a lanciare l’allarme. Al telefono ha detto che c’era stata una valanga, ma i soccorsi sono partiti solo ore dopo, scrive il 26 gennaio 2017 Susanna Picone su "Fanpage". La prima volta che Giampiero Parete, il cuoco sopravvissuto alla valanga sull’Hotel Rigopiano perché al momento del dramma si trovava fuori dalla struttura, è riuscito a mettersi in contatto con il 118 erano le 17.08 del 18 gennaio. Ma solo circa due ore dopo, alle 19.01, la macchina dei soccorsi ha capito che nella località abruzzese era successo qualcosa di grave. Lo si evince dai tabulati telefonici e dalle testimonianza rese agli inquirenti. A quell’ora, infatti, Parete riesce a parlare per la seconda volta con il 118. Nella prima di quelle drammatiche telefonate si sente Parete tentare di spiegare quanto appena accaduto a Farindola. La telefonata, agganciata dal 118 di Chieti, viene subito girata ai colleghi di Pescara. “Cosa è successo all’Hotel Rigopiano?”, chiede l’operatrice del 118 al superstite, che risponde: “C’è stata una bufera, l’hotel non c’è più, non c’è più niente. Ci sono dei dispersi, c’è stata una grossa valanga”, tenta di spiegare Parete che comunica di trovarsi insieme a un'altra persona. “È crollato l’hotel?”, chiede il 118, “è crollato tutto”, risponde il cuoco. “Per quello che può tenga il telefono libero”, si sente rispondere dal 118. Dopo la prima telefonata la Prefettura parte con le verifiche e cerca di ricontattare il cuoco ma non ci riesce, e a quel punto chiama al numero fisso dell'albergo che ovviamente non risponde perché sotto la valanga. Si cerca di allertare l'elicottero della Guardia Costiera, che però non può volare a causa del maltempo. Alle 17.40 la Prefettura riesce a contattare il direttore dell'albergo Bruno Di Tommaso che “depista” la sala operativa spiegando di aver “chattato mo' con l'albergo”, e che non gli risultava nulla di grave. Però il contatto risale almeno a un’ora prima ed è questo secondo gli inquirenti che dà vita al primo grave “equivoco” della vicenda. La sala operativa si convince che si tratta di un falso allarme. Alle 18.03 Parete riesce a mettersi in contatto con il suo amico Marcella il quale continua a chiamare 112 e 113. Ma anche questa seconda segnalazione viene considerata un falso allarme. Quando l’uomo alle 18.20 richiama gli viene risposto che è già stato tutto verificato. Poi arriva la telefonata di Parete alle 19.01. Giampiero Parete è stato poi salvato dai soccorritori arrivati con gli sci all’alba del 19 gennaio insieme all’altro superstite che come lui era fuori dall’albergo al momento della slavina, Fabio Salzetta. Il cuoco era in vacanza insieme alla moglie Adriana e i due figli Gianfilippo, di 8 anni, e Ludovica, 6 anni. Dopo oltre 40 ore di attesa l’uomo ha potuto riabbracciare tutti i suoi cari, che risultano tra gli undici sopravvissuti dell’hotel. Ventinove, invece, le vittime del dramma.

"Slavina? Inventata da imbecilli" Così è stato ignorato l'allarme. La telefonata tra Marcella e l'operatrice: "Questa storia gira da stamattina, non è successo nulla". Poi una serie di equivoci, scrive Franco Grilli, martedì 24/01/2017, su "Il Giornale". Non sono bastate quelle parole chiare al telefono che davano l'allarme per mettere in moto immediatamente la macchina dei soccorsi. Emerge adesso la trascrizione della telefonata tra il ristoratore, Quintino Marcella che per primo ha chiamato l'operatrice della Protezione Civile. Ecco la chiamata al 112. La telefonata chiave è quella di mercoledì 18 gennaio alle 18:20. "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome", esordisce il ristoratore che aveva ricevuto un messaggio vocale da un amico che si trovava a Rigopiano.

Marcella: "Mi sente?"

Funzionaria: "Sì che la sento".

M: "Sono Marcella di cognome, Quintino di nome. Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp cinque minuti fa, l'albergo di Rigopiano è crollato, non c'è più niente... Lui sta lì con la moglie, i bimbi piccoli... intervenite, andate lassù".

F: "Questa storia gira da stamattina. I vigili del fuoco hanno fatto le verifiche a Rigopiano, è crollata la stalla di Martinelli".

M: "No, no! Il mio cuoco mi ha contattato su WhatsApp 5 minuti fa, ha i bimbi là sotto... sta piangendo, è in macchina... lui è uno serio, per favore".

F: "Senta, non ce l'ha il suo numero? Mi lasci il numero di telefono (...). Ma è da stamattina che circola questa storia, ci risulta che solo la stalla è crollata. Che le devo dire?".

In questo scambio di frasi si consuma l'equivoco fatale: nella mattinata una scossa aveva fatto crollare il tetto di una stalla di un allevatore nei pressi di Farindola. L'operatrice quando sente la parola Rigopiano, come sottolinea Repubblica, pensa immediatamente alla stalla ed esclude l'ipotesi che ci sia qualche problema all'hotel. Così da questo momento in poi Marcella prova a far ragionare l'operatrice:

F: "Come si chiama quel cuoco?".

M: "Giampiero Pareti. È quello della pizzeria, è il figlio di Gino...".

F: "Sì, lo conosco benissimo il figlio di Gino, conosco lui, conosco la mamma. È da stamattina che gira 'sta cosa. Il 118 mi conferma che hanno parlato col direttore due ore fa, mi confermano che non è crollato niente, stanno tutti bene".

M: "Ma come è possibile?".

F: "La mamma dell'imbecille è sempre incinta. Il telefonino... si vede che gliel'hanno preso...".

M: "Ma col numero suo?".

F: "Sì".

A questo punto entra in campo un altro equivoco. Il direttore dell'hotel Di Tommaso era stato contattato dal centralino del Css per informarsi sulla situazione. Marcella aveva chiamato anche il 118 prima di chiamare il Css. Ma Di Tommaso quando viene contattato non è a Farindoli ma a Pescare e non può sapere cosa sia successo all'hotel. E così la funzionaria non crede alle parole di Marcella:

F: "Due ore fa, le confermo, al 118 hanno parlato con l'hotel. Non le dico una bugia! Ma se fosse crollato tutto, pensa che che rimarremmo qua?"

M: "Si metta in contatto col direttore...".

F: "Non so se si rende conto della situazione... Abbiamo gente in strada, gente con la dialisi, anziani. E io per lei... Provi lei a mettersi in contatto con il direttore. Non è scortesia. Arrivederci".

Il resto della storia è noto. Da lì a qualche ora la scoperta del disastro.

Hotel Rigopiano, la telefonata che frenò i soccorsi. L'amministratore alla prefettura dopo la slavina: "Li ho sentiti ora: è tutto a posto". Ma lui si trova altrove, scrive il 2 febbraio 2017 "Quotidiano.net". "L'albergo crollato? No è tutto a posto". Così l'amministratore dell'Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, risponde alla prefettura di Pescara che intende verificare le prime notizie arrivate al 118. La telefonata risale alle 17.40 di mercoledì 18 gennaio, quando la slavina ha già travolto la struttura. Di Tommaso in quel momento si trova altrove ma spiega alle autorità di avere da poco avuto contatti con il personale e assicura che nel resort la situazione, compatibilmente con l'enorme nevicata, è sotto controllo. Ecco la trascrizione dell'audio che viene diffuso oggi da alcune testate online. 

Funzionario prefettura: «Oh Bruno ciao, senti fammiti chiedere una cosa, tu fai il direttore su a Rigopiano?».

Di Tommaso: «Sono l'amministratore».

Funzionario: «Sai com'è la situazione su?».

Di Tommaso: «Tragica. Sto rientrando a casa in questo momento».

Funzionario: «La strada è chiusa?».

Di Tommaso: «Certo che è chiusa... ma pure Farindola».

Funzionario: «Io sto alla sala operativa della prefettura: ma tu riesci a parlare con qualcuno su?».

Di Tommaso: «No, solo whatsapp».

Funzionario: «Allora vedi un pochettino, perchè abbiamo ricevuto... aspetta un attimo che ti faccio parlare direttamente col direttore... abbiamo ricevuto una telefonata un pò strana, volevamo accertarci un attimino... Dottor Lupi dove sta? Aspetta che ti passo direttamente il dirigente, il responsabile».

Lupi: «Pronto? Sono il dottor Lupi... sono stato spesso ospite da voi, ultimamente proprio quando è successo il secondo terremoto e ho visto che la struttura è in cemento armato. Adesso abbiamo avuto una telefonata di una persona che diceva che all'hotel Rigopiano c'erano feriti per crolli, etc. Abbiamo una telefonata registrata alla nostra centrale operativa...»

Di Tommaso: «Ma no...chi l'ha fatta...»

Lupi: «...attenzione, questa telefonata registrata al nostro sistema 118... non risponde poi più.. a noi il numero ci appare sempre benchè ci si metta trucco, trucchetto, 'anonimò eccetera... Tu hai notizia?»

Di Tommaso: «Ma certo che ho notizia, no no..»

Lupi: «quindi tutto a posto...»

Di Tommaso: «cioè tutto a posto nel senso che...».

Lupi: «Benissimo, mi fa grande piacere. Tra poco a metà febbraio sarò di nuovo vostro ospite. Che devo dire? L'importante è che è sicuro che non ci sia niente».

Di Tommaso: «No.. Io sono stato fino a mò in collegamento tramite whatsapp...».

Lupi: «perfettissimo...» .

Di Tommaso: «...noi abbiamo una parabola per cui il segnale Internet è garantito, io riesco a comunicare con whatsapp. Tutto qua, insomma».

Lupi: «Perfetto…direttore mi dà un gran sollievo... Noi dobbiamo sempre accertarci, con l'aiuto qui del nostro amico comune. Va benissimo, grazie grazie».

Di Tommaso: «Niente, grazie, arrivederci».

L'allarme era arrivato al centralino di emergenza mezz'ora prima con la telefonata di Giampiero Parete, il cuoco scampato alla tragedia. Le parole di Di Tommaso tranquillizzano le autorità, che riterranno inattendibile anche l'sos successivo, quello lanciato da Quintino Marcella (documentato da un altro audio). 

Intanto prosegue l'inchiesta sulla tragedia, che al momento non vede nessun nome sul registro degli indagati. Gli esperti che hanno partecipato ai primi sopralluoghi raccontano che la valanga sarebbe stata causata dal distacco di uno strato di neve di quasi 3 metri, accumulatosi sopra un altro strato di neve particolarmente compatto che avrebbe fatto da piano di scorrimento. Un fatto re che aggiunto alla pendenza accentuata, avrebbe prodotto l'effetto slavina del 18 gennaio. 

Charlie adesso rincara la dose e pubblica la rabbia degli italiani. Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano vengono pubblicati i messaggi pieni di rabbia degli italiani, scrive Luca Romano, Sabato 4/02/2017, su "Il Giornale". Dopo le polemiche per la vignetta di Charlie Hebdo sulla valanga di Rigopiano con la morte in tenuta da sci, diversi vignettisti di casa nostra hanno risposto con altrettanti disegni per sottolineare quel pugno allo stomaco ricevuto dalla Francia. Ma c'è anche chi sul web ha commentato e non poco il gesto di Charlie. Pareri, commenti ed opinioni forti cariche di rabbia per quella vignetta poco opportuna con 29 morti sotto la neve. E Charlie ha abbandonato l'autocritica per riaprire il duello con l'Italia pubblicando proprio quei commenti a caldo apparsi in Italia sul web dopo la vignetta. E linkiesta.it ne ha selezionati alcuni: "Questa provocazione - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. E ancora: "Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. C'è chi la butta ancora sul calcio: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Un duello che non accenna a spegnersi...

Charlie Hebdo risponde (di nuovo) agli italiani, scrive Federico Iarlori il 3 Febbraio 2017 su “L’Inkiesta”. C’era da aspettarselo. Dopo la risposta alle polemiche sulle (audaci) vignette pubblicate da Charlie all’epoca del terremoto di Amatrice, anche questa volta il settimanale satirico francese non è rimasto a guardare. Nuovo polverone - a causa dell’ormai famoso disegno (anch’esso audace) con la morte sugli sci -, nuova reazione pubblicata sul numero in edicola questa settimana. Anche in questo caso, la redazione di Charlie ha dimostrato di sapere come si colpisce nel vivo l’orgoglio del nemico, lasciando perdere - come era avvenuto nell’editoriale di Gérard Biard - le argomentazioni politico-amministrative e le insinuazioni su eventuali infiltrazioni mafiose, e decidendo semplicemente di tradurre alcuni dei terribili commenti ricevuti da altrettanti “lettori” italiani. Ed eccoci ancora una volta ridicolizzati davanti ai francesi. E’ stata una mossa di una finezza spietata e crudelissima, quella di recuperare dei commenti scritti a caldo, sull’onda dell’indignazione, e di sbatterli sul giornale due settimane dopo la polemica. Per me, lettore italiano (e abruzzese), è stato un bel pugno nello stomaco. Lo ammetto. Ma c’è anche un lato positivo in questa bomba ad effetto ritardato: la possibilità di analizzare a freddo l’articolo e di rendersi conto che in Italia ci vuole davvero poco per trasformare un dibattito sui limiti della satira (e/o sulla qualità editoriale e la valenza ideologica di un prodotto come Charlie) in una partita di calcio tra due nazioni, Italia e Francia, che - diciamocelo chiaramente - non perdono occasione di massacrarsi a vicenda. “[...] questa provocazione [...] - scrive la "Dottoressa Myriam Ambrosini" (notare come abbiano riportato anche il "titolo" della persona che ha scritto il commento) - è uno schiaffo all’italianità. Peccato che mentre NOI esportavamo la cultura nel mondo, VOI, francesi, portavate ancora i copricapi con le corna e le pelli delle bestie per coprirvi il corpo”. Pincopallino Jack rincara la dose: “Senza bidet, culi sporchi. Razza bastarda. Ladri di opere d’arte e di territori. Falsi vincitori della guerra, leccaculo degli Alleati. Vi auguro di morire”. Mentre il commento di Davide Rivolta ci riporta esattamente al punto di cui sopra: “Il gol di Materazzi a Berlino nel 2006 vi fa ancora male al culo? Massa di merde". Insomma, è giusto indignarsi per la satira di cattivo gusto, ma perché continuiamo a confondere Charlie con i francesi?

Hotel Rigopiano, la telefonista che non ha creduto all'allarme: "Ho la coscienza pulita, del resto non me ne frega niente", scrive il 25 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. Suo malgrado, è una delle protagoniste della tragedia dell'Hotel Rigopiano. Lei è la donna che ha ricevuto la telefonata che segnalava che la struttura fosse stata travolta bollandola come una bufala. La donna è stata individuata dagli investigatori: si tratterebbe di una dirigente del Ccs, il Centro di coordinamento dei soccorsi. A lei il 118 ha girato la famigerata telefonata da Quintino Marcello, amico di Giampiero Parete, lo chef superstite della tragedia. Come è noto, con toni sprezzanti, non ha voluto credere a quanto denunciato. E ora, quella donna, è stata interrogata, ascoltata dagli investigatori che stanno valutando la sua posizione. E quello che la signora ha detto, forse, fa ancor più rabbia che quella maledetta telefonata. "L'importante è essere a posto con la coscienza - ha spiegato secondo quanto trapelato da fonti investigative, indiscrezioni di stampa e dalla diretta interessata -. E io lo sono. Questo è quello che mi preme. Del resto non me ne frega niente". Dritta per la sua strada, insomma. Nessun pentimento e, soprattutto, la "coscienza pulita". E ancora, a verbale ha spiegato che "mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza della neve, poi quella del terremoto. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi e io avevo dato la mia disponibilità. Il mio compito era rispondere alle chiamate che arrivavano dall'esterno". E ancora, prosegue la signora sulla hotel travolto a cui non ha creduto, sostenendo che si trattasse di una stalla: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, chi era con me nella sala operativa. Eravamo in tanti, non c'ero solo io". Un riferimento molto, troppo vago con il quale, in una qualche misura, la donna sembra tentare di scaricare le responsabilità. "Piuttosto che parlare coi giornalisti - ha aggiunto - preferirei parlarne col Padre Eterno. Comunque ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante - ha ribadito - è essere a posto con la coscienza. Del resto, delle polemiche, non me ne frega nulla".

Rigopiano, la funzionaria: "Ho ignorato l’allarme? L’importante è avere la coscienza a posto". Il colloquio. La donna che non credette al primo Sos: "Chiarirò, basta polemiche", scrive Fabio Tonacci il 25 gennaio 2017 su "La Repubblica". La giornata più amara è cominciata con una telefonata all'ora di pranzo. "Era la questura, sono stata convocata", dice la funzionaria della prefettura di Pescara che ha confuso la slavina sull'hotel Rigopiano con il crollo di una stalla di pecore lì vicino. Si affaccia alla porta dell'ufficio del suo capo, comunica che deve essere sentita come testimone informata dei fatti, si infila la giacca nera pesante, prende la borsa, inforca gli occhiali neri. "Sì, sono io quella della telefonata...". Pallida in volto, evidentemente agitata, si avvia a spiegare alla polizia perché ha liquidato come bufala l'allarme di Quintino Marcella. Nei successivi 200 metri, tanta è la distanza tra prefettura e questura, la signora parla a malapena. Cerca di sfuggire alle domande, prova ad opporre un "assolutamente no" quando le si chiede di spiegare come sia potuto accadere un equivoco di tali proporzioni. "Piuttosto preferirei parlarne col Padreterno...", sbotta. Salvo poi riportare il discorso su un terreno più laico: "Ci saranno modi e tempi per chiarire tutto. L'importante è avere la coscienza a posto, e io ce l'ho. Tutto il resto, le polemiche di questi giorni, non m'interessa". Ecco. Un intero stato d'animo in una frase. Ne seguono altre, alla spicciolata. Perché è evidente che non ci sta a passare come il capro espiatorio di una gestione sicuramente discutibile delle comunicazioni tra chi, in quel giorno di neve, valanghe e terremoti, stava cercando di segnalare una disgrazia e chi doveva garantire i soccorsi in modo tempestivo. "Mercoledì ero appena rientrata in ufficio da una malattia. Prima è scoppiata l'emergenza neve, poi quella del sisma. C'era bisogno di gente nell'unità di crisi (il cosiddetto Ccs, Centro coordinamento soccorsi che si attiva quella mattina stessa al piano terra della Prefettura, ndr) e ho dato la mia disponibilità". Nella sala operativa la mettono a una scrivania, in una delle tre stanzette che in quelle ore sono una sorta di suk dell'emergenza. Gente che entra, gente che esce, il telefono che non smette di squillare, richieste d'intervento su urgenze reali e segnalazioni fasulle. "Il mio compito era rispondere alle chiamate dall'esterno", racconta. Quella delle 18.20 di Quintino Marcella però non era come le altre. È vero che il direttore dell'hotel, un'ora prima, vi aveva detto che non era successo niente a Rigopiano, ma come avete fatto poi a confondere la valanga col crollo della stalla? "Non devo dare spiegazioni a lei... Nella sala operativa eravamo in tanti, non c'ero solo io". Agli investigatori, più tardi, spiegherà: "La storia della stalla me l'ha ricordata, mentre ero al telefono, qualcuno più alto in grado che era con me". La persona in questione sarebbe una dirigente di area con incarichi al vertice della prefettura. Anche lei finita al Ccs per dare una mano alla macchina dei soccorsi in quella giornata convulsa. Si sente in colpa per quello che è successo? La funzionaria, che in prefettura si occupa del settore economico e contabile, accelera ulteriormente il passo verso la questura. "Senta, ho da fare... Arrivederci". Al momento non è indagata. È vero che alle 17.30, dal Ccs, chiamarono il direttore Bruno Di Tommaso per verificare la primissima segnalazione del superstite Giampiero Parete, che al 113 aveva parlato espressamente di una valanga, del crollo dell'hotel, e di dispersi. Ed è vero pure che Di Tommaso, che trovandosi a Pescara ignorava cosa fosse realmente successo, tranquillizzò gli operatori. In ogni caso rimarrà il tono, di quella conversazione tra Marcella e la funzionaria della prefettura. Assai fuori luogo.

Ida De Cesaris: “Telefonata su hotel Rigopiano? Eravamo in tanti, coscienza pulita…”, scrive la Redazione di "Blitz Quotidiano" il 25 gennaio 2017. “Non sono io il capro espiatorio che cercate non sono io ad aver preso quella telefonata, basta ascoltare la registrazione per averne conferma. A quel tavolo eravamo in tanti, noi della prefettura, i radioamatori, i rappresentanti delle forze dell’ordine e del soccorso pubblico”. Così il viceprefetto Ida De Cesaris, ricostruisce in un’intervista al Messaggero la mancata reazione dopo l’allarme di Quintino Marcella sull’hotel Rigopiano. Nel mirino dei mezzi di informazione è finita soprattutto una funzionaria della Prefettura che non avrebbe creduto alla telefonata, tanto da confonderla per una bufala o uno scherzo. L’equivoco era nato dal fatto che pochi minuti prima era stata segnalato un allarme per una possibile valanga su una stalla. “Per tutta la giornata sono entrata e uscita dalla stanza del prefetto, dove vertici e riunioni operative si susseguivano a getto continuo – afferma De Cesaris – A un certo punto ho chiesto di deviarmi sul cellulare di servizio soltanto le telefonate dei sindaci. Non ho valutato personalmente altre richieste di soccorso perché l’esperienza mi dice che in situazioni di tale gravità, specialmente nelle comunità più piccole il primo terminale delle popolazioni sono i sindaci”. “Nessuna superficialità nella gestione di un’emergenza estremamente complessa”, rivendica. Le procedure seguite sono state corrette? “C’è un’inchiesta in corso. Di certo – risponde – non tocca ai giornali distribuire patenti di colpevolezza”.

Rigopiano, falla nei soccorsi: "Quella chiamata ricevuta per errore". Un volontario della Protezione civile ha ricevuto "per errore" la chiamata di aiuto dal Rigopiano. E ha fatto partire i soccorsi, scrive Claudio Cartaldo, Giovedì 26/01/2017, su "Il Giornale". Che qualcosa non abbia funzionato nella catena dell'emergenza a Rigopiano è chiaro. I soccorsi non sono partiti immediatamente dopo la chiamata, allarmata, di Quintino Marcella, il capo di Giancarlo Parete, lo chef ospite dell'hotel tratto in salvo insieme alla sua famiglia. Nei giorni scorsi si è parlato della funzionaria che ha bollato come "bufala" la notizia della valanga caduta sull'albergo. Ora emerge anche la spiegazione di come si siano attivate, in ritardo, le procedure per il salvataggio dei superstiti. A spiegarlo è Massimo D'Alessio, volontario della protezione civile che ha ricevuto la chiamata di Quintino Marcella. "Avevo appena finito il turno - racconta alla Stampa - mi avevano mandato alla golena nord del fiume Pescara per monitorarne l'esondazione. Proprio per questo motivo ero passato in questura e avevo dato il cellulare. Ma non dovevo essere io a ricevere quella telefonata, è stato un errore...". La telefonata arriva "alle 18.57" e solo in quel momento scattano i soccorsi. Grazie alla rapidità di pensiero di D'Alessio. E pensare che alcune ore prima in Prefettura era stata bollata come menzogna "inventata da imbecilli". "La questura aveva il mio numero per le esondazioni - continua D'Alessio - È una procedura standard: al 113 lascia il proprio numero chi si trova più vicino all'emergenza. Solo che nel mio caso l'emergenza era il fiume, non una valanga in montagna a chilometri di distanza. È stato bravo Quintino a insistere". Quando riceve la chiamata di Quintino lo sente agitato ed "esasperato". "Gli ho detto 'aspetta un attimo, calmati, così non capisco' - racconta il volontario - Gli chiedo il nome e il cognome e cerco di tranquillizzarlo. Gli spiego che avevo necessità di avvisare almeno chi avevo intorno, non potevo certo dirgli che partivo subito io per il Rigopiano. Metto giù e chiamo il mio capo dei Volontari senza frontiere, Angelo Ferri che si attiva immediatamente, mentre io chiamo la prefettura". D'Alessio è stato sentito in questura come testimone. La procura vuole capire perché si sia atteso tanto prima di inviare i soccorsi al Rigopiano. Solo grazie a D'Alessio si è risvegliata la macchina. "Noi della Protezione civile non diciamo mai forse, non credo o cose così. Noi partiamo, subito".

Soltanto gli uomini. La tragedia e le macchine impotenti, scrive Marina Corradi venerdì 20 gennaio 2017 su "Avvenire”. l primo allarme, lanciato con un sms da un sopravvissuto. I telefoni che nell’albergo di Farindola suonano a lungo, ostinatamente muti. Ci sono più di trenta persone lassù, sotto al Gran Sasso, ma nessuno risponde. I soccorsi partono che è ormai buio. La strada è sepolta da oltre tre metri di neve, è travolta da massi, e da alberi con le radici per aria. Non ce la fanno le grosse jeep dell’Esercito, non ce la fanno nemmeno gli spazzaneve. Una colonna di mezzi di soccorso si blocca tra due muraglie di neve, i fari accesi, i lampeggianti che illuminano a intermittenza di un bagliore azzurrino la montagna ghiacciata. (E intanto, lassù, forse qualcuno è vivo, qualcuno prega, forse qualcuno aspetta). È allora che le squadre del soccorso alpino della Guardia di Finanza si mettono in marcia. C’è un video, sul web. È notte fonda ormai e attorno c’è tempesta. Si sente bene l’ululato torvo del vento fra le montagne, come una voce cattiva. Si vede bene la neve che cade, rabbiosa, a mulinelli; si immagina quasi come quei fiocchi, sulle guance degli uomini, brucino. Le jeep affondano, gli spazzaneve sono inerti, e adesso è l’ora degli uomini. Semplicemente dei piedi, delle gambe di uomini abituati alla montagna. I cingoli dei mezzi sono incrostati di ghiaccio, i motori potenti di centinaia di cavalli non muovono le ruote impantanate, l’energia elettrica è caduta. Ma le gambe degli uomini vanno invece, procedono tenacemente in questa notte d’inferno, dove il terremoto e un’onda di gelo artica si sono dati un maledetto convegno. Il cellulare di un collega inquadra i soccorritori, hanno una torcia sulla fronte e procedono a capo chino. La neve dura scricchiola sotto gli sci. Vanno di buona lena. Non c’è dubbio, almeno loro arriveranno. (I possenti motori dei mezzi di soccorso che girano in folle, il loro rombo impotente, nella notte). Quelle gambe, quelle facce in marcia sopra a tre metri di neve fanno pensare. Come anche le immagini di certi salvataggi di questi giorni, in contrade sperdute colpite dal sisma e dalla tempesta. Posti irraggiungibili perfino per le turbine degli elicotteri. Ma qualcuno dei soccorritori si è inerpicato fin lassù: le foto raccontano l’istante in cui con delicatezza sorreggono vecchi smarriti, avvolti in coperte, e tenendoli dolcemente per mano li tirano fuori dalle loro case. Le mani, ecco, quelle mani tese, dentro ai grossi guanti. Soltanto gli uomini restano, quando i motori e le tecnologie più potenti si fermano. Arrivano, certo, a fatica, con sforzi di cui non si sarebbero creduti capaci, con rabbia, in una drammatica sfida. Magari, a momenti, si teme che non ci sia più nulla da fare. (È inutile, è inutile, sibila quel vento cattivo). Eppure si va, per una testarda speranza. Chi è a casa, magari, stenta a capire. Magari si scandalizza che tante ore ci siano volute per raggiungere l’hotel sommerso dalla slavina. Chi è a casa forse arriva a polemizzare coi tempi della Protezione civile. Ma bisogna capire che cosa è un terremoto con sopra tre metri di neve, in zone impervie e disabitate o quasi. Quando i telefoni non funzionano, i motori tacciono, i cingoli si fermano, e i mezzi di soccorso si accodano, fermi, arresi. Solo pensando a questo si può capire la ostinazione di quegli uomini con gli sci ai piedi, cocciuti, nella notte. E, nei paesini feriti, lo scavare coi badili, e il prendere in braccio i vecchi intrappolati nelle cascine. Le gambe, le braccia, le mani: in una notte d’inferno restano solo gli uomini, infine. Che vanno avanti, e si affannano a rimuovere rovine. I cani non sentono più nulla, e non si muovono. Ma, forse, là sotto, protetto da una trave, qualcuno ancora respira? Quelle mani, quelle voci spezzate dalla fatica, che non si arrendono. È nei giorni d’inferno, che si riconoscono gli uomini.

L’Hotel Rigopiano costruito sui detriti della valanga del 1936. Aperta una nuova indagine sui lavori di ampliamento. Le ultime modifiche del Rigopiano avevano superato indenni l’esame della magistratura, scrive Marco Imarisio il 23 gennaio 2017 su "Il Corriere della Sera". Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico. Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia. «L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage. A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione». L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali. I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente. La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo». Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

"A quelli gli abbiamo dato pure il cu...". L'inchiesta dimenticata dietro l'hotel, scrive il 24 gennaio 2017 “Libero Quotidiano”. La tragedia dell'hotel Rigopiano ha riportato a galla le vicende controverse legate agli ultimi anni della struttura di Farindola. Lo scorso novembre il Tribunale di Pescara ha assolto i cinque imputati - ex amministratori comunali e gli ex titolari dell'albergo - coinvolti nell'inchiesta sui presunti abusi avvenuti dopo gli ampliamenti del 2007. Oggi gli atti di quell'indagine, riporta il Tempo, sono stati acquisiti al fascicolo del procuratore capo Cristina Tedeschini e del sostituto procuratore Andrea Papalia che indagano per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. L'inchiesta del pm Varone si basava sull'accusa che l'amministrazione comunale dell'epoca, guidata da una maggioranza del Partito democratico, era "piegata" alle richieste degli imprenditori, in quel caso i cugini Del Rosso, eredi della struttura alberghiera. In un'intercettazione, per esempio, gli inquirenti avevano raccolto uno sfogo emblematico: "C'hanno manipolato come gli pare e piace, qualsiasi cosa gli serviva, pronto, pronto, pronto (...) Gli è stato dato pure il culo a livello di amministrazione, ogni richiesta esaudita e... alla fine ecco il risultato!". Nel mirino degli inquirenti era finita per esempio la delibera che sanava l'ultimo ampliamento della struttura, approvata in cambio di "promessa di versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di un partito politico", oltre che "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella società dei Del Rosso. L'unico che ha votato contro la suddetta delibera è stato un consigliere di minoranza che ha ricordato ai carabinieri come il giorno del consiglio comunale aveva ribadito la sua contrarietà: "La ditta Del Rosso, senza nessuna preventiva autorizzazione, aveva occupato abusivamente una parte del terreno". In quella seduta poi c'era un'altra situazione imbarazzante e riguardava altri membri del Consiglio: "C'erano delle incompatibilità che riguardavano alcuni consiglieri, i cui parenti all'epoca lavoravano presso l'Hotel Rigopiano: la figlia di... la nipote di..., la moglie di... e tutti e tre hanno votato favorevolmente". Dopo quella delibera, secondo la procura ci sarebbero state altre concessioni sospette e intercettazioni in cui c'erano amministratori che esortavano altri ad accelerare i tempi e a convincere anche l'opposizione perché i Del Rosso non subissero ritardi. L'assoluzione finale da parte dei giudici è stata piena con sentenza passata in giudicato, con la linea della difesa sposata in pieno: "L'ampliamento oggetto dell'indagine riguarda un terreno su cui non è stata costruita nessuna depandance dell'hotel - ha detto l'avvocato di Paolo Del Rosso, Romito Liborio - e comunque non è stato interessato dalla slavina". 

"Occhio, ci arrestano tutti quanti...". Horror: chi ha la coscienza sporca, scrive “Libero Quotidiano” il 25 gennaio 2017. Il clima tra i consiglieri di maggioranza del Comune di Farindola non appariva proprio disteso anche il giorno dopo l'approvazione della arcinota delibera che aveva permesso ai titolari dell'Hotel Rigopiano, i cugini Del Rosso, di occupare un'area di 3500 mq per 10 anni davanti alla struttura. Una situazione verificatasi nel 2007 e sanata il 30 settembre 2008 con un voto a maggioranza del Consiglio Comunale. Secondo l'accusa della procura, con quel voto favorevole dei consiglieri era arrivato in cambio di una "promessa di un versamento di denaro destinato verosimilmente a finanziamento di partito politico" e di "assunzioni preferenziali per propri protetti" nella struttura alberghiera. I cinque imputati, ricorda il Tempo, sono stati assolti dall'accusa di corruzione, con sentenza passata in giudicato. Dopo il disastro dopo la slavina che ha distrutto l'hotel Rigopiano, la Procura di Pescara ha aperto una nuova indagine, contro ignoti, per omicidio plurimo colposo e disastro colposo. In quei fascicoli, i procuratori Cristina Tedeschini e Andrea Papalia hanno voluto aggiungere anche gli atti del processo sull'ampliamento sospetto dell'hotel. In quelle carte, gli inquirenti avevano riportato le intercettazioni che hanno coinvolto alcuni politici locali, in particolare un ex assessore che, il giorno dopo l'approvazione della delibera - ha chiamato un ex consigliere del Pd, entrambi imputati e assolti nel processo. In quella telefonata, l'ex assessore chiedeva spiegazioni sulla telefonata della sera precedente: "Ti volevano prendere in giro - gli è stato risposto - e dirti che…te n'eri andato per consumare le ultime sere... a casa, visto che a breve mo' ci arrestano tutti quanti". Apparentemente parole dette in leggerezza, anche se i carabinieri di Penne non la pensavano così. Nell'informativa dei militari quelle dichiarazioni: "dimostrano in maniera emblematica quanto già emerso dall'attività investigativa, ovvero che la maggioranza dell'amministrazione comunale farindolese ha approvato la delibera favorevole ai Del Rosso con coscienza e volontà, sapendo perfettamente di violare leggi e regolamenti". Pochi giorni dopo, un'altra telefonata tra due politici farindolesi aveva insospettito i carabinieri: "A loro non succede niente - dice al telefono un consigliere - semmai succede a noi, ai consiglieri che hanno votato... ma a loro proprio no (i Del Rosso, ndr). Dovrebbero semmai apprezzare che questi consiglieri hanno votato... ulteriormente".

PARLA L'INGEGNERE DINO PIGNATELLI, CHE HA REDATTO IL PIANO PER IL MONTE TERMINILLO: ''AREA HOTEL NON DOVEVA ESSERE EDIFICABILE''. ''IN ABRUZZO NON ESISTE CARTA VALANGHE, LA TRAGEDIA DI RIGOPIANO ERA EVITABILE''. Scrive il 20 gennaio 2017 Marco Signori su "Abruzzo web”. "La Regione Abruzzo non ha mai adottato una Carta delle valanghe, che avrebbe ad esempio potuto scongiurare il dramma dell'hotel Rigopiano di Farindola". L'ingegnere Dino Pignatelli, esperto di impianti a fune ed esperto abilitato di valanghe con una formazione anche in Svizzera, non ha dubbi: "Anche da un'osservazione superficiale del posto si capisce che non è immune dal rischio valanghe, è sicuramente una zona esposta a valanghe, che poi negli ultimi anni non ce ne siano state non significa nulla". Mentre i soccorritori scavano ancora, nella speranza di trovare qualche sopravvissuto tra la trentina di persone che dovrebbero essere sepolte da neve e macerie, Pignatelli spiega ad AbruzzoWeb che "non c'è un serio Piano regionale valanghe, che si trasforma nella Carta che deve essere adottata dai Piani regolatori fatti dai Comuni". "Sul monte Terminillo abbiamo fatto esattamente questo, un paio d'anni fa: mappa del rischio che stabilisce le zone pericolose", racconta. "C'è tutto un sistema attraverso il quale si studiano le valanghe - spiega - Abbiamo metodologie di calcolo molto raffinate, riusciamo ad individuare con una certa precisione sia l'entità, sia l'altezza della neve accumulata, la pressione che esercita su quello che incontra e la velocità che raggiunge la neve". "Lo studio delle valanghe è oggi assolutamente puntuale e precisa nelle determinazioni", aggiunge, spiegando come "ci riferiamo alla normativa svizzera che è la più aggiornata". Tra le soluzioni che si possono adottare per difendersi, ci sono le protezioni attive e quelle passive. "Le prime vengono messe a monte - dice Pignatelli - ed impediscono la formazione di una valanga. Le seconde più a valle e sono dei deviatori, ma si tratta di opere importanti anche perché per deviare quella massa servono infrastrutture di un certo impatto". All'hotel Rigopiano di Farindola, insomma, interventi di questo tipo magari non sarebbero stati possibili, ma semmai ci fosse stata una Carta regionale delle valanghe, ragiona Pignatelli, "il Comune di Farindola avrebbe sicuramente messo quell'area tra quelle non edificabili". E la Carta delle valanghe "è sovraordinata rispetto al Piano regolatore, che deve recepirla altrimenti l'applicazione viene imposta per legge". Certo, un intervento edilizio preesistente "a livello urbanistico può essere sanato, ma possono essere imposte precauzioni e fatto un progetto per queste", come Pignatelli ha ad esempio fatto a Campo Staffi, nel comune di Filettino (Frosinone), dove "c'era un impianto che non si poteva aprire perché era stato denunciato un pericolo valanghe che in effetti c'era, e grazie a degli interventi ha potuto riaprire". Pignatelli non esclude poi che il distacco possa essere stato scatenato dalle forti scosse di terremoto registrate mercoledì mattina in Alta Valle Aterno, visto che "anche il passaggio di un aereo può produrre una valanga, quindi un elemento di trazione anomalo può senza dubbio esserci stato". "È strano che siano passate alcune ore ma anche questa è una cosa possibile", aggiunge. Non ha aiutato, nel ridurre l'impatto sull'albergo, neppure il bosco: "È troppo a valle, può aver prodotto il ritardo nell'arrivo della valanga, ma la massa di neve è un insieme compatto che tende a spingere". L'attenzione torna dunque ora sulla Carta delle valanghe che si attende dalla Regione Abruzzo: "È stato pubblicato un bando un paio d'anni fa per la sua redazione, ma è stata assegnata al massimo ribasso senza tener conto delle esperienze e dell'importanza di utilizzare metodologie di calcolo innovative", è l'amara considerazione dell'ingegnere.

"Rischio valanga su Rigopiano". Ma i lavori all’hotel partirono lo stesso. Gli allarmi degli esperti dal ‘99 fino al 2005. Poi smisero di riunirsi e scattò l’ampliamento, scrive Fabio Tonacci il 28 gennaio 2017 su "La Repubblica". Si afferra finalmente una certezza, nella storia dell'Hotel Rigopiano e della valanga che lo ha seppellito. Quel resort di lusso, vanto e serbatoio occupazionale per i cittadini di Farindola, è stato costruito su un versante montano conosciuto per essere "soggetto a slavine". Collegato da una viabilità provinciale che, d'inverno, rimaneva più chiusa che aperta. Oggetto di un report della guida alpina Pasquale Iannetti che nel 1999, dopo un sopralluogo, scriveva: "In merito alla possibilità di caduta di masse nevose, slavine o valanghe nell'area di Rigopiano, non vi è dubbio che sia il piazzale antistante il rifugio Acerbo che la strada provinciale che porta a Vado di Sole possano essere interessate da caduta di masse nevose o valanghe". Già, proprio il rifugio Acerbo. Quello che si trova a poche decine di metri dal resort e che è stato solo sfiorato dalle tonnellate di neve venute giù il 18 gennaio. A rileggerli ora i verbali della Commissione valanghe del comune di Farindola, istituita nel 1999 e per qualche strano mistero sciolta nel 2005 quando invece sarebbe servita di più, si incontrano molte inconsapevoli Cassandre. Ecco cosa scriveva Iannetti, appena nominato consulente della neonata commissione: "La zona (parla di Rigopiano, rifugio Acerbo e la provinciale 31, ndr) deve essere tenuta sotto stretto controllo". Era il 18 marzo 1999. "Vero è che si ha memoria di un fenomeno rilevante risalente al 1959, ciò non deve essere considerato un fatto che non si possa ripetere". E poi, quasi che l'istinto gli volesse suggerire qualcosa che allora nessuno immaginava, la guida alpina Pasquale Iannetti chiudeva così il suo primo verbale: "Con questi dati la Commissione valanghe potrà fornire indicazioni certe affinché per il futuro si possa garantire la sicurezza delle infrastrutture alberghiere, delle strade e dei parcheggi di Rigopiano". Nelle carte della Commissione (acquisite dalla procura di Pescara che indaga per disastro colposo e omicidio colposo plurimo) il nome del resort Rigopiano non appare mai. Né può esserci, visto che il vecchio alberghetto estivo viene comprato, ristrutturato e ampliato tra il 2006 e il 2007. Esattamente quando il Comune ritenne con decisione incomprensibile di disfarsi dello "strumento" Commissione. Eppure non erano pochi gli elementi già raccolti, che dovevano mettere in guardia sia chi voleva costruire, sia chi doveva autorizzare l'ampliamento. Verbale del 11 marzo 1999: "La montagna di Farindola risulta soggetta a valanghe, pertanto al fine di garantire la pubblica e privata incolumità la Provincia di Pescara ha ritenuto di chiudere la strada d'accesso alla località Vado Sole da Rigopiano". Verbale del 12 marzo 1999, anticipato ieri dal quotidiano il Tempo: "Si è ritenuto opportuno di tenere sotto controllo la zona di Valle Bruciata, piazzale di sosta Rigopiano in prossimità del bivio di accesso per Castelli e Fonte della Canaluccia mediante controlli quotidiani a vista nelle ore più calde, se si notassero distacchi e principi di scivolamento si potrà prendere tempestivamente precauzioni a garanzia di eventuali calamità". Verbale del 4 marzo 2003: "La Provincia ha ritenuto di non provvedere allo sgombero della neve tra Vado Sole a Rigopiano in modo da non consentire il transito, per garantire l'incolumità pubblica e privata ". Vado Sole, Castelli, Valle Bruciata. Tutte località che si trovano più o meno nei pressi del piccolo casolare isolato non ancora divenuto resort 4 stelle. Ancora nel febbraio 2003 la commissione sottopone il caso della provinciale a valle di Rigopiano alla Scuola di Montagna abruzzese. "Il rischio valanghe su entrambi i versanti risulta di livello 4, con condizione di pericolo forte, per cui sono da aspettarsi valanghe spontanee di medie dimensione anche singole grandi", si legge nella relazione finale. In Commissione, dunque, è noto a tutti che le vie d'accesso al sito dell'albergo e località ad esso molto vicine possono rappresentare un grave pericolo per l'incolumità delle persone in certi periodi dell'anno. L'ultimo verbale, datato 24 febbraio 2005, offre uno spunto di riflessione in più. Quel giorno presiede il sindaco Massimiliano Giancaterino, che il 18 gennaio scorso nella catastrofe ha perso un fratello. "La volontà politica del Comune di Farindola è quella di tenere sgombera dalla neve la provinciale fino alla località Fonte Vetica, al fine di non precludere le attività legate al turismo invernale nella zona". Fonte Vetica ospita un rifugio e si trova sul versante opposto. Ha con l'hotel Rigopiano un paio di similarità: è difficile da raggiungere quando nevica forte; stimola l'indotto. Dall'inverno del 2005 in poi, della Commissione valanghe di Farindola si perde ogni traccia. I carabinieri forestali che stanno indagando per conto della procura non hanno trovato ulteriori verbali in Comune. Per dieci anni di fila la Prefettura di Pescara ha ribadito ai sindaci la necessità di ricostituirla, ogni volta che ha dovuto trasmettere un bollettino Meteomont di rischio 4 (su scala 5). Lo fa ancora il 10 marzo 2015, con una lettera firmata dalla vice prefetto Ida De Cesaris: "Si prega di valutare l'eventuale attivazione della Commissione, prevista dalla legge regionale del 1992". Ma la Commissione non è più risorta.

Gran Sasso: il massiccio “magico” tra tragedie ed esperimenti nucleari. Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita il traforo a doppia canna più lungo d'Europa, scrive Filomena Fotia il 20 gennaio 2017 su "Meteo Web". Il Gran Sasso non solo è il massiccio più alto degli Appennini continentali, ma è anche la montagna che ospita nelle sue viscere il traforo a doppia canna più lungo d’Europa e i laboratori di ricerca sotterranei più grandi del mondo. Oltre diecimila metri di lunghezza collegano Assergi a Colledara, e permettono un collegamento veloce tra Lazio e Abruzzo. Per scavare il primo tunnel negli anni ’60 ci sono voluti centinaia di uomini, macchinari e tonnellate di esplosivo per un costo di oltre 1700 miliardi di lire. Nella realizzazione dell’opera – ricorda Maria Elena Ribezzo per LaPresse – persero la vita 11 operai. Il massiccio abruzzese è costituito per lo più da calcare permeato da enormi falde di acqua – salvo la parte verso Teramo che è costituito da rocce marnose impermeabili -. Il 15 settembre 1970, durante gli scavi, per un errore di calcolo l’escavatrice bucò l’enorme serbatoio sotterraneo di acqua. Un getto di acqua e fango dalla pressione enorme di 60 atmosfere travolse ogni cosa. La parte bassa della città di Assergi fu allagata, costringendo a una evacuazione, e il corso di molte sorgenti fu compromesso. Il livello della falda acquifera si abbassò di 600 metri e la portata delle sorgenti del Rio Arno e del Chiarino fu quasi dimezzata.  I due versanti sono paesaggisticamente opposti: quello aquilano scosceso, ma prevalentemente erboso, e quello teramano, a maggior dislivello, più aspro e roccioso. Le operazioni di disboscamento intensivo, per restituire terreno alla pastorizia per nuovi pascoli, iniziarono già tra il 16esimo e il 17esimo secolo, sconvolgendo pesantemente il paesaggio. Tanto è vero, che più volte si dovette vietare alle popolazioni del luogo di insistere nel taglio degli alberi. Questo, nei secoli, ha portato a tantissime frane. Recentemente, il 22 agosto 2006 nella parete Nord-Est (il paretone) del Corno Grande, si è verificata una frana di grandi dimensioni: da 20mila a 30mila metri quadrati di roccia si sono distaccati dal quarto pilastro. Il 23 agosto scorso, dopo il primo terremoto che ha colpito Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e altri paesi dell’Appennino Centrale è franato un pezzo del Corno Piccolo. Gli scienziati dell’Istituto Nazionale di Fisica pensarono di affiancare al traforo il Laboratorio di ricerca di Fisica Nucleare, creando i più grandi laboratori sotterranei del mondo. L’intuizione venne al professore Antonino Zichichi: i 1.400 m di roccia che sovrastano i Laboratori costituiscono infatti una copertura tale da ridurre il flusso dei raggi cosmici di un fattore un milione; inoltre, il flusso di neutroni è migliaia di volte inferiore rispetto alla superficie grazie alla minima percentuale di uranio e torio nella roccia dolomitica della montagna. Situati L’Aquila e Teramo, a circa 120 chilometri da Roma, sono utilizzati come struttura a livello mondiale da scienziati provenienti da 22 paesi diversi. Al momento ci sono circa 750 persone impegnate in circa 15 esperimenti in diverse fasi di realizzazione.

Gran Sasso: tutti gli incidenti della storia. Dal XVI secolo alla tragedia dell'hotel Rigopiano. Le sciagure all'ombra della montagna, dovute al clima, alla guerra, all'uomo, scrive il 20 gennaio 2017 Edoardo Frittoli su Panorama.  

Nell'inverno 1569 una grande valanga si staccò dalle pendici sopra il passo della Portella. Fu il primo incidente sul Gran Sasso riportato dalle cronache di Francesco De Marchi, ingegnere ed alpinista (fu il primo a compiere la scalata della cima più alta della catena appenninica). Le vittime dell'incidente furono 18, travolte dalla massa nevosa in seguito alle precipitazioni eccezionali di quell'inverno.

È rimasta impressa nella memoria locale la tragedia di Fonte Vetica, sotto il Monte Bolza. Era il 13 ottobre 1919 quando il pastore Pupo Nunzio di Roio fu colto da una improvvisa bufera di neve che anticipò un rigido inverno. Con il pastore morirono i suoi due figli piccoli e la moglie che aveva disperatamente cercato di raggiungerli e che non aveva retto al dolore. Nella tormenta persero la vita anche 5.000 pecore tra gli alpeggi del Gran Sasso.

Dieci anni dopo, nel 1929, fu la volta di due studenti alpinisti rimasti bloccati dalle avverse condizioni meteorologiche. Mario Cambi ed Emilio Cichetti rimasero isolati all'interno del rifugio Garibaldi, senza che i soccorritori potessero raggiungerlo. Cicchetti morì nel tentativo di raggiungere il paese di Pietracamela quando era a meno di 3 km dall'abitato. Nel 1942 la famosa guida ampezzana Ignazio di Bona fu travolto dalla valanga nel tentativo di soccorrere alcuni sciatori rimasti bloccati nella neve.

Venne la guerra ed il Gran Sasso fu teatro della liberazione di Benito Mussolini da parte dei parà tedeschi di Otto Skorzeny. Durante l'azione nota come "Operazione Quercia" furono uccisi il carabiniere Giovanni Natali e la guardia forestale Pasqualino Vitocco, oltre a diversi feriti tedeschi causati dallo schianto di uno degli alianti atterrati a Campo Imperatore.

Passano pochi giorni dalla liberazione di Mussolini quando le pendici del Gran Sasso echeggiano il rombo assordante dei B-25 dell'Usaaf. Il loro obiettivo sono gli snodi ferroviari de L'Aquila. Dalle pance dei bombardieri piovono le bombe che generano una tragedia nella tragedia. I convogli colpiti dagli ordigni trasportavano prigionieri alleati e italiani, tra cui alcune tra le famiglie deportate dal ghetto di Roma. Muoiono oltre 200 persone.

Il 15 settembre 1970, durante gli scavi per la costruzione del traforo del Gran Sasso, la "talpa" scavatrice provocò la foratura di un serbatoio sotterraneo naturale d'acqua. La pressione altissima provoca l'allagamento di parte dell'abitato di Assergi. 

Il 16 agosto 2002 un altro incidente generato dall'opera dell'uomo: dai Laboratori dell'INFN nelle viscere del Gran Sasso fuoriescono da un recipiente 50 litri di trimetilbenzene causando l'inquinamento della falda acquifera a valle del massiccio.

PARLIAMO DI TERREMOTI.

TERREMOTO E STORIA. I terremoti più gravi in Italia, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” il 25 agosto 2016. Dal terremoto di Messina e Reggio, fino a quello dell’Emilia del 2012, passando per il sisma che ha distrutto l’Aquila nel 2009, ecco gli eventi sismici più gravi avvenuti in Italia a partire dal 1908.

- 28 dicembre 1908: un terremoto di magnitudo 7,2 rade al suolo Reggio Calabria e Messina e tutti i villaggi nell’area, causando quasi 100.000 morti. Si tratta della più grave sciagura naturale in Italia per numero di vittime e per intensità sismica.

- 13 gennaio 1915: un sisma di magnitudo 6,8 distrugge Avezzano e tutto il territorio della Marsica. I morti sono circa 30.000.

- 26 aprile 1917: Umbria e Toscana sono colpite da un terremoto di magnitudo 5,8. Distrutte Monterchi, Citerna e Sansepolcro. Danni a tutti i centri urbani dell’alta valle del Tevere. Tra i 30 e 40 i morti.

- 7 settembre 1920: Sisma di magnitudo 6,5 in Garfagnana e Lunigiana, in Toscana, con epicentro a Fivizzano. 300 i morti.

- 23 luglio 1930: terremoto di magnitudo 6,7 in Irpinia, in Campania: 1.425 morti.

- 15 gennaio 1968: Nella Valle del Belice, in Sicilia, vengono rasi al suolo da un terremoto di magnitudo 6,1 Gibellina, Poggioreale, Salaparuta in provincia di Trapani, e Montevago in provincia di Agrigento. Le vittime accertate sono 231.

- 6 febbraio 1971: nel Lazio la cittadina di Tuscania viene semidistrutta da un terremoto di magnitudo 4,5. 31 i morti. - 6 maggio 1976: alle 21,00 un terremoto di magnitudo 6,1 nel Friuli provoca circa 1.000 vittime. La zona più colpita è quella a nord di Udine. Ulteriori scosse l’11 e 15 settembre.

- 19 settembre 1979: un terremoto di magnitudo 5,9 colpisce la Valnerina, provocando gravi danni a Norcia, Cascia e le aree limitrofe, tra Umbria e Marche. Danni a Rieti ma anche a Roma, dove subiscono lesioni il Colosseo, l’Arco di Costantino e la colonna Antonina. Cinque i morti.

- 23 novembre 1980: alle 19,38 l’Irpinia viene sconvolta per 90 secondi da un terremoto di magnitudo 6,5. Colpita un’area di 17 mila km quadrati tra Campania e Basilicata. I morti sono 2.914.

- 7 e 11 maggio 1984: Sisma di magnitudo 5,2 in Molise, Lazio e Campania, con epicentro a San Donato Val di Comino. 7 i morti.

- 13 dicembre 1990: Sisma di magnitudo 5,1 a Santa Lucia nella Sicilia sud-orientale. Gravi danni ad Augusta e Carlentini e nella Val di Noto. 16 le vittime.

- 26 settembre 1997: Un terremoto di magnitudo 5,6, seguito da altre forti scosse nei giorni successivi colpisce di nuovo l'Umbria e le Marche: danneggiate Assisi, Colfiorito, Verchiano, Foligno, Sellano, Nocera Umbra, Camerino. 11 i morti.

- 31 ottobre-2 novembre 2002. Terremoto di magnitudo 5,4 in Molise e Puglia. A San Giuliano di Puglia crollata una scuola dove muoiono 27 bambini. In tutto i morti sono 30.

- 6 aprile 2009: Alle 3,32 L’Aquila e le zone circostanti sono colpite da un sisma di magnitudo 6,3. La scossa principale è seguita da decine di repliche di assestamento. 309 morti e 23 mila edifici distrutti.

- 20 maggio 2012: Alle 4.04 un sisma di magnitudo 5,9 colpisce per venti secondi le province di Modena e Ferrara, provocando la morte di sette persone. La scossa viene avvertita in tutto il Nord e parte del Centro Italia. Il sisma, che era stato preceduto da due forti scosse nel gennaio precedente, si ripete il 29 maggio con una magnitudo 5,8 e il 3 giugno con una nuova forte scossa da 5,1. In tutto sono sette i terremoti con magnitudo superiore a 5 e provocano complessivamente 27 morti e danni ingenti in tutta l’area.

- 24 agosto 2016: È di 297 morti il bilancio del sisma di magnitudo 6 che alle 3,36 della notte ha scosso il centro Italia, devastando una serie di centri tra Lazio, Umbria e Marche. La prima violentissima scossa ha colpito Amatrice, Accumoli (Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno); una seconda di magnitudo 5.4 è stata registrata alle 4,33 con epicentro tra Norcia (Perugia) e Castelsantangelo sul Nera (Macerata). Le scosse sono state avvertite anche a molti chilometri di distanza, fino a Roma e Napoli. Una devastazione «peggiore di quella dell’Aquila, mai vista una cosa così», è stata la reazione dei soccorritori. Tra le vittime ci sono molti bambini.

Un secolo di terremoti. Da Messina ad Amatrice, scrive Franco Insardà il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Gli eventi sismici più gravi, che hanno sconvolto il nostro paese dal 1908 al 2016. Paesi distrutti, facce tese, occhi persi nel vuoto e richieste di aiuto. Poi gli appelli, i soccorsi e dopo un po' le polemiche. La storia si ripete drammaticamente a ogni terremoto che, purtroppo, da secoli sconvolge la nostra penisola. Dal Friuli alla Sicilia. Improvvisamente i nomi di piccoli paesini come Gibellina, Montevago, Gemona, Conza della Campania, Lioni, Balvano, Massa Martana, San Giuliano di Puglia, Mirandola, Medolla, diventano drammaticamente famosi e familiari agli italiani e all'estero. Oggi tocca ad Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Passata, poi, la prima onda emotiva si comincia ad analizzare l'intensità della scossa, il luogo dell'epicentro, le zone colpite e poi la pietosa conta dei morti, dei feriti, dei dispersi dei senzatetto. Si fanno i confronti con quello che è successo nelle altre zone, con i finanziamenti stanziati e a che punto è la ricostruzione. E se il terremoto del Friuli, così come quello dell'Umbria e delle Marche, viene ricordato come esempio di efficienza e serietà nell'utilizzo dei fondi per la ricostruzione la stessa cosa non si può dire della Valle del Belice, dell'Irpinia e di San Giuliano di Puglia. Dal 1908 a oggi la lista degli eventi sismici è lunghissima, così come quella dei paesi distrutti e il numero delle vittime è da brividi.

Quel 28 dicembre 1908 una scossa di magnitudo 7,2 della scala Richter fece tremare per 37 secondi l'area dello Stretto di Sicilia. Le scosse e il successivo maremoto rasero al suolo Messina, Reggio e i paesi vicini. Centomila le vittime, 80mila nella sola Messina, su 140mila abitanti.

13 gennaio 1915. Un terremoto di magnitudo 7 sconvolse la valle del Fucino, distruggendo Avezzano e molti paesi della Marsica, del Lazio e della Campania. Il bilancio fu pauroso 32.160 vittime, su circa 120mila residenti. 9000 solo ad Avezzano su una popolazione complessiva di 11mila abitanti.

24 novembre 1918. Furono cento i morti a Giarre, in provincia di Catania.

29 giugno 1919. Colpita l'area del Mugello con una scossa di intensità 6,2. Circa cento le vittime.

7 dicembre 1920. Una scossa di magnitudo 6,5 con epicentro a Fivizzano, provocò danni nell'area della Garfagnana e oltre 300 morti.

23 luglio 1930. Terremoto notturno nella zona del Vulture. Morirono 1404 persone nelle province di Avellino e Potenza.

30 ottobre 1930. Le Marche, e soprattutto Senigallia, furono interessate da una scossa di 5,9 con 18 vittime.

26 settembre 1933. Grazie a una serie di scosse precedenti le popolazione abruzzesi della Majella furono avvertite e la scossa più forte (5,7 della scala Richter) provocò solo 12 morti.

18 ottobre 1936. L'altopiano del Cansiglio tra le province di Belluno, Treviso e Pordenone furono interessate da una scossa di 5,9 con 19 vittime.

13 giugno 1948. La zona interessata fu quella dell'Alta valle del Tevere con una serie di scosse. Morì per fortuna solo una donna.

21 agosto 1962. Una serie di scosse, con epicentro tra Montecalvo e Savignano Irpino di 6,2, fecero 17 vittime, ma ad Ariano Irpino l'80% degli edifici furono danneggiati.

15 gennaio 1968. Gibellina, Salaparuta e l'intera Valle del Belice furono interessati da un terremoto di 6,4 di magnitudo. 370 i morti, un migliaio i feriti e circa 70mila i senza tetto.

6 febbraio 1971. Il centro di Tuscania fu parzialmente distrutto: 31 morti.

6 maggio 1976. Alle 21.06 un terremoto di intensità 6,4 sconvolse il Friuli. Il sisma fu avvertito nell'Italia settentrionale e centrale, in Slovenia e Austria. Le vittime furono 989 e 75mila le case danneggiate. Per la prima volta venne organizzata la Protezione civile e in cinque anni la zona fu ricostruita.

19 settembre 1979. Fu la Val Nerina a essere colpita da una scossa di 5,9 di magnitudo, con epicentro a Norcia. I danni più gravi li subirono gli edifici più antichi. Decine i feriti e cinque i morti.

23 novembre 1980. In Irpinia e in Basilicata si registrò il più grave terremoto dopo la Seconda guerra mondiale. Alle 19,34 una scossa di magnitudo 6,9 di circa 90 secondi provocò 2914 morti, 8848 feriti e 280mila sfollati. Dei 679 comuni delle otto province interessate, 508 furono danneggiate. In 36 comuni della fascia epicentrale circa 20mila alloggi andarono distrutti o divennero irrecuperabili. I soccorsi in alcuni casi arrivarono dopo cinque giorni. Dal 7 aprile 1989. Oscar Luigi Scalfaro guidò la Commissione parlamentare d'inchiesta della ricostruzione.

13 dicembre 1990. Un sisma al largo di Augusta, nel golfo di Noto, colpì la provincia di Siracusa, Catania e Ragusa provocò 12 vittime e altre cinque persone morirono d'infarto nei paesi vicini. Gli abitanti protestarono perché si sentirono abbandonati.

15 ottobre 1996. La provincia di Reggio Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,1: due morti e cento feriti.

26 settembre 1997. Il terremoto colpì Umbria e Marche, anticipato da uno sciame sismico, che ebbe inizio il 5 maggio con una scossa di intensità 3,7 e si concluse il 28 giugno 1998. Il 26 settembre una prima scossa fece crollare una casa di due anziani che morirono. La mattina dopo alle 11,40 morirono 9 persone, quattro delle quali sepolte dal crollo delle volte della basilica di San Francesco ad Assisi.

17 luglio 2001 Un sisma di magnitudo 5,2 colpì Merano e interessò la provincia di Bolzano. Due persone furono uccise da una frana e una donna morì d'infarto. Pochi i danni grazie alla solidità degli edifici, molti dei quali in cemento armato.

31 ottobre 2002. San Giuliano di Puglia (Campobasso) rimarrà nella memoria di tutti per il crollo della scuola, dove morirono 27 bambini e una maestra in seguito a una scossa di magnitudo 5,6. In paese ci furono altre due vittime. Sette persone furono indagate e sei, dopo tre gradi di giudici, furono condannate.

6 aprile 2009. Una scossa di intensità 5,8 alle 3.32 provocò vittime e danni a L'Aquila e in molti paesi della provincia. Onna fu quasi rasa al suolo e la Casa dello studente de L'Aquila crollò uccidendo otto ragazzi. In tutto i morti furono 308, i feriti 1600 e 65mila gli sfollati.

29 maggio 2012. La zona compresa fra Mirandola, Medolla e San Felice sul Panaro in Emilia fu interessata da una scossa di magnitudo 5,8. Il 31 maggio 2012 una nuova scossa di magnitudo 4,0 fu colpita la zona della Bassa reggiana e dell'Oltrepò mantovano. I due eventi sismici principali causarono 27 vittime (22 nei crolli, tre per infarto e due per le ferite riportate).

Nel ’900 un terremoto ogni 3 anni. La schiena fragile del Paese. Dal 1315 gli Appennini sono stati scossi da 148 eventi sismici superiori a 5,5 della scala Richter. E dalla prima casa antisismica di Pirro Ligorio (1570) si discute di regole, scrive Gian Antonio Stella il 26 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". «La città è stata cancellata di un soffio dalla superficie terrestre. Non esistono rovine; non esiste che un immenso strato di polvere, da cui sbucano strani, esilissimi, quasi trasparenti spettri di mura. Cancellate le case, cancellate le chiese, cancellate le piazze, cancellate le vie. Avezzano non è che un cimitero su cui mani pietose già incominciano a piantare croci». Era il 16 gennaio del 1915. E Umberto Fracchia, sceso nella notte dal treno che lo aveva portato nella cittadina della Marsica epicentro di un terremoto devastante e così vicina all’Aquila e ad Amatrice, aveva la mano che tremava mentre scriveva il suo reportage per «L’Idea Nazionale»: «Non un palmo di terra fu risparmiato: nessuno riuscì a trovar salvezza nella fuga. Quelli che erano in casa ebbero tetti e mura addosso; quelli che erano per le vie furono schiacciati tra il doppio crollo degli edifici che avevano ai due lati. La città era costruita di fango; è ritornata fango». È passato un secolo, da allora. E gli Appennini non hanno mai smesso di dare spaventosi scossoni. La storica Emanuela Guidoboni, che con Gianluca Valensise e altri studiosi ha raccolto in vari libri come «L’Italia dei disastri, dati e riflessioni sull’impatto degli eventi naturali 1861-2013» la memoria storica delle nostre calamità naturali (aggravate da superficialità, incuria, sciatteria amministrativa e legislativa) ha fatto i conti. Da far accapponare la pelle. La fragile spina dorsale del nostro Paese, dal 1315 quando un sisma appena un po’ meno grave di quello del 2009 devastò l’area dell’Aquila, ha fatto segnare (come spiega la mappa elaborata dal ricercatore Umberto Fracassi) 148 terremoti superiori a 5,5 gradi della scala Richter. E quasi tutti superiori all’VIII° grado di «intensità epicentrale». Per capirci: di uno scossone non basta sapere la magnitudo. Occorre anche conoscere la quantità di danni che ha prodotto. Un calcolo complicatissimo che si può riassumere così: con l’ottavo grado di intensità epicentrale crolla o diventa inabitabile il 25% degli edifici, con il nono la metà, con il decimo l’intero patrimonio immobiliare. L’undicesimo è l’apocalisse. Come a Messina nel 1908. In pratica, da quando la scienza ha potuto studiare più approfonditamente le attività sismiche e più ancora da quando sono state conservate precise memorie storiche dei disastri, la catena che, come scrisse Arrigo Benedetti, «si stacca dal colle di Cadibona, arriva in Calabria, si immerge e riaffiora in Sicilia», ha dato 19 pesantissimi strattoni nel 1600, 33 nel 1700, 29 nel 1800, 30 nel 1900 e già sei, con il cataclisma del 23 agosto scorso, in questo primo scorcio del secolo. In pratica, gli Appennini cantati da Dante Alighieri come monti di grande fascino ma impervi («Noi divenimmo intanto a piè del monte; quivi trovammo la roccia sì erta, che indarno vi sarien le gambe pronte») sono stati squassati da improvvisi e terrificanti sussulti, mediamente, una volta ogni tre anni. La catena che scende dal Nord fino all’estremo Sud offre panorami di grandissima bellezza. E prima di Francesco Guccini, che lì «tra i castagni» ha vissuto gli anni più intensi della vita coltivando un amore sconfinato («La mia è una montagna in cui la cima più alta arriva sui 2100 metri, dove non c’è roccia, dove i boschi di castagno e faggio coprono tutto fino a duemila metri») hanno affascinato molti viaggiatori. Come Wolfgang Goethe. «Gli Appennini sono per me un pezzo meraviglioso del creato», scrisse nel suo «Viaggio in Italia». Spiegando che «se la struttura di questi monti non fosse troppo scoscesa, troppo elevata sul livello del mare e così stranamente intricata; se avesse potuto permettere al flusso e riflusso di esercitare in epoche remote la loro azione più a lungo, di formare delle pianure più vaste e quindi inondarle, questa sarebbe stata una delle contrade più amene nel più splendido clima, un po’ più elevata che il resto del Paese. Ma così è un bizzarro groviglio di pareti montuose a ridosso l’una dell’altra; spesso non si può nemmeno distinguere in quale direzione scorra l’acqua. Se le valli fossero meglio colmate e le pianure più regolari e più irrigue, si potrebbe paragonare questa regione alla Boemia; con la differenza che qui le montagne hanno un carattere sotto ogni aspetto diverso. (…) I castagni prosperano egregiamente; il frumento è bellissimo e le messi ormai verdeggianti. Lungo le vie sorgono querce sempre verdi dalle foglie minute; e intorno alle chiese e alle cappelle agili cipressi». Montagne stupende, montagne inquiete. Maledette troppe volte, giù per i secoli, dai nonni dei nostri nonni. Costretti a ricostruire ciò che era stato raso al suolo. Eppure già dal 1570, quando Pirro Ligorio presentò la prima casa «antisismica» dopo il terremoto di Ferrara, i governanti più accorti avrebbero dovuto sapere che il rischio andava affrontato con regole precise. Tant’è che nel 1783 la Commissione Accademica napoletana denunciava che la popolazione calabrese, pur «avvezza alle scosse di tremuoti», non capiva che occorreva «pensare ad un modo onde formare le case in guisa che le parti avessero la massima coesione e il minimo peso» mentre «qui si vedeva precisamente il contrario…». Passarono, le borboniche «Normative Pignatelli» che puntavano a mettere ordine nel caos. Ma solo per qualche anno. E quando Pio IX chiese nel 1859 ai suoi ingegneri di predisporre un nuovo piano edilizio per Norcia, prostrata da un sisma, ci fu un braccio di ferro fra le autorità e il Comune. Recalcitrante a rispettare le regole perché vincolavano troppo i proprietari. Si è detto e ridetto anche in questi giorni: occorre una svolta, bisogna adeguare le leggi a una realtà difficile, è necessario intervenire con la prevenzione prima che le catastrofi avvengano… Giusto. Sono passati però 107 anni da quell’aprile 1909 in cui Vittorio Emanuele III firmò il primo decreto con alcune prescrizioni per le aree a rischio sismico o idrogeologico. Vietava di «costruire edifici su terreni paludosi, franosi, o atti a scoscendere, e sul confine fra terreni di natura od andamento diverso, o sopra un suolo a forte pendio, salvo quando si tratti di roccia compatta». Concedeva qualche deroga ma mai a edifici «destinati ad uso di alberghi, scuole, ospedali, caserme, carceri e simili». Ordinava che i lavori dovessero «eseguirsi secondo le migliori regole d’arte, con buoni materiali e con accurata mano d’opera» e proibiva «la muratura a sacco e quella con ciottoli»… Puro buon senso. Eppure un secolo dopo, davanti alle macerie di Pescara del Tronto, Accumoli, Amatrice e le sue contrade, siamo ancora a chiederci: possibile? Possibile che per decenni si siano continuate a costruire case destinate a crollare rovinosamente, magari sotto pesantissimi tetti in cemento armato, al primo dei numerosi terremoti? Il guaio è, spiega Emanuela Guidoboni, che già allora «non furono previste sanzioni. Dal 1909 ebbe sì inizio la classificazione sismica del territorio italiano, ma questa classificazione si faceva solo “dopo”. A disastro avvenuto». Peggio: per decenni «si è proceduto a macchia di leopardo, con vicende alterne e clamorose retromarce. Vari comuni classificati a rischio (come Rimini dopo il terremoto del 1916) chiesero infatti negli anni ‘40 e nel dopoguerra di essere de-classificati. E sapete con che scusa? Far crescere il turismo!» A farla corta: sì, forse sono necessarie nuove regole per contenere i danni di questi Appennini stupendi ma collerici. Più importante ancora, però, è farle poi rispettare. Gian Antonio Stella.

TERREMOTO: CORSI E RICORSI STORICI. I Borbone? 200 anni fa sconfissero i terremoti, scrive il 30/08/2016 Flaminia Camilletti su “Il Giornale”. Sono passati 7 giorni dalla notte tra il 23 e il 24 Agosto, notte in cui la terra ha tremato così forte da far implodere e scomparire due paesi ricchi di storia e tradizioni come Amatrice ed Arquata del Tronto, portandosi via 292 vite umane e una decina di persone scomparse. I danni agli edifici e i morti non sono confinati nei paesi sopracitati, ma si diffondono in tutta la zona di confine tra Umbria, Marche e Lazio, tre regioni diverse e numerosi comuni diversi, sintomo che se qualcosa è andato storto è da ricondurre ad un sistema Italia che in questo momento così com’è, non funziona. Neanche il tempo di levare le macerie e di salutare i propri cari, che già si scoprono decine di casi di mala-gestione edilizia. Addirittura i pm sospettano che i documenti che dichiaravano che le strutture fossero a norma, siano stati falsificati. I casi più noti: la scuola Capranica e l’hotel Roma di Amatrice indicati entrambi come punto di accoglienza del piano di protezione civile, e invece venuti giù. E poi il campanile di Accumoli, come la Torre Civica e la caserma dei carabinieri. Parallelamente alle inchieste, il tema principale del dibattito verte sulla ricostruzione: è possibile rendere antisismici dei centri storici così antichi, senza snaturarne l’identità ed il patrimonio architettonico? Molti esperti e opinionisti rimandano all’esempio certamente virtuoso del Giappone, ma qualcuno, in Italia, rende noto che anche la nostra storia vanta modelli di ingegneria antisismica di livello, messa in atto già due secoli fa. Uno studio condotto dal Cnr-Ivalsa (Istituto per la valorizzazione del legno e delle specie arboree del Consiglio Nazionale delle Ricerche) di San Michele all’Adige (Trento) in collaborazione con l’Università della Calabria ha dimostrato che le tecniche antisismiche usate 200 anni fa dai Borbone sono ancora attuali e che integrate con tecnologie moderne, potrebbero essere usate per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente. Dopo il terremoto del 1783, che distrusse gran parte della Calabria meridionale e fece circa 30.000 vittime fu emanata una normativa estremamente di avanguardia per l’epoca. L’efficacia di queste disposizioni è stata confermata dalla resistenza che ebbero i palazzi costruiti con queste regole nei terremoti del 1905 e del 1908 che colpirono la Calabria. Il Cnr ha chiarito che gli edifici costruiti con queste regole subirono danni non significativi, con limitate porzioni di muratura collassate e nessun crollo totale. Ulteriore conferma è stata data anche dal test antisismico condotto su una parete del palazzo del Vescovo di Mileto (Vibo Valentia), ricostruita fedelmente in laboratorio. “L’invenzione” è dell’ingegnere La Vega che con abilità di sintesi unisce le più avanzate teorie antisismiche dell’Illuminismo e una diffusa e antica tradizione costruttiva lignea presente in Calabria. Il sistema borbonico è caratterizzato infatti dalla presenza di telai di legno.” “Le tecniche – continua Nicola Ruggieri (l’architetto che ha prodotto lo studio) – si basavano sull’idea che la rete di legno, in caso di scossa, potesse intervenire a sostegno della muratura. Adesso quelle tecniche potrebbero ispirare sistemi antisismici per mettere in sicurezza il patrimonio edilizio esistente «magari – ha rilevato l’esperto – sostituendo il legno con alluminio e acciaio, per i quali l’industria è più preparata”.

La “casa baraccata”: il primo regolamento antisismico d’Europa è dei Borbone, scrive il 25 agosto 2016 Claudia Ausilio su “Vesuvio on line”. Il territorio italiano e soprattutto quello dei paesi a ridosso della dorsale appenninica sono tra i più esposti al mondo ad attività sismica e da secoli hanno dovuto fare i conti con i terremoti e i danni da esso causati. Pochi sanno che le prime case antisismiche furono fatte costruire dai Borbone che redassero il primo regolamento antisismico d’Europa. Tutto iniziò dopo il 5 febbraio del 1783, una data terribile per la Calabria e per il sud intero. Uno degli eventi più tragici della storia e un terremoto di un magnitudo elevatissimo, tra i più alti che l’Europa abbia mai visto. Le zone colpite furono quelle di Reggio Calabria, Vibo Valentia e Catanzaro che videro la morte di 30.000 persone. Il governo borbonico subito si mise all’opera per la ricostruzione emanando un regolamento antisismico, il primo della storia. Questo prevedeva la costruzione di una muratura rinforzata da un telaio di elementi lignei “inventata” dall’ingegnere Francesco La Vega, definita poi nel corso dell’Ottocento “casa baraccata”. Questo sistema si basava sugli ultimi studi dell’ingegneria settecentesca e su una tecnica costruttiva antica già in uso in Calabria. Ma l’ingegnere spagnolo come ideò questa tecnica antisismica? In realtà non si trattava di niente di nuovo, ci avevano già pensato gli antichi romani. Agli inizi del XVIII secolo Carlo III di Borbone decise di avviare un’intensa campagna di scavo ad Ercolano e successivamente a Pompei e Stabia. Le attività di recupero e lo studio dei reperti archeologici furono dirette dal 14 marzo 1780 proprio da Francesco La Vega. Durante queste operazioni l’ingegnere ebbe modo di osservare, proprio nelle città vesuviane, il cosiddetto Opus Craticium (opera a graticcio) cioè pareti intelaiate da elementi lignei. Grazie all’impiego di questa soluzione, le costruzioni successive al 1738, tra le quali anche il Palazzo del Vescovo di Mileto (Vv), riuscirono a resistere anche ai terremoti più devastanti, come quelli che colpirono la Calabria nel 1905 e nel 1908 con magnitudo 6.9 e 6 della scala Richter. Così come le abitazioni turche (Hımış) costruite con la tecnica dell’intelaiatura lignea hanno sfidato il sisma del 1999.

TERREMOTO ED IMPREPARAZIONE. Mario Tozzi sul terremoto: "Italia come il Medio Oriente. Una scossa di magnitudo 6 non dovrebbe provocare questi disastri". Intervista di Laura Eduati del 24/08/2016 su "Huffingtonpost.it". "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016. La terra ha nuovamente tremato violentemente devastando i paesi vicini all'epicentro: Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. "Le zone dalla Garfagnana a Messina, e cioè la dorsale appenninica, sono tutte sismiche e appartengono alla stessa regione geologica. L'Italia è un territorio geologicamente giovane e perciò subisce queste scosse strutturali di assestamento. Non stiamo dicendo che i terremoti sono prevedibili", puntualizza Tozzi, "perché sappiamo che è una sciocchezza. Ma stupisce che in una zona sismica non si faccia quasi nulla per impedire che una scossa di magnitudo 6 possa addirittura far crollare un ospedale come è accaduto ad Amatrice". Non esiste alcun alibi, continua il geologo: "Non veniteci a dire che i paesini del centro Italia sono antichi e perciò crollano più facilmente. Gli antichi sapevano costruire bene e basta pensare che a Santo Stefano di Sessanio, vicino l'Aquila, era crollata soltanto la torre perché restaurata con cemento armato, mentre a Cerreto Sannita nel Beneventano quasi tutto era rimasto intatto dopo il terremoto dell'Irpinia: non fu un caso, era stato costruito bene". Dunque "siccome ormai è chiaro che dobbiamo avere a che fare con i terremoti dovremmo costruire e fare una manutenzione antisismica di tutti gli edifici pubblici e privati, i soldi devono essere impiegati in questo modo: è la priorità", sottolinea ancora Tozzi, ricordando che "in Giappone e in California con una scossa simile a quella di Amatrice c'è soltanto un po' di spavento ma non crolla nulla". Mancati investimenti, fatalismo: il terremoto per Tozzi è soltanto una delle cause delle decine di morti di questa notte. "Facciamo sempre i soliti discorsi ma vediamo che non cambia nulla. Siamo il paese europeo con numero record di frane e alluvioni, siamo territorio sismico eppure per chi ci governa quando qualcosa succede è sempre una fatalità: bisognerebbe smetterla di pensare in questo modo e cominciare a ripensare seriamente al territorio".

TERREMOTO E PREVISIONE. Un sacco di scienziati e complottisti sono andati a letto ieri senza sapere di aver previsto il terremoto che ha devastato il Centro Italia questa notte. Oggi, con malcelata soddisfazione, ci comunicano che avevano ragione. Come sempre. Scrive Giovanni Drogo mercoledì 24 agosto 2016 su "Next Quotidiano”. Precisi come degli orologi svizzeri questa mattina sono arrivati quelli che leggono – a posteriori – i dati che indicano chiaramente che la notte passata ci sarebbe stato un forte terremoto. Dal momento che non è possibile prevedere il giorno, l’ora o il momento esatto di una scossa (e la relativa magnitudo) si tratta, nella migliore delle ipotesi, di cattiva informazioni (nella peggiore di mistificazioni pure e semplici). Spiega infatti l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia che non è possibile fornire previsioni precise utili ad avvertire per tempo la popolazione. Modelli teorici imprecisi non danno previsioni precise. Esistono dei segnali, chiamati precursori sismici, che consentono di poter formulare previsioni approssimative riguardo intervalli di tempo, di spazio e di magnitudo entro i quali si può verificare con maggiore probabilità della media un evento sismico. Ma non è detto che poi l’evento si verifichi davvero o che sia dell’intensità “prevista”. Sono state invece compilate delle mappe di pericolosità sismica che indicano quelle aree dove a maggiore rischio (e la zona colpita stanotte è purtroppo una di quelle). Utilizzando queste mappe è possibile adottare misure preventive (ad esempio costruire edifici antisismici o mettendo in sicurezza quelli esistenti) per limitare i danni di un eventuale terremoto. Tutto qui? Purtroppo al momento sì, perché i modelli teorici non consentono di essere più precisi. I terremoti non si prevedono, ma è invece possibile – anzi doveroso tenuto conto della situazione geologica italiana – fare prevenzione. Eppure c’è chi già questa mattina sottolineava come avesse già previsto la scossa. Spiegando di aver individuato una ventina di giorni fa un’anomalia che oggi dimostra come al tempo aveva previsto un terremoto. Ovviamente senza localizzarlo, senza indicare l’orario o la magnitudo. Il che come previsione non risulta essere sufficientemente precisa da poter sostenere di avere in mano una prova chiara del rapporto causa-effetto. Tenendo conto che si sapeva già che la zona colpita risulta essere ad alto rischio sismico non si tratta di previsioni accettabili, soprattutto perché – caso comune a molte altre previsioni – vengono fatte dopo l’evento. Che sulla catena appenninica si possano verificare scosse di questo tipo è cosa quindi nota, quello che manca di sapere (e che fa la differenza) è il momento preciso. E questo purtroppo non è possibile determinarlo in base alle conoscenze scientifiche attuali. Vogliamo parlare di quello “scienziato” che crede che i terremoti siano causati da perturbazioni cosmiche e che la causa vada ricercata nel Sole (la soluzione sarebbe spegnerlo). Un momento, forse potrebbe essere il fracking la causa! Ma ecco che, quando la scienza non ci dà certezze, arrivano direttamente quelli che credono nella magia. La grande fiera della cospirazione e della geoingegneria. Come già accadde in occasione del sisma del 2012 in Emilia Romagna c’è chi crede che sia possibile prevedere un terremoto guardando la conformazione delle nuvole. Si tratta di tecniche degne degli antichi romani? Nulla di tutto questo perché c’è chi ci spiega che le nuvole “orientate” in quel modo non sono naturali ma vengono create grazie a esperimenti sul campo elettromagnetico, del tipo di quelli svolti dal famigerato HAARP. Peccato che Terra Real Time, noto sito di complottisti, indicasse come epicentro del fenomeno la Calabria e non il Centro Italia. Cose che capitano quando si devono tenere sotto controllo le macchinazioni del NWO. Curiosamente sul sito le “onde scalari” che hanno provocato lo “tsunami elettromagnetico” venivano ritenute pericolose soprattutto per i portatori di Pacemaker. Il loro scopo? Modificare il clima. Nessun accenno ai terremoti in questa curiosa previsione. Ma naturalmente il NWO non vuole che si sappia che nemmeno Terra Real Time ha previsto un terremoto. Sarebbe bastato leggere il – breve – testo del comunicato per accorgersene ma dal momento che si parla di tsunami e che il termine è associato ai terremoti, ecco servita la previsione. In mancanza del nostro esperto di fuffa preferito (Rosario Marcianò è momentaneamente assente da Facebook) non ci resta che consolarci con le spiegazioni di Gianni Lannes che sul suo sito evoca scenari militari: C’entra forse qualcosa il programma segreto di aerosolchemioterapia bellica che la NATO – previo indottrinamento degli esperti civili – manda in onda dal 2002, a base di irrorazioni aeree di alluminio e bario che rendono l’aria maggiormente elettronconduttiva, in modo da consentire alle onde elf di colpire le faglie sismiche attive? Scie belliche e sciami sismici: un distruttivo connubio militare. […] I terremoti possono essere provocati anche dall’uomo con vari mezzi e sistemi, soprattutto in aree notoriamente a rischio sismico che spesso mascherano la reale dinamica dell’evento tellurico: esplosioni convenzionali e nucleari, iniezioni elettromagnetiche nella crosta terrestre, riscaldamenti ionosferici, ricerca ed estrazione di idrocarburi. Un terremoto indotto presenta distintamente un ipocentro superficiale.

IL TERREMOTO E L'INFORMAZIONE. Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore. Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità, scrive Roberto Saviano il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Ora che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo. I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti. E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione? Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle). Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click. Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.  

TERREMOTO E SATIRA. «Terremoto all’italiana», è un caso la vignetta di Charlie Hebdo. Nel numero in edicola satira sulla tragedia di Amatrice: lasagne e pasta per illustrare il dolore per le 300 vittime. La rete si indigna: «Io non sono Charlie». L’ambasciata: «Non ci rappresenta». Poi la precisazione: «Italiani, a costruire le vostre case è la mafia», scrive Antonella De Gregorio il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Oggi nessuno «è Charlie Hebdo». La solidarietà dopo gli attentati che hanno colpito il giornale nel gennaio del 2015 si squaglia sui social, lasciando spazio all’indignazione più viscerale. Scatenata dalla vignetta che il settimanale in edicola dedica al terremoto in Italia. Nell’immagine, intitolata «Séisme à l’italienne» («Terremoto all’italiana») le vittime del terremoto che ha sconvolto il nostro Paese vengono paragonate a tre piatti tipici della nostra cultura: «Penne all’arrabbiata», illustrato con un uomo sporco di sangue; «Penne gratinate», con una superstite coperta di polvere; mentre le lasagne sono strati di pasta alternati ai corpi rimasti sotto alle macerie. La vignetta firmata dal vignettista Felix è pubblicata nell’ultima pagina del numero in edicola della rivista satirica, che ha in copertina una vignetta sul burkini: il «sacco di patate che unisce la sinistra». In fondo al giornale, nella pagina tradizionalmente intitolata «le altre possibili copertine», la sciagura in Italia viene affrontata con freddure tipo: «Circa 300 morti in un terremoto in Italia. Ancora non si sa che il sisma abbia gridato “Allah Akbar” prima di colpire». La polemica è esplosa. E a poco sono valse le scuse ufficiali della diplomazia d’Oltralpe. «Il disegno pubblicato da Charlie Hebdo non rappresenta assolutamente la posizione della Francia» si legge in una nota dell’ambasciata francese a Roma, che sottolinea che il terremoto del 24 agosto è «un’immensa tragedia» e rinnova le condoglianze alle autorità e al popolo italiano, al quale «ha offerto il suo aiuto». Su Twitter, tantissimi quelli che giudicano la vignetta «sconvolgente», «indecente», e chiedono rispetto per le vittime. C’è chi pubblica l’immagine a fianco della scritta «Io non sono Charlie». Chi commenta: «Hebdo oggi ha toppato alla grande», e «Cosa ci sia da ridere su questa vignetta poi ce lo spiegate». Ma anche chi difende la scelta («Siamo tutti Charlie finché Charlie non sfotte noi») e commenta: «Se non tocca alla pancia non è satira. È solo un disegno insignificante». Trovando, magari, più scandalosi «le interviste sceme, lo show morboso del dolore andato in scena in questi giorni». Si riapre insomma il dibattito sui confini dell’ironia. Rispetto, cattivo gusto, libertà di esprimersi, censura: ognuno in rete dice la sua. «Le vignette di #CharlieHebdo servono proprio a far indignare chi viene “colpito”. Lo fanno per lavoro, non lo scordiamo», sottolinea un utente di Twitter. Mentre un’interpretazione taccia di «analfabetismo funzionale» tutti coloro che non han capitole intenzioni degli autori della vignetta: «Edifici costruiti con la sabbia (“penne gratinées”) che quando crollano si riducono e ti riducono a strati di lasagna. Ecco i sismi all’italiana - scrive Pasquale Videtta - in cui nemmeno le scuole anti-sismiche sono tali. L’analfabetismo funzionale è quella cosa che ti fa scambiare la vignetta di Charlie Hebdo per una derisione delle vittime del terremoto e non per una denuncia politica e sociale». Spiegazione «esegetica» che sono gli stessi giornalisti della rivista francese a confermare, con un colpo a sorpresa, a poche ore dal polverone mediatico. Nel pomeriggio, dopo la valanga di contestazioni, sulla pagina Facebook ufficiale, Charlie Hebdo pubblica una vignetta «di precisazione» firmata «Coco». Vi compare una persona insanguinata sotto le macerie, come nel disegno contestato, che si rivolge al lettore: «Italiani...non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!». «È una vignetta in cui non trovo niente da ridere», ha commentato il Commissario per la ricostruzione post terremoto Vasco Errani. «Io sto vivendo questa situazione con la popolazione - ha sottolineato - e sono certo che i cittadini che stanno vivendo questa tragedia non trovino niente da dire e da ridere come me. La vignetta aumenta la sofferenza di queste persone». Sconforto dal sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi: «Ma come si fa a fare della satira sui morti? La satira è satira quando fa ridere e qui mi sembra che non ci sia proprio nulla da ridere, visto che è pieno di morti». Certo Charlie Hebdo non è il primo pensiero del primo cittadino del comune sconvolto dal sisma. E per un po’ Pirozzi si è disinteressato alla questione. Ma poi, davanti ai giornalisti che lo incalzavano, è sbottato: «La satira è una cosa bella, ben venga l’ironia. Ma come si fa... qui c’è soltanto del cattivo gusto». Con lui si esprime anche la politica: «Vignetta lugubre, disumana, indegna, da rispedire al mittente», scrive in una nota la deputata Pd Vanna Iori. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, sul suo account Facebook liquida la vicenda così: «Non fa ridere, non è sagace, non c’è neppure del “sarcasmo nero”. È solo brutta. Si vede che l’ha fatta un cretino. Mi spiace non siano riusciti più a trovare vignettisti capaci». E Michele Anzaldi (Pd), chiede scuse ufficiali: «Ci aspettiamo che la Francia, a partire dalle sue istituzioni — dichiara — prenda le distanze da una vignetta che rinnova il dolore nelle tante famiglie italiane che hanno subito il grave lutto del terremoto». Scuse che l’ambasciatore francese si è affrettato a trasmettere.

#JeSuis Charlie sempre. Anche se non ci piace. Chi stabilisce i confini della decenza quando si parla di satira? Perché non possiamo gridare alla censura nonostante i contenuti oltraggiosi o che ci paiono una porcheria, scrive Pierluigi Battista il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". #JeSuisCharlie anche se «Charlie Hebdo» pubblica vignette volgari e oltraggiose. Perché la libertà d’espressione è anche diritto alla volgarità. Naturalmente deve esistere una reciprocità di diritti: se la satira vuole vedere riconosciuto quello dell’irriverenza assoluta e offensiva, deve anche riconoscere il diritto altrui a criticare le schifezze che si pubblicano in nome della satira. Se noi volessimo rispettare solo la libertà di ciò che ci aggrada, non ci vorrebbe un grande sforzo. Lo sforzo è riconoscere la libertà di dire e disegnare e rappresentare cose opposte a quelle che pensiamo e che consideriamo giuste, buone, persino sacre. Dicono: ma non si oltrepassino i confini della decenza. Ma chi stabilisce questi confini? La censura è per definizione il campo dell’arbitrio, della discrezionalità, della prepotenza di chi pretende di incarnare il Giusto e il Buono. E allora, dobbiamo accettare passivamente le volgarità sui nostri morti sepolti dal terremoto? Certo che no, nessuna passività. Possiamo dire attivamente che si tratta di una porcheria. Oppure possiamo avvalerci di quell’altra fondamentale libertà che sarebbe da stolti dimenticare, e cioè la libertà di non comprare un vignettificio che non ci piace. Non vuoi «Charlie Hebdo»? Non andare in edicola a comprarlo. Questa è la libertà, a meno che uno non sia costretto a pagare cose che non vuole vedere, come avviene con il canone Rai. Quando c’è la sfida dei fanatici jihadisti che vogliono toglierci ogni libertà, bisogna essere rigorosi nel difendere ogni libertà. Compresa quella che non ci piace. Perciò #JesuisCharlie, anche se stavolta sono stati dei veri farabutti.

Charlie Hebdo, perché li critico. «Non si calpestano così 300 morti», scrive Giannelli il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". La vignetta pubblicata in ultima pagina dal settimanale satirico francese Charlie Hebdoa firma Felix non mi è piaciuta. Mi perdonerà il collega vignettista ma, a mio parere, se pur sia ben consapevole che la satira è trasgressione assoluta, tragedie come quelle del terremoto che ha colpito il Centro Italia è obiettivamente difficile che possano giustificare spunti satirici di questa specie. È trasparente il messaggio che la vignetta vuole dare: una condanna degli italiani spaghettari. Ma per insistere su questo consueto stereotipo, mi sembra sia stato di cattivo gusto calpestare trecento morti. E che la critica non sia altro che una riaffermazione dei consueti stereotipi sul nostro Paese, lo dimostra la seconda vignetta, pubblicata nel pomeriggio sull’account Facebook del settimanale, nella quale il disegnatore Coco Charlie Hebdo ha chiamato in causa la mafia. Niente di nuovo quindi rispetto alla copertina di tanti anni orsono del settimanale tedesco Der Spiegel che raffigurava l’Italia come un piatto di spaghetti con una rivoltella sopra. È vero che una vignetta è solo uno scherzo, una irrisione e trovo quindi sproporzionato e ridicolo che si parli di severa condanna e di giusta indignazione, con l’ambasciata transalpina in Italia a puntualizzare che «non rappresenta assolutamente la posizione della Francia». Ci deve essere però anche libertà di critica perfino nei confronti della satira e da vignettista ammetto che non sempre si possono avere idee felici; è fatale. Nel caso specifico, avrei trovato più giusto che la prima vignetta fosse firmata Infelix.

Satira sul terremoto, Pennac: "Disegno idiota, ma difendo ancora la libertà di Charlie Hebdo". L'intervista. La bocciatura dello scrittore: "Non mi piace chi gioca con la morte degli altri", scrive Francesca De Benedetti su "La Repubblica" il 03 settembre 2016. Una "connerie", uno scivolone in piena regola: così Daniel Pennac, lo scrittore francese, commenta la vignetta di Charlie Hebdo sul terremoto in Italia. Lui, l'autore della saga dei Malaussène e di altre opere di successo, è abituato a giocare con ogni sfumatura del linguaggio. Ma stavolta per commentare la satira dei suoi connazionali sul sisma non usa mezzi termini, anzi si concede un paio di parole forti. Poi però conclude: "Anche oggi, "Je suis Charlie". Una vignetta idiota non può togliere forza a quel messaggio, che non va messo in discussione".

Pasta e sangue, poi la mafia: è la chiave con cui Charlie "legge" il terremoto in Italia. Cosa ne pensa?

"La vignetta sulle vittime del terremoto è stronzissima e basta. Non è divertente, non fa ridere nessuno se non chi l'ha concepita, quasi non merita il nostro sdegno".

La satira non giustifica il ricorso agli stereotipi e le provocazioni violente?

"Vede, io penso che neppure la satira dovrebbe calpestare una cosa importante: l'empatia. Penso alle vittime delle scosse, penso alle sofferenze di quelle terre, e non posso non concludere che quelle vignette mancano di rispetto a quel dolore, a quelle storie. Non mi piace chi gioca con la morte degli altri. Penso al fatto che proprio oggi avrei dovuto essere in un paesino umbro per un'iniziativa culturale; Castello di Postignano si trova non lontano dai borghi distrutti, la gente è andata via per paura di nuove scosse. Abbiamo sospeso l'evento, perché la prima cosa da mostrare, di fronte a tragedie come questa, è l'umanità, la solidarietà".

Fa bene l'ambasciata di Francia a prendere le distanze dalle vignette? Hanno ragione gli italiani indignati?

"Se lo chiede a me, le dico di sì, perché non gradisco né quella vignetta né in generale un certo humour sulla morte. Va detto che con Charlie tutto ciò non è una novità. Non è una novità un certo stile, che già altre volte mi ha suscitato una sensazione di disagio, anche se non detesto il giornale in sé e non amo le condanne definitive".

Qualcuno è arrivato a dire: "Je ne suis pas Charlie", "Non sto più con Charlie".

"L'espressione "Je suis Charlie" è diventata il simbolo dell'opposizione radicale e senza mezzi termini all'assassinio di giornalisti e disegnatori. Una vignetta, per quanto idiota, non giustifica affatto la messa in discussione di questo principio. Con la stessa chiarezza con cui dico che quel disegno non mi piace, sono pronto anche ad affermare senza mezzi termini: "Io resto Charlie". A ognuno le sue responsabilità morali: chi offende i morti ha le sue, e noi abbiamo le nostre. È nostro dovere ribadire ogni giorno che nulla autorizza l'uccisione di chi fa satira e che niente può giustificare un massacro come quello dei giornalisti e disegnatori di Charlie. Non possiamo esserne complici: ecco perché io - anche oggi - sono Charlie".

La vignetta di Charlie Hebdo non mi piace, ma difendo la libertà di espressione. Siamo una civiltà superiore. Nessuno ucciderà chi sta dietro a quel disegno, scrive Camillo Langone, Sabato 03/09/2016, su "Il Giornale". Quelli di Charlie Hebdo vogliono proprio mettere alla prova il famoso detto di Voltaire: «Non sono d'accordo con quello che dici ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». L'affermazione del filosofo suona un po' troppo roboante (e infatti pare che il testo originale, prima di diventare una formula, fosse più trattenuto), però il concetto non può non essere condiviso da chiunque ami la libertà. Io per Charlie Hebdo non sono disposto a morire, è inutile che faccia il gradasso, ma a correre qualche piccolo rischio sì. Quando nel gennaio dell'anno scorso la redazione del settimanale satirico francese venne sterminata dai coranisti a colpi di fucile mitragliatore AK-47 scrissi che i caduti andavano considerati martiri della libertà di espressione. Ne sono ancora convinto. E proprio perché ieri ho preso le parti dei vignettisti contro gli islamisti e gli islamofili oggi posso tranquillamente dirmi in disaccordo con le vignette sul terremoto di Amatrice e di Arquata. Ammetto di essere poco spiritoso e sarà per questo che poco ho apprezzato la vignetta intitolata «Sisma all'italiana» apparsa sul settimanale: a sinistra un uomo insanguinato sotto la scritta «Penne al pomodoro», al centro una signora bruciacchiata o impolverata o chissà (nella mia vita ho visto vignette disegnate meglio) sotto la scritta «Penne gratinate», e infine, a destra, quattro morti schiacciati fra strati di macerie e dunque posti sotto la scritta «Lasagne». Qualcuno ha riso? De gustibus. Non che il dettaglio abbia soverchia importanza, ma la grossolanità satirica stavolta si abbina alla grossolanità gastronomica: non ci vuole una laurea all'università Slow Food di Pollenzo per sapere che Amatrice con le penne c'entra poco e con le lasagne nulla e che il famoso sugo che dal paese appenninico prende il nome condisce di norma i bucatini. Meglio dirlo piano, non vorrei offrire spunti a uno dei loro vignettisti senza scrupoli, settimana prossima non vorrei vedere stampato un piatto di bucatini con un macabro ragù a base di terremotati macinati, e poi magari ritrovarmi qui a discettare sul fatto che il sugo all'amatriciana non è propriamente un ragù. Me la vorrei risparmiare una simile disquisizione e mi sarei voluto risparmiare anche la presente su penne e lasagne non filologiche, non tipiche, eppure qualcosa di buono da questo sgradevole episodio vorrei ricavarlo. Ex malo bonum, dicevano gli antichi. Dall'ultima vignettaccia di Charlie Hebdo traggo la dimostrazione della nostra appartenenza a una civiltà superiore perché nessun terremotato italiano entrerà nella redazione parigina sparando all'impazzata e gridando «Amatrice è grande». Ci sono state e ci saranno reazioni critiche, e ci mancherebbe, ci sono state e ci saranno manifestazioni di sdegno, legittime pure queste, ancor più se provenienti da persone che nella tragedia hanno perso famigliari, amici, case. Ma niente di più. Gli italiani sono dunque un popolo voltairiano? Non voglio esagerare, non li direi così filosofici, ma senz'altro non sono capaci di meditare vendette collettive (durante la Seconda guerra mondiale vennero invasi dai tedeschi e bombardati dagli americani, eppure nel Bel Paese i turisti provenienti dalla Germania e dagli Usa sono sempre stati accolti benissimo). Semplicemente, stavolta, non sono Charlie.

Ma la vignetta non è piaciuta neppure a un maestro della satira come Sergio Staino che, in un’intervista all’Ansa, ha commentato: “Penso che sia una vignetta in linea con la storia di Charlie Hebdo. Non è la prima volta che, per una scelta provocatoria, decidono di andare contro tutto e tutti in momenti di grande dolore”. Per Staino il giornale “ha voluto legare il vecchio stereotipo del paese dei maccheroni alla tragedia, ma il risultato è di basso livello. Neanche un ubriaco o il pazzo di quartiere farebbe una cosa simile, che senso ha? Prendo le distanze da un intervento creativo che non ha alcun senso, almeno per come intendo io la satira”.

Mentana definitivo sulla vignetta-vergogna: "Basta dire che...". Così chiude la bocca a tutti, scrive “Libero Quotidiano" il 2 settembre 2016. La satira piace a tutti, almeno finché non si è il soggetto preso di mira. Eppure sembra ieri che mezzo mondo occidentale agitava la scritta #Jesuischarlie, poco dopo gli attentati islamici del gennaio 2015 contro la rivista satirica francese. Stavolta quella stessa rivista ha colpito gli italiani, in particolare le vittime del terremoto in centro Italia raffigurati come una lasagna fatta di corpi e macerie. Contro l'indignazione ad orologeria di tanti che sul web hanno insultato i vignettisti francesi si è scagliato Enrico Mentana che sulla sua pagina Facebook ha scritto: "Scusate, ma Charlie Hebdo è questo! Quando dicevate 'Je suis Charlie' solidarizzavate con chi ha sempre fatto simili vignette, dissacrando tutto e tutti. Le vignette su Maometto anzi facevano alla gran parte degli islamici lo stesso effetto che ha suscitato in tutti noi questa sul terremoto. Fu Wolinski, una delle vittime dell'attacco terrorista del gennaio 2015, a far capire ai colleghi italiani quarant'anni fa che la satira poteva essere brutta sporca e cattiva. Vogliamo rompere le relazioni con la Francia dopo aver marciato in loro difesa? Basta più laicamente dire che una vignetta ci fa schifo".

La reazione. Libero Quotidiano del 3 settembre 2016: "Ci viene voglia di sparargli. Il Tempo pubblica un disegno. La vignetta satirica che sfotte i morti del terremoto del Centro Italia pubblicata dal settimanale satirico Charlie Hebdo ha sollevato moltissime polemiche e reazioni. Libero in edicola oggi lancia una provocazione: "Viene voglia anche a noi di sparargli" titola in prima pagina sopra la foto con la disgustosa vignetta. Il Tempo, pubblica a sua volta una vignetta che fa riferimento alle tante vittime del terrorismo che titola "Tartare à la parisienne". Due titoli forti per rispondere a una vignetta che definire di cattivo gusto è davvero poco. 

Charlie Hebdo e la satira senza limiti. Eccessi e pessimo gusto come regola. Il settimanale satirico francese ha origine come foglio libertario negli anni Settanta. Da rivista di nicchia, dopo l’attentato del gennaio 2015 è diventata nota globalmente, scrive Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi, il 2 settembre 2016 su "Il Corriere della Sera". «Charlie Hebdo» torna a fare parlare di sé anche fuori dalla Francia, come spesso gli accade dopo la notorietà planetaria acquistata suo malgrado con i 12 morti del 7 gennaio 2015. Stavolta l’indignazione riguarda una vignetta sul terremoto in Italia, pubblicata a pagina 16, l’ultima, dedicata come sempre alle «copertine alle quali siete sfuggiti», cioè ai disegni che sono stati valutati per la prima pagina ma poi scartati. Nell’ultimo numero, la caricatura principale è dedicata al giornalista Edwy Plenel, alla ministra Najat Vallaud Belkacem e all’ecologista Cécile Duflot a braccetto sulla spiaggia sotto la scritta «Burkini - il sacco da patate che unisce la sinistra». Il titolo è «Sisma all’italiana», sotto ci sono tre versioni macabro-culinarie degli effetti del terremoto: penne al pomodoro, penne gratinate e lasagne, giocando su sangue/salsa. La vignetta ha provocato reazioni indignate su Twitter, molti hanno fatto sapere di «non essere più Charlie», ricordando l’ondata di emozione e solidarietà che avvolse la redazione dopo l’attentato, quando milioni di persone proclamavano lo slogan «Je Suis Charlie». La derisione verso tutto e tutti, anche le tragedie, è sempre stata una caratteristica di Charlie Hebdo. Accanto alla vignetta sul terremoto, ce n’è una sui migranti a Calais che ormai hanno superato quota 10 mila: una lunghissima fila di persone davanti alla toilette, la scritta «le forze dell’ordine sono travolte» e tre mosche che dicono «anche noi!». Poi, due vignette sul surfista attaccato dagli squali alla Reunion. All’interno, a pagina 2, un grande disegno sul rientro a scuola, con un esibizionista che apre l’impermeabile davanti ai bambini e un agente della sicurezza che controlla lo zaino di un allievo: «droga, cianuro, siringhe, alcol… niente cintura di esplosivo, potete andare». Lo scorso gennaio, il direttore Riss (che ha preso il posto di Charb rimasto ucciso nell’attentato) ha disegnato la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto a Bodrum, in Turchia, mentre cercava con il padre e il fratello di raggiungere l’Europa. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si chiede il vignettista. La risposta: «Un palpatore di sederi in Germania». Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state molestate da gruppi di stranieri. La zia Tima Kurdi, che vive in Canada, protestò: «Speravo che le persone rispettassero il nostro dolore. È stata una grande perdita per noi. Cerchiamo di dimenticare e di guardare avanti. Ma ferirci un’altra volta è ingiusto». Pochi mesi prima, a settembre 2015, il giornale aveva pubblicato altre due vignette su Aylan. Non si contano i disegni su preti, suore, islamici, atei, omosessuali, eterosessuali, politici, celebrità varie, persone comuni. Charlie Hebdo non si è mai posto limiti. A settembre 2015 Luz, altro sopravvissuto del massacro del 7 gennaio, aveva preso le difese di Riss con una specie di editoriale a fumetti intitolato «il disegno satirico spiegato agli idioti»: «Fai parte dei milioni di “nuovi lettori” che hanno scoperto Charlie e il suo umorismo dopo gli attentati di gennaio. Non avremmo mai immaginato che ti saresti interessato al nostro lavoro». In effetti, Charlie Hebdo non è un pensoso, pacato e autorevole settimanale di approfondimento dal quale pretendere senso di responsabilità o eleganza, ma un foglio libertario fondato negli anni Settanta, che ha fatto dell’eccesso e del pessimo gusto uno dei suoi tratti costanti. Per questo aveva un pubblico di nicchia ma è diventato suo malgrado – c’è voluto l’attentato islamista - una testata nota in tutto il mondo, scrutata e commentata da lettori e osservatori che prima mai si sarebbero sognati di andare in edicola a comprarne una copia. Lo slogan «Je Suis Charlie» non ha mai voluto dire adesione incondizionata all’umorismo surreale di Charlie Hebdo, ma una scelta di campo dalla parte della libertà di espressione e contro i terroristi. Liberi i disegnatori di Charlie Hebdo di dissacrare tutto e tutti, liberi i lettori di non amare le loro vignette e non comprare il giornale.

Ma quale satira? Questa è merda! Scrive Emanuele Ricucci su “Il Giornale” il 2 settembre 2016. Adesso: quanti di voi sono Charlie? Quanti di voi si sentono Charlie? Neanche il dramma colpisce la redazione della testata francese di satira. Non la ferma, non la frena, in un vomitoso impeto infantile, frutto di una comunicazione adolescente, pretenziosa, mai cresciuta, impulsiva. Così, dopo essersi chiesti se il terremoto, prima di colpire “abbia urlato Allau Akbar”, ecco comparire nell’edizione del 31 agosto di Charlie Hebdo, nella sezione “Le altre possibili copertine”, la vignetta, “sisma all’italiana”: un ferito insanguinato con la didascalia “Penne al pomodoro”, un’altra con quella “Penne gratinate”, i corpi sepolti con la scritta “Lasagne”, così come riporta, fra gli altri, Il Messaggero. Ah, che belle risate. E che riflessione arguta. Ma quale satira? Questa è merda. Pura, purissima merda chic, partorita dalla mente del democraticissimo progresso secondo cui non ci sono vincoli, nella comunicazione, né tabù e la moralità, il buon senso, il buon gusto, ci stanno stretti, come antichi orpelli ormai in disuso. Cosa voleva comunicare Charlie Hebdo? Forse voleva solo incarnare il motto di un altro paladino delle Belle Menti, Dario Fò, un proletario col culo degli altri: “Prima regola: nella satira non ci sono regole”, fintanto che, ovviamente, non colpisce gli agitatori del politicamente corretto. Cosa è satira nel grande mondo liberale e libertino, poco libero? E cos’è oltraggio? Ma non è con i francesi che dobbiamo prendercela – vicini, solidali: amico mio, connazionale, prova ora a sentirti un pochino CHARLIE HEBDO, se ne hai il coraggio. Nota di servizio: Ah, scusate. Date ragione a Charlie, andateci un pochino forzatamente contro corrente. Giusto un po’ coattamente come il giocatore di flipper di Carlo Verdone in Troppo forte; in fondo noi, poveri, non abbiamo colto la sottigliezza alla base della vignetta di Charlie Hebdo, di come le vittime siano cibo per speculatori e un sisma sia appetitoso, oppure di come c’abbiano sparato la verità in faccia sulle case fatte di merda (e dalla mafia), con la sabbia di mare anziché con i ciottoli di fiume, nella seconda vignetta. La moralina d’oltralpe, esposta anche male, male, è un po’ troppo. Scusate la nostra pressappochezza nazionalista nel vedere una mano troppo pesante irridere con troppa facilità chi stava dormendo ed è morto sfracellato, perdonate il nostro sdegno nel vedere cotanta filosofia espressa in tratti di matita. Lasciateci essere dei vermiciattoli (o dei giornalai imperfetti) della non comprensione e siate Charlie, siate un po’ quel che caspita vi pare. A chi verrebbe in mente di irridere i migranti che si abbandonano alle acque del Mediterraneo? Mi perdoneranno gli intellettuali, mi perdonerà chi si è rotto la favetta della polemica o chi glissa elegantemente: et voilà. Perdoneranno l’impeto del povero umile.

I fantasmi del politically correct, scrive Luigi Iannone il 3 settembre 2016 su “Il Giornale”. Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico, il mio nuovo libro in uscita il 12 settembre. << (…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

E se la satira è nostrana?

“Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana”, dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, venerdì 26 agosto, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità.

La morte e l'amatriciana: la vignetta che Travaglio doveva evitare, scrive il 25 agosto 2016 “Libero Quotidiano”. "Scusate, avevo solo chiesto una amatriciana", dice una figura nera con la falce in mano, ovvero la morte. Questo recita la vignetta in prima pagina, oggi, su Il Fatto Quotidiano. Il vignettista Mario Natangelo cerca così di ironizzare sulla tragedia del terremoto di Amatrice, nel centro Italia. Sinceramente non se ne vedeva la necessità. La freddura di oggi, il direttore Marco Travaglio la poteva tranquillamente evitare.  

TERREMOTO E SPETTACOLARIZZAZIONE. Cinismo e retorica creano caccia alle streghe, scrive Piero Sansonetti il 29 ago 2016 su "Il Dubbio". Le conseguenze più gravi del terremoto si potevano evitare. Se ci sono responsabilità personali vanno accertate, e invece è già iniziato il linciaggio. Il riflesso condizionato, si sa, è ingovernabile. Difronte a una tragedia grande come quella di Amatrice, per esempio, giornalisti e Pm (non tutti, ma molti) riescono a mantenere la calma per un paio di giorni, e a far bene il proprio lavoro, e a raccontare - gli uni - e a indagare con serietà e discrezione - gli altri. Poi al terzo giorno si rompono gli argini e la necessità impellente di prendere i colpevoli e linciarli subito subito, prevale su tutto. E così alcuni magistrati non riescono a trattenere la propria pulsione a dichiarare, anche se ovviamente non sono in grado ancora di sapere niente di quello che è successo, e delle cause. E i giornalisti iniziano ad eseguire le sentenze, da loro stessi emesse, e a scrivere tutto ciò che sentono dire in giro, nei vicoli, nei bar. C’è un importante giornale nazionale che l’altro giorno informava - in prima pagina - i suoi lettori, che le pareti della scuola di Amatrice erano di polistirolo. Naturalmente è molto probabile che per il crollo della scuola esistano delle responsabilità soggettive e personali, oltre alle responsabilità politiche delle istituzioni. Ma è altrettanto probabile che ancora nessuno sia in grado di conoscere queste responsabilità. Ed è molto, molto probabile che il polistirolo sia stato usato per motivi di isolamento termico o acustico, e che non c’entri proprio niente col crollo. Però scrivere che le mura erano di polistirolo fa effetto, porta qualche lettore in più. Si fa. Così come fa effetto usare l’espressione: “in odor di mafia”. Che non vuol dire assolutamente niente, ma muove molte emozioni. E spesso quello “in odor di mafia” non è nemmeno la persona di cui si sta parlando, ma un suo lontano parente. Ormai “essere parente” - per la stampa italiana - è diventato uno tra i reati più frequenti.  Il Fatto, per esempio, l’altro giorno indicava al pubblico sospetto (e al pubblico ludibrio) un tale gravato di due colpe evidenti e certe: essere siciliano e - soprattutto - essere “imparentato” con una parlamentare del Pd. E poi, ovviamente, ci sono gli sciacalli. La storia che raccontiamo nell’articolo di Simona Musco in prima pagina è esemplare. La caccia allo sciacallo è un “cult” dell’informazione, da noi. Come una volta era la caccia all’untore, della quale vi abbiamo parlato molto, in questo agosto, ripubblicando la Colonna Infame di Manzoni. E’ del tutto evidente, a chiunque, che le conseguenze tragicissime, con trecento morti, del terremoto di Amatrice, sono in gran parte dovute alla mancanza di prevenzione. Lo abbiamo scritto il primo giorno. Il titolo del nostro giornale era: «Si poteva evitare?». Tutti gli esperti rispondono di si. Che esistono ormai le possibilità tecniche non solo per costruire con criteri antisismici tutte le nuove abitazioni, ma anche per mettere, almeno in parte, in sicurezza, le costruzioni più antiche. E tutti gli esperti ci dicono anche che l’Italia è la nazione più a rischio sismico d’Europa, e dunque la necessità di mettere al sicuro i nostri paesi e le nostre città è impellente. E invece, da diversi anni, si fa troppo poco. Esistono le mappe delle zone a rischio e persino i censimenti dei singoli edifici a rischio. Esiste anche una stima su quanto costa una azione di ristrutturazione generale. Però la politica resta immobile e un po’ indifferente. Eppure tutti sanno che sono altissime le probabilità che nei prossimi vent’anni ci siano in Italia almeno tre o quattro terremoti gravi come quello di Amatrice. Perché non concentrare su una gigantesca operazione antisismica tutte le risorse che è possibile stanziare sulle opere pubbliche? Rinunciando, almeno per un decennio, a ogni altra iniziativa. Concentrando una quantità molto grande di risorse su questa impresa, e mettendo in moto anche un meccanismo probabilmente importante di mobilitazione economica e dunque di sviluppo? Questa è la domanda che va rivolta alla politica. Alla magistratura invece va chiesto di accertare con serietà e certezza se ci sono responsabilità precise e personali per i crolli provocati dal terremoto, e, se ci sono, di chi esattamente sono. Ma questo lavoro va svolto con discrezione, serietà, prendendosi i tempi necessari, senza creare mostri e senza lavorare suoi sospetti e basta, e senza - soprattutto - cercare pubblicità e interagire con la stampa e i suoi clamori. Magari anche rinunciando alle iniziative bislacche che qualche anno fa portarono all’incriminazione (e persino alla condanna in primo grado) di un bel gruppetto di valorosi scienziati accusati di non aver previsto il terremoto dell’Aquila. Quegli scienziati poi furono assolti pienamente, dal momento che non ci vuole una grande scienza per sapere che i terremoti non sono prevedibili da nessuno e tantomeno è prevedibile la loro intensità. Ma furono assolti quando ormai la loro reputazione e le loro carriere erano state già distrutte. Poi, certo, è inevitabile, esiste dei pezzi del giornalismo e della magistratura italiana che vivono di retorica e cinismo, e non sono molto interessati alle certezze e alla verità: retorica e cinismo molto spesso si alleano e quando si alleano creano disastri. Il meccanismo tradizionale della caccia alle streghe è sempre stato quello: retorica e cinismo che si esaltano a vicenda.

Terremoto tra polemiche e apparenza al tempo del dolore 2.0. Tutte le opinioni che abbiamo letto in questi giorni ci inducono a riflettere e la verità è che ci attende una battaglia lunga e faticosa, scrive Francesca Contino il 26 agosto 2016 su "Irpinia 24". Avellino ­ Guardo mia nonna e ho la percezione che tutto intorno abbia assunto dei connotati stonati. La osservo guardare i TG, in preda a una frenesia, con la necessità di cambiare canale e non certo per disinteresse, ma perché delle immagini sono troppo crude e sanno di una tragedia, che lei, come tanti, ha vissuto sulla sua pelle nel 1980. La vedo mentre sembra disegnare con lo sguardo un terrore nascosto, a tratti inenarrabile. Quando le chiedo di raccontarmi di quel 23 Novembre, le parole si accavallano e poi d’improvviso si spezzano, come se si rinnovasse un dolore troppo grande anche da rispolverare. Riemergono con più facilità i ricordi della solidarietà, dello stare insieme delle famiglie, del buon cuore dei commercianti locali che donavano i loro prodotti, di quelli che ospitavano la gente del paese nelle loro stalle. Avverto il calore di quell’atmosfera, dove ogni contrasto si annienta e poi il freddo di quell’inverno, che nelle sue parole, è ancora più rigido di quello che probabilmente fu. Erano tempi diversi certo. Oggi apprendiamo molte più notizie, corredate di immagini e video istantanei che niente lasciano all’immaginazione. E ce ne serviamo, perché, talvolta, in questa società dormiente, un fotogramma scuote una coscienza meglio di un racconto. Lo abbiamo fatto con le morti sui barconi, con gli attentati terroristici e adesso con il terremoto di Amatrice. Diamo letture differenti, eppure nella selezione delle immagini ricadiamo in una volontà ambigua di spettacolarizzazione, che diventa una vera e propria operazione di marketing, assuefatti alla forma più che al contenuto. E’ un errore che abbiamo commesso, anche se alcuni di noi con ingenuità, con l’intento di arrivare ai lettori in maniera più profonda. Noto con tristezza, come la tradizione italiana si stia riducendo a un talk­ reality ­show, dove il phatos sovrasta la professionalità, con schiere di giornalisti che pongono domande al limite del tollerabile, anche per chi è fuori da certi drammi. Ma non è un problema di categoria, semmai la categoria determina nello specifico la tipologia di alcune involuzioni. Siamo circondati o addirittura siamo gli stereotipi che condanniamo. Dagli sms per donare 2 euro, con tanto di prova fotografica allegata sui social, alle rivalse razziste, travestite da patriottismo di quelli che “la menano” sugli immigrati negli alberghi. Tristezza a palate. Non solo per la violenza di certi pensieri che in rete vengono espressi, quanto per l’insensibilità di chi ha bisogno di spostare sempre l’asse della discussione, di chi si improvvisa costantemente esperto di politica nazionale e internazionale. Dal montepremi del superenalotto che non si può destinare ai terremotati, all’Italexit perché “l’Europa e l’America non soffrono o non aiutano abbastanza”. E così via, fino alla ricerca spasmodica del colpevole, che però è tale, per parte degli utenti guinness di presenze sul web, solo quando si apre la stagione della caccia, solo quando qualcosa è andato storto. E’ la società del dolore 2.0. Le case, le scuole, gli ospedali, tutto crolla. Si comincia ad avere paura, a chiedersi come hanno ricostruito. Lecito, giusto, comprensibile, purché non si lotti solo oggi o per qualche giorno, ma quotidianamente. La buona edilizia, del resto, è una battaglia di legalità e di civiltà. Noi in Irpinia lo sappiamo bene, ma non tutti hanno imparato la lezione. Per citare mia nonna: “C’è chi non aveva nulla e ora ha la villa col giardino e chi è ancora in attesa di una casa”. Ovviamente, per esaurire il cerchio dell’opinabilità, non mancano i commenti alla foto del premier Renzi con un vigile del fuoco, alle prese con le operazioni di salvataggio. “Attento non manterrà le promesse”, “E’ una scenetta costruita a regola d’arte”, “Non ha neanche un’unghia di Pertini”. Ecco, anche la scrivente, risaputamente antirenziana, ha difficoltà a comprendere l’accanimento a priori in questi giorni tremendi, che risucchia tutto e tutti nella spirale del tutto fa brodo. E’ evidente che non siamo in presenza dello spessore morale dell’ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Assodato ciò, lasciate le tastiere e riempite i seggi, perché la rivoluzione si fa col voto pulito. Le fondamenta morali, quanto quelle dei palazzi, reggeranno solo quando non si faranno più gare a ribasso. E anche se in Irpinia non mancano i recidivi, noi non arrendiamoci, avendo sempre a mente il monito pertiniano: “Il miglior modo di onorare i morti è pensare ai vivi”. Francesca Contino.

Facciamo parlare una testimone di un lontano disastro. Io la botta non la ricordo, scrive Cristina Cucciniello su "L’Espresso” il 25 agosto 2016. Avevo un anno, non ricordo il momento della scossa di terremoto, nel tardo pomeriggio del 23 novembre 1980. Era domenica, passate le sette; mio padre ricorda la tranquillità del dopo-campionato davanti alla tv: a quell'epoca, le partite di serie A venivano trasmesse in chiaro e - come ora - subito dopo partiva la tiritera dei commenti. Se torno indietro con la memoria, ho la vaga immagine di mia madre che mi appoggia sul sedile posteriore della nostra automobile. E poi Dario (un volontario, amico dei miei) che mi porta a cavalluccio sulle spalle, nei capannoni della Caritas vicino alla nostra ex-casa. Arrivarono da tutto il mondo tanti di quei giocattoli, per noi bambini sopravvissuti al terremoto, che io ancora ricordo il mio stupore per la quantità; allora i miei erano due ventenni non particolarmente benestanti, in una città rasa al suolo, che davano una mano a smistare gli aiuti umanitari: così tanti peluche, in un colpo solo, non li avevo mai visti. A un anno non capisci la tragedia e capita pure l'impossibile, l'assurda gioia di avere in regalo un peluche enorme. I cazzi amari arrivano dopo, molto dopo. Il dolore, la rabbia sorda, arriva dopo. Anche per gli adulti, intendiamoci: nei primi momenti c'è la disperazione, lo stupore, la disgrazia della perdita dei propri cari e dei propri averi. Ma la rabbia arriva a mente fredda, ti accompagna nel corso degli anni, non va mai via. Non gliela voglio augurare, ma sarà così anche per la popolazione di Amatrice ed è stato così anche per gli aquilani. Io, dopo 36 anni, sono ancora incazzata. Perché la tragedia che ci ha colpito non è consistita solo nei 90 secondi della scossa, ma negli anni successivi: lo scempio del mio territorio, la violenza del ricostruire interi paesi a valle, rispetto agli insediamenti originari, la colata di cemento che ha preso il posto dei materiali tradizionali, l'improvvida decisione di voler profittare della ricostruzione per imporci una industrializzazione forzata che non era e non è nelle corde di un'area collinare e montana, priva di adeguate vie di collegamento. Ne discutevo giorni fa con un amico per metà irpino: chi ha in corpo una goccia di sangue irpino, chi è lupo almeno in parte, davanti a quel cemento soffre. Avellino oggi è una città di bruttezza devastante. Non ha filo logico, non ha congruenza, non ha eleganza. Alterna costruzioni finto ottocentesche a obbrobri ricoperti da vetro e marmo. Strade pavimentate a lastroni lasciano il posto a piazze cementificate. E "buchi", palazzi ancora non ricostruiti, perfino nel corso principale. Ed ecomostri, volgari ville a colori sgargianti che punteggiano le colline intorno alla città - ne vedo una dalla casa dei miei defunti nonni, un pugno nell'occhio fucsia in mezzo al verde. Questa bruttezza mi perseguita, fin da bambina: a 14 anni sono entrata, per la prima volta, in una scuola di mattoni, dopo aver frequentato elementari e medie in orridi cubi di lastroni prefabbricati, che - peraltro - nascondevano fibre di vetroresina e tracce di amianto; a 11 anni sono entrata in una casa "vera", dopo 8 anni in una casetta di legno. A 18 ho lasciato una città per la quale - tuttora - non provo nulla, se non rabbia: solo qui a Roma posso alzare gli occhi e venire sommersa dalla bellezza. Roma, perfino nei suoi angoli più beceri e volgari, toglie il fiato. Roma ha una sua logica, ha una pianta circolare, che - come una cipolla - mostra l'espansione della città nei secoli, con stili architettonici diversi. Ma, ad Avellino, io non ho una storia da osservare, non ho un quartiere del quale posso dire di essere parte: a Pianodardine, subito accanto al Rione Ferrovia, dove mio padre è nato e dove faceva il bagno nel fiume, oggi si susseguono capannoni industriali in parte abbandonati e si muore per mesotelioma e leucemia (vi dice niente il nome Isochimica? Uno dei molti, preziosi regali che una classe politica scellerata ha voluto fare alla nostra comunità). Per provare un minimo di senso di appartenenza, devo andare sui monti, in mezzo ai nostri boschi. Solo nel verde posso vedere la bellezza dell'Irpinia. Perché racconto questa storia? Perché sia di monito, perché aiuti a comprendere che non sarà solo in queste ore che le comunità di abitanti delle zone colpite dal terremoto del 24 agosto 2016 avranno bisogno di supporto, solidarietà, attenzione. Vivranno anni in cui dovranno combattere per preservare quel poco di storia e legami col territorio che il sisma ha lasciato in piedi. Vivranno la tentazione di andar via (come ho fatto io). Vedranno l'arrivo di chi vorrà speculare sul dramma: da noi è accaduto, è storia. Dite di no: è quel che sento di dire a quelle persone. Dite di no quando qualcuno arriverà e vi proporrà "dai, giacché ci siamo costruiamo qui la mega-fabbrica e la mega-tangenziale". Dite di no, quando vi proporranno le new town. Dite di no, quando arriveranno sciacalli pronti ad usufruire degli aiuti statali alla ricostruzione per impiantare stabilimenti in mezzo al verde dell'Appennino: da noi è accaduto, fate che non accada anche alla vostra terra.  

LA LEZIONE DI L'AQUILA. L'avvertimento del terremotato di Libero: "Attenti, ecco chi sono i veri sciacalli", scrive Miska Ruggeri il 25 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Dalle 3.32, ora del terremoto dell'Aquila il 6 aprile 2009, alle 3.36, ora del sisma di Amatrice. In mezzo le 3.33, per il folklore cristiano «l'ora del diavolo», in contrapposizione alle tre del pomeriggio, quando, almeno così vuole una tradizione, Gesù, la seconda persona della Trinità, morì sulla croce (a 33 anni; e da qualche parte si legge anche che era venerdì 3 aprile del 33 d.C.). Coincidenze e superstizioni. Ma in molti nel cuore della scorsa notte, svegliati dalla terra che si muove - i lampadari che iniziano a dondolare, i mobili che si spostano, l'intonaco che cade - riversandosi in strada terrorizzati, ci hanno pensato. Nel capoluogo abruzzese i (pochi) residenti del centro storico e i turisti alloggiati in alberghi e bed and breakfast sono stati invitati a uscire all' aperto e le manifestazioni della Perdonanza celestiniana sono state annullate (si manterrà probabilmente solo l'apertura della Porta Santa a Collemaggio e il corteo della Bolla, eventi clou previsti per domenica prossima). Qui, del resto, nessuno ha dimenticato la tragedia di sette anni fa e a parecchi abitanti è sembrato di rivivere l'incubo. Tanto che ore dopo in giro, nonostante la giornata di sole e relativo caldo, non si vede gente a passeggio, chi gira a piedi lo fa con gli occhi sbarrati come uno zombie, i negozi sono vuoti e il traffico inesistente, anche in viale Croce Rossa tra Piazza d' Armi e lo stadio. Ora il pensiero va ai conterranei di Amatrice (dal 1265 al 1861 parte del giustizierato d' Abruzzo e della provincia Abruzzo Ultra II, con capoluogo L' Aquila; e fino al 1927 provincia dell'Aquila) e dei paesi vicini, ai numerosi morti e ai sopravvissuti. Che avranno davanti anni e anni molto duri. Perché l'emergenza sarà gestita ancora una volta benissimo (in Italia in questo siamo all' avanguardia nel mondo e sono già a disposizione degli sfollati 250 appartamenti antisismici del Progetto C.a.s.e.); Protezione civile, Vigili del Fuoco e volontari faranno miracoli con abnegazione e spirito di sacrificio, lavorando 24 ore su 24. Ma poi, inevitabilmente, arriveranno i mostri della burocrazia, gli sciacalli pronti a rovistare tra le macerie degli edifici (per rubare non solo effetti personali e preziosi, ma con il passare dei mesi persino le mattonelle dei bagni), le cricche, le false promesse dei politici («Non lasceremo solo nessuno», ha dichiarato a caldo il premier Renzi: figuriamoci, passata l' emozione del momento, l' agenda del governo sarà riempita da mille altre priorità), le lotte intestine per spartirsi i soldi, le imprese edili che vincono l' appalto e poi falliscono all' improvviso lasciando i lavori a metà, le infiltrazioni della camorra, le inchieste giudiziarie e i ricorsi al Tar, l' esodo della popolazione, il frantumarsi del tessuto sociale, le dipendenze da alcool e psicofarmaci, gli euro buttati via per i puntellamenti di palazzi comunque destinati a essere abbattuti... Tutte cose che, purtroppo, all' Aquila conosciamo bene. I miei genitori sono ancora fuori casa (l'apertura della pratica per il progetto di ricostruzione sarà esaminata, se tutto andrà secondo programma e non è scontato, nel 2017; poi passeranno altri due anni, di «tempi tecnici», per la messa in opera del primo chiodo), in regime di «autonoma sistemazione» dopo mesi passati in un albergo sulla costa adriatica. E io, pur vivendo a Milano, mi ricordo bene, avendole raccontate su questo giornale, le assurdità post sisma. Il Comune chiuso per il lungo ponte tra il 25 aprile e il 1° maggio 2009, l'ufficio Ricostruzione aperto due ore il martedì mattina e altre due ore il giovedì pomeriggio, le dimissioni mille volte annunciate e poi ritirate dal sindaco, la pantomima dei soldi stanziati o meno («Dateci fondi», «Ve li abbiamo già dati», «Non è vero»). Stavolta sarà diverso, diranno. Speriamo. Miska Ruggeri

TERREMOTO E BUFALE. Tutte le bufale sul terremoto. È l'ora delle panzane social. Dalla magnitudo truccata alla prevedibilità dei terremoti fino al solito carillon di fotografie fuori contesto e al jackpot del SuperEnalotto: il peggio sui sul web a poche ore dalla tragedia, scrive Simone Cosimi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". BUFALE E TRUFFE popolano puntuali i social network in queste ore di dolore e di emergenza per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Come sempre accade in occasione di fatti simili. D'altronde gli sciacalli non si muovono solo fra le macerie reali ma saltano con agilità anche fra quelle virtuali. Diffondendo notizie inventate di sana pianta, rilanciando bufale, proponendo soluzioni impraticabili, sfruttando l'onda emotiva per rinforzare tesi insostenibili. Sempre facendo leva su quei 268 morti e sulle centinaia di feriti. Alcune sono, se possibile in un contesto tanto delicato, di scarsa pericolosità, come il fraintendimento sull'hotel Mario di Cesenatico, che in molti hanno ritenuto fosse della cantante Fiorella Mannoia. La quale aveva solo copiato e incollato sul suo profilo l'appello (reale) di un albergatore, così come ha fatto in altri casi. Altre posseggono invece una carica esplosiva che vale la pena disinnescare senza indugio. Su tutte, quella del presunto taroccamento della magnitudo del sisma (da 6.2 a 6.0) per evitare che lo Stato debba accollarsi i costi della ricostruzione. La responsabilità sarebbe di una presunta legge voluta dall'allora governo presieduto da Mario Monti che fisserebbe la soglia del rimborso a 6.1 gradi. Nulla di più inventato. La bufala, circolata già in passato, si aggancia a un articolo del decreto-legge n.59 del 15 maggio 2012 poi convertito nella legge n.100 del 12 luglio 2012, quello di riordino della Protezione civile. Quell'articolo, che prevedeva l'assicurazione privata per i rischi derivanti da calamità naturali, fu soppresso al momento della conversione. Nessun limite risulta da nessuna parte del testo (approvato pochi giorni prima del terremoto che colpì l'Emilia-Romagna) e in ogni caso i risarcimenti vengono calcolati sulla base di un'altra scala, la Mercalli-Cancani-Sieberg, che valuta l'intensità del sisma in termini di danni prodotti sul territorio e non in base alla magnitudo della scala Richter. Sono nozioni che s'insegnano in terza elementare. Un'altra bufala è quella del jackpot del SuperEnalotto da destinare alla ricostruzione. L'hanno lanciata alcuni politici, contribuendo così alla confusione: su tutti Antonio Boccuzzi del Pd e Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia. Innescando anche numerose petizioni su Change.org e Firmiamo.it e il coinvolgimento di star come Fiorello. Peccato che la Sisal sia una società privata che gestisce il concorso su concessione statale. Al massimo si potrebbe lavorare sulla tassazione collegata (o spingere Sisal a una donazione indipendente) ma certo è impossibile sottrarre quel montepremi maturato nel corso dei mesi in virtù delle puntate dei giocatori, che scommettendo firmano di fatto un contratto con la società in base al quale questa si impegna a redistribuirlo in caso di vittoria. Di sciacallaggi digitali se ne stanno vedendo molti. Da personaggi di dubbia notorietà che non riescono a contare fino a 10 prima di scrivere ad altri che utilizzano la tragedia come pretesto da servizio fotografico fino, appunto, alle amarissime panzane. Come quella sui rifugiati e sul loro "pocket money" (che alcuni, come a Gioiosa ionica, hanno perfino deciso di donare): non si tratta certo dei 30 euro al giorno (spesso soglia massima), che servono alla totalità delle spese per la loro ospitalità, ma di 2,5. Affitto del locale, costi di gestione, pulizia, vitto: c'è tutto, in quella quota giornaliera da 30 euro versata dallo Stato in base a bandi locali dei comuni su indicazione ministeriale attingendo a fondi in buona parte europei a ciò dedicati e non destinabili altrove. In queste ore si sono poi registrate bufale sulle reti idriche danneggiate e sull'acqua non potabile, smentite dalle aziende che se ne occupano, su presunti rischi di tsunami elettromagnetici e sugli ormai tristemente noti terremoti artificiali, oltre che su un altro motivo ricorrente delle situazioni post-sisma: la loro prevedibilità e periodicità, visto che secondo molti stregoni "avverrebbero di notte e col caldo". Una tesi che non ha alcun fondamento scientifico né nel primo caso né nel secondo: basta sfogliare il drammatico catalogo dei terremoti degli ultimi mille anni per coglierne l'assoluta casualità. Nullo anche il collegamento con la meteorologia. Si possono al contrario elaborare mappe di rischio, studiare le serie storiche, determinare aree e zone in maggiore pericolo. Ma di modelli attendibili di previsione non c'è purtroppo alcuna possibilità di stilarne. E la comunità scientifica internazionale è spesso tornata sul punto. Quando ce ne sono - e in questo caso non ce ne sono state - neanche le avvisaglie, i cosiddetti "foreshock", fanno fede e non possono che essere collegati con nesso causale solo a posteriori. Intorno a queste grandi bufale sui social network se ne sviluppano a decine, che ruotano sostanzialmente intorno alla mistificazione di immagini di altri eventi, alla fantasiosa variazione sulla solidarietà giunta dal mondo (è il caso dei 10mila uomini della protezione civile russa in marcia verso il nostro Paese) o a varie tipologie di fondamentalismo. È per esempio accaduto con la foto di un bimbo estratto dalle macerie 22 ore dopo il sisma, in realtà presa dal terremoto di Katmandu del 25 aprile 2015. Oppure altre immagini, come quelle di una chiesa in Emilia risalente al sisma di quattro anni fa. Anche sui social network è fondamentale fare riferimento alle fonti tecniche, che (su Twitter INGVterremoti, CNgeologi, Palazzo_Chigi, CroceRossa) e alzare al massimo l'asticella su ciò che circola sulle nostre bacheche.

TERREMOTO E SOCCORSI. Terremoto, polemiche sui ritardi soccorsi. La Protezione civile: nessun ritardo, scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "Il Messaggero". «La macchina dei soccorsi si è attivata subito, pur aver scontato ritardi dovuti al fatto di dover arrivare in una zona di montagna, con la viabilità sconvolta: raggiungere ogni singola frazione è difficile ma il sistema si è orma completamente dispiegato». Lo ha detto a Uno Mattina Carlo Rosa, responsabile Protezione Civile del Lazio, respingendo le accuse di ritardi nei soccorsi. E' stato in particolare il sindaco di Accumoli ad accusare ritardi nei soccorsi, sottolineando che la prima squadra dei pompieri è arrivata alle 7.40, oltre tre ore dopo la prima scossa. I soccorritori hanno incontrato diverse difficoltà per raggiungere Accumuli, uno dei comuni in provincia di Rieti più colpiti dal terremoto che ha interessato la zona a cavallo tra Lazio, Marche e Abruzzo. Diverse strade sono infatti interessate dai crolli e questo non consentiva ai mezzi di soccorso di raggiungere il paese. Rabbia e sconcerto tra gli abitanti di Illica, una frazione a pochi chilometri da Accumoli (Rieti). «Vogliamo i militari, stiamo aspettando, noi paghiamo», ha denunciato Alessandra Cappellanti, residente ad Illica, «c'è una caserma ad Ascoli, una Rieti, una all'Aquila e non si è visto un militare, fate schifo!». La disperazione anche nelle parole di Domenico Bordo, un altro abitante del villaggio, «sono sotto le macerie, non ci è ancora andato nessuno, ci vogliono i mezzi». Secondo un primo bilancio nella frazione di Illica, ci sarebbero almeno altri 3 morti e 4 dispersi.

Scrive Mercoledì 24 Agosto 2016 "New Notizie". Dopo il terribile sisma che ha coinvolto il centro Italia ed ha distrutto diversi paesi in provincia di Rieti ed Ascoli Piceno, facendo finora più di venti vittime, arrivano le polemiche per i soccorsi. Secondo molte persone, che tenevano aggiornato il Paese in diretta sui social, i soccorsi sono arrivati troppo in ritardo rispetto alle prime chiamate. Il sindaco di Amatrice, Pirozzi, ha sostenuto che la macchina dei soccorsi è ritardata. “Ho chiamato i soccorsi alle 4 ma ancora non abbiamo visto nessuno, è scandaloso” ha sostenuto il primo cittadino. La giornalista Sabrina Fantauzzi ha invece denunciato ritardi nel soccorso ad Illica. Su Facebook la donna ha scritto: “Illica, il paese della nostra infanzia, non c’è più. La scossa terribile alle 3 e 40. I sopravvissuti tutti in un campo all’aperto. Eravamo circa 300 persone, tutti romani, in villeggiatura. Siamo rimasti in 30. Ancora nessuno è venuto a soccorrerci”. Sul suo post la donna scrive: “Il 113 non risponde, non risponde nessuno”. Poco dopo la Fantauzzi pubblica un altro post: “A Illica, vicino ad Accumoli (altro paese gravemente colpito dal terremoto, ndr), sono arrivate solo due ambulanze, ci sono 4 soccorritori, prendono feriti ma non stanno intervenendo sulle case distrutte con dentro gente morente”.

Di seguito si riporta l’opinione di Vittorio Feltri che non fa mancare le solite sue scivolature razziste e giustizialiste.

Vittorio Feltri il 28 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”: vi spiego perchè ci servirebbe un Bertolaso. Il più efficiente è stato il ladro napoletano. Bisognerebbe metterlo a lavorare a Palazzo Chigi, ramo interventi d' urgenza. Appena sentita la scossa, accertato qual era la località più disastrata, si è attrezzato e ha organizzato la sua operazione di pronto intervento. Da sotto il Vesuvio si è mosso verso Amatrice ed è arrivato prima delle «colonne mobili» della Protezione civile. E dire che partiva da più lontano. Il brigante partenopeo ha comprato da cittadino perbene il biglietto del treno per Roma, mica da prendersi una multa, poi dalla Capitale si è arrangiato con mezzi propri. Così nel primo pomeriggio è stato sventuratamente (per lui) bloccato mentre già se ne stava andando dalle rovine dove aveva scavato alacremente per riempire di bottino la valigia. Se lo avessero linciato, troveremmo articoli pensosi sul diritto a un giusto processo anche per gli sciacalli, non il mio però. Bisogna che qualcuno sia cattivo davanti ai morti. Non faccio fatica ad assumermi il compito. In questi giorni è tutto un sacrosanto commuoversi, e dappertutto in televisione e sui quotidiani sta prevalendo il politicamente corretto: guai a chi scompiglia con un sassolino il laghetto delle lacrime collettive. Ieri siamo stati criticati nel programma In Onda di La7 perché abbiamo detto che oggi prevale nelle autorità dello Stato, Boldrini in testa, il pensiero di come fare bella figura con i morti, visto che tra i sopravvissuti non sono affatto popolari, poiché con i loro elicotteri e le visite di cortesia hanno rotto non solo i gazebo. E qui, al diavolo se mi danno del renziano, concordo con Marco Travaglio nel non associare al gruppazzo unto dei propagandisti Matteo Renzi, il quale è corso a vedere, ha detto poche cose oneste e senza trombe al seguito. Ma adesso non gliene risparmieremo una. Faccia subito un esame di coscienza, alla sua e a quella dei suoi uomini, e non a quella di Caino Monti e Adamo Berlusconi. Gli facilitiamo il compito. Infatti anche se nessuno lo ha fatto notare, tranne il nostro Franco Bechis, la Protezione civile è rimasta imbambolata e ha sottovalutato l'entità della devastazione. Il testimone della lentezza e della disorganizzazione è proprio il ladro terrone. Il sindaco di Napoli, Gigi De Magistris, ha annunciato che si costituirà parte civile contro il concittadino reprobo che danneggia la reputazione della città partenopea. Dovrebbero denunciarlo per diffamazione la Protezione Civile e il ministro dell'Interno: perché con la sua rapidità ha dimostrato che in Italia si può essere svelti. Solo a rubare però. Mi rendo conto che butterà male per Libero. Questi sono i giorni della solidarietà. D' accordo. Ma per mettere mano al portafogli ne basta appunto una, con l'altra qualche pugno sul tavolo mi sento in obbligo di tirarlo. E sfido ad accusarmi di immoralità o cinismo. Fu Enrico Berlinguer, il campione della questione morale (la morale degli altri: infatti incassava ancora l'oro di Mosca), a rompere con la Democrazia cristiana e a far andare in crisi il governo Forlani dopo il sisma in Irpinia, dove si distinse tra i tuoni del terremoto la voce accusatoria di Sandro Pertini. Il Capo dello Stato fece a pezzi tutto lo Stato, salvo, con oculata scelta, se stesso, come fosse uno appena sceso dal cielo agitando le alucce scandalizzate. Il Corriere della Sera gli prestò un altoparlante formidabile, inveendo a ragione contro i ritardi dei soccorsi e la disorganizzazione. Oggi né sul Corriere né altrove si osa dire un beh, in compenso si odono belati complimentosi. Forse perché le comunicazioni per conto della Protezione civile le fa la spigliata Titti Postiglione, che ha il merito indiscutibile di essere sorella del vicedirettore del Corriere, il valente Venanzio? Il familismo conta sempre in Italia. C' è però soprattutto un'altra ragione, ritengo: e sta in quello che abbiamo denunciato prendendoci la ridicola accusa di razzismo. La macchina del soccorso urgente in Italia ha il tom tom a destinazione prioritaria se non unica: le coste della Libia, dove spediamo navi, elicotteri in quantità e con lodevole velocità. Non fa niente se questa presunta certezza spinge migliaia di persone a partire su gommoni sfasciati e predisposti al naufragio, ma è un fatto. Per cui i radar del Pronto soccorso, che è il ramo specifico della Protezione civile, sono tutti puntati verso i barconi e il mare e non verso le nostre terre ballerine. Lo ha denunciato dalla Sierra Leone il disgraziatissimo Guido Bertolaso, il quale ha notato da laggiù, dove si sta dedicando a un ospedale, la discrepanza di trattamento tra migranti africani e terremotati indigeni (nel senso di italiani). Il poveretto è stato subito zittito a male parole. Bertolaso, basta parlare con chi l'ha osservato al lavoro, è un fenomeno nell' organizzare i soccorsi degli altri, ma non di se stesso, per cui si è trovato impiccato per essere stato oggetto di alcuni delicati massaggi durante il giusto riposo del guerriero. Ora ce ne vorrebbe uno così. Anzi, avrebbe dovuto essercene uno così. Poi si faccia fare tutti i massaggi brasiliani e thailandesi che desidera, offro io. Invece... Invece hanno dormito, eccome, se lo hanno fatto. Sono rimasti in bambola. Non dico i volontari, quelli sono arrivati di corsa, e pure in troppi. Ma quelli pagati, i capi, avevano la testa altrove o erano in ferie. O sono più bravi a comunicare lestamente che a recarsi sul posto prontamente. Su youtube si può riascoltare la telefonata del sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, a Radio 24. C' è già stata la seconda scossa. Le prime luci dell'alba mostrano la sciagura immane. Le sue parole sono: «Guardi, servono unità speciali che tirino fuori le persone da sotto le macerie. La nostra emergenza è che dobbiamo fare in modo tirar fuori da sotto le macerie la gente». Lo ripete tre o quattro volte. Il giornalista gli chiede se ci sono dei morti. Pirozzi è stupitissimo della domanda. Com' è possibile che dopo tanto tempo non si abbia nessuna contezza della gravità dell'accaduto: «Il paese non c' è più». Ripete: «Bisogna cercare di far venire nelle nostre zone delle unità speciali. Anche elicotteri, abbiamo attrezzato i campi. Stiamo cercando di far venire i pompieri...». Finalmente il conduttore capisce: «Lanciamo l'appello». Risposta: «Grazie, grazie, grazie, Dio vi benedica». Stupito il cronista chiede: «Ha ricevuto telefonate da Palazzo Chigi?». Risposta: «No no no. Da Palazzo Chigi e dalla Protezione civile no. Dalla Regione, ho parlato con la prefettura di Rieti». Continua: «Spero che riusciate a darci una mano. Case non ce ne stanno più e la gente sta sotto». La prima colonna mobile della Protezione civile del Lazio si è mossa - secondo comunicato ufficiale - alle 9 e 40, quando lo sciacallo vesuviano era già per strada da tre ore e passa (la prima scossa è stata alla 3 e 36). Se fosse stato vicino alla battigia di Tripoli, in mezzora arrivava un incrociatore con elicotteri. Noi non diciamo prima gli italiani poi i profughi. Ma almeno par condicio. Ridateci Bertolaso. Vittorio Feltri

Terremoto, le due facce del volontariato. Il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno assistito a questi eventi non solo da spettatori, scrive Ilvo Diamanti il 29 agosto 2016 su “La Repubblica”. L'altra faccia del terremoto, della tragedia che ha devastato alcune zone dell'Italia centrale, è il ritorno del volontariato. Che ha partecipato, attivamente, ai soccorsi. E continuerà anche domani e dopo. Nelle aree colpite, in modo tanto violento e doloroso. Ma anche intorno. E per "intorno" intendo l'intero Paese. Perché il dramma delle popolazioni investite dal sisma ha mobilitato persone e comunità di tutta Italia. Che hanno "assistito" a questi eventi non solo da "spettatori". Di uno spettacolo doloroso riprodotto su tutti i media, ad ogni orario. Gli italiani, infatti, in gran parte, si sono sentiti coinvolti - e sconvolti - dal dramma di Accumoli, Amatrice, Pescara del Tronto. E degli altri paesi situati nell'epicentro del terremoto. Al crocevia fra Marche, Lazio e Umbria. Così, in breve, si è diffusa e allargata la partecipazione solidale dei cittadini di tutta Italia. Al punto da costringere i coordinatori dei soccorsi a frenare questa spinta generosa. Cercando, quantomeno, di regolare la qualità e la quantità dei contributi, in direzione delle domande "locali". Per evitare l'eccesso di "doni" e di "beni" - già eccedenti. Questa premessa permette di comprendere la complessità di quella realtà che, nel discorso quotidiano, è riassunta con un solo termine. Una sola parola. Volontariato. Pronunciato, spesso, senza precisazioni. Dato per scontato. Mentre si tratta di un fenomeno distinto e molteplice. Che, nel tempo, ha cambiato immagine e significato. Il volontariato. È un modello di azione, individuale e sociale, orientato allo svolgimento di "attività gratuite a beneficio di altri o della comunità". Per citare la prima indagine sul settore condotta dall'Istat (nel 2014). La quale stima, il numero di volontari, in Italia intorno a 6 milioni e mezzo di persone. Cioè, circa il 12,6% della popolazione. In parte (4 milioni) coinvolti in associazioni e in gruppi, gli altri (2 milioni e mezzo) impegnati in forme e sedi non organizzate. Ma, se spostiamo l'attenzione anche su coloro che operano in questa direzione anche in modo più occasionale, allora le misure si allargano sensibilmente. Il Rapporto 2015 su "Gli italiani e lo Stato", curato da Demos per Repubblica, infatti, rileva come, nell'ultimo anno, quasi 4 persone su 10 abbiano preso parte ad attività di volontariato sociale. Che si producono e si riproducono in base a necessità e ad emergenze. Locali e nazionali. Come in questa occasione. Il "volontariato", infatti, è utile. Alla società e allo Stato. Ai destinatari della sua azione e alle persone che lo praticano. Il volontariato "organizzato", d'altronde, ha progressivamente surrogato l'azione degli enti locali e dello Stato. Si è, quindi, istituzionalizzato. In molti casi, è divenuto "impresa". Sistema di imprese, che risponde a problemi ed emergenze. Di lunga durata oppure insorgenti. Il disagio giovanile, le povertà vecchie e nuove. Negli ultimi anni, in misura crescente: gli immigrati. E di recente: i rifugiati. Fra le conseguenze di questa tendenza c'è la "normalizzazione della volontà". Che rischia di venir piegata e di ripiegarsi in senso prevalentemente "utilitario". Divenendo una risorsa da spendere sul mercato del lavoro e dei servizi. Il "volontario", a sua volta, rischia di divenire un professionista. Una figura professionale. E, non a caso, sono molti i "volontari di professione", che operano in "imprese sociali". Il principale rischio di questa tendenza - sottolineato da tempo - richiama, anzitutto, la dipendenza del volontariato e, di conseguenza, dei volontari "di professione" da logiche prevalentemente istituzionali. E dunque politiche. Visto che questo volontariato e questi volontari dipendono, in misura determinante, da finanziamenti e contributi "pubblici". Locali, regionali e nazionali. Talora, com'è noto, sono perfino divenuti canali di auto-finanziamento. Per soggetti e interessi politici e impolitici, non sempre leciti e trasparenti. Bisogna, dunque, diffidare del "volontariato"? Sicuramente no. Perché il volontariato è, comunque, un fenomeno ampio e articolato. In parte organizzato, in parte no. Espresso e praticato, in molti casi, su base individuale. Un modo per tradurre concretamente la solidarietà. Un'altra parola poco definita e molto usata. Perfino abusata. Ma che riassume un fondamento della società. Perché senza "relazioni di reciprocità", dunque, di solidarietà, la società stessa non esiste. Così, il volontariato organizzato fornisce riferimento e continuità al volontariato individuale. Al sentimento diffuso di altruismo che anche in questa occasione si è manifestato. Il volontariato organizzato offre visibilità - e dunque sostegno - al grande popolo del "volontariato involontario". Che fa solidarietà fuori dalle organizzazioni, dalle associazioni. Dalle istituzioni e dalle imprese.

L’Italia… paese di furbi, scrive Armida Tondo il 7 febbraio 2012 su “Italnews”. Noi italiani non cambieremo mai, siamo pronti a sparare a zero su tutti, spesso senza conoscere i fatti! L’ultima polemica, nata a causa del maltempo di questi giorni, è nata sull’intervento dell’Esercito nelle zone più colpite. Ma andiamo ai fatti. Tutto nasce dai sindaci alle prese con l’emergenza neve, chiedono e ottengono l’aiuto dei militari dell’Esercito, fin qui nessun problema! Però i nostri amministratori scoprono che gli uomini dell’Esercito hanno un costo. E allora, qual è il problema? Se non vado errata, chi vuole mi potrà smentire, la protezione civile, le associazione di volontariato, hanno contributi statali e non solo, ogni singola sezione comunale ha contributi regionali, provinciali e comunali, o sbaglio? Tornando al caso scoppiato stamattina, insomma gli amministratori scoprono che la presenza degli uomini e mezzi dell’Esercito ha un costo, dieci spalatori, soldati con una pala in mano, costano al giorno 700 euro. A far scoppiare il caso è il Presidente della Provincia di Pesaro Urbino, Matteo Ricci, che ha dichiarato: “Non voglio fare polemiche, in un momento così drammatico le istituzioni devono collaborare e non polemizzare, ma non mi sembra giusto che lo Stato faccia pagare i Comuni in un frangente simile, quando raggiungere o non raggiungere un’abitazione, un borgo sepolto dalla neve è spesso questione di vita o di morte per anziani, malati, bambini. I Comuni e le Province sono già strozzati dal Patto di stabilità, stanno spendendo milioni di euro, che non hanno, per mettere in campo spazzaneve, pale meccaniche, servizi di prima necessità, e devono pagarsi pure l’Esercito…”. E chi dovrebbe pagare? Oppure i soldati non hanno un costo? Vorrei fare alcune riflessioni. Premesso che ritengo giusto che chi lavora venga pagato, analizziamo la situazione. Sono certa che i Vigili del Fuoco, il personale dell’Enel, il personale della Protezione Civile, chiunque sia impegnato in questi giorni nei luoghi più colpiti dal maltempo venga retribuito. Allora mi chiedo: perché i soldati no? Forse sarebbe opportuno spiegare ai nostri lettori che ogni movimento della protezione civile, così come altre associazioni di volontariato, usufruisce di un contributo o “rimborso spese” che, senza entrare nel merito di come viene calcolato, in ogni caso è comunque denaro! Cari presidenti di regioni e sindaci perché non dite quanto vi costa, anzi, scusate, quanto ci costa a noi contribuenti, avere un “volontario” della protezione civile davanti alle scuole ogni mattina? O quanto ci costano i loro mezzi di trasporto? E vogliamo parlare di volontari che pur avendo un posto di lavoro, svolgono il volontariato con un contributo mensile che spesso si avvicina ad uno stipendio… allora prima di sparare sul costo dell’Esercito, andiamo a vedere i costi dei volontari! Ancora una volta riaffiora la mentalità retrograda e faziosa di qualche decennio fa, quando si pensava che il soldato fosse a costo “zero”, tanto dalla mattina alla sera bighellona in caserma. Oggi le Forze Armate sono fatte di volontari professionisti, basta leggere le cronache relative alle missioni fuori area, e, pertanto, come per tutti i professionisti, la loro opera ha un costo. I mezzi non si muovono senza gasolio, gli equipaggiamenti hanno un costo e si usurano, i soldati mangiano come tutti gli esseri umani…e allora, perché è scandaloso pagarli? Forse il dott.  Ricci intendeva che a pagarli fosse lo Stato. Ma dov’è la differenza? O forse per Ricci esiste ancora “pantalone”? Armida Tondo

MA I VOLONTARI A PAGAMENTO SONO VOLONTARI? Si chiede Michela Scavo il 26 luglio 2012. Il volontariato è un’attività libera e gratuita svolta per ragioni private e personali, che possono essere di solidarietà, di assistenza sociale e sanitaria, di giustizia sociale, di altruismo o di qualsiasi altra natura. Può essere rivolto a persone in difficoltà, alla tutela della natura e degli animali, alla conservazione del patrimonio artistico e culturale. Nasce dalla spontanea volontà dei cittadini di fronte a problemi non risolti, o non affrontati, o mal gestiti dallo Stato e dal mercato. Per questo motivo il volontariato si inserisce nel “terzo settore” insieme ad altre organizzazioni che non rispondono alle logiche del profitto o del diritto pubblico. Il volontariato può essere prestato individualmente in modo più o meno episodico, o all’interno di una organizzazione strutturata che può garantire la formazione dei volontari, il loro coordinamento e la continuità dei servizi. Questa è la definizione di Volontariato che possiamo trovare su Wikipedia. A Palazzago ultimamente il tema “Volontari” è molto in voga. Pare ci siano volontari per ogni cosa: per il volantinaggio, per l’assistenza allo spazio compiti, quelli delle varie associazioni, quelli tanto ricercati per ripulire scuole e via dicendo. Ma ci sono volontari e volontari. Ci sono quelli veri e ci sono quelli con il rimborso spese da 5,16 euro all’ora. Premesso che poco mi importa se dei cittadini vengono pagati miseramente per svolgere attività sul territorio, ma perché continuiamo a chiamarli VOLONTARI? Non sarebbe più giusto definirli collaboratori sottopagati? Già, non si può perché non sono sotto pagati, percepiscono un rimborso spese. Allora la mia domanda è, se vengono rimborsate delle spese dove possiamo trovare la documentazione, per ogni singolo presunto volontario, che certifica queste spese? E se di rimborso spese si tratta per quale motivo pare che ci siano dei volontari a rimborso che attendono da tempo i soldi che gli spettano? Poi non stupiamoci se ci sono associazioni di volontari da 1800 euro l’anno e associazioni da 26mila euro l’anno. I volontari vanno pure spesati giusto? E non mi si venga a dire che senza il rimborso nessuno farebbe il volontario a titolo gratuito, lo dimostrano tante associazioni sul territorio e alcuni gruppi di recente formazione che il volontariato vero a Palazzago può esistere tranquillamente. A questo punto sono proprio curiosa di capire perché nessuno dei nostri amministratori, di fronte allo sdegno di alcuni per i contributi alla Pro Loco non abbia menzionato la questione. Forse perché nonostante la vagonata di soldi predisposta anche quest’anno sono in arretrato con i rimborsi spese? O forse perché se non si decidono a tirare fuori le quattro palanche che devono rischiano di trovarsi senza volontari sugli scuolabus a settembre? Come è possibile che nella convenzione con la Pro Loco non si accenni alla retribuzione di tali finti volontari? Forse perché in realtà non si tratta di volontari ma di cittadini sottopagati praticamente al servizio del comune, che camuffa dei compensi con il rimborso spese? Non sono proprio sicura che sia una cosa fatta a regola d’arte ma c’è una commissione che si occupa delle associazioni, qualcuno sicuramente saprà darci una risposta. Michela Scavo

Fai il volontario e chiedi un rimborso? Prima paga la tassa. I soccorritori che chiedono il rimborso della giornata di lavoro devono allegare due marche da bollo da 16 euro, scrive Franco Grilli, Domenica 06/07/2014, su "Il Giornale". Ci può essere una pretesa più assurda di quella di far pagare una tassa a chi presta il proprio tempo per opere di volontariato? Temiamo proprio di no, eppure, a quanto pare, si è verificato anche questo. Con un'interrogazione urgente il parlamentare bellunese Roger De Menech (Pd) ha chiesto al governo di fare piena luce su quanto gli è stato segnalato dal responsabile del Soccorso alpino, Fabio Bistrot. "Voglio proprio sapere - dice il parlamentare - chi è il geniale burocrate che pretende 32 euro da ciascun volontario ogni volta che fa un intervento di soccorso e, di conseguenza, chiede il rimborso della giornata di lavoro persa. Di certo non ha mai fatto il volontario". L'importo, a quanto si apprende, corrisponde a due marche da bollo da 16 euro ciascuna da apporre a ciascuna richiesta di rimborso presentata dai volontari. "E’ incredibile che qualcuno voglia spremere soldi dai volontari", afferma sdegnato De Menech. "Se a farlo è addirittura lo Stato, aggredisce la dignità dei volontari e mina il principio di sussidiarietà. Questo increscioso episodio conferma l’urgenza non solo di riformare la pubblica amministrazione ma anche di quanto sia necessario e indispensabile il ricambio di personale all’interno della burocrazia italiana. L’attuale burocrazia è ostile ai cittadini e ai contribuenti, e interpreta il proprio ruolo non al servizio degli italiani ma come potere da usare contro i nostri concittadini". Nell’interrogazione che ha presentato De Menech chiede ai ministeri interessati cosa intendano fare per "superare un’interpretazione giuridica che avvilisce la dignità stessa dei soccorritori, considerato peraltro il ruolo fondamentale da essi svolto nella stagione estiva, sia sull’arco alpino che su quello appenninico, volto a garantire la presenza dello Stato in tali ambienti e a fornire quel supporto di sicurezza, prevenzione e soccorso alle migliaia di turisti, italiani e stranieri, che decidono di trascorre le proprie vacanze in tali luoghi". Con il rischio evidente che, l'assurda tassa, possa scoraggiare i generosi volontari dal continuare a prestare la loro opera. I volontari della protezione civile, se nella vita sono lavoratori dipendenti, in caso di soccorso durante il terremoto o altre calamità naturali, hanno diritto alla retribuzione. Sono pagati dal datore di lavoro con il normale stipendio e hanno diritto la conservazione del posto di lavoro. L’azienda a sua volta può chiedere il rimborso all’Inps. Ma è necessario effettuare alcuni adempimenti. Ai volontari lavoratori autonomi spetta invece una indennità. Vediamo tutte le informazioni.

Diritti dei lavoratori, scrive Antonio Barbato il 30 agosto 2016. Gli eventi sismici che hanno colpito l’Italia negli ultimi anni hanno evidenziato il ruolo chiave in Italia dei Volontari della protezione civile, dei Vigili del Fuoco e degli appartenenti alle forze armate e di polizia. Le attività di protezione civile sono fondamentali in Italia, soprattutto per far fronte alle emergenze. L’attività dei volontari è disciplinata dalla legge italiana soprattutto in termini di diritti dei lavoratori. Il volontario che nella vita è lavoratore dipendente del settore privato o pubblico ha diritto alla conservazione del posto di lavoro e allo stipendio. Il volontario che nella vita è lavoratore autonomo ha diritto ad un indennità. Quando coloro che svolgono attività di volontariato sono impegnati in operazioni di soccorso per calamità naturali o catastrofi o per attività di addestramento e simulazione, pianificate dall'Agenzia Nazionale per la Protezione civile o dalle altre strutture istituzionali, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, sia pubblico che privato e hanno diritto inoltre al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro e alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dalla legge. Quindi alla domanda “i volontari di protezione civile sono pagati?” la risposta è che il volontariato della protezione civile è un servizio gratuito reso dal volontario ma spetta loro lo stipendio, se sono lavoratori dipendenti. E spetta una indennità se sono lavoratori autonomi. Vediamo perché. Il legislatore ha provveduto a tutelare i volontari lavoratori che, in caso di impiego nelle attività di Protezione civile a seguito della dichiarazione dell’esistenza di eccezionale calamità o avversità atmosferica, catastrofi o altri eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri “straordinari" (dall'attivazione dei primi soccorsi alla popolazione e degli interventi urgenti necessari a fronteggiare l'emergenza, fino all'attuazione degli interventi necessari per favorire il ritorno alle normali condizioni di vita nelle aree colpite da eventi calamitosi). In tali casi, nonché a seguito dell’impiego in attività di pianificazione, soccorso, simulazione, emergenza e formazione teorico-pratica, anche svolte all’estero, hanno diritto al mantenimento del posto di lavoro, al trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato, nonché alla copertura assicurativa.

Diritti dei volontari di protezione civile. I volontari che partecipano all’opera di soccorso (effettivamente prestato) hanno diritto:

al mantenimento del posto di lavoro pubblico o privato;

al mantenimento del trattamento economico e previdenziale da parte del datore di lavoro pubblico o privato;

alla copertura assicurativa secondo le modalità previste dall’articolo della legge 11 agosto 1991, n. 266, e successivi decreti ministeriali di attuazione.

Ai sensi dell’art. 9 del D.P.R. 8 febbraio 2001, n. 194, l’obbligo del datore di lavoro è quello di permettere l'impiego del volontario per un periodo non superiore a 30 giorni consecutivi e fino a 90 giorni nell'anno. Per le attività di simulazione i limiti si riducono a 10 giorni consecutivi e 30 nell'anno, e per emergenza nazionale i termini sono rispettivamente di 60 e 180 giorni.

Quindi si viene dichiarato lo stato di emergenza nazionale, i limiti possono essere elevati fino a 60 giorni continuativi (e fino a 180 giorni nell’anno). I limiti restano tali per tutta la durata dell’emergenza nazionale e per i casi di effettiva necessità.

Il diritto allo stipendio. Nei periodi di assenza del Volontario del servizio civile, il datore di lavoro deve mantenere il posto di lavoro e la copertura assicurativa (Inail) e gli deve corrispondere il normale trattamento economico e previdenziale (quindi stipendio e versamento dei relativi contributi all’Inps). Nello specifico per ogni giornata di assenza tutelata e retribuita spetta la retribuzione globale di fatto giornaliera, ossia tutti quegli elementi della retribuzione che vengono corrisposti normalmente e in forma continuativa (si pensi allo stipendio base, al superminimo, all’indennità di contingenza, agli scatti di anzianità, ecc.). Per quanto riguarda la tassazione in busta paga, non cambia nulla, nel senso che il dipendente volontario della protezione civile riceve il normale stipendio assoggettato alla ritenute fiscali, quindi all’Irpef al netto delle detrazioni fiscali per lavoro dipendente, familiari a carico, ecc.

Il datore di lavoro ha diritto al rimborso Inps. Il datore di lavoro può poi richiedere rimborso delle somme versate al lavoratore impegnato come volontario. La richiesta va inoltrata all’Inps. I contributi previdenziali versati durante l’assenza del lavoratore non sono però rimborsabili. Al fondo per la retribuzione civile spetta quindi l'onere finale della retribuzione erogata dal datore di lavoro al Volontario di Protezione civile, mentre al datore di lavoro rimane il compito di avanzare richiesta di rimborso all'Autorità della Protezione Civile competente nei due anni successivi al termine dell'intervento, dell'esercitazione o dell'attività di formazione. Nella richiesta vanno indicate in maniera analitica la qualifica professionale del dipendente, la retribuzione oraria o giornaliera spettante, le giornate di assenza dal lavoro, l'evento cui si riferisce il rimborso e le modalità di accreditamento del medesimo.

La documentazione da presentare al datore di lavoro. Prima di tutto il lavoratore che è impegnato come Volontario della Protezione civile ha un obbligo comunicativo, che è quello di informare quanto prima il datore di lavoro della sua partecipazione alle operazioni di soccorso. Al termine delle operazioni stesse, il lavoratore, compatibilmente con le esigenze del soccorso, deve consegnare la dichiarazione del sindaco (o di un suo delegato) dalla quale risulti l'impiego come volontario nelle operazioni di soccorso. La distribuzione dell’orario di lavoro dei volontari di protezione civile. I lavoratori appartenenti ad organizzazione di volontariato hanno diritto, compatibilmente con le esigenze organizzative aziendali, di fruire di un regime di orario di lavoro concordato nell’ambito di una distribuzione flessibile degli orari (art. 17 L. 266/91). Tale disciplina non si applica a che svolge attività di volontariato in modo occasionale, ma solo a chi l’esercita nell’ambito delle associazioni di volontariato. Le predette disposizioni si applicano anche nel caso in cui le attività interessate si svolgono all’estero, purché preventivamente autorizzate dall’Agenzia. Detto regime è esteso anche agli appartenenti alla Croce Rossa Italiana, ai volontari che svolgono attività di assistenza sociale ed igienico / sanitaria, ai volontari lavoratori autonomi e ai volontari singoli iscritti nei “Ruolini” delle Prefetture, qualora espressamente impiegati in occasione di calamità naturali.

Quali sono le associazioni di volontariato. Sono considerate associazioni di volontariato di protezione civile quelle associazioni che siano costituite liberalmente e prevalentemente da volontari, riconosciute e non, e che non abbiano fini di lucro anche indiretto e che svolgono o promuovono attività di previsione e soccorso in vista od in occasione di calamità naturali, catastrofi o altri eventi similari, nonché di formazione nella suddetta materia. Presso l’Agenzia per la protezione civile è istituto l’elenco nazionale dell’Agenzia di protezione civile. Le organizzazioni di volontariato, iscritte nei registri regionali previsti dall’articolo 6 della legge 11 agosto 1991, n. 266, nonché in elenchi o albi di protezione civile previsti specificamente a livello regionale, possono chiedere, per il tramite della regione o provincia autonoma presso la quale sono registrate, l’iscrizione in questo registro al fine di una più ampia partecipazione alle attività di protezione civile.

Volontari di protezione civile lavoratori autonomi: spetta un rimborso giornaliero fino 103,29 euro. Ai volontari impiegati in attività di protezione civile che siano lavoratori autonomi e che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero fino a 103,29 euro al giorno. A chi esercita attività di volontariato all'interno di un'associazione ed in modo non occasionale, il datore di lavoro deve, compatibilmente con le esigenze aziendali, dare diritto ad un orario di lavoro flessibile. Più precisamente, ai volontari lavoratori autonomi appartenenti alle organizzazioni di volontariato e legittimamente impiegati in attività di protezione civile, che ne fanno richiesta, è corrisposto il rimborso per il mancato guadagno giornaliero calcolato sulla base della dichiarazione dei redditi (modello UNICO) presentata l'anno precedente a quello in cui è stata prestata l'opera di volontariato, nel limite di Euro 103,29 giornalieri lordi. La misura effettiva dell’indennità, volta a compensare il mancato reddito, è stabilita ogni anno con D.M. lavoro: dato che, per il 2016, la retribuzione media mensile spettante ai lavoratori dipendenti del settore industria è pari a euro 2.127,39, su questa base va calcolata l'indennità spettante per il mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro. Tale importo deve essere diviso per 22 o per 26, a seconda che la specifica attività di lavoro autonomo sia svolta rispettivamente in 5 o 6 giorni per settimana (Ministero del lavoro, decreto 9 marzo 2016). Lavoratori autonomi: adempimenti per la richiesta del rimborso. I volontari che siano lavoratori autonomi, al fine di percepire l'indennità prevista dal comma 3 dell'art. 1 della legge 18 febbraio 1992, n. 162, per il periodo di astensione dal lavoro, debbono farne richiesta all'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione competente per territorio. La domanda deve essere inoltrata, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello in cui il volontario ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione. Alla domanda, che deve contenere le generalità del volontario che ha effettuato l'operazione di soccorso o l'esercitazione, deve essere allegata l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata, nonché la personale dichiarazione dell'interessato di corrispondente astensione dal lavoro, resa ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.4. L'ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione, una volta determinato l'ammontare dell'indennità spettante al volontario, sulla base dell'importo fissato annualmente con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale procede quindi al pagamento dell'indennità all'avente diritto. Ai fini della determinazione dell'indennità compensativa del mancato reddito relativo ai giorni in cui i lavoratori autonomi si sono astenuti dal lavoro per l'espletamento delle attività di soccorso o di esercitazione, non si tiene conto dei giorni festivi in cui le medesime hanno avuto luogo, fatta eccezione per quelle categorie di lavoratori autonomi la cui attività lavorativa si esplica anche o prevalentemente nei giorni festivi.

Rimborso Inps: adempimenti del datore di lavoro. Come abbiamo detto, il datore di lavoro è obbligato ad erogare al lavoratore impegnato in operazioni di soccorso come Volontario della Protezione Civile la normale retribuzione, salvo poi poter far richiesta di rimborso. A tal fine va presentata apposita domanda all’Inps, a pena di decadenza, entro la fine del mese successivo a quello dell'operazione. Quante giornate e ore sono rimborsabili? Sono rimborsabili le giornate e le ore di effettiva astensione dal lavoro del volontario di Protezione civile. Sono da escludersi le ore di lavoro prestate nella giornata prima dell'astensione o comunque effettuate dopo l'operazione di soccorso, nonché le giornate, di riposo settimanale, festivo, di ferie, del sabato in caso di "settimana corta", eccetera. L’Inps rimborsa solo per i lavoratori dipendenti iscritti presso le proprie gestioni. La domanda va presentata online e deve contenere:

le generalità del lavoratore;

l'importo della retribuzione corrisposta;

l'attestazione del sindaco, o dei sindaci dei Comuni territorialmente competenti, o di loro delegati, comprovante l'avvenuto impiego nelle predette attività e i relativi tempi di durata;

una dichiarazione del datore di lavoro indicante la corrispondente astensione dal lavoro;

la dichiarazione del lavoratore attestante l'appartenenza al CNSAS.

Come diventare volontario della protezione civile. In molti vorrebbero diventare Volontario della protezione civile: vediamo quali sono i requisiti richiesti. Molti si chiedono come entrare nella protezione civile. Riportiamo le disposizioni della Protezione civile. Per poter svolgere attività di protezione civile come volontario a supporto delle istituzioni che coordinano gli interventi, è necessario essere iscritti ad una delle organizzazioni di volontariato di protezione civile inserite negli elenchi Territoriali o nell'elenco Centrale. Gli elenchi territoriali sono consultabili presso la Regione o la Provincia autonoma nella quale si intende svolgere – in prevalenza – l'attività di protezione civile e su questo sito, nella sezione volontariato. L’elenco Centrale, composto da poche organizzazioni nazionali di coordinamento, è consultabile sempre su questo sito nella pagina elenco centrale delle Organizzazioni di volontariato. Chi desidera diventare volontario di protezione civile può, al momento dell'iscrizione presso un'organizzazione di volontariato di protezione civile, valutare una serie di elementi che caratterizzeranno la propria attività nel settore scelto:

ambito territoriale di evento (nazionale, regionale, comunale ecc.);

ambito dimensionale dell'evento (tipo a), tipo b), tipo c) in base all'articolo 2 della legge n. 225 del 1992);

eventuale specializzazione operativa dell'organizzazione (sub, cinofili, aib);

livello di partecipazione con le attività istituzionali;

disponibilità richiesta;

vicinanza della sede alla propria abitazione.

I regolamenti delle varie associazioni possono prevedere adempimenti o limitazioni particolari (es. visita medica per lo svolgimento di mansioni particolari o requisito della maggiore età ai fini dell'iscrizione). Per un approfondimento sul ruolo del volontariato all'interno del Servizio Nazionale di protezione civile è possibile visitare la sezione volontariato. Un'altra possibilità di partecipazione è offerta (solo per alcune fasce di età) dal servizio civile; per avere informazioni su quest'ultimo, occorre consultare l'indirizzo serviziocivile.gov.it.

E per quanto riguarda i volontari dei vigili del fuoco? Per quanto riguarda l'iscrizione nel ruolo dei Vigili del Fuoco Volontari, allo stato attuale le iscrizioni del personale volontario sono sospese, fino al 2014 ho sentito dire, ma di questo non ho conferma. Quello che so di preciso è che la Legge n. 183 del 2011 (che sarebbe poi la Legge di stabilità relativa al 2012) ha disposto, tra le altre cose, l'applicazione di un tetto massimo di nuovi reclutamenti volontari. Di conseguenza tutti i Comandi che hanno già in archivio un numero di domande superiore a quello previsto dalla normativa, non possono nè istruire nuove pratiche, nè accettare ulteriori domande di iscrizione. Quindi, non ti resta che andare al tuo Comando Provinciale e chiedere se puoi almeno presentare la domanda. Per quanto riguarda le retribuzioni, bisogna intanto fare una distinzione fra Vigile Volontario vero e proprio e Vigile Volontario Discontinuo, che sono due figure diverse. Il vigile volontario vero e proprio, quello che fa servizio nei distaccamenti di personale volontario per intenderci, non percepisce uno stipendio ma prende comunque qualcosa, anche se poco. Praticamente, i vigili del fuoco volontari ricevono un compenso in base alle ore di intervento realmente prestate, nonchè per ogni ora di addestramento obbligatorio, che si effettua presso un Comando o comunque una sede con Vigili Permanenti. Quindi, alla fine prendi un tot ad intervento: se fai 12 ore di servizio ma in quelle 12 ore non succede niente, non guadagni niente. Se fai 4 ore di intervento, prendi per 4 volte il compenso orario, che si aggira intorno ai 6 euro l'ora (o almeno era così fino all'anno scorso, comunque il compenso non arriva a 7 euro l'ora). Poi c'è il Vigile Discontinuo: se sei iscritto nei ruoli dei Vigili Volontari come Discontinuo, quando c'è necessità vieni chiamato in servizio per un periodo che può essere di 20 giorni ma anche di 40 e anche, in certi casi, 100, se c'è necessità e se hai la disponibilità per farlo... Comunque sia, i richiami sono sempre di 20 giorni, quindi anche se fai 60 giorni di lavoro sono tre diversi contratti a termine. Come Vigile Discontinuo prendi uno stipendio vero e proprio, per 20 giorni prendi più o meno 1100 €, questo perchè prendi lo stipendio calcolato sui giorni lavorati, ai quali si aggiungono il rateo di tredicesima e la quota t.f.r (essendo un contratto a termine). Inoltre ti pagano eventuali straordinari e reperibilità, che sei libero di dare o non dare. 

E poi chiamali, se vuoi, volontari (con contratto pubblico): I volontari della Croce Rossa.

Niente post terremoto per i soccorritori: pagati per non fare nulla, rimangono a casa. Con le scosse del 24 agosto pensavano di essere più utili in centro Italia che in Lombardia. Ma non sono partiti. Sono gli effetti della privatizzazione della Cri: esuberi e stipendi tagliati per alcuni addetti, mentre altri non escono più in ambulanza. E per coprire i buchi di bilancio si cerca di vendere il patrimonio immobiliare, scrive Michele Sasso e Monica Soldano il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Dalla Lombardia alle zone colpite dal terremoto. Per non stare con le mani in mano, per usare sul campo la propria esperienza di soccorritore. Nei giorni del post-sisma che ha devastato Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto per gli uomini della Croce rossa del comitato lombardo non c’è però nessuna missione: «Non c’è bisogno di voi» è la risposta arrivata dal presidente nazionale Francesco Rocca. I dipendenti che si sono fatti avanti sono tra i 200 lavoratori che dopo la privatizzazione del 2014 hanno deciso di mantenere il contratto pubblico. Da anni timbrano ma fanno poco. Le dieci ambulanze non escono dai garage. Sono autisti e barellieri ma non fanno più la loro professione. In quanto dipendenti pubblici, non possono fare servizi in convenzione (come, ad esempio, le ambulanze per il 118 o il trasporto di malati fuori dall’emergenza) perché esclusi dalla legge. E poi nel 2015 un altro passo verso il paradosso. «Da inizio anno non lavoriamo più sulle ambulanze e giriamo a piedi per Milano svolgendo un servizio di pochissima utilità, equipaggiati con uno zainetto pieno di garze e cerotti», ha raccontato al Fatto quotidiano Mirco Jurinovic, soccorritore e dirigente sindacale di Usb. Costano 4 milioni di euro all’anno ma non vengono utilizzati. È il risvolto kafkiano della privatizzazione. Ci sono voluti due anni per provare finalmente a trasformarsi in una struttura efficiente, indossando il vestito nuovo dell’associazione privata. Gli effetti non sono quelli sperati. Ecco come buttare al vento la passione di 150mila volontari, quasi tremila dipendenti tra personale civile, infermieri e dipendenti del Corpo, e impoverire il servizio d’emergenza in molte Regioni. Il piano di riorganizzazione pensato dall’ex premier Monti ha provocato evidenti cortocircuiti: esuberi e stipendi tagliati per una fetta di addetti, mentre altri vengono pagati per non fare nulla. Oltre al tentativo di svendita dell’immenso patrimonio di quasi 1.500 palazzi e terreni, il frutto di 150 anni di donazioni di chi pensava di fare del bene. Nella fase di transizione è intervenuto con due proroghe anche il ministro della Salute Beatrice Lorenzin che ha messo sul piatto della finanziaria oltre 300 milioni di euro. Fondi necessari a pagare i debiti e tenere in piedi l’esercito di barellieri e operatori del primo soccorso. Emilia De Biasi, presidente Pd della commissione Sanità al Senato è tranchant: «La Croce rossa italiana è ancora un carrozzone con un patrimonio di sedi e competenze svilito. La riforma è un’urgenza: ci vuole trasparenza per tutta la gestione, e invece il ministero della Salute continua a prendere tempo». Nel 2012 si decide di dire basta alla crocerossina di Stato. Privatizzando le organizzazioni provinciali, quindi sciogliendo gli apparati centrali che non hanno mai conosciuto la spending review e «bruciato» un miliardo di euro negli ultimi dieci anni. E qui viene a galla il primo problema, la ricollocazione del personale: ancora adesso ci sono circa 2mila persone da piazzare. Il decreto firmato nel settembre 2015 dal ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia prevedeva esclusivamente il traghettamento verso i ministeri, o istituti come Inps o Inail. Un non sense riparato con la finanziaria, che allarga la possibilità anche al servizio sanitario nazionale, per gran parte degli interessati una collocazione naturale. «Temiamo che il ministero non riesca a gestire il ricollocamento - denuncia Nicoletta Grieco della Cgil - finora c’è stata una gestione scomposta e nessun coordinamento con le Regioni ed Asl locali. Mancano otto mesi alla fine dell’anno e il rischio è la mobilità, seguito dal baratro del licenziamento». In tanti hanno preferito non abbandonare l’uniforme e sono passati ai nuovi comitati. Con un salto all’indietro: lo status di associazione privata prevede contratti targati Anpas (Associazione nazionale pubbliche assistenze) con stipendi mensili decisamente inferiori, da 1.600 a 1.100 euro. Epicentro della cura dimagrante il Lazio, dove sono concentrati oltre 1200 dipendenti, su un totale nazionale di 2788 addetti. Disorganizzazione e casi-limite come quello di D.M., operatrice precaria che per 25 anni ha lavorato al Centro di educazione motoria (Cem) di Roma. Nel 2011 decide di fare causa per ottenere il tanto agognato contratto a tempo indeterminato e il Tribunale dopo due anni le dà ragione. «Con il nuovo corso mi è stato imposto di non mettere più piede al Cem. Spostata al comitato metropolitano, ho seguito l’emergenza freddo: un campo di tende per dare assistenza ai senzatetto. Il piano è durato dal 15 gennaio al 21 marzo e da allora ogni giorno timbro per non fare nulla». Mentre al centro per la cura di pazienti con gravi disabilità diventato di eccellenza grazie ai quattrini del leggendario canzoniere Mario Riva il personale è stato dimezzato e l’assistenza ridotta ai minimi termini. La privatizzazione avrebbe dovuto portare efficienza e risanamento economico. Nel primo anno - il 2014 - il «disavanzo di cassa è perdurante, posizione debitoria è preoccupante e pesante ricorso all’anticipazione bancaria», ha sottolineato la Corte dei conti. Così per coprire i buchi di bilancio la soluzione è drastica, vendere i gioielli di famiglia: 1.045 fabbricati e 413 terreni. Un’impresa non facile. L’ultimo tentativo risale al maggio 2014, quando 19 lotti tra palazzi e appartamenti vengono messi all’asta: da La Spezia a Schio, fino a Casale Monferrato e Pavia. Finisce all’incanto anche la storica sede sul lungomare di Jesolo, Venezia, e presto la stessa sorte toccherà al palazzetto ottocentesco del quartier generale di Roma. In Laguna il prezzo precipita: da 42 milioni è sceso a 34. Sull’eccessivo ribasso la deputata grillina Arianna Spessotto ha presentato un’interrogazione parlamentare. La risposta del ministero della Salute è arrivata il 17 marzo scorso. Per il sottosegretario Vincenzo De Vito “nessuna svendita”: il ribasso di un quinto del valore è regolare, dopo che le prime due sedute sono andate deserte. Dopo c’è stato un nuovo sconto sul valore dell’immobile ma ancora nessun acquirente. Eppure, a Jesolo, partiti e sindacati non si danno pace perché vedono il rischio di smobilitare i servizi, con 50 dipendenti a spasso. E il via libera alla speculazione. «Quel palazzetto sul mare, con 18mila metri quadrati di spiaggia, ha dei vincoli ben precisi», attacca Salvatore Esposito di Sel. E anche per la Sovrintendenza dei beni culturali si tratta di un edificio di interesse storico, in cui non si possono rimuovere gli affreschi né alterare la struttura delle stanze. Per il conte Ottavio Frova, la donazione del 1928 si vincolava alla cura della “fanciullezza trevigiana”. Nel tempo è prima diventata una colonia per i malati di tubercolosi. Oggi è anche un centro per i rifugiati. Fabio Bellettato, ex capo della Cri Veneto, sul tema aveva lanciato un appello al presidente nazionale Francesco Rocca. Era in disaccordo sulla vendita del patrimonio immobiliare come unica possibilità di risanamento. La richiesta di Bellettato è rimasta inascoltata, mentre lui si è dimesso. Mancanza di democrazia, centralizzazione del potere e interesse solo per le missioni all’estero: sono le critiche mosse dai comitati periferici verso Francesco Rocca, avvocato che gestisce l’ente sinonimo di solidarietà ed aiuto come un padrone assoluto. Un esempio? Quando nel 2011 la funzionaria Anna Montanile ha denunciato alla trasmissione tv “Report” le incongruenze della gestione delle sedi è stata trasferita all’archivio storico. A fare ricerche sulle bandiere. Oggi mentre la Cri è alle prese con un serrato piano di risanamento, Rocca è spesso all’estero per missioni che fanno bene alla sua immagine di numero due della federazione internazionale: Iran, Siria, progetti post terremoto di Haiti ed emergenza profughi. «Non ho rimborsi né indennità, mi viene pagato solo l’albergo quando sono in missione», precisa Rocca a “l’Espresso”: «Da presidente non prendo stipendio, sono totalmente volontario. Purtroppo veniamo da trent’anni di assoluto abbandono. Abbiamo bisogno di dipendenti, ma non in quel numero e con quello spreco». Il presidente-volontario è stato per più di quattro anni commissario straordinario, voluto da Berlusconi (con un budget annuale di 320mila euro), da maggio 2015 è direttore dell’Idi di Roma, l’ospedale dermatologico più grande d’Europa. Di proprietà della Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione è al centro di una storiaccia brutta di bancarotta fraudolenta, fatture false e un passivo patrimoniale di 845 milioni di euro.

Ambulanze, il business delle onlus. E il soccorritore lavora in nero, scrive Massimiliano Coccia il 19/05/2014 su “Il Tempo”. La Regione non indice bandi ma si affida unicamente a gettoni a chiamata. Gli operatori del 118 sfrecciano nel traffico a sirene spiegate. Sono i primi ad essere colpevolizzati in caso di ritardi nei soccorsi, sono gli ultimi ad abbandonare il mezzo a fine turno. Ma in tantissimi casi per stare su quelle autoambulanze non hanno un regolare contratto di lavoro. Colpa della crisi e dei tagli alla sanità. Ma, secondo molti, anche della situazione venutasi a creare in seguito ad alcune delibere regionali (271/2011 e 325/2011) che favoriscono nei servizi di trasporto extraospedaliero di emergenza le onlus rispetto agli operatori privati. Queste delibere, che violano il diritto europeo in materia (causa C113/13 della Regione Liguria), creano un sistema, che se confermato, lede in maniera forte ai principi di concorrenza tra privati e di tutela sia dei lavoratori che degli assistiti. Inoltre, essendo le «onlus» enti associativi senza finalità di lucro, non dovrebbero percepire lo stesso rimborso da parte di Ares che spetta ai privati e dovrebbero basarsi solamente sul lavoro volontario. Invece, come ci racconta G.A. (iniziali di fantasia), operatore del 118 dal 2008, molti di loro svolgono un lavoro dipendente a tutti gli effetti, stando sui mezzi 5 giorni su 7 senza assicurazione e senza contratto.

Come sei entrato a lavorare nel mondo del trasporto extraospedaliero?

«Nel servizio di ambulanze in convenzione o a chiamata "spot" per il servizio pubblico del 118 Lazio, ci sono entrato nel 2008, dopo aver perso l'ennesimo lavoro. Il mio contratto scade tra 15 giorni, dopo aver lavorato per molti mesi in nero, come lavorano molti che vengono chiamati per sopperire alle carenze dell'Ares 118».

E come venivi pagato in nero?

«Il gioco è semplice. Viene fatto firmare un foglio per il cui il volontario dichiara di prestare la sua opera senza fini di lucro, ma di fatto entra nel mondo perverso del lavoro in nero. Tutti percepiscono un "rimborso spese" che va dai 50 euro al giorno per 12 ore fino ai 70/80 euro per gli infermieri. Qualsiasi volontario avrebbe diritto ad un rimborso spese giornaliero che comprende il viaggio, il pranzo ed eventualmente un caffè al bar, solo che gli "pseudo volontari" come me, dovevano rientrare la sera a casa e procurarsi almeno 60 euro di scontrini o ricevute, altrimenti la mia giornata lavorativa andava persa. Ci sono "pseudo volontari" che fanno 25 turni al mese, secondo il fisco, come possono mantenere una famiglia solo con i rimborsi spesa?».

Ci spieghi il meccanismo di finanziamento di una "onlus" che si occupa di trasporto ospedaliero?

«L'Ares 118, per sopperire alla carenza di personale, incarica sia le "onlus" e sia le ditte di ambulanze private riconoscendo alle prime un rimborso di circa 450 euro per 12 ore e ai privati di circa 500 euro per 12 ore, con la differenza che i privati hanno i dipendenti in regola. Pagando persone a nero o sottopagandole si avrà una scarsa qualità del personale e del servizio. Vale la pena ricordare che in questo lavoro la parola d'ordine dovrebbe essere professionalità. Più volte in ambulanza ho lavorato con un infermiere neanche iscritto all'IPAVSI».

Quali rischi corri ogni giorno salendo su un mezzo di fatto privo di ogni assistenza previdenziale e assicurativa?

«I rischi in questo lavoro sono molteplici dati proprio dalla peculiarità del servizio, in particolare quelli infettivo ed epidemiologico. E la tutela assicurativa è inesistente. Anni fa ebbi un infortunio in servizio che fu refertato dal pronto soccorso del Pertini e l'unica preoccupazione della finta associazione di volontariato per cui prestavo servizio fu quella di farmi riferire che stavo svolgendo il turno da volontario».

Possiamo parlare di un sistema pianificato a tavolino per incassare i contributi pubblici sulla sanità e per fare cassa sulla previdenza lavorativa?

«Non so se sia pianificato o meno, ma trovo assurdo che la Regione non indica un bando per affidare la gestione di questi servizi e vada avanti con lo spot o il gettone a chiamata».

La questione del risparmio non riguarda solo voi operatori, anche il parco vetture è vetusto e non conforme alle direttive regionali. Quanti sono i mezzi non a norma nella Regione Lazio?

«C'è una delibera della Regione Lazio che vieta la circolazione dei mezzi di soccorso che abbiano maturato più di cinque anni di immatricolazione e servizio, ma in realtà vedo in giro ambulanze da museo con la totale indifferenza di tutti, in primis dalla centrale 118 che dovrebbe immediatamente bloccare quei mezzi».

Avete cercato di esporre il caso alla magistratura e alle forze dell'ordine?

«Io e altri colleghi abbiamo fatto denunce ed esposti ma non hanno portato a nulla. Ci hanno detto che la giustizia farà il suo corso, ma nel frattempo i primi a rischiare per questi disservizi sono i cittadini trasportati in situazioni critiche su mezzi vetusti e con personale sottopagato e non qualificato. A volte mi chiedo dove vadano a finire tutti i soldi che si mettono a bilancio per la sanità». 

TERREMOTO, RAZZISMO E SCIACALLAGGIO. «Eravamo lì per aiutare, ci hanno trattato da sciacalli», scrive Simona Musco il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. I giornali nazionali li hanno sbattuti in prima pagina con accuse infamanti e senza lo straccio di una prova. «Volevamo solo dare una mano a quelle persone disperate, ora, invece, ci additano come sciacalli, solo perché veniamo da Platì: ma è tutto un equivoco». Rocco Grillo e Pasquale Trimboli ci avevano provato. Erano saliti su una Suzuki Vitara, 48 ore dopo quel terremoto che ha squarciato il centro Italia, pensando di «fare del bene». Ma da Amatrice, simbolo del sisma, sono tornati giù con l'accusa peggiore: quella di voler approfittare della tragedia per riempirsi le tasche. La loro versione, fino ad ora, era un rigo nei giornali nazionali, che parlano di loro come «malviventi» - i due hanno precedenti per furto - che si aggiravano «tra le rovine di una casa diroccata» con «fare sospetto». Di passare per avvoltoi, però, non ne hanno voglia. E raccontano quel viaggio, durato meno di 24 ore. «Ci siamo ritrovati al bar con degli amici, a parlare di tutta quella gente disperata che avevamo visto in tv - racconta Trimboli, bracciante agricolo di 36 anni -. Dovevamo partire tutti insieme, ma non abbiamo trovato un furgone. Così abbiamo pensato di raccogliere viveri, coperte e vestiti in giro per il paese e di partire con la mia auto. Ma visto che avevano bloccato l'invio dei beni, abbiamo pensato di partire per dare una mano e basta». Prima di mettersi in viaggio, alle sei del pomeriggio del 26 agosto, i due passano dalla caserma dei carabinieri di Platì, paesino di poco meno di 4mila anime, arroccato sull'Aspromonte, per tutti simbolo di una 'ndrangheta prepotente e sanguinaria, ma che ha fatto vedere il suo volto migliore in più di un'occasione. «In caserma ci hanno detto che stavamo facendo una cosa bella - spiega Grillo, 38 anni, anche lui bracciante -. Siamo passati per capire se fosse il caso di andare e ci hanno detto che il volontariato è libero». I due arrivano ad Amatrice alle 3.30, nel cuore della notte. Incontrano la polizia, chiedono dove andare per dare una mano e vengono indirizzati alla tendopoli. «Lontano, dunque, dalle case», sottolineano. I due passano da una divisa all'altra, cercando qualcosa da poter fare, fino a quando un uomo della protezione civile, alle 6.30, dà loro dei guanti e li mette a pulire i bagni. «Era pur sempre un lavoro da fare», dice Trimboli. Poi vengono spediti a raccogliere la spazzatura dentro le tende. «Da soli abbiamo raccolto circa trenta sacchi», spiega Grillo. I due si fermano per la colazione e dopo aver preso un caffè in mensa tornano alla tendopoli, dove incontrano il presidente Sergio Mattarella e il capo della protezione civile Fabrizio Curcio. «Gli abbiamo detto che venivamo dalla Calabria - raccontano -. Ci ha dato la mano e ci ha fatto i complimenti». Sono le dieci quando i due decidono di spostarsi di qualche metro, all'ombra, vicino alla loro auto, per fumare una sigaretta. «In quel momento - spiega Trimboli - è arrivato un ragazzo del posto, in macchina, e ci ha chiesto chi fossimo e il tesserino. Noi però non lo avevamo. Abbiamo spiegato che eravamo volontari ma una signora, arrivata poco dopo, ha iniziato a inveire contro di noi. Ci gridava: "dovete andare via, bastardi, infami". Abbiamo provato a spiegare che eravamo lì per dare una mano ma ha continuato a urlare». È in quel momento che arriva una ventina di uomini delle forze dell'ordine. Che avviano la procedura di rito: la consegna dei documenti, la perquisizione dell'auto, domande sul come e il perché si trovano lì. «I carabinieri hanno controllato l'auto ma non c'era nulla», spiega Trimboli, parole confermate dal verbale firmato dai due. Che per farsi credere mostrano i guanti e indicano chi li ha messi a lavorare. E pure lui, sostengono, prova a dire come sono andati i fatti. «Ha spiegato che eravamo andati a registrarci ma era tutto bloccato - racconta Grillo -. Ce n'erano tantissimi come noi lì, non registrati ma che davano una mano». I carabinieri vogliono sapere perché partire da Platì per un viaggio così lungo. Loro insistono: «per noi era un onore poter aiutare qualcuno - sottolinea Trimboli -. Ho lasciato tre bimbi piccoli a casa, solo per dare una mano. Non per sentirmi dire che sono uno sciacallo». I due invitano i carabinieri a contattare la stazione di Platì ma i loro precedenti bastano e avanzano: furto. Fatti troppo specifici per lasciar correre. «È vero, ho sbagliato anni fa ma ho pagato i conti con la giustizia, sono su una strada buona. A Platì abbiamo sempre dato una mano quando c'è stato bisogno», conclude Trimboli. A loro carico, ora, c'è solo un procedimento amministrativo presso la Questura di Rieti per il foglio di via, spiega il loro legale, Domenico Amante. «Il problema è che ora, per tutti, sono due sciacalli. Ma loro volevano solo aiutare».

E poi ci sono gli sciacalli mediatici. Dapprima i media avevano diffuso le sue generalità e pareva fosse un pregiudicato napoletano. Ma invece non è così. Si tratta infatti di un nomade di etnia Rom arrivato appositamente da Napoli in Treno, scrive “La Voce del Trentino” il 26 agosto 2016.

Arrestato sciacallo ad Amatrice: è un pluripregiudicato napoletano, scrive “Il Mattino di Napoli” il 25-08-2016. I carabinieri del comando provinciale di Rieti, nell'ambito dei servizi messi in atto al fine di reprimere il fenomeno dello sciacallaggio a seguito del forte sisma, hanno tratto in arresto un pluripregiudicato napoletano, Massimiliano Musella, 41 anni, residente al Rione Alto. Una delle pattuglie poste in campo e composta dal comandante della stazione di Leonessa e da un militare dipendente dello stesso reparto, coadiuvati da militari del 7° rgt laives, nel pomeriggio odierno, nella frazione «Retrosi» del comune di Amatrice, hanno colto all'improvviso l'uomo che tentava di forzare con un cacciavite, la serratura di un'abitazione colpita dal sisma e disabitata. I militari lo hanno sorpreso alle spalle e l'uomo, vistosi braccato, ha tentato di divincolarsi ingaggiando con i militari, una violenta colluttazione, ferendo con il cacciavite, uno dei militari. I carabinieri al termine della breve colluttazione sono riusciti a immobilizzarlo e ad ammanettarlo. Dopo averlo disarmato, lo hanno accuratamente perquisito rinvenendo nella tasca dei pantaloni, un biglietto ferroviario datato 24 agosto 2016 tratta Napoli-Roma, confermando la tesi che il pregiudicato, era giunto sul luogo del sisma, prima in treno e poi in pullman, con l'intento di far razzie all'interno delle abitazioni colpite dall'evento tellurico. L'uomo, gravato da numerosi precedenti penali per detenzione a fini di spaccio di sostanze stupefacenti, ricettazione e porto abusivo di armi è stato tratto in arresto con l'accusa di rapina impropria e lesioni personali e tradotto presso la casa circondariale di Rieti a disposizione dell'autorità giudiziaria locale. I militari, ricorsi alle cure mediche da parte dei sanitari presenti nel campo allestito per le vittime del sisma, sono stati giudicati guaribili in 6 giorni.

Il racconto degli angeli di Amatrice: «Così abbiamo arrestato lo sciacallo», continua Ebe Pierini su “Il Mattino di Napoli” il 26-08-2016. Lì dove non possono arrivare con le auto perché ci sono solo macerie loro arrivano a piedi. Sono stati i primi a giungere sul luogo del sisma ed ora sono 400 i carabinieri che pattugliano il territorio di Amatrice ed Accumuli, 24 ore su 24, per impedire che gli sciacalli entrino nelle case abbandonate per rubare. Com'è successo giovedì quando a finire in manette è stato il 41enne napoletano Massimiliano Musella. «Mentre transitavamo in auto per la frazione di Retrosi, vicino Amatrice, io e il mio collega, l’appuntato scelto Gianni Reali, abbiamo notato un uomo che armeggiava con un cacciavite nei pressi del portone di legno di un’abitazione – racconta il maresciallo Mauro Margarito, comandante della stazione di Leonessa – Siamo scesi dal mezzo. Io indossavo la pettorina dei carabinieri. Abbiamo intimato l’alt e lui è fuggito. Lo abbiamo rincorso e raggiunto e, mentre tentavamo di immobilizzarlo, ci ha offerto resistenza. Ne è nata una colluttazione. Siamo finiti tutti e tre a terra. Il caso ha voluto che in quell’istante passasse una pattuglia di colleghi del 7° reggimento Laives che ci ha aiutati ad ammanettarlo». «L’uomo è stato poi condotto presso il carcere di Rieti con l’accusa di rapina impropria e lesioni – aggiunge il capitano Emanuela Cervellera, comandante della compagnia di Città Ducale, dipendente dal comando provinciale di Rieti, che ha la competenza sulla zone di Amatrice ed Accumuli – Il maresciallo ha infatti riportato una distorsione dell’avambraccio sinistro, mentre l’appuntato scelto una ferita da taglio all’indice della mano destra e una contusione al gomito». «L’uomo ci ha minacciato dicendo che ci avrebbe denunciati perché quello che avevamo visto non corrispondeva al vero – racconta ancora il maresciallo Margarito – Ad insospettirci è stato anche il fatto che indossasse una pettorina con scritto security e che con sè avesse un grosso sasso oltre a un borsone. In tasca aveva un verbale di accertamento di violazione di 38 euro effettuato sul treno da Napoli a Roma in quanto non aveva pagato il biglietto, datato 24 agosto, il giorno del sisma. In un primo momento si è giustificato dicendo che era un soccorritore, ma ho comandato la stazione di Amatrice per due anni e mezzo e conosco tutta la gente del posto. Se fosse stato di lì lo avrei riconosciuto. Tra l’altro la mattina era stato già notato mentre cercava di oltrepassare i varchi di accesso alla città dicendo di essere un volontario». «La prevenzione dei furti fa già parte dei nostri compiti quotidiani – assicura il capitano Cervellera - Tranquillizzare la gente rappresenta un aiuto psicologico. Hanno lasciato tutte le loro cose all’improvviso ed è nostro compito farle loro ritrovare».

Terremoto, lo sciacallo arrestato ad Amatrice aveva annunciato l'impresa su Facebook: “Vado lì”, affonda il colpo Stella Cervasio nel suo articolo del 27 agosto 2016 su "La Repubblica". L'aveva scritto sul suo profilo Facebook il 24 agosto alle 18.48: "Vado lì". Dopo si è capito che intendeva nei paesi del centro Italia colpiti dal terremoto. M.M., 41 anni, di Chiaiano, ha preso un treno Napoli-Roma, è sceso alla stazione Tiburtina ed è salito su una corriera che l'ha portato ad Amatrice, quel nome di paese che aveva sentito in tv, spazzato via dal terremoto. Nella frazione di Retrosi i carabinieri l'hanno trovato ad armeggiare con un cacciavite al lucchetto di una porta di una delle case evacuate dopo il sisma. Si è girato e ha colpito i due uomini dell'Arma, che hanno un referto ospedaliero di cinque e sei giorni. "Che lavoro fa? Nessuno ", dicono al Comando provinciale di Rieti, dove peraltro sono presi da ben altri impegni, in queste ore. L'arresto di M.M., che è accusato di rapina impropria, lesioni e resistenza, è stato eseguito dai carabinieri di Città Ducale e deve ancora essere convalidato dal gip. L'uomo intanto è rinchiuso nel carcere di Rieti. Sul suo profilo Facebook, dove annunciava la partenza per i paesi terremotati, sono piovuti gli improperi di ogni genere, anche sotto le foto di statue di santi che aveva postato in precedenza, e le accuse di aver fatto vergognare i cittadini napoletani per aver battuto il peggiore dei record: è stato il primo (e finora per fortuna l'unico) sciacallo del dopoterremoto del Lazio. E purtroppo è targato Napoli, anche se il sindaco de Magistris, per segnare immediatamente la distanza della città da quest'azione, ha annunciato la costituzione di parte civile contro il responsabile. M.M è stato arrestato in precedenza una volta per droga e due volte per furto, quindi non è nuovo a questo tipo di lavori. Ma, pur vivendo ai Camaldoli, nel dominio del clan Polverino, non ne fa parte. M.M. ama piuttosto montare sui treni e fare bravate. Lo avevano visto anche l'anno scorso, alla prima udienza del processo contro Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Era arrivato con il gruppo innocentista che sui social ha anche diversi sottogruppi per la verità con non numerosissimi iscritti. Reggeva uno striscione che sosteneva che il carpentiere di Mapello, poi condannato all'ergastolo, fosse innocente. Sui giornali l'avevano descritto come "l'autista molto abbronzato, arrivato da Napoli ". E sarebbe andato anche a più di una udienza del processo. Secondo quanto i giornali di Bergamo scrissero, all'epoca avrebbe anche dichiarato davanti alle telecamere: "Un'accusa ingiusta e totalmente infondata - sostiene Massimiliano M.M, il napoletano che ieri mattina è arrivato in via Borfuro appositamente per seguire la prima udienza - non è lui il colpevole. Gli autori del delitto sono ancora in circolazione. Purtroppo le indagini non state condotte in modo adeguato".

Il video dello sciacallo: un falso grossolano, scrive Ugo Maria Tassinari il 26 agosto 2016. Un video supporta da stamattina una campagna virale sullo sciacallo napoletano a partire dalla notizia di stampa attivata da “Il Mattino” (proprio contro un suo concittadino). Un’onda di indignazione tale che il sindaco De Magistris ha annunciato la volontà di costituirsi parte civile. Peccato che il video non c’entri niente. A trascinare il fermato, infatti, sono poliziotti. E, a finale, arriva pure la smentita della Questura di Rieti, che racconta la reale dinamica. La polizia ha scongiurato il linciaggio di un innocente. Ecco la nota Agi: Roma – E’ polemica sullo sciacallaggio nelle aree devastate dal sisma: dopo una serie di denunce di individui sospetti sorpresi a rovistare tra le macerie, rilanciate anche dai media, la Questura di Rieti in un comunicato ha definite “prive di ogni fondamento” queste notizie. “I servizi di vigilanza, specificamente finalizzati al contrasto di possibili episodi di sciacallaggio, sono stati infatti attuati sin dai primi istanti con personale delle forze dell’ordine, e poi rafforzati nelle ore serali e notturne con l’arrivo dei reparti organici”, ha assicurato la Questura. Allo stato, “sentite anche le altre forze di polizia, non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati”. Sono stati eseguiti controlli su persone sospette o “semplicemente presenti all’interno di aree interdette o in procinto di entrarvi”, ma tutte le verifiche, conclude la Questura, “hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate”. Tra gli episodi segnalati c’era quello di un uomo identificato ad Amatrice perchè sorpreso con un trolley e sospettato di aver sottratto oggetti da alcune abitazioni. L’uomo ha rischiato il linciaggio da parte della folla, ma l’arrivo dei poliziotti ha evitato l’aggressione. Sempre ad Amatrice tre persone sono state fermate perché sorprese a rovistare nelle case abbandonate. Segnalazioni sono arrivate anche nell’ascolano nel comune di Arquata, in particolare nella frazione di Pescara del Tronto spazzata via dal terremoto. Secondo i soccorritori, si sono verificati casi già nel corso della prima notte del sisma. I carabinieri hanno intensificato i controlli in tutta l’area.

La versione corretta pubblicata dai media non ti aspetti.

Fermato un presunto sciacallo: rischia il linciaggio degli abitanti di Amatrice. Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice, scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un presunto sciacallo è stato fermato dalla polizia ad Amatrice. Siamo nella zona alta vicino al giardino dove alcuni degli sfollati del terremoto cercano riparo dal sole. Un gruppo di abitanti del luogo ha notato un uomo di Napoli con una valigia piena e l'ha bloccato. Alla richiesta di far vedere cosa c'era dentro la borsa, il napoletano si è rifiutato. A quel punto sono intervenute le forze dell'ordine. Il video che IlGiornale.it ha realizzato in esclusiva mostra il momento del fermo. L'uomo grida aiuto dicendo "vi sbagliate, vi sbagliate". Le forze di polizia lo portano allora in un angolo al riparo dalla furia della folla che vorrebbe linciarlo. "Ma come si fa a rubare nelle case distrutte - dice molto alterato un ragazzo - entrano e si portano via tutto. Perché gli edifici non crollano quando ci sono queste persone dentro invece della gente perbene?". Alla conclusione di lunghe perquisizioni e accertamenti, i poliziotti in borghese ci fanno sapere che il presunto sciacallo "non è stato arrestato". Non sono stati trovati elementi certi per accusarlo. "Questa persona - aggiunge un ispettore della Digos - non ha commesso alcun reato a quanto pare". Ma è stato comunque allontanato dalla città: "Qui non serve", conclude l'ispettore. Il dubbio che fosse un delinquente rimane. Questa la ricostruzione dei fatti. Il presunto sciacallo sarebbe stato visto la prima volta da un ragazzo a pochi passi da un'abitazione dove si scavava tra le macerie. Avrebbe detto di dover riportare il caschetto protettivo ad un amico che stava lavorando all'interno della casa distrutta. Si sarebbe quindi spacciato per volontario. "Gli ho detto di darlo a me - racconta un ragazzo che era nei paraggi - ma insisteva per portarlo personalmente". Poco dopo l'episodio che ha scatenato il fermo. L'uomo, come detto, è stato notato con una valigia da alcuni cittadini di Amatrice e poi bloccato dalla Digos. "Diceva di essere un ingegnere", racconta il signore che l'ha intimato ad aprire la borsa. "Ma come? - fa eco un altro ragazzo - prima dice di essere un volontario e poi un ingegnere?". Durante il fermo avrebbe anche sostenuto di essere di Amatrice. Ma tutti gli abitanti assicurano di non conoscerlo. "Qui siamo tutti vicini - dice un signore - ci conosciamo bene". Il presunto sciacallo per provare a fornire un alibi avrebbe fatto il nome di un cittadino del luogo. Le forze dell'ordine lo hanno cercato per permettergli di fare un riconoscimento. Si trattava di un carabiniere. Il quale, appurato di non conoscerlo, ha avuto uno scatto d'ira. A raccontarlo è lo stesso militare. La polizia ci fa sapere che il sospettato non è un volontario registrato. Per questo motivo è stato allontanato dalla città. "Ci aspettiamo - conclude l'ispettore - di doverne allontanare altri". L'allerta sciacalli è altissima.

«Dagli allo sciacallo!». Gli untori di Amatrice, scrive Paolo Persichetti il 6 set 2016 su "Il Dubbio". Il caso dei rumeni Ion C. e Letizia A, fermati con il nipote di 7 anni con l'infamante accusa di sciacallaggio denunciato dall'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine di Rieti. Amatrice Oltre a provocare vittime e distruzione i terremoti sembrano suscitare il malsano bisogno di capri espiatori. Tra le pieghe del dolore e dello strazio di chi ha perso figli, genitori, parenti o amici e ha visto la propria esistenza sbriciolarsi sotto il crollo della propria casa, perdendo tutto ma forze più di ogni altra cosa le tracce della propria memoria, ciò che compone l'io di ogni persona, ci sono anche delle vittime "collaterali". L'allarme sciacalli ne ha provocate diverse in questi giorni. Alimentata dai media con storie costruite a tavolino fin dalle prime ore successive al sisma, la paura dello sciacallo si è insinuata subdolamente, complice anche l'atteggiamento di alcune forze di polizia che invece di infondere sicurezza e tranquillità nella popolazione scossa dalla tragedia hanno moltiplicato paure, diffuso dicerie come quella del falso prete che si aggira tra le frazioni colpite nascondendo sotto l'abito talare gli ori e gli argenti sottratti dalle case danneggiate. Abbiamo tutti letto la storia del pregiudicato napoletano che avrebbe preso il treno fino a Roma per poi recarsi ad Amatrice ed essere qui scoperto, non si capisce come e dove. Una vicenda confezionata ad arte al punto che lo stesso sindaco di Napoli aveva dichiarato che il comune partenopeo si sarebbe portato parte civile contro l'uomo arrestato. Peccato però che nessuno fosse finito in manette. A sole 24 ore di distanza dal terremoto un quotidiano del Nord titolava "Maledetti sciacalli, stanno già rubando tutto", narrando di tre arresti, tra cui ovviamente l'immancabile «nomade», avvenuti tra le rovine di Pescara del Tronto, tanto che la Questura di Rieti è dovuta intervenire con un comunicato nel quale si riferiva che «allo stato non risulta alcun episodio di illegittima introduzione di persone nelle abitazioni evacuate, tantomeno di furti perpetrati». Sono stati eseguiti - proseguiva il testo - controlli su persone sospette o «semplicemente presenti all'interno di aree interdette o in procinto di entrarvi», ma tutte le verifiche «hanno avuto esito negativo e le persone sono state indirizzate ai competenti organismi di Protezione civile o semplicemente allontanate». Ovviamente il comunicato è servito solo a quei pochi che lo hanno letto, non poteva certo arginare una psicosi da trauma se poi sul terreno c'è chi sobilla il sospetto, attrezza campi che sembrano ghetti, infantilizza le persone. La ricerca del capro espiatorio diventa allora un espediente rassicurante, una tecnica di governo del territorio che compatta le comunità disorientate verso un nemico esterno. Una ong francese ha rischiato di tornare indietro con il suo carico di preziose tende se non fosse stato per il buon senso di alcuni militari. L'esercito, oltre ai Vigili del fuoco sempre fedeli al loro motto ubi dolor ibi vigiles, ha dimostrato sul terreno di essere il corpo con la mentalità meno militare di tutti. Non stupisce dunque se due volontari di Platì, arrivati ad Amatrice con i propri mezzi e tanta solidarietà - come hanno raccontato al Dubbio - abbiano pagato il prezzo di questa fobia: accusati di esser dei potenziali sciacalli dopo le grida di una donna anziana che non li conosceva, nonostante lavorassero all'interno del campo messo in piedi dalla protezione civile, sono stati allontanati da Amatrice con il foglio di via. Chi scrive ha assistito ad un episodio grottesco: l'inseguimento da parte di sei motociclisti dei carabinieri di un furgone, avvistato nei pressi della frazione di Preta, che poi si è rivelato trasportare una salma. Non hanno avuto la stessa fortuna dei volontari di Platì i due cittadini romeni di etnia Rom fermati nella tarda mattinata del 29 agosto con l'infamante accusa di essere degli sciacalli. In un comunicato dei carabinieri si legge che una pattuglia del nucleo radiomobile di Roma avrebbe «sorpreso nella frazione di Preta del comune di Amatrice, un uomo ed una donna rispettivamente di 44 e 45 anni, che a bordo di un'autovettura Wolkswagen Passat con targa tedesca, avevano perpetrato poco prima, alcuni furti nelle abitazioni distrutte dal terremoto». Dopo un'accurata perquisizione «venivano rinvenuti svariati capi di abbigliamento, alcuni oggetti domestici, la somma contante di oltre 300 euro, una pistola giocattolo sprovvista del prescritto "tappo rosso" ed alcuni arnesi da scasso. I soggetti, entrambi di nazionalità rumena e gravati da numerosi precedenti penali per reati contro il patrimonio, sono stati tratti in arresto con l'accusa di furto aggravato e trattenuti nelle camere di sicurezza dell'arma, in attesa della relativa convalida da parte dell'autorità giudiziaria». La versione dei fatti fornita dai carabinieri ha sollevato tuttavia alcuni dubbi, intanto perché il fermo di Ion C. e Letizia A., che a bordo della loro macchina trasportavano anche il nipotino di 7 anni, non è avvenuto nella frazione di Preta ma lungo la strada regionale 577 del lago di Campotosto, in uno slargo molto ampio nei pressi del bivio per Retrosi. Dunque in un luogo lontano da centri abitati. La scena è stata vista da chi scrive, insieme ad altre due persone, che dalla frazione di Capricchia, immediatamente sotto Preta, scendevano in macchina verso Amatrice. La Passat era ferma con il portellone posteriore alzato e gli stracci contenuti all'interno gettati a terra. L'uomo e la donna erano accanto al carabiniere che controllava i documenti. L'autorità giudiziaria dopo aver confermato il fermo ha disposto la scarcerazione, sottoponendoli alla misura cautelare del divieto di entrare nelle province terremotate. Nel corso del rito per direttissima, ha spiegato l'avvocato Luca Conti, presidente dell'ordine degli avvocati di Rieti che ha assunto la difesa dei due romeni, è emersa l'inconsistenza dei capi di accusa (furto di biancheria e capi di abbigliamento). Gli arnesi da scasso si sono rivelati nient'altro che il kit di soccorso presente in ogni autovettura e i precedenti sono risultati inesistenti: la donna è sconosciuta ai servizi di polizia mentre l'uomo aveva solo una vecchia denuncia per possesso di arma impropria. Niente reati specifici come furti o rapine. I due non parlano italiano, la donna è analfabeta. Nel corso della udienza la coppia, con molte difficoltà espressive nonostante la presenza dell'interprete, ha dichiarato di essere ignara del terremoto. In macchina avevano tutto il necessario per dormire: un piccolo materasso, dei cuscini, coperte, biancheria varia e vestiti, alcuni piatti, bicchieri, posate, e i giocattoli del nipotino (tra cui la pistola di plastica), materiale privo di valore. Salta agli occhi l'assenza di preziosi, gioielli, argenteria, materiale tecnologico? L'uomo possedeva appena 305 euro, il minimo indispensabile per affrontare un viaggio. A Preta, come nella altre frazioni circostanti, nessuno ha lamentato furti. La coppia dopo essere stata scarcerata non ha più ritrovato il nipotino, affidato ai servizi sociali di Rieti che nel frattempo lo avevano trasferito a quelli di Roma. Il terremoto può contare così un altro disperso. L'avvocato Conti ha sollecitato l'ambasciata romena affinché il bimbo venisse restituito ai nonni, mentre il consiglio dell'ordine di Rieti ha promosso una raccolta di fondi i cui proventi verranno destinati ad opere di ricostruzione di edifici di interesse pubblico nei territori colpiti dal sisma (conto corrente denominato "In aiuto delle popolazioni colpite dal sisma" Iban: IT37O0306914601100000005558).

TERREMOTO E SOLIDARIETA’. Il delirio del sito islamista: "Il sisma punizione di Allah". "Sì all'Islam in Italia" è seguito da 43mila persone: "Un segno per convertire i peccatori". E fioccano le adesioni, scrive Paolo Bracalini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale".  Non c'è solo la spiegazione scientifica dei sismologi e dei geologi, c'è anche l'interpretazione islamica sulle vere ragioni del terremoto che ha devastato il centro Italia. La teoria arriva da un sito di musulmani residenti in Italia, «Sì all'Islam in Italia», che conta più di 43mila seguaci su Facebook. «Indubbiamente i terremoti che stanno accadendo in questi giorni sono tra i segni che Allah usa per spaventare i Suoi servi - si legge -. I terremoti e tutte le altre cose che accadono e che provocano danni e ferite alle persone sono a causa dello Shirk (l'idolatria, la falsa fede, ndr) e dei peccati, come Allah dice: Qualunque sventura vi colpisca, sarà conseguenza di quello che avranno fatto le vostre mani». La distruzione causata dal sisma non è casuale, né un evento solamente naturale, dietro ci sono la volontà di Allah e le colpe dei peccatori infedeli. Il post viene condiviso da centinaia di persone: Ibrahim residente a Milano, Mohammed che vive a Parma, Hamza che invece lavora a Padenghe sul Garda, Mehdi di Bergamo e molti altri. Il terremoto come punizione di Allah del resto trova riscontri in diverse sure del Corano, citate dal sito islamista a conforto della propria spiegazione. Una (Al-A'rf, 96) dice: «Se gli abitanti di queste città avessero creduto e avessero avuto timor di Allah, avremmo diffuso su di loro le benedizioni dal cielo e dalla terra. Invece tacciarono di menzogna e li colpimmo per ciò che avevano fatto». Un'altra ancora (Al-Ankabt, 40): «Ognuno colpimmo per il suo peccato: contro alcuni mandammo ciclone, altri furono trafitti dal Grido, altri facemmo inghiottire dalla terra e altri annegammo. Allah non fece loro torto: furono essi a far torto a loro stessi». Il concetto è chiaro anche se non viene detto in modo esplicito dal sito: chi è morto sotto le macerie si era macchiato di un grave peccato, non credere in Allah, e quindi se l'è cercata. Il sito «Sì all'Islam in Italia» cita a riprova un commentatore coranico del XIV secolo: «A volte Allah dà alla terra il permesso di respirare, il che avviene quando accadono forti terremoti; questo fa si che le persone si sentano spaventate, così si pentono, abbandonano i peccati, pregano Allah e provano rammarico per i loro peccati». La soluzione per evitare le catastrofi come quella che ha raso al suolo Amatrice e altri paesi del centro Italia, più che costruire abitazioni antisismiche, è la conversione all'islam: «Quello che devono fare i Musulmani e gli altri che sono responsabili e sani di mente, è di pentirsi ad Allah, aderire fermamente alla Sua Religione ed evitare tutto ciò che Egli ha proibito, in modo che possano essere indenni e raggiungere la salvezza da tutti i mali di questo mondo e dell'Altro: è così che Allah allontanerà da loro ogni male, e li benedirà con ogni bene». Nei commenti alla pagina Facebook, oltre ai ringraziamenti ad Allah «che ci fa vedere questi segni», c'è chi fa notare che tra i morti ci potrebbe essere anche qualche italiano di fede musulmana. Risposta degli amministratori (ignoti) del sito islamista: «L'articolo parla in generale. Si riferisce ai musulmani e ai non musulmani». Il sito (che come immagine profilo ha una cartina dove il nome «Israele» è barrato e al suo posto compare «Palestina») avvisa anche che «la Moschea di Rieti ha offerto immediata accoglienza e supporto logistico ai terremotati», mentre «Islamic Relief Italia sta già operando in coordinamento con la Protezione Civile, per far affluire prontamente i primi soccorsi». La spiegazione religiosa al terremoto non è peraltro prerogativa islamica. Anche «Militia Christi» si avventura in un'interpretazione altrettanto sconcertante, con un tweet («La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull'abominio delle unioni civili») poi cancellato e goffamente smentito. Mentre il post sul terremoto come castigo di Allah resta lì, senza che Facebook (inflessibile sui contenuti politicamente scorretti) intervenga.

Ed a proposito di Islam. Sul terremoto che ha straziato l'Italia prende la parola anche il presentatore Claudio Lippi. E' indignato, e le sue parole vengono riportate da Lettera43 (mentre il suo profilo Twitter risulta non accessibile). Lippi si riferisce alla diversità di trattamento tra i terremotati italiani delle zone di Rieti e gli immigrati: "Mettiamo 50 immigrati a Capalbio e i terremotati in una palestra? Non ho parole". 

Terremotati in tendopoli, immigrati in hotel: perché gli italiani s'infuriano, scrive di Fabio Rubini il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Prima le lacrime e l'incredulità di fronte alle immagini che rimbalzavano dalle tv ai social e viceversa. Poi, piano piano, tra politici e la gente comune s'è fatto strada un dubbio: ma se ai clandestini lo Stato riserva alberghi con wi-fi e tv al plasma, perché ai terremotati italiani dovrebbero toccare tende e unità abitative di lamiera? È stato un attimo, la rete anche questa volta, è stata veicolo imbattibile e inarrestabile e così il tam tam è partito. Corroborato anche dalle notizie come quella apparsa sul sito dell'Huffington Post, secondo cui: «I terremotati dovranno stare nelle tende almeno fino alla fine di settembre, poi si vedrà». Qualcuno, come il direttore del Tg di La7 Enrico Mentana, non l'ha presa bene e ha polemizzato su quelli che facevano polemica: «è evidente che non gli interessa né degli uni né degli altri. Vogliono solo contribuire a loro modo, versando bile», scatenando un dibattito sulla sua pagina Facebook tra quelli che erano d'accordo con lui e quelli che, più o meno velatamente, lo accusavano di non stare dalla parte degli italiani. A rinfocolare le polemiche ci ha pensato anche l'ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, che con una lettera inviata al Tempo spiega: «Conosco bene quella gente, nessuno vorrà andarsene lontano dai loro paesi, vanno trattati come cittadini di serie A con priorità assoluta» quindi «vanno piantate tendopoli nella zona colpita sperando che non le abbiano usate tutte per gli extracomunitari». Poi c'è il parroco di Boissano (Savona), don Cesare Donati, che in disaccordo con Bertolaso spiega: «Adesso è il momento, vista la tragedia del terremoto, di mettere gli sfollati nelle strutture e i migranti sotto le tende», raccogliendo anche il placet del leader della Lega Matteo Salvini: «Questo parroco non ha per niente torto». Il picco, però, è stato raggiunto a Milano. Il governatore della Lombardia, Roberto Maroni, rilascia una dichiarazione per mettere a disposizione il campo base di Expo sia «per ospitare in questi primi giorni i terremotati» sia «per inviare i moduli abitativi nelle zone terremotate». E annuncia che «l'assessore Bordonali è già in contatto con la protezione civile» ben contenta dell'aiuto ricevuto. Tanto più che quel campo andrebbe comunque dismesso, per restituire l'area al vicino comune di Rho. Quindi la Regione e la società Expo Spa potrebbero in un sol colpo aiutare i terremotati e velocizzare lo smantellamento del Campo Base. Sulla vicenda, però, è entrato a gamba tesa il neo sindaco di Milano, il piddino Beppe Sala, ancora scottato dal «no» che lo stesso Maroni aveva posto alla sua richiesta di trasformare il Campo base di Expo in un campo profughi. Così, pensando di interpretare il pensiero del governatore come un dietrofront «opportunistico», lo ha accusato a testa bassa: «Questo terremoto è un dramma da non strumentalizzare - sbotta il sindaco -. La proposta di Maroni di utilizzare il campo base o i suoi moduli per gli sfollati del terribile terremoto sembra una delle tante dichiarazioni politiche che la Regione non ci fa mai mancare. Questa volta tentando anche una strumentalizzazione su una tragedia come quella che ha colpito il centro Italia». Un commento border line, come subito dopo gli fa notare lo stesso Maroni: «Sono sorpreso dalle dichiarazioni del sindaco Sala. In un momento così drammatico dobbiamo lasciare da parte le polemiche e fare ogni sforzo per aiutare chi è stato colpito dal terremoto - ribadisce Maroni -. Questo è il senso della mia proposta di mettere a disposizione il campo base Expo. Proposta che, per altro, è stata condivisa dalla Protezione civile nazionale. Intendo quindi procedere rapidamente in questa direzione per portare aiuto concreto a chi ha subito questa immane tragedia». Con buona pace di Sala e del Pd. Fabio Rubini.

Vittorio Feltri il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”, la verità amara sul terremoto: "Perché pensano ai morti, ignorano i vivi". Di solito succede questo: le grandi tragedie nazionali mobilitano i mezzi di comunicazione, che per qualche giorno non fanno altro che parlarne in tutte le salse fino alla saturazione. Le maratone televisive, che riprendono da ogni angolazione i danni provocati dal terremoto, durano meno di una settimana, sempre le stesse, i soliti cumuli di pietre, mani nude che scavano, cadaveri, gente disperata, lacrime. D'altronde che altro potrebbero fare i giornalisti se non raccontare ciò che hanno sotto gli occhi? Ma la ripetitività a lungo andare spegne le emozioni che si tramutano in noia. Tra un po' i riflettori si trasferiranno dall’Umbria, dalle Marche e dal Lazio in altri luoghi e anche l'ultima sciagura sarà archiviata, salvo tornare a bomba quando si scoprirà che qualche malfattore, approfittando del dolore altrui, avrà trovato il modo di arricchirsi: appalti, stecche, prezzi gonfiati. C'è una regola che non muta mai: le disgrazie sono occasioni d'oro per chi non ha scrupoli. L'esperienza ci ha istruiti. Cosicché alla fine di settembre saranno pochi, oltre ai terremotati, a ricordarsi del flagello che ha martoriato il Centro Italia. Compariranno qua e là notizie riguardanti la ricostruzione, che tarderà a cominciare, il recupero dei capitali necessari a finanziare le opere, le beghe tra le imprese che cercheranno di accaparrarsi gli appalti. Nulla di appassionante. E le nostre coscienze si quieteranno. Ecco quanto è sempre successo e succederà ancora. Le brutte abitudini sono le più resistenti. Personalmente, in veste di cronista ho seguito parecchie calamità: il sisma che distrusse il Friuli nel 1976, quello che sbriciolò l'Irpinia nel 1980, quello di Perugia e dintorni nel 1997 e, assai recente, quello che ha violentato l'Emilia. L'indomani di ogni catastrofe si è assistito alle medesime immancabili scene e si sono uditi i medesimi discorsi improntati a buone intenzioni, a prescindere dal colore del governo in carica: faremo, brigheremo, ci impegneremo affinché le prossime scosse non ci colgano impreparati. Parole, parole, soltanto parole. Esportiamo in vari Paesi le nostre tecnologie da applicarsi agli edifici al fine di renderli sicuri, ma non le applichiamo in Patria. Siamo bravi nella cura di ogni territorio tranne quello che calpestiamo. Perché? Si possono avanzare soltanto ipotesi: non siamo capaci di organizzarci, abbiamo una classe politica scucita e perennemente in polemica con se stessa. Risultato, anziché fare, discutiamo. Si pensi che non abbiamo ancora un piano per le zone attualmente disastrate. Le istituzioni, la Boldrini in testa, si dannano per ottenere esequie collettive per le vittime. Sono più preoccupate dei morti che dei vivi. Spendono molti quattrini per i profughi e lesinano aiuti per i nostri connazionali bisognosi. Insomma, questa è la situazione e non promette niente di buono. C'è il timore che i terremotati siano costretti a stare in tenda mesi, mentre gli extracomunitari si crogioleranno in belle camere d'albergo, ben pasciuti, nutriti e riveriti. L'accoglienza e la solidarietà sono solo per individui di importazione. Vittorio Feltri.

LO STATO CRIMINALE. Lo sfregio dello Stato ai terremotati. Profughi e sfollati: chi riceve di più, scrive Roberta Catania, il 27 agosto 2016 su “Libero Quotidiano”. Ci sono oltre 5mila immigrati che dormono in hotel o in confortevoli appartamenti nel raggio di 150 chilometri dalle cittadine distrutte dal terremoto del 23 agosto scorso, mentre 2.500 sfollati italiani abitano nelle tende messe in piedi nei campi vicini alle macerie di Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto, tra l'alto Lazio e le Marche. Nessuno di questi 5mila stranieri vive in quei casermoni conosciuti con i nomi di Cie o Cara, dove comunque vengono ospitati migliaia di clandestini. Questi numeri si riferiscono esclusivamente al progetto Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), un programma finanziato dal Ministero dell'Interno tramite il Fondo Nazionale per le Politiche e i Servizi dell'Asilo e che prevede l'accoglienza e la tutela dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti che sono soggetti ad altre forme di protezione. In questi casi, le 2.545 strutture messe a disposizione in tutta Italia sono di tre tipologie: l'82% sono appartamenti, poi ci sono alberghi (12%) e infine le comunità di alloggio, per lo più destinate ai minori, appena il 6%. Dati riferiti al 2015 e attuali fino all' aprile scorso, quando il Viminale ha diffuso l'ultimo report. Così, mentre gli immigrati, divisi in base all' età, alle parentele e ad altre necessità, hanno cucine, un bagno normale e il riscaldamento d' inverno, i 2.500 sfollati che dormono nelle tende provano ad arrangiarsi. Per ora lo fanno e va bene così, anche perché la maggior parte vuole rimanere vicino a quello che gli è rimasto della loro casa e nessuno, a così pochi giorni dai crolli, dormirebbe in una struttura dove, al primo scricchiolio, sarebbe assalito per il terrore di sentire di nuovo le macerie crollargli addosso. Ma tra qualche settimana, quando arriveranno le prime piogge e poi la neve, anche i più legati al territorio inizieranno a sognare un letto caldo, una cucina dove sia possibile preparare una minestra calda e un bagno dove lavarsi senza soffrire temperature glaciali. Qualcuno, già ora, ammette di temere l'arrivo del freddo. Alessandro, 67 anni, sfollato da Amatrice insieme alla moglie e al cagnolino, oggi vive in una tenda al campo di Sant' Angelo. Raggiunto dalle telecamere, l'uomo ha spiegato di avere «non avere paura di rimanere nella tenda per troppo tempo», ma di aver «paura dell'inverno, che», ha sottolineato, «è qui alle porte». Nessuno ha ancora pensato, invece, a ciò che sarà nei prossimi anni. Giustamente questi sono i giorni del lutto per chi ha perso i propri cari e dello choc per chi è sopravvissuto guardando la morte in faccia. Eppure, quasi come un amaro presagio, quattro giorni prima del terremoto tra Amatrice e Pescara del Tronto, un uomo sopravvissuto nove anni fa al sisma dell'Aquila, ha fatto i conti con la dura realtà delle istituzioni, che spente le telecamere ridimensionano anche il sostegno morale e - soprattutto - economico. Quello sfollato dell'aprile 2009, il 18 agosto scorso era salito su un cornicione al secondo piano di una palazzina del progetto Case di Cese di Preturo, in provincia dell'Aquila, minacciando di gettarsi a causa delle maxi bollette che stanno arrivando in questi giorni agli inquilini degli alloggi costruiti per gli sfollati dopo il terremoto e per la chiusura dell'acqua calda da parte del Comune nei confronti dei morosi. L' unico riuscito a far desistere l'uomo è stato il sindaco, Massimo Cialente, che evidentemente ha promesso uno sconto o la rateizzazione. Fatto sta che le collette e le donazioni a un certo punto finiscono e queste persone si trovano a far il conto con le spese di tutti i giorni, senza avere più un'attività o i risparmi di una vita. Il premier Matteo Renzi non ha tardato a stanziare i primi soldi per aiutare i terremotati: 50 milioni di euro sono già stati destinati ad Amatrice e le altre località colpite dal sisma di martedì notte. Però per i 5.845 immigrati ospitati negli alberghi e negli appartamenti del progetto Sprar tra le Marche, il Lazio, l'Umbria e l'Abruzzo, intorno cioè ai luoghi sbriciolati dalla scossa, sono stati spesi quasi 75 milioni solo nel 2015. A voler fare i conti in difetto, si tratta di 204.575 euro al giorno, senza cioè considerare che gestire i minori costa di più. E l'anno scorso, per le 21.613 persone ospitate in tutta Italia nel progetto Sprar il conto è stato salato: 276 milioni e 106mila euro. Troppo in confronto a quei 50 milioni. Roberta Catania

TERREMOTO E SOCIAL NETWORK. "Tende no! Alberghi per gli sfollati", il tweet di Rita Pavone infiamma il web, scrive "L'Adnkronos.com" il 26/08/2016. "Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati". Con un tweet Rita Pavone scatena la polemica sul web parlando dell'assistenza agli sfollati, dopo il sisma. "Una volta che sono nelle tendopoli o nei containers, si rischia di veder passare anni prima che diano a questa gente una casa" aggiunge. Ma la 'Gian Burrasca' della canzone italiana, 71 anni appena compiuti, non si ferma: "Di cose ne ho viste. Si sono salvati solo in Friuli perché la gente del posto si è tirata su le maniche e ha fatto da sé". Per poi addolcirsi un po' per lasciarsi andare all'amarezza di chi come un po' tutti si sente impotente di fronte a questa tragedia. "In momenti come questi, le parole sono inutili - twitta con l'hashtag #terremoto -. Che il Signore ascolti le nostre preghiere".

Rita Pavone, sottoposta ad un linciaggio morale su Twitter, minaccia di lasciare il social, scrive Manuela Valletti il 31 agosto 2016. Twitter non perdona: lo ha capito Rita Pavone, sommersa da feroci commenti per aver preso le parti dei terremotati. Rita Pavone dà battaglia sui social per i terremotati. #Rita Pavone si è arrabbiata moltissimo per la reazione negativa che ha suscitato un suo post su Twitter: preoccupata per la sorte dei terremotati rimasti senza casa, ha scritto sul social questa frase:"Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i terremotati". Non l'avesse mai fatto! È stata tacciata di razzismo, di fascismo, di essere una fomentatrice delle masse e via di questo passo. La cantante ha tentato di spiegare con pacatezza il suo pensiero, dicendo che i terremotati nei containers ci rimangono per anni, e che di esempi di questo genere ne abbiamo avuti in tutti i terremoti fino ad ora verificatisi in Italia, ad esclusione di quello del Friuli, dove la gente del luogo non ha aspettato la politica, ma si è tirata su le maniche e ha ricostruito. Non c'è stato nulla da fare: le polemiche non si sono placate, e Rita era addirittura intenzionata a chiudere il suo account. Convinta di non essere né razzista né fascista, la Pavone è migrata su #facebookdove, senza demordere, ha provato a raccontare che cosa le era accaduto su Twitter, chiedendo ai suoi nuovi interlocutori se, secondo loro, aveva detto qualcosa di poco opportuno o di offensivo. Si è sfogata affermando che voleva solo difendere i suoi connazionali perché, anche se ora vive in Svizzera, si sente sempre italiana e poi ha tutti i diritti di dire la sua opinione, visto che in Italia paga regolarmente le tasse. Insomma, su Facebook Rita si è tolta qualche sassolino dalle scarpe e ha tacciato i frequentatori di Twitter di intolleranza, visto che non le hanno permesso di argomentare le sue ragioni e l'hanno anche apostrofata in modo offensivo, dicendole che era "solo una cantante" e quindi non all'altezza di intervenire in un dibattito così importante. Da Facebook è inaspettatamente arrivato un sostegno totale e uno sprone a non mollare. Per questo motivo Rita, anche se amareggiata, ha deciso di rimanere su Twitter. Diversi fans le hanno scritto che Twitter è molto snob e che lì, più che su altri social, vige il pensiero unico, quello dei cantanti "guru" che quando esprimono un concetto diventa vangelo. La Pavone, rinfrancata dall'affetto e dal sostegno dei suoi ammiratori, ha deciso di andare avanti con il dibattito per battere la meschinità di certe persone: ha ripreso il portatile e si è detta pronta a dare battaglia, anche se il campo questa volta non è "Ballando con le Stelle", ma il quotidiano di tanta gente che merita anche il suo aiuto. 

Direttamente dalla pagina Facebook ufficiale di Rita Pavone: Ieri ho scoperto che i social sono molto poco...social. Ho bloccato così tanta gente che neppure l’ascensore rotto di un grattacielo…E sapete da cosa è nato il tutto? Da questo mio semplice twitter: “Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati”. Ho detto qualcosa di poco opportuno? Ho detto qualcosa di blasfemo? Ho detto qualcosa di offensivo? Beh… Eppure qui si è scatenato l’inferno…! Mi sono beccata di tutto: da fascista, a schifosa razzista, a fomentatrice di razzismo… Un delirio! Parrebbe un paradosso visto che difendevo i MIEI di connazionali – dico MIEI perché, per chi non lo sapesse, io ho un doppio passaporto, Svizzero e Italiano, ed essendo di origini italiane, cosa di cui vado fiera! è ovvio che ci tenga molto alla mia gente e al mio Paese, dove, tra l’altro, voto pure. Inoltre, pur abitando da quasi 50 anni in Svizzera, pago regolarmente anche in Italia fior di tasse: il 30% alla Fonte! Quindi, vedete, ho tutte le carte in regola per poter dire il mio pensiero senza venire azzannata da idioti somari. Sapete perché ho scritto quel tw? Perché in casi di cataclismi, si parla sempre di tendopoli o di containers che dovrebbero servire SOLO ed esclusivamente per l’emergenza. Ma poi una volta che il momento emotivo è passato, che non si contano più i morti, che non si fanno più servizi televisivi sui superstiti e che quindi del terremoto non se ne parla più, ecco che le tendopoli e i containers rimangono ma delle case da ricostruire neanche l’ombra. Così come le donazioni che vengono fatte dalla gente e di cui poi non si sa più nulla…Ho lavorato anni addietro nel Belice, e lì c’è gente che, 48 anni dopo (48 sic) vive ancora nei containers in attesa di una casa. Alla faccia dello stato di emergenza! Stessa cosa vale per l’Aquila…Cosa hanno ricostruito sino ad oggi? Niente! E sarà così, statene pur certi, anche negli anni a venire…Si sono salvati solo i terremotati dell’Emilia Romagna e del Friuli, poiché la loro gente si è tirata su le maniche e hanno ricostruito tutto da soli. Se aspettavano che lo facesse lo Stato…campa cavallo che l’erba cresce…. E’ vero che la gente teme gli sciacalli, i quali, una volta presi con le mani nel sacco dovrebbero essere buttati in una cella e gettata via la chiave per sempre ! e quindi preferirebbero non abbandonare mai le proprie case per non vedersi derubare del tutto, ma basterebbe una buona e stretta sorveglianza e questa povera gente non si vedrebbe costretta a stare all’addiaccio di notte ma potrebbe riposare in un comodo letto come fanno coloro che ospitiamo e che NON sono tutti in fuga da paesi in guerra, come ci vogliono far credere, ma, la maggior parte di loro, vengono da noi per trovare una situazione economica più favorevole. E in questo io non ci trovo assolutamente nulla di male. Detto ciò, sentirsi però poi dare dell’idiota e del “canta che è meglio”, che ho la … “pappa” nel cervello ecc.ecc, credo non faccia piacere a nessuno. O addirittura leggere “Si vergogni! Qui vengono fuori le sue vere origini …” come se io provenissi da una famiglia di ladri. Delle mie origini, gente, io vado fiera! Sono figlia di un operaio della Fiat, gran lavoratore, e di una casalinga…Sono la terza di 4 figli, e a 12 anni già lavoravo. In nero !!! A questi poveri schizzati, drogati nel cervello e fusi nell’anima, ho risposto: “Lavatevi la bocca, gentaglia. E quando avrete fatto quello che ho fatto io, per me stessa e da sola, solo allora forse potrete parlare!” Adesso avrete capito perché avevo deciso di chiudere il mio tw. Ma voi, Amici miei, con il vostro affetto e con i vostri bellissimi messaggi, mi avete indicato che non bisogna mai gettare la spugna. Soprattutto davanti alle meschinità e alla malvagità di certe persone. Allora ho rimesso i piedi per terra e mi sono rialzata, e adesso, credetemi, sono più combattiva che mai. GRAZIE !!

Rita Pavone, la zanzara: dal buonismo alla responsabilità, scrive Edoardo Varini su “L’Inkiesta” il 31 Agosto 2016. Desta scalpore il tweet di Rita Pavone sull'ospitare anche i terremotati – come gli immigrati – negli alberghi. Testualmente: «Tende no! Se ospitiamo in albergo coloro che accogliamo quotidianamente, a maggior ragione lo si faccia per i nostri connazionali terremotati». Il ragionamento non fa una grinza. Ma il problema è che ad essere terremotate, prima ancora delle aree colpite dal sisma, sono le teste dei nostri governanti e di tutti coloro che credono sia ancora una cosa up to date, emancipata, che "fa figo" ostentare la convinzione che gli uomini di colore sono alla nostra stregua. Che se solo lo devi ostentare, perdonatemi, è perché non lo pensi. È perché hai la coscienza sporca. Una frase di una tale lucidità non l'ha detta un accademico, un politico, un giornalista di fama, no, l'ha detta Rita Pavone, "Rita la zanzara", come dal titolo del film che la vede protagonista e che echeggia una testata studentesca del milanese Liceo Parini, sequestrata per oscenità pochi mesi prima dell'uscita del film. Tra i collaboratori del giornale da 50 lire a copia vi erano futuri giornalisti quali Walter Tobagi e Vittorio Zucconi, gente che sin da giovane con l'informazione ci sapeva fare. I soli che non lo compravano, il giornale, erano quelli di "Gioventù studentesca": da immaginarselo, la futura "Comunione e liberazione". Il testo incriminato era un'inchiesta sulla sessualità giovanile, dove si leggevano frasi per l'epoca intollerabilmente eversive quali: «Se potessi usare gli anticoncezionali non mi porrei limiti nei rapporti prematrimoniali», detto da una studentessa. Figuriamoci! Non è la prima volta che il nome di Rita Pavone si accosta a un capovolgimento del modo di pensare: allora, dal moralismo al Sessantotto. Oggi dal buonismo alla responsabilità.

Commentare le notizie senza leggerle, quando Facebook è lo specchio dell’Italia di oggi. Cosa succede quando un gesto di disperazione (non) è di un lavoratore italiano, scrive Emanuele Capone il 29/07/2016 su "La Stampa". Ripubblichiamo l’articolo comparso su Il Secolo XIX che ricostruisce la vicenda dei commenti all’articolo pubblicato il 28 luglio sull’edizione online. Ieri mattina abbiamo pubblicato sulla pagina Facebook del Secolo XIX la notizia dell’uomo di 38 anni che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana (foto) dopo avere perso casa e lavoro, ma senza specificare che si tratta di un cittadino marocchino. Abbiamo scritto semplicemente che «un uomo di 38 anni, sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti alla moglie e ai figli». Il primo commento è arrivato 4 minuti dopo la pubblicazione del post: «Diamo lavoro agli altri...», con tanto di “mi piace” di un’altra persona che evidentemente ha la medesima opinione; poi, un diluvio: «(con gli, ndr) immigrati non lo fanno», «aiutiamo gli italiani come il signore», o anche, in rapida sequenza, «per lui non esistono sussidi, alberghi e pranzi pagati, vero?» e «aiutiamo gli altri, noi carne da macello», «come mai non gli hanno dato un albergo a tre stelle come ai (suoi, ndr) fratelli migratori?», e i vari «ma noi... pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)» e «invece agli immigrati... » o il più articolato «ma perché, perché... basta andare a Brindisi, imbarcarsi per l’Albania e fare ritorno a Brindisi il giorno dopo... vestito male... e il gioco è fatto!». È solo quasi 4 ore dopo la condivisione del post che qualcuno legge la notizia e si accorge che il 38enne è in effetti un cittadino straniero, e lo fa notare agli altri: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Proprio così: sino a quel punto, evidentemente, moltissimi avevano commentato basandosi solo sul titolo, senza nemmeno sapere su che cosa stavano esprimendo la loro opinione. Da quel momento, il tenore degli interventi cambia, c’è chi fa notare a molti dei primi commentatori che «guardate che è marocchino» e comunque il post perde rapidamente d’interesse: il 38enne non è italiano e quindi, come fa notare qualche irriducibile, «non avremo perso nulla...». Quel che è accaduto ieri dimostra innanzi tutto qual è il rapporto degli italiani (di una parte, almeno) con i cittadini stranieri: nessuna sorpresa qui, purtroppo. E nemmeno sorprende quel che è diventato il rapporto degli (stessi?) italiani con l’informazione: se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza. Ed è anche per questo, per la mancanza di attenzione di chi legge, che da tempo il rapporto dei siti d’informazione con commenti e commentatori è parecchio travagliato. E nell’ultimo anno non è migliorato: «Spegniamo i commenti per un po’», aveva annunciato The Verge a luglio 2015, più o meno nello stesso periodo in cui la Bbc si chiedeva se «è iniziata la fine dei commenti online». In realtà, almeno per il momento, i commenti sopravvivono, ma sempre più siti decidono di passare la “patata bollente” (di chi insulta, offende, minaccia di morte, si esprime in modo razzista e così via) a Facebook: sotto gli articoli non si può più commentare e si è “costretti” a farlo sui social network, dove chi scrive è identificabile con un nome e un cognome e soprattutto dove la responsabilità legale diventa personale (perché anche i giornali devono tutelarsi): se offendi, vieni chiamato tu a rispondere , non chi gestisce il sito. Pensateci, se siete fra le oltre 60mila persone che ieri si sono viste passare davanti su Facebook la notizia dell’uomo (sì, un marocchino) che ha cercato di darsi fuoco a Sarzana e avete lasciato un commento basandovi solo sul titolo. Se a scuola vi hanno insegnato a leggere, prima che a scrivere, un motivo ci sarà. Abbiamo scelto di non pubblicare qui i nomi dei commentatori, ma il post è pubblico: se siete curiosi, potete trovare gli autori sulla nostra pagina su Facebook.

Filippo Facci censurato. Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano il 31 luglio 2016, la furia e lo sdegno: "Il popolo di fessi e cretini". I social network talvolta possono essere divertenti, ma sono quasi sempre dannosi. Amplificano i luoghi comuni, danno voce a chi di norma non ne ha e ciò ha un valore democratico almeno apparente. Non serve combatterli e chiederne l’abolizione. Chi non ha niente da dire di solito è molto ciarliero e si esprime con veemenza verbale nella speranza - vana - di farsi sentire e di avere udienza. La maggioranza dei fruitori dei social è costituita da gente isterica che si sfoga insultando chiunque abbia un ruolo più o meno importante, politici, uomini e donne sotto i riflettori, insomma i cosiddetti vip. I luoghi di incontro telematico sono la versione moderna e ingigantita del bar commercio, dove ciascuno dice la prima scemata che gli viene in testa, raramente verificando l’attendibilità delle proprie sparate. Su Twitter e su Facebook dominano il turpiloquio, l’invettiva e l’ingiuria. Persone anonime si divertono un mondo ad avere accesso alla piazza web che consente loro di sparacchiare giudizi anche temerari, comunque incauti, di sicuro poco ponderati. I social permettono a tutti di porsi in evidenza, anzi di illudersi di contare qualcosa e di orientare l’opinione pubblica. Però sul piano pratico non so fino a che punto le idee della folla che usa internet per farsi notare incidano sulle decisioni di chi ha in mano le leve del potere. Poco, suppongo. Anche perché l’uso del computer in Italia è ancora limitato alle persone giovani che hanno dimestichezza con le tecnologie avanzate. Osservando quanto avviene sui social si ha poi la sensazione che essi siano un moltiplicatore di banalità atte ad incrementare il conformismo. Chi esce dagli schemi più diffusi del pensiero unico, quello di moda, si trova a dover combattere con una massa di disinformati che però, essendo assai folta, si ritiene forte e invincibile. L’esempio più eclatante lo si è avuto in questi giorni. Il nostro ottimo inviato Filippo Facci, per aver scritto articoli documentati e vigorosi contro le violenze islamiste, è stato confinato all’indice da Facebook, escluso dalla community quale elemento indesiderabile. In altri termini, censurato, bocciato quale disturbatore intollerabile di coloro che sono al servizio della divulgazione convenzionale. Facci, giornalista eminente di Libero, come tutti può piacere o no, ma è indubbio che sia un uomo di rara intelligenza e capace di interpretare i fatti della vita in modo originale. Sull’islam egli ha scritto pagine che è da fessi sottovalutare in quanto offrono spunti di riflessione profonda. Ebbene, poiché le sue tesi non rientrano nel calderone delle insulsaggini correnti, i guardiani di Facebook le hanno disinvoltamente oscurate, quasi si trattasse di bestemmie. Ormai siamo a questo punto. Chi non sta con i musulmani, assassini o no, in Italia è sgradito, considerato un reietto, un fascista, peggio, un essere indegno di ospitalità. Fossi in Facci, mi vanterei di essere respinto dai cretini. Libero è suo e lo sarà sempre. Vittorio Feltri

E poi la pietra tombale...

«I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli», scrive “La Stampa” il 10 giugno 2015. Attacca internet Umberto Eco nel breve incontro con i giornalisti nell’Aula Magna della Cavallerizza Reale a Torino, dopo aver ricevuto dal rettore Gianmaria Ajani la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” perché «ha arricchito la cultura italiana e internazionale nei campi della filosofia, dell’analisi della società contemporanea e della letteratura, ha rinnovato profondamente lo studio della comunicazione e della semiotica». È lo stesso ateneo in cui nel 1954 si era laureato in Filosofia: «la seconda volta nella stessa università, pare sia legittimo, anche se avrei preferito una laurea in fisica nucleare o in matematica», scherza Eco. La sua lectio magistralis, dopo la laudatio di Ugo Volli, è dedicata alla sindrome del complotto, uno dei temi a lui più cari, presente anche nel suo ultimo libro `Numero zero´. In platea il sindaco di Torino, Piero Fassino e il rettore dell’Università di Bologna, Ivano Dionigi. Quando finisce di parlare scrosciano gli applausi. Eco sorride: «non c’è più religione, neanche una standing ovation». La risposta è immediata: tutti in piedi studenti, professori, autorità. «La tv aveva promosso lo scemo del villaggio rispetto al quale lo spettatore si sentiva superiore. Il dramma di Internet è che ha promosso lo scemo del villaggio a portatore di verità», osserva Eco che invita i giornali «a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno». «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno». 

TERREMOTO E BENEFICENZA. "Non darò nemmeno un euro per i terremotati: ci pensi lo Stato". Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva, si oppone all'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non prevenire i disastri dei terremotati, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 30/08/2016, su "Il Giornale". In molti in Italia si sono mossi per fare qualcosa per gli sfollati del terremoto che ha colpito sei giorni fa il Centro Italia. Tantissimi hanno donato 2 euro per i terremotati attraverso il numero messo a disposizione dalla Protezione Civile. Molti, ma non Lino Ricchiuti, il leader del Popolo delle Partite Iva. Persona molto ascoltata da quelle persone vessate dal fisco e spesso minacciate da Equitalia. "Non do una lira per i terremotati". Una posizione scomoda e controcorrente. Che può essere apprezzata oppure no, ma comunque deve essere ascoltata. "Scusate - ha scritto - ma io non darò neanche un centesimo di euro a favore di chi raccoglie fondi per le popolazioni terremotate. So che la mia suona come una bestemmia. E che di solito si sbandiera il contrario, senza il pudore che la carità richiede. Ma io ho deciso. Non telefonerò a nessun numero che mi sottrarrà due euro dal mio conto telefonico, non manderò nessun sms". Lino Ricchiuti va a ruota libera. Non lo hanno "impressionato" le immagini del disastro, "i palinsesti stravolti" e "il pianto in diretta" di Renzi. "Non do un euro - dice - E credo che questo sia il più grande gesto di civiltà, che in questo momento, da italiano, io possa fare". "Ecco perché non faccio beneficienza per il sisma". Il motivo? L'Italia ha già i soldi per far fronte alle emergenze. Ai terremotati ci dovrebbe pensare lo Stato con le tasse che tanti italiani pagano ogni giorno. Ogni giorno. Ogni mese. Ogni anno. "Non do un euro - continua Ricchiuti - perché è la beneficenza che rovina questo Paese, lo stereotipo dell’italiano generoso, del popolo pasticcione che ne combina di cotte e di crude, e poi però sa farsi perdonare tutto con questi slanci nei momenti delle tragedie". Stanco di un'Italia in cui "la beneficienza fa da pretesto" per non pensarci prima. Un Paese in cui è sempre meglio curare che prevenire, perché in fondo la beneficienza smuove i cuori di tutti. "Soffriamo (e offriamo) una compassione autentica. Ma non ci siamo mossi di un centimetro". Uno Stato che incassa oltre il 50% di quello che produce un suo cittadino, non merita altri soldi. "Non do una lira, perché pago già le tasse. E sono tante. E in queste tasse ci sono già dentro i soldi per la ricostruzione, per gli aiuti, per la protezione civile. Che vengono sempre spesi per fare altro". "Avrei potuto scucirlo qualche centesimo - ammette Ricchiuti - (...) ma io non sto con voi politici", perché "voi siete per una solidarietà che copra le amnesie di una giustizia che non c’è. Io non lo do, l’euro. Perché mi sono ricordato che mio padre, che ha lavorato per 40 anni in campagna, prende di pensione in un anno meno di quanto un qualsiasi parlamentare guadagna in un mese. E allora perché io devo uscire questo euro?". Il ragionamento, seppur emotivo, ha una sua logica. Certo: forse le raccolte fondi per un terremoto simile le avrebbero fatte anche nella efficientissima Germania. Però lì non è sempre un'emergenza. "Voglio solo uno Stato efficiente, dove non comandino i furbi. E siccome so già che così non sarà, penso anche che il terremoto è il gratta e vinci di chi fa politica". Un fondo di verità c'è: l'Irpinia e L'Aquila insegnano. "Ci sono migliaia di sprechi di risorse in questo paese ogni giorno - conclude Ricchiuti-. Se solo volesse davvero, lo Stato saprebbe come risparmiare per aiutare gli sfollati". E quindi "io non do una lira", ma "il più grande aiuto possibile: la mia rabbia, il mio sdegno. Perché rivendico in questi giorni difficili il mio diritto di italiano di avere una casa sicura".

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 31 agosto 2016: perché non si dovrebbe dare un euro in beneficenza ai terremotati. Mandare al diavolo questo clima solidaristico e dichiarare solennemente che non metterò un euro per il terremoto, sostenere che nessuno in effetti dovrebbe metterlo perché lo Stato ha tutti i fondi e le risorse per affrontare queste cose, non cedere al ricatto emotivo di un Paese culturalmente imperniato sull’emergenza anziché sull’organizzazione, votato al volontariato anziché al dovere professionale e civico, fondato sulla beneficenza, sul numerino da chiamare, l’sms da mandare, su giornali e telegiornali e cantanti e personalità che mostrano immagini della catastrofe con sovraimpressi gli estremi per restare arruolati al circo della fratellanza improvvisata: sì, la tentazione c’è, la voglia di chiamarsi fuori è forte. 

Fiorello posta un video su Facebook pubblicato da “Corriere Tv” il 29 agosto 2016 per parlare della sua diffidenza nei confronti dei concerti organizzati per beneficenza: «meglio fare in privato», dice. «Ieri lutto nazionale, seguire i funerali è stata una cosa drammatica, genitori che piangono i figli, quando si sopravvive ai propri figli, me lo diceva mio padre - dice Fiorello - ...la macchina della solidarietà è partita alla grande, e occhio attenzione, sono stato già invitato ad almeno quattro manifestazioni per raccogliere fondi. Occhio a queste manifestazioni che facciamo noi del mondo dello spettacolo. Perché se per organizzare le cose devi spendere soldi, non devolvi tutto tranne le spese, allora non lo fai. O fanno tutti beneficienza o non vale la pena. Occhio a chi organizza questi spettacoli. Visto che ho ricevuto questi inviti - continua Fiorello - io mi fiderei di più se lo spettacolo fosse organizzato da una onlus o da una organizzazione affidabile, altrimenti la storia insegna...mi piacerebbe avere nome e cognomi. Spettacoli che si faranno pro terremoto bisogna stare attenti. Troppa gente dietro, troppi organizzatori, mi fanno paura. È meglio fare ognuno a modo suo, io preferisco fare la beneficienza privata, dai i soldi direttamente e il gioco è finito».

TERREMOTO E TRUFFE. Terremoto, un affare chiamato sisma: come evitare donazioni ai furbi. Lucrare sulle tragedie - Attenti alle associazioni che chiedono soldi senza indicare come verranno spesi, scrive Barbara Cataldi il 26 agosto 2016 su “Il Fatto Quotidiano". Pannolini, spazzolini, assorbenti, ma anche piatti di carta, sapone, scarpe: ieri beni di ogni genere sono stati raccolti in circoscrizioni e parrocchie. Mentre la terra tremava e le vittime venivano estratte dalle macerie, gli italiani si lanciavano in una commovente gara di solidarietà. Ma è stato inutile: Fabrizio Curcio, il capo della Protezione Civile ha stoppato i più generosi. “Non inviate cibo e indumenti, non abbiamo carenze, il modo migliore di aiutare è l’sms solidale al 45500“. Alla popolazione colpita servono solo soldi per la ricostruzione. Però si moltiplicano le reti di solidarietà per la raccolta fondi. Solo nella prima giornata la Croce Rossa ha raccolto 170mila euro (causale “sisma centro Italia” (Iban IT40F0623003204000030 631681). Ma le donazioni più numerose stanno arrivando attraverso il 45500 della Protezione Civile: due euro inviando ogni sms o chiamando da rete fissa. Anche Poste Italiane, in collaborazione con Cri, ha istituito un conto corrente ad hoc (causale “Poste Italiane con Croce Rossa Italiana – Sisma del 24 agosto 2016”, Iban IT38R0760 10300000 0000900050). Non sempre, però, le iniziative che vengono pubblicizzate, soprattutto su Facebook o whatsapp con passaparola tra amici e conoscenti, brillano per trasparenza. Spesso non si comprende chi tenga le fila dell’organizzazione promotrice o a cosa davvero servano i soldi raccolti. Il rischio di incorrere in un’associazione che utilizza il disastro per farsi pubblicità, o addirittura in chi mette in piedi una vera e propria truffa, è concreto. In passato c’è stato chi dopo il sisma in Emilia del 2012 ha intascato indebitamente 120.000 euro per il sostentamento fuori casa, mentre non si è mai mosso dalla sua abitazione inagibile di Crevalcore, chi dopo il terremoto dell’Aquila del 2009 ha percepito più di 700.000 euro grazie a false dichiarazioni di danni mai subiti, o chi a Monza nel 2013 ha distribuito volantini per la raccolta fondi per le vittime dell’alluvione in Sardegna utilizzando il simbolo Cri, ma mettendo il proprio nome e numero di telefono. “Associazioni di solidarietà come la nostra, non devono raccogliere fondi – spiega Costas Moschochoritis, direttore di Intersos – a questo pensano le istituzioni. Noi dobbiamo offrire il nostro contributo per aiutare le persone colpite dal dramma, con servizi complementari, come il sostegno psicologico”. Da oggi gli psicologi volontari di Intersos saranno presenti nelle zone devastate dal sisma per aiutare bambini e anziani ospitati nel campo di Accumoli. Se si dà uno sguardo ai profili Facebook di tante associazioni, sorge il dubbio che il terremoto sia diventato un’occasione per promuovere il proprio marchio e raccogliere fondi per il proprio sostentamento, senza dare garanzie o spiegazioni su come i soldi verranno spesi. Action Aid, associazione internazionale per le adozioni a distanza, ha lanciato sui social il suo spot: “Emergenza terremoto Centro Italia. Non c’è tempo da perdere abbiamo bisogno del tuo aiuto adesso. Dona ora”. Ma per fare che? E così anche per Cesvi (cooperazione allo sviluppo dei Paesi più poveri). Sulla sua homepage c’è una foto di una donna tra le macerie. Si parla di un primo intervento per la distribuzione di beni di prima necessità. “Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti, DONA ADESSO”. Ma sul campo non c’è già la Protezione Civile? Inoltre il territorio colpito dal sisma è scarsamente abitato, nelle tendopoli c’è un numero di persone relativamente piccolo. Con i soldi delle donazioni, allora, cosa ci faranno? Ci piacerebbe saperlo prima di mettere mano al portafoglio. Save the children ha istituito un Fondo emergenza per l’allestimento di uno spazio a misura di bambino, che aiuti i più piccoli ad affrontare il trauma subito con l’aiuto di educatori esperti. Se si compila il form si scopre l’entità della donazione: 30 euro. Servirà solo per uno spazio di sostegno psicologico, che gli operatori di Intersos hanno messo in piedi gratuitamente? “Ad Amatrice abbiamo istituito uno spazio per ospitare i bambini – spiega Giusy De Loiro di Save the children – e aiutarli con un laboratorio di favole e disegni a superare il trauma. Le donazioni ci servono per pagare materiali e i professionisti che lavorano per noi”. “Abbiamo chiesto al ministero dall’Interno di gestire in modo centralizzato le campagne di solidarietà e le raccolte fondi – afferma Carlo Rienzi, del Codacons – Ciò per evitare gli errori del passato: quando i milioni di euro versati dagli italiani per alluvioni e terremoti sono rimasti inutilizzati”. Per evitare inganni è bene dare il proprio contributo sempre attraverso associazioni o enti che si conoscono; se chi promuove l’iniziativa non è un’istituzione dello Stato, è meglio donare solo quando è chiaro il progetto su cui i nostri soldi verranno investiti, in modo da poter verificare la sua realizzazione. Meglio fare la donazione solo dopo aver verificato l’esistenza dell’associazione e attenzione alle mail con richiesta d’aiuto, il link potrebbe essere stato creato per carpire i nostri dati.

ATTENZIONE ALLE TRUFFE SU DONAZIONI FANTASMA. Scrive il 25 Agosto 2016 Dominella Trunfio. C’è una mobilitazione generale nelle ultime ore perché davanti alle tragedie, il popolo italiano si stringe sotto la parola solidarietà. Chiunque nel proprio piccolo cerca di contribuire ad alleviare le sofferenze dei terremotati attraverso donazioni di sangue, indumenti, alimenti e denaro. E la speranza è sempre quella che effettivamente tutto vada a finire nelle mani giuste, ovvero di chi è rimasto senza famiglia, senza casa e senza certezze. I social network sono invasi da appelli e da eventi che parlano di centri di raccolta di beni di prima necessità. Tutte iniziative lodevoli, ma anche in questo caso la parola d’ordine è occhio allo sciacallaggio, per cui il consiglio è sempre quello di fare donazioni tramite enti che riteniamo attendibili come Comuni, Protezione Civile e associazioni fidate che hanno aperto conti iban dedicati all’emergenza terremoto, mai quindi a singole persone che si spacciano per persone di cuore. Lo scetticismo che spesso abbiamo nel donare, è dovuto principalmente a fatti di cronaca negativi che ci hanno fatto perdere un po' di fiducia. All’indomani del terremoto in Abruzzo, chi non ricorda lo scandalo dei 5 milioni di euro di donazioni che non sono mai arrivati nelle tasche dei terremotati? Lì, la questione era complessa e i soldi gestiti tramite sms, che sarebbero dovuti servire per la ricostruzione dell’Aquila, sono finiti alle banche, grazie al cosiddetto "metodo Bertolaso". Il paradosso era stato proprio il fatto che quei soldi destinati ai terremotati erano stati gestiti come qualsiasi fondo, per cui la condizione stessa di "terremotato" non andava a soddisfare i criteri di solvibilità. Insomma, senza aprire un dibattito economico, la sostanza è che le vittime del terremoto non avevano potuto accedere a quei fondi che erano stati donati proprio a loro, perché già destinati a un consorzio finanziario di Padova, l’Etimos con un fondo di garanzia bloccato per 9 anni, trasferito poi alla Regione Abruzzo. Migliore sorte non era toccata poi ai terremotati dell’Emilia Romagna, anche qui non si può dimenticare la lunga battaglia dei sindaci emiliani che davanti alle telecamere gridavano di non "aver visto un euro per la ricostruzione post terremoto". Dove erano (e sono) finiti i 15 milioni di euro che generosamente gli italiani e non solo avevano donato in beneficenza? Franco Gabrielli, capo della Protezione Civile, prova a dare una spiegazione attraverso le pagine del Corriere: «Purtroppo l’iter non si può comprimere più di tanto, se si vuole assicurare trasparenza. Innanzitutto una precisazione sulla cifra, i 15 milioni non sono versamenti ma promesse di versamento. La differenza è sottile ma decisiva. Nel senso che i vari gestori (Tim, Vodafone, Wind eccetera) prima di versare alla Tesoreria dello Stato l’importo corrispondente agli sms, devono effettivamente incassare la cifra. Io posso anche inviare un messaggio ma se poi per qualche ragione non lo pago, il gestore non versa».

TERREMOTO E BUROCRAZIA. Un Paese fragile ed esposto con una folle burocrazia. Una cifra enorme è stata spesa dallo Stato per le ricostruzioni post sisma. Ma secondo gli esperti sono almeno 12 milioni gli immobili ad alto rischio, scrive Antonio Signorini, Venerdì 26/08/2016, su "Il Giornale". Roma I terremoti hanno segnato l'Italia. Colpa della posizione geografica, al confine tra la zolla africana e quella euroasiatica, spiegano gli esperti. La frequenza è di un sisma distruttivo ogni cinque anni. Cento all'anno di quelli innocui, percepibili dalla popolazione. Ma la storia del nostro Paese è funestata anche dalle ricostruzioni. Processi lunghi, complicati e frutto di scelte opache. Alle difficoltà di tipo fisico di un post terremoto, ad esempio il recupero e la ricostruire centri storici semidistrutti e la sostituzione di vecchie case con nuovi edifici antisismici, si sommano gli effetti delle caratteristiche della nostra politica e della burocrazia. Ricostruzioni dai tempi biblici, continui rifinanziamenti e spese che aumentano di anno in anno senza controllo e senza che le popolazioni colpite ne traggano beneficio. Mali antichi, riassumibili in due cifre contenute in un rapporto del Consiglio nazionale degli ingegneri. Dal 1968 a oggi i terremoti sono costati 121 miliardi e 608 milioni di euro. Attenzione, è spesa pubblica, non gli effetti sul Pil che si sono fatti sentire su famiglie e imprese, che sono un'altra storia. Soldi stanziati dal 1968 a oggi, attraverso un numero incredibile di leggi e decreti, emanati anche a distanza di 40 anni dal terremoto di cui si occupano. Sono 137 in tutto. La stima, a costi attualizzati, è precisissima. Il terremoto più oneroso è stato quello dell'Irpinia del 1980. In tutto 52 miliardi stanziati da 33 diverse leggi, che impiegheranno somme fino al 2023. L'ultima legge sul terremoto campano varata è del 2008, 28 anni dopo la tragedia. Ancora più longevo il terremoto del Belice. Prima legge varata nel 1968, anno della tragedia, ultimo provvedimento nel 2007. La spesa complessiva è di 9 miliardi e 179 milioni e avrà effetti fino al 2018. Il sisma che ha distrutto L'Aquila del 2009 è costato 13,7 miliardi, quello dell'Emilia del 2012, 13,3. Quello del Friuli del 1976, 18,5 miliardi, ma ha impegnato solo 9 leggi e gli effetti finanziari si sono fermati nel 2006. Le ricostruzioni dei terremoti, senza contare le altre calamità naturali, rappresentano una voce importante della spesa pubblica che ha più volte fatto sollevare la questione se ne debba occupare lo Stato oppure, visto che le case sono beni privati, non sia meglio percorrere la strada delle polizze assicurative obbligatorie. Soluzione che finirebbe per fare aumentare le spese che devono affrontare i proprietari di immobili e metterebbe nei guai anche le compagnie assicurative. L'alternativa è quella di un piano generale di messa in sicurezza degli edifici che si trovano nelle aree a rischio. Le più pericolose sono quelle costruite prima del 1974, che sono il 50% del totale. Sempre secondo il Consiglio degli ingegneri, servirebbero circa 93 miliardi per mettere in sicurezza 12 milioni di immobili che si trovano in zone ad alto rischio terremoti. Meno di quanto ha speso lo Stato per ricostruire.

Colpa di un funzionario distratto: così Amatrice ha perso i contributi per salvare le case, scrive “Libero Quotidiano” il 26 agosto 2016. La burocrazia, un funzionario distratto, una legge sbagliata e addio contributi anti-terremoto. Spunta un sinistro retroscena sul sisma di Amatrice e sulle macerie. Secondo La Repubblica un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l'elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa ha determinato la perdita di due milioni di euro che sarebbero serviti per consolidare le abitazioni fragili. Invece sono arrivati solo duecento mila euro. L'inchiesta per disastro colposo aperta dal procuratore capo di Rieti Giuseppe Saieva dovrà accertare le responsabilità. Di sicuro la burocrazia ha giocato un ruolo letale. Subito dopo il terremoto dell'Aquila, i comuni di Amatrice e Accumoli furono classificati "categoria 1", cioè massimo rischio sismico. L'allora governo Berlusconi stanziò quasi un miliardo da utilizzare entro il 2016 per le zone rosse: i soldi sono gestiti dalla Protezione civile, l'assegnazione ai comuni passa attraverso una graduatoria regionale. Questi soldi servivano ai privati cittadini per sistemare le loro case e renderle più sicure. Lo Stato garantisce da 100 a 200 euro al metro quadrato, per piccoli interventi di consolidamento. Interventi che magari non salvano una casa ma le vite sì. In estate, la popolazione di Amatrice supera le 15mila persone, per l'ufficio anagrafe i residenti effettivi non sono più di 2.750. Quindi quasi tutte le abitazioni private sono seconde case. Ad Amatrice - secondo La Repubblica - è accaduto che un dirigente poco solerte abbia spedito a Roma le richieste dei suoi cittadini quando ormai erano scaduti i tempi di consegna, facendo perdere così ogni diritto ai finanziamenti a chi (meno di dieci persone) che aveva fatto domanda. Un caso emblematico di come fosse stata presa seriamente l'opportunità del consolidamento antisismico. Ma c' è un altro motivo per cui fino ad oggi dei 10 milioni assegnati al Lazio ne sono stati spesi appena tre. La Regione Lazio ha inserito tra i requisiti per accedere ai fondi, la "residenza", e non la semplice proprietà della casa come invece prevede l'ordinanza della Protezione civile. Risultato: su 1342 domande presentate per il 2013-2014 alla regione, ne sono state accolte soltanto 191. Undici ad Amatrice per un totale di 124.700 euro, e sette appena ad Accumoli per 86.400. Diciotto piccoli interventi sull' ordine dei 10-15 mila euro per diciotto case. Poco. Troppo poco. 

Vittorio Feltri il 26 agosto 2016 su “Libero Quotidiano” contro lo Stato criminale: "Chi ha i morti sulla coscienza". Abbiamo svolto una breve ricognizione nei gangli della burocrazia e della politica e siamo riusciti con rapidità a scoprire leggi formalmente complete che disciplinano la materia edilizia antisismica. Non la facciamo tanto lunga per evitare di annoiarvi e arriviamo subito al nocciolo della questione: quelle leggi, approvate negli anni Ottanta (quindi in ritardo rispetto alla necessità), sono quasi sempre state ignorate, e si è bellamente costruito dovunque lungo la dorsale appenninica senza adottare le precauzioni fissate nero su bianco, come se queste non fossero mai state vergate. Cosicché la stragrande maggioranza degli edifici eretti negli ultimi decenni non è in grado di resistere alle scosse telluriche. Tanto è vero che in occasione di terremoti molte case cadono come foglie morte provocando stragi di umani, schiacciati dalle macerie. Non solo. Stando alle opinioni degli esperti, anche gli stabili vecchi o addirittura vetusti, con una spesa relativamente bassa, potrebbero essere messi in sicurezza, così come buon senso suggerirebbe in un Paese ad alto rischio sismico. Meglio prevenire una ferita che leccarsela. In sostanza, se le norme sopra citate fossero state tradotte in pratica avremmo addirittura risparmiato e, soprattutto, salvato migliaia di vite. Se poi si tiene conto dei miliardi investiti in varie ricostruzioni l'indomani di ogni catastrofe naturale, non è difficile capire che se quei capitali fossero stati utilizzati per rinforzare in senso antisismico palazzi e palazzine, oggi non saremmo qui a disperarci per quanto accaduto nelle Marche, in Umbria e nel Lazio, trascurando i tragici precedenti dell'Aquila, dell'Emilia eccetera. Era preferibile sborsare per proteggersi che non per finanziarsi le esequie. Ciò che sorprende e amareggia è un fatto: il primo a non rispettare le leggi dello Stato è lo Stato stesso. Il quale possiede una miriade di stabili non in regola con le disposizioni che ha solennemente emanato: scuole, Poste, tribunali, enti di ogni specie. La cosa è incredibile solo per chi non conosca lo stile della pubblica amministrazione, che da lustri non versa neppure i contributi per i propri dipendenti, salvo pensionarli ricorrendo al denaro della fiscalità generale. Una ingiustizia raccapricciante. Figuriamoci se uno Stato furbetto e cialtrone quanto quello che abbiamo descritto si preoccupa di controllare che i cittadini edifichino secondo i criteri da esso stesso studiati, varati e violati. Se poi la gente muore sotto il proprio tetto, pazienza, si parla di fatalità, di furia degli elementi e altre simili stupidaggini. La verità è una e basta: il nostro Stato è criminale e pretende correttezza dai “sudditi”. Il cattivo esempio viene sempre dall'alto. Vittorio Feltri

Terremoti e norme, palude di regole e regolette. Sette anni dopo il sisma dell’Aquila, i cittadini ancora faticano a districarsi nella cervellotica poltiglia burocratica. Per ricostruire Amatrice, sarebbe meglio non ripetere gli stessi errori, scrive Gian Antonio Stella il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata», spiegò Franz Kafka nelle sue Conversazioni con Gustav Janouch. Lo ricordino, quanti stanno per mettere mano alle norme che guideranno la rimozione delle macerie, la ricostruzione e il ritorno alla vita di Amatrice e gli altri paesi annientati dal terremoto. Lo ricordino perché i cittadini aquilani sono ancora oggi, sette anni dopo il sisma, impantanati in una poltiglia di regole e regolette così cervellotiche da rendere difficile la posa di un solo mattone senza l’aiuto non solo di un geometra ma di una équipe di azzeccagarbugli. Ricordate il dossier di Gianfranco Ruggeri, l’ingegnere esasperato dalle demenze burocratiche che bloccavano i cantieri? Nei primi quattro anni dopo la scossa del 6 aprile 2009 erano piovuti sull’Aquila «5 leggi speciali, 21 Direttive del Commissario Vicario, 25 Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza, 51 Atti della Struttura Tecnica di Missione, 62 dispositivi della Protezione civile, 73 Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri, 152 Decreti del Commissario Delegato e 720 ordinanze del Comune». «Confesso però», ammise, «che nel casino qualche ordinanza municipale potrebbe essermi sfuggita». Totale: 1.109 lacci e lacciuoli. Aggiunte successive? Non si sa: «Mi sono stufato di contarle». Ma non si tratta solo di numeri esorbitanti. Il problema è quel che c’è dentro. La «scheda parametrica» varata dall’Ufficio speciale per la ricostruzione dell’Aquila per accelerare i lavori si auto-loda come «caratterizzata da norme innovative volte allo snellimento delle procedure» e garantisce «tempi rapidi di istruttoria». Bene: la sola «Scheda Progetto - Parte Prima» è corredata da un «Manuale istruzioni» con un indice di 114 capitoli per un totale di 258 pagine. Pagine che nel manuale per la «Scheda progetto parte prima aggiornato al Decreto n.4» salgono a 271. Auguri. Un esempio di semplificazione? «Il Coefficiente topografico di amplificazione sismica St, per configurazioni superficiali semplici, è determinato in base alla seguente classificazione prevista da NTC 2008, 3.2.2. Categorie di sottosuolo e condizioni topografiche “Le su esposte categorie topografiche si riferiscono a configurazioni geometriche prevalentemente bidimensionali, creste o dorsali allungate, e devono essere considerate nella definizione dell’azione sismica se di altezza maggiore di 30 m.”»...Un altro? «Ai sensi dell’art. 4 comma 8 del DPCM 4 febbraio 2013 il contributo deve ridurre la vulnerabilità e raggiungere un livello di sicurezza pari ad almeno il 60% di quello corrispondente ad una struttura adeguata ai sensi delle NTC2008 e successive modificazioni e integrazioni, fatta eccezione per gli edifici con vincolo diretto di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 Parte II…». Aveva ragione, tre secoli fa, l’abate Ludovico Muratori: «Quante più parole si adopera in distendere una legge, tanto più scura essa può diventare». Parole d’oro. Tanto da far sorgere il sospetto che proprio quella slavina di Leggi speciali, Direttive del Commissario Vicario, Atti delle Strutture di Gestione dell’Emergenza e così via sia stata accolta a suo tempo non con preoccupazione ma con giubilo da chi dietro le rovine vedeva l’occasione per fare affari. Come l’imprenditore che la notte del terremoto del 2009 «rideva nel letto» o l’assessore aquilano che in un’intercettazione (volgarotta, scusate) diceva: «Abbiamo avuto il culo del terremoto e con tutte ‘ste opere che ci stanno farsele scappà mo’ è da fessi…». Perché sempre lì si torna: nella fanghiglia creata da un diluvio di regole, ammoniscono le cronache di questi anni, il cittadino perbene impossibilitato a destreggiarsi senza violare questa o quella norma affoga, tanto più dopo che la sua vita è già stata devastata da un trauma spaventoso quale il terremoto. Al contrario, in quella fanghiglia, il faccendiere con le amicizie giuste e magari un retroterra mafioso sguazza come nell’oro. Oro alla portata degli imprenditori più spregiudicati. Al punto che nel caos generale, come denunciarono Don Luigi Ciotti e Libera, ci fu chi riuscì a piazzare all’Aquila perfino una quantità così esagerata di Wc chimici (34 milioni di euro!) che nelle tendopoli ogni sfollato avrebbe potuto produrre «fino a un quintale al giorno di pipì e di popò». Molto più di un elefante adulto. Anche ad Amatrice, in parallelo a una consolante efficienza e ad una straordinaria generosità dimostrate da tutti gli uomini dello Stato arrivati in soccorso alle popolazioni colpite, non è che la burocrazia sia ancora riuscita a cambiar passo. La prima ordinanza 388 della Presidenza del Consiglio, prima di arrivare al nocciolo, conteneva 7 «visto» e «vista», 1 «considerato», 1 «ritenuto», 1 «rilevato», 1 «ravvisata», 1 «atteso», 1 «acquisite»… Nella seconda i «visto» sono saliti a 9 più 1 «ritenuto», 1 «sentito», 1 «acquisite». Vecchi vizi. Per carità, amen. Non si può chiedere ai burosauri di cambiare di colpo in piena emergenza. Ma le regole per consentire ai cittadini rimasti senza casa di tornare a progettare il loro futuro devono essere radicalmente diverse da quelle elaborate in questi anni per altri sfollati. Devono essere chiare, severe nel pretendere il rispetto delle norme antisismiche, attente a evitare gli abusi del passato. Guai, però, se fossero così astruse da intimidire. E da aggiungere nuovi tormenti a questa nostra umanità tormentata.

TERREMOTO COME VOLANO DELL'ECONOMIA. La puntata di Porta a Porta andata in onda il 25 agosto 2016 dal titolo “Il cuore dell’Italia con loro Speciale Porta a Porta” che ha approfondito il disastro del terremoto del centro Italia, si è detta una grande verità, però sta facendo infuriare molti italioti benpensanti.

Bruno Vespa: “Questa sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia perché pensi l’edilizia che cosa non potrebbe fare”; 

Graziano Del Rio: “Adesso L’Aquila è il più grande cantiere d’Europa e anche l’Emilia è un grandissimo cantiere in crescita, farà PIL”; Bruno Vespa: “Darà lavoro ad un sacco di gente”. «Il Friuli era povero e col terremoto è diventato ricco». «Io incontrai un industriale davanti alle macerie della sua fabbrica. Era felice. Dico "ma scusi, le è crollata la fabbrica…". "Ma adesso la rifaccio più bella". Ecco, l’ottimismo, questo ci serve. Sarebbe una bella botta di ripresa per l’economia». 

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione. La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile. Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile. Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale".  Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna.  Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

TERREMOTO ED ADEGUAMENTO ANTI SISMICO. L'Italia dei terremoti, l'ingegnere: "Case antisismiche necessarie, le spese non sono il problema". Francesco Sylos Labini: "Ricostruire sullo stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere una follia, ma si può fare perché la decollocazione non funziona. Le norme tecniche per le costruzioni sono obbligatoria dal 2009, e sono ottime", scrive Katia Riccardi il 26 agosto 2016 su "La Repubblica". A guardarla bene, la mappa sismica dell'Italia dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (ordinanza Pcm del 28 aprile 2006 n.3519, All.1b), resta impressa come una foto dai colori troppo accesi. Il viola al centro come un'arteria a rischio, i bordi più chiari, arancioni, gialli, verdi. L'Italia è un Paese ad alto rischio. Altissimo in alcune zone, in altre medio, solo una minuscola porzione si salva dai terremoti. Siamo capaci di guardare lontano da qui, in California o in Giappone, invece anche lo stivale scalcia spesso, una volta ogni 4-5 anni una catastrofe distrugge tutto, eppure, riesce ancora a sorprenderci. L'Abruzzo è la regione storicamente più colpita dai terremoti: L'Aquila 1786, la Marsica e Avezzano 1904, Messina 1908, 1915 di nuovo la Marsica e Avezzano. Nel 1919 il terremoto al Mugello, 1930 l'Irpinia, la prima volta in questo secolo, poi ce ne fu un altro. Nel 1933 la Maiella, 1943 Marche e Abruzzo, 1958 L'Aquila, 1963 secondo terremoto in Irpinia, 1968 il Belice, 1976 il Friuli con mille morti e nel 1980 di nuovo l'Irpinia, la provincia di Salerno e un pezzo della Basilicata. Poi tre giorni fa, il 24 agosto. E se le case normali crollano con scosse di intensità 5-6 della scala Richter, solo negli ultimi 16 anni in Italia ci sono stati oltre 110 terremoti di varia intensità, da 4 fino a quel 6,3 che ha raso al suolo L'Aquila nel 2009. Le case non costruite a norma, collassano. I muri mal collegati ai solai cadono lateralmente, i solai precipitano nel vuoto e schiacciano tutto. La scossa da sottoterra muove le fondamenta, i piani bassi oscillano e fanno traballare quelli superiori. Ma è la seconda scossa, che arriva in senso inverso, a spezzare l'edificio come ossa sul ghiaccio. Ci vogliono gomma, legno, un certo tipo di acciaio più plastico per ammorbidire una costruzione e consentirle di ballare. Ci vogliono colonne, pilastri di cemento armato piazzati in punti specifici. Il risultato dipende sia dalle caratteristiche della casa che dai tipi di intervento. Che vanno dal rafforzamento della struttura, per esempio con gabbie in cemento armato, all'applicazione di isolatori, dissipatori e smorzatori, ad altre ancora. E questo costa, fino al 10, al 20 per cento in più del costo base. C'è una differenza importante tra prevedibilità di un terremoto e la sua inevitabilità. Prevedere consente di scappare, forse di non morire, ma ricostruire resta comunque inevitabile. Ripartire dalle briciole è certo più oneroso che aggiustare. "Costruire una casa antisismica costa di meno che aggiustarne una, un edificio esistente deve mantenere le sue origini storiche", spiega l'ingegnere Francesco Sylos Labini, professore all'università la Sapienza di Roma, progettista dell'intervento di recupero del Palazzo del governo a L'Aquila. "Il Friuli dopo il sisma è stato ricostruito dov'era e com'era, con materiali nuovi, ma le piazze, le strade sono invariati. Anche nel centro Italia si può fare, certo, contrasterebbe contro tutti i criteri di ingegneria, e ricostruire nello stesso posto dal punto di vista ingegneristico potrebbe essere considerata una follia. Nello stesso tempo, gli italiani sono legati ai loro paesi, è difficile delocalizzarli, le New Town non sono state un esperimento riuscito. E ricostruire si può", dice. Aggiungendo che, tutto sommato, la spesa non è poi così sconvolgente. Insomma non è la scusa. "Ora va fatta l'analisi degli edifici, alcuni, quelli storici, sono rimasti in piedi, ma l'attenzione è su quelli che sono crollati, ci sono interi pezzi di paesi spariti. Un tempo si costruiva bene, bisogna analizzare perché. E dare i numeri è difficile. Diciamo che dai 100 ai 300 euro a metro quadrato è una valutazione plausibile. La struttura è il costo minore, perché è povera di materiali, quello che pesa sul totale sono pavimenti, finestre, impianti. E si deve pagare comunque. Lo scopo è ricostruire un edificio che non uccida, con scale e le strutture che restino in piedi. Per semplicità diciamo che se un edificio costa 100, la struttura 30-35, il resto è costo fisso" continua Sylos Labini, "che si possa costruire e consolidare, che si possano fare le cose bene, come a Norcia, è un dato di fatto". Arquata del Tronto è a pezzi, Norcia, poco distante, ha qualche ammaccatura ma è restata in piedi. "Dopo il terremoto del 1979 è stata messa in atto una ristrutturazione di Norcia e di tutte le frazioni, non è stato semplice, ci sono voluti anni, ma abbiamo voluto ricostruire tutto rispettando le norme antisismiche", racconta l'assessore del Comune di Norcia, Giuseppina Perla. "Dopo le scosse di ieri, le lesioni e i crolli più importanti li abbiamo avuti solo negli edifici vecchi non ristrutturati. Certo, questo non vuol dire che le case costruite con criteri antisismici non abbiano subito lesioni, ma sono lesioni contenute, che hanno salvato tante vite umane". Le case nuove devono essere costruite, per legge, secondo norme anti sismiche, gli edifici vecchi possono essere adeguati. Ma l'intervento è carico dei proprietari. In California e in Giappone lo Stato offre incentivi fiscali, ma lì buttano giù tutto e ricostruiscono. Riparano assi di legno, sostituiscono pezzi. Noi abbiamo case in pietra, patrimoni culturali, rocche, castelli, chiese, campanili. In alcuni casi viviamo in equilibrio su angoli di montagne. Sporgiamo in bilico. Costruiamo case una sopra l'altra, conviviamo con monumenti e conserviamo medioevo. Anche in città abbiamo palazzi in muratura, che se scossi diventano briciole in pochi secondi. L'Italia dal 2013 prevede il rimborso del 65% delle spese in 10 anni. Eppure ci vorrebbero 36 miliardi affinché il 70 per cento dei nostri 32 milioni di edifici ancora non adeguato al rischio, lo diventi. Che si adegui. La Protezione civile definisce normativa antisismica "l'insieme dei criteri per costruire una struttura in modo da ridurre la sua tendenza a subire un danno, in seguito a un evento sismico. "Dire che la normativa di ricostruzione e adeguamento sia stata disattesa è troppo generico - continua l'ingegnere - perché il non aver rispettato regole coinvolge singole responsabilità. Le norme ci sono, e sono ottime norme, in linea con l'Europa. L'attenzione o meno non è stata un'evasione di massa alla ricostruzione". Dal 1908, anno del devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria, fino al 1974, in Italia i comuni sono stati classificati come sismici e sottoposti a norme restrittive per le costruzioni. Il 63, 8 per cento dei nostri edifici sono stati costruiti prima che entrasse in vigore, nel 1971, una più efficace normativa antisismica. Dopo il terremoto del 2002 in Puglia e Molise viene emanata l'ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n.3274 del 2003, che riclassifica l'intero territorio nazionale in quattro zone a diversa pericolosità, eliminando le zone non classificate. Da quel momento nessuna area del nostro Paese può ritenersi non interessata al problema sismico. Il problema non sono i costi, ma i tempi. "Io di terremoti ne ho visti tanti", spiega Sylos Labini. "La cosa che mi ha sempre turbato erano le tendopoli, ora ci sono i mezzi e la tecnologia per diminuire i tempi e rifare rapidamente un tetto di una casa, è necessario stabilizzare le persone, anche psicologicamente, la normativa ha fatto passi enormi, e per ora la prevenzione è l'unico mezzo che abbiamo e che dobbiamo attuare. La burocrazia frena i tempi, all'Aquila ha rallentato tutto, ma c'è bisogno di un controllo per quanto possibile, che le cose non sfuggano in queste maglie capillari". Che le persone capiscano l'importanza di una ricostruzione sensata". I ministri delle Infrastrutture e dell'Interno insieme al Capo Dipartimento della Protezione civile emanano il 14 gennaio 2008 il decreto ministeriale che approva le nuove norme tecniche per le costruzioni. L'applicazione diventa obbligatoria dal 1 luglio 2009, come previsto dalla legge n.77 del 24 giugno 2009. Oltre la legge, che dovrebbe obbligare un intervento, restano le pietre a terra, per non dimenticare, per non trovare scuse. E per rimettere in piedi case in grado di ballare, non tombe.

Le cittadelle fanno risparmiare il 50% L'esperto: costruire ex novo costa meno. I casi Messina e San Francisco. Il sindaco Pirozzi: si deve radere al suolo, scrive Giuseppe Marino, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Ricostruire dov'era e com'era. Un mantra che torna dopo ogni terremoto. Ma il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, va controcorrente: «Amatrice è da radere al suolo completamente», ammette dopo aver partecipato a riunioni con i vertici di vigili del fuoco e Protezione civile. Il sindaco forse non lo sa, ma ha sfidato le ire dei venerabili maestri dei beni culturali. Dopo il sisma del 2012 un assessore provinciale di Mantova ventilò l'ipotesi di mettere in moto la ruspa sui ruderi delle chiese e Salvatore Settis, ex direttore della Normale di Pisa e archeologo con fama mediatica, lo paragonò ad Attila. Sta di fatto che il dibattito è aperto e che il restauro può essere costosissimo. Per L'Aquila ad esempio, si sono spesi 12 miliardi in 7 anni, e c'è ancora tanto da fare. Si va verso una Nuova Amatrice, magari costruita altrove? Pirozzi è pronto a demolire, ma non a spostare: «A parte la chiesa romanica di San Francesco, tutto il resto non c'è più. Vorremmo però ricostruire Amatrice nello stesso posto, magari con la stessa forma e con la stessa estetica». Per Gian Michele Calvi, direttore del Centro di ricerca in ingegneria sismica e sismologia dello Iuss di Pavia che ebbe un ruolo di primo piano nella costruzione delle «new town» dell'Aquila, «costruire da zero costa molto meno, indicativamente una stima del 50% di risparmio non la trovo azzardata». Calvi cita come principale caso di spostamento di centri abitati e ricostruzione i villaggi coinvolti nel devastante sisma di Messina del 1908. «E nel 1906 a San Francisco - spiega - scelsero invece di far costruire rapidamente a privati new town affittate a un prezzo salato mentre si ricostruiva e poi ricomprate dalla mano pubblica e demolite, per spingere la popolazione a tornare al suo posto». Ci sono naturalmente anche esempi di restauro: «Sant'Angelo dei Lombardi in Irpinia e Gemona in Friuli sono i più citati - ricorda l'ingegnere - ma il primo fu lungo e costosissimo, il secondo fu frutto di una scelta drastica: si decise di privilegiare la ricostruzione delle attività produttive sulle residenze. Ad Amatrice il restauro è fuori luogo, ma si può anche scegliere di ricostruire nello stesso posto. Ma replicare tecniche ed estetica del passato è un'idea figlia di decenni bui dell'architettura in Italia. Costruire ex novo e bene si può». Nella scelta del luogo pesa anche un altro fattore praticamente dimenticato, con esiti disastrosi: i cosiddetti «effetti di sito», cioè caratteristiche del terreno che sono in grado di accelerare l'onda sismica o attenuarla. «Le norme tecniche recenti - dice Raffaele Nardone, consigliere nazionale dell'Ordine dei geologi - richiedono l'analisi geologica del sito, ma ammettono che eccezioni. Che in Italia sono diventate la regola. Ad Accumoli ad esempio non si è tenuto conto del rischio rappresentato dal terreno che è franato all'ingresso del paese, lambendo alcuni edifici. E la natura del terreno potrebbe aver influito anche nel crollo ad Amatrice. Non sempre è necessario spostare le case altrove, ma è indispensabile conoscere la natura del terreno. Magari investendo di più nella sicurezza della casa e meno nella bellezza, se bisogna scegliere».

Ristrutturazioni anti sismiche? Lo Stato penalizza i poveri. Le norme sulle detrazioni Irpef per gli adeguamenti anti-sismici hanno molte falle. Meno sgravi a chi è in difficoltà economiche, scrive Giuseppe De Lorenzo, Sabato 27/08/2016, su "Il Giornale". Dopo il terremoto che ha abbattuto Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto ci si chiede: lo Stato incentiva i cittadini ad adeguare le loro case alle nuove norme anti-sismiche? La risposta è semplice: sì, ma solo i ricchi. Chi guadagna 1.000 euro al mese, invece, si deve accontentare delle briciole. Vi sembra strano? Lo è. Anzi: è una follia. Cerchiamo di capire meglio. Sul sito dell'Agenzia delle Entrate è disponibile un documento che spiega nel dettaglio quali sono gli sgravi fiscali che il governo ha istituito nella speranza di far diventare a prova di terremoto gli edifici antiche. Le detrazioni per le ristrutturazioni anti-sismiche. In sintesi funziona così: il privato cittadino paga di tasca sua i lavori. Poi lo Stato concede uno sconto sulle tasse (Irpef) pari al 50% dell'importo speso (se fatto a partire da giugno 2012). Ovviamente c'è un tetto massimo, pari a 96mila euro. Bene. Nel caso in cui la casa sia costruita in una zona considerata "ad alta pericolosità" sismica, la detrazione sale fino al 65%. Ma c'è da affrettarsi, perché l'offerta scade il 31 dicembre 2016. Dall'anno prossimo potremo sperare di ottenere solo il 36% con un tetto massimo di 48mila euro. Son tempi di vacche magre: anche per proteggerci dal terremoto. Una volta ristrutturata la casa, comunque, al cittadino la detrazione non viene "regalata" in unica soluzione, ma in 10 comode rate annuali di pari importo. Ma c'è l'inghippo: "Ciascun contribuente - si legge - ha diritto a detrarre annualmente la quota spettante nei limiti dell'Irpef dovuta per l'anno in questione. Non è ammesso il rimborso di somme eccedenti l'imposta". In sostanza lo sconto non può essere superiore alle tasse da versare e quindi meno Irpef paghi e minori sgravi puoi ottenere. In questo modo le persone in difficoltà economica hanno uno sconto Irpef inferiore. E così non sono incentivate ad adeguare gli edifici alle norme sismiche, col rischio di morirci dentro. Il pensionato prende meno sgravi del Vip. Facciamo un esempio. Il signor Mario ha una pensione pari a 12.000 euro all'anno. Pochi: parliamo di 1.000 euro al mese. Con il lavoro di una vita mette da parte un bel gruzzoletto e un giorno decide di spendere 50mila euro per rendere la casa anti-sismica. A quel punto chiede la detrazione di 32.500 euro (il 65% di 50mila) che divisi in 10 anni significano 3.250 euro all'anno di quote detraibili. Ma visto che di Irpef (lorda) Mario deve pagare solo 2.760 euro (inferiori ai 3.250 euro di sgravio fiscale), perderà la differenza di 490 euro. E non può nemmeno chiedere un rimborso o farli diventare una diminuzione di imposta nell'anno successivo. Cornuto e mazziato. Quei 5mila euro a Mario avrebbero fatto sicuramente comodo. Se lo Stato fosse stato più generoso, forse, la casa l'avrebbe ristrutturata. Ma così sa di beffa: meno guadagni e maggiore sarà l'ingiustizia. Al contrario, chi è ha un reddito alto (e quindi paga più Irpef) s'intascherà per intero la detrazione. Se non basta, ecco la seconda anomalia: lo sgravio fiscale "extra" per le zone sismiche vale solo per la prima casa. Ma ad Amatrice, Accumuli e via dicendo, molti degli edifici erano abitazioni per le vacanze. Che quindi non avrebbero potuto ottenere la detrazione.

Adeguamento sismico, quanto costa l'edilizia che può salvare la vita. Si va da 100 a 300 euro a metro quadro. Per un palazzo di medie dimensioni si tratterebbe di una spesa di circa mezzo milione. Una cifra vicina a quelle spesso impiegate per interventi di altro tipo. Le detrazioni fiscali ci sono, ma parziali e spalmate nel tempo. E così i lavori per la messa in sicurezza sono una rarità, scrive Paolo Fantauzzi il 25 agosto 2016 su "L'Espresso". L'Italia ha una delle legislazioni più all'avanguardia, in tema di normativa antisismica. Il problema è che interessa solo le nuove costruzioni. E in un Paese dove l'edilizia storica di vario tipo rappresenta l'80-90 per cento, è come dire che - se i lavori sono eseguiti come si deve - solo una piccolissima fetta di edifici è davvero al sicuro. Oltre il 40 per cento del territorio italiano è a rischio sismico elevato e il 60 per cento degli edifici è stato costruito prima del 1974, quanto sono entrate in vigore le prime norme antisismiche. Almeno un terzo degli immobili andrebbe adeguato. Sulla base di questi parametri nel 2013 l'Oice, l'associazione delle organizzazioni di ingegneria, architettura e consulenza tecnico-economica, stimava che il mercato per questo tipo di interventi valesse 36 miliardi. Perché pure se l'adeguamento costa salato, può salvare la vita. Ma di che cifre parliamo? “Con una spesa compresa fra 100 e 300 euro a metro quadro è possibile mettere al sicuro un edificio” spiega Camillo Nuti, a lungo docente di Tecnica delle costruzioni in zona sismica alla facoltà di Ingegneria di Roma Tre e attualmente ordinario di Progettazione strutturale ad Architettura: “Vuol dire 30 mila euro per appartamento di dimensioni medio-grandi e 200-600 mila euro per un classico condominio di quattro piani. Non poco ma si tratta di cifre che spesso, a pensarci, nel complesso vengono spese per una serie di interventi di tanti alti tipi ma assai meno importanti. Bisogna mettersi in testa che non ha senso rifare la cucina se poi le strutture della casa sono a rischio”. Il campionario dei lavori che si possono effettuare è lungo: isolatori o cuscinetti antisismici da disporre alla base degli edifici, l’utilizzo della fibra di carbonio attorno ai pilastri che riduce notevolmente il rischio di fratture, la disposizione di controventi dissipativi tra un piano e l'altro per ammortizzare le scosse, rinforzi tramite l’installazione di catene o il risarcimento delle murature. L’ultimo ritrovato, ancora allo studio, sono particolari pannelli in legno che coprono le tamponature all'interno e che sono in grado di fare da dissipatori. “È la dimostrazione che abbiamo un grande patrimonio di conoscenze e che le tecnologie esistono. Tutto sta a favorirne l’impiego” sintetizza Nuti. Ma ecco sorgere il problema economico. Chi effettua lavori di adeguamento sismico in zone a elevata pericolosità può recuperare il 65 per cento della spesa, ma in dieci anni. Proprio come previsto per gli interventi per il risparmio energetico. Il problema così è che, trattandosi di somme ingenti, in pochi vi ricorrono. Anche perché si tratta di un investimento sul futuro che non dà ritorni immediati in bolletta, né estetici, come nel caso di una ristrutturazione. Così, se la proposta di ricorrere ai margini di flessibilità concessi dalla Ue potrebbe essere una soluzione, si potrebbe pensare anche a un’altra strada: una detrazione immediata o quanto meno in un arco di tempo assai più ristretto rispetto a quello attuale. E le mancate entrate potrebbero essere compensate dal gettito Iva derivante dagli incentivi e dalle tasse pagate da imprese e progettisti. Con un mercato dei lavori stimato in 36 miliardi, solo l’imposta sul valore aggiunto potrebbe portarne sette nelle casse dell’erario. A meno che non si voglia pensare che la vita di una persona, dal punto di vista fiscale, valga quanto una caldaia a condensazione.

Come rendere antisismica la tua vecchia abitazione. Un sismologo ha ristrutturato la sua casa, costruita sessanta anni fa, rendendola sicura. Ecco come e con quali costi, scrive il 25 agosto 2016 Nadia Francalacci su Panorama. Il terremoto che devastato l'Italia centrale, distruggendo completamente interi paesi e estinguendo quasi intere comunità, ha riportato al centro del dibattito la necessità di adeguare le abitazioni agli eventi sismici. L'Italia, purtroppo, come viene ribadito in queste ore dall'Ingv, è un Paese che per sua natura è altamente a rischio eventi sismici. E la storia sia recente che passata ce lo ha ricordato. Dunque, si può trasformare le vecchie case in edifici antisismici? Lo si può fare e anche prezzi contenuti. Non occorre demolire e ricostruire ma solamente apportare piccole modifiche strutturali tali da rendere l’edificio “dinamico” alle scosse sismiche. Con questo articolo scritto a seguito del sisma che colpì l'Emilia Romagna nel 2012, Panorama.it, si era già occupato dell'argomento. Ecco che cosa ci suggerì l'esperto contattato. E i suoi suggerimenti sono sempre attuali. Paolo Frediani, sismologo e direttore dell’Osservatorio Sismico Apuano, dodici anni fa,  ha ristrutturato la propria abitazione, una struttura costruita negli anni Cinquanta,  rendendola “resistente” al terremoto con un investimento di "soli" 48 milioni di lire che grazie alle detrazioni, sono diventati poco più di 20 milioni. In sostanza,10-13 mila euro circa.

Geometra Paolo Benvenuti, lei ha progettato e seguito la ristrutturazione dell’abitazione del sismologo Paolo Frediani. Com'è riuscito a trasformare la vecchia villetta in un’abitazione che non uccide?

«I cedimenti strutturali che si verificano durante un sisma sono dovuti in gran parte all'enorme quantità di peso che la struttura “portante” dell'edificio deve sopportare. In particolare, mi riferisco al tetto. Durante un evento sismico tutti questi carichi passano da una situazione “statica” ad una “dinamica” in modo repentino ed è questo che ne favorisce il crollo. La problematica principale della villetta del sismologo Frediani costruita circa sessanta anni fa, era quella innanzitutto di legare le quattro pareti costruite in epoche diverse e con materiali differenti.  Quindi, per rendere l’edificio dinamico, capace di assorbire il sisma, abbiamo dovuto costruire un cordolo all’altezza del solaio e lo abbiamo fissato alla muratura verticale, ovvero alle pareti, con tondini di acciaio e collante chimico. Poi abbiamo realizzato ex novo una struttura in acciaio per la copertura. Questo ha permesso di alleggerire il tetto».

Ma nel dettaglio quali sono state le fasi principali della ristrutturazione antisismica?

«Volendo mantenere nel locale sottotetto, un vano fruibile, si è pensato di modificare la struttura come da classica capanna con le falde a pendenza diversa, ad una copertura mista a capanna e a padiglione, questo ultimo fatto dovuto anche ad esigenze urbanistiche. Per realizzare il progetto occorreva un materiale leggero, maneggevole, coibentante e facilmente sagomabile proprio considerando la forma della copertura. L'abbinamento che abbiamo scelto è stato tra acciaio e pannelli autoportanti ardesiati. In questo modo si è evitato di aggiungere le tegole che sono pesanti e durante il sisma diventano pericolose. Le travi, invece, sono state collegate tramite idonee piastre di distribuzione ad un cordolo in calcestruzzo armato in modo da scaricare il peso di tutta la struttura sulla sottostante muratura.  E’ fondamentale sottolineare che durante tutta la durata del cantiere, non è stato demolito il solaio e questo ha permesso a coloro che vi abitavano di non lasciare mai la villetta».

Con questo metodo di quanto è riuscito ad alleggerire il tetto?

«Di circa due terzi. In sostanza, con il metodo classico, il solaio in laterocemento e calcestruzzo avrebbe avuto un peso medio per metro quadrato di circa 290 chilogrammi mentre con il metodo antisismico abbiamo ridotto il peso a 100 kg per metro quadrato».

Oggi, quanto può costare un intervento come quello appena descritto?

«Calcolando una superficie di circa 90-100 metri quadrati, realizzare una ristrutturazione antisismica, può costare da 20 e 30 mila euro circa».

Ed è possibile intervenire con altrettanta facilità anche negli appartamenti? E con che costi?

«Negli appartamenti è più impegnativo anche perché il progettista deve necessariamente verificare e analizzare tutta la struttura portante dell’edificio e poi intervenire eventualmente sulla singola unità. Ma ad esempio l’istallazione di una catena che serve per collegare ovvero tenere unite, le due facciate opposte di un palazzo il costo può variare dagli 800 ai 1.200 euro a seconda della dimensione. Anche questo è un intervento antisismico, certamente minimo, ma pur sempre funzionale».  

TERREMOTO E LOBBY. Il Fascicolo del fabbricato: Ecco poi, come la lobby degli ingegneri specula e tira acqua al suo mulino per creare burocrazia ed a loro ulteriore lavoro.

Terremoto: norme permissive, poche risorse e niente mappatura. “In zone a rischio l’80% dei fabbricati crollerebbe”. Alessandro Martelli, ingegnere sismico, e presidente del Glis: "L'enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio, non è in grado di sostenere questi sismi. La normativa però non impone né l’adeguamento né il miglioramento sismico e i finanziamenti che il governo dovrebbe stanziare arrivano con il contagocce". In più non esiste una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) più vulnerabili, scrive di Melania Carnevali il 25 agosto 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “L’80% dei fabbricati nelle zone ad alto rischio non reggerebbe un terremoto come quello della scorsa notte (leggi). Crollerebbero tutti”. Incluso scuole, ospedali, caserme, prefetture, ossia i luoghi considerati strategici in caso di emergenza, come un terremoto. A dirlo è Alessandro Martelli, ingegnere sismico, presidente del Glis (istituito dall’associazione nazionale italiana di ingegneria sismica), docente a cui nei primi anni Duemila venne tolta la cattedra ad architettura all’università di Ferrara in Costruzioni in zona sismica: “Dissero che era inutile nella regione”, racconta ailfattoquotidiano.it. Poco dopo ci fu il terremoto in Emilia. L’80% è la percentuale di costruzioni storiche in Italia, realizzate prima del 1981, anno in cui – dopo il sisma che devastò Irpinia – venne introdotto l’obbligo del rispetto di specifiche norme antisismiche per le costruzioni. Da allora la normativa viene aggiornata sisma dopo sisma, strage dopo strage, alzando di volta in volta l’asticella di sicurezza. E – salvo lavori non eseguiti come da progetto – le nuove costruzioni risultano sicure. “Il problema grave di questo territorio – spiega a ilfattoquotidiano.it Martelli – è l’enorme patrimonio edilizio del Paese, che è vecchio e non è in grado di sostenere questi terremoti”. Secondo il sismologo Massimo Cocco, dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv), ben il 50% delle scuole è stato costruito prima del 1981. La normativa però non impone né l’adeguamento sismico, né il miglioramento sismico, se non nel caso di lavori che interessino le parti strutturali. E questo riguarda sia i privati sia il pubblico. I Comuni e le Regioni sono obbligati solo – da una legge introdotta nel 2002 dopo il terremoto in Molise, dove crollò una scuola, e operativa solo dal 2012 – a uno studio di vulnerabilità dei palazzi di loro proprietà. Ossia a verificare se sono sicuri o meno. Punto. Poi, di fatto, possono rimanere come sono: sicuri o no. Perché? I finanziamenti: nel Paese più insicuro d’Europa dal punto di vista sismico (insieme a Grecia e Turchia), si contano con il contagocce. “Il governo dovrebbe stanziare ogni anno una somma nella sua Finanziaria per arrivare alla sicurezza nel giro di un decennio – commenta Martelli, ingegnere sismico – E invece ogni anno dicono che non ci sono soldi, aggravando la situazione. Poi, quando ci sono terremoti di questo tipo, si spende tre volte tanto di quello che si saprebbe dovuto spendere. In Giappone, un sisma del genere, non avrebbe fatto notizia perché hanno investito molto nell’edilizia”. Ma il punto poi è anche un altro e, se possibile, peggiore: una vera mappa dei fabbricati (almeno quelli pubblici) a rischio non esiste. Quanti ospedali o quante scuole rischiano di crollare in Italia? Quante prefetture rischiano di non poter svolgere la loro funzione in caso di emergenza? Non si sa. Da anni il Consiglio nazionale dei Geologi si sgola per chiedere un “fascicolo del fabbricato”, ma la politica ha sempre risposto picche. “Noi lo definiamo ‘libretto pediatrico’ – spiega Domenico Angelone, consigliere nazionale dei geologi – perché conterrebbe tutte le informazioni del fabbricato: dalla nascita agli ultimi interventi, incluso la collocazione. Un fabbricato spesso può essere infatti considerato a norma dal punto di vista sismico, ma magari è situato su una frana. A noi mancano tutte queste informazioni. Ci sono costruzioni di cui non sappiamo proprio nulla”. L’unico dato certo, fornito dai geologi, è che in Italia circa 24 milioni di persone vivono in zone ad elevato rischio sismico: è la cosiddetta zona 1 (le zone sono 4), quella che prende parte dell’Appennino, dal sud dell’Umbria fino alla Calabria e una parte di Sicilia. Ma la prevenzione, secondo i geologi, è pari a zero. “Da anni diciamo che in Italia siamo ben lontani da una cultura di prevenzione – spiega il presidente del Consiglio nazionale dei Geologi, Francesco Peduto – Innanzitutto sarebbe necessaria una normativa più confacente alla situazione del territorio italiano: oltre al fascicolo del fabbricato chiediamo un piano del governo per mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici. Inoltre, affinché cresca la coscienza civica dei cittadini nell’ambito della prevenzione sismica, bisognerebbe cominciare a fare anche una seria opera di educazione scolastica che renda la popolazione più cosciente dei rischi che pervadono il territorio che abitano. Non dimentichiamo – continua il presidente dei geologi – che, secondo alcuni studi, una percentuale tra il 20 e il 50% dei decessi, in questi casi, è causata da comportamenti sbagliati dei cittadini durante l’evento sismico”. Prevedere un terremoto, secondo i geologi, è impossibile. “Sappiamo che l’Italia è un territorio a rischio – spiega Peduto – ma non è possibile sapere in anticipo dove verrà e di che intensità”. Quello che rimane quindi è la prevenzione. “Che, in Italia – chiosa il geologo -, è proprio ciò che manca”.

E dopo la lobby degli ingegneri ecco le pretese della confedilizia.

Terremoto, ingegneri: "La messa in sicurezza delle case italiane costa 93 miliardi. Il 50% non adeguate per un sisma", scrive "L'Huffington Post" di ANSA il 25/08/2016. "Per la messa in sicurezza del patrimonio abitativo degli italiani da eventi sismici medi" il costo complessivo è "pari a circa 93 miliardi di euro". E' uno dei dati forniti dal Consiglio nazionale degli ingegneri (su elaborazione del suo Centro studi), a seguito degli eventi tragici nell'Italia centrale. Il complesso delle abitazioni residenziali, recita il dossier, "si presenta particolarmente vetusto e, per questa ragione, potenzialmente bisognoso" di interventi: circa "15 milioni di case (più del 50% del totale) sono state costruite, infatti, prima del 1974, in completa assenza di una qualsivoglia normativa antisismica". E, inoltre, almeno "4 milioni di immobili sono stati edificati prima del 1920 e altri 2,7 milioni prima del 1945". Secondo i professionisti, la quota di immobili da recuperare, sulla base dell'esame dei danni registrati alle abitazioni de L'Aquila e delle condizioni del patrimonio abitativo raccolte dalle indagini censuarie, "è pari a circa il 40% delle abitazioni del Paese, indipendentemente dal livello di rischio sismico". Politiche di incentivazione, soprattutto fiscale, degli interventi per la tutela del patrimonio immobiliare e per la prevenzione dei danni da calamità. E' questa, secondo Confedilizia, la strada da seguire alla luce del terremoto nel centro Italia. Secondo l'associazione, "quel che certamente non serve - e che, anzi, porta danni - è ipotizzare obblighi generalizzati di intervento o di redazione di improbabili certificati ovvero riesumare proposte bocciate dalla storia: come quella di un obbligo assicurativo, contrastata anche dall'Antitrust, o quella del fascicolo del fabbricato, libretto cartaceo dichiarato illegittimo dai giudici di ogni ordine e grado e avversato anche dal Governo Renzi, che ha tempo fa impugnato una legge regionale in tal senso". Quanto al post-terremoto, il Governo in carica, con un provvedimento previsto dall'ultima legge di stabilità e attuato con una delibera pubblicata in Gazzetta Ufficiale proprio venti giorni fa, ricorda Confedilizia, "ha varato un sistema di gestione delle calamità naturali che permette a cittadini e imprenditori danneggiati di ottenere considerevoli aiuti per la riparazione o ricostruzione delle case e per il ripristino delle attività produttive. Confidiamo che le relative risorse siano incrementate, a beneficio delle popolazioni colpite dal sisma che ha colpito Lazio e Marche".

TERREMOTO E SPRECHI. I fondi per la ricostruzione spartiti in “consulenze d’oro”. Così dal ’97 i partiti hanno gestito i soldi pubblici del dopo-terremoto. 790 professionisti. Ingegneri, geometri, architetti e geologi che hanno avuto consulenze nella ricostruzione, scrive Paolo Festuccia il 31/08/2016 su "La Stampa". La caccia agli appalti è cominciata. La sta facendo la Guardia di Finanza su delega della procura di Rieti. Obiettivo: accertare quali ditte, quali tecnici e con quali criteri sono stati concessi soldi pubblici per la ricostruzione post sisma del 1997. A cominciare dai lavori svolti nei Comuni di Accumoli ed Amatrice dove le opere rifatte e realizzate per il miglioramento sismico sono crollate nuovamente.  Ma Amatrice e Accumoli, in questa storia di crolli e ricostruzioni, rappresentano solo una piccola parte del fiume di denaro pubblico che con il sisma umbro-marchigiano sono piovuti sull’intera provincia di Rieti. Non solo, il reatino ha beneficiato anche di un’altra cospicua iniezione di denaro pubblico anche per lo sciame sismico del 2001. Risultato: tra il primo stralcio e il secondo i soldi pubblici spesi per riedificare gli immobili lesionati, chiese, scuola e abitazioni private sono stati 61 milioni e 625 mila euro. A questi si devono aggiungere altri 5 milioni (sempre di euro) e il totale arriva a 66 milioni di opere finanziate. Una vera manna per costruttori, professionisti, ingegneri e architetti. A vigilare sulla doppia ricostruzione, soprattutto nella prima fase dell’emergenza, in tempi diversi e in base alle alternanze di governo alla Regione Lazio, si sono avvicendati tre sub commissari: il primo l’ex presidente della Provincia di Rieti Giosuè Calabrese (Ppi all’epoca), il secondo con l’avvento della giunta Storace, l’ex assessore regionale (reatino) di Alleanza nazionale al Turismo e alla Cultura Luigi Ciaramelletti. Infine nel 2005 l’allora presidente della provincia, oggi parlamentare del Pd, Fabio Melilli, quando già molto ormai era stato assegnato.  Calabrese ha affidato lavori e incarichi per oltre 30 milioni, Ciaramelletti per poco meno. Sotto il loro scettro si sono alternati oltre 790 professionisti della zona: geometri, ingegneri, architetti, geologi. Tanti anche per «dividersi» consulenze minori e appalti di lieve entità. Ma molti, come elencato nel piano di attuazione del programma stralcio, hanno lavorato su diversi fronti contemporaneamente, e quindi a piccole dosi «hanno portato a casa cifre interessanti», afferma una fonte ben informata. In molti casi nella lista ci sono pure ex sindaci, ex consiglieri comunali di vari Comuni, figli di: alcuni tra questi sono passati da un municipio all’altro. Del resto i Comuni beneficiati dalla manna pubblica (tra il primo e il secondo stralcio) sono stati 49 su 72 e molti professionisti sono stati chiamati come progettisti in un luogo e come collaudatori in un altro. Per ogni lavoro «sono stati impiegati tre professionisti… E va da sé che anche nelle opere minori questo ha in un certo senso - riprende la fonte - abbassato anche il valore di prestazione d’opera circa la qualità del rifacimento». Un’accusa pesante, dunque. Non solo, se si osservano i documenti balza subito agli occhi come i 33 milioni di euro stanziati siano stati frazionati in interventi, (soprattutto tra Amatrice e Accumoli dove si è verificato il sisma e i palazzi sono crollati nuovamente), con importi non oltre i 150 mila euro, cifra entro la quale appalti e incarichi, all’epoca, potevano essere affidati a trattativa privata. Chi conosce quegli atti, insomma, assicura che la pioggia finanziaria è scesa sui Comuni «mettendo d’accordo tutti: sia la destra che la sinistra, sia i liberi professionisti di destra che quelli di sinistra». Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. «Un fatto è chiaro - riprende la fonte - da tutta questa vicenda si evince che dare lavori a tre progettisti significa poi tagliare i costi sui lavori effettivi».  Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai.  

Terremoto: costruiscono, ricostruiscono, consulenti…stessa casta, scrive Riccardo Galli su “Blitz Quotidiano” il 31 agosto 2016.  Terremoto, quelli che costruiscono prima del terremoto (male molto male) sono quasi sempre gli stessi che nel dopo terremoto riparano e ricostruiscono (finora ancora male). E sono gli stessi, proprio gli stessi che intercettano i fondi per la ricostruzione e li trasformano in buona parte in consulenze. Un’altra casta, fatta di geometri e asri, consiglieri comunali e ingegneri, avvocati, commercialisti, imprenditori, notai, perfino parroci. “Non sono i terremoti ad uccidere, ma i palazzi che crollano”, diceva e continua a dire Giuseppe Zamberletti, papà della nostra Protezione Civile, trovando una forse inaspettata eco nelle parole dal Vescovo di Rieti durante i solenni funerali di ieri. Ma di terremoto, e soprattutto di ricostruzione, si vive anche. Al punto che intorno all’emergenza vive e prolifera una vera e propria piccola casta. Una casta fatta di ditte e professionisti che costruiscono (male) e ricostruiscono dopo i crolli, dando tra la prima e la seconda cosa consulenze sui lavori da fare. Sempre le stesse persone. “Capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma – scrive Sergio Rizzo sul Corriere della Sera -. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul Sole 24 ore che ad Amatrice il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma’”. Se tutto sia legittimo e legale ora, almeno nel caso dei comuni e dei lavori effettuati sugli immobili venuti giù col terremoto del 24 agosto, lo stabiliranno le inchieste e, come hanno ricordato i Finanzieri incaricati delle indagini dalla procura di Rieti: “Ora andremo a vedere perché sono sempre le stesse ditte ad effettuare i lavori, certo è strano, forse qualche dipendente pubblico non ha fatto benissimo il suo lavoro”. Il dis tra legale e illegale è in questi casi però sottilissimo e, in verità, per raccontare questo mondo che di terremoto e soprattutto emergenza vive, nemmeno rilevante. Perché come racconta Paolo Festuccia su La Stampa il 31 agosto 2016 parlando della ricostruzione post sisma del ’97: “Da Amatrice a Fiamignano, passando per Cittaducale e Rieti. Stime alla mano, l’incidenza delle consulenze progettuali ha pesato sull’opera per il 40 per cento dei lavori (Iva compresa). Insomma, su 125 mila euro stanziati 45 mila sono andati ai tecnici e solo 75 mila al rifacimento dei lavori. Se il nodo si affronta da questa prospettiva, allora, è probabile che gli inquirenti nel sequestrare le carte degli appalti affidati vogliano anche accertare se le imprese si siano limitate solo al rifacimento della parti crollate, oppure abbiano anche provveduto al miglioramento sismico così come previsto nel capitolato. Non quindi all’adeguamento ma almeno al miglioramento. (…) Tanto per citare un esempio, tra Amatrice e Accumoli, dove quasi tutto ciò che è stato rifatto è inagibile, crollato o fortemente compromesso dal terremoto del 24 agosto scorso, su un importo vicino ai tre milioni di euro stanziati tra integrazioni e fine lavori sono stati ben 72 i tecnici incaricati con l’aggiunta di geologi e collaudatori. Se il tariffario indica il 40% per la progettazione, questo significa che su 3 milioni circa un milione 200 mila euro è finito nelle consulenze mentre il restante milione e 800 mila euro in cemento armato e ferro. Che spalmato su 21 immobili fortemente danneggiati fa una media di poco più di 85 mila euro. Dentro questa cifra ci dev’essere il guadagno per impresa e operai”. Si tratta, specie nelle piccole realtà e in un Paese dove le occasioni per i progettisti non sono all’ordine del giorno, anche di guerre fra poveri. Non è, o almeno non sempre, una rete votata al malaffare ma uno spaccato di quell’Italia che vive e sopravvive grazie al denaro pubblico, che considera questo alla stregua di un diritto e ha una capacità di prevenire tendente allo zero. Una casta che non gode di quell’aura negativa che circonda, ad esempio e purtroppo molte volte a ragione, i politici. E’, al contrario, una casta di cui la gente si fida: si ricorre sempre alle stesse ditte e agli stessi professionisti certo perché i lavori non vengono affidati attraverso gare d’appalto, ma anche perché il geometra fratello del sindaco, cugino della ditta che ha ristrutturato casa rappresenta una sorta di garanzia. Come dicono a Napoli: “però sparti ricchezza e addiventa puvertà”, e se sui fondi messi in campo per ogni ricostruzione quasi la metà finisce in consulenza, è conseguenziale che i lavori dovranno essere fatti al risparmio. Tanto ci sarò sempre tempo per rifarli, forse meglio, al prossimo crollo.

TERREMOTO E MONOPOLIO. Terremoto, i «professionisti» della ricostruzione. Lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano. Il meccanismo che ha portato tanti affari in poche mani ha rallentato il dopo sisma, scrive Sergio Rizzo il 30 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera". C’era la fila, davanti alla porta di Pasqualino Fazio. Perché fratello del sindaco, Mariano Fazio? Oppure in quanto fratello di Antonio Fazio, altissimo dirigente della Banca d’Italia? Macché. Semplicemente perché era l’ingegnere di Alvito, paese di tremila abitanti in Ciociaria. I paesani lo conoscevano e si fidavano di lui. Non che l’essere fratello del sindaco e del futuro governatore della banca centrale rappresentasse un handicap, intendiamoci: il cognome Fazio ad Alvito è sempre stato una garanzia. E Pasqualino era gettonatissimo. Suo il progetto delle case popolari, prima del terremoto. Suoi anche i progetti per gli edifici pubblici, dopo il terremoto: il municipio del fratello e il convento di San Nicola. E le abitazioni private di quelli in fila davanti alla sua porta, lesionate dal terremoto. Perché nella dorsale appenninica perennemente martoriata da sisma ci fu una scossa anche ad Alvito, nel 1984. Che si portò via un bel po’ di calcinacci restituendoli poi con gli interessi: 10 miliardi di lire per la ricostruzione. Per come hanno sempre funzionato le cose in questo Paese è normale che andasse così. E così è sempre andata anche dopo. È il sistema. Il privato che ha la casa danneggiata con i contributi statali fa quel che vuole. Dà l’incarico a chi preferisce: non ha l’obbligo di fare una gara. C’è chi la considera un’anomalia. Ma di fronte alle obiezioni i governi di turno hanno sempre deciso che quei soldi pubblici vadano considerati come quattrini privati a tutti gli effetti. Fra chi intercettato definisce il disastro «una botta di culo» (L’Aquila), chi ride nel letto di notte mentre una intera città si sbriciola (ancora l’Aquila) e chi spera «in una botta forte» perché «in un minuto ne fa di danni e crea lavoro» (Mantova), capita dunque che lavorino sempre gli stessi professionisti del sisma. Tanto più nei piccoli centri: quando si tratta di tirare su un muretto o una palazzina, ci pensa il geometra autoctono. E ci pensa pure se quel muretto o la palazzina crolla causa movimento tellurico imprevisto. Figuriamoci se poi il tecnico ha le mani in pasta nell’amministrazione comunale. Niente di illegittimo, ovvio. Ma qualche domanda è giusto farsela. Il fatto è che soprattutto nei piccoli centri la commistione fra la politica e certe figure professionali risulta inevitabile. Quello che un tempo in una comunità rappresentavano il farmacista e il notaio, ora è in molto casi il geometra. Meglio se con un incarico politico. Ha raccontato Mariano Maugeri sul «Sole 24 ore» che ad Amatrice «il vicesindaco Gianluca Carloni è un geometra che continua a lavorare nello studio tecnico con il fratello Ivo, un ingegnere che ha costruito mezza Amatrice e negli anni 90 aveva ristrutturato la caserma dei carabinieri di Accumoli, fortemente danneggiata dal sisma». Intrecci all’ordine del giorno, nell’Italia dei campanili. Quando c’è di mezzo un terremoto, però, le cose si vedono sotto una luce leggermente diversa. All’Aquila le pratiche per la ricostruzione private erano finite in pochi studi professionali. Il più noto, quello dell’ex autorevole presidente del locale ordine degli architetti, Gianlorenzo Conti, peraltro prematuramente scomparso poco tempo fa. Perché questa concentrazione di incarichi, che allora preoccupò non poco il responsabile della struttura di missione Gaetano Fontana? Forse l’idea che affidare l’incarico a uno studio locale conosciuto e ben introdotto con l’amministrazione potesse costituire una sorta di corsia preferenziale per i finanziamenti. Poco importa se l’ingegnere o il geometra è magari il responsabile del disastro. Di sicuro, questo meccanismo che ha portato tanti affari in pochissime mani ha finito per rallentare la ricostruzione. Aumentando i costi: quando all’Aquila si è passati dalle pratiche singole agli aggregati il fabbisogno finanziario si è ridotto di oltre il 20 per cento. Senza dire che in un Paese così carente di occasioni per i progettisti anche le catastrofi possono scatenare guerre fra poveri. Il 4 settembre 2012, tre mesi dopo il terremoto emiliano, l’ex presidente dell’ordine nazionale degli architetti Leopoldo Freyrie fece approvare un codice etico per i professionisti volontari iscritti al suo albo, che prevede dure sanzioni per chi sfrutti economicamente questa sua posizione. Era successo che all’Aquila qualche architetto che aveva verificato «volontariamente» le lesioni di un edificio, fosse tornato alla carica con il proprietario proponendosi per pro-gettare la ristrutturazione. Il terremoto abruzzese è stato un formidabile banco di prova per i professionisti delle catastrofi: progettisti e imprese. Si andò avanti fin da subito con le procedure straordinarie della Protezione civile, e le scelte erano puramente discrezionali. Venne poi deciso di far lavorare prevalentemente le ditte locali, il che ha ristretto ancor più l’area dei partecipanti. La cosa non mancò di avere pesanti ripercussioni. Ci fu uno scontro interno all’Ance fra la struttura centrale e l’associazione territoriale delle imprese abruzzesi, che avrebbe voluto norme per limitare la partecipazione di concorrenti provenienti da altre Regioni. Per non parlare delle infiltrazioni della ‘ndrangheta, registrate anche per i lavori del dopo terremoto nell’Emilia-Romagna. Ma questa è decisamente un’altra storia, rispetto al groviglio di fortissimi interessi locali. Certe imprese che hanno lavorato in Abruzzo sono le stesse già comparse nella ricostruzione del terremoto dell’Umbria e delle Marche. Con significative diramazioni nella provincia di Rieti, perché fin lì è arrivato il cratere del sisma abruzzese: quindi i relativi fondi. E se lo schema resterà questo anche dopo Amatrice, il gioco è destinato a continuare. Nell’ambiente dei costruttori qualcuno ha già cominciato a far girare l’idea che si debbano precostituire liste di imprese pronte a lavorare nel reatino. Dove le ditte iscritte all’associazione dei costruttori non sono che una ventina. Idea, per fortuna, prontamente messa da parte. Almeno per il momento. C’è solo da augurarsi che tutto ciò serva ora d’insegnamento…

TERREMOTO E FONDI PER LA RICOSTRUZIONE. L'affare terremoto: morti, politica e banche, scrive Andrea Spartaco Martedì 06/01/2015 su "Basilicata 24". Storia di disastri finanziari e strani intrecci che portano alla Basilicata. Nel giugno 2006, appena un anno dopo il mandato elettorale, la giunta regionale lucana presieduta da Vito De Filippo (Pd) firmò due contratti di interest rate swap (Irs, ndr) con Dexia Crediop spa e Ubs Warburg. Bisognava finanziare opere e interventi nelle zone colpite dal terremoto del '98. Una cosa decisa velocemente. Del resto con Crediop il contratto di mutuo ventennale era già stato firmato sei anni prima da un'altra giunta Pd, quella del predecessore Filippo Bubbico. Si tratta d'un volume complessivo di circa mezzo miliardo di euro di contratti di emissione, acquisto, vendita e trasferimento di strumenti finanziari siglati al di fuori della Direttiva europea in materia di Appalti Pubblici di Servizi, sebbene a copertura di soldi pubblici. In Basilicata però, la storia del rapporto tra terremoti, fondi pubblici, Regione e banche, comincia prima. Ed è molto interessante.

Banche e morti. Nel periodo successivo al sisma dell'80 una rilevante massa di soldi (10mila miliardi di lire, ndr), disse la Commissione che s'occupò del terremoto, transitò attraverso istituti di credito di Campania e Basilicata. Soldi di terzi in amministrazione presso le banche locali in cui si contabilizzavano i fondi pubblici erogati per la ricostruzione, che partiti da 160 miliardi (mld, ndr) di lire nell'83, nell'87 erano lievitati a 800. “I ritardi in alcuni Comuni dell'opera di ricostruzione – scrisse – hanno procurato un ulteriore vantaggio agli istituti di credito delle zone, rappresentato dalle giacenze presso gli stessi di notevoli somme accreditate ex legge 219/81 e non ancora utilizzate”. Cosa restava di quei novanta secondi che colpirono tra Campania e Basilicata provocando 2.914 morti? Che alcune banche, ribadì la Commissione, avevano tratto da tale “tristissimo evento un rilevante tornaconto, realizzando in pochi anni incrementi di portata assolutamente eccezionale”. Le amministrazioni pubbliche avevano lasciato che ciò accadesse mentre la gente aspettava in containers (e aspetta ancora) che la propria abitazione venisse riparata o ricostruita. Tra '80 e '84 su un totale di 3.400mld spesi, 921mld erano i soldi trasferiti ai comuni. La Commissione puntualizzò il ruolo distorto avuto spesso da sindaci e banche locali nella gestione, e l'assenza di controllo pubblico. Nel luglio '90 il presidente Antonio Boccia (Pd) dichiarò che per la 219/81 la Regione non aveva avuto, e non aveva, “nessuna competenza in materia di insediamenti industriali”. Ma quanti soldi s'erano tenuti le banche per quel loro “rilevante tornaconto”? A settembre '90 ammontavano a 907mld.

Cosche, politica e appalti. Per la Guardia di Finanza il terremoto del '80 “costituì l’occasione per risolvere i problemi sia di reinvestimento sia di riciclaggio, ma anche della ricerca di nuovi spazi territoriali ed economici d’azione e dell’appoggio o della contiguità con pezzi delle istituzioni e in particolar modo con la politica”. A soli tre anni dal terremoto a Potenza i sindacati lanciavano un allarme, sollecitando l'applicazione della legge antimafia per le irregolarità nei pubblici appalti. L'allora vicepresidente del Consiglio Regionale Mario Lettieri affermò che c'erano processi assai preoccupanti “legati agli appalti pubblici e alla ricostruzione”. C'era una criminalità economica che scaturiva da “un intreccio tra affari e politica per cui gli appalti di opere pubbliche, gli incarichi di progettazione e le agevolazioni per gli investimenti industriali, stimolavano gli appetiti di cosche e gruppi locali e no protetti dai partiti di governo”. Nell '84 a Balvano, definita vicenda esemplare dalla Commissione terremoto per l'evidente disprezzo dei piani naturali nei lavori di infrastrutturazione, e i problemi di carattere idrogeologico provocati, per l'area industriale era stato fatto un progetto di partenza costato circa 33mld di lire, cifra nella quale “stranamente” non erano compresi 5,8mld per i costi dell'impianto di depurazione per le acque nere e per quelle industriali, né i costi per l'impianto di potabilizzazione, sollevamento e diramazione dell'acqua verso l'area industriale (passati da 3 a 6mld per difficoltà tecniche, ndr), né circa 8mld del movimento terra quota parte finita in discarica a costi esorbitanti e fuori da ogni regola di mercato si disse. Si parlò di 60mld spesi per una zona priva dei requisiti minimali per ospitare siti industriali, e di modifiche risultanti solo da spinte di progettisti, imprese e controllori “a scopo evidente di lucro”.

Soldi e coma profondo. Certo nel settembre del '98, pochi giorni dopo il nuovo terremoto, il Procuratore di Potenza Gelsomino Cornetta raccontò in una Commissione parlamentare “il problema” delle immense aree industriali create dopo il terremoto del '80. “Abbiamo indagato – dichiarò – e alle nostre modestissime forze è stato riconosciuto di aver fatto tutto ciò che era possibile, tant'è che il ministero competente ha recuperato parecchie centinaia di miliardi”. Si trattava d'un patrimonio aziendale costituito in gran parte da imprese che erano "scatole vuote", e che avrebbe creato “un problema di abbattimento e di eliminazione di rifiuti di natura industriale”. Quello stesso '98 una determina dirigenziale del Dipartimento programmazione economica regionale assegnava ancora al Comune di Balvano mille milioni di lire per infrastrutturazione della zona P.I.P (legge 64/86, ndr). Nonostante lo sforzo economico nel 2012 in un Consiglio regionale si presentò, per l'area di Balvano, una interrogazione all'allora assessore alle attività produttive Marcello Pittella. Lì, soldi del terremoto o meno, i disoccupati aumentavano, le opere infrastrutturali non erano finite, e la situazione della zona industriale era di “coma profondo”.

Meno male che c'è il sisma. "Per fortuna" dopo il sisma dell'80 arrivò quello del '98. Così non dovemmo solo ridare soldi al ministero, perché lo Stato ne portò altri. A occuparsi del mutuo firmato nel 2000 dalla Regione per gestire i 42mld di lire statali annui per ricostruire, fu appunto Crediop, capofila di un pool composto da Banco di Napoli, Banca Mediterranea, Banca Opere pubbliche e delle infrastrutture (Opi, ndr), Monte dei Paschi, e Banca di Roma (BdR, ndr). La partner lucana del pool, Banca Mediterranea, che proprio nel 2000 si fuse con BdR, era nata nel '92 da una precedente fusione tra Banca di Pescopagano e Brindisi (Bpb, ndr) e Banca di Lucania (Bdl, ndr) con uno spropositato aumento di capitale, da 4,5mld a ben 130. Eppure nel '91 l'Organo di vigilanza (OdV, ndr) aveva definito critica la situazione patrimoniale della Bpb accertando che “il controllo della Banca di fatto dal Presidente del Consiglio di amministrazione”, poi presidente di Mediterranea (con sede pure a Pescopagano, ndr), aveva favorito l'ingresso di gruppi a lui vicini come i Casillo, il cui fondatore Gennaro, ricorda Rocco Sciarrone in “Mafie vecchie mafie nuove”, era legato tramite il nipote Vincenzo ai boss Raffaele Cutolo e Carmine Alfieri. Vincenzo che, con Alvaro Giardili, scrive Nicola Tranfaglia in “Cirillo, Ligato e Lima”, fu il tramite per gli affari post-terremoto '80 del pidduista Francesco Pazienza. Giardili e Pazienza che s'incontravano con Antonio Gava (Dc, ndr), e Alphonse Bove, boss italo-americano legato al Sismi e “procacciatore d'affari per la ricostruzione”.

Il sistema terremoto. Del resto il presidente di Bpb fu definito nell'88 dalla stampa nazionale "uomo-chiave" d'un certo sistema di potere politico-finanziario che vedeva coinvolti il ministro Emilio Colombo e il sottosegretario Angelo Sanza. Lucani entrambi. All'epoca un uomo di fiducia del presidente disse a un notaio azionista di minoranza della Bpb "zitto sulla banca se non vuoi guai". Il motivo stava nella sua curiosità di volerci veder chiaro sui rapporti tra il presidente di Bpb e una delle imprese del terremoto. C'erano poi guarda caso quei rapporti tra direttore generale di Bpb e un'impresa di consulenza finanziaria che sempre guarda caso teneva i libri contabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti. Tre anni prima la Guardia di Finanza aveva spedito una bella documentazione a una procura lucana. Veniva fuori che i responsabili dell'impresa con cui il presidente avrebbe avuto rapporti, assieme ai responsabili di altre quattro imprese del medesimo "giro" erano stati denunciati dal Nucleo di Polizia Tributaria per emissione di fatture false e associazione per delinquere. Nell '86 il titolare di una impresa aveva denunciato d'esser stato costretto a "sfornare centinaia di fatture false" nei confronti di tali società perché aveva bisogno di lavorare. Dell'impresa con cui il presidente Bpb avrebbe avuto relazioni la Gdf aveva sottolineato che nel prendere gli appalti violava la legge antimafia. Certo in quel 1986 Banca d'Italia lo mandò un ispettore, ma l'anno dopo ricevette un incarico "ben retribuito" dalla banca ispezionata. Emblematico per capire l'andazzo di quegli anni è la condanna, in veste di direttore d'una banchettina che di quel fiume di soldi del terremoto aveva beneficiato, del presidente di Confindustria di Potenza a 3 mesi di reclusione per appropriazione indebita. Aveva lasciato un buco di 50mld di lire.

A che servono le banche? Il presidente della Bpb intanto, fedelissimo Dc, secondo l'OdV avrebbe pure favorito altri gruppi “coinvolti in oscure vicende post-terremoto” 1980 come Pafi, Baricentro e quell'Icla spa che ebbe in concessione 616mld di lire. Il parlamentare Enrico Iandelli in un'interrogazione parlò d'operazioni societarie e finanziarie come l'aumento di capitale della Bdl “sottoscritto in gran parte da compiacenti persone assai vicine” al presidente, la fusione con Bdl e il successivo aumento di capitale della Mediterranea “senza che la Banca d'Italia intervenisse come suo dovere, e supportata talora da anomale decisioni giudiziarie”. Comunque nel '94 pure Banca d'Italia non potè astenersi dal valutare in 508mld le perdite previste su crediti alla clientela. Tra le perdite c'erano pure 73,7mld per l’ammortamento della posizione del Gruppo Casillo. Banca d'Italia accertò “diffuse irregolarità” e pure che “possessori di significative quote del capitale della banca erano beneficiari di rilevanti finanziamenti erogati dall'azienda”. I rinvii ai problemi economici del Mezzogiorno usati come scusa dal presidente di Mediterranea (prima di Bpb, ndr), ricorda la memoria difensiva presentata contro BdR/Capitalia spa nel 2005 dagli azionisti di minoranza della Mediterranea dopo il suo crack, non avrebbero dovuto essere condivisi dall’azionista di controllo BdR (anch'essa dentro il pool Crediop quando la Regione firmò nel 2000 il mutuo per il terremoto del '98, ndr), ma Generoso Puzio, rappresentante BdR, era pure titolare del 50,03% delle azioni di Mediterranea. 

Pareggiare i conti a Roma lasciando buchi altrove. In quello stesso 2000 BdR aveva rappresentato ai sindacati che stavano determinando il valore di stima delle attività di compendio di Mediterranea, non ancora incorporata, da conferire nella Mediterranea Servizi 2000 spa, società costituita immediatamente dopo la stipula nel 2000 dell’atto di fusione tra il presidente di Capitalia Cesare Geronzi e Leonardo Di Brina della controllata-incorporata Mediterranea, presto rinominata Nuova Banca Mediterranea. Per il pool di avvocati che rappresentò gli azionisti di minoranza della Mediterranea, BdR già nell'esercizio finanziario del '98 “preconizzava nel suo bilancio quello che un anno dopo sarebbe stato il valore di concambio fissato per la fusione”. Dall’attuazione di quel progetto di vendita di Mediterranea, scrivono, “Banca di Roma ha conseguito un corrispettivo di 284mln di euro, una plusvalenza di circa 202mln, utile a sanare, portandolo in attivo, il bilancio 2001”. La costruzione della nuova holding BdR/Capitalia avvenne proprio dopo la vendita di Nuova Banca Mediterranea per 284mln alla Popolare di Bari, altra consorella del circuito delle banche cooperative a responsabilità limitata che avevano fatto affari col precedente terremoto del 1980 (tipo la Banca Popolare dell'Irpinia, ndr), come se Mediterranea Servizi 2000 sin dall'inizio fosse stata destinata a una operazione da cui attendere un “lucroso corrispettivo e una cospicua plusvalenza”. Certo senza vendita, specificarono gli avvocati, il bilancio della BdR si sarebbe chiuso con una perdita di 120mln di euro. 

Public finance? Crediop, capofila del mutuo firmato nel 2000, diventò società per azioni nel '90, iniziando un tour di quote societarie per banche che si concluse con l'acquisizione da parte della franco-belga Dexia Crédit Local de France, del Crédit Communal de Belgique, e dalla Banque Internationale à Luxembourg, e la partecipazione del circuito delle popolari con Banca popolare di Milano, Banco popolare, e via Em.Ro Popolare Società Finanziaria di Partecipazioni spa, della Banca popolare dell'Emilia-Romagna. Ancora nel 2009, stando alla Guida agli operatori al project financing, Dexia risultava il secondo operatore in Italia per volume complessivo di finanziamenti concessi, e primo a finanziare opere pubbliche. Quando finisce indagata nel 2010 dalla Procura di Bari per bond ventennali da 870mln di euro sottoscritti dalla Regione Puglia per ristrutturare il debito della sanità, Dexia in Basilicata ha in mano la rinegoziazione di sette mutui contratti dall'85 all'89 per circa 23,5mln di euro con scadenza nel 2019, e via Crediop (anche se non esiste più) e sempre con scadenza 2019, un altro mutuo da 10.329.137 di euro in cui capofila è la Banca popolare di Bari. E ancora, 18mln sempre via Crediop con capofila Banca infrastrutture innovazione e sviluppo (Biis, ndr) con scadenza 2020 per “finanziamento spese di investimento esercizio finanziario 2000”. E ancora circa 31mln di euro per investimenti nel settore trasporti con scadenza 2018. E ovviamente è capofila come istituto mutuante per quei fondi del terremoto del '98 con scadenza 2019, per 358.479.577 euro in cui compare anche la Banca Opi che nel novembre 2007 firmava a Milano proprio con Biis un piano per creare un polo unico nell'ambito della public finance, deliberando dal 1 gennaio 2008 la scissione per incorporazione del ramo aziendale di Opi a favore della Biis.

L'indebitamento perverso. Intrecci bancari o meno a fine giugno 2011 il gruppo Dexia era a rischio di smantellamento e i governi francese e belga, co-azionisti, si impegnarono a “fornire la loro garanzia ai finanziamenti”. Pochi mesi dopo la Commissione europea diede via libera con riserva alla nazionalizzazione di Dexia Bank Belgium, precisando che l'operazione costata quattro miliardi di euro era stata necessaria per la stabilità del sistema finanziario, ma che al momento non era in grado di valutare se fosse stata in linea con le norme Ue sugli aiuti pubblici. Due anni dopo Dexia, che aveva già beneficiato tra 2008-2009 di “sostanziali sostegni”, finisce assieme a Ubs in un'altra storia di contratti tossici di cui Angelo Canale, Procuratore regionale della Corte dei conti Toscana, aveva delineato gli effetti perversi sull'indebitamento del Comune di Firenze. Si scoprirono costi non documentati né dalle banche né dagli advisor, spesso le banche medesime, di cui il Comune s'era avvalso per le consulenze. Già nel 2008 il giornalista Nicola Piccenna aveva provato a spiegare in modo informale a diverse Procure che una banca come Dexia non poteva reggere, e fatto presente che di 12mld di euro di crediti solo 300mln erano garantiti, c'erano invece 12mld di debiti.

Storie di consuetudine. Guarda caso anche in Basilicata Dexia e Ubs, per la Corte dei conti, sul mutuo per i fondi del terremoto '98 avevano “svolto sia attività di consulenti finanziari dell’ente sia quella, successiva, di firmatari del contratto in derivati”. I contratti con Dexia e Ubs erano stati inoltre stipulati in inglese, “criticità di non poco rilievo” per la Corte dei conti lucana, e oltre a “diminuire la trasparenza del regolamento negoziale” la pubblica amministrazione si trova oggi ad applicare regole diverse da quelle dell’ordinamento interno. In una nota del novembre 2008 la Regione dichiarò d'essere in possesso delle traduzioni dei documenti, d'aver preso visione del contenuto degli stessi prima della loro sottoscrizione e aver richiesto un “parere” all'Ufficio legale dell'Ente sia riguardo alla tutela che la sottoscrizione di tale schema poteva garantire, sia alla interpretazione di alcuni istituti contenuti nell'accordo (legge e giurisdizione competente, ndr). Non si specificava l’esito della richiesta. Nel “Prospetto delle clausole specifiche” accettate dalla Regione Basilicata, continua la Corte, c'è scritto che “sarà regolato e interpretato in conformità alle leggi in vigore in Inghilterra” e che i contraenti sono obbligati “a sottomettersi alla giurisdizione dei tribunali del Regno Unito”, rinunciando “a qualsiasi eccezione di incompetenza per territorio in qualsiasi data, e per qualsiasi Procedimento aperto presso uno di tali tribunali”.

Beata vigilanza. Abbiamo dunque ricostruito il tessuto socio-economico talmente bene in Basilicata dopo due terremoti che la Regione non solo può permettersi di firmare a nome di tutti i cittadini debiti rinunciando alla giurisdizione italiana, ma disinteressarsi del precedente contratto, il debito residuo di 211,820mln di euro verso il pool di banche attaccate a Crediop (ancora in essere, ndr), e collocarsi in una “singolare” posizione contrattuale con gli Istituti firmatari dell’operazione in derivati. “Uno degli stessi, Dexia Crediop – scrive la Corte – è lo stesso istituto firmatario, sia pure in qualità di capogruppo e mandatario di una Associazione Temporanea di Imprese (in cui figuravano Banca Mediterranea e BdR appena fuse, ndr), dell’originario contratto di mutuo, e quindi viene a trovarsi sia pure in parte, nella posizione di creditore e debitore”. Si fa notare che nella relazione sull'esercizio finanziario 2013, la Regione non ha fornito “evidenza contabile” dell'ammontare ipotetico che deve incassare (se positivo) o pagare (se negativo) per uscire dal mutuo, specificando che verrebbe contabilizzato nel bilancio dell'Ente “solo” se fosse deliberata la chiusura del contratto. Valore che, sottolinea la Corte, tra 2007 e 2013 è costantemente negativo. La Regione ha dunque già sborsato parecchi milioni di euro. La Corte ricorda la natura “fortemente aleatoria” di tali contratti per le finanze di un’amministrazione pubblica, e insiste sul fatto che la Regione non ha indicato le “unità previsionali di base” e i “capitoli di spesa” sui quali ricade la gestione del mutuo. Fatti “pregiudizievoli degli equilibri dell’esercizio in corso e di quelli futuri”. Ma nel 2006 quando si firmavano swat per il terremoto del '98, una legge assegnava ancora un contributo quindicennale di 3,5mln di euro a decorrere dal 2007 per la prosecuzione nei territori colpiti dal terremoto '80-'81, e due anni dopo in un rapporto della Sezione di controllo della Corte dei conti sulla gestione dei fondi per il terremoto del '80, in relazione a quel rifinanziamento s'affermò che per “le opere in corso e da completare” il Dipartimento di protezione civile aveva inviato una nota nella quale aveva fatto presente che le Regioni interessate curavano “in toto” gli adempimenti relativi all’utilizzazione dei fondi, ma che al Dipartimento non era stato assegnato alcun potere di indirizzo, vigilanza, e controllo. Un fatto “grave” aver trascurato “semplici compiti di vigilanza”.

Quello che "sapevano tutti". Nel settembre 2007 il pm Annunziata Cazzetta, su procedimento penale aperto nel 2003 nei confronti della Banca popolare del Materano (Bpm, ndr), inviava al giudice Angelo Onorati la richiesta di rinvio a giudizio di 35 persone, tra cui funzionari della stessa e imprenditori locali, accusati di una serie di reati bancari. Una storia che si chiude anni dopo con l'assoluzione degli indagati e la fusione di Bpm con la Banca popolare del mezzogiorno. Tra gli indagati c'è Guido Leoni, all'epoca amministratore delegato della Bper, vicepresidente dell'Istituti banche popolari italiane, e consigliere di amministrazione di Em.Ro popolare, Banca popolare di Crotone, e infine Dexia Crediop. A Milano invece, sempre in quel 2007, viene aperto un fascicolo nei confronti dalla Banca Italease. Nelle intercettazioni autorizzate nel procedimento penale sull'aggregazione Banca popolare di Milano-Bper, il gip Cesare Tacconi sottolinea una telefonata tra Leoni (quello a cui nel 2004 Giovanni Conforti della scalata occulta Unipol diceva al telefono che “gli immobiliaristi sono inaffidabili e ricattano”, ndr), e Sergio Iotti (vicedirettore, ndr). “Pare ci siano buchi paurosi” dice Leoni a Iotti, “c'è un buco pauroso... lo sapevano tutti che vendevano questi derivati”. L'anno dopo Claudio Calza, consigliere del cda del Banco popolare del Materano, della Bper, e ovviamente pure della Dexia, è arrestato, nell'ambito dell'indagine sui derivati di Banca Italease, per associazione a delinquere finalizzata all'appropriazione indebita. Questa storia finanziaria finisce che nonostante chi vendeva questi derivati sapeva i “buchi paurosi” che creavano (e chi li firmava? sapeva?), in Basilicata fino al dicembre 2019, per i derivati dell'ultimo terremoto la Regione deve sborsare a Dexia 11.250.000euro l'anno. Quali benefici ne abbiano tratto i terremotati lo sanno solo loro. 

TERREMOTO E RESIDENZE. Terremoto Amatrice, boom di richieste residenza. Fondi ricostruzione fanno gola, scrive il 4 settembre 2016 Spartaco Ferretti su “Blitz Quotidiano”. Ci sono gli sciacalli che cercano di intrufolarsi nelle case inagibili dopo il terremoto per rubare quello che è rimasto intatto. Poi ci sono gli sciacalli che cercano di mettere le mani anche sui giocattoli mandati per beneficenza ai bambini. E ancora ci sono gli imbucati, sciacalli di serie B, che cercano di scroccare pasti alle mense riservate a chi nel terremoto ha perso cari e casa. E infine ci sono i furbetti del terremoto. Quelli che cercano, se non di guadagnarci, almeno di non rimetterci. Funziona così: se ti crolla la casa ed è la tua prima e unica casa, quella fino a dove ieri vivevi, Stato come è normale ti aiuta per primo. Se poi avanza qualcosa si dà qualche incentivo anche a chi la casa la aveva ma non era la prima, era un di più, una seconda casa per le vacanze. Non sono e non possono essere loro, per forza di cose, i primi a essere aiutati. E così, racconta Il Messaggero, ad Accumoli, Amatrice e negli altri luoghi squassati dal terremoto, dopo il 24 agosto è successo qualcosa di strano: tante, troppe, persone, hanno chiesto la residenza in uno dei comuni distrutti. Facile capire che qualcosa non torni. Prima, quando casa ce l’avevi agibile, ad Amatrice non vivevi. Ora che la casa è inagibile o crollata, dichiari e chiedi di viverci. Il perché è presto spiegato da Valentina Errante per Il Messaggero: il procuratore Giuseppe Saieva, numero uno della procura di Rieti, ha aperto un altro fascicolo che questa volta non riguarda gli sciacalli responsabili di furti nelle case distrutte, quanto piuttosto quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. Ossia chi, dopo il sisma, ha chiesto il trasferimento di residenza, da Roma ai centri colpiti. All’attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l’ufficio Anagrafe. L’ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.

Terremoto: non solo sciacalli, si indaga su furbetti di residenza, scrive il 5 settembre 2016 Alberto Battaglia su "Wallstreetitalia.com". La Procura di Rieti ha aperto un fascicolo sulle richieste di residenza sospette che sono giunte al Comune di Amatrice nei giorni successivi al terremoto che ha devastato la città. Un volume di domande poco chiaro che potrebbe nascondere il tentativo di accaparrarsi una fetta dei contributi pubblici che saranno affidati ai residenti del paese per la ricostruzione degli immobili. Il sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, non teme che i “furbetti della residenza”, così battezzati dai media, possano farla franca: “Gli uffici dell’anagrafe hanno avuto disposizione di informare i carabinieri e i vigili ogni volta che arrivano richieste di questo tipo”, ha detto. Alcuni “furbi” sono già stati individuati in un altro dei centri terremotati, Accumoli. Non è detto che dietro a ciascuna richiesta di residenza si celi un proposito fraudolento: la polizia giudiziaria avrà, appunto, il compito di discernere le domande di coloro che semplicemente si erano attardati a regolarizzare presso l’Anagrafe una residenza in atto già da tempo, da quanti si trovino in posizioni più dubbie. E’ il caso di coloro che reclamano una residenza presso immobili o strade ormai completamente distrutte dal sisma.

Furbetti ad Amatrice: è corsa alla residenza per avere i fondi statali, scrive il 4 settembre 2016 Adriano Scianca su "Intelligonews.it". Perché uno dovrebbe, proprio adesso che il paese, di fatto, non esiste più, affrettarsi per prendere la residenza ad Amatrice o ad Accumoli? Semplice: per godere dei fondi stanziati dallo Stato per il terremoto. È su questo terribile sospetto che sta indagando la procura di Rieti. Il procuratore Giuseppe Saieva ha aperto un altro fascicolo che sugli “amatriciani dell'ultim'ora”, quelli che sperano di lucrare sui contributi statali destinati a chi abbia subito danni dal terremoto del 24 agosto scorso. La procura ha chiesto ieri il sequestro di tutti i registri anagrafici dei comuni interessati dal terremoto, materiale che si aggiunge alla documentazione acquisita dai Carabinieri negli uffici della Provincia di Rieti e in quelli regionali del Genio civile sugli immobili che avevano subito migliorie antisismiche e sono crollati dopo le scosse. All'attenzione della magistratura, che ha aperto un altro fascicolo, sono finite le anomale richieste di cambio di residenza, inoltrate il 31 agosto nei centri temporanei aperti, in sostituzione degli uffici dichiarati inagibili, per accogliere le istanze dei cittadini. Secondo i sospetti dei pm, le richieste sarebbero arrivate proprio al fine di ottenere contributi per la ricostruzione degli immobili, previsti, secondo la legge, solo per le prime case. Alcuni episodi, già confermati, riguardano il trasferimento da Roma ad Accumoli. Ma adesso gli accertamenti riguarderanno anche le altre amministrazioni. Alla polizia giudiziaria spetterà anche la verifica delle pratiche presentate da quanti hanno sostenuto di essere residenti da tempo e di avere soltanto tardato nella regolarizzazione con l'ufficio Anagrafe. L'ipotesi è che sia in atto una forma di speculazione per ottenere i contributi che saranno stanziati per la ricostruzione. Nei casi ritenuti sospetti, chi ha inoltrato la domanda, ha indicato come indirizzo case distrutte, strade oramai inesistenti e quartieri ridotti in macerie.

TERREMOTO: ANTE E POST DI ILLEGALITA'. Terremoto, il videoracconto di Gatti: il rischio ad Amatrice era scritto, ma è stato ignorato. Il documento del Comune, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal sisma del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati, scrive Fabrizio Gatti il 26 agosto 2016 su “L’Espresso”. Il piano di protezione civile del Comune di Amatrice già prevedeva la distruzione del paese e i potenziali rischi per la popolazione: «Soprattutto nei piccoli borghi e anche nel capoluogo, caratterizzati da vie strette senza slarghi». È tutto scritto a pagina 18 del documento che per legge ogni amministrazione municipale deve predisporre. Si sapeva cioè dei pericoli. E come si è visto con il terremoto del 24 agosto, non si è fatto nulla per evitarli. «Si deve rilevare altresì che l'edilizia abitativa e non del territorio comunale è per lo più risalente all'Ottocento e ristrutturata con vari interventi risalenti al Novecento», è scritto nel piano di Amatrice tra non pochi errori di sintassi che abbiamo corretto: «Gli interventi in cemento armato e la sua diffusione sono sicuramente riconducibili agli interventi realizzati dopo il 1960, pertanto il rischio sismico è alto e lo testimoniano i danni riportati dall'edilizia pubblica e privata causati dal sisma del 1979 e da ultimo del 2009 che interessò la città dell'Aquila. Senza dubbio la tipologia costruttiva (muratura portante in pietrame locale) influenza in maniera determinante la vulnerabilità degli edifici esistenti con potenziali rischi per la popolazione». Il Comune di Amatrice ha il suo piano di protezione civile. Il documento, obbligatorio per legge, prevede con precisione le conseguenze catastrofiche provocate dal terremoto del 24 agosto. Descrive anche la zona dell'hotel Roma come un'area ad alta instabilità geologica. E indica lo stesso hotel, ora crollato, al primo posto tra i luoghi dove ospitare eventuali sfollati. Nemmeno le strade sono sufficienti in caso di calamità: «Nelle frazioni spesso la viabilità di accesso e di esodo è garantita da una unica strada. Va pertanto opportunamente monitorata la viabilità in caso di eventi calamitosi». Il piano indica tra l'altro la zona dell'hotel Roma tra quelle a maggiore instabilità idrogeologica: «Le caratteristiche dei terreni alluvionali sabbiosi limosi depositatesi su formazioni più consolidate li rendono infatti generalmente instabili. Si segnala tuttavia la necessità, da parte dell'amministrazione comunale, di porre particolare attenzione nell'approvazione di progetti pubblici e privati, subordinando gli stessi agli esiti di una relazione geotecnica e geologica che garantisca la funzionalità del complesso opere-terreni per il mantenimento della sua stabilità». I geologi sanno bene che nei terreni alluvionali le onde sismiche amplificano i loro effetti sulle costruzioni sovrastanti. Il sito del Comune distrutto dal terremoto del 24 agosto pubblica il piano di protezione civile del Comune di Amatrice. Con i rischi, le misure di emergenza, gli indirizzi, le vie, i punti di raccolta per gli abitanti di Amatrice. Quindi per i residenti di Accumoli è un piano completamente inutile. Un caso di copia-incolla? Arquata del Tronto ha invece un piano di protezione civile, ma introvabile sui canali istituzionali sia del Comune sia del dipartimento nazionale della Protezione civile. Come edificio strategico per il paese il piano di Amatrice indica il municipio di corso Umberto 70, che però non ha retto alle scosse evidentemente per scarsa resistenza antisismica. Come luogo dove riparare eventuali sfollati, al primo posto è invece indicato proprio l'hotel Roma, nella zona segnalata poche pagine prima tra le aree più instabili: lo stesso piano di protezione civile, insomma, non tiene conto di quanto prescrive. Anche il Comune di Accumoli, dove la caduta del campanile ha ucciso un'intera famiglia, ha il suo piano di protezione civile. E lo pubblica sul suo sito Internet istituzionale. Però il documento è copiato integralmente da quello di Amatrice, comprese l'intestazione, le vie, le piazze, i nomi dei referenti, le caratteristiche del territorio. Un errore oppure un maldestro copia-incolla. Nel piano obbligatorio per legge, Accumoli è citata soltanto due volte come paese confinante di Amatrice. Quindi è uno strumento accessibile ai cittadini, ma completamente inutilizzabile. Il piano di protezione civile di Arquata del Tronto resta invece un mistero. Il sito del dipartimento nazionale della Protezione civile include il Comune tra quelli che hanno rispettato la legge. Ma non c'è modo di raggiungere il piano. E cercando sulla pagina del Comune non si trova. Non deve stupire, purtroppo. Gran parte dei sindaci italiani sono nella stessa situazione. E in Calabria, regione esposta a terremoti molto più potenti del sisma del 24 agosto, un terzo delle amministrazioni comunali è del tutto privo di un piano di protezione civile. E generalmente i paesi e le città che lo hanno adottato non lo rendono pubblico e facilmente accessibile ai cittadini. Nel frattempo, nell'importante periodo di pace tra un terremoto e l'altro, proprio nelle province più lacunose raramente le agenzie di protezione civile regionali e il dipartimento nazionale hanno esercitato i loro poteri-doveri di controllo per spingere i sindaci a rispettare la legge. 

Terremoto, lo scandalo-fondi: i soldi c'erano ma non furono spesi. Ad Amatrice ed Accumuli i 4 milioni di euro messi a disposizione negli ultimi due anni per la messa a norma degli edifici privati non sono mai stati spesi, scrive Ivan Francese, Giovedì 25/08/2016, su "Il Giornale". Un terremoto giudiziario originato dal terremoto vero: è questa la prospettiva che si apre nell'ambito dell'inchiesta per disastro colposo che sarà aperta dal procuratore di Rieti dopo il sisma che nella notte fra martedì e mercoledì ha devastato Amatrice, Accumuli e Pescara del Tronto, al confine fra Lazio, Umbria e Marche. Un'inchiesta che con ogni probabilità parlerà di fondi pubblici stanziati per la messa a norma degli edifici, pubblici e privati, e mai spesi. Come è successo ad Amatrice, la città-simbolo che piange oltre duecento morti e che presto chiederà verità e giustizia. Non c'è solo la scuola "Romolo Capranica", restaurata nel 2012 e crollata come un castello di sabbia. C'è anche l'ospedale, per il cui restauro erano pronti due milioni di euro che non sono stati mai spesi. C'è il municipio, crollato anch'esso, per cui erano stati messi a disposizione fondi provinciali poi dirottati altrove. Tanti casi che lasciano sgomenti, altrettante domande a cui bisognerà trovare una risposta. E purtroppo il conto dei danni, in termini umani e materiali, non si ferma solamente agli edifici pubblici. Dopo il terremoto dell'Aquila del 2009, racconta Repubblica, la Protezione Civile ha messo a disposizione 965 milioni di euro per la messa a norma degli edifici privati secondo le direttive antisismiche. Fondi che prevedevano contributi statali dai cento ai duecento euro al metro quadro per la ristrutturazione degli immobili dei centri storici, generalmente quelli più a rischio. Eppure moltissimi di quei fondi non sono stati nemmeno richiesti, a causa dei bizantinismi della burocrazia, che imponevano ad esempio la gestione regionale dei fondi, ma tramite sportelli organizzati dai Comuni. Fra Amatrice ed Accumuli, dove il rischio sismico era pure altissimo (e tutti lo sapevano), non è stato speso nemmeno un euro dei quattro milioni stanziati fra 2014 e 2015. Una circostanza che grida vendetta.

Ricostruzione, soccorsi, polemiche. La maledizione del post-terremoto. Dalla catastrofe di Messina nel 1908 a quelle del dopoguerra, il susseguirsi di errori e ritardi ha caratterizzato quasi ogni sisma che ha colpito il Paese. Al punto da imporsi come un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, scrive Dino Messina il 28 agosto 2016 su "Il Corriere della Sera”. Appena passata l’onda devastatrice del terremoto, si pensa al dopo. Le esperienze possono servire per non ripetere gli errori e per rendersi conto dei passi compiuti. La storia del dopo terremoto è diventata un vero e proprio genere della letteratura e della pubblicistica italiana, soprattutto da quando la stampa liberale ha assunto un ruolo centrale di stimolo e denuncia.

Basilicata, 1857. In questo senso è emblematica la vicenda del terremoto della Basilicata che nel 1857 distrusse i paesi della Val d’Agri e colpì severamente quelli della Valle di Diano. Lo Stato unitario non era ancora nato. E ai nostalgici del Regno delle Due Sicilie (ce ne sono ancora!) vanno ricordati i ritardi nei soccorsi più elementari dopo il sisma che il 16 dicembre 1857 provocò oltre diecimila morti (fonti ufficiali dello Stato borbonico) e secondo altri studi fece invece 19 mila vittime. Un fotogiornalista francese, Alphonse Bernard, arrivò nei luoghi del disastro ben prima dei soccorritori e dell’esercito e documentò la distruzione in fotoreportage i cui introiti furono in parte destinati alla popolazione decimata dalla catastrofe. Un pubblicista come Teofile Roller sulla stampa britannica denunciò che nel febbraio 1858, oltre due mesi dopo il sisma sotto le macerie di alcuni paesi come Montemurro non erano ancora stati disseppelliti i cadaveri.

Messina 1908. Il terremoto del 1857 era stato classificato come il terzo più grave della storia, ma quello del 28 dicembre 1908 che colpì Messina e fece 80 mila morti su una popolazione di 172 mila abitanti fu una vera ecatombe (foto sotto). Il tragico evento ebbe testimoni illustri come Giovani Pascoli e lo storico Gaetano Salvemini, che in quella giornata perse la moglie e cinque figli. Presidente del Consiglio era Giovanni Giolitti, ci furono ritardi ma non certo paragonabili a quelli borbonici. I primi importanti soccorsi arrivarono tuttavia dai marinai delle navi russe e inglesi oltre che dal personale della Marina italiana. In quella grave calamità ci fu un concorso di aiuti internazionale. Villaggi di baracche vennero donati dal re di Prussia Guglielmo II e dal presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt. Quando nel gennaio 1975 nella zona ci fu un altro non rilevante sisma l’inviato del Corriere della sera Antonio Padellaro documentò che ancora esistevano cinque quartieri di baracche risalenti al terremoto del 1908 in cui vivevano circa 25 mila persone. Nel 2002 un reportage di Alessandro Trocino rilevò che la popolazione nelle baracche del terremoto era scesa a 3.500 abitanti, ma che c’erano generazioni di famiglie per niente disposte a mollare la baracca del 1908, anzi la tramandavano di padre in figlio perché abitare lì dava il diritto di avere una abitazione nuova. Il più lungo post terremoto della storia.

Marsica 1915. Le ruberie compiute dopo il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 furono denunciate dal giovane Ignazio Silone, che all’epoca ancora si chiamava Secondino Tranquilli, in articoli scritti per l’Avanti!. Anche ad Avezzano, che fu il centro più colpito dal sisma che precedette di pochi mesi la nostra entrata nella Grande Guerra, vennero costruite delle baracche. I cronisti che andarono sul posto per il terremoto del 1983 scoprirono che alcune di quelle casupole erano ancora occupate, da locali o da turisti romani che avevano trovato una sistemazione per le vacanze invernali e non erano affatto disposti a lasciarle. Così alcune delle roulotte per il terremoto del 1983 vennero piazzate accanto alle baracche superstiti del 1915.

Vulture 1930. Si parla poco del terremoto del Vulture del luglio 1930 (foto sotto), che provocò 1.404 morti e che coinvolse 50 comuni in cinque province della Basilicata, della Puglia e della Campania. Il regime fascista non perse occasione per trasformare la tragedia in un’occasione di propaganda, sicché si vantò di aver costruito in pochi anni 3.746 case e di aver riparato 5.190 abitazioni. Il coordinamento della ricostruzione e dei soccorsi venne affidato ad Araldo di Crollalanza.

Belice 1968. Nel secondo dopoguerra il terremoto del Belice del 14 gennaio 1968, che causò 300 morti e 80 mila senzatetto, rimane come un simbolo negativo non soltanto per il ritardo nei soccorsi ma per una politica di ricostruzione sbagliata. Secondo la vasta letteratura di quel terremoto, sul posto arrivarono prima i cronisti dei soccorritori. La prima casa venne ricostruita nel 1977, nove anni dopo la tragedia! Sbagliata fu anche la scelta di ricostruire Gibellina (foto sotto), il centro maggiormente danneggiato, a 18 chilometri dal sito storico. La chiesa di quel nuovo paese crollò nel 1994 e il lago progettato per il recupero delle acque piovane rimase a lungo non funzionante. È stato calcolato che questa mancata ricostruzione sia costata allo Stato italiano non meno di sette miliardi di euro.

Friuli 1976. Un modello del tutto diverso venne riproposto per la ricostruzione dei paesi del Friuli devastati dal terremoto del 6 maggio 1976 (foto sotto), che provocò 989 vittime. Tra i paesi più colpiti, Osoppo, Gemona, Trasaglio, Buja, Maiano, Colloredo, Spilinbergo, Forgaria, Venzone. Un appello lanciato nell’agosto 1977 dagli abitanti di quest’ultimo centro riassume la filosofia del modello Friuli: «Respingiamo una ricostruzione standardizzata che certamente ci renderebbe estranei nella nostra stessa patria». I friulani sconfissero così l’Orcolat, l’Orco, come in lingua locale chiamano il terremoto, con una ricostruzione che teneva conto delle esigenze della popolazione, partiva dal basso, a differenza di quel che era avvenuto in Belice dove erano stati calati megaprogetti dall’alto. I paesi vennero ricostruiti pietra su pietra secondo una scala di priorità riassunta bene dal vescovo Alfredo Battisti: «Prima le fabbriche, poi le case, poi le chiese». Nel 1983, sette anni dopo il terremoto, l’80 per cento della ricostruzione era stata ultimata.

Irpinia e Basilicata 1980. Il terremoto più grave nella seconda metà del Novecento, per numero di vittime ed estensione dell’area danneggiata, rimane quello dell’Irpinia e della Basilicata, che il 23 novembre 1980 provocò quasi tremila morti, poco meno di novemila feriti e 280 mila senza tetto. Tutto l’Italia si mobilitò in una gara di solidarietà. Chi scrive, allora giovane cronista, arrivò a Balvano, in provincia di Potenza (foto sotto), la sera del 24 novembre, in tempo per vedere i 77 sacchi che contenevano i corpi dei fedeli uccisi dal crollo della chiesa. Così assistette al dramma di un padre, un vecchio medico, a Sant’Angelo dei Lombardi, in provincia di Avellino, che aveva ingaggiato delle ruspe per far scavare sotto le macerie dell’ospedale dove giacevano i corpi dei due figli. Partirono diverse denunce per gli edifici nuovi che erano crollati perché i tecnici avevano ignorato le norme antisismiche. Numeri irrisori in confronto alle 382 persone arrestate per le vicende legate alla ricostruzione. Una ricostruzione che è costata ai contribuenti italiani più di 60 mila miliardi di lire. Una voragine provocata da contributi distribuiti a pioggia: gli aiuti invece di essere concentrati nei paesi seriamente danneggiati vennero esteri a 687 Comuni. Scandalosa anche la lievitazione di costi di alcune opere che talvolta superò il mille per cento. Una commissione d’inchiesta parlamentare denunciò inoltre che erano state consapevolmente finanziate imprese fallimentari.

Umbria e Marche 1997. Un veloce ritorno alla normalità ha caratterizzato la ricostruzione nel dopo terremoto che il 26 settembre 1997 fece undici morti e 32 mila senza tetto nell’Umbria (foto sotto, Assisi) e nelle Marche. La ricostruzione certosina della Basilica di San Francesco d’Assisi è lì a dimostrarlo. Un piccolo sisma, quello del 31 ottobre 2002 in Molise, causò una grande tragedia: il crollo di una scuola a San Giuliano che uccise 27 bambini e una maestra. Un processo dimostrò che quell’edificio era stato costruito in spregio alle più elementari norme di sicurezza.

L’Aquila 2009 ed Emilia 2012. Il sisma di questi giorni nel Centro Italia è stato definito un terremoto gemello di quello che il 6 aprile 2009 provocò all’Aquila (foto sotto) e nei comuni vicini 309 morti e 60 mila sfollati. Anche in questo caso si sono dimostrate fallimentari la filosofia e la pratica delle New Town. Il business della ricostruzione ha attirato personaggi senza scrupoli sia all’Aquila, dove qualcuno rideva per i soldi che avrebbe fatto con la catastrofe, sia in Emilia, sconvolta dal terremoto del 20 e 29 magio 2012. La rapida ricostruzione di questo cruciale territorio è stata inquinata dalla presenza di cosche di ‘ndrangheta calabresi infiltratesi al Nord.

Terremoto, crollate Torre civica e chiese dichiarate a norma. Terremoto, lo scandalo dei fondi antisisma deviati.  Dai ponti non ristrutturati perché la Provincia aveva finito i suoi soldi agli stanziamenti deviati per altri scopi. Ecco come si sprecano le risorse destinate a evitare stragi, scrivono Dario Del Porto e Fabio Tonacci il 30 agosto 2016 su “La Repubblica”. Due terremoti, quello dell'Umbria nel 1997 e quello dell'Aquila nel 2009, hanno fatto piovere sul territorio della provincia di Rieti 84 milioni di euro di fondi per la ricostruzione. Negli anni se ne sono aggiunti altri, di milioni. Della Regione, dello Stato, della Chiesa. Sette giorni fa, però, un altro sisma ha sollevato una verità che era sotto gli occhi di tutti: parte di quel denaro non è stato ancora speso, o è stato speso male, o, ancora, non è stato utilizzato per rendere gli edifici sicuri. E le rovine di Amatrice e Accumoli sono lì a testimoniarlo. Sei ponti in cerca di autore. Prendiamo i ponti. Due fondamentali vie di accesso ad Amatrice, la strada provinciale 20 e la statale 260, sono interrotte dal 24 agosto perché si sono danneggiati i ponti "Rosa" e quello di "Tre Occhi". Che ne è dei 611.000 euro che la Regione ha erogato nel 2014 "per interventi di mitigazione del rischio sismico" di sei ponti tra cui il "Rosa"? Rimasti nel cassetto. La provincia di Rieti non ha più un soldo in bilancio, e non riesce a trovare i 175mila euro della sua quota parte dell'intervento progettato. Dunque non può utilizzare i 611mila della Regione perché non ha i suoi 175mila da spendere. Il presidente della giunta Giuseppe Rinaldi, temendo di perdere i fondi, è stato costretto a inviare una lettera alla direzione regionale, nella quale spiega che "l'amministrazione intende confermare il proprio impegno al cofinanziamento", ma che per farlo dovrà "alienare immobili". Insomma, per aggiustare un ponte coi fondi del terremoto la provincia di Rieti si deve vendere un palazzo. Il campanile killer. Dopo il sisma del 1997, il Genio civile individuò sul territorio reatino 300 interventi di ricostruzione e miglioramento sismico per un totale di 79 milioni di euro messi a disposizione dallo Stato. Tra Accumoli e Amatrice c'erano 11 immobili e 10 chiese da sistemare. Prendiamone una diventata tragicamente famosa: il complesso parrocchiale San Pietro e Lorenzo ad Accumoli. È la chiesa con accanto un campanile costruito sopra il tetto di una casa: la notte del 24 agosto, quella torre campanaria di sassi, crollando, ha ucciso la famiglia Tuccio che abitava lì sotto, padre, madre e due bambini. Una grossa fetta dei fondi per gli edifici religiosi è stata gestita direttamente dalla Curia di Rieti, attraverso un ufficio tecnico creato ad hoc presso la diocesi, che ha predisposto le gare di affidamento. Il geometra che ha seguito tutte le pratiche si chiama Mario Buzzi, e adesso è in pensione. "Per il campanile non c'è stato mai alcun finanziamento specifico né alcun lavoro di ristrutturazione", spiega a Repubblica. Aggiungendo: "Non è vero che sono stati dirottati soldi per il miglioramento sismico dal campanile alla chiesa". La chiesa di Accumoli. E però nella lista delle opere finanziate del post-sisma 97 il nome della chiesa di San Pietro e Lorenzo, c'è. "Intervento sul complesso parrocchiale da 116mila euro". Si tratta del rifacimento del tetto di 200 mq della chiesa accanto al campanile, la cui gara d'appalto è stata vinta nel 2008 dalla Steta di Stefano Cricchi, uno dei figli di Carlo Cricchi, l'imprenditore reatino che si è aggiudicato commesse anche a L'Aquila. Per i lavori in Abruzzo, l'altro figlio, architetto, è sotto inchiesta per tangenti. "Chiariremo tutto, la nostra azienda non c'entra". Oggi Cricchi senior, cavaliere del lavoro, ha di che lamentarsi: "Noi non abbiamo fatto niente su quel campanile". Seduto al tavolo nel salotto della sua ditta, mostra disegni e capitolati. "Ci arrivano minacce di morte su Facebook e via mail perché tutti ormai credono che siamo stati noi a ristrutturarlo, ma non è vero". L'appalto per "riparazione e miglioramento sismico" della chiesa valeva 75mila euro (il resto, 41 mila euro, era per la progettazione). Steta lo vince con un ribasso del 16 per cento, dunque 59mila euro. Nel capitolato si scopre una cifra sorprendente: "Per il miglioramento antisismico c'erano appena 509 euro", spiega Cricchi. "Il progetto imponeva di inserire nella muratura 33 euro di ferro, praticamente una sola barra, e di fare alcuni fori da riempire non con il cemento, ma con la calce". Il grande equivoco. Eccolo il grande equivoco della ricostruzione dopo ogni disastro. La confusione tra il "miglioramento sismico" (piccoli interventi che non modificano sostanzialmente la stabilità dell'immobile) e l'"adeguamento", molto più costoso. Quasi tutto ciò che è stato fatto coi fondi dei terremoti, per forza maggiore scarsi e non sufficienti a coprire ogni spesa possibile, è miglioramento: i 200mila euro investiti nella scuola Capranica, in parte crollata; i 250mila euro messi nella Chiesa Santa Maria Liberatrice, inagibile; i 400mila del Teatro all'inizio del corso principale di Amatrice, distrutto; i 90mila della Torre Civica di Accumoli, lesionata; i 260mila euro della Chiesa di Sant'Angelo, venuta giù due settimane dopo l'inaugurazione. Fabio Melilli, deputato del Pd, è stato dal 2006 al 2010 il sub-commissario di Rieti per il terremoto dell'Umbria: "Quando mi sono insediato, era stato ultimato appena il 20 per cento dei lavori, nonostante fossero passati quasi dieci anni dal sisma". La normativa era fatta male: lo stesso progetto doveva superare due volte lo stesso esame. "Per dare il via alla gara di appalto - ricorda Melilli - servivano le autorizzazioni del Genio civile, del comune, della Soprintendenza. Una volta avute, il progetto andava in commissione dove c'erano gli stessi rappresentanti del Genio civile, del Comune, della Soprintendenza. Si perdeva un sacco di tempo". Tant'è che dei 5 milioni arrivati dopo L'Aquila, ne sono stati spesi appena tre. Il denaro immaginario. Una coperta quasi sempre corta. Si tira da una parte, ci si scopre dall'altra. Per il consolidamento del municipio di Amatrice c'erano 800mila euro, ma l'amministrazione guidata da Sergio Pirozzi ha deciso di spostarli sull'istituto alberghiero. Questo è rimasto in piedi, il municipio è franato. Coperta corta, che a volte si sfalda nelle mani di chi la vorrebbe usare. L'ospedale "Francesco Grifoni" da sette anni attendeva un intervento "urgente" di messa in sicurezza. I soldi, 2,2 milioni di euro, vengono pescati dal fondo per l'edilizia scolastica. Si è fatta anche la gara di appalto, vinta dal Consorzio cooperative costruzioni. Ma quel denaro, hanno scoperto i dirigenti della Asl di Rieti quando tutta la procedura era ormai avviata, esisteva solo sulla carta. Il fondo statale, per il Lazio, si era prosciugato.

Le carte riservate sui lavori eseguiti nei paesi del sisma e i certificati di chi ha fatto i collaudi su edifici pubblici. Gli «ancoraggi» dichiarati e mai fatti, scrivono Ilaria Sacchettoni e Fiorenza Sarzanini il 29 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. C’è un documento riservato che dimostra le irregolarità compiute nella ristrutturazione degli edifici pubblici di Amatrice e Accumoli dopo il sisma del 1997 dell’Umbria. È la relazione dell’ente attuatore su 21 appalti assegnati per la messa a norma degli stabili. E svela nei dettagli anche alcuni casi clamorosi, come quello della Torre Civica di Accumoli, manufatto del XII secolo che è il più antico del paese, gravemente danneggiato dalla scossa della notte del 24 agosto scorso. E quello della caserma dei carabinieri, crollata per il terremoto. Ma anche le procedure seguite per numerose chiese e complessi parrocchiali. Si tratta di 2 milioni e 300 mila euro, soldi pubblici che si aggiungono agli altri 4 milioni spesi dopo il 2009. Il dossier elenca i soldi stanziati, gli interventi effettuati, il nome dei progettisti, le ditte incaricate. Indica anche l’effettuazione dei collaudi per la convalida di quanto era stato fatto. Interventi per una spesa ingente, che evidentemente non erano stati svolti adeguatamente, visto che alcuni edifici sono stati distrutti dal sisma di sei giorni fa e altri risultano gravemente lesionati. E questo avvalora il sospetto dei magistrati: alcuni certificati sono stati falsificati. Atti che riguardano le strutture pubbliche, ma pure le abitazioni private. Ai Vigili del fuoco sono già arrivate numerose segnalazioni di cittadini che raccontano di aver acquistato la casa con la certificazione dell’avvenuto «ancoraggio» proprio per scongiurare il pericolo di crolli. E invece, dopo la scossa che ha devastato interi paesi, si è scoperto che nulla del genere era mai stato fatto. Controlli saranno effettuati anche dai magistrati di Ascoli che indagano sui crolli avvenuti ad Arquata e Pescara del Tronto. In particolare bisognerà verificare come mai alcuni edifici di Arquata — l’ufficio postale, la scuola, il Comune e la caserma dei carabinieri — dovranno essere demoliti perché dichiarati inagibili nonostante dovessero essere perfettamente a norma. Caso esemplare è quello della Torre Civica di Accumoli, edificio storico conosciuto anche a livello internazionale. Lo stanziamento iniziale di 100 mila euro viene ridotto a poco più di 90 mila. L’impresa individuata è la «Giuseppe Franceschini». Responsabile del procedimento è l’architetto Cappelloni. È l’esperto che segue altri progetti, compreso quello del complesso parrocchiale in cui è inserita la chiesa di San Francesco, dove il campanile è crollato e ha travolto un’intera famiglia. Vengono effettuati due collaudi: uno l’11 ottobre del 2012, l’altro il 28 maggio 2013. Non vengono evidenziati problemi e la verifica concede il via libera. Ma qualcosa evidentemente non ha funzionato: le scosse di sei giorni fa non hanno lasciato scampo e la Torre risulta gravemente lesionata. L’edificio è venuto giù. Storia analoga è quella della caserma dei carabinieri di Accumoli. Dopo il terremoto dell’Umbria si decide di effettuare lavori di ristrutturazione e vengono stanziati 150 mila euro. La ditta prescelta è la «Impretekna». Responsabile del provvedimento è il geometra Granato che risulta aver seguito ben nove progetti. Anche in questo caso i lavori sono classificati come «ultimati e collaudati». Sembra che sia tutto regolare, almeno a leggere le carte. E invece la sede dei carabinieri ha subito danni gravissimi. Sono i documenti ufficiali a dimostrare che la chiesa di Accumoli e il campanile erano stati inseriti in un «sistema» ben più ampio che prevedeva la ristrutturazione dell’intero complesso parrocchiale. Spesa prevista: 125 mila euro che scendono a 116 mila. L’appalto se lo aggiudica la «Ste.Pa» che evidentemente poi concede alcuni subappalti. Alla fine arriva il collaudo e la pratica si chiude. Nessuno immagina che in realtà i soldi stanziati per il campanile siano stati utilizzati per la chiesa. E soprattutto che non sia stato effettuato alcun adeguamento antisismico, ma semplici migliorie che nulla garantiscono. La notte del 24, dopo la prima fortissima scossa, il campanile si sbriciola e uccide quattro persone. Viene giù anche la chiesa di San Michele Arcangelo di Bagnolo, frazione di Amatrice. A disposizione erano stati messi 100 mila euro. Ente attuatore in questo caso era la Curia vescovile di Rieti che aveva indicato anche gli esperti responsabili dei lavori. E adesso saranno proprio gli ingegneri e gli architetti incaricati di occuparsi del controllo delle attività a dover chiarire ai magistrati che cosa sia accaduto tra il 2004, quando si decide di mettere a norma gli edifici, e il 2013 quando risultano effettuati gli ultimi collaudi. Nei prossimi giorni i magistrati coordinati dal procuratore di Rieti Giuseppe Saieva — i pubblici ministeri Cristina Cambi, Lorenzo Francia, Raffaella Gammarota e Rocco Marvotti — acquisiranno la documentazione su tutti gli stabili crollati. La decisione è quella di aprire un fascicolo su ogni edificio in modo da poterne ricostruire la storia ed effettuare le eventuali contestazioni a chi ha seguito le ristrutturazioni. Per questo verranno interrogati gli architetti e gli ingegneri indicati nella relazione sui lavori decisi dopo il sisma dell’Umbria. Saranno loro a dover chiarire come mai si decise di effettuare — nella maggior parte dei casi — soltanto delle «migliorie», chi diede le indicazioni sugli interventi e soprattutto che cosa fu scritto nelle relazioni finali per ottenere il via libera dei collaudatori. Questi ultimi dovranno invece chiarire che tipo di controlli furono svolti, consegnando anche la documentazione relativa a ogni progetto seguito. L’attività dei pubblici ministeri in questa prima fase dell’inchiesta si muove su un doppio binario: da una parte gli edifici pubblici e dall’altra le abitazioni private. In questo secondo caso l’attenzione si concentra soprattutto sui cosiddetti «ancoraggi». Nei giorni successivi al terremoto sono arrivate numerose segnalazioni di persone che hanno raccontato di aver comprato il proprio immobile e di aver ricevuto — al momento dell’acquisto — la certificazione sulla messa in sicurezza rispetto al rischio sismico. Quando i palazzi sono crollati è apparso evidente come non fosse stato effettuato alcun intervento mirato. Per questo bisognerà confrontare gli atti di compravendita con quelli registrati nei Comuni. Partendo naturalmente dagli edifici crollati che hanno provocato morti e feriti.

Al setaccio incarichi e consulenze sui fondi del dopo terremoto 1997. Gli inquirenti vogliono capire come sono stati spesi tre milioni di euro. Indagini sui collaudi che mancano e sui lavori che non sono stati ultimati, scrive Paolo Festuccia il 30/08/2016 su “La Stampa”. Quasi tre milioni di euro. Per la precisione 2 milioni 995 mila euro. A tanto ammontano i finanziamenti che sono piovuti su Accumoli e Amatrice per i danni subiti dal sisma del 1997. A questi si deve aggiungere il finanziamento - ma fuori dal sisma dell’Aquila - che la Regione Lazio elargì al comune di Amatrice al fine di migliore la sicurezza della scuola «Romolo Capranica» e di altre strutture presenti sul territorio. Intorno a questo fiume di denaro, nelle prossime ore, si concentrerà l’attenzione della Procura di Rieti. L’obiettivo, è quello di accertare come siano stati elargiti i contributi pubblici, e soprattutto come sono stati conferiti gli incarichi a una quarantina di professionisti tra ingegneri, architetti e geometri. È questo il dubbio che anima l’iniziativa degli inquirenti. Un interrogativo che incontra anche le richieste dei cittadini, sia quelli che hanno o non hanno subito danni, sia soprattutto i familiari di chi, proprio sotto quelle strutture appena restaurate, ha perduto la vita. A cominciare dalla famiglia Tuccio di Accumoli (mamma, papà e due figli piccoli) annientata dal crollo del campanile del complesso parrocchiale di San Pietro e Lorenzo restaurata con 125 mila euro con tanto di collaudo. Insomma a distanza di quasi vent’anni, dunque, quel sisma che colpì duramente e tragicamente l’Umbria e alcuni luoghi simbolo come Assisi o Camerino nelle Marche, torna protagonista insieme al terremoto dello scorso 24 agosto. Nel territorio di Amatrice le strutture restaurate sono state tredici per un milione 860 mila euro. Ben 630 mila euro di «questi fondi - assicurano fonti - sono stati elargiti alla Curia… e mai rendicontati…». Solo due opere al maggio di quest’anno erano state collaudate. Si tratta della Chiesa di San Michele Arcangelo (100 mila euro) e di Icona Passatore per 200 mila euro. Le altre tre strutture, per un valore in euro di altre 330 mila euro (affidate come Ente attuatore alla Curia di Rieti) non risultano ancora restaurate. C’è poi il singolare caso delle caserme dei Carabinieri. Quella di Accumoli, nei fatti, è andata completamente distrutta. Ad Amatrice i lavori della caserma non sono ancora ultimati (150 mila euro) e anche l’altro edificio preso in affitto in attesa del rientro nella caserma principale è di fatto ancora inutilizzato. È davanti a queste cifre e alla presenza di tante consulenze che la procura vuole andare fino in fondo. Capire non solo come gli incarichi siano stati conferiti ma soprattutto quali rapporti sono intercorsi tra chi ha ricevuto e chi ha conferito l’incarico. Affidi più volte distribuiti a stesse persone che in talune circostanze figuravano come progettisti e in altri come collaudatori. In tutto sono una quarantina i professionisti che a vario titolo hanno partecipato alla distribuzione dei lavori che solo in parte a distanza di quasi vent’anni sono stati collaudati. In un caso, addirittura, la chiesa di Sant’Angelo di Amatrice i lavori sono ancora in fase di esecuzione. Capitolo a parte, invece, merita la scuola «Romolo Capranica» di Amatrice. La città fu tagliata fuori dai finanziamenti per il sisma aquilano del 2009. Ottenne allora una finanziamento ad hoc dalla Regione Lazio (5 milioni di euro) per una serie di lavori da svolgere sia nel palazzo che comunale che nella scuola alberghiera. Per la «Romolo Capranica» ci fu un accordo di programma in base al quale il commissario per il sisma Fabio Melilli rese ente attuatore il comune stesso per una cifra di 170 mila euro. Soldi che si aggiunsero ai circa 500 mila che lo stesso sindaco Pirozzi aveva ottenuto dalla Regione e che il comune appaltò autonomamente per i lavori.

39 anni fa l'assassinio del colonnello Russo e del prof. Costa, scrive il 20 Agosto 2016 AMDuemila. L’omicidio avvenne in modo plateale perché la “mafia voleva una esecuzione spettacolare ed esemplare”. Così scriveva il giornalista Mario Francese, che da quella stessa mafia fu assassinato il 25 gennaio 1979. Il 20 agosto del 1977, alle ore 22.00, in contrada Ficuzza di Corleone un commando formato da Totò Riina, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Pino Greco, Filippo Marchese e Giuseppe Agrigento uccise il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo e l'amico Filippo Costa. Secondo gli inquirenti quella sera a sparare fu Leoluca Bagarella, mentre Pino Greco e Giovanni Brusca rimasero da appoggio, e Agrigento e Marchese erano all'interno delle auto parcheggiate, pronti per la fuga. Russo fu sicuramente tra i primi investigatori a comprendere la necessità di spostare l’attività investigativa sui grandi appalti e sull’interesse che avrebbero inevitabilmente suscitato nel sodalizio criminale che stava per assumere il controllo di Cosa nostra nelle province di Palermo, Trapani e Agrigento, che proprio in questa terra avrebbe avuto il suo centro nevralgico intono alle figure di Riina e Provenzano. Giuseppe Russo, secondo gli investigatori, fu tra i primi a capire le potenzialità dei corleonesi di Riina e Provenzano e a studiare le contromosse per arginarli. Così come fu pioniere nell'individuare gli interessi e le attività del gruppo mafioso che si stava organizzando intorno alle figure di Michele Greco, Riina, Provenzano e Bagarella, negli anni in cui si sarebbe consolidato il controllo della mafia sui finanziamenti pubblici e i grandi appalti per la ricostruzione del Belice, dopo il devastante terremoto del 1968. Quando fu assassinato, Russo era il comandante del Nucleo Investigativo del capoluogo siciliano, l'organo di punta nella lotta alla mafia, e uomo di assoluta fiducia dell'allora comandante della Legione carabinieri di Palermo, il colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa. Grazie al suo costante impegno furono realizzate con successo diverse operazioni investigative contro ogni forma di criminalità e, in particolare, contro le varie organizzazione mafiose. Per l’omicidio del tenente colonnello e del suo amico professore furono inizialmente condannati tre pastori: Salvatore Bonello, Rosario Mulè e Casimiro Russo; quest’ultimo, autoaccusatosi, aveva chiamato in causa gli altri due; ma nel ‘97 vengono assolti e la II sezione della Corte di Assise di Appello di Palermo condanna definitivamente all’ergastolo Leoluca Bagarella, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per l’assassinio di Giuseppe Russo e Filippo Costa. Così il giornalista Mario Francese, sul “Giornale di Sicilia”, ricordò quel tragico omicidio: “Al bar entrò soltanto Russo per fare una telefonata, Costa attese fuori. Un minuto dopo i due amici riprendevano la loro passeggiata… Nello stesso momento vi fu chi si accorse di una ’128’ verde che procedeva lentamente per il viale principale, evidentemente controllando i movimenti di Russo e Costa... L’auto continuò la sua marcia fino alla parte alta della piazza, effettuò una conversione ad ’U’ e si fermò proprio davanti all’abitazione del colonnello Russo. I due amici erano vicini alla macchina degli assassini. Non se ne resero conto. Non potevano. Si fermarono, Russo tirò fuori dal taschino della camiciola una sigaretta e dalla tasca dei pantaloni una scatola di ’Minerva’. Russo non ebbe il tempo di accendere la sua ultima sigaretta. Erano le 22,15. Dalla 128 scesero tre o quattro individui, tutti a viso scoperto. Lentamente, per non destare sospetti, camminavano verso i due. Appena furono vicini aprirono il fuoco con le calibro 38. Sparavano tutti contro Russo, tranne uno, armato di fucile che aveva il compito di uccidere Costa. Erano killer certamente molto tesi. Al punto che uno di loro lanciandosi contro Russo per finirlo, gli cadde addosso. Si rialzò immediatamente e, come in preda ad un raptus, imbracciò il fucile sparando alla testa. Fu il colpo di grazia. Il killer voleva essere certo che l’esecuzione fosse completa e mirò anche alla testa dell’insegnante Filippo Costa. Fu il secondo colpo di grazia. Si poteva andar via. Ma l’ultimo killer nella fuga perse gli occhiali che saranno ritrovati sotto il corpo senza vita del colonnello Russo. Ci si convinse subito che si trattava di un duplice delitto di mafia. Un agguato preparato nei dettagli almeno da 26 giorni. La 128, trovata abbandonata a tre chilometri da Ficuzza, è stata rubata infatti a Palermo il 25 luglio, appunto 26 giorni prima. Non sarebbe stato più semplice per la mafia uccidere il colonnello Russo in via Ausonia sotto casa a Palermo e il professor Costa a Misilmeri, dove abitava? - si chiede ancora il giornalista - No, perché la mafia voleva un’esecuzione spettacolare ed esemplare”.

La ricostruzione in Emilia e quello che il governo non dice. Un modello di gestione. Zero infiltrazioni mafiose e illegalità arginata. La narrazione ufficiale del Pd nazionale e regionale esclude ogni tipo di anomalie durante la fase post sisma emiliano. Eppure le inchieste giudiziarie e giornalistiche dicono altro, scrive Giovanni Tizian il 31 agosto 2016 su “L’Espresso”. Sulla via Emilia messa in ginocchio dal sisma del maggio 2012 è nata la narrazione della ricostruzione pulita. Nella roccaforte del Pd, del resto, tutto deve procedere secondo le regole. Criminali, mazzette e clan, non avrebbero trovato spazi, recita questa narrazione. Frammenti di questo racconto trionfalistico giungono anche in queste ore, a pochissima distanza dalla notizia che Vasco Errani sarà con tutta probabilità il commissario del post terremoto che ha ridotto in un cumulo di macerie i borghi storici di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Errani, appunto, scelto in virtù dell'esperienza emiliana. Dove, però, non tutto è come sembra. E sono molte le cose che il governo centrale e quello regionale non dicono. «Ha saputo garantire rigore, serietà, legalità e trasparenza. E noi oggi abbiamo ricostruito il 70 per cento di quello che avevamo, evitando infiltrazioni mafiose», intervistato da Repubblica Bologna il sindaco di San Felice Sul Panaro, Alberto Silvestri, mostra tutto il suo entusiasmo per la nomina decisa da Matteo Renzi. San Felice è il paese del cratere sismico tra i più colpiti. Il primo cittadino della bassa modenese, però, sa bene che non tutto è andato per il verso giusto. Soprattutto in tema di illegalità e inquinamento mafioso. Vicino a San Felice, per esempio, si trova Finale Emilia. Lasciamo per un momento da parte la questione mafia, perché l'ultimo episodio che ha riguardato questo comune ha a che fare con un fatto di ordinaria furbizia imprenditoriale. Al centro dello scandalo una scuola media da 5 milioni di euro, nuova di zecca e pronta per essere inaugurata. A distanza di quattro anni esatti, però, nella ricostruzione qualcosa non ha funzionato. Chi ha realizzato l'opera, per limare sui costi, avrebbe utilizzato cemento cosiddetto “depotenziato”. Materiale fragile. Così per inquirenti e investigatori la struttura della scuola media Frassoni non sarebbe sicura. Il paradosso è che il luogo scelto per edificare l'istituto era considerato tra i più sicuri del paese. Tanto, spiegano gli inquirenti, da indicare l'area come luogo di rifugio per la popolazione nel caso di terremoti. Cittadini beffati due volte, quindi. Perché avrebbero raggiunto una zona con un edificio, dicono i pm, per nulla sicuro. L'inchiesta “Cubetto” - termine che indica i campioni di calcestruzzo da sottoporre ad analisi di resistenza - è ancora in corso. Bisognerà attendere i risultati delle analisi del materiale sequestrato, e poi l'incidente probatorio. Coinvolte due importanti aziende. Entrambe con un ruolo in Confindustria. C'è la Betonrossi Spa, per esempio, attiva in tutta Italia e leader del settore. E la A&C di Mirandola, il cui proprietario Stefano Zaccarelli era presidente dell'associazione costruttori di Confindustria Modena, ha lasciato dopo la notizia dell'indagine a suo carico. L'inchiesta non è finita. Il prossimo atteso passaggio sarà l'incidente probatorio. Sarà questo il momento decisivo per verificare effettivamente la tenuta della struttura. La procura vorrebbe ottenerlo prima del prossimo anno scolastico. Tra gli indagati anche il direttore dei lavori, un tecnico della Regione, Antonio Ligori. In realtà, si legge nel suo curriculum, è collaboratore di una società “In house”, la Finanziaria Bologna Metropolitana S.p.a. Durante la ricostruzione post-sisma, ancora in corso, è stato incaricato della Direzione Lavori di numerosi cantieri per realizzare edifici pubblici, «per conto del Commissario Delegato alla Ricostruzione (cioè Vasco Errani ndr)». Ligori, 51 anni, negli ultimi quattro anni ha ottenuto la direzione di 33 strutture, più tre progettazioni. È responsabile di cantieri che valgono in tutto 75 milioni di euro. Ma non è la prima ombra che si addensa sulla ricostruzione post sisma. Anzi, è solo l'ultima di una lunga serie di anomalie. Prima, come documentato da “l'Espresso” ormai tre anni fa, l'intromissione della 'ndrangheta nella filiera dello smaltimento delle macerie. Poi i subappalti finiti ad aziende legate ai clan e i sospetti su una cricca di professionisti che si sarebbero arricchiti con i fondi per la ricostruzione. E infine il caso del cemento “fragile” usato per una scuola pubblica. Per quanto riguarda le macerie, il meccanismo con cui la 'ndrangheta ha potuto lavorare è molto semplice. In piena urgenza con la catena del subappalto, le strade dei paesi terremotati sono state battute dai camion dei clan. Hanno smaltito una quantità importante di detriti, non residuale, stando a quanto scritto dagli investigatori del Gruppo interforze guidato dal poliziotto Cono Incognito. Un team, questo, costituito ad hoc per vigilare sulle opere da realizzare nella ricostruzione. Hanno lavorato sodo, e prodotto decine di misure interdittive, escludendo numerose aziende, alcune delle quali già attive nei cantieri emiliani, dalla “White list”, gli elenchi della Prefettura ai quali è necessario iscriversi per poter lavorare nella ricostruzione. C'è stato poi il caso della Bianchini costruzioni. Leader nel territorio della bassa. Fino a quando la procura antimafia di Bologna e i carabinieri di Modena non hanno scoperto la sua vicinanza alla 'ndrangheta emiliana. Così prima è scattata l'interdittiva antimafia, e due anni dopo i proprietari sono finiti nella maxi indagine Aemilia (oltre 200 indagati, ora imputati) sui clan calabresi emigrati nelle province di Modena, Reggio, Parma e Piacenza. La vicenda Bianchini conduce esattamente al cuore della ricostruzione. Alle cose che non hanno funzionato in materia di prevenzione. La società ha continuato a lavorare anche dopo il blocco della prefettura. Con un'altra società, è stato sufficiente cambiare il nome. Per queste anomalie la prefettura di Modena aveva disposto persino l'accesso nel Comune di Finale Emilia. La commissione scrisse una relazione in cui evidenziava diverse criticità nella gestione degli appalti. Il Prefetto chiese lo scioglimento, ma il Viminale archiviò il caso. A luglio del 2012 il commissario per l’emergenza Vasco Errani, aveva stanziato l’ingente somma di 56 milioni di euro, al fine di ricostruire entro la fine di settembre, edifici scolastici temporanei, a seguito della rovina di quelli esistenti. Ecco comparire di nuovo la società di San Felice (finita sotto sequestro e adesso gestita da un amministratore giudiziario per conto del tribunale), guidata all'epoca da Augusto Bianchini - ora imputato per concorso esterno. In questo caso è sospettata di aver smaltito amianto in alcuni cantieri della ricostruzione. Nelle strade, ma anche in una scuola di Reggiolo. È emerso, inoltre, dall'indagine Aemilia che nei cantieri di Bianchini lavoravano maestranze assunte grazie all'intermediazione dei boss delle 'ndrine emiliane. Trattati come schiavi. Con il salario decurtato per pagare il “pizzo” ai padroni delinquenti. Sfruttamento in piena regola, che ha spinto i sindacati a costituirsi parte civile nel maxi processo in corso a Reggio Emilia. In Emilia, dunque, la ricostruzione è stata inquinata. Non sveliamo nulla riportando un'intercettazione tra due affiliati che nei giorni successivi al sisma ridono alla grande, e sui morti, per le opportunità di lavoro che si prospettavano. Come fu per L'Aquila, anche qui gli affaristi hanno visto nelle macerie nuove opportunità. Ma la ’ndrangheta si è infilata nella ricostruzione anche ad un altro livello. Ci sono indagini che tuttora proseguono, e puntano verso le figure dei tecnici. Collaboratori o assunti da imprese contigue alle cosche. Il sospetto è raccolto dall'Arma dei Carabinieri che ricevono la segnalazione di una donna sfollata. Si era rivolta a loro perché non la convinceva la dinamica in cui era finita: l’ingegnere incaricato di redigere il progetto di ricostruzione aveva assoldato un professionista di fuori regione, facendo lievitare le spese. Quell’ingegnere ha rapporti con uomini del clan. Ed è socio di uno studio tecnico della bassa emiliana, tra i lavori ottenuti anche la progettazione della sicurezza di un cantiere post sisma a Finale Emilia. Tutto questo -tralasciando episodi minori di truffe e raggiri - nella narrazione renziana della ricostruzione emiliana non può esistere. Il rischio è di passare dalla parte dei “gufi”.

Terremoto: la mafia è già pronta a guadagnare. Fermate subito quelle mani. Dobbiamo imparare dalle ferite ancora aperte dell'Aquila e dell'Emilia, e dalla storia del Belice e dell'Irpinia. Per impedire alle organizzazioni criminali e a imprenditori-sciacalli di brindare sul dolore del 24 agosto. Perché la ricostruzione non sia un business. Ma un valore, scrive Lirio Abbate il 29 agosto 2016 su “L’Espresso”. La ricostruzione post terremoto è il punto da cui adesso si deve ripartire. Potranno speculazioni e criminalità restare fuori da questa tragedia? Si riuscirà a non fare business sulla morte e il dolore? Dovrà pur servire a qualcosa l’esperienza amministrativa e giudiziaria fatta su un territorio altamente sismico. E queste nuove vittime non dovranno servire a sostenere vecchi business e nuovi appetiti per le mafie e i mafiosi. Questa tragedia che ha colpito l’Italia centrale dovrà necessariamente attingere all’esperienza fatta dopo il sisma dell’Aquila e dell’Emilia. Ferite ancora aperte, anche per il dolore inflitto da imprenditori-sciacalli e organizzazioni criminali che su queste tragedie non hanno visto la morte come sofferenza, ma un motivo, spesso illegale per arricchirsi. La storia italiana di ogni ricostruzione ci ha consegnato non solo sofferenza e dolore, ma soprattutto malaffare. A cominciare dal Belice, passando per l’Irpinia, fino ad arrivare in Abruzzo e in Emilia Romagna. Le mafie si sono lanciate sui ruderi dei paesi distrutti come se i cocci caduti dalle abitazioni in cui sono morti donne e bambini, studenti e pensionati, fossero pepite d’oro da raccoglie. A tutti i costi e con tutti i mezzi irregolari. I protocolli di legalità pensati e firmati in questi decenni si sprecano. Qualcuno ha funzionato, altri sono stati raggirati. Ad ogni modo, sul dopo terremoto si è sempre trovato un prestanome di mafiosi, un’impresa irregolare che ha messo le mani sugli appalti. È stata ancora una volta fotografata un’Italia illegale che si contrappone alla grande solidarietà che questo Paese è capace di offrire a chi ne ha bisogno. L’esperienza quindi ci dice che il grande business della ricostruzione non viene mai ignorato dalla criminalità organizzata, e per questo motivo occorre attuare tutti gli strumenti necessari per evitare l’inquinamento mafioso. Perché sulle emergenze è più facile che le organizzazioni trovino spazi e modi per infiltrarsi e lucrare. E guadagnare sulla morte. Negli ultimi vent’anni è stata combattuta la mafia, ma meno efficacemente la corruzione. E mafia e corruzione sono sempre più intrecciate. Lo ha dimostrato l’inchiesta “mafia Capitale” che ha messo in luce un modello tipicamente mafioso; un modello, come ripete il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, «che già aveva funzionato per gli appalti post terremoto in Campania» e che vede un intreccio tra mafia, politica e imprenditoria. La caratteristica della criminalità mafiosa è la mimeticità nell’area grigia: ovvero esponenti delle istituzioni, dell’imprenditoria, delle professioni. Non basta intervenire con la repressione ma bisogna prevenire: l’educazione ai valori della Costituzione è fondamentale per recuperare il rispetto della legge. Soprattutto dopo una nuova tragedia come questa del terremoto.

"La ricostruzione post terremoto boccone ghiotto per la mafia". Il procuratore antimafia Roberti: "Non si ripeterà lo scandalo Irpinia. Abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti", scrive Luca Romano, Domenica 28/08/2016, su "Il Giornale". "I rischi ci sono, inutile nasconderlo. E la ricostruzione post terremoto è storicamente il boccone ghiotto di consorterie criminali e comitati d'affari collusi". A dirlo, in una intervista a Repubblica, è il procuratore Antimafia Franco Roberti, che aggiunge: "Però va detto che abbiamo alle spalle gruppi di contrasto consolidati, esperienza, attività importanti. E abbiamo il modello dell'Aquila, che ha funzionato. Siamo pronti". Secondo il procuratore, che seguì in prima persona come pm di Napoli il terremoto dell'Irpinia oggi "l'esperienza e le acquisizioni scientifiche e giudiziarie ci dicono che se una casa è costruita bene, se sono state rispettate le norme anti sismiche, di fronte a un evento drammatico quel corpo di fabbrica può lesionarsi, incrinarsi: ma non può polverizzarsi e implodere. Ecco perché, senza azzardare previsioni, immagino ci sia molto da approfondire". I rischi di infiltrazioni mafiose, perché sottolinea Roberti "i guadagni dei clan cominciano proprio dal calcestruzzo scadente", "sono sempre alti ma l'esperienza drammatica del sisma a L'Aquila ci lascia anche un modello importante che ha funzionato bene". Il magistrato parla infatti di "un modello costruito da tutti insieme, dal lavoro della Procura distrettuale della città colpita, dal monitoraggio della Procura nazionale antimafia, dagli uffici giudiziari competenti e naturalmente dall'Anticorruzione ". Sulla collaborazione con l'Anac infine precisa "l'Anticorruzione fa bene il suo lavoro di prevenzione della corruzione, nella acquisizione e gestione degli appalti. Mentre la procura nazionale svolge il suo monitoraggio sugli eventuali collegamenti mafiosi delle imprese che concorrono agli appalti".

La sfida di Cantone: "Modello Expo per ricostruire senza mafia e ladri". L'intervista. Il presidente dell'Autorità anticorruzione: "Non sarà una grande abbuffata", scrive Liana Milella il 27 agosto 2016 su "La Repubblica”. "Vedo due pericoli, tutti italiani, anche in questo terremoto, la mafia che ne approfitta e s'infiltra nella ricostruzione e le grandi abbuffate dei soliti speculatori". Ma Raffaele Cantone, il presidente dell'Autorità anticorruzione, prim'ancora di suggerire la sua strategia per evitare entrambe le minacce, vuole raccontare cos'ha provato alle 3 e 36 di mercoledì notte: "Per chi, come me, ha vissuto il terremoto del 1980 in Irpinia, pur abitando in una zona non direttamente colpita, la prima cosa è il grande dolore che provo e la solidarietà forte per chi si è visto crollare addosso la casa. Poi c'è la preoccupazione per gli speculatori in agguato".

L'Italia è questo purtroppo. Solidarietà e malaffare...

"Sì, vedo due Paesi inconciliabili. Quello dei volontari che arrivano da tutta Italia e scavano fino allo sfinimento con una gara di solidarietà che coinvolge l'intero paese. Ma poi si fa fatica a pensare che è lo stesso paese delle grandi abbuffate, di chi ne approfitta e specula, di chi, quella famosa notte del terremoto dell'Aquila, rideva pensando agli affari che avrebbe fatto. Da un lato c'è un pezzo d'Italia bellissimo, dall'altro c'è chi pensa che sui morti si possono fare più affari".

Renzi ha citato lei e l'Anac. Un'altra grana?

"La vedo come un'importante manifestazione di fiducia, che mi inorgoglisce sia a titolo personale che per il lavoro svolto dall'Autorità in questi due anni. E poi già penso al futuro e a cosa potremmo fare".

Ha già un'idea?

"Dipende dalle scelte politiche. L'Anac può avere una funzione proficua se riesce a ricreare una situazione analoga a quella di Expo o del Giubileo. Ma perché ciò avvenga gli organi decisionali che gestiscono gli appalti devono essere uno solo o al massimo pochi. Un'attribuzione polverizzata a vari soggetti impedirebbe o renderebbe difficile un controllo a 360 gradi. Per le risorse che abbiamo non possiamo seguire 50 stazioni appaltanti".

Il terremoto però ha distrutto molte case private.

"È molto importante capire quale parte della ricostruzione sarà oggetto di interventi pubblici. Se si decide di seguire il modello aquilano - contributi singoli e lavori a cura dei privati - l'Anac potrà avere un ruolo relativo. Potrà seguire soprattutto la ricostruzione delle strutture pubbliche".

Lei cosa suggerisce?

"Esempi possibili ci vengono dagli ultimi terremoti. All'Aquila si è optato per le new town in attesa della ricostruzione. Un'opzione criticabile, ma che al momento sembrava razionale perché funzionale a un'intera città caduta. In alternativa bisogna comunque trovare formule per ricostruire rapidamente e questa è l'opzione decisamente preferibile".

Ma qual è quella di Cantone?

"Il modello Expo, sperimentato anche in altre situazione note e meno note. La vigilanza collaborativa, oggi prevista pure nel codice dei contratti, utilizzata tra l'altro per Bagnoli e per il Giubileo. Ma le soluzioni vanno calibrate sulle tipologie degli eventi. La priorità è dare subito le case, perché adesso vanno bene le tende, ma ad Amatrice tra poco farà freddo, quindi l'urgenza è sistemare 2mila persone. La logica delle new town fu quella, anche se poi fallì del tutto perché non furono ricostruite le vecchie case".

Lei ricordava l'intercettazione della notte dell'Aquila. Teme anche ora la grande abbuffata?

"Bisogna evitare che i soldi pubblici finiscano in operazioni illecite. Ma quando Renzi parla di modello Anac pensa anche al rischio di infiltrazioni mafiose, perché tra le imprese che provvedono alla rimozione dei detriti e al movimento terra il rischio di infiltrazioni è altissimo. È necessario un controllo preventivo come avvenne per il terremoto in Emilia. Bisogna evitare il grande bubbone del sisma in Irpinia, non solo per il clamoroso spreco di denaro pubblico, ma perché proprio allora la camorra, da associazione dedita ad affari tradizionali, divenne imprenditrice".

Il codice degli appalti, su cui si riversano tante critiche, potrà creare difficoltà?

"Mi sento di escluderlo. Il codice consente di fare qualsiasi tipologia di appalti. Comunque sarà una delle priorità dell'Anac verificare se possono esserci provvedimenti attuativi da emettere che potrebbero incidere sulla ricostruzione".

Ad Amatrice crolla una scuola costruita senza garanzie sismiche. Non è anche questa una minaccia?

"Su quell'appalto bisogna accendere subito una luce. Sarebbe ingiusto dare giudizi su due piedi, ma se il terremoto fosse avvenuto in un altro momento dell'anno finiva come a San Giuliano di Puglia. Una strage di bambini. La scuole di Amatrice era stata ristrutturata nel 2012 ed è caduta. In teoria anche un edificio perfetto può cadere per un terremoto fortissimo. L'Autorità giudiziaria e noi dell'Anac ce ne occuperemo per individuare le responsabilità".

Repubblica ha scoperto che ci sono fondi per il rischio sismico neppure spesi...

"Non è il momento di fare polemiche perché il dolore deve prevalere su tutto, ma bisogna individuare le responsabilità di chi avrebbe potuto utilizzare quel denaro e non lo ha fatto e se questo incide sulla capacità di questi amministratori di gestire la ricostruzione".

Renzi e il terremoto in Centro Italia: «Prendiamo esempio dall’Emilia», scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. Il presidente del Consiglio non parla di Errani commissario ma cita la ricostruzione dopo il sisma del 2012. Ma i Cinque Stelle attaccano. Non parla di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione in Centro Italia, ma designa l’Emilia-Romagna come un modello per il post-terremoto. Matteo Renzi, nella enews pubblicata lunedì, fornisce le coordinate per l’immediato futuro delle zone terremotate. «La storia italiana - scrive il presidente del Consiglio - ci consegna pagine negative nella gestione del dopo-terremoto, come l’Irpinia, ma anche esempi positivi. Su tutti il Friuli del 1976, certo. Ma anche l’Umbria di vent’anni fa. E soprattutto penso al modello emiliano del 2012». Quel territorio, sottolinea il premier, «ha `tenuto botta´, come si dice da quelle parti, ricostruendo subito e bene. Le aziende sono ripartite, più forti di prima. E la coesione mostrata è stata cruciale per raggiungere l’obiettivo». Secondo Renzi «dovremo prendere esempio da queste pagine positive. E fare del nostro meglio - senza annunci roboanti - per restituire un tetto a queste famiglie e restituire un futuro a queste comunità». Ma i grillini partono all’attacco. Il deputato Michele Dell’Orco lancia un primo tweet in cui accosta il nome del «disoccupato» Errani all’inchiesta Aemilia. «Il Governo — ha rincarato poi via web Dell’Orco — chiama Vasco #Errani per la ricostruzione: “verrà adottato il modello Emilia’” Modello Emilia??! Dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c’è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma- rimarca il parlamentare M5s- la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? Vogliamo ripetere gli stessi errori? Io no». In casa Pd scatta il contrattacco. «Il deputato 5 stelle Dell’Orco- reagiscono in una nota i parlamentari dem Davide Baruffi, Manuela Ghizzoni, Maria Cecilia Guerra e Stefano Vaccari- straparla, o peggio, se parla con convinzione allora diffama. Perché se c’è un aggettivo che chi lo conosce associa al nome Vasco Errani è onesto, oltre che competente». E, dunque, «far intendere, come fa il collega Dell’Orco con il suo tweet, che ci sia una qualsivoglia connessione tra la nomina di Errani a commissario straordinario per il sisma nel 2012 e l’inchiesta Aemilia è mistificare la realtà. Perchè se c’è una cosa per cui Errani ha lavorato, in questi anni, è proprio l’obiettivo per cui ogni euro speso per il cratere sismico fosse rintracciabile e impiegato in maniera legittima».

Cinque Stelle e leghisti contestano Errani e la validità del "modello Emilia". M5S e centrodestra bocciano la scelta dell'ex governatore come commissario per la ricostruzione e citano le infiltrazioni della criminalità emerse dal processo Aemilia. Di Maio: "Renzi usa il terremoto per ricucire il Pd". La replica di Guerini, scrive il 29 agosto 2016 “La Repubblica”. La tregua e l'unità nazionale sul terremoto è già finita. Il Movimento Cinque Stelle, infatti, non ha gradito la scelta di Vasco Errani come commissario per la ricostruzione delle aree devastate dal sisma. E lo stesso atteggiamento di chiusura adottano anche Lega e Forza Italia. Il primo affondo è lanciato dal deputato grillino emiliano Michele dell'Orco. "Il governo - dice il parlamentare - chiama Errani per la ricostruzione e verrà adottato il modello Emilià. Modello Emilia? Ma dal processo Aemilia emerge che la movimentazione della terra nel post-terremoto ha visto un coinvolgimento di aziende direttamente o indirettamente vicine alla criminalità mafiosa; c'è stata una sottovalutazione del problema da parte delle pubbliche amministrazioni. Insomma - conclude Dell'Orco - la mafia si è infiltrata a piene mani nella ricostruzione. E Renzi nomina Errani? vogliamo ripetere gli stessi errori?" Un attacco durissimo che viene rilanciato anche da Laura Castelli, capogruppo grillina alla Camera: "Quanto accaduto in seguito al commissariamento di Errani in Emilia lo conosciamo tutti, arriva anche a includere inchieste che hanno sottolineato quanto la 'ndrangheta entri in questi appalti e in queste ricostruzioni", dice Castelli. Poi arriva l'affondo di Luigi Di Maio, membro del direttorio M5S che scrive su Facebook: "Mi lascia sgomento un presidente del Consiglio che poche ore fa ha guardato negli occhi i sopravvissuti dell'ennesimo terremoto e adesso pensa di sfruttare la tragedia per ricucire il Pd affidando l'incarico di commissario per la ricostruzione a Vasco Errani. Gestisce un'emergenza con le logiche del congresso di partito. Vasco Errani non può essere il commissario al terremoto del Centro Italia. Ora serve un profilo al di fuori del sistema dei partiti". Un altro colpo al clima di unità arriva dalla Lega. "In Emilia Romagna Errani ha fallito completamente, vorremmo evitare un fallimento due. Chiediamo a Renzi di non fare nomine in base a logiche di equilibrio interne" dice il senatore leghista Gian Marco Centinaio. Poi tocca al leader Matteo Salvini: "La Lega è pronta ad aiutare e collaborare con tutti per il bene delle persone colpite dal terremoto ma non a guardare in silenzio il ripetersi di vecchi errori, sprechi e ruberie. Il fallimento e la lentezza della ricostruzione in Emilia non si devono ripetere". E critiche arrivano anche dal centrodestra. Il consigliere regionale di An-Fdi Tommaso Foti accusa: "Neppure abili prestigiatori possono nascondere che, nella bassa modenese in particolare, si registrano ritardi gravissimi nella ricostruzione". E da Roma Maurizio Gasparri fa sapere: "Nessuna apertura nei confronti di Renzi e della sua fallimentare politica". Secondo il vicepresidente forzista del Senato "FI farà proposte per la ricostruzione delle zone terremotate e darà piena disponibilità in ogni passaggio parlamentare con uno spirito di coesione che è doveroso e che altri non sempre hanno dimostrato in occasioni analoghe a ruoli inversi. È però certamente un avvio sbagliato quello della nomina di Errani a commissario". A Di Maio ha replicato Lorenzo Guerini, vicesegretario del Pd: "Mi spiace che Di Maio utilizzi una tragedia come quella del terremoto per aprire un'inutile polemica con il Pd e il presidente del consiglio - ha detto Guerini - . Errani è un ottimo amministratore che ha già dato prova di capacità, competenza ed efficienza come commissario per il terremoto in Emilia, esperienza che potrà mettere a disposizione per la delicata opera di ricostruzione delle zone del Centro Italia colpite dal sisma. È tempo di unità e responsabilità per dare risposte alle popolazioni colpite così duramente e non di polemiche".

TERREMOTO E GIUSTIZIA. Per i morti dell'Aquila solo 9 colpevoli. E ora a fermare i processi arriva la prescrizione. Responsabilità difficili da stabilire. Perizie contrastanti. Vecchi edifici costruiti da tecnici ormai defunti. Per il sisma del 2009 sono stati condannati in via definitiva una manciata di imputati. E fra poche settimane un colpo di spugna finale cancellerà le ultime inchieste. Uno scenario che rischia di ripetersi col terremoto di Amatrice, scrive, nascondendo le responsabilità delle toghe e da antiberlusconiano, Paolo Fantauzzi il 2 settembre 2016 su "L'Espresso". Le indagini della Procura di Rieti. Quelle della Procura di Ascoli Piceno. Gli accertamenti dell’Anticorruzione. L’opinione pubblica che chiede, come sempre in questi casi, “pene esemplari”. Dopo il sisma che ha colpito Amatrice, Accumoli e Borgo Arquata, la macchina della giustizia si è subito messa in moto per individuare i responsabili dei crolli. La speranza è che non finisca come all’Aquila: nel capoluogo abruzzese i condannati per il terremoto sono stati una manciata. Per la difficoltà di accertare le colpe, innanzitutto. Ma anche per effetto della prescrizione, i cui tempi sono stati generosamente accorciati nel 2005 dal governo Berlusconi. Così fra poche settimane (il 6 ottobre) un definitivo colpo di spugna cancellerà tutti i processi non ancora terminati. Compreso quello al più noto degli imputati, Guido Bertolaso, a giudizio per omicidio colposo plurimo. A meno che non intenda rinunciare al “salvataggio” come ha detto nei mesi scorsi. Anche all’Aquila la magistratura si mise subito al lavoro con grande impegno. Su circa 200 fascicoli d’indagine aperti dopo il sisma, però, solo una quindicina hanno raccolto elementi sufficienti per arrivare a dibattimento. E soltanto pochissime inchieste si sono concluse in Cassazione con delle condanne, nove in tutto: quattro per il crollo della Casa dello studente (costato la vita a otto ragazzi), due per il Convitto nazionale (in cui persero la vita tre minorenni), altrettante per il collasso della facoltà di Ingegneria, più l'ex vice capo della Protezione civile Bernardo De Bernardinis , cui sono stati inflitti due anni di reclusione per l’informazione “imprudente” e “scorretta” che rassicurando immotivatamente i cittadini fece aumentare il numero delle vittime. Circostanza che non gli ha impedito di essere in prima linea nella macchina dei soccorsi nei giorni scorsi, essendo la sua pena stata sospesa. Nelle aule di giustizia molti altri casi si sono conclusi con l’assoluzione, spesso chiesta direttamente dall’accusa. «Processi del genere sono molto complessi» spiega il sostituto procuratore Fabio Picuti, che li ha seguiti tutti: «Molte case erano costruite con tecniche di un secolo fa, quando le norme antisismiche non erano ancora in vigore, e questo ci ha spinto a chiedere l’archiviazione. In altri casi si trattava di edifici realizzati male in partenza ma decenni fa, e i progettisti erano morti o molto anziani e quindi incapaci di affrontare i processi. E poi non bisogna dimenticare che per giungere a una condanna bisogna dimostrare un nesso causale fra i crolli e i lavori di ristrutturazione: si rivelano fondamentali le perizie e non sempre si riescono a provare condotte colpevoli». A questo complicato groviglio si aggiunge la prescrizione. Giovedì 6 ottobre si estingueranno tutti i processi non ancora conclusi. Secondo quanto previsto dalla legge ex Cirielli, infatti, i delitti con pena massima di cinque anni, come l’omicidio colposo, si estinguono dopo sei anni. Se c’è stata qualche interruzione, si può ottenere un altro 25 per cento di “bonus”. Totale: sette anni e mezzo dal sisma del 6 aprile 2009. Senza la riforma del governo Berlusconi sarebbero stati cinque in più: fondamentali per accertare tutte le responsabilità. Il risultato è che andrà sicuramente in fumo il processo per il crollo del palazzo di via D’Annunzio, che costò la vita 13 persone. A maggio la Cassazione ha annullato con rinvio la condanna dell’ingegnere che restaurò l’edificio (costruito negli anni ’60 con calcestruzzo scadente) e non si accorse dei rischi: tre anni e mezzo di reclusione in primo grado, ridotti a 22 mesi in appello e adesso tempi insufficienti per affrontare nuovamente due gradi. Situazione identica per i due palazzi gemelli che in via Sturzo provocarono 29 vittime. Anche in questo caso, a causa del calcestruzzo di scarsa qualità ed errori di progetto. Solo che quattro presunti responsabili sono deceduti e l’unico superstite ha quasi 90 anni. Così, dopo i tre anni comminati in primo grado, il giudizio si è fermato a causa delle sue condizioni di salute. E si salveranno pure i due imputati per il crollo di due palazzi in via Milonia, condannati a due anni di carcere: il processo è ancora in Corte d’Appello. Ci sono poi le inchieste finite nel nulla. Magari perché la Cassazione ha ribaltato i verdetti precedenti: nel crollo del condominio di via Rossi morirono in 17 e l’amministratore e direttore dei lavori di rifacimento del tetto (che sotto le macerie perse la figlia), dopo essere stato condannato in primo e secondo grado per disastro e omicidio colposo plurimo, a giugno è stato assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”. Per il collasso dello stabile di via XX Settembre 123 (cinque morti), invece, l’unico imputato ancora in vita, il collaudatore oggi 91 enne, è stato assolto in tutti i gradi di giudizio. In altri casi i palazzi erano talmente mal costruiti, secondo le perizie, da rendere impossibile addebitare alcunché alle ristrutturazioni. Tanto da spingere l’accusa a chiedere l’assoluzione, come per gli edifici di via XX Settembre 79 (nove morti) e via Persichetti (due vittime). E nessuno ha pagato nemmeno per i danni subiti dall’ospedale, reso inagibile dal sisma al punto che quel 6 aprile i feriti dovettero essere medicati sul piazzale antistante: quattro imputati tutti assolti. La Procura, che aveva chiesto tre condanne, non ha nemmeno impugnato la sentenza. Anche chi ha pagato spesso se l’è cavata con poco. Oltre al già citato vice di Bertolaso, De Bernardinis, ci sono i quattro tecnici ritenuti colpevoli per il crollo della Casa dello studente (otto morti): pene comprese fra due anni e mezzo e quattro anni per accuse che vanno dal disastro alle lesioni all’omicidio colposo, ma pure a due di loro il provvedimento è stato sospeso per motivi di salute. Ventidue mesi di reclusione (quattro anni inizialmente) e interdizione quinquennale dai pubblici uffici, invece, per il direttore di cantiere e il direttore dei lavori della facoltà di Ingegneria, che collassò e non uccise nessuno solo perché era notte: qualche ora dopo sarebbe stata una tragedia. Infine i due responsabili del crollo del Convitto (tre vittime), accusati di inerzia anche per non aver fatto evacuare la scuola, frequentata da minori, dopo la prima forte scossa che precedette di poco quella fatale: il dirigente della Provincia con delega all'edilizia scolastica (due anni e mezzo di reclusione) e l’ex rettore Livio Bearzi (quattro anni). Per quest’ultimo dopo l’arresto si sono mobilitati il sindacato dei presidi, gli enti locali, vari parlamentari. La governatrice Debora Serracchiani ha addirittura scritto a Sergio Mattarella. Tutti concordi nell’ingiustizia di mandare in prigione un preside. Dopo 44 giorni Bearzi, che ha anche chiesto la grazia al Quirinale, è stato scarcerato. Ora è ai servizi sociali. 

Dopo l’assoluzione definitiva in Cassazione, Enzo Boschi scrive al Corriere della Sera, scrive "Il Foglietto" il 26 Novembre 2015. Riceviamo e volentieri pubblichiamo una lettera inviata dal geofisico Enzo Boschi al direttore del Corriere della Sera, all’indomani della sua piena assoluzione in Cassazione. “Caro Direttore, a pagina 25 del suo giornale del 21 novembre 2015, in basso a destra, in una decina di righe di una piccola frazione di colonna, con il titolo "Sisma all'Aquila. Assolti gli Scienziati", è apparsa la notizia che la Cassazione ci ha assolto definitivamente. Eravamo già stati assolti con formula piena un anno fa nel processo d'appello. Ovviamente lei è padrone di pubblicare come meglio crede ciò che crede opportuno. Tuttavia, giornali prestigiosi come La Repubblica, La Stampa e Il Messaggero ... hanno dato un adeguato risalto alla notizia. Lo scopo di questa mia lettera non è quindi di recriminare con lei, ci mancherebbe. Piuttosto vorrei farle notare la sproporzione fra il trafiletto di sabato e il lungo articolo apparso sul Corriere della Sera del 28 ottobre 2012, all'indomani della nostra condanna nel processo di primo grado. È un articolo scritto da un'anziana Signora, autrice di libri dimenticabili e dimenticati. Non ha mai seguito il processo svoltosi a L'Aquila, dove peraltro non mi sembra siano capitati giornalisti del Corriere. Ciononostante, la Signora sembra far fatica, nell'empito del suo sfogo, nel trattenersi dal chiedere per noi la pena di morte per impiccagione. Ebbene, se avesse seguito il processo, cioè se avesse provato l'esperienza di scrivere di cose a lei note, forse si sarebbe accorta di qualche incongruenza. Per esempio, il Sindaco Cialente durante la sua deposizione al processo dichiara che era rimasto fortemente impressionato dalle mie dichiarazioni sulla pericolosità sismica abruzzese, tanto da prendere misure cautelari. La cosa può essere verificata senza dubbi di sorta! Lo dichiara anche in un’intervista successiva alla deposizione, che può essere trovata sul web. Addirittura arriverà a chiedere lo stato di emergenza per la sua città. Il 2 aprile 2009, quattro giorni prima del terremoto, Il Centro, il più importante giornale abruzzese, dedicherà a questa sua richiesta un'intera pagina. L'incongruenza, che poteva esser compresa anche dalla Signora, risiede nel fatto che il PM e il Giudice di primo grado hanno ignorato le dichiarazioni di Cialente mentre sono state uno degli argomenti che hanno portato il Giudice del processo d'appello ad assolverci con formula piena. Inoltre, se la Signora era così convinta nell'accusarci di aver rassicurato gli aquilani, l'avrà senz'altro fatto sulla base di riscontri. Strano che nessuno abbia trovato alcunché che giustifichi la sua indignazione. Mi rendo conto che a una certa età anche un viaggio Roma-L'Aquila-Roma può essere faticoso ... Potrebbe allora coltivare il dubbio come fanno le persone colte e intelligenti e di conseguenza informarsi. Invece, nell'articolo, la Signora ci indica come riferimento morale la Senatrice Pezzopane, all'epoca, credo, Presidente della Provincia de L'Aquila. Ebbene la invito, caro Direttore, ad ascoltare sul web alcune conversazioni fra la Pezzopane e la Stati, all'epoca Assessora per la Protezione Civile della Regione Abruzzo, cioè (titolo V della Costituzione) la massima e unica autorità in materia di sicurezza dei cittadini abruzzesi. Per sua comodità le allego una pagina della trascrizione del dialogo "illuminante" Pezzopane-Stati ...Mi farebbe piacere che anche la nostra spietata accusatrice ne prendesse visione ... forse potrebbe anche trovarne una qualche ispirazione per uno dei suoi romanzetti. Non credo che lei pubblicherà questa mia lettera. In fondo quando uscì l'articolo, il Corriere era diretto da altri. Mi piacerebbe tuttavia conoscere la sua opinione su un fatto: perché, secondo lei, la richiesta di stato di emergenza non fu concessa? Se fosse stata concessa forse non ci sarebbero state vittime ... o sarebbero state molte meno. E perché, secondo lei, nessun giornale si è posto questa domanda? Una ragione ci sarà, c'è sempre una ragione ...Grazie per l'attenzione. Enzo Boschi”.

TERREMOTO DELL’AQUILA. C’E’ IL COLPEVOLE! CAMORRISTI, SCIENZIATI & FACCENDIERI TUTTE VIOLE MAMMOLE. Scrive il 9 dicembre 2015 Paolo Spiga su "La Voce delle voci". Dentro il primo! Terremoto dell’Aquila, 309 corpi sotto le macerie quel maledetto 6 aprile 2009. Finalmente la implacabile giustizia comincia a colpire, il pugno di ferro dei magistrati a farsi sentire. In galera i progettisti che hanno inventato case di cartone? I costruttori che hanno usato materiali scadenti? Chi ha impugnato compassi, ruspe e betoniere per la ricostruzione post sisma? Casalesi arrivati in un baleno a impastare calcestruzzo, subappalti e milioni di euro? Politici collusi? Colletti bianchi? Scienziati della commissione “Grandi Rischi” che non hanno allertato sugli imminenti pericoli? No. La mannaia è scesa sul capo di Livio Bearzi, il preside del convitto “Domenico Cutugno” dove persero la vita tre studenti e altri due rimasero feriti. Condannato a 4 anni per omicidio colposo, avendo “omesso di valutare l’enorme pericolo incombente” e colpevole – secondo gli ermellini del palazzaccio di Roma – di non aver fatto uscire in tempo i ragazzi dal convitto killer. Eccolo, dunque, il Grande Colpevole, Bearzi. E chi se ne frega se più volte, nei mesi precedenti, aveva denunciato alla Provincia – proprietaria dell’istituto – tutte le insidie rappresentate da una struttura costruita addirittura duecento anni prima, e con tutti i segni dell’età nelle strutture! “Non c’è alcun pericolo – avevano rassicurato – prima o poi daremo a sistematina. Ma per ora potete stare sereni”. Renziani ante litteram, i solerti amministratori della Provincia? Ma per fortuna oggi giustizia è fatta. Il mostro di Cividale è assicurato alle patrie galere. Forse perchè – avranno pensato i togati – porta anche sfiga. Si era salvato per miracolo, quasi quarant’anni fa, nel 1976, dal terremoto che sconvolse il Friuli: era con i calzoncini corti, allora, studente del convitto. I terremoti, forse, sono nel suo Dna: e anche per questo la galera è sacrosanta. Un fesso pericoloso, il preside, secondo la giustizia di casa nostra: non fu in grado di capire quanto i cervelloni, gli Einstein della commissione “Grandi Rischi” potevano tranquillamente non sapere, come ha poche settimane fa stabilito la stessa Cassazione. Ergo: i geni come Franco Barberi ed Enzo Boschi, che conoscono ogni piega del territorio e “ascoltano” il nostro suolo come neanche una mamma con il bimbo in grembo, sono giustificati circa il loro clamoroso flop e, per di più, non sono colpevoli di aver in somma incoscienza “rassicurato” i cittadini e tranquillizzato il popolo bue aquilano (giusta vittima sacrificale). Il preside Bearzi, invece, doveva “prevedere” il futuro: gli è mancata – gigantesca colpa – la palla di vetro…Caritatevole, corre in soccorso del condannato a 4 anni di galera il procuratore capo dell’Aquila Franco Cardella: “posso soltanto esprimere la mia solidarietà per il dramma della persona. Un uomo di scuola che perde i propri studenti è come il capitano che vede affondare i marinai”. Uno Schettino sulle scole d’Abruzzo: solo che il comandante, che ha sulla coscienza i 32 morti del Giglio, è libero (per ora) come un fringuello. Ma il lavoro, a quanto pare, ferve nel foro dell’Aquila. Un iper attivismo per far luce su tanti altri colpevoli di quelle morti sotto le macerie del sisma. Alcuni avvocati parlano di “oltre 200 procedimenti aperti”. Un pò – c’è chi racconta – “come quando Fantozzi dava i numeri sui gol per le partite della Nazionale, 15 a 7 o 24 a 12. Solo che qui la situazione non è tragicomica, ma solo tragica, perchè si tratta di giustizia finora negata ai familiari delle vittime”. Numeri a parte (la quota di 200 sembra davvero campata per aria, a meno che non vengano comprese eventuali – e poco immaginabili – liti condominiali post sisma) è la qualità delle inchieste e dei relativi processi che desta non poca preoccupazione. “Una delle indagini cardine riguarda la malcostruzione dei balconi per il progetto Case – racconta un architetto – alcune centinaia di situazioni. Ma con tutto quello che è successo sembra il classico topolino…”. Tutto quello che concerne la malcostruzione di prima, la prevenzione zero, la non informazione dei cittadini sui rischi, i soccorsi e l’emergenza, le varie fasi della ricostruzione post sisma…, su tutto questo – un vero ben di Dio – non si muove una foglia. Affaristi, politici, camorristi, faccendieri d’ogni specie possono dormire sonni tra tanti morbidi guanciali. Perchè la giustizia di casa nostra funziona così: basta un preside in galera perchè non ha suonato la campanella… 

Magistrati al posto di scienziati. Pontificano su terremoti, su ogm, su stamina, su Xylella, su prospezioni, su onde herziane. Fanno spesso buchi nell'acqua, sprecando tempo e risorse, scrive Domenico Cacopardo.  Se David Bowie, il duca bianco, che aveva raffigurato se stesso nei panni di un marziano che cade sulla terra, si reincarnasse in Italia avrebbe di che rimanere, nel giro di qualche ora, stupificato (magnifico neologismo attribuibile alla rabbina Barbara Aiello). Nel mondo della tecnologia, figlia della scienza, in Italia scoprirebbe che gli scienziati non vanno di moda, né vanno di moda i termometri. Il potere giudiziario, infatti, conferendo a se stesso un esercizio del potere che va al di là del sapere scientifico, ama aprire e condurre processi alle fonti del sapere, spesso contestate, per meri interessi di botteguccia da chi la scienza non sa dove sta di casa. Pensiamo al caso L'Aquila con i sismologi condannati e assolti in appello. Pensiamo al caso Stamina, una ciarlateneria che, per alcuni anni, è stata presa sul serio da magistrati che hanno creduto alla pietra filosofale, più che alle valutazioni del Consiglio superiore di sanità, contribuendo alle illusioni di ammalati e loro familiari sulle virtù terapeutiche di un metodo inesistente sul piano scientifico e su quello dei risultati. A quanto è dato di capire da un breve giro sul web, Stamina esiste ancora ed è illegalmente praticato nel territorio della Repubblica italiana. Pensiamo al caso della Xylella (Xylella fastidiosa, batterio Gram negativo che vive e si riproduce all'interno dell'apparato conduttore della linfa grezza) che ha colpito grandi superfici pugliesi coltivate a olivi. Per combatterla, l'Unione europea e lo Stato italiano, hanno avviato un programma di abbattimenti di essenze malate e di essenze sane, in prossimità, appunto, di quelle colpite per realizzare una specie di cortina sterile a difesa del resto delle piantagioni. Ovviamente, sono sorti subito comitati e comitatini di oppositori della misura profilattica, supportati da sedicenti tecnici o da tecnici veri che, tuttavia, non hanno responsabilità specifiche nella gestione del problema. Ebbene, anche in questo caso non si trova di meglio che processare gli scienziati che hanno identificato il batterio e che hanno indicato le terapie difensive da attuare. Anche per il Muos siciliano, alcuni magistrati, in contestazione degli studi del Consiglio superiore di sanità (con il Cnr), hanno avviato un procedimento nei confronti dei realizzatori dell'opera, vitale per la sicurezza dell'Occidente e dell'Italia, sulla base di non dimostrate né dimostrabili conseguenze nei confronti della popolazione civile. In Puglia, l'ipotesi di ampliare le aree di prospezioni petrolifere in mare Adriatico, nell'interesse primario della bilancia dei pagamenti italiani e dell'economia nazionale e regionale, incontra l'opposizione di Notriv, una specie di Notav, mobilitati nella ingiustificata opposizione a una possibile via di rilancio economico. Il presidente della Regione, Emiliano, i cui passi da borghese da grand-élite non disdegnano le vie della smaccata demagogia, indulge nell'appoggio ai Notriv, per ricostruirsi un'immagine, dopo il deterioramento provocato da anni di potere. La Lucania, ora, gode degli effetti positivi dei ricavi da estrazione di petrolio, dopo avere combattuto tale possibilità. Messina è governata da un desperado agitatore che è riuscito a convincere l'elettorato della città a eleggerlo sindaco sulla stupida e autolesionistica promessa Noponte. Anni di studi di scienziati buttati nel cesso da un professore di ginnastica con la vocazione del protestatario. Certo, onesto rispetto ai soldi, ma privo dell'onestà intellettuale di ammettere che chi sa più di lui, sa più di lui. Vedrà anche il nostro David Bowie, marziano in Italia, che si processano i termometri non le febbri. In passato, da una procura italiana furono mandati avvisi di garanzia o mandati di comparizione a Reagan, Gorbaciov, Mitterand per commercio di armi nucleari. Il commercio di armi è stato anche il settore elettivo di alcuni magistrati per avviare procedimenti nei confronti di capi di governo e ministri della difesa. Tutti finiti in una bolla di sapone. In tema di termometri, sembra di questo genere il processo alle agenzie di rating in relazione al quale si sarebbero svolti costosi (e di dubbia utilità) accessi in uffici americani. La prima vittima di questo caos, è il sistema giudiziario italiano: migliaia di magistrati tessono la tela per una giustizia operosa e tempestiva, in silenzio facendo senza apparire, mentre altri appaiono senza fare (il caso de Magistris e le recenti assoluzioni di tutti coloro che lui aveva accusato di vari reati contro l'amministrazione). Eppure ci vorrebbe poco, se il governo Renzi, che si autoqualifica governo del fare, decidesse di mettere alla prova la capacità dell'Associazione nazionali magistrati di convenire una piattaforma di iniziative amministrative e legislative per dare ai processi tempi normali, analoghi a quelli degli altri paesi. Con ciò getterebbe un bel guanto di sfida. Per quel che riesco a capire, la sfida sarebbe accolta e dal caos creativo (e distruttivo) passeremmo a un ordine creativo, capace di battere la strada della certezza del diritto, della pena e della sentenza, un qualcosa che sembra, appunto, appartenere più a Marte che all'Italia repubblicana e democratica. Basterebbe riflettere sul felice esito della questione della caserma Manara, finalmente ceduta - ma solo dopo l'avvio di un'azione di coordinamento e pungolo della presidenza del consiglio - all'amministrazione della giustizia che lì concentrerà gli uffici giudiziari civili, lasciando l'infelice pseudobunker di Piazzale Clodio a quelli penali in una purtroppo ritardata razionalizzazione del sistema giustizia romano. Non è infatti vero che in Italia non si può cambiare nulla: fa solo comodo a pochi non cambiare nulla. Per gli altri, per la collettività cioè il cambiamento è vitale. Basterebbe pensare com'è cambiato il paese per la semplice (mica tanto) costruzione dell'Alta velocità Torino-Milano-Salerno per capire come serve intervenire nelle arterie della penisola rendendole tal quali la modernità pretende. Il nostro Bowie, infine, rimarrebbe senza parole osservando come una parte della sinistra storica italiana è fisiologicamente conservatrice e combatta tutto ciò che comporta, in fin dei conti, nuova occupazione (il ponte sullo Stretto) e futuri benefici per la collettività. La vecchia psicopatologia, tutti uguali, perciò poveri e disperati che ispirò le politiche economiche dell'Urss, continua ancora a colpire nella Corea del Nord e, per fortuna solo in modo marginale, in Italia. ItaliaOggi. Numero 016, pag. 5 del 20/01/2016.

Giustizia folle dopo L'Aquila: 200 inchieste, poche condanne. Anche in Abruzzo il sisma del 2009 scatenò le procure. Ma il bilancio è un flop: 19 processi e assolti a pioggia, scrive Giuseppe Marino, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". Il dolore causato dal terremoto dell'Aquila, così come quello di Amatrice, non è risarcibile, eppure è nella natura umana cercare un colpevole. Ma a nessuno gioverà il tormento ricaduto sulle spalle di decine di persone finite nel mirino della magistratura dopo la tragedia. Spesso con risultati modesti, un copione da non ripetere ad Amatrice e dintorni. All'indomani del terremoto del 6 aprile 2009, proprio come sta accadendo ora tra Ascoli e Rieti, cominciò a spirare un potente vento giustizialista e non solo tra chi aveva legittimamente diritto a chiedere conto delle morti. La Procura dell'Aquila avviò duecento fascicoli di inchiesta sui crolli. A distanza di sette anni, i dibattimenti che risultano effettivamente aperti sono solo 19 e le condanne una manciata. Ci sono poi altri processi collaterali, come quello contro la Commissione Grandi rischi, terminato con una sola condanna. Ma è anche sul piano della «qualità» delle condanne che si può nutrire qualche dubbio visto l'esito di tanto sforzo giudiziario. Anche allora, come oggi, giornali e tv diedero in pasto all'opinione pubblica notizie di losche macchinazioni per appropriarsi cinicamente di soldi pubblici in barba ai rischi per gli edifici, sospetti su clamorose truffe nelle costruzioni che poi furono causa di morti. A guardare bene però, fin qui a pagare sono state un pugno di uomini, a loro volta spesso già colpiti personalmente dal terremoto. Sono due i casi clamorosi che hanno condotto a condanne definitive. Per i ragazzi morti alla Casa dello studente sono stati ritenuti colpevoli tre tecnici che eseguirono un restauro e il presidente della commissione di collaudo. Per il crollo del Convitto nazionale dell'Aquila, sotto le cui macerie morirono tre studenti, è stato condannato a 30 mesi un ingegnere della Provincia, ma in carcere è finito solo il povero preside Livio Bearzi, che in quell'edificio viveva con la sua famiglia, incolpato di «aver omesso di valutare l'enorme pericolo incombente» e non aver evacuato preventivamente l'edificio. Un caso umano, che ha spinto anche una richiesta di grazia e si è presto tramutato in servizi sociali per Bearzi. Tutti assolti in Cassazione invece per uno dei crolli più letali, quello dell'edificio di via XX Settembre, che provocò nove vittime. Bearzi non è l'unico caso umano tra i condannati. Ci sono anche un 80enne e un 84enne, accusati di aver conferito l'incarico di direttore dei lavori di restauro di un palazzo nel quartiere di Pettino a un geometra anziché a un ingegnere: quattro anni di carcere, nonostante il palazzo abbia retto al sisma dando modo a tutti gli inquilini di salvarsi e sia crollato solo dopo nove giorni. Ed è stato invece prosciolto il geometra. Ci sono poi tecnici che hanno dovuto combattere anni in tribunale. Come l'ingegner Diego De Angelis. Fu processato per il crollo di un palazzo di cui aveva curato gratis il restauro del tetto. Era il condominio in cui viveva e in quel disastro morì la figlia Jenny. Sette anni con il tormento per la perdita e per le accuse infamanti per poi essere assolto in Cassazione. «In una città come L'Aquila, con un sisma così forte molti crolli erano inevitabili - dice Gianluca Racano, avvocato aquilano che ha seguito alcuni processi - ma concentrare tutte le energie sulla caccia al colpevole è fuorviante, il problema della cultura anti sismica è politico».

Nordio, il pm contro: "Trovare i colpevoli? Una caccia alle streghe". "La nostra società non ammette l'imponderabile, non sarà facile dimostrare chi e se ha sbagliato", scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 31/08/2016, su "Il Giornale". La caccia alle streghe non gli è mai piaciuta e la rotta non cambia nemmeno oggi. Anche se ci sono i morti, i crolli, le rovine. «Dopo il terremoto - dice Carlo Nordio - si è scatenata una corsa spasmodica alla ricerca del colpevole, si additano presunti responsabili di qua e di là, ma questo meccanismo mi lascia perplesso. Mi pare che la società contemporanea, laicizzata, cerchi il capro espiatorio per superare tragedie che altrimenti sarebbero insuperabili, con il loro carico di morte e di dolore». Va controcorrente anche questa volta il procuratore aggiunto di Venezia, uno dei magistrati più famosi d'Italia, prima con un editoriale per il Messaggero, poi con questa intervista al Giornale.

Dottor Nordio, che cosa non la convince?

«Viviamo in un mondo che non accetta più il lutto, il cataclisma, il terremoto che ci annichilisce e annulla le nostre presunte certezze. Un mondo che ha perso il senso del sacro».

Certo, ma qui parliamo di costruzioni inadeguate, di ritardi, di soldi mal spesi o dimenticati.

«Un attimo, questo viene dopo».

E prima cosa c'e?

«Se la società non ammette più che ci sia qualcosa che sfugge al proprio controllo, allora subito dopo il disastro parte la caccia al colpevole. Per forza. A prescindere».

Scusi ma l'Italia è piena di tecnici che hanno chiuso gli occhi e di collaudatori che hanno certificato ristrutturazioni che gridavano vendetta.

«Non sono nato ieri e faccio di mestiere il pubblico ministero, ma segnalo un modo di ragionare che secondo me è distorto. Si parte in automatico alla ricerca del colpevole e, siccome siamo in Italia e tutto viene giurisdizionalizzato, il colpevole diventa imputato a furor di popolo e va alla sbarra. Mi pare che in questi giorni si stia assistendo allo stesso fenomeno».

Guardi che sono stati i suoi colleghi a denunciare anomalie, stranezze, incongruenze. Dovrebbero forse fingere che tutto è stato fatto a regola d'arte?

«Ovviamente no, ma ci vuole cautela, non si può procedere impulsivamente, sulla base di sentimenti e risentimenti».

Si faranno indagini e verifiche e alla fine chi non ha rispettato la legge sarà punito. Non è giusto che sia così?

«Si, purché si sappia che sarà molto difficile dimostrare le colpe che tutti oggi danno per sicure».

Perché?

«Perché non è affatto semplice arrivare a una condanna per omicidio colposo o per disastro colposo, il reato classico del terremoto. Attenzione: nel processo non basta stabilire che i lavori siano stati fatti male, no si deve dimostrare che se fossero stati eseguiti nel migliore dei modi quella casa oggi non sarebbe in macerie, quel campanile non sarebbe venuto giù, quella chiesa sarebbe ancora al suo posto. Capisce?»

Non si può andare avanti per slogan o tesi semplicistiche?

«L'Italia è un Paese complesso, parliamo di un patrimonio che ha centinaia di anni, parliamo di beni che hanno avuto una vita lunga e travagliata, parliamo di opere con vincoli di ogni tipo. Naturalmente per gli edifici costruiti negli ultimi anni il discorso è più facile, ma molte abitazioni sono il risultato finale di interventi spalmati nel tempo».

Il paragone con il Giappone non regge?

«Non sono mai stato in Giappone ma mi pare che i nostri borghi e le nostre città abbiano una fisionomia assai diversa dalla loro».

L'indignazione di oggi lascerà il posto ad un'interminabile guerra di perizie?

«È un rischio concreto: perizie e controperizie in un estenuante duello fra le parti. Con un ulteriore problematica: se scopriamo che i privati per risparmiare non hanno effettuato le migliorie previste che facciamo, mettiamo sotto inchiesta le famiglie dei morti?».

D'accordo, ma l'Italia è il Paese delle tangenti, delle abitazioni realizzate più con la sabbia che con il cemento, dello scandalo dell'Irpinia. Vuole forse passare con la spugna su decenni di ruberie?

«No, dobbiamo perseguire la tangente, il falso, l'abuso, ma il disastro colposo non ammette scorciatoie. E poi dobbiamo metterci in testa che nel codice penale non esiste l'imponderabile, anche se nel nostro Paese sono stati processati perfino i professori che non avevano previsto, poveretti, il terremoto dell'Aquila».

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

LE DONNE ABRUZZESI.

Le donne abruzzesi più spigliate e meno musone. Dalla nonna che sembra una trentenne alle professioniste che rispettano la tradizione, scrive Paola Sorge su “Il Centro” il 14 ottobre 2012. Questa estate a Pescara, in spiaggia. Una bella donna apparentemente trentenne, snella, capelli scuri lunghi sulle spalle, chiama una bimba che gioca in riva al mare. "Vieni, amore di nonna", le dice con affetto; poi a me che la guardo attonita, confessa di avere 63 anni. Gran parte delle abruzzesi di oggi non dimostrano la loro età; il bello è che restano giovani più a lungo non solo nel fisico: rispetto a venti o a trent'anni fa, hanno subito un cambiamento stratosferico che ne investe la mentalità, le abitudini, il comportamento. Tutti pazzi per le abruzzesi. Sarà perché fanno sport, respirano aria buona, curano il loro aspetto con la stessa tenacia con cui prima preparavano il corredo nuziale, le ragazze di oggi sono decisamente più belle, più alte, più slanciate di quelle delle generazioni passate; saettano sui pattini per il lungomare (ma anche le ultrasettantenni sfrecciano impavide per il centro in bicicletta), fiere della loro femminilità, ma senza malizia e civetteria; danno l'impressione di essere più sicure, consapevoli delle loro capacità. Sono autonome, hanno grinta. «Oggi la donna abruzzese è certamente più glamour», afferma Rosanna, accompagnatrice turistica. «Prima era semplice, schiva, non aveva tante esigenze, ora frequenta beauty farm, corsi di tango argentino e danza del ventre; prima era individualista, poco incline alle relazioni sociali, anche piuttosto permalosa, ora ha imparato a essere socievole e a fare squadra. Oggi sono tante le donne ai vertici di aziende importanti; prima erano subalterne, ora prendono le redini di un'impresa senza timori, occupano posti in passato riservati rigorosamente agli uomini; un esempio per tutti: quello di Valentina Maio, presidente del Lanciano Calcio». «Sono emancipate», rincalza Vittorina Castellano, nota scrittrice pescarese. «Adesso hanno la fortuna di avere tutte le facoltà universitarie qui in Abruzzo, per laurearsi non devono più trasferirsi a Roma o a Bologna. Sono finalmente al passo con le donne del Nord!» E poi c'è l'aeroporto di Pescara che è un grosso incentivo a conoscere il resto del mondo, come osserva Raffaella, ricercatrice universitaria: «Fino a vent'anni fa la vita delle ragazze era circoscritta all'ambiente familiare, oggi invece ci sentiamo cittadine del mondo, molte di noi si sono trasferite all'estero». I sogni delle giovanissime abruzzesi sono cambiati, non desiderano più sposarsi ma convivere; non vogliono figli, ma lavorare in Belgio, in Inghilterra, a Berlino. Il mondo femminile di ieri con le sue regole e le sue antiche tradizioni sembra scomparire di fronte all'ondata di novità e di stimoli continui che vengono dal mondo web, da quello imperante dell'economia, da quello dell'industria. Ma non tutto è perduto, anzi: assistiamo ora ad una rivalutazione della "abruzzesità", tornano in auge riti e miti del mondo contadino di un tempo, trionfano i prodotti dell'artigianato e quelli gastronomici della regione; prima quasi ci si vergognava delle proprie origini abruzzesi. Ora sono motivo di vanto: sono tante oggi le associazioni fondate da donne per promuovere la conoscenza dei tesori d'arte e delle bellezze naturali che rendono l'Abruzzo un piccolo paradiso. Gli uomini sono cauti, se non scettici, di fronte al boom delle abruzzesi emancipate, indipendenti e senza problemi: quelli avanti negli anni ancora ricordano i tempi, non poi tanto remoti, in cui una ragazza non poteva uscire da sola la sera, mentre oggi tutte, o quasi, godono, vivaddio, di libertà assoluta; ma non vuol dire che i problemi siano finiti: ci sono ancora, soprattutto nell'entroterra, nonne brontolone che vorrebbero impedire alle nipoti di andare all'università, mamme spaventate che vietano alle figlie di lasciare l'Abruzzo anche se per una nobile ragione come fare volontariato; le giovanissime a scuola hanno spesso difficoltà ad instaurare un rapporto con compagni e insegnanti. «Ma quando vincono la timidezza sono davvero autentiche!», esclama Andrea, giovane professore di liceo. «Niente a che fare con le ragazze del resto d'Italia. Pensi che una mia ex alunna mi ha mandato un mazzo di rose per il mio compleanno!». I ruoli si sono evidentemente ribaltati. Ma guai a meravigliarsene! Per le abruzzesi sposate e in carriera rimane il problema della cura della casa e dei figli. «Non trascurano gli affetti familiari, sono legatissime, come in passato, a genitori e a figli», insomma sono tuttora un po' «chiocce», afferma ancora Rosanna. «E tendono a mantenere la vita di coppia». Ma in Abruzzo oggi c'è il boom dei divorzi, rileva Lia, docente universitaria di antropologia culturale. «Il matrimonio tradizionale si reggeva sui sacrifici delle donne, "angeli del focolare"; ora che questo ruolo è superato, si creano gravi scompensi nella vita familiare», spiega. In tutto questo che fine hanno fatto le belle tradizioni gastronomiche che hanno fatto la gloria d'Abruzzo? Possibile che si debba sempre ricorrere a mamme e nonne per poter portare in tavola il "cardone", il timballo, la galantina che riempiono i giorni di festa di profumi e di allegria? Racconta Valeria, giornalista del Tg3: «Prima di Natale ero presa da una grande agitazione: volevo preparare per l'occasione brodo di gallina e galantina, volevo ricreare quell'atmosfera che avevo vissuto da bambina, piena di odori e sapori indimenticabili. Per me questo era quasi un obbligo e provavo un senso di colpa perché ogni volta non riuscivo a essere come mia madre e mia nonna. Invece è stata proprio mia madre a dissuadermi dai miei buoni propositi: mi ha detto che una donna che lavora tutto il giorno come me non deve avere questo peso, che devo inventarmi un nuovo modello di donna abruzzese». «Così - prosegue Valeria - «mi ha liberato per sempre dall'angoscia. Ora faccio le crispelle in brodo e il ciambellone per i miei figli, e lo faccio con gioia perché la mia è una scelta, non una costrizione». «Il "cardone" non lo so fare, ma sono ben radicata nella mia terra e guardo al futuro. Sono quella che sono grazie alle tradizioni che hanno reso felice la mia infanzia».

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

TERREMOTO: I 27 PROCESSI TRA CROLLI, RICOSTRUZIONE E INFILTRAZIONI.

Scrive Alberto Orsini il 5 aprile 2015 su Abruzzo Web. “La spada della giustizia non ha fodero”, diceva il conte Joseph de Maistre, spietato magistrato alfiere della restaurazione che seguì alla rivoluzione francese. E il suo detto sembra possa applicarsi benissimo alla ricostruzione post-terremoto dell’Aquila, che dopo 6 anni è costellata di procedimenti giudiziari che scandagliano ogni singolo aspetto di questa complicata vicenda. Madre di tutte le inchieste è quella sui crolli del terremoto, oltre 200 singoli filoni in origine, 19 dei quali sono approdati in giudizio con esiti dai più disparati. Ma ci sono inchieste nuove legate specificamente alla ricostruzione, che partono dalle infiltrazioni mafiose e arrivato agli appalti aggiustati per favorire questo o quello, fino ad arrivare ai guai delle new town dei progetti C.a.s.e.. AbruzzoWeb ha fatto il punto delle 30 principali inchieste attive al momento.

LA MAXI INCHIESTA CROLLI. CASSAZIONE. Il processo più noto a essere arrivato al giudizio di legittimità è quello alla commissione Grandi rischi, l’organo scientifico consultivo della presidenza del Consiglio che il 31 marzo 2009, a cinque giorni dalla tragedia, escluse il rischio di forti scosse di terremoto e rassicurò gli aquilani. Il 22 ottobre 2012 in primo grado il giudice Marco Billi ha emesso sette condanne a 6 anni di carcere per omicidio colposo e lesioni colpose, verdetto rovesciato il 10 novembre 2014 dalla sentenza di Appello, che ha assolto sei esperti dalle accuse, condannando il solo vice capo dipartimento della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis, con pena ridotta a 2 anni. L’avvocato generale Romolo Como ha depositato il ricorso e ora si attende la fissazione dell’udienza. Ugualmente si aspetta per il crollo in via generale Francesco Rossi, con l’unico imputato, Diego De Angelis, condannato per omicidio colposo, disastro colposo e lesioni personali colpose gravi, che in Appello ha visto la sua pena ridotta da 3 anni a 1 anno e 11 mesi. Nell’edificio sono morte 17 persone tra cui sua figlia Jenny. Ancora il ricorso è stato presentato per il crollo del Convitto nazionale, dove le vittime furono 3, tutti minorenni: la Corte d’Appello ha stangato i due imputati, confermando la condanna a 4 anni di reclusione nei confronti dell’ex preside, Livio Bearzi, e, riformando la sentenza di primo grado, condannando anche il dirigente della Provincia dell’Aquila Vincenzo Mazzotta a 2 anni e 6 mesi di reclusione. Nel crollo della scuola persero la vita 3 minorenni. Dopo le pene ridotte al termine del processo d’Appello, hanno inoltrato un nuovo ricorso per provare ad annullare del tutto le condanne gli avvocati degli imputati per il crollo della facoltà di Ingegneria di Roio, dove non ci sono state vittime ma secondo le accuse con un sisma di giorno sarebbero potute essercene a migliaia. Il direttore dei lavori, Ernesto Papale, e quello di cantiere, Carmine Benedetto, restano condannati per disastro colposo, ma la loro pena è stata abbassata da 4 anni di carcere del primo grado a 1 anno e 10 mesi ciascuno. APPELLO. Il processo più vicino all’approdo al secondo grado di giudizio è quello per il crollo della Casa dello studente, dove morirono 8 giovani, che comincerà il prossimo 22 aprile 2015. Il ricorso è stato presentato da quattro imputati di omicidio colposo, disastro colposo e lesioni condannati nel processo di primo grado: Bernardino Pace, Pietro Centofanti e Tancredi Rossicone, tecnici autori dei lavori di restauro del 2000 sullo stabile, alla pena di 4 anni di reclusione; Pietro Sebastiani, tecnico dell’Azienda per il diritto agli studi universitari (Adsu) aquilana, che gestiva la struttura, alla pena di 2 anni e 6 mesi. Per il crollo in via XX settembre 123, dove ci sono state 5 vittime, il giudice Giuseppe Grieco ha assolto “per non aver commesso il fatto” Leonardo Carulli, 86 anni, originario di Francavilla Fontana (Brindisi) ma residente a Roma, dall’accusa di omicidio colposo. L’appello è stato presentato non dal pm ma dalla procura generale e dalle parti civili. Dopo alcuni slittamenti per vizi di notifica, l’udienza è fissata il prossimo 25 giugno. A presentare ricorso anche l’ingegnere aquilano Fabrizio Cimino, unico condannato, a 3 anni e 6 mesi di carcere, per omicidio colposo plurimo e lesioni, nell’ambito del processo per il crollo in via D’Annunzio, stabile costruito nel 1963 in cui ci furono 13 vittime. L’udienza è in via di fissazione. E ancora si attende il pronunciamento per il crollo in via Milonia, uno dei casi in cui non ci sono stati morti, con il giudice Billi che ha condannato a 2 anni di reclusione ciascuno per disastro colposo Berardino Drago, 80 anni, di Pizzoli (L’Aquila) e Angelo Sabatini, 84, di Roma, ritenuti colpevoli di aver commissionato a un geometra aquilano inizialmente indagato e poi scagionato la direzione dei lavori, pur non potendolo fare. Sospeso il ricorso per il crollo di via Luigi Sturzo, che pure ha mietuto ben 27 vittime: l’unico progettista sopravvissuto, Augusto Angelini, 88 anni, per gravi motivi di salute non può sostenere il processo d’Appello dopo la condanna in primo grado a 3 anni di reclusione. PRIMO GRADO. Per quanto riguarda i processi conclusi, ancora in corso o archiviati in primo grado, il prossimo 7 maggio 2015 si andrà a sentenza per il crollo in via Persichetti, dove sono morte due persone. Il giudice Grieco ha assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” i cinque imputati per il crollo del condominio al civico 79 di via XX Settembre, nel quale morirono 9 persone su richiesta dello stesso rappresentante della pubblica accusa. Non ci sono responsabili anche per i crolli all’interno dell’ospedale San Salvatore. Lo ha deciso il giudice Grieco che ha assolto tutti e 4 gli imputati dall’accusa di disastro colposo. Quattro le assoluzioni “perché il fatto non sussiste” per il crollo di un antico palazzo in via Roma 18, dove non ci furono morti, ma solo un ferito. La sentenza non è stata appellata dal pm, che aveva richiesto le assoluzioni, né dalla parte civile che è stata risarcita. Non è arrivato al dibattimento il crollo dell’edificio di via Campo di Fossa 6/B in cui morirono 27 persone perché gli 8 possibili indagati sono tutti morti. Stessa storia per il condominio di via Poggio Santa Maria: 19 morti, deceduto anche l’unico indagato a 96 anni, così come per via Cola dell’Amatrice, 11 morti, per via Corridoni, una vittima, e per via Gualtieri d’Ocre. Anche il processo per il crollo dell’hotel Duca degli Abruzzi, che solo per un caso non provocò vittime, non si svolgerà mai. Nel corso dell’udienza preliminare sono state presentate le perizie mediche in base alle quale i due imputati, Claudio Botta di 92 anni, e Franco Seri, 87 anni, ex dirigente del Genio Civile, sono troppo anziani e con problemi di salute per poter stare in giudizio.

INFILTRAZIONI MAFIOSE. La prefettura dell’Aquila ha disposto delle interdittive antimafia a carico di 37 imprese impegnate nella ricostruzione post-sisma, considerate in odore di mafia o, comunque, da tenere sotto controllo. Di questi, ben 28 risulterebbero impegnati nella ricostruzione di opere pubbliche mentre le restanti 9 stavano lavorando nei cantieri privati dove, su ammissione di istituzioni e forze dell’ordine, è più facile infiltrarsi a causa della carenza di regole con le commesse, anche ingenti, affidate direttamente e senza gara. A livello geografico, 11 di queste ditte hanno sede al Nord, 19 al Centro, e tra queste 12 all’Aquila, e le altre nel Sud. 'NDRANGHETA. State già fissate le due prossime udienze, la prima il 17 aprile 2015 e la seconda l’8 maggio, del processo nato dall’inchiesta “Lypas” che, il 19 dicembre 2011, aveva portato all’arresto dell’imprenditore aquilano Stefano Biasini, dei fratelli Antonino Vincenzo Valenti e Massimo Maria Valenti, nati a Reggio Calabria, ma residenti da tempo all’Aquila, e di Francesco Ielo, nato a Reggio Calabria e residente ad Albenga (Savona). Per Massimo Maria Valenti al momento il giudizio è sospeso per motivi di salute in vista di una verifica sulla sue condizioni. Secondo le accuse, le infiltrazioni sarebbero state rese possibili grazie al gancio dell’imprenditore aquilano Stefano Biasini, figlio del noto geometra e amministratore di condominio Lamberto, quest’ultimo non coinvolto ma oggetto delle attenzioni dei calabresi, mai andate a buon fine, per accaparrarsi appalti di ricostruzione. CAMORRA. La malavita organizzata colonizzava cantieri di ricostruzione facendo lavorare dipendenti sottopagati a metà stipendio provenienti dalla Campania: questa la realtà scoperta nell’inchiesta giudiziaria “Dirty job” del giugno 2014 che ha portato all’arresto di 7 imprenditori e alla clamorosa accusa di collusione con la Camorra. Ai domiciliari sono finiti Elio Gizzi, ex presidente dell’Aquila Calcio, e i fratelli Dino e Marino Serpetti. Destinatari di misure cautelari in carcere sono invece Alfonso, Cipriano e Domenico Di Tella e Michele Bianchini. Gli imprenditori sono tutti aquilani a eccezione di Bianchini, originario di Avezzano (L’Aquila). Gli indagati hanno ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini e sono in attesa che venga fissata l’udienza preliminare. Come costola di questa inchiesta, un imprenditore impegnato negli appalti per la ricostruzione, Raffaele Cilindro, 51 anni, ritenuto dagli inquirenti vicino all’ex boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria, è stato arrestato dai Ros nell’ambito di un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Napoli, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, sostituti Catello Maresca e Maurizio Giordano. Vanno ancora chiarite le commesse che avrebbe puntato e per questo il sindaco, Massimo Cialente, ha invitato: andiamoci piano con le etichette. Le indagini sono ancora in corso. Nell’ambito della stessa indagine, i carabinieri del reparto territoriale di Aversa (Caserta) con i colleghi della compagnia dell’Aquila hanno localizzato e tratto in arresto a Tornimparte (L’Aquila) Salvatore Tana, 28enne originario di Teverola in provincia di Caserta, che lavorava come operaio alle dipendenze di una ditta edile casertana impegnata nella ricostruzione. Anche qui si indaga ancora.

APPALTI DI RICOSTRUZIONE PUBBLICA. Si svolgerà il prossimo 29 aprile 2015 l’udienza davanti al giudice per l’udienza preliminare del tribunale dell’Aquila Guendalina Buccella sulla richiesta di rinvio a giudizio per gli 8 indagati nell’ambito dell’inchiesta “Do ut des” su un presunto giro di tangenti negli appalti della ricostruzione pubblica post-terremoto del 6 aprile 2009. La bufera giudiziaria ha provocato una crisi politica profonda nel Comune dell’Aquila con le dimissioni e la contemporanea rimozione del vice sindaco indagato, Roberto Riga, sostituito dall’ex procuratore Nicola Trifuoggi, e le dimissioni, poi ritirate, del primo cittadino, Massimo Cialente. Tutto è cominciato l’8 gennaio dello scorso anno, con l’arresto ai domiciliari di 4 persone: Vladimiro Placidi, ex assessore comunale alla Ricostruzione dei beni culturali della scorsa Giunta Cialente, Pierluigi Tancredi, all’epoca dei fatti consigliere comunale, che si è dimesso dopo il terremoto, e in passato assessore comunale di centrodestra, Daniela Sibilla, dipendente del Consorzio beni culturali e già collaboratrice di Tancredi durante i suoi mandati di assessore, e Pasqualino Macera, all’epoca dei fatti funzionario responsabile Centro-Italia della Mercatone Uno Spa. Altri quattro gli indagati a piede libero: l’allora vice sindaco Riga, il dirigente comunale Mario Di Gregorio, l’ingegnere di Perugia Fabrizio Menestò e l’imprenditore Daniele Lago. Menestò è stato poi scagionato dalla pesante accusa di appropriazione indebita di 1 milione 200 mila euro per la quale la procura ha chiesto l’archiviazione: gli resta soltanto la contestazione di falso, mentre a Di Gregorio l’abuso d’ufficio. Le accuse, a vario titolo, sono di millantato credito, corruzione, falsità materiale e ideologica e appropriazione indebita. Sono ancora in fase di notifica invece le richieste di rinvio a giudizio dell’indagine “Betrayal”, “tradimento”, su presunte mazzette nell’ambito della ricostruzione pubblica per accaparrarsi appalti per il recupero di beni culturali ed ecclesiastici nel centro storico. Sono state 5 le ordinanze di custodia cautelare, di cui 2 in carcere e 3 agli arresti domiciliari, eseguite da Polizia e Guardia di finanza nei confronti dell’ex vice commissario ai Beni culturali alla ricostruzione Luciano Marchetti, della funzionaria del Mibac Abruzzo, Alessandra Mancinelli, e degli imprenditori Nunzio Massimo Vinci, Patrizio Cricchi e l’aquilano Graziano Rosone. Sono 17 gli indagati complessivi. L’operazione ha visto al centro la ricostruzione di due importanti chiese distrutte: Santa Maria del Suffragio (nota come delle Anime Sante) in piazza Duomo e Santa Maria Paganica nella piazza omonima. Per quest’ultima esiste anche un filmato che testimonia una tangente da 10 mila euro effettuata dentro un’automobile nei pressi di un ristorante di Carsoli (L’Aquila). Dalle carte giudiziarie sono emerse anche le forti pressioni perché la Curia arcivescovile dell’Aquila diventasse soggetto attuatore della ricostruzione dei suoi beni ecclesiastici. Un’attività di lobby portata avanti da alcuni degli indagati, che puntavano a ottenere incarichi, regalie e commesse.

PROGETTI C.A.S.E. ISOLATORI. È invece arrivato a a un passo dalla prescrizione il processo sugli isolatori sismici malfatti al punto da spezzarsi in alcuni casi, se sottoposti a test in laboratorio: le “molle” sono installate sotto le palazzine degli alloggi del progetto C.a.s.e. per dissipare la forza distruttiva di un eventuale sisma. La prossima udienza è stata fissata dal giudice Giuseppe Grieco il prossimo 3 luglio. per scongiurare la prescrizione del reato per i due imputati per frode nelle pubbliche forniture, Gian Michele Calvi, direttore dei lavori, e Agostino Marioni, dirigente di una delle ditte fornitrici, la Alga Spa, bisognerebbe chiudere il primo grado, l’eventuale Appello e il successivo giudizio di legittimità in Cassazione grossomodo entro la fine del 2016. Per questo processo il giudice Giuseppe Romano Gargarella ha già condannato con il rito abbreviato con le stesse accuse a 1 anno di reclusione Mauro Dolce, responsabile del procedimento di realizzazione del progetto C.a.s.e., che ora andrà in Appello. BALCONI. Dovrebbe ormai essere sul tavolo del sostituto procuratore Roberta D’Avolio la perizia con i risultati delle prove statiche e sulla qualità dei materiali sui balconi e sulla palazzina del progetto C.a.s.e. di Cese di Preturo (L’Aquila) dove nel settembre 2014 è crollato un balcone “per difetti di costruzione e utilizzo di materiale scadente”: vicina, quindi, la svolta nelle indagini perché i magistrati potranno prendere una decisione e inviare gli avvisi di garanzia, inizialmente ne sono stati ipotizzati addirittura una quarantina. Alle ipotesi di reato, di cui già si sapeva, di crollo colposo, frode nelle pubbliche forniture e omissione di lavori in edifici che minacciano la rovina, si potrebbero aggiungere quelle di truffa e falso. L’indagine ha portato al sequestro di 800 balconi di 494 palazzine che si trovano in 5 dei 19 insediamenti e a una singola palazzina sgomberata del progetto C.a.s.e. di Cese di Preturo, quella del crollo. Secondo quanto si è appreso dalla perizia, i solai della palazzina, la piastra 19, hanno subìto un avvallamento di oltre il doppio rispetto al valore previsto dalla legge, mentre i due balconi esaminati hanno retto, denotando comunque difformità in rapporto al progetto.

Terremoto all'Aquila: i parenti delle vittime devono restituire 7,8 milioni di euro, scrive “Libero Quotidiano”. "Alla luce della pronuncia della Corte di Appello del 12 novembre 2014 si invita e si diffida la S.V. alla restituzione delle somme percepite e a corrispondere senza indugio e comunque entro trenta giorni dal ricevimento della presente, la somma complessiva di Euro 104.201,42 euro relativa a sorte capitale pari ad Euro 100.000, spese legali pari ad Euro 5.033,60 ed interessi legali calcolati al 28 febbraio 2015 pari a Euro 2.628,42 con l'avvertimento che in caso di ritardo e/o di inadempimento si procederà per il recupero del credito". Questo c'è scritto nella lettera, firmata da capo della Protezione Civile Franco Gabrielli, che è stata spedita a uno dei familiari delle 309 vittime del terremoto che ha distrutto l'Aquila il 9 aprile di sei anni fa. In pratica lo Stato chiede indietro il modesto risarcimento che ha dato a quanti hanno pianto i loro cari morti sotto le macerie dopo la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi, che nei giorni precedenti al terremoto dell'Aquila aveva tranquillizzato gli aquilani inducendoli a pensare che l'inferno non sarebbe accaduto. Adesso che la Corte d'Appello è stata assolta i parenti delle vittime, secondo quanto scritto da Gabrielli e reso noto da AbbruzzoWeb.it, devono restituire quel denaro: in totale 7,8 milioni di euro. Dove li troveranno?

IL MALE DELL'AQUILA? GLI AQUILANI.

L’Aquila oggi, anima dispersa. La notte del 6 aprile 2009 il terremoto d'Abruzzo ha fatto oltre trecento vittime. E ha tolto agli aquilani la loro città e la loro comunità. Come racconta una scrittrice, tornata tra le case e le macerie del centro storico, scrive Caterina Serra su “L’Espresso”. Cammino per la città di notte. L’Aquila è più buia delle sue montagne. Forse il silenzio compensa una mancanza di pudore. Vedo attraverso le fessure di muri spaccati, di travi e ponteggi, di porte tenute insieme da catene e lucchetti come se l’abbandono l’avessero chiuso dentro. Insieme a quel tipo di memoria dolorosa che nessuno vuole portare con sé. Come la propria faccia nelle foto appese che mi viene voglia di staccare dal muro, e conservare. C’è qualcosa di attraente, una specie di bellezza oscena che ricorda l’assurdo della vita. Mi trovo davanti a un tavolo apparecchiato, a un letto con l’impronta sul cuscino, a bicchieri da lavare, quando entro nelle case, invadendo spazi di intimità già violata dalla forza della terra, e dal tempo. Penso a cosa sia una casa. A cosa la renda unica. «Mi manchi da morire, casa»: un uomo mi fa notare la scritta tra due finestre puntellate. Forse vendo e me ne vado, mi dice guardandomi come se mi volesse testimone della sua decisione. Continuano a dirmi che manca poco, che sono arrivati i soldi, che la casa adesso la rimettono a posto. Intanto giro per le strade che mi ricordano da dove vengo. Non voglio che mi tolgano la città da sotto i piedi. Se non ci cammino ogni giorno, c’è il rischio che mi faccia paura tornarci. Un senso di sospensione, e di attesa. L’Aquila di notte è ferma a quella notte. Anche i discorsi sono fermi a quella notte. E sono passati sei anni. Dalla propaganda della politica come intervento spettacolare, qualcuno qui lo chiama l’inganno della politica. Perfino il modo di camminare della gente sembra risentire di quella notte. E di sei anni passati fuori dalla città, fuori dalle case, fuori dalla vita di prima. Camminano lenti, con gli occhi puntati in alto, cercando di ritrovare i segni del loro passaggio. Seguo la luce di qualche lampione, e il sentiero delle lucette rosse delle impalcature, accese come lumini in una chiesa in segno di preghiera. Sento una musica. C’è qualcuno in fondo alla strada. Mi prende una specie di euforia, mi viene voglia di correre. Ma è come se mi agitassi dentro un labirinto, giro l’angolo e ho già perduto i suoni, e la luce, e sono di nuovo al buio, confusa, come sbattuta contro un muro. Il buio di una città disabitata è fondo come un pozzo. Torno indietro, prendo una via, un’altra. Ci sono i nomi delle strade ma non corrispondono più. Sono spaesata. Uno spaesamento dato dall’irriconoscibilità delle parti, spezzate, interrotte, oppure nascoste alla vista, barricate dietro migliaia di tubi neri agganciati l’uno all’altro da giunti dorati. Lo sanno tutti che sono lì da sei anni, che non si possono contare per quanti sono e non servono a niente così tanti giunti dorati incastonati come pietre preziose. Che sono in affitto, vanno pagati gli Innocenti, così si chiamano, i tubi. I nomi delle cose, a volte. Non importa, lascia stare i nomi, mi dico, sono quello a cui portano che conta, adesso. E la strada che non ricorda più il suo nome mi porta a quella musica. C’è gente che beve, che balla. Una festa, musica a tutto volume, risate alte a notte fonda. Sa di libertà, la città senza regole di convivenza. Senza divieti se non quelli di passaggio oltre reti e nastri biancorossi attorno a vecchie macerie e nuovi mattoni. Come un ribaltamento dell’ordine: il buio che nasconde e non fa paura, le case abbandonate dove fare l’amore, le strade libere dalle auto, occupate di notte da giovani che la città com’era prima non se la ricordano, i palazzi del potere disabitati, le case dei più ricchi accessibili a chiunque voglia ritrovarsi sotto soffitti affrescati. Una specie di sospensione della proprietà. Democrazia sismica, pubblico e privato che si confondono. E nella rottura dello spazio privato si infila la voglia di occuparsi di ciò che non appartiene a nessuno, tutti i cani randagi che qualcuno adotta ogni giorno, e i gatti a cui due donne portano da mangiare, le ho viste che passavano attraverso il buco di una recinzione, che tornavano a casa loro, inagibile, diventata il cortile per i gatti della città. Viviamo come dentro una bolla, dice il proprietario di un ristorante di cui è rimasta solo la facciata. Il tempo non conta più, quello che doveva essere provvisorio è diventato permanente. Sono chiuso in una casa che non sa niente di me, di cosa ho fatto, di quanti anni ho, di cosa mi piace. Nel container di fronte al vecchio ristorante c’è il bancone che ha tirato fuori a forza dalle macerie. Lo aveva fatto lui, ricavato dalle travi della ferrovia. Mi piacciono le cose che hanno una storia, mi dice, che invecchiano, che mi conoscono. Mi chiedo quanto una certa educazione all’avere dei diritti sia fondamentale quando la realtà è così anomala e dolorosa da stordire, da sentirsi grati per il solo fatto di essere vivi. Come insorge una comunità quando si accorge che il dono nasconde il ricatto? Ti do una casa intanto, sii riconoscente. Come si oppone a una politica che non fa il bene della polis se mantiene lontani i cittadini dalle proprie case, se lascia spazio e mano libera a chi dentro la città decide senza un piano condiviso, una visione comune? Forse l’inganno della politica è aver fatto credere che per vivere basti una casa. Avere chiamato vita la sopravvivenza. Rumore circolare di betoniere, e rimbombo freddo di trapani e martelli. Di giorno la città è un cantiere di dodicimila operai. Il corso ha nuovi stucchi, ancora umidi, un po’ tutti uguali, color pastello. Intorno, polvere di calce, odore di muffa, un esercito di uomini che entra ed esce dalla città ogni giorno. Lavora, mangia e se ne va. Pan e ojo, e il vino dell’Abruzzo. Una cantina vecchia di cinquecento anni. Ci arrivo tra muri di assi di legno di un cantiere. Ju Boss è il primo locale storico ad avere riaperto. Il proprietario e i suoi figli stappano una bottiglia dopo l’altra con un cavatappi appeso al muro che è come una leva che ciascuno tira a modo suo, come se aprissero una porta, o abbassassero un ponte levatoio. Tavoli di giovani, di vecchi, di caschi gialli di operai in pausa. Un posto pieno di storie, un luogo della memoria e nuovi inizi. Come una piazza. Capisco che L’Aquila è vuota di abitanti ma è piena di gente che pendola tra la periferia e il centro, pellegrini di una città consacrata alla memoria e alla nostalgia. Viandanti, apolidi. Abitano fuori dalla città storica, vengono dalle diciannove new town. Sparsi, dispersi, a ridosso delle pendici dei monti, difesi, o controllati a vista, dai centri commerciali costruiti come torrioni in mezzo al nulla. Dentro casupole tristi come insediamenti militari, villaggi dormitorio, anonimi, seriali, con l’erba finta sotto le finestre. È possibile che la politica non pensi al danno psicologico dello sradicamento, non tema lo sfilacciamento del tessuto sociale, la frantumazione dell’anima della città? Una donna scosta una tenda, mi guarda come fossi una creatura del cielo. Qui non c’è mai nessuno, mi dice, sta per piovere, nella mia casa vera entrerà la pioggia. Vera, come se quella in cui vive ora fosse finta, falsa, o meno reale. Sono vecchia, continua, i vecchi sono qui a finire la vita, senza neanche un cassetto in cui trovare quel pezzo di vita che uno sa di avere vissuto. Una città senza corpi non ha anima, senza cittadini non è una città. Ripenso ai nomi, se ancora corrispondono alle cose. Penso alle new town, e mi dico che forse diventano ciò che significano, le Nuova Città, l’altra città, nel senso di àltera, diversa, e magari alterata, la città che non ha più niente di ciò che la definiva in questa parte di mondo. Tutta decentrata, scentrata, spiazzata, e spiazzante. Animata di corpi che vanno e vengono e non si trovano da nessuna parte, niente più piazze, fontane, cinema, teatri, biblioteche, bar, caffè, edicole. Panchine, invece, una in fila all’altra. Per stare seduti e guardare il vuoto. Niente più cerchi per guardarsi in faccia. È la periferia la nuova città? Che sia riempita di spazi che uniscano e non isolino, che facciano crescere e non mortifichino. Che ci si inventi un luogo della socialità gratuito, pubblico, libero come è sempre stata la piazza, simbolo dell’assemblea, del potere partecipato, della possibilità di incontrarsi, di dissentire, di essere al centro della propria vita personale e politica. Come si fa a sentirsi cittadini in una tenda a pagamento?

L'Aquila, il male dei sopravvissuti. A quasi quattro anni dal sisma, le indagini epidemiologiche mostrano una crescita di sindromi fisiche e psicologiche. Dovute anche alla vita spersonalizzata nei moduli di 30 metri quadri, scrive Emilio Fabio Torsello su “L’Espresso”. Catapultati nei 45 metri quadrati dei Moduli abitativi provvisori (Map) o nelle abitazioni del Progetto CASE, a diversi chilometri dal primo centro abitato. La vita quotidiana che si restringe, si riduce nello spazio di un baco da seta, lasciando fuori tutto il resto. Doveva essere la soluzione provvisoria in attesa della ricostruzione, la promessa delle promesse fatta dall'allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che adesso sta logorando i cittadini dell'Aquila e delle frazioni, ridotte ormai a città fantasma. Si tratta di vite stravolte che hanno ormai perso anche la scorta dei continui collegamenti televisivi, «dal campo di Piazza D'Armi, a voi studio»,  con cui per mesi è stata raccontata la realtà dei terremotati aquilani. Ad oggi la città è semideserta, la maggior parte degli appartamenti sono vuoti o in ristrutturazione, la viabilità è impazzita in un dedalo di rotonde, le macerie ancora visibili accanto ai villaggi provvisori, la città è lesionata ben oltre il centro storico di cui tutto il mondo ha parlato. A raccontare le condizioni psicofisiche in cui versano i cittadini del capoluogo abruzzese sono rimasti gli studi di medicina (e qualche sparuto giornalista) che tentano di capire come stia evolvendo la situazione dell'Aquila. Già alcuni mesi fa L'Espresso aveva raccolto la denuncia secondo cui erano stati 96 i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso) per problemi psichici gravi, effettuati nel territorio aquilano nei primi otto mesi del 2012, una situazione allarmante considerando che tra il 2004 e il 2009 se ne erano contati appena otto. Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista "Nutrition, metabolism and cadiovascular diseases" e nato dalla collaborazione tra l'Universita' Gabriele d'Annunzio, i Laboratori di ricerca della Fondazione Giovanni Paolo II di Campobasso e il Nucleo di farmacisti Volontari della Protezione civile, conferma come quella dell'Aquila sia un'emergenza tutt'altro che conclusa. Nei mesi successivi al sisma, infatti, un camper attrezzato con a bordo medici e farmacisti volontari ha visitato la zona dell'emergenza offrendo una serie di analisi e misurazioni, effettuate su 278 cittadini, con la collaborazione di Roche Diagnostic e Voden Medical. Le informazioni sono state poi messe a confronto con quelle ottenute dalle analisi fatte su cittadini che non avevano patito alcuna catastrofe, all'interno del progetto "Moli-sani". «I risultati», spiega Assunta Pandolfi, direttore dell'Unità operativa di Fisiopatologia Vascolare del dipartimento di Scienze Sperimentali e Cliniche nell'Università Gabriele D'Annunzio «mostrano come il gruppo studiato presenti una percentuale più alta di Sindrome Metabolica. La prevalenza di tale quadro nel campione di aquilani è infatti risultata del 50 per cento, contro un 30 per cento dello studio Moli-sani e poco meno (27 per cento) rispetto ai dati dell'Istituto Superiore di Sanita' relativamente alle popolazioni del centro-sud e isole». Si tratta di alterazioni significative: un livello di trigliceridi superiore alla norma o di colesterolo "buono" (hdl) troppo basso, la pressione arteriosa superiore al normale, un livello di glicemia a digiuno superiore alla norma e, infine, un girovita eccessivo, con un accumulo di grasso nella zona addominale. «Se una persona presenta almeno tre di queste alterazioni», spiegano i ricercatori, «la Sindrome Metabolica è presente». «Queste persone», continua Pandolfi, «presentano quindi una maggiore alterazione di alcuni valori molto importanti per la salute rispetto a chi non ha vissuto l'esperienza del terremoto. Ma il dato forse più importante è la differenza che osserviamo all'interno del gruppo aquilano tra chi ha perso la propria casa e chi no. La Sindrome Metabolica è infatti maggiormente presente tra coloro che sono stati costretti a vivere nelle tendopoli o negli hotel». Mentre Augusto Di Castelnuovo, epidemiologo dei Laboratori di ricerca nella Fondazione di ricerca e cura "Giovanni Paolo II" di Campobasso, aggiunge: «Pensiamo che il terremoto abbia un effetto negativo sulla salute delle persone per due motivi: da un lato abbiamo la situazione di forte stress dovuta alla catastrofe e agli stravolgimenti che ne sono seguiti, come ha dimostrato un recente studio condotto dagli psichiatri dell'Universita' di L'Aquila e dell'Ospedale San Salvatore dello stesso capoluogo, con evidenti effetti sulla salute cardiovascolare. D'altro canto, il cambiamento di abitudini causato dal vivere fuori della propria casa, la perdita di importanti contatti sociali e familiari, le modifiche nell'alimentazione sono tutti elementi che possono partecipare a formare un quadro di maggiore rischio». Le storie di vita vissuta confermano la continua emergenza di vita quotidiana che si vive all'Aquila. Come quella di Marzia, 39 anni, pendolare per lavoro tra Onna e Roma, passata dalla grande casa di famiglia a un Map di poco più di 30 metri quadrati: «Gli oggetti della mia vita quotidiana sono sparpagliati tra due roulotte e nei Map dei miei parenti. Nel poco spazio che abbiamo, non possiamo certo tenere tutto. I vestiti per il cambio di stagione li teniamo nei sacchi, il resto si ridivide tra chi può 'ospitare' tutto ciò che non è strettamente necessario. E ogni volta che bisogna recuperare qualcosa si verifica una sorta di 'transumanza' da un Map all'altro. Il tempo poi fa il resto, al punto che non ricordo quasi più cosa ho stipato nelle due roulotte in cui avevo deciso di conservare molti degli oggetti della mia vecchia casa, così spesso li ricompro». Le difficoltà non sono solo pratiche. «Il dramma», prosegue Marzia «è che la città e le frazioni sono ormai spersonalizzate. Si è messa in moto una silenziosa diaspora disgregante per cui si sono rotte le relazioni e sono venuti a mancare punti di aggregazione, un tipo di emergenza cui nessuno sta cercando una soluzioni, nemmeno le associazioni - che pure ci sono - ma che non vengono messe a sistema». «Dire che L'Aquila è stata ricostruita», taglia corto quando le chiedo cosa pensi delle parole di Berlusconi a Ballarò, «è un peccato mortale». Come quella di Marzia, ci sono anche tante altre esistenze di cui i media non riportano le vicende. Vite cadute nel dimenticatoio non appena le telecamere hanno lasciato la città. Persone anziane costrette a non uscire dai Map per mancanza di punti di aggregazione, oggetti della vita precedente al terremoto stipati nei cartoni nelle case ormai abbandonate e verdi di muffa.

L'Aquila, terremotati per sempre. Il piano di ricostruzione è fermo. La città abruzzese è abbandonata. I soldi per farla tornare a vivere sono finiti. E come se non bastasse, sono tornate le scosse. Viaggio in un territorio martoriato, scrive Emilio Fabio Torsello su “L’Espresso” . Basterebbe andare a vedere. Basterebbe camminare per le vie del centro storico dell'Aquila, di Onna, di San Gegorio, di Paganica, di ciò che resta di Tempèra, per misurare le bugie di quanti raccontano che "L'Aquila è stata ricostruita", che "l'obiettivo è stato raggiunto". La verità è che nella città più martoriata dell'Abruzzo e nelle frazioni, tutto è imbalsamato, puntellato, tenuto su da pesanti travi di legno su cui scolorano i nomi incisi dei gruppi dei Vigili del Fuoco che le costruirono. "Non ci sono i soldi". Il Piano di Ricostruzione dell'Aquila e delle frazioni già approvato, a quasi quattro anni dal terremoto è per lo più fermo. "Sono finiti i due miliardi stanziati - spiega Pietro Di Stefano, assessore del comune dell'Aquila alla Ricostruzione - e adesso si naviga a vista. Manca un afflusso costante di denaro e bisogna contrattare anno per anno con il Governo. Adesso, ad esempio, una delibera del Cipe del dicembre scorso ha sbloccato 150 milioni, un residuo di contabilità che non ci era stato assegnato dal Commissario, soldi che sono stati già impegnati. Siamo in attesa di altri 660 milioni ma tutto è sempre molto precario". A mancare, infatti, è un piano strutturato di finanziamento che invece si ridefinisce anno per anno: "queste procedure non aiutano la programmazione degli interventi. Per il sisma in Emilia - prosegue - è stata decisa un'accisa in modo da reperire subito i fondi per le popolazioni, vorrei capire per quale motivo nel 2009 si decise che per un territorio come il nostro, così pesantemente colpito dal terremoto, interventi straordinari di quel tipo non erano necessari. Il risultato è una contrattazione sui fondi che snerva qualsiasi ampio respiro di ricostruzione". Ci si prepara alle tende. E come se non bastasse sono tornate le scosse, lo sciame ha ricominciato lo scorso sabato 16 febbraio. La terra ha tremato cinque volte in una notte, la scossa più forte alle due, mentre in molti dormivano, 3.7 Richter. Poi altre quattro. In tutto undici in poco meno di 48 ore. Il sindaco dell'Aquila, Massimo Cialente, ha invitato i cittadini "ad agire secondo coscienza, con la consapevolezza che il Comune è pronto a garantire riparo con strutture adeguate e personale preparato". E ha spiegato di aver allestito tre tende riscaldate per quanti volessero passare la notte fuori da casa ma senza patire il freddo. L'impressione è che l'emergenza non sia mai davvero finita. Che sia stata solo un annuncio, un po' come quando dalla portaerei Bush dichiarò vinta la guerra contro Saddam, la realtà successiva avrebbe raccontato attentati e morti per anni. "In classe in 10 fumano 'roba'". A sottolineare come all'Aquila l'emergenza non sia terminata, soprattutto a livello sociale, sono anche gli studi di medicina sul disagio psichico, con frequenti trattamenti sanitari obbligatori e la diffusione degli stupefacenti pesanti e leggeri. "La droga all'Aquila c'è sempre stata, racconta uno studente di uno dei licei della città che chiede di restare anonimo, ma dopo il terremoto la loro diffusione è aumentata vertiginosamente. A scuola gira anche cocaina. Una volta, prosegue,  a un nostro compagno si ruppe una bustina di droga nello zaino. Se vuoi drogarti sai dove andare. Solo nella mia classe - aggiunge dopo un attimo di silenzio - almeno dieci persone fumano "roba" e in tutto siamo poco più di venti alunni". Scuole precarie. E proprio nel centro dell'Aquila c'era uno dei licei principali della città, dentro lo stabile di Palazzo Quinzi, oggi completamente inagibile. "Era stato ristrutturato pochi anni prima del terremoto - spiega Liliana Farello, 19 anni, una studentessa universitaria, fino all'anno scorso al liceo Cotugno, che la sera mi accompagna a vedere la sua vecchia scuola - durante il terremoto sono crollate anche le scale: avrebbe potuto ospitare poche centinaia di persone ma dentro eravamo più di mille". E le vie di fuga: una stradina larga meno di una transenna, via Antinori, stretta tra la scuola e un altro edificio, anch'esso puntellato. Poco distante, davanti la chiesa di Santa Margherita, una fontana perfettamente ristrutturata svetta in mezzo al nulla, tra puntellamenti e travi che sorreggono palazzi vuoti. Su tutto regna un silenzio spettrale che di sera diventa un'assenza di vita opprimente. Interrotta in lontananza dal motore delle camionette dei militari che con il riscaldamento acceso, si proteggono dal freddo. Anche loro sono ancora lì. E gli istituti scolastici adesso sono stati trasferiti nei moduli provvisori, i cosiddetti Musp. Margherita Sevi Nardecchia, cittadina onnese e insegnante che della scuola elementare De Amicis conosceva anche le pietre, racconta: "viviamo in una situazione di estrema precarietà. Da noi, ad esempio, mancano ancora le mense. Ce ne sta solo una e siamo costretti a fare i turni. Altre classi invece, non mettono proprio piede nella mensa: la bidella si affaccia sull'uscio della classe, riempie le scodelle, e le maestre le portano ai banchi agli alunni". E anche alla De Amicis, palazzo storico del 1400, erano stati fatti lavori di ristrutturazione poco prima del terremoto. Adesso è puntellata e vuota. La vita nel Progetto Case. E mentre la ricostruzione è ferma, la vita continua a svolgersi nei Moduli Abitativi Provvisori (i Map, le casette in legno) o negli appartamenti del Progetto CASE, casermoni nati in mezzo al nulla, tirati su in fretta dall'allora governo Berlusconi, che a vederli di notte sembrano più alveari che non abitazioni. "Siamo passati da una casa di quattro piani - spiega Anna Ferrara, 17 anni, di Bazzano - a un appartamento di circa 60 metri quadrati, dove viviamo in quattro. E ancora non conosciamo il destino della nostra casa lesionata dal terremoto: è stata classificata come "C" - con danni alle mura ma non alla struttura portante - ma accanto ha due appartamenti che dovrebbero essere abbattuti, finché non si capirà cosa fare delle case più lesionate, non sapremo come andrà a finire per la nostra". A poco meno di cento metri dalle finestre del Progetto Case di Bazzano - il primo ad essere inaugurato dall'allora premier Berlusconi - c'è lo scheletro di un enorme cavalcavia di una superstrada in costruzione. "Qui mancano i servizi - prosegue Anna - non c'è un negozio, gli autobus per andare a scuola passano di rado e per comprare il biglietto alla tabaccheria più vicina è necessario costeggiare a piedi la superstrada, con il rischio di essere investiti. Se poi si rompe qualcosa a casa, i tempi per la manutenzione sono lunghi. Noi di solito chiediamo a Ciro, ex capocantiere del progetto CASE che provvede a tutto, anche se in realtà c'è una cooperativa preposta alla manutenzione". E le segnalazioni più frequenti riguardano infiltrazioni, tubi ghiacciati, disfunzioni nei riscaldamenti. E lo stesso accade nelle casette di Onna: "In teoria - spiega Marzia Masiello, cittadina onnese - ci sarebbe la Manutencoop, nella pratica ci siamo organizzati e cerchiamo di aiutarci da soli". Il dramma delle frazioni. Onna di sera è silenziosa e pesante di nulla: le casette ordinate, poche persone in giro, un centro prefabbricato polifunzionale con una foresteria, poco distante le rovine del paese. A parte le macerie che sono state rimosse, tutto è fermo al 6 aprile 2009. Palazzi sventrati, scale d'ingresso che si interrompono sul fossato delle fondamenta. "A Onna i lavori per la ricostruzione non sono mai partiti - spiega Guido De Felice, consigliere del direttivo di Onna Onlus - la stima dei finanziamenti necessari per la cittadina è di 76 milioni di euro: 72 per le abitazioni e 4 milioni per le infrastrutture. Ma il dramma dei piccoli centri come Onna, Roio, Tempera e altri - prosegue - sta nella norma che prevede la possibilità di vendere al comune la propria casa, riacquistandola - a spese del comune - altrove in Italia. Una norma che rischia di spopolare le frazioni minori". "Una disposizione gravissima - spiega ancora l'assessore del comune dell'Aquila, Di Stefano -: si sta finanziando l'allontanamento dal territorio aquilano, una possibilità che gli Emiliani si sono ben guardati dal prevedere". E' crisi occupazionale. E finché non partirà la ricostruzione, resteranno al palo anche le tante maestranze artigiane presenti sul territorio, che sempre di più stanno patendo la crisi. "Le ditte di costruzioni che si sono precipitate all'Aquila dopo il terremoto - spiega Gianfranco Busilacchio, onnese e artigiano con una ditta di impiantistica - per lo più hanno portato le loro maestranze, senza utilizzare manodopera locale. Chi invece ha lavorato a quel poco di ricostruzione che si è mossa, viene pagato con il contagocce, in parallelo con i fondi pubblici erogati. Molte aziende stanno fallendo". Le nuove generazioni. E a fronte di una ricostruzione ormai impantanata da procedure farraginose e fondi che mancano, il rischio è che le nuove generazioni, quelle che hanno iniziato a vivere L'Aquila ormai terremotata, non ne reclamino più la rinascita. "Dal terremoto sono ormai passati quattro anni - spiega Margherita - i bambini che nel 2009 frequentavano la prima o la seconda elementare, ricorderanno sempre questa città puntellata e distrutta perché sono "nati" in questo contesto. La cosa che temiamo più di tutti è che la nostra generazione a un certo punto si stanchi di combattere per riavere la città com'era prima e che i giovani decidano di andarsene senza lottare: quando nasci in un contesto, alla fine ti abitui a tutto".

L'Aquila ha i soldi, ma non sa spenderli e cade a pezzi, scrive Miska Ruggeri, su “Libero Quotidiano”. (Nonostante i 10 miliardi già spesi). Sono ormai passati sei anni dal devastante terremoto (ore 3.32 del 6 aprile 2009, con 309 vittime, oltre 1600 feriti e circa 65mila sfollati) che ha distrutto L’Aquila e il suo circondario. E ci piacerebbe molto poter dire che le cose sono migliorate. Invece, la situazione non è nemmeno identica al drammatico day after. Incredibile dictu, è peggiorata. Il capoluogo abruzzese è sempre più a pezzi. Non per colpa della Natura imprevedibile quanto degli uomini, quelli sì prevedibili e incapaci di risollevare una città in ginocchio. Nella ricostruzione, dopo la fase di emergenza e di assistenza ben gestita dalla Protezione civile, non ha funzionato nulla. E ancora oggi non funziona nulla. Lasciamo stare, per carità di patria, i vari problemi giudiziari gravitanti attorno a quello che dovrebbe essere considerato in prospettiva il più grande cantiere d’Italia: mazzette, truffe, avvisi di garanzia, arresti, infiltrazioni camorristiche (il clan dei Casalesi...), ditte sospese, scandali vari e tante altre cose che non sono ancora emerse ma ci sono eccome. Se ne occuperà, speriamo con maggiore energia, la procura aquilana. Vediamo piuttosto i disagi maggiori ancora sofferti dai cittadini. In centro è stato sì finalmente aperto qualche cantiere, ma il 90% degli abitanti non è ancora riuscito a rientrare nelle proprie case o ha preferito aspettare poiché non si può certo stare in una sorta di fortezza Bastiani. Gli unici segni di vita tra la Villa comunale e la Fontana Luminosa (l’asse nord-sud equivalente al cardo medievale, mentre del decumano non si sa niente) sono dati dai locali della movida universitaria (e anche qui si avvertono più le negatività - rumore, sporcizia, risse tra ubriachi - che i fattori positivi). Tutto il resto, durante il giorno, è avvolto in un silenzio spettrale. E le case abbandonate, sempre più in rovina per il gelo e le intemperie, senza più la zona rossa attiva e sorvegliata dai militari, sono in balia dei ladri, con un impressionante aumento di furti. Nessuno passeggia sotto i portici o per i vicoli, si vedono soltanto operai - per la gran parte stranieri - in tuta da lavoro, ogni rapporto umano si svolge nei centri commerciali in periferia come “Il Globo” o “L’Aquilone”, così che quanti non hanno la macchina, i giovani e gli anziani, sono tagliati fuori dalle relazioni sociali. Perché da una città, antica e preziosa, fornita di un grande patrimonio artistico, si è passati a uno squallido arcipelago di periferie. I ragazzi, una volta usciti da scuola, non sanno cosa fare, si sentono in trappola, e così bevono, si drogano e compiono spesso atti vandalici nell’assoluta mancanza di controlli. Gli adulti, da parte loro, sono sfiniti e demotivati, fino al punto di decidere di andarsene per sempre. Inoltre alcune delle 19 new town - quartieri-dormitorio privi di ogni servizio costruiti in tempi record (talvolta da imprese ora fallite: e a chi vai a chiedere i danni?) tutti sparpagliati in un territorio tanto vasto, tra Assergi e Preturo, quanto mal collegato e non in un unico luogo come inizialmente avrebbe preferito il governo Berlusconi - cadono letteralmente a pezzi. C.A.S.E. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili: ospitano 10.752 persone) e M.A.P. (Moduli Abitativi Provvisori: ospitano 2.328 persone) presentano infiltrazioni d’acqua, perdite, pavimenti che si scollano, isolatori sismici sotto le piastre che non hanno resistito alle prove di laboratorio... A Cese di Preturo nel settembre scorso è crollato un balcone e quindi ben 800 sono stati messi sotto sequestro con gli inquilini “sigillati” all’interno degli appartamenti. E ora il Comune, interrotte le forme onerose di assistenza alla popolazione, per esempio il contributo di autonoma sistemazione, vorrebbe che la gente si trasferisse proprio negli alloggi (C.A.S.E. e M.A.P.) rimasti vuoti. La ricostruzione delle decine di frazioni del Comune dell’Aquila, spesso borghi medioevali che hanno fondato la città nel 1294, è ferma, senza risorse né tempistiche. Stimata in 1,6 miliardi di euro, sarebbe dovuta partire in almeno cinque delle frazioni più danneggiate già nel 2013 e invece niente. Il crono-programma è già saltato, non per mancanza di soldi, come sottolinea lo stesso ineffabile sindaco Massimo Cialente, ma per i troppi passaggi burocratici e per la carenza del personale che dovrebbe analizzare e approvare i progetti. A proposito di tecnici, quelli assunti con il “concorsone” tanto strombazzato dove sono finiti? Sono insufficienti? Ma prima non lo immaginavano? Purtroppo manca chi dirige, un vero manager e una strategia politica ed economica. Perfino i pagamenti dei S.A.L. (saldo avanzamento lavori) - quindi con soldi presenti in banca - sono fermi da mesi perché manca una banale firma da parte del personale del Comune. Ah, dimenticavo. In tutto ciò, la senatrice aquilana Stefania Pezzopane più che ai drammi del post-sisma sembra pensare all’amore e alle comparsate televisive con il suo giovane fidanzato...

Le Iene, intervista alla Pezzopane e al suo compagno: "Ecco cosa facciamo a letto". Dopo le foto apparse su Novella 2000 di lui che bacia appassionatamente un’altra, la ballerina erotica Serena Rinaldi, Stefania Pezzopane e il suo toy boy Simone Coccia Colaiuta sono i protagonisti di un’intervista doppia delle Iene, scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. Dopo le foto apparse su Novella 2000 di lui che bacia appassionatamente un’altra, la ballerina erotica Serena Rinaldi, Stefania Pezzopane e il suo toy boy Simone Coccia Colaiuta sono i protagonisti di un’intervista doppia delle Iene. Il servizio è di Nina Palmieri, che è andata a intervistarli per capire se il loro è “vero amore” e i due l’hanno calorosamente accolta nel loro nido d’amore a Castelvecchio. Lei, 55 anni, senatrice del Pd ed ex presidente della provincia dell’Aquila ha 24 anni più di lui e svariati centimetri in meno. Lui 31 anni, ex elettricista, spogliarellista, tronista, aspirante attore, aspirante Mister Italia, aspirante presentatore, non sembra farsene un problema: “Nelle donne non guardo l’età e l’altezza”, dice. E nell’intimità la chiama “piece of bread” (pezzo di pane) però ammette candidamente che un pensierino lo ha fatto pure sulla ministra Mariaelena Boschi, collega di partito della Pezzopane. Lei confessa di essere stata “corteggiata anche da uno più giovane di lui”. E poi precisa che in orizzontale la statura non conta. Il vero collante della loro unione comunque è la passione. Simone racconta che la sua donna a letto è molto “atletica”, anzi “no limits”. Per poi addentrarsi in un viaggio nell’intimità di cui avremmo fatto volentieri a meno (“Stefania appecorina…”). Nell’intervista doppia tra i due emergono abissi incolmabili: Simone non sa neppure che cos’è il Jobs Act, né ricorda la data del compleanno della sua donna. Ma la Pezzopane si consola con una proposta di matrimonio, alla quale ha risposto: “Mai dire mai”. Ma a scatenare la coppia solo le domande a luci rosse.

La prima notte?

«Per lei c’è stato “Un bel bacio“, per lui “Camera da letto, l’ho buttata sopra e daje tutta“».

Quante volte la prima sera?

«Per lei un delicato “Top secret“, per lui “Due / tre volte“».

Cosa ti fa impazzire dell’altro?

«Lei adora i suoi baci, lui “C’ha due tette grandi da paura“».

Chi urla di più a letto?

«Lei risponde “Nessuno“, Lui “Mi dice ‘Dai Simone di più mi stai facendo impazzire’..”»

La posizione preferita per fare l’amore?

«Lei rimane vaga: “Posizione classica“, lui “Stefania a pecorina, ovvio no?“».

Stefania Pezzopane, il compagno Simone Coccia Colaiuta: "La pecorina è la sua posizione preferita. Mi urla di non fermarmi e che la faccio impazzire", scrive Adriano Scianca su “Libero Quotidiano”. Se doveva essere un servizio volto a dissipare ogni dubbio sulla relazione tra la senatrice Stefania Pezzopane e Simone Coccia Colaiuta, l’effetto ottenuto è stato decisamente quello opposto. Il servizio delle Iene andato in onda giovedì sulla chiacchierata relazione tra la cinquantacinquenne esponente democratica e il trentunenne ex spogliarellista non ha lasciato quasi niente all’immaginazione.  Soprattutto lui è apparso particolarmente in vena di confessioni intime, svelando che l’illustre partner l’ha subito colpito perché «è una bella gnocca», che d’altronde «ha due tette grandi da paura». Quando sono nell’intimità, ha continuato lui, la senatrice non fa altro che urlare «vai, Simone, vai, continua, me stai a fà impazzì». E per chiudere in bellezza, la posizione preferita di Simone è, testuale, «Stefania a pecorina, ovvio». Già, ovvio. Il trasporto e la carica sessuale dell’ex tronista, con questa ostentazione di dettagli piccanti, sono subito apparsi autentici come un Rolex sugli scaffali di una bancarella cinese. E le recenti paparazzate che vedono l’uomo in atteggiamenti intimi con aitanti starlette non contribuiscono certo a cementare l’unione. Ma questi, alla fin fine, sono fatti loro, come i due hanno ribadito alle Iene. E su questo non ci piove. O meglio, qualche goccia cadrebbe pure, visto che reclamare il diritto alla privacy parlando delle proprie acrobazie sessuali in tv è quanto meno contraddittorio e visto anche che il partito della senatrice ha costruito una linea politica decennale sul fatto di spiare dal buco della serratura altrui, ma sorvoliamo. Magari, però, i saputelli delle Iene avrebbero potuto approfittare dell’occasione per porre qualche domanda un po’ più scomoda di «qual è la vostra posizione preferita?». Una per esempio è questa: «Senatrice Pezzopane, quando ha maturato la convinzione di buttarsi a capofitto in quel modello antropologico berlusconiano da lei un tempo tanto aborrito?». Già perché l’esponente del Pd è una antiberlusconiana della prima ora, già sodale di Sabina Guzzanti nell’operazione Draquila ed ex vicepresidente della Giunta per le immunità, quella che ha sbattuto il Cav fuori dal Parlamento. Ecco, non sarebbe stato interessante sapere com’è che questo pezzo di antiberlusconiana sia finita da Barbara d’Urso a fare la gattina innamorata con un ex tronista di Uomini e Donne? Beninteso, per noi la Pezzopane può anche fare un servizio fotografico vestita da ragazza fast food come Tinì Cansino al Drive In nel 1983, ma la conversione desta oggettiva curiosità. Così come è interessante sapere come la Pezzopane sia finita (lo testimoniava una foto girata tempo fa) in una vasca idromassaggio con Gennaro Bonifacio, detto Rino, ex re dei narcotrafficanti. Dopo varie condanne e diversi anni di prigione, l’uomo si è ovviamente redento e ha iniziato una carriera da scrittore. Buon per lui. Ma certo sapere come abbia conosciuto una senatrice della repubblica sarebbe stato più interessante che sentirci raccontare di lei «alla pecorina».

ABRUZZESI ALLA RISCOSSA.

Abruzzesi alla riscossa: Razzi e Colaiuta, i due volti che la tv reclama. Progetti televisivi in vista per il senatore e il fidanzato di Pezzopane, scrive “Prima da noi”. Una esposizione mediatica che evidentemente ha giovato ad entrambi. Antonio Razzi e Simone Coccia Colaiuta hanno molto in comune e da qualche ora c’è qualcosa in più che li rallegra. Entrambi sono in ballo per partecipare a due programmi televisivi nazionali. Per Colaiuta, in realtà, è già cosa fatta mentre per Razzi pare ci sia ancora qualche incognita. Entrambi abruzzesi, entrambi amanti della politica (per uno leggasi “Forza Italia”, per l’altro leggasi “Stefania Pezzopane”), entrambi determinati e guardati talvolta con sospetto. Sono oggi i rappresentanti della regione tra i più noti a livello nazionale, grazie ad ospitate, servizi giornalistici, parodie, interviste intimiste e paparazzate. Colaiuta, da un paio di mesi ufficialmente fidanzato con la senatrice Pd, Stefania Pezzopane (alla quale ha voluto rivolgere una proposta di matrimonio in diretta radiofonica), ha scelto il salotto di Barbara d’Urso per svelare i retroscena della sua relazione sentimentale. Razzi si è confessato ai Dieci Comandamenti di Domenico Iannacone e ha svelato che il suo libro non l’ha scritto lui («se sapevo scrivere facevo lo scrittore, mica lu parlamentare») e che stare in Parlamento è «un sogno». E’ il senatore più conosciuto e riconosciuto ma anche sbeffeggiato, criticato e soprattutto imitato, sdoganato da Maurizio Crozza che lo ha fatto diventare simpatico a tutti facendo risaltare intercalari non sempre grammaticalmente impeccabili. Antonio Razzi è per i più un fenomeno ancora da scoprire e decifrare così come la sua metamorfosi: da uomo di fatica che ha vissuto tra mille difficoltà e lavori massacranti o umili per decine di anni, a senatore che pensa alla ricca pensione da parlamentare e pensa ai… «c… suoi». Anche il destino con le donne di Razzi e Colaiuta sembra avere qualche somiglianza. Razzi ha dichiarato di aver avuto decine di conquiste in gioventù, un vero sciupafemmine ed oggi è firmatario di una “rivoluzionaria” proposta di legge per riaprire le case chiuse sul modello svizzero («tutto pulito e in ordine»). Colaiuta, invece, ex spogliarellista e stato anche un ‘corteggiatore’ nel programma Tv di Maria De Filippi, belloccio, palestrato, un tipo pronto a spiccare il volo grazie alla tv o magari al cinema. Tra l’altro entrambi i nostri “eroi” possono vantare una imitazione, famosissima quella di Razzi firmata da Maurizio Crozza, più soft quella Colaiuta a Quelli che il Calcio (muto e a petto nudo). La televisione nazionale li vuole entrambi. Il fidanzato della Pezzopane, ormai è cosa certa, parteciperà ad un programma su La7. Fino a qualche settimana fa si parlava di un suo eventuale sbarco sull’Isola dei Famosi, ipotesi poco credibile ma comunque cavalcata abbondantemente sui social network dallo stesso Colaiuta. «È ufficiale!!», ha annunciato Simone ieri su Facebook. «Dal 13 novembre al 18 dicembre sarò protagonista di una trasmissione televisiva ANNOUNO condotta da Giulia Innocenzi in onda tutti i giovedì dalle 21:00 alle ore 00:00 sul canale La7». Subito, sempre via social network, sono arrivati i complimenti della fidanzata: «in bocca al lupo, Simone», ha scritto la senatrice piazzando anche una emoticon felicissima. Tra i programmi in cui si poteva ipotizzare una sua presenza, vista la recente esposizione mediatica, il talk della Innocenzi non sembrava tra le opzioni possibili per la venatura strettamente politica del programma che si basa su giovani opinionisti e osservatori del mondo politico. Chi potrebbe sbarcare sull’Isola dei Famosi, da quest’anno su Canale 5, è invece Antonio Razzi. Il senatore ha confermato la trattativa in corso ma non ha nascosto che c’è ancora un nodo da sciogliere, quello dell’eventuale dimissione da parlamentare se scegliesse l’atollo sperduto a favore di telecamera. Si tratterebbe per la prima volta di un politico in carica eletto che abbandona la sua carica per un vetrina televisiva stile “Grande Fratello” che potrebbe far schizzare in maniera esponenziale le quotazioni dell’abruzzese di Giuliano Teatino. «Eh no, non scherziamo. Aò, ‘cca nisciun è fess. E come faccio: qua è una paga sicura, là manco mi pagano. Non scherziamo dai, io dico la verità», ha detto Razzi che ha capito da molto che la politica è anche spettacolo. Solo che ultimamente il confine si è assottigliato a tal punto da diventare invisibile.

Pezzopane-Colaiuta, anche la premiazione dello sponsor (abruzzese) «è un bluff». Striscia: «ha fatto la taroccata e l’ha protratta nel tempo», scrive “Prima da noi”. Doveva essere una intervista per chiarire la «vera verità» sul caso della premiazione fasulla al concorso Il più bello d’Italia. Invece alla fine Simone Coccia Colaiuta, ex spogliarellista noto alle cronache rosa da quando ha intrapreso una relazione con la senatrice aquilana del Pd, Stefania Pezzopane, ha rimediato solo un’altra brutta figura e un secondo tapiro d’oro, con tanto di fascia del più furbo d’Italia. E così alla ribalta nazionale Colaiuta trascina indirettamente anche la celebre fidanzata, da anni impegnata anima e corpo nella questione della ricostruzione post sisma ma oggi famosa soprattutto per la sua storia d’amore. Qualche giorno fa il Corriere della Sera l’ha anche inserita nei momenti tv più brutti della settimana in quanto, sempre ai microfoni di Striscia, ha «sentito l’urgenza» di svelare ai telespettatori come la chiama il fidanzato nell’intimità (amore, Stefy, pesciolina, cuccioletta). Qualche giorno fa era stata proprio la senatrice Pezzopane a ricevere l’ambito tapiro d’oro in quanto, aveva raccontato il tg satirico, il suo compagno al termine della premiazione del Più bello d’Italia si sarebbe impossessato di una fascia per esibirla con fierezza sui social network e sui media e vantarsi poi di un secondo premio mai ricevuto. Poi domenica scorsa l’ex spogliarellista è stato ospite di Barbara d’Urso per raccontare la sua verità e accusare Striscia la Notizia: «hanno fatto un buco nell’acqua, hanno preso un abbaglio. In quel concorso non sono stato squalificato ma sono rientrato tra i primi 30. E' stato premiato il vincitore del concorso e poi è stato chiamato il mio nome per prendere la fascia sponsor. Mi sono recato davanti al palco e ho indossato la fascia». Striscia la Notizia, ha però scoperto che anche quella fascia sponsor sarebbe stato un vero e proprio bluff in quanto i vincitori che possono aggiudicarsi un premio sono solo i primi 8 classificati e Colaiuta non era tra loro. «Non esiste nel regolamento la possibilità di assegnare una fascia sponsor», ha chiarito Staffelli, «ad una persona che è fuori da questi 8». Inoltre lo sponsor che lo avrebbe premiato (una casa di produzione di jeans) è abruzzese «proprio come lei e la senatrice», ha fatto notare Staffelli, insinuando che ci fosse un accordo tra le parti. «Questo sponsor abruzzese le ha dato la fascia poi ha messo la foto sul sito… ma è un magna magna…» E Striscia non ha accettato le critiche mosse da Colaiuta: «se qui c’è chi ha preso un abbaglio e ha tentato di buttare fumo negli occhi è proprio Coccia», ha detto Ezio Greggio. E’ intervenuta anche nuovamente l’organizzatrice dell’evento per spiegare come funzionano le premiazioni e chiarire che le fasce che vengono aggiudicate sono due: quella bianca del vincitore assoluto del concorso e quella di colore giallo degli sponsor (ma quella di Colaiuta era bianca con sponsor, insomma un mix che nulla vuol dire). «Il signor Colaiuta», ha chiarito ancora una volta l’organizzatrice, «non è stato premiato né con la fascia nazionale né con la fascia sponsor commerciale. Staffelli ha contestato a Colaiuta il fatto che il giovane dopo l’evento abbia scritto su Facebook: «mi sono aggiudicato il secondo posto». «E’ stato un mio errore», si è giustificato, «è stata un’emozione….». Ma sempre su Facebook Colaiuta avrebbe scritto ancora altro: «finalissima nazionale io e Damiano i vincitori, gli unici due fasciati». A questo punto è scattato il tapiro con tanto di fascia «il più furbo d’Italia» e la sentenza dell’inviato di Striscia la Notizia: «ha fatto la taroccata e poi l’ha protratta nel tempo». E se prima della messa in onda della puntata Colaiuta annunciava su Facebook con (i suoi soliti) toni trionfali di aver registrato una intervista con Staffelli e di aver detto la «vera verità» («nell'occasione dirò delle questioni raccapriccianti che non ho potuto dire a Domenica Live!!!! Ne sentirete delle belle... »), dopo la messa in onda ha attaccato nuovamente Striscia, colpevole a suo dire un taglia e cuci delle sue dichiarazioni: «Tante dichiarazioni che ho rilasciato non sono andate in onda!!! Come mai??? La regia ha usato la forbice??? Ti perdono perché mi sei molto simpatico... Ma non si fa ridiamoci sopra i problemi nella vita sono altri». Nelle ultime ore tace invece la senatrice Stefania Pezzopane tirata indirettamente in ballo in tutto il teatrino. Era stata proprio lei, domenica scorsa da Barbara d’Urso in un video precedentemente registrato e con lacrime agli occhi a dirsi amareggiata per quello che sta avvenendo al fidanzato: «Povero Simone, ogni cosa che fai è merito mio o colpa mia. Simone è Simone. In tv ci andavi già prima. Quando lo capiranno? Davvero non hanno altro a cui pensare? Stiamo insieme da tanto tempo, ci vogliamo sempre più bene. Abbiamo trascorso insieme il primo Natale e alcuni hanno ancora pregiudizi, soprattutto su un uomo tatuato. Sono rammaricata perché i tuoi meriti vengono squalificati per colpire me. Ogni tua partecipazione ad un programma sarebbe frutto delle mie pressioni. Non è sopportabile. Tu da me non vuoi niente, io lo so, non mi fai pagare nemmeno una tazza di caffè al bar. Rifiuti ogni aiuto. Andiamo avanti. Ti amo».

Ma lo sponsor che ha premiato Colaiuta respinge al mittente le critiche mosse da Striscia la Notizia. Mauro Cianti, responsabile della ditta teramana smentisce la presunta “combine” e spiega: «prima di aderire alla manifestazione non abbiamo mai avuto legami nemmeno di semplice e mera conoscenza ne' con la senatrice Stefania Pezzopane, ne' con il suo fidanzato Simone Coccia Colaiuta, che abbiamo avuto il piacere di conoscere solo a distanza di un paio di settimane dall’evento di Roma. Le illazioni assolutamente gratuite fatte da Striscia la notizia su un eventuale accordo tra interregionali sono frutto di pura invenzione e vanno rispedite con fermezza al mittente. Un teorema frutto del particolare target della trasmissione televisiva tesa ad esaltare e dare per certe anche ipotesi le più fantasiose.  Da parte nostra non possiamo altro che confermare  l'assoluta casualità della relazione geografica tra la sede della nostra azienda e i due protagonisti della vicenda». Cianti spiega anche che l’azienda ha deciso di sponsorizzare l’intero concorso a carattere nazionale “Il più bello d’Italia”, e non una singola fascia «figurando dunque su tutte le fasce dei finalisti. Lo dimostra il fatto che il nostro marchio è presente anche su quella del vincitore del concorso. Da qui a cosa sia realmente accaduto quella sera, a Roma, su quel palco e come siano stati decisi i vincitori del concorso, non è a nostra conoscenza, tant’è che  sono in corso richieste di chiarimento, da parte nostra, all'agenzia di comunicazione che ha curato l’evento».

Da Striscia la notizia la senatrice del PD Stefania Pezzopane il 21 gennaio 2015  ha ricevuto un nuovo Tapiro d'oro a causa del suo giovane fidanzato Simone Coccia, ex spogliarellista, che si è finto uno dei finalisti del concorso Il più bello d'Italia, indossando una fascia da "secondo classificato" (pur essendo stato eliminato) per scattare alcune foto insieme alla sua compagna, da pubblicare sui social network, scrive “Abruzzo 24 ore tv”. Valerio Staffelli l'ha raggiunta per capire se, questa vicenda, possa in qualche modo danneggiare la sua corsa per il Colle, dal momento che possiede tutti i requisiti renziani per farlo: donna e con un profilo internazionale, viste le conoscenze con Clooney e Obama. La senatrice, però, ha negato ogni eventualità di una sua partecipazione: «Ci sono altri candidati. Mi ritengo giovane per fare il Presidente della Repubblica. Bene il nuovo Tapiro. Uno l'ho messo all'asta e questo lo tengo per me». Questa ricostruzione viene smentita proprio dallo sponsor Mauro Cianti, amministratore delegato di Don The Fuller, che non ci sta alla ricostruzione del presunto "inciucio" fra corregionali e lo mette nero su bianco su una nota giunta in redazione. In merito alle illazioni fatte nel servizio in onda su Striscia la notizia del 19 gennaio scorso, su una presunta “combine” intercorsa tra l’azienda  Don the Fuller e gli organizzatori del concorso “Il più bello d’Italia” per favorire un concorrente in gara, è doveroso precisare quanto segue. Prima di aderire alla manifestazione non abbiamo mai avuto legami nemmeno di semplice e mera conoscenza né con la senatrice Stefania Pezzopane, né con il suo fidanzato Simone Coccia Colaiuta, che abbiamo avuto il piacere di conoscere solo a distanza di un paio di settimane dall’evento di Roma. Le illazioni assolutamente gratuite fatte da Striscia la notizia su un eventuale accordo tra interregionali sono frutto di pura invenzione e vanno rispedite con fermezza al mittente. Un teorema frutto del particolare target della trasmissione televisiva tesa ad esaltare e dare per certe anche ipotesi le più fantasiose. Da parte nostra non possiamo altro che confermare  l’assoluta casualità della relazione geografica tra la sede della nostra azienda e i due protagonisti della vicenda. È doveroso precisare che “Don the Fuller Jeans” ha deciso di sponsorizzare l’intero concorso a carattere nazionale “Il più bello d’Italia”, e non una singola fascia figurando dunque su tutte le fasce dei finalisti. Lo dimostra il fatto che il nostro marchio è presente anche su quella del vincitore del concorso. Da qui a cosa sia realmente accaduto quella sera, a Roma, su quel palco e come siano stati decisi i vincitori del concorso, non è a nostra conoscenza, tant’è che  sono in corso richieste di chiarimento, da parte nostra, all’agenzia di comunicazione che ha curato l’evento.

Pezzopane, effusioni in diretta con il fidanzato toyboy, scrive “Libero Quotidiano”. Anche i politici hanno un cuore, e così capita anche che la senatrice Pd Stefania Pezzopane si racconti in studio, da Barbara D’Urso, insieme al suo fidanzato. Storia nota anche ai rotocalchi la loro, anche perchè il compagno della ex presidente della Provincia dell’Aquila, Simone Coccia Colaiuta, è un ex tronista di Uomini e donne. Ieri la partecipazione in coppia nel contenitore della domenica pomeriggio, con tanto di videolettera d’amore da parte di lui mentre lei glissa con un "si vedrà" a chi le chiede se davvero la nozze siano dietro l’angolo. Alla fine, rituale bacio in diretta, 'chiamato' a gran voce dal pubblico in studio. Ma sui social si sono scatenati commenti non così benevoli, come quelli di una follower che scrive: "La Pezzopane è liberissima di vivere la sua stora d'amore come vuole, ma adesso sta esagerando. Radio, giornali, televisioni, che senso ha andare a sbandierarla ai quattro venti? Più che una senatrice sembra un'attricetta". Altri le fanno notare la differenza d'età: 24 anni in più del fidanzato. Ma a questo l'ex presidente dell'Aquila aveva già risposto durante la trasmissione: "Sì, e che vuol dire? Pochi giorni fa Franceschini si è sposato con una donna che ha 20 anni meno di lui. Invece se lo fa una donna...". E cosa dice Matteo Renzi della storia d'amore con Colaiuta? "Non l’ho incrociato su questo aspetto. Penso mi voglia bene, sarà felice per me", ha detto la Pezzopane alla D'Urso spiegando che Simone, dopo appena 3 mesi che stavano insieme, le ha chiesto di sposarlo, ma lei ha sempre rimandato: “Troppo presto”, avrebbe risposto fino a oggi, quando alla domanda di Barbara lei risponde: “Vedremo, ma se ci sposeremo, tu sarai invitata”.

Pezzopane in tv racconta il suo colpo di fulmine. Sui social critiche feroci. Colletti su Facebook: «una vaschetta per i conati», scrive “Prima da Noi”. Ormai non si nascondono più e dopo la proposta di matrimonio in diretta radiofonica, la senatrice Stefania Pezzopane e il suo baby fidanzato (26 anni meno di lei), Simone Coccia Colaiuta, sono andati anche nel salotto televisivo di Barbara D’Urso.  Mano nella mano, sguardi complici, vezzeggiativi affettuosi e baci davanti alle telecamere: la senatrice aquilana ha raccontato di questo amore, nato prima come una «amicizia particolare» e poi esploso improvvisamente:  «Ci siamo conosciuti in un bar all’Aquila, il Gran Caffè», ha raccontato lei. «Simone mi ha salutata, mi ha detto che mi stimava, ci siamo presi un caffè ed è nata un’amicizia che è durata un bel po’, dopo essere andati insieme al lago di Campotosto siamo diventati inseparabili, ci sentivamo tutti i giorni e in una sera a cena, a casa mia, c’è stato il primo bacio». Sul matrimonio però c’è ancora incertezza: «non  so se ci sposeremo», ha detto la Pezzopane, con un divorzio alle spalle e una figlia di 16 anni a casa. «Lei e Simone vanno molto d’accordo», ha detto la senatrice. Ho una figlia molto intelligente». «Quando capita di avere delle piccole incomprensioni o delle piccole gelosie», ha rivelato lui, «ci capita di diventare come bambini di 3 anni, litighiamo. Entrambi orgogliosi e aspettiamo sempre che l’altro si faccia sentire per primo. Ma quando passano troppi minuti di silenzio andiamo in tilt e cominciamo a scriverci mille messaggi: ‘ti manco? Mi ami? Mi vuoi sposare?’ Paure e incertezze che mi fanno capire quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altra. In certi momenti siamo adulti, in altri siamo bimbi che si fanno i dispetti, il bello del nostro amore è proprio questo. Abbiamo mille sfaccettature e mille colori e la nostra storia è bella come un arcobaleno». Pezzopane ha rivelato di aver ricevuto tanti messaggi di solidarietà per questa storia d’amore così insolita: «i colleghi mi hanno gratificata. Maurizio Sacconi, presidente della Commissione dove lavoro, mi ha fatto gli auguri per la proposta di matrimonio e non me lo aspettavo perché non ci conosciamo. Un giorno mi ha detto, ‘complimenti, ho saputo che si è fidanzata’. Le altre colleghe mi dicono: "Brava, brava, complimenti per il coraggio". Avrei voluto tenere la situazione più privata, noi facciamo una battaglia per difendere il nostro amore. Le donne mi danno una forza immensa: in molte mi hanno fatto i complimenti perché ho avuto il coraggio di fare una cosa che altre non hanno fatto e vivono imprigionate in vite che non le soddisfano».  Matteo Renzi, invece, «non l'ho incrociato su questa vicenda personale. Lui è speciale, con una carica ed energia unica. Penso che mi voglia bene». La senatrice ha poi raccontato che la notte del 6 aprile 2009 il suo fidanzato ha salvato dalle macerie il suo migliore amico: «quando l’ho saputo dentro di me è scattato un meccanismo incredibile. Per noi aquilani il terremoto è uno spartiacque tra il primo e dopo. Quando mi ha detto il nome del vicesindaco, un mio amico che quella sera ha perso la moglie, ho avvertito che era un segno». E mentre andava in onda la puntata i social network si sono scatenati. Non sono mancati commenti della politica locale come quello del senatore del M5S, Andrea Colletti su Facebook: «Se volete vedere la pochezza culturale del PD mettete Canale 5. Ed una vaschetta vicino per i conati..» Su Twitter, però, i commenti più ‘cattivi’. «Facciamo gli auguri alla Sen. Pezzopane, dopo aver criticato le feste di Berlusconi, lei fa anche di peggio!» Il giornalista Paolo Madron ha scritto invece: «Su Canale 5 la storia d'amore della  #Pezzopane, la prova di come il terremoto dell'Aquila continui a produrre effetti devastanti». E poi altri messaggi di fuoco: «Per favore @matteorenzi manda via la #pezzopane che è davvero ridicola. Metti canale5... per carità!!!», «La comunista #Pezzopane ha tempo di fare il dolce in casa in un giorno lavorativo? Nemmeno io che non sono senatrice», «#pezzopane su #domenicalive che parla della #LoveStory con spogliarellista più giovane di 24 anni costerà almeno 5 punti al PD», «Noi italiani paghiamo la senatrice #pezzopane affinché mantenga uno spogliarellista.È chiaro che a questo lo paghiamo noi, no?» «Grazie a tutti. Per l'affetto e l'amicizia», ha scritto la senatrice alla fine della trasmissione sui social network. «Ricevo migliaia di messaggi e richieste di amicizia e non riesco a rispondere a tutti. E' stata un'occasione per dire la nostra, dopo tante sciocchezze e falsita'. La verità e l'amore vincono sempre».

Stefania Pezzopane e Simone Coccia, intervista di coppia: “Basta cattiverie, il nostro è vero amore”, scrive “Oggi”. La senatrice Pd 54enne e l’ex spogliarellista e concorrente a «Uomini e donne», di 23 anni più giovane, raccontano a Oggi in edicola come è nata la loro love-story, il loro rapporto, come hanno fatto le presentazioni in famiglia e… reagiscono alle critiche. «Non ho mai avuto il dubbio che Simone possa non essere in buona fede. Non sono una sedicenne, rivendico i miei 54 anni, le esperienze e la mia capacità di intuito. Ho scelto lui perché è autentico. Lui da me non si fa offrire neanche un caffè, ha il senso della dignità del maschio, dell’onore. Sono riuscita a stento a regalargli una giacca per il compleanno». Per la differenza d’età (e di centimetri) la Pezzopane è stata molto criticata, prima e soprattutto dopo loro apparizione in coppia in tv. «Che cosa mi ha dato più fastidio? I commenti brutali, misogini e maschilisti. Non mi sarei mai aspettata che amiche di sinistra, con cui ho condiviso battaglie in difesa delle donne, mi criticassero. Proprio le stesse, mi hanno criticata… Ho reagito andando fino in fondo. Andare in tv da Barbara D’Urso e baciare lì Simone è stato un atto con un valore politico». A Oggi la Pezzopane racconta poi le origini del rapporto, le presentazioni in famiglia («Mia figlia sedicenne e Simone hanno un bel rapporto, giocano a burraco insieme, chiacchierano molto, sono complici. Lei voleva farsi il piercing sul naso, io no, poi lui mi ha convinta»). E accusa: «La differenza d’età fa scandalo solo perché la più grande sono io. Berlusconi, 78 anni, sta con una trentenne; il ministro Franceschini ha sposato una donna di 25 anni più giovane e tutti a considerarlo figo. Io non ho sfasciato nessuna famiglia, e neanche Simone».

Stefania Pezzopane, la pasionaria anti-Cav pescata con l'ex narcos, scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Avrà anche misure ridotte, ma una vita sola non le basta. «Io sono alta 1,50 scarso. Berlusconi e più alto di me, ma non di tanto», ha detto una volta Stefania Pezzopane. E in questa dichiarazione c’è molto di lei, delle sue due esistenze. C’è il Cavaliere, sua ossessione e suo metro di paragone. E c’è il luogo in cui l’ha pronunciata, ovvero la trasmissione Un giorno da pecora, che ha tenuto a battesimo la sua nuova incarnazione gossippara. Proprio nello studio del programma di Radio Due, infatti, la Pezzopane ha ricevuto a settembre una proposta di matrimonio dal suo attuale fidanzato, Simone Coccia Colaiuta. Proposta, va detto, rispedita al mittente: «Ci devo pensare, la risposta la darò al momento giusto», disse lei. E lui se la pigliò in saccoccia in diretta. Ma la loro resta una bella storia, romantica. Si sono conosciuti all’Aquila, di cui lei è stata presidente della Provincia nei mesi bui del terremoto. Il primo incontro è avvenuto in bar, al Gran Caffè. «Lui mi ha salutata, mi ha detto che mi stimava, ci siamo presi un caffè ed è nata un’amicizia che è durata un bel po’ e poi si è trasformata in altro». Bravi, tanti auguri, che c’è di strano? C’è che lui ha 30 anni e lei 54. Vabbè, questa è una curiosità da rotocalco: di cinquantenni che si trovano il toy boy è pieno il mondo. Simone, però, è un toy boy particolare. Alto, statuario, tatuatissimo, ha un passato da spogliarellista (anche se la Pezzopane ci tiene a precisare: «Non l’ho mai visto esibirsi»). Ma, soprattutto, è stato un corteggiatore nel programma di Maria De Filippi Uomini e donne. E qui c’è il primo cortocircuito, che ha a che fare con la vita precedente della minuta Stefania: quella da antiberlusconiana di ferro. I primi schizzi di celebrità la nostra li ottenne subito dopo il sisma aquilano. Si distinse perché sparava a palle incatenate contro Silvio e il suo governo. Strinse anche un sodalizio con Sabina Guzzanti, cementatosi con l’uscita del docu-film Draquila. Sul sito di Sabina si trova ancora la commossa recensione che ne fece la Pezzopane. La Guzzanti, secondo lei, aveva risposto per le rime alla «violenta disinformazione che il governo aveva orchestrato alla perfezione sul set del terremoto»; aveva rotto il «muro del conformismo» raccontando «l’abbandono a cui l’Aquila era stata lasciata a marcire» (che si dica «l’abbandono in cui»? Mah). Scriveva la Pezzopane, citando l’amica Sabina: «Quando gli aquilani si sono accorti di essere stati gabbati, le telecamere erano ormai spente o impegnate su altri scenari, come Messina, Hayti» (che si scriva Haiti?). E aggiungeva che per l’Aquila era stata utilizzata «una strategia comunicativa infernale che ha inventato proprio Berlusconi, e che nessun altro può usare come lui che le telecamere le comanda a suo piacimento». Peccato che dell’inferno catodico berlusconiano la Pezzopane si sia servita ampiamente, in questi mesi. Il suo fidanzato (da cui si fa accompagnare in Senato) viene appunto da Uomini e donne. Ma c’è di più: dopo il rifiuto iniziale, pare che i due potrebbero effettivamente sposarsi. E sapete dove l’hanno annunciato? A Domenica Live, nel salotto di Barbara d’Urso. Si sono pure baciati in diretta. Più berlusconismo televisivo di così, si muore. Eppure la Pezzopane l’astio per Silvio l’ha sempre coltivato. Divenuta senatrice, è stata vicepresidente della Giunta per le immunità. Cioè quella che ha sbattuto il Cav fuori dal Parlamento. E Stefania era in prima linea nel sostenere la cacciata. Non molto tempo fa, poi, a chi le rinfacciava la relazione con l’ex tronista, la Pezzopane rispondeva, piccata: «Berlusconi è più scandaloso di noi», con evidente riferimento alle «cene eleganti». E qui c’è l’ennesimo cortocircuito. Perché la cara Stefania fa la difficile con le frequentazioni altrui. Ma un po’ meno con le proprie. Dal sito Malabellavita.it apprendiamo che la Pezzopane dovrebbe realizzare la prefazione alla terza edizione di un libro (Malabellavita, appunto) firmato da Gennaro Bonifacio, detto Rino. Chi è costui? È il signore con gli occhiali che appare nelle foto che pubblichiamo, in compagnia della senatrice e del suo fidanzato. Dal libro, si evince che Bonifacio è stato, prima di ravvedersi, una specie di re dei narcotrafficanti. Tre condanne, 18 anni di vita (su 45) passati in 11 carceri diverse. Accusato due volte di associazione di stampo mafioso (poi assolto). Tra i primi a importare l’ecstasy in Italia. Come ha scritto Stefano Lorenzetto, nel 2001 a Bonifacio fu sequestrato «il più grande quantitativo di stupefacenti mai scoperto fino ad allora in Italia, una tonnellata di cocaina, arrivata dalla Colombia nel porto di Livorno occultata dentro blocchi di marmo sottoposti a sapiente carotaggio (…). Altri 250 chili li bloccò la Guardia di finanza al casello di Binasco, altri 150 era già riuscito a piazzarli. La Direzione distrettuale antimafia di Milano documentò un traffico complessivo di 4,7 tonnellate, sufficienti a confezionare 14 miliardi di dosi». Però. Questo è il signore che vedete placidamente accomodato nella vasca idromassaggio con la Pezzopane. Mica è illegale, eh. Tanto più che se un ex narcos può cambiare vita, figuriamoci se una pasionaria antiberlusconiana non può sbaciucchiarsi dalla d’Urso con un ex tronista.

Pezzopane nella vasca idromassaggio con l’ex narcos. La senatrice: «nessuno scoop», scrive “Prima da Noi”. La senatrice Stefania Pezzopane (Pd) in costume in una vasca idromassaggio, all’aperto. Alla sua sinistra il giovane fidanzato Simone Coccia Colaiuta, e alla sua destra Gennaro Bonifacio, ex narcotrafficante. La foto è stata pubblicata oggi dal quotidiano Libero che racconta «l’ultima impresa» della «pasionaria del Pd», ossessionata da Silvio Berlusconi che avrebbe ottenuto celebrità, scrive il giornale di centrodestra, «sparando a palle incatenate contro» l’ex premier e il suo governo. «Peccato che dell’inferno catodico berlusconiano la Pezzopane si sia servita ampiamente, in questi mesi», ricostruisce ancora il giornale riferendosi all’intervista con il giovane fidanzato rilasciata a Domenica Live, nel salotto di Barbara d’Urso, «più berlusconismo televisivo di così, si muore». Il giornale pone l’accento sulla presunta mancata coerenza della senatrice abruzzese, avvezza a contestare le abitudini di Berlusconi («è più scandaloso di noi» disse riferendosi alle «cene eleganti») o le sue frequentazioni. Da qui la foto con l’ex narcos: 3 condanne, 18 anni di vita (su 45) passati in 11 carceri diverse. Accusato due volte di associazione di stampo mafioso (poi assolto). Tra i primi a importare l’ecstasy in Italia. Come ha scritto Stefano Lorenzetto, nel 2001 a Bonifacio fu sequestrato «il più grande quantitativo di stupefacenti mai scoperto fino ad allora in Italia, una tonnellata di cocaina, arrivata dalla Colombia nel porto di Livorno occultata dentro blocchi di marmo sottoposti a sapiente carotaggio (…). Altri 250 chili li bloccò la Guardia di finanza al casello di Binasco, altri 150 era già riuscito a piazzarli. La Direzione distrettuale antimafia di Milano documentò un traffico complessivo di 4,7 tonnellate, sufficienti a confezionare 14 miliardi di dosi». Scontata la sua pena oggi Bonifacio vive una seconda vita che comprende anche la stesura di una biografia la cui prefazione è stata firmata proprio dalla senatrice del Pd. «E’ un non scoop», commenta la Pezzopane. La foto, rivela la senatrice, risale a quest’estate, in una piscina a L’Aquila. Mi chiedo: ma dov'è la notizia? Forse nel titolo che mi definisce Pasionaria anti-Cav?» Secondo l’esponente del Partito Democratico, dunque, nulla di sconveniente o che meriti di finire su un giornale: «non c'è alcun mistero dietro la fotografia. Quest'estate ho incontrato pubblicamente Gennaro Bonifacio perché ho deciso di scrivere la prefazione al suo libro di memorie, che testimonia il percorso esistenziale di una persona che, dopo aver scontato la pena per i reati commessi, ha deciso di cambiare vita e rappresenta quindi, in questo, un esempio positivo. Anche qui, nessun mistero: io stessa ho dato, attraverso un comunicato, la notizia che avrei scritto la prefazione. Il libro Malabellavita verrà presentato i primi di dicembre a Roma, al Senato. Se la fotografia fosse stata pubblicata integralmente, tra l'altro, si sarebbe vista anche la moglie di Bonifacio, accanto a lui. Prima di scrivere la prefazione, infatti, ho voluto conoscere meglio sia lui che la sua famiglia. Per quanto riguarda il resto dell'articolo di Libero, è vero che il governo Berlusconi dopo i primi clamori mediatici abbandonò L'Aquila e i Comuni del Cratere al loro destino, dal quale ancora dobbiamo riemergere ed è vero che, come componente della Giunta per le immunità, ho esercitato il mio diritto di voto sul caso Berlusconi».

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

Un reportage su come la stampa ha presentato ed enfatizzato un evento mediatico giudiziario.

Blitz contro neofascisti, 14 arresti. Nel mirino politici, magistrati e sedi Equitalia, scrive “La Stampa”. Il gruppo clandestino aveva elaborato un piano per “minare la stabilità sociale” del Paese e voleva anche fondare un “proprio” partito. 14 persone arrestate e 48 indagate. È il bilancio dell’operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros, denominata “Aquila Nera”, che hanno scoperto un gruppo clandestino che, richiamandosi agli ideali del disciolto movimento neofascista “Ordine Nuovo”, progettava «azioni violente contro obiettivi istituzionali». Il piano degli indagati era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti da compiersi su tutto il territorio nazionale al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e dall’altro un’ opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito». Il gruppo si proponeva di uccidere politici “senza scorta”, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e compiere attentati nei confronti di Questure, Prefetture e far saltare le sedi di Equitalia con il personale dentro. Gli arresti sono avvenuti tra L’Aquila, Montesilvano, Chieti, Ascoli Piceno, Milano, Torino, Gorizia, Padova, Udine, La Spezia, Venezia, Napoli, Roma, Varese, Como, Modena, Palermo e Pavia. Nell’ordinanza di custodia cautelare si contestano i reati di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico e associazione finalizzata all’incitamento, alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e tentata rapina.  I provvedimenti scaturiscono da un’attività investigativa, guidata dal procuratore dell’Aquila Fausto Cardella e dal pm, Antonietta Picardi, avviata nel 2013 dai carabinieri del Ros. In particolare, le indagini sono partite attorno al gruppo “Avanguardia ordinovista” guidato da Stefano Manni, 48 anni, originario di Ascoli Piceno ma residente a Montesilvano, fino a dieci anni fa era nell’Arma dei carabinieri. Vanta un legame di parentela con Gianni Nardi, terrorista neofascista che negli anni ’70 insieme a Stefano Delle Chiaie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. “Avanguardia ordinovista” intratteneva contatti con altri gruppi di estrema destra con cui, secondo i militari del Ros, intendeva unirsi nel processo di destabilizzazione e lotta politica quali i “Nazionalisti Friulani”, il “Movimento Uomo Nuovo” e la “Confederatio”.  Tra gli indagati anche Rutilio Sermonti, già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, prolifico scrittore e artista. È considerato una delle figure più note nel panorama degli intellettuali di estrema destra. Scrivono i Ros: «Sermonti fornisce sostegno ideologico alla struttura avendo inoltre redatto un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione esplicitamente ispirato all’epoca fascista. E incita i sodali del gruppo "all’offensiva"». Stando a quanto dichiarato in conferenza stampa dal generale Mario Parente, Comandante Nazionale dei Ros, e dal Procuratore della Repubblica dell’Aquila, Fausto Cardella, il gruppo avrebbe «utilizzato il web ed in particolare il social network Facebook come strumento di propaganda eversiva, incitamento all’odio razziale e proselitismo». A tal riguardo Manni aveva realizzato un doppio livello di comunicazione: in uno con un profilo pubblico lanciava messaggi volti ad alimentare tensioni sociali e a suscitare sentimenti di odio razziale, in particolare nei confronti di persone di colore in un altro, con un profilo privato limitato ad un circuito ristretto di sodali, discuteva invece le progettualità eversive del gruppo. Secondo quanto si è appreso sarebbero coinvolti anche due aquilani. Il gruppo necessitava di armi per poter realizzare i propri scopi. Ne aveva recuperate alcune sotterrate dopo l’ultima guerra mondiale, altre le aveva acquistate in Slovenia tramite contatti locali. Un ulteriore approvvigionamento era stato studiato tramite una rapina ai danni di un collezionista, poi sventata da uno stratagemma dei militari. Tra i progetti sfumati, hanno riferito gli investigatori, anche quello di assassinare il noto ordinovista, Marco Affatigato, ritenuto “infame” poiché asseritamente legato ai servizi segreti. Affatigato, esponente di Ordine Nuovo dal 1973 al 1976, è attualmente latitante in quanto accusato di «associazione sovversiva». Durante le indagini sono state utilizzate anche persone sotto copertura. «Noi crediamo di essere arrivati prima che l’organizzazione entrasse in azione, i progetti c’erano, non potevamo correre il rischio di scoprire dopo quanto fossero concreti», ha detto il procuratore distrettuale antimafia dell’Aquila, Fausto Cardella. «Abbiamo verificato che il comportamento e le condotte degli indagati rientravano nella fattispecie dell’articolo 270 bis, e abbiamo agito di conseguenza - ha continuato -. Per la prima volta abbiamo applicato la norma che prevede la presenza di agenti infiltrati, che hanno avuto un ruolo molto importante, assieme alle intercettazione e agli altri strumenti investigativi utilizzati». Cardella sottolinea che «la procura nazionale antimafia ha gli strumenti, tutte le potenzialità per creare un coordinamento più stretto tra le procure, serve una norma, un legge che gli dia facoltà a farla». Ha poi spiegato anche che «le non precisate azioni eversive erano in cantiere anche in Abruzzo, dove era la base operativa». 

“Uomini degenenerati, Stato tuteli l’igiene”. La folle Costituzione di Sermonti, scrive Andrea Cumbo su “Il Fatto Quotidiano”. Aberrante ogni attività che faciliti le donne a lavorare". Dal divieto di possedere tv private alla contrarietà all produzione di energia se non "quella umana o animale". Ecco l'Italia progettata da Rutilio Sermonti, l'ideologo del “Nuovo fronte politico italiano”. "Lo Stato considera aberrante qualsiasi iniziativa diretta a indurre e a facilitare alla parte femminile della popolazione un crescente accesso alle attività economiche retribuite". Sono quindi promossi corsi di economia domestica destinate a qualificare professionalmente la preziosa attività di casalinga. Così recitano gli articoli 14 e 15 dello “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita”, scritto da Rutilio Sermonti, 94enne ex repubblichino, considerato l’ideologo del gruppo neofascista “Avanguardia ordinovista”, finito il 23 dicembre nelle rete dei Ros, che hanno arrestato 14 membri nell’ambito dell’operazione “Aquila Nera”. Sermonti è ancora lucidissimo e la sua idea di una nuova Carta Costituzionale, composta di 85 articoli (leggi) , benché possa sembrare poco incline ai progressi degli ultimi settant’anni, è molto seria. Il capitalismo e la meccanizzazione sono il nemico numero uno della società, che deve muoversi per limitarne i danni. Così, nell’articolo 18, si legge che lo Stato deve privilegiare l’igiene sulla medicina: “Secoli di sviluppo economico finalizzato al profitto hanno provocato un modello di sviluppo gravemente pregiudizievole per l’integrità psico-fisica”. Tanto che non esistono più uomini e donne “completamete sani”, a differenza che tra le altre specie, per le quali “i rari menomati vengono prontamente eliminati dalla selezione naturale. Lo Stato ha il dovere di contrastare tale tendenza degenerativa”. Per igiene si intende proprio la preservazione di questi danni, causati dalla “ridicola pretesa di dominare la natura e di fare tutto spingendo un bottone“. Del progresso, insomma, il gruppo guidato da Stefano Manni non vuole saperne. La parola chiave è risparmio energetico: al bando ogni attività di “aumento di energia artificiale disponibile diversa da quella umana o di animali domestici, tranne che non sia strettamente indispensabile”. Per questo gli orari lavorativi verranno anticipati per sfruttare la luce solare e sarà prevista “l’educazione del pubblico attraverso vacanze che non siano a centinaia di chilometri”, per limitare il trasporto su gomma. La luce elettrica verrà limitata nelle campagne, al pari della programmazione h24 in televisione. Le trasmissioni saranno disponibili solo per alcune ore, dopodiché l’apparecchio, non importa se a schermo piatto o meno, dovrà essere spento. E proprio la disciplina dell’uso del mezzo televisivo avrebbe risolto il più grande conflitto d’interessi degli ultimi venti anni: l’articolo 70 vieta espressamente ai privati il possesso di una rete televisiva. Al contrario, è permesso l’uso commerciale degli altri mezzi stampa (radio e carta stampata, internet non è contemplato nella Costituzione) purché non svolgano azione persuasiva contraria a quella deliberata dalla Camera delle Funzioni. Quest’ultima è l’organo legislativo dell’ordinamento progettato dai neofascisti, dove tutti, anche i semplici cittadini, possono portare avanti proposte, per le quali, tuttavia, è esclusa la modalità del voto a maggioranza. Stando al restyling delle “leggi fascistissime” del ’25 e del ’26, chi promulga le leggi è il presidente della Camera delle funzioni, una sorta di neo-Duce scelto dalla stessa, che decade solo per morte o invalidità. “Le c.d. tornate elettorali – si legge infatti nelle disposizioni transitorie – non esistono più e le designazioni del popolo avvengono in modo continuo, meditato a ragion veduta e silenzioso”. Cosa si intenda per “silenzioso”, Sermonti non l’ha ancora spiegato. Nel testo viene riversata anche l’ideologia dei neofascisti sui diritti civili. “Viene tutelata la famiglia che nasce dalla comune volontà di due persone di sesso diverso che stipulano tra loro un patto indissolubile e di reciproca dedizione. Si denomina matrimonio”, recita l’articolo 28, da cui si evince una scarsa inclinazione ai cambi di nomenclatura. “Al padre è affidata la rappresentanza della famiglia nei rapporti con terzi ritenendosi il maschio più idoneo a tali funzioni”, si legge negli articoli seguenti, mentre il “divorzio è previsto solo in presenza di requisiti oggettivi, tra cui non figura la volontà dei coniugi in caso di presenza di figli minorenni”. Nell’Italia di Avanguardia ordinovista ritornerebbe anche la legalizzazione della prostituzione. Obbligatorio, si intende, il controllo sanitario.

Inchiesta “L’Aquila nera”. Ecco chi sono gli aspiranti terroristi di “Avanguardia Ordinovista”. «Progettavano attentati anche contro magistrati ed Equitalia», scrive Alessandro Biancardi su “Prima da Noi”. Due anni di indagini, indagini effettuate anche monitorando le pagine personali dei social network degli indagati e ascoltando le loro telefonate. Secondo la procura aquilana oltre i proclami e le frasi offensive, i propositi violenti c’era e il gruppo capeggiato da Stefano Manni, ex carabiniere marchigiano residente a Montesilvano, era pronto a colpire davvero. Il gruppo si identificava con la sigla “Avanguardia Ordinovista” e quale “Centro Studi Progetto Olimpo”, scuola politica di area neofascista. Secondo la procura de L’Aquila, pm Antonietta Picardi, si tratta della moderna riedizione del Movimento Politico Ordine Nuovo, che nasceva proprio quale omonimo “Centro Studi”. Il piano degli indagati nell'ambito dell'operazione del Ros che ha portato agli arresti disposti del gip dell'Aquila era «basato su un doppio binario»: «da un lato atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall'altro un' opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro "nuovo" partito».

I PROTAGONISTI.

STEFANO MANNI: IL PARENTE DI GIANNI NARDI. Secondo i carabinieri del Ros Manni, 48 anni, residente a Montesilvano, è il capo indiscusso dell’organizzazione. Nato ad Ascoli Piceno, ma residente a Montesilvano, è un ex sottufficiale dei carabinieri, congedato per infermità dopo oltre un decennio di servizio attivo. Il fatto di essere un ex militare è utilizzato dal Manni per accreditarsi quale conoscitore di dinamiche investigative, di addestramenti militari. Manni si vantava anche di una parentela con il terrorista Gianni Nardi. I due potrebbero avere una parentela alla lontana considerando che le rispettive famiglie sono originarie di Venarotta, piccolo comune dell’ascolano. Peraltro, i Carabinieri hanno rilevato come l’uomo, dopo essere stato congedato dall’Arma dei Carabinieri, sia stato assunto dalla “S.E.I. Servizi Elicotteristici Italiani” S.P.A., realtà industriale riconducibile alla famiglia Nardi. La storia di Gianni Nardi è quella di un terrorista neofascista che negli anni '70, insieme a Stefano Delle Chieie, Giancarlo Esposti e Salvatore Vivirito, rappresentava uno dei maggiori esponenti di Ordine Nuovo. Indiziato per l’omicidio del Commissario di Polizia Luigi Calabresi (che stava indagando su di lui in ordine ad un traffico d’armi tra Svizzera e Italia), morì in un incidente d’auto che, all’epoca, destò particolari sospetti circa l’accidentalità dell’evento. Molti anni dopo la morte, fu accertato che il suo nome era ricompreso nell’elenco degli appartenenti alla formazione paramilitare clandestina Gladio. Su Facebook Manni era molto attivo, con un profilo palese ed altri fake utilizzati per amplificare i messaggi divulgati dal primo ad un circolo ristretto di collaboratori. Due le cerchie di seguaci: una conosciuta di persona, un’altra no. Il linguaggio utilizzato con gli uni o gli altri appare differente: nella dimensione pubblica su Facebook Manni è esplicito nell’esporre quelle che ritiene essere le problematiche della società contemporanea, ma vago e generico nelle intenzioni e proposte di “soluzione”. Nel ristretto del privato cerchio degli affiliati, esplicitandava invece la via violenta da intraprendere per stabilire «il nuovo ordine sociale». Il doppio livello, ha ricostruito la Procura, vi è anche nelle operazioni di verifica dei soggetti con ‘gli amici’ con i quali entrare in contatto: una identificazione dei semplici simpatizzanti, eseguita per lo più con il coinvolgimento dei più stretti collaboratori, e un attento esame degli “operativi” che viene svolto con metodo militare (in almeno un caso, un utente sospettato di essere agente sotto copertura è stato oggetto di attente indagini interne ed in seguito se ne è programmata l’eliminazione).

MARINA PELLATI: LA CONVIVENTE. Marina Pellati, 49 anni, anche lei residente a Montesilvano, è la convivente di Manni. Secondo gli investigatori avrebbe effettuato proselitismo utilizzando principalmente Facebook, dove è registrata con numerosi profili anche utilizzando identità fittizie, compresa quella di un fantomatico “generale dei Carabinieri di 71 anni” che garantirebbe sostegno ideologico al suo gruppo tramite una pagina Facebook denominata “Nuovo Centrostudi Ordine Nuovo”.

RUTILIO SERMONTI: L’AUTORE DELLA “COSTITUZIONE”. Rutilio Sermonti, 93 anni, di Ascoli Piceno viene definito come l’ideologo del gruppo. Già appartenente al disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, scrittore e artista è considerato una delle figure più importanti nel panorama degli intellettuali di destra. A conoscenza, tramite Manni, dell’esistenza dell’associazione e della progettualità della stessa fornisce sostegno ideologico «riconoscendo la legittimità secondo il proprio pensiero dei fini perseguiti, incitandone l’operatività». É autore di un documento denominato “Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista. Il documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento. Sermonti si avvale della collaborazione di Mario Mercuri, 80 anni di Petritoli, Ascoli Piceno, anche lui indagato, che organizza incontri con Manni e altri operativi ed è, a sua volta, promotore di una fondazione.

LUCA INFANTINO. Luca Infantino, 33 anni di Legnano (Milano), secondo gli inquirenti sarebbe il co-promotore dell’organizzazione e starebbe allo stesso livello di Manni. «Condivide ogni aspetto strategico dalle condotte volte al proselitismo», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «le verifiche di nuovi associati, la programmazione di azioni violente, la realizzazione di un disegno politico formale parallelo». Manni ipotizza la creazione di una dimensione politica ufficiale e legittimata da far crescere parallelamente al progetto eversivo, Infantino compie i primi passi per la costituzione di tale contesto ufficiale, fondando il “Centro Studi Progetto Olimpo” e la “Scuola Politica Triskele”. Realtà da ritenersi regolari –sostengono gli stessi investigatori- che servivano per fare proseliti.

MARIA GRAZIA CALLEGARI. Lei, originaria di Varese, è strettissima collaboratrice di Manni. Componente della ristretta cerchia di soggetti che, nell’ambito dell’associazione, ha diritto di espressione in ordine ad ogni tematica, compresa la valutazione delle azioni da compiere e delle modalità esecutive. Manni le ha affidato il compito di verifica dei profili Facebook di simpatizzanti, nonché della verifica di secondo livello incontrando personalmente potenziali nuovi “operativi” da arruolare. «Ha espresso più volte disponibilità all’azione in prima persona», chiariscono i Ros.

KATIA DE RITIS: LA CONSIGLIERA COMUNALE. Katia De Ritis, 55 anni di Lanciano, viene identificata dai carabinieri come un importantissimo punto di riferimento di Manni. Come Infantino, si dedica alla vita politica pubblica ma contemporaneamente «lavora sottotraccia». In tal senso, è presente nei quadri del partito politico “Fascismo e Libertà – Socialismo Nazionale” di cui è vice segretario nazionale; in tale veste, è stata eletta consigliere comunale d’opposizione nelle ultime consultazioni amministrative nel comune di Poggiofiorito (Chieti). Alla dimensione politica pubblica affianca una parallela attività clandestina eversiva, sostengono gli inquirenti, e rappresenta per Manni «un punto di riferimento sia per la promozione di incontri programmatici tra affiliati, che per l’individuazione di strategie e obiettivi». Secondo la procura vanta contatti con militanti dell’organizzazione semiclandestina di estrema destra “Militia” operante a Roma. Nell’ultimo periodo d’indagine secondo la procura si è spesa per «individuare obiettivi fisici da colpire e canali per il reperimenti di armi da fuoco e per i contatti con altri gruppi operativi».

PANDOLFINA DEL VASTO: L’AMICO CON L’ARSENALE. Emanuele Lo Grande Pandolfina del Vasto, 63 anni, originario di Palermo ma residente a Pescara avrebbe invece espresso disponibilità a compiere azioni anche da solo, vista la lentezza alla messa in atto di azioni violente da parte del Manni, considerata persona «troppo riflessiva». Secondo gli inquirenti avrebbe dato dimostrazione della sua determinatezza mettendo in atto le fasi prodromiche alla rapina ai danni un cacciatore, suo amico.

FRANCO LA VALLE E FRANCO MONTANARO. Franco Montanaro, 46 anni di Roccamorice, appartenente a Condeferatio, un’organizzazione autonoma e radicata in tutta Italia, ha ritenuto, dicono gli inquirenti, di dover agganciare Manni e il suo nuovo gruppo per la commissione di azioni violente. La Valle, Montanaro e Manni si conoscono almeno dal novembre 2001, data in cui hanno partecipato a un Forum a Fara Filorum Petri in provincia di Chieti.

LUIGI DI MENNO DI BUCCHIANICO. Luigi Di Menno Di Bucchianico, 47 anni di Lanciano, è in possesso di porto d’armi per uso sportivo. «Nei suoi ideali vede un intervento violento contro personalità dello Stato (sia esse nazionali che locali)», scrivono gli inquirenti, «finalizzato alla dimostrazione di una strategia della tensione e alla dimostrazione della loro esistenza». Secondo la ricostruzione degli inquirenti ha messo a disposizione del gruppo le sue idee e i suoi obiettivi in una riunione tenuta nell’ottobre 2014 presso l’abitazione della De Ritis e avrebbe mostrato insofferenza per la lentezza della messa in azioni da parte di Manni.

FRANCO GRESPI. Franco Grespi , 52 anni di Milano, secondo quanto analizzato dai carabinieri del Ros, si sarebbe invece occupato del reperimento di fondi per l’acquisto di armi, fornendo disponibilità per azioni violente (rapine, omicidi, acquisto di armi tramite canali illegali stranieri). In particolare, il Grespi «si é occupato del reperimento di esplosivi e armi da fuoco, per le quali ha intessuto contatti con fornitori stranieri; ha dato la disponibilità per essere l’esecutore materiale dell’attentato a Marco Affatigato e per rapine presso supermercati e abitazioni private».

ORNELLA GAROLI. Ornella Garoli, 53 anni anche lei di Milano e compagna di Grespi avrebbe invece dato la sua disponibilità alla commissione di azioni violente; «oltre a commentare sulla chat la sua posizione ideologica, ha operato sopralluoghi presso supermercati abruzzesi finalizzati alle rapine e si è prestata a essere una delle persone che dovevano compiere la rapina presso l’abitazione di un cacciatore che deteneva l’arsenale».

NICOLA TRISCIUOGLIO. Trisciuoglio, 53 anni di Napoli, pur non avendo un ruolo verticistico in seno all’associazione, viene considerato dagli investigatori comunque interno al gruppo, «sostenitore sul piano della condivisione ideologica». Ex avvocato napoletano, radiato dall’ordine degli avvocati partenopeo nel 2005, ha svariati precedenti per truffa, estorsione ed altro, nonché pregiudizi per reati di istigazione all’odio razziale ed apologia al fascismo. Ha fondato il “Movimento Uomo Nuovo” e il movimento politico “Identità Nazionale”. Concorda con il Manni l’attuazione di un disegno eversivo stragista.

VALERIO RONCHI. Valerio Ronchi, 48 anni di Mariano Comense si è reso disponibile all’azione violenta. Anch’egli su sia su Facebookche in conversazioni telefoniche ha affermato che l’unica soluzione per le problematiche italiane è l’attuazione di azioni violente atte a destabilizzare lo Stato. Ha partecipato unitamente alla convivente, Giuseppa Caltagirone, al primo incontro della Scuola Politica Triskele organizzato da Luca Infantino con il beneplacito di Stefano Manni, tenutosi a Milano l’8 febbraio 2014. Dall’intercettazione ambientale effettuata dal R.O.S dei Carabinieri, Valerio Ronchi ha ribadito, anche in quell’occasione, la necessità dell’attuazione di azioni violente indirizzate «non solo contro le strutture».

Arrestati i neofascisti del terzo millennio. "Riprenderemo la strada dell'Italicus". Gli arrestati fanno parte di un gruppo di estrema destra che si rifà al movimento Ordine Nuovo. Dai verbali emerge il loro piano eversivo: la loro rivoluzione nera, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Operazione antiterrorismo dei carabinieri del Ros coordinato dalla procura dell'Aquila: 14 gli arresti in varie regioni italiane nei confronti di un gruppo che si richiama agli ideali del disciolto movimento neofascista «Ordine Nuovo» e che progettava azioni violente contro obiettivi istituzionali. Tra gli arrestati Rutilio Sermonti. L'ideologo, reduce Repubblichino, ex Ordinovista, tra i fondatori del Movimento sociale e candidato con Forza nuova alle provinciali di Latina nel 2009. È lui l'intellettuale che aveva il compito di scrivere una Costituzione fascista. «É autore infatti di un documento denominato “ Statuto della Repubblica dell’Italia Unita” che, fatto circolare clandestinamente dagli associati ed intercettato dai Carabinieri, rappresenta una nuova Costituzione della Repubblica, composta da 85 articoli e 10 disposizioni transitorie, nella quale viene tracciato il nuovo ordine costituzionale della nazione ispirato all’epoca fascista» si legge nell'ordinanza di custodia cautelare. «Tale documento costituisce per l’associazione, unitamente ad altri saggi e scritti ideologicamente riconosciuti, il manuale al quale fare riferimento». Sermonti in contatto con gli arrestati è considerato “il Vate”, il “Mentore”. A casa del repubblichino sono stati organizzati vari summit dell'organizzazione. Uno degli incontri è avvenuto anche a Milano, nello studio dell'archeologo, studioso del nazifascimo, Giancarlo Cavalli. In tutto sono 55 gli indagati, e tutti accusati di essere promotori di un’associazione denominata “Avanguardia Ordinovista”, « tramite la creazione di un CENTRO STUDI “PROGETTO OLIMPO” che richiama gli ideali del disciolto movimento politico “Ordine Nuovo”, alla quale partecipano con il proposito del compimento di atti di violenza (tramite attentati a Equitalia, magistrati e forze dell’ordine) al solo fine di destabilizzare l’ordine pubblico e la tranquillità dello Stato e poi introdursi tramite un’apparente attività lecita di partecipazione alle elezioni con il partito da loro creato, all’interno dell’ordine democratico quale unica soluzione alla destabilizzazione sociale», si legge nel mandato di cattura. «Un piano eversivo “studiato a tavolino”» proseguono gli inquirenti, basato su un doppio binario: «da un lato la previsione di atti destabilizzanti da compiersi su tutto il territorio nazionale e dall’altro un’opera di capillare intromissione nei posti di potere, tramite regolari elezioni popolari con la presentazione di un loro “nuovo” partito, da loro costituito, che dovrebbe rappresentare per lo Stato l’unica soluzione a